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Rock Progressivo Inglese

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Rock Progressivo Inglese
ROCK PROGRESSIVO INGLESE
La storia, i gruppi, le tendenze:
quando il rock diventò europeo
(1965-1974)
CASTELVECCHI
Contatti
119
I edizione: gennaio 1998
© CASTELVECCHI
Editoria & Comunicazione srl
Via Visso 12/14, 00156 Roma
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico e impaginazione
CASTELVECCHI
Editoria & Comunicazione srl
ISBN: 88-8210-051-0
2
Polvere nidi di rondine
e arbusti strappati
sta soffiando un gelido vento dal nord
questa notte
copre le grida disperate
di bocche impastate
di terra
scalfisce le guance
entra dal collo e dagli occhi
e non esce più
per Nick Drake (19.6.1948 / 25.11.1974)
3
AT LAST I’M FREE
Ad un certo punto pensavo di non riuscire più a finirlo.
Quello che all’inizio sembrava un gioco divertente, un passatempo inebriante, giorno
dopo giorno diventava sempre più un’ossessione, un lavoro, un obbligo (verso me
stesso). Tanto da non riuscire a capire il perché, in quel preciso momento, di dover
ascoltare due o tre volte di fila In the court of the Crimson King o Third dei Soft
Machine quando il pensiero e la voglia correvano frenetici sui Doors o, che so, su La
mela di Odessa degli Area. E mia figlia a supplicare di ascoltare la Tina, Edoardo e
Foxy lady con sul piatto Sysyphus da Ummagumma.
L’ho ampliato a dismisura per poi restringerlo drasticamente, con qualche dolorosa
rinuncia. Alla fine l'ho fatto, ma una cosa mi è parsa chiara : è impossibile scrivere di
musica, o meglio, è tremendamente difficile spiegare con il ruvido materialismo dei
vocaboli le mille sensazioni, le emozioni a 360 gradi che la musica è capace di
generare.
Mi tornano in mente le considerazioni di Glen Sweeney incluse nelle note di copertina
di Alchemy, il primo album della Third Ear Band, che ammoniscono sull’inadeguatezza
delle parole nel descrivere gli elementi portanti della musica del gruppo.
Comunque, scrivere di musica è necessario, comunicare agli altri la propria esperienza
d'ascoltatore (a ttivo ?), e se solo fossi riuscito a riversare nelle mie considerazioni il
10 % di ciò che provo quando ascolto, allora potrei considerare riuscito il lavoro
svolto. E il bello è che nessuno lo può dimostrare, perché la musica non solo “vibra
nelle ossa ed entra nella pelle” ma s'insinua, spesso in modo subdolo, nei reconditi e
impenetrabili ingranaggi che regolano il funzionamento del sentimento e
dell’emozione.
Non è certo un capolavoro questo libro, ma mi piacerebbe fosse considerato un
lavoro onesto, come l’opera della media dei musicisti che vi sono citati e dal momento
che sono testardo credo che ci riproverò, ancora tenterò di dar forma a qualche
progetto che mi passa in zucca perché la musica è vita e la vita, tutto sommato, è
bella.
Un grazie di cuore, per la sopportazione, a Maura e Alice.
4
Nota introduttiva
E’ utile trovarsi d’acco rdo sul significato del termine ‘musica progressiva’, e può
anche non verificarsi conformità di opinioni ma una definizione a rigor di termine
musicale appare necessaria.
Di norma si tende a considerare progressivi complessi o singoli musicisti (e le loro
proposte sonore) appartenenti al fenomeno del rock romantico e sinfonico, quello che
prende le mosse dal neoclassicismo dei Beatles per giungere (attraverso una precisa
fase evolutiva) a formazioni quali Genesis, Yes, E L & P e simili.
“L’arte non è uno specchio - è un martello”, è il principio generale sentenziato da John
Grierson sulla copertina di In praise of learning degli Henry Cow. Facendo interagire
queste parole con il concetto di musica progressiva, potremmo considerare lo specchio
come edonistica e immobile riflessione di un’immagine sonora prestabilita mentre il
martello, in quanto umile strumento di lavoro, risulterebbe utile per l’esecuzione di
piccole modifiche strutturali, necessario al divenire faticoso delle note sul
pentagramma.
Se il significato del termine progressivo sta per qualcosa che tende a progredire, che
procede lentamente e continuamente in senso evolutivo, allora qualcuno deve
spiegare perché (a puro e semplice esempio) vanno considerati progressivi i Genesis e
non gruppi quali Who o Led Zeppelin, sicuramente più importanti e decisivi sotto
questo aspetto.
Si tratta, chiaramente, di uno dei tanti luoghi comuni del rock, dell’esigenza di
etichettare, catalogare, di rendere commerciabile un prodotto musicale.
Credo che gli artisti utili allo sviluppo della musica inglese, che hanno lavorato ‘in
progressione’, rappresentino una ben più vasta platea d’interesse. Non tutti (anzi,
quasi nessuno) hanno sviluppato interamente la carriera alla continua ricerca di un
accrescimento cre ativo della forma musicale (e l’esempio eclatante viene proprio
dall’ambito romantico -sinfonico) ; l’attitudine progressiva di molti va rintracciata in
una parte dell’attività, a volte in un singolo episodio.
E’ quindi obbligatorio calarsi nella complessità della musica rock inglese (o meglio
britannica, perché di questa si disquisisce) e non tragga in inganno la grande quantità
di nomi citati : questa non vuole essere, e non è, una storia del rock inglese, ma solo
il resoconto del suo aspetto progressivo.
Come già accennato, qui si parla di musica britannica e non mancano le inevitabili
eccezioni.
Lo sappiamo tutti, ad esempio, che Jimi Hendrix è nato a Seattle e ha girato gli Stati
Uniti in lungo e in largo per anni prima di essere casualmente scoperto da Chas
Chandler. Non si può però dissentire sul fatto che l’Experience vada considerata una
formazione inglese, non tanto per la presenza di Redding e Mitchell, quanto per la
precisa collocazione storico - musicale e geografica che interessa il complesso nella
parte iniziale della carriera.
Chi può ragionevolmente affermare che Hendrix sarebbe divenuto lo stesso musicista
di successo mondiale, punto di riferimento essenziale per lo sviluppo della chitarra
rock, che avrebbe suonato la stessa musica e pubblicato un disco come Are you
experienced ? se non avesse seguito il consiglio di Chandler di recarsi in quella Londra
piena di fermento, nel settembre del 1966 ?
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Si tratta di un preciso periodo storico : 1965 / 1974.
Ovviamente tale lasso di tempo n on deve essere assunto come una sorta di esercizio
provvisorio del rock, che inizia al primo di gennaio del ’65 e termina il 31 dicembre
1974. Più semplicemente si intende il 1965 come l’anno nel quale si vengono a
concretizzare in modo compiuto le prime f orme complesse di musica rock e il 1974
rappresenta una possibile, ideale chiusura di un decennio musicale irripetibile, la fine
di un movimento che arranca in preda ad una irreversibile decadenza creativa, del
quale l’avvento del punk rock farà sommaria giustizia.
All’ordine alfabetico dei nomi ho preferito una trattazione per capitoli e (se
possibile) per categorie omogenee. Molti degli album citati sono oggi delle vere e
proprie rarità reperibili, nell’originale versione in vinile, esclusivamente nei vari
mercatini dell’usato e dei dischi da collezione, a prezzi spesso proibitivi.
E’ in ogni caso possibile, con un po’ di ricerca (e di fortuna, elemento sempre
necessario per fruire di musica in Italia), riuscire ad ascoltare il prezioso contenuto di
questi lavori rivolgendosi al settore delle ristampe.
Tra le principali etichette specializzate in riedizioni di vecchio e, a volte, dimenticato
materiale si possono segnalare Edsel, B.G.O., See for Miles, Repertoire che da qualche
anno a questa parte pubblicano quasi esclusivamente nel formato CD.
Certo, gli originali odorano (o puzzano) di storia ma ciò che veramente importa, alla
fine, è l’approccio alla bellezza, alla poesia, alla vitalità, alle emozioni che questa
musica è ancora capace di comunicare.
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Elenco delle abbreviazioni
Ant.
Ar.
Bs.
Bt.
Cb.
Ch.
Fl.
Me.
Ob.
Or.
Pn.
Pr.
Sax.
Se.
Sf.
Si.
Sn.
Ts.
V.
Vb.
Vc.
Vi.
Vl.
: Antologia
: Armonica
: Basso
: Batteria
: Contrabbasso
: Chitarra
: Flauto
: Mellotron
: Oboe
: Organo
: Piano
: Percussioni
: Sassofono
: Strumenti elettronici
: Strumenti a fiato
: Sitar
: Sintetizzatore
: Tastiere
: Voce
: Vibrafono
: Violoncello
: Violino
: Viola
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A NEW DAY RISING
dal beat alla musica progressiva
Nella storia della musica, in realtà, una nuova alba non è mai esistita. Il concetto
di invenzione, di creazione dal nulla in questa materia appare fuori luogo ; dopo tanti
eventi a sensazione dobbiamo allenarci a ragionare nell’ottica del divenire, ad
esaminare i piccoli e grandi cambiamenti progressivi che traggono il loro valore
aggiunto dal preesistente con l’ausilio di figure di rilievo e di oscuri praticanti, di
luminari e di imbonitori, tra grandi gioie e sconfinate delusioni. E non può essere
altrimenti se è esatto, come sosteneva Jacques Attali, che “il mondo non si guarda, si
ode - non si legge, si ascolta”, se è vero che la musica non è la colonna sonora della
nostra vita ma è il fluire dell’esistenza stessa.
A maggior ragione l’opinione pare valida per la musica rock, tipica espressione di
sintesi sonora, di fusione tra stili diversi riannodati su nuove metriche : a volte si
tratta di prospettive inedite, in altri casi di sfumature.
Verso la metà degli anni cinquanta i maggiori musicisti americani di rock’n’roll
(Elvis Presley, Bill Haley, Buddy Holly, Jerry Lee Lewis, Little Richard, Chuck Berry ...)
iniziano ad ottenere grande successo nelle classifiche di vendita inglesi e di riflesso
nascono i primi cantanti indigeni del genere. I vari Cliff Richard, che si fa
accompagnare da un gruppo chiamato Shadows, Lonnie Donegan e simili non fanno
comunque molto per tentare di mascherare quella che si configura come una fase di
chiara importazione culturale per la musica inglese. Il loro successo commerciale
risulta oltremodo importante per convincere una moltitudine di aspiranti giovani
musicisti a prendere in mano gli strumenti e confrontarsi con i suoni che provengono
da oltre oceano.
Lo sviluppo dal rock’n’roll alle prime forme compiute di linguaggio rock avviene
nella parte iniziale degli anni sessanta seguendo due principali direttrici : il beat
melodico e il blues revival.
-1Il beat è una forma musicale direttamente derivata dal rock’n’roll degli anni ’50,
con una forte componente ritmico - melodica e un approccio piuttosto commerciale,
anche come genere da ballo. Nei primi tempi, il fulcro della musica beat si localizza
nella zona del Lancashire, in particolare nelle città di Liverpool e di Manchester, dove
assume la denominazione di Mersey Sound.
Da Manchester provengono gli Hollies di Graham Nash, dalla rigogliosa scena di
Liverpool gruppi quali Searchers, Gerry and the Peacemakers, Merseybeats, Big
Three. In questo contesto l’unica formazione che nel tempo riesce a sviluppare in
modo significativo, e con clamore irripetibile, le coordinate sonore di base della
propria musica è quella dei Beatles.
Nati come Quarrymen nel 1956, John Lennon (v.ch.), Paul McCartney (v.bs.) e
George Harrison (ch.v.) si trasformano in Beatles nel 1962 e con l’ingresso del
batterista Ringo Starr arrivano all’esordio discografico il 5 di ottobre, con il 45 giri di
Love me do (nel quale Starr è sostituito da un sessionman). Il disco ottiene un buon
successo entrando nei top 20 e i singoli del 1963 impongono i Beatles ai vertici delle
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classifiche inglesi. In questa fase, la loro musica si basa su un serrato incrocio ritmico
di rock’n’roll e twist, con arrangiamenti semplici ed esaltanti armonie vocali tesi a
generare un impatto estremamente coinvolgente. Fondamentale è l’affermazione
come compositori della coppia Lennon / McCartney, che sin dalle prime uscite impone
pezzi di propria produzione in un periodo nel quale è prassi diffusa affidarsi alla
rielaborazione di brani importati dagli Stati Uniti.
Canzoni come She loves you e I want to hold your hand marchiano indelebilmente lo
stile dei Beatles, che all’inizio del 1964 conquistano anche il mercato americano
piazzando la bellezza di cinque singoli e due album ai primi posti delle relative
classifiche. Questo straordinario risultato commerciale rappresenta il primo passo
verso una decisa inversione di tendenza nel rapporto tra musica rock inglese e
americana : ora l’Inghilterra, sullo stimolo del fenomeno Beatles, esporta la propria
musica negli States (e nel resto del mondo) e di conseguenza i musicisti americani
devono iniziare a tenere conto di ciò che accade in terra inglese.
Nonostante tutto non si può certo affermare che i Beatles, fino a questo momento,
abbiano inventato chissà quali sconvolgenti novità in ambito musicale ; il loro
sconfinato successo è in gran parte determinato dall’abilità nel sapersi proporre ed
atteggiare in modo nuovo e anticonformista nei confronti dell’industria discografica e
del music business.
Nell’ottobre 1964 i Beatles registrano I feel fine, il singolo natalizio di quell’anno, che
presenta alcune novità rispetto alla precedente produzione. Si tratta ancora di
particolari, in ogni caso nell’introduzione del brano viene volutamente inserito un
feedback di chitarra (prendendo spunto dagli Yardbirds che per primi sperimentano
questa possibilità) e la canzone possiede un incedere caracollante che ricorda certe
cose dei “rivali” Rolling Stones, con un lavoro di chitarra un po’ più complesso del
solito.
Anche sul fronte degli album si assiste ad un'evoluzione che offre i primi frutti
importanti con il sesto disco a 33 giri Rubber soul (Parlophone), pubblicato alla fine
del 1965. Nella ballata di Norwegian wood George Harrison introduce il sitar per la
prima volta in un pezzo pop, relegandolo però ad un ruolo di caratterizzazione
timbrica (meglio sapranno fare gli Stones con Paint it, black l’anno successivo). The
word appare come uno dei brani più originali prodotti dai B eatles fino a questo
momento, con superbe armonie vocali che presentano vaghi accenti jazz e gospel,
mentre In my life è una raffinata ballata che sorprende per un inatteso intermezzo
neoclassico del produttore George Martin al piano.
Con il nuovo anno inizia per i Beatles una seconda fase della propria carriera ; il
gruppo avverte l’esigenza di proporsi in modo più ambizioso rispetto ai contenuti
musicali e preferisce dedicarsi esclusivamente alla composizione e alla ricerca sulle
tecniche di registrazione, abbandonando definitivamente l’incessante attività
concertistica nell’agosto ’66.
Nonostante lo sforzo profuso e la pubblicazione tra il ’66 e il ’67 dei loro lavori
maggiormente significativi Lennon, McCartney e compagni perdono gradualmente
l’unità d’intenti e paradossalmente si vedono sfuggire di mano la leadership della
scena rock, oramai in grado di evolvere autonomamente verso obiettivi di notevole
creatività. Nel giugno 1966 viene commercializzato il 45 giri Paperback writer, e ancor
più dell’ottimo rock scorrevole ed immediato del lato A colpisce il retro Rain che
anticipa le atmosfere del successivo album Revolver, facendo largo uso di nastri
manipolati.
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BEATLES - REVOLVER (Parlophone - 1966)
Revolver, pubblicato nell’agosto ’66, è il disco più innovativo dell’intera produzione dei Beatles ; l’album
rappresenta una decisa svolta verso un approccio creativo radicale e l’acquisita confidenza con le tecniche di
registrazione permette, in particolare a Lennon, di sperimentare sonorità originali ed in parte inedite.
L’apertura è riservata ad una sequenza di tre brani disposti in netto contrasto stilistico, quasi a voler
affermare in modo provocatorio le capacità dei musicisti nell’affrontare generi musicali all’apparenza
antitetici tra loro. Così Taxman è un rock spigoloso che evidenzia dure linee di chitarra, Eleanor rigby
propone un’atmosfera di musica da camera (per ottetto d’archi e voce solista di McCartney), Love you to
possiede un intenso sapore orientale con Harrison che al sitar mostra progressi rispetto all’esperienza di
Norwegian wood.
Molto coinvolgente è il rock melodico di She said - she said, sostenuto da un mix di chitarre multicolori;
interessanti anche l’atipica ballata di For no one e I want to tell you, condotta dalla nitida e suadente sei
corde di Harrison in contrasto con un obliquo trattamento pianistico.
Il resto del disco si conferma su buoni livelli, e persino una canzoncina come Yellow submarine viene
contornata di rumori ed effetti di ogni tipo.
Il capolavoro dell’album è la conclusiva Tomorrow never knows, primo convinto tributo di Lennon e
McCartney alla montante cultura psichedelica. Dopo una breve introduzione di sitar il brano decolla
improvvisamente pervaso da strane sensazioni, con suoni che schizzano in ogni direzione sospinti da
un’oscura forza centrifuga, aggrappati al ritmo martellante ed ipnotico della batteria, all’indifferenza della
litania intonata da John Lennon, il tutto a creare uno stordente effetto di stratificazione sonora.
Tomorrow never knows rappresenta uno dei vertici della creatività dei Beatles e prepara il terreno per la
realizzazione, nei mesi successivi, della notevole Strawberry fields forever e del celebrato Sgt. Pepper.
-2Se il genere del beat melodico trova i principali punti di riferimento
geografici nell’ambito della provincia inglese, il fenomeno del blues revival si sviluppa
essenzialmente a Londra. Tra i personaggi più influenti, vero promotore della
diffusione del blues e del rhythm & blues in Inghilterra, va annoverato Alexis Korner
che già nel 1961 crea la sua prima formazione, Blues Incorporated, una sorta di
nucleo aperto alla generazione di giovani musicisti inglesi, vogliosi di confrontarsi con
il suono proveniente dall’America. In questa formazione muovono i primi passi
personaggi del calibro di Mick Jagger, Brian Jones, Keith Richard, Charlie Watts (i
Rolling Stones !), ma anche importanti esponenti del jazz inglese quali John Surman,
Dave Holland e Mike Westbrook.
All’inizio degli anni sessanta Mick Jagger (v.) e Keith Richard (ch.v.) muovono i
primi passi nell’ambiente musicale suonando in un gruppetto studentesco chiamato
Little Boy Blue & the Blue Boys nel quale è presente anche Dick Taylor, futuro
fondatore dei Pretty Things. I Blue Boys entrano nel giro dell’Ealing Club di Alexis
Korner dove conoscono il chitarrista Brian Jones e il pianista Ian Stewart ; dal luglio
1962 il gruppo inizia ad esibirsi con regolarità e nel gennaio successivo cambia nome
in Rolling Stones, dopo l’ingresso in organico di Charlie Watts (dai Blues
Incorporated) e di Bill Wyman (dai Cliftons).
Il primo ad accorgersi del potenziale della nuova formazione è Giorgio Gomelsky, ma
dopo pochi mesi gli subentra come manager Andrew Loog-Oldham che decide di
orientare la carriera dei Rolling Stones ad un antagonismo musicale e d’immagine nei
confronti dei Beatles. A farne le spese è Ian Stewart, ritenuto non consono all’aspetto
trasandato ed aggressivo del complesso, che viene estromesso dalla formazione pur
rimanendo in qualità di collaboratore esterno.
Nonostante l’assenza nei primi tempi di materiale originale, a differenza dei Beatles
che da subito interpretano prevalentemente canzoni proprie, il successo è notevole e i
Rolling Stones s’impongono rapidamente come il gruppo inglese di maggior fortuna tra
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quelli dediti ad una musica che trae le radici dal rock’n’roll e dal blues più robusto ed
immediato.
A far data dalla bella The last time e soprattutto dalla potente Get off of my cloud, la
coppia Jagger / Richard inizia a comporre canzoni originali e sempre più personali. Nel
1965, con (I can’t get no) Satisfaction gli Stones s’impongono anche sul mercato
americano : Satisfaction è sostanzialmente un R & B ritmato e ossessivo,
caratterizzato da un memorabile riff ipnotico di chitarra, che tormenta per tutta la
durata del brano, e da un Mick Jagger più ruffiano e arrogante che mai.
Nell’aprile 1966 Paint it, black fa ancora meglio : pur non essendo in grado di tentare
un approccio tradizionale allo strumento, Brian Jones riesce a disegnare con il sitar
un’originale cadenza di danza orientale, sostenuta da una ritmica serrata e
contrapposta ripetutamente al rock’n’roll del ritornello. La voce di Jagger appare
tenebrosa e contribuisce ad accrescere il senso di mistero che aleggia sul brano.
La pubblicazione di Paint it, black è contemporanea a quella del quarto LP Aftermath,
ma la canzone non viene compresa nell’edizione inglese dell’album, bensì in quella
americana del giugno dello stesso anno.
ROLLING STONES - AFTERMATH (Decca - 1966)
Quando nella primavera del 1966 viene edito Aftermath i Rolling Stones sono ai vertici della popolarità e il
disco rappresenta un importante punto di arrivo. Il materiale è interamente composto da Jagger e Richard e la
musica fissa in modo irreversibile le coordinate del suono del complesso.
Il momento di maggior emozione del disco è la sequenza Lady Jane - Under my thumb. La dolce Lady Jane
si mostra con una delicata melodia, impreziosita dalle rifiniture barocche operate da Brian Jones che
inserisce dulcimer e clavicembalo. Under my thumb appare come la logica evoluzione di Satisfaction
proponendo un moderno rhythm & blues, più moderato sotto l’aspetto ritmico, con un azzeccato contrasto tra
la spigolosa chitarra di Richard e le marimbas di Jones che formano un sinuoso tappeto sonoro, ideale per le
evoluzioni di Jagger.
Tutto l’album si conferma ad alto livello con una bella varietà di temi che spaziano dall’iniziale, scarna e
sarcastica, ballata di Mothers little helper alle aggressive ed accattivanti Stupid girl e Think, dalla celebre
Out of time (nello stesso anno grande successo per Chris Farlowe) ai tipici esempi di Stones sound nelle
sguaiate Flight 505 e It’s not easy. Non mancano brani d’impostazione blues quali Doncha bother me, la
stuzzicante High and dry e l’estenuante Goin’ home, che con i suoi undici minuti di improvvisazione blues
ha il merito di uscire dai collaudati e oramai costringenti schemi del classico pezzo da classifica.
Gli Animals presentano notevoli affinità con i Rolling Stones ; anche loro si
riferiscono sostanzialmente alle stesse matrici R’n’R e blues e, come nei primi tempi
per Jagger e compagni, fanno largo uso di cover di autori americani, evidenziando una
modesta attività di scrittura originale.
Riescono ad emergere grazie alle doti vocali di Eric Burdon e alla presenza dell’organo
di Alan Price che personalizza brillantemente i loro brani.
Il gruppo, nato nel 1962 a Newcastle come Alan Price Combo e poi trasformatosi in
Animals, è guidato da Eric Burdon (v.) e, oltre a Price (ts.), comprende Hilton
Valentine (ch.), Chas Chandler (bs.) e John Steele (bt.) ; dal secondo singolo House of
the rising sun (giugno ’64), un brano tradizionale che Bob Dylan aveva inciso per il
suo album d’esordio un paio di anni prima , gli Animals ricavano un arrangiamento
classico, denso di drammaticità, al quale contribuiscono in modo decisivo il lirico
organo di Price, l’efficace arpeggio di chitarra di Valentine e il tono grave della voce di
Burdon, realizzando di fatto uno dei pri missimi esempi di folk rock.
La produzione degli Animals è intensa: entro la fine dell’anno il gruppo pubblica altri
due singoli, il primo dei quali (la dinamica I’m crying) porta la firma di Burdon e Price,
e nel 1965 infila una serie di brani di successo improntati al rhythm & blues. Don’t let
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me be misunderstood ( un brano di Nina Simone) e Bring it on home to me (di Sam
Cooke) sono due buone versioni, mentre le successive We’ve gotta get out of this
place (luglio ’65) e It’s my life (ottobre ’65) vanno annoverate tra le più belle canzoni
del periodo, esaltate da un superlativo Eric Burdon che esprime performance vocali
originali e coinvolgenti, dimostrando di essere uno dei migliori cantanti dell’epoca.
Dopo la pubblicazione dell’album Animalisms (Decca-1966) Burdon decide di lasciare
gli Animals, decretandone, di fatto, lo scioglimento nell’estate 1966. Tornerà alla fine
dell’anno con una nuova versione del gruppo su basi sonore decisamente diverse.
Nonostante il buon riscontro di vendite e l’indiscutibile qualità delle loro canzoni, i
Them risultano meno decisivi per l’evoluzione del blues revival inglese rispetto a
gruppi come Rolling Stones, Animals e Yardbirds. E’ il cantante irlandese Van Morrison
ad approntare il complesso verso la fine del 1963 ; in realtà la formazione si dimostra
estremamente instabile e subisce nel tempo un continuo ricambio di musicisti, peraltro
sostituiti in molte registrazioni da vari sessionmen, caratteristica che contribuisce ad
aumentare la confusione e a mettere a rischio l’esistenza stessa della band.
L’esordio su vinile avviene nel settembre ’64 con Don’t start crying now, ma solo alla
fine dello stesso anno i Them s'impongono all’attenzione del grande pubblico con un
notevole singolo che presenta sul lato princi pale una focosa versione del blues di Joe
Williams Baby please don’t go. Sul retro viene inserita Gloria, una composizione di
Morrison costruita su un’insistente trama ritmica (in teoria senza inizio né fine)
pilotata dalla voce grintosa del cantante, che con il procedere dell’esecuzione
determina una sorta di trance ipnotica. La canzone diventerà un classico del rock e
sarà reinterpretata in innumerevoli versioni, tra le quali vanno ricordate quelle di Jimi
Hendrix, dei Doors e di Patti Smith.
L’ottimo risultato di vendite porta il gruppo all’inevitabile trasferimento a Londra e alla
collaborazione con il produttore americano Bert Berns (famoso per essere il
compositore della celeberrima Twist and shout, portata alla notorietà dagli Isley
Brothers e ripresa anche dai Beatles) ; proprio una composizione di Berns (Here
comes the night) procura un nuovo successo ai Them.
In questo singolo e nei due LP incisi dal gruppo sono presenti numerosi sessionmen
tra i quali spiccano i nomi dei futuri Led Zeppelin, Jimmy Page e John Paul Jones.
Nonostante l’avversione di Morrison verso questa situazione gli album risultano
interessanti. Sul primo, The angry young Them (Decca-1965), oltre a Gloria meritano
di essere segnalati un altro grintoso originale di Van Morrison, Mystic eyes, e l’ottima
versione di Bright lights, big city che evidenzia le peculiarità del suono essenziale e
pungente del complesso.
Nel successivo Them again (Decca-1966) spiccano le buone cover di I put a spell on
you e di I got a woman, l’eccellente resa del R & B con accenti gospel di Turn on your
love light (in U.S.A. un classico per i Grateful Dead) e soprattutto una magica rilettura
di It’s all over now, baby blue di Bob Dylan, arrangiata alla maniera dei migliori
Rolling Stones e valorizzata da una sofferta interpretazione di Van Morrison.
Ad ogni modo la fine dei Them è prossima e viene sancita nel maggio del 1966, al
termine di una sfortunata serie di concerti negli Stati Uniti. Morrison segue Berns a
New York dove intraprende una proficua carriera da solista.
Eric Clapton è un chitarrista diciottenne innamorato del blues elettrico di Chicago
quando, nel marzo 1963, inizia la sua fortunata carriera in un piccolo complesso
rhythm & blues chiamato Roosters. Dopo una fugace apparizione in un’altra
formazione di poche pretese (Casey Jones & the Engineers), nell’ottobre dello stesso
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anno Clapton entra a far parte degli emergenti Yardbirds, in sostituzione di Top
Topham.
Il gruppo si era costituito pochi mesi prima, per via della fusione tra Chris Dreja (ch.),
Jim McCarty (bt.) e Top Topham (ch.) (provenienti dai Suburbiton R&B) con Keith Relf
(v.ar.) e Paul Samwell Smith (bs.) dei Metropolis Blues Quartet.
Nei primi tempi la musica del gruppo è fortemente influenzata dal blues elettrico e dal
R’n’R di Chuck Berry e di Bo Diddley, con la peculiarità della brillante tecnica alla
chitarra di Clapton, già all’epoca considerato uno dei migliori strumentisti della scena
rock. La svolta decisiva è del marzo 1965 : gli Yardbirds sono in studio per la
realizzazione del nuovo 45 giri For your love, una canzone di Graham Gouldman, un
giovane compositore proveniente da Manchester (negli anni settanta sarà membro
fondatore dei 10 CC).
L’introduzione è affidata al clavicembalo suonato da Brian Auger e il brano possiede un
originale gioco vocale, abilmente incastrato su un tappeto di liquide percussioni, con il
rock’n’roll della parte centrale che si staglia prepotentemente su tutto il resto. Non c’è
traccia di chitarra solista o di blues, Clapton giudica il brano troppo commerciale e
addirittura preferisce abbandonare il gruppo per raggiungere i Bluesbreakers di John
Mayall. In realtà For your love, oltre ad essere il primo grande successo della
formazione, rappresenta un abile tentativo di ricorso alle nuove tecniche di
registrazione, con l’utilizzo di strumenti e sonorità estranei alla tradizione del blues e
del R’n’R ; in questo modo, gli Yardbirds si pongono in linea con i primordiali tentativi
di musica progressiva che nel 1965 incominciano a manifestarsi.
Eric Clapton viene ben sostituito da Jeff Beck, proveniente dai Tridents, e il gruppo
insiste nella direzione intrapresa con altri due singoli composti da Gouldman, Heart full
of soul e Evil hearted you, che confermano il successo di vendita anche se risultano
inferiori all’illustre predecessore.
Un nuovo balzo in avanti è costituito dalla bellissima Shapes of things (marzo 1966)
dove il lavoro di Beck risalta in modo deciso ; l’incedere ritmico della canzone paga un
evidente tributo al Bolero di Ravel e il pezzo apre la strada ad una nuova forma di
blues, svincolata dalla tradizione e aperta a contaminazioni con altri stili e a soluzioni
melodiche più marcate. Altri gustosi frutti della creatività del gru ppo si possono
rintracciare nel blues sepolcrale di Still I’m sad e nella bizzarra Over under sideways
down, un rock’n’roll anfetaminico dall’atipica struttura.
Poi verranno il Jeff Beck Group, Jimmy Page e i Led Zeppelin, i Renaissance.....
Se esiste una formazione che nella parte centrale degli anni sessanta serve da
punto di riferimento per il movimento del blues revival e da trampolino di lancio per
numerosi giovani musicisti, destinati ad ottenere grande fama nel firmamento del
rock, questa è identificabile nei Bluesbreakers di John Mayall.
Già nella primavera del 1965 Mayall si può permettere il lusso di presentare una
formazione comprendente l’ormai celebre Eric Clapton, appena uscito dagli Yardbirds,
e completata da John McVie (bs.) e da Hughie Flint (bt.). Il quartetto resiste fino al
luglio 1966, quando Clapton lascia per fondare i Cream, facendo in tempo a registrare
l’album Bluesbreakers, John Mayall with Eric Clapton (Decca) con l’ausilio di una
sezione fiati composta da Alan Skidmore, Johnny Almond e Dennis Healy. Si tratta di
un lavoro piuttosto ortodosso, con versioni di classici blues tirati a lucido che mettono
in risalto la chitarra di Clapton, lirica e potente al tempo stesso.
Mayall rifonda il gruppo con l’inserimento dell’emergent e Peter Green (ch.),
proveniente dagli Shotgun Express, e dell’ottimo batterista Aynsley Dunbar, ex
componente dei Mojos, mentre al basso resta il fido McVie. Alla fine del 1966 i
Bluesbreakers registrano A hard road, che propone un suono più moderno e grintoso :
Peter Green si lascia trasportare dal fervore di The stumble ed è eccitante nella
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rilettura di Dust my blues, ma soprattutto offre un fondamentale contributo creativo
con le notevoli The same way e The supernatural, un brano strumentale giocato sulla
riuscita fusione tra la sezione ritmica piuttosto informale e la chitarra che disegna
linee profonde e suggestive. Tra le composizioni di Mayall, più numerose e qualitative
del solito, spiccano la title track e Another kinda love. Anche questa edizione del
complesso dura pochi mesi in quanto Green, nell’estate 1967, forma i Fleetwood Mac.
Con il nuovo chitarrista Mick Taylor i brani che compongono Crusade (Decca-1967)
segnano il ritorno ad un convinto rigore stilistico, dopo le sperimentazioni di A hard
road. Taylor si dimostra musicista tecnicamente dotato, stilisticamente privo di
sbavature e le versioni di Oh, pretty woman, My time after awhile, I can quit you baby
sono di grande livello ; Crusade può essere considerato il momento di maggior fulgore
del John Mayall legato alla tradizione blues.
Gruppo di modesto successo ma di notevole importanza per l’originalità delle
soluzioni sonore adottate, la Graham Bond Organization nasce alla fine del 1963.
In quell’anno Bond crea un trio con altri musicisti conosciuti nei Blues Incorporated di
Korner, Jack Bruce (bs.ar.v.) e Ginger Baker (bt.), che poi diventa un quartetto con il
chitarrista John McLaughlin. Con l’ingresso in organico del sassofonista Dick Heckstall
Smith (al posto di McLaughlin) la Graham Bond Organization s’inserisce tra i complessi
più creativi ed innovativi della metà degli anni sessanta. Il sax di Heckstall Smith, che
sostituisce la chitarra elettrica nell’economia del suono, rende il blues dell’Organization
diverso da quello dei gruppi maggiormente in voga all’epoca, mentre Graham Bond si
afferma come uno dei capiscuola dell’organo Hammond ed è il primo ad introdurre il
mellotron in ambito rock ; tra i musicisti che attingono in qualche misura al suo stile
vanno ricordati Brian Auger, Keith Emerson, Vincent Crane e Dave Greenslade.
A supporto dei due solisti la sezione ritmica di Bruce e Baker si propone brillante e
poliedrica, nell'attesa di spiccare il volo con l’avventura Cream.
Il gruppo registra in un solo giorno l’album The sound of 65 che, pur presentando
qualche inevitabile imperfezione, poggia su solide basi blues e rhythm & blues con
evidenti influenze jazz ed è una miniera di spunti per il nascente suono progressivo
inglese. Nel 33 giri trovano spazio belle riletture (Hoochie Coochie di Willie Dixon e
Got my mojo working di Muddy Waters), raffinati arrangiamenti (Baby make love to
me e Spanish blues), uno scintillante esercizio per armonica (Train time che Bruce
riproporrà nel repertorio dei Cream) e una notevole prestazione ai tamburi di Ginger
Baker (Oh baby), da sempre affascinato dai ritmi africani e da Elvin Jones. Il brano più
interessante dell’album è Wade in the water dove per la prima volta si mostra un
suono d’organo in bilico tra jazz e “classica” che nel tempo farà non pochi proseliti, a
cominciare dai Colosseum che terranno ben presenti le cadenze della musica
dell’Organization.
Sempre nel 1965 la Graham Bond Organization pubblica il secondo There’s a Bond
between us (Columbia), disco che conferma gli elementi del suono del gruppo senza
aggiungere novità significative.
Lo Spencer Davis Group è una delle tante formazioni inglesi che nei primi anni
sessanta si dedicano alla proposta di una musica fortemente derivata dal R & B ; se il
gruppo riesce ad emergere dalla media il merito va attribuito in modo sostanziale alla
presenza di un talento del calibro di Stevie Winwood.
Il complesso nasce nell’agosto 1963 con Spencer Davis (ch.v.), Stevie Winwood (al
tempo quindicenne, ts.ch.v.), suo fratello Muff (bs.), Pete York (bt.) e nel novembre
’65 registra Keep on running, un brano composto dal giamaicano Jackie Edwards,
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basato su un rhythm & blues ossessivo e maniacale, che li proietta al primo posto in
classifica.
Il successo viene bissato nel marzo del ’66 con un’altra composizione di Edwards
(Somebody help me) costruita sulla falsariga della precedente. La musica del gruppo,
in questo periodo, risulta piacevole, curata e di buon impatto, ma manca d'originalità.
Ben presto Winwood comincia a dimostrare il proprio talento come strumentista,
cantante e compositore, con la realizzazione di due classici del calibro di Gimme some
lovin’ (novembre 1966) e I’m a man (gennaio ’67, ripresa con fortuna oltreoceano dai
Chicago, sul loro LP d’esordio). Si tratta di R & B con echi gospel, dinamici ed
appassionanti, che tengono conto delle nuove istanze progressive e possiedono segni
distintivi in un suono d’organo particolarmente brillante e fluido e nel timbro vocale,
stentoreo ma suggestivo, di Winwood.
Il gruppo pubblica tre album per l’etichetta Fontana, ma nonostante il successo e il
seguito acquisiti Winwood matura l’esigenza di un salto di qualità ed abbandona nella
primavera del 1967, alla ricerca di nuove, stimolanti esperienze con i Traffic. Privato
della sua colonna portante lo Spencer Davis Group si disgrega nel 1969, al termine di
una lenta e superflua agonia.
-3La metà degli anni sessanta vede emergere i primi complessi che fanno della
durezza espressiva la loro bandiera ; si tratta di formazioni che hanno caratteristiche
differenti ma possiedono una comune urgenza espositiva, resa nei termini di un suono
asciutto ed essenziale che in parte precorre le tematiche dell’hard rock.
Kinks, Who, Pretty Things, Small Faces sono i nomi capaci d’imporsi all’attenzione di
una crescente frangia di pubblico che non si accontenta più dei suoni puliti e educati
del beat. La lezione dei Rolling Stones, degli Animals viene radicalizzata, il rock’n’roll e
il rhythm & blues delle radici sono interiorizzati ed espulsi all’esterno, sotto forma di
sintesi povera, scheletrica ed originale, dalla quale partire per nuove, imprevedibili e
appassionanti avventure.
I Kinks nascono alla fine del 1963, con i fratelli Ray e Dave Davies (ch.v.), Pete
Quaife (bs.) e Mick Avo ry (bt.) e s'avvalgono della produzione di Shel Talmy, un
personaggio molto noto all’epoca che lavorerà anche con Who e Creation.
I primi due singoli, all’inizio del ’64, riscuotono vendite fallimentari ma nell’agosto
dello stesso anno You really got me (con la presenza di Jimmy Page alla chitarra)
proietta il gruppo al primo posto in Inghilterra e nella top ten U.S.A. : il suono esplode
dal nulla con un durissimo riff di chitarra, ripetuto senza soluzione di continuità in un
crescendo estremamente coinvolgente.
In autunno, in contemporanea dell'uscita del primo LP Kinks (Pye-1964, vi partecipano
Page, Jon Lord e Nicky Hopkins, in qualità di sessionmen), All day and all of the night
consolida i risultati di vendita e la formula stilistica, mostrando un pizzico d’attenzione
in più all’arrangiamento.
Sin dall’inizio appare chiara la leadership di Ray Davies che compone tutto il materiale
e rappresenta l’immagine pubblica del gruppo. Il musicista decide di allentare la
tensione con Tired of waiting for you (inizio ’65), senza rinunciare ad un suono
asciutto e privo di fronzoli ; anche quest'aspetto melodico della musica dei Kinks piace
al pubblico e così è per altri singoli di buon successo, tra i quali va segnalato See my
friends (agosto ’65), una bella composizione che tenta un timido approccio con la
psichedelia più morbida.
Nel confuso dedalo di pubblicazioni discografiche (singoli, EP, album originali inglesi,
compilazioni per il mercato americano) spicca nell’autunno ’65 l’EP Kwyet Kinks che
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contiene il brano A well respected man, una ballata disincantata che introduce nel
repertorio del gruppo temi ironici sui luoghi comuni e sul perbenismo della società
inglese, soggetti che saranno alla base di molta della futura produzione di Ray Davies,
più complessa ed ambiziosa, che troverà realizzazione nell’ultima parte del decennio.
Il nucleo dei Who inizia a configurarsi nel 1962, quando Pete Townshend (ch.v.) e
John Entwistle (bs.) costituiscono i Detours ; a loro si uniscono Roger Daltrey (v.) e
più avanti Keith Moon, al posto del batterista originario Doug Sanden. Nel 1964 il
gruppo permuta nome in High Numbers e riesce ad incidere un singolo che non
ottiene alcun riscontro. Le cose cambiano al termine dell’anno, per via
dell’interessamento dei manager Kit Lambert e Chris Stamp ; la formazione si
ribattezza come Who e i primi singoli, I can’t explain (gennaio ’65) e Anyway anyhow
anywhere (marzo ’65, entrambi prodotti da Shel Talmy), muovono le acque anche se
occorre attendere la pubblicazione di My generation, nel novembre dello stesso anno,
per apprezzare in pieno lo stile esuberante e selvaggio di Townshend e compagni.
WHO - MY GENERATION (Brunswick - 1965)
My generation, che sale fino al secondo posto della classifica di vendita inglese, è una canzone di
straordinario impatto ; mai, prima di allora, s’era ascoltato un brano così sfrontato nel suo furore strumentale.
Pete Townshend esegue una rielaborazione di un pezzo di Jimmy Reed dove la chitarra tagliente, il basso
martellante di Entwistle e la batteria disordinata di Moon forniscono una base ritmica ossessiva, sulla quale
Daltrey espone i suoi problemi generazionali producendosi in una performance classica, imprecando e
simulando una rabbiosa balbuzie. Nella parte centrale il gruppo sorprende, riservando l’abituale spazio
dell’assolo di chitarra ad una vorticosa ed eccitante evoluzione del basso, mentre il convulso finale richiama
il caos tipico delle esibizioni dal vivo, con gli strumenti che prendono la mano, muri di feedback e svisate
tumultuose, fino all’inevitabile distruzione al termine della folle corsa.
In My generation si possono riscontrare tutte le principali caratteristiche del suono dei primi Who : una
sezione ritmica travolgente con la potenza e la precisione di Entwistle, con la rabbia di Keith Moon che
sovverte i tradizionali canoni sull’uso della batteria nel rock - fino a quel momento anonimo strumento
ritmico - scatenando sui tamburi veri e propri temporali percussivi che rendono il fraseggio immediatamente
riconoscibile, e ancora l’abilità di Townshend nell’approntare un originale stile alla chitarra, sperimentando
un uso sistematico del feedback. Solo un cantante dotato e sfacciato come Daltrey può riuscire a confrontarsi
con siffatti compagni senza essere travolto dal suono.
L’album d’esordio, che eredita il titolo dallo storico 45 giri, non è certo la classica compilation di singoli
(come spesso accade all’epoca), bensì un lavoro ricco di episodi brillanti in perfetta coesione di stile, che
anticipa di qualche mese i primi LP di rilievo dei Beatles (Revolver) e dei Rolling Stones (Aftermath).
Registrato in poche ore di studio con l’aiuto di Nicky Hopkins al piano, il long playing comprende brani per
la maggior parte composti da Townshend, oltre ad alcune cover e alla strumentale The ox, firmata a più mani.
Il suono è compatto e grintoso, mantiene un compromesso tra il R & B delle origini e i canoni delle belle
armonie beat (La la la lies, Much too much, A legal matter) attingendo ad alcuni classici quali I don’t mind,
Please, please, please (entrambi di James Brown) e I’m a man (Bo Diddley). I frutti migliori (a parte la
celebrata title track) sono il ruvido rhythm & blues iniziale di Out in the street con un deciso Daltrey, la
tipica e variegata The good’s gone costruita su un’interessante struttura a sezioni sovrapposte, la classica
armonia di The kids are alright e la conclusiva The ox, un vortice ritmico costituito da una micidiale
sequenza di rullate (eseguita da Moon), sulla quale si contorce il piano di un tarantolato Hopkins e
imperversa la tuonante chitarra di Townshend.
Il 1966 è un anno di transizione per i Who. Il gruppo appare irresistibile dal vivo, con
spettacoli infuocati che culminano nella parossistica distruzione degli strumenti, ma in
studio non riesce a produrre canzoni memorabili, indeciso sulla direzione da
intraprendere. Così, il secondo album A quick one (Reaction-1966) suona deludente,
palesando una notevole frammentarietà d’intenti ; le eccezioni sono la potente Run
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run run, che riporta alle atmosfere d el precedente album (come Heat wave, unica
cover presente) e, solo in parte, A quick one while he’s away, embrionale tentativo del
chitarrista nell’ambito dei soggetti a tema che saranno alla base dei lavori successivi.
Il chitarrista Dick Taylor suona in una formazione studentesca dei primi anni
sessanta chiamata Little Boy Blue & the Blue Boys : i suoi compagni sono il cantante
Mick Jagger e il chitarrista Keith Richard. I Blue Boys, poco più avanti, cambiano sigla
in Rolling Stones ma Taylor è già uscito e nel 1963 idea un proprio complesso, i
Pretty Things, prendendo a prestito il nome da un brano di Bo Diddley. Con lui sono
Phil May (v.), Brian Pendleton (ch.), John Stax (bs.), Viv Prince (bt.) e il gruppo si
pone in diretto antagonismo con gli Stones, interpretando una musica ancora più
sporca ed aggressiva su basi R & B e R’n’R.
La struttura magra ed ossessiva delle canzoni ricorda certi aspetti delle primissime
composizioni dei Kinks, ma mentre il gruppo di Ray Davies vira ben presto verso
formule sonore maggiormente ricercate i Pretty Things trovano nell’immediatezza e
nella semplicità espositiva la loro peculiarità.
Il luglio 1964 vede la pubblicazione del primo singolo Rosalyn, un pezzo grezzo e
tirato che rimanda direttamente allo stile di Bo Diddley e sulla stessa impronta si
assestano il successivo Don’t bring me down (ottobre ’64) e il materiale del primo
album omonimo, edito alla fine dell’anno (Pretty Things, Fontana-1964, eccellenti i
blues & roll ispidi ed incalzanti di Judgement day e 13 Chester street, oltre ai R’n’R
minimali di Big city e Pretty Things).
Con il nuovo batterista Skip Alan, alla fine del ’65 esce il secondo LP Get the picture ?
(Fontana) che contiene You don’t believe me, firmata da Jimmy Page, e le graffianti
Buzz the jerk e Gonna find a substitute. In contemporanea con l’album viene edito
uno dei loro migliori singoli, Midnight to six man, un dinamico R & B guidato da una
bella melodia, brano che vede la probabile partecipazione di Nicky Hopkins al piano. Di
rilievo anche il retro del singolo, Can’t stand the pain, in bilico tra il classico suono del
gruppo e pacate atmosfere che accusano i primi sintomi psichedelici. Il gruppo si
ripete nella primavera del 1966 con un altro 45 giri di notevole spessore : la
prepotente sezione ritmica di Come see me ricorda da vicino i migliori Who e il titolo
del secondo lato, L.S.D., è tra i pezzi più scarni e pungenti dell’intero repertorio.
Gli Small Faces nascono nel 1965, anno nel quale la scena musicale inglese
attraversa un momento d'importante crescita che determina una sempre più convinta
autonomia creativa. Il gruppo s’inserisce in questo panorama senza apportare un
contributo particolarmente innovativo, cercando anzi di sfruttare formule musicali già
abbondantemente affermate per ottenere importanti risultati commerciali.
Quando viene pubblicato il primo singolo Watcha gonna do about it la formazione è
composta da Steve Marriott (ch.v.), già con Frantics e Moments, Jimmy Winston (or.,
anch’egli ex Moments), Ronnie Lane (bs.v.) e Kenny Jones (bt.) ; il brano, un rhythm
& blues metronomico che presenta un interessante inserto di chitarra satura di
distorsione e feedback, ottiene buon successo e consente agli Small Faces di acquisire
credibilità come gruppo alternativo ai Who nella scena mod londinese.
Winston è già sul piede di partenza e il complesso si assesta definitivamente con il
tastierista dei Boz & the Boz People, Ian McLagan. A questo punto inizia la scalata
verso il successo con una lunga serie di singoli che conseguono notevoli consensi di
vendita : le divertenti, ma certo non straordinarie, Sha la la la lee e Hey girl preludono
ai grandi risultati commerciali di All or nothing, che mostra qualche indizio di
originalità e vola in testa alla classifica di vendita.
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La coppia Marriott / Lane, responsabile delle composizioni, comincia ad affinare le
proprie capacità ed ottiene buoni risultati con la bella melodia di Here comes the nice,
con l’hard melodico di Tin soldier e soprattutto con la splendida ballata di Itchycoo
park (1967), avvolta da un morbido afflato psichedelico e caratterizzata dalla
sperimentazione dell’effetto phasing sulla batteria (poi ripreso da Jimi Hendrix
nell’ottobre dello stesso anno per la spettacolare Bold as love).
-4Il 1965 è l’anno zero per la musica progressiva inglese.
In quell’anno si assiste ai primi decisi tentativi di superamento dell’essenza del suono
beat grazie alla pubblicazione di canzoni come (I can’t get no) Satisfaction, We’ve
gotta get out of this place, It’s my life, For your love, My generation e un importante
contributo alla maturazione della musica rock inglese è dato della neonata cultura
psichedelica, in via di rapido sviluppo sull’impulso di un analogo fenomeno
proveniente da San Francisco, California.
In particolare, dal 1966 s’assiste al fiorire di numerose formazioni che si esibiscono in
piccoli locali fumosi della Londra sotterranea, proponendo una musica dai toni
sgargianti, con soluzioni armoniche a volte sorprendenti, assolutamente al di fuori
della logica di un facile successo commerciale.
I Beatles istituzionalizzano il fenomeno con quel colpo di genio che è Tomorrow never
knows, mentre fra i più intriganti pionieri del nuovo verbo vanno annoverati i
Creation e i Misunderstood.
I Creation esordiscono nel giugno 1966, autori di una musica velata di psichedelia
ed estremamente policroma, tanto che il chitarrista Eddie Phillips ha modo di
affermare che il loro suono è “rosso con bagliori porpora”.
Dopo l’esordio come Mark Four, spronati dal ma nager Tony Stratton-Smith, il gruppo
modifica la sigla in Creation e nell’estate 1966 esce con il primo 45 giri, Making time /
Try and stop me, per la Planet, l’etichetta personale del produttore Shel Talmy.
Making time è un esordio importante, marcato da un riff aggressivo di chitarra e con
una linea melodica post beat ripetutamente disturbata dalle sperimentazioni di
Phillips, che ricava sonorità convulse suonando il suo strumento con l’archetto del
violino (ben prima di Jimmy Page). Il retro è un brano più convenzionale, in qualche
misura influenzato dallo stile dei Who.
Le vendite del disco non sono eccezionali ma ugualmente sufficienti a garantire
un’apparizione al programma Ready Steady Go e l’interesse per i Creation aumenta,
anche per merito di conce rti ben congegnati, basati sull’utilizzo di spettacolari trucchi
scenici.
L’ottobre ’66 vede la pubblicazione di Painter man, il loro singolo più celebre, che in
sostanza ricalca lo stile di Making time proponendo armonie vocali maggiormente
curate ed orecchiabili, in grado di conferire alla canzone una forma meglio
commerciabile nonostante la chitarra di Phillips che suona come un violoncello
scordato. Sul retro trova posto Biff bang pow (con il piano di Nicky Hopkins), un brano
accattivante, curiosamente situato a metà strada tra My generation e Run run run dei
Who, senza possedere l’arrembante urgenza delle composizioni di Townshend.
Eddie Phillips è all’apice della notorietà nel circuito rock, tanto che lo stesso
Townshend gli offre un posto da secondo chitarrista nei Who. Incredibilmente Phillips
rifiuta, forse illudendosi di poter emergere con il suo gruppo ma per i Creation, che
sfiorano il successo senza raggiungerlo pienamente (Painter man si ferma al n. 36
della classifica), il periodo migliore è già terminato. A ben poco valgono i successivi
apporti di Kim Gardner (bs., poi con Tony Ashton) e di Ron Wood (ch., Beck, Faces,
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Stones) ; il continuo modificarsi dell’organico non produce risultati particolarmente
positivi (la scialba If I stay too long, le discrete Nightmares e How does it feel to feel)
e alla fine lo stesso Phillips decide di porre termine alla sua brillante e, purtroppo,
anonima carriera.
Se i Creation non possono essere considerati gruppo fondamentale per l’evoluzione
del rock inglese, limitandosi a colorare con tinte psichedeliche concetti sonori già
espressi da altri prima di loro, i Misunderstood entrano nel merito della questione,
superando d’istinto i canoni consolidati del blues revival, allargando gli orizzonti ritmici
e me lodici delle canzoni, acrobaticamente proiettate verso inediti scenari creativi.
Convinti a trasferirsi dal disc jockey John Ravenscroft, i Misunderstood giungono a
Londra nel giugno 1966 provenienti non dalla provincia inglese ma da Riverside, una
piccola cittadina californiana ; curiosamente il gruppo anticipa quello che accade a Jimi
Hendrix pochi mesi più tardi (con ben diverso impatto sulla scena musicale).
Dopo aver arruolato il giovane chitarrista inglese Tony Hill, che apporta un decisivo
contributo strumentale e creativo, fra mille difficoltà i Misunderstood riescono a
registrare, per l’etichetta Fontana, sei brani (all’epoca sconvolgenti) che costituiscono
l’essenza della loro concezione musicale, risultando importanti per l’influenza
esercitata sulla nascente scena progressiva.
Children of the sun rappresenta bene l’impianto sonoro del gruppo, dominato dalle
chitarre distorte, taglienti, ammalate di feedback di Hill e Glenn Ross Campbell che
producono sonorità fiammeggianti, scatti convulsi, sospensioni emozionanti. My mind
presenta un incedere ritmico tribale e possente, alternato a momenti più rilassati, con
le chitarre che solcano lo spazio come meteore impazzite. Una sezione ritmica senza
respiro è alla base di Find a hidden door, spezzata da interventi vocali di grand'effetto,
mentre I unseen è un blues rock ben poco ortodosso, segnato dalla steel guitar di
Campbell e dall’armonica di Rick Brown.
Due brani vedono la luce sotto forma di singolo, nel dicembre 1966 : un’atipica,
notevole versione della Who do you love di Bo Diddley, caratterizzata da un’originale
introduzione e sostenuta da chitarre deraglianti che magicamente si stemperano in
atmosfere fluttuanti ed impalpabili, e la bellissima I can take you to the sun, un’eterea
canzone psichedelica che a sorpresa si chiude con il passo della ballata folk.
Le cronache del tempo raccontano di poche ma memorabili esibizioni nelle quali i
Misunderstood sperimentano una sorta di musica per il corpo e per la mente, basata
su un approccio “spaziale” e qualcosa di quei coraggiosi propositi rimane nelle idee di
giovani formazioni emergenti dall’underground (Pink Floyd ?).
Nonostante un crescente, seppur modesto, interesse il gruppo è allo sbando. Campbell
tornerà in Inghilterra nel 1969 per portare la sua steel guitar al servizio dei discreti
Juicy Lucy ; nello stesso anno, Tony Hill formerà gli High Tide, una delle migliori
formazioni della musica progressiva inglese.
John Ravenscroft si ribattezza John Peel e diviene il più apprezzato ed influente D.J.
inglese, prima con trasmissioni dalle frequenze della pirata Radio London, poi come
affermato conduttore a Radio One dove lancia il programma Top Gear, passaggio
obbligato per i gruppi emergenti della scena progressiva. Sarà anche produttore,
discografico (con l’etichetta Dandelion, dalla durata piuttosto breve) e giornalista per
International Times e Sounds, proponendosi a modo suo come personaggio centrale
della vita musicale inglese, ancora fino ai nostri giorni.
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THE TURNING POINT
diario fantastico dell’esperienza interstellare di Pepper
il sergente
Lo sviluppo dell’albero genealogico della musica progressiva inglese attraversa tre
principali fasi evolutive.
Nella prima fase assistiamo alla presa di coscienza delle proprie capacità creative da
parte dei musicisti del beat e del blues revival, fino al raggiungimento, nel biennio ’65
- ’66, di un originale linguaggio espressivo che possiamo definire compiutamente rock.
Una seconda fase, storicamente collocabile tra il 1967 e il 1970 - ’71, vede una
massiccia proliferazione di musicisti e complessi con la conseguente ramificazione
degli stili che, pur derivando per la maggior parte dalle medesime radici, si
allontanano sempre più tra loro come sospinti da un’invisibile forza centrifuga.
Nei settanta, la terza fase crea l’ordine costituito della musica progressiva che
lentamente, ma inesorabilmente, perde buona parte dei contenuti innovativi,
propugnati negli anni precedenti da minoranze creative di musicisti. Restano il
commercio fine a se stesso, gli spettacoli ricchi ed opulenti sovraccarichi di retorica,
suoni pesantemente arrangiati che trovano nell’eccesso dell’elaborazione e della
ricercatezza la loro povertà tematica. Restano sino a quando una nuova minoranza
creativa, facendo leva su una ritrovata semplicità espressiva, ne determina
bruscamente la fine nel tardo 1976, con l’esplosione del fenomeno punk.
L’industria discografica, ovviamente, si adegua a queste fasi evolutive, creando al suo
interno gli strumenti per esercitare il controllo delle mutevoli esigenze espresse dal
mercato. Negli anni cinquanta esso era sostanzialmente dominato da poche grandi
case discografiche, preponderanti anche all'inizio dei sessanta. Decca, Pye, Emi e
Philips (le ultime due attive ai tempi del beat con le etichette Parlophone e Fontana) si
spartivano senza troppa fatica la ricchezza esistente, in un regime di solo apparente
concorrenza. La crescente diffusione di musicisti pronti ad intraprendere nuove
direzioni musicali mette in difficoltà la pachidermica organizzazione delle grandi case
discografiche, e così nascono le prime etichette indipendenti (la Island nel 1962, la
Immediate nel 1965, la Blue Horizon nel 1967) pronte ad appropriarsi di piccole o
grandi fette di mercato.
Lo sviluppo di un fenomeno s ociale e culturale di stampo underground determina, poi,
la creazione di ulteriori strumenti alternativi per la diffusione delle proposte musicali
più lontane dal concetto di “normalità”. Numerose sono le etichette che vedono la luce
verso la fine degli anni sessanta, per la maggior parte ideate da manager e produttori,
spesso destinate a precoci fallimenti ; tra queste vanno ricordate la Marmalade di
Giorgio Gomelsky, la Dandelion di John Peel, la Young Blood di Miki Dallon, la
Nephenta di Larry Page, la minuscola e quasi mitica Stable.
La reazione delle grandi compagnie non si fa attendere e si materializza nella
fondazione di etichette specializzate che adottano una struttura elastica, capace di
sfruttare commercialmente anche il mercato della musica progressiva. Così nascono la
Harvest (Emi), la Deram (Decca), la Vertigo (Philips - Polydor), la Dawn (Pye), la
Neon (della filiale inglese RCA), marchi che ben presto riportano le major alla
supremazia totale, ma che quanto meno hanno il pregio di consentire a sconosciuti
musicisti privi di successo l’approdo all’incisione discografica.
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Il 1967 è l’anno dei grandi rivolgimenti del rock inglese, marcato a fuoco
dall’uragano psychoblues di Jimi Hendrix, dai ricercati equilibrismi stilistici dei Beatles,
dalle vertigini allucinate dei Pink Floyd, dalla soffice e raffinata psichedelia soul folk dei
Traffic.
Gran parte della musica prodotta in Inghilterra negli anni successivi dovrà
inevitabilmente confrontarsi con questi fondamentali insegnamenti.
-5E’ il luglio 1966 quando gli Animals iniziano una serie di concerti negli Stati
Uniti. Appena arrivato a New York il bassista del gruppo Chas Chandler ha modo
d’assistere al Café Wha ?, un piccolo locale del Greenwich Village, all’esibizione di una
sconosciuta formazione chiamata Jimmy James and the Blue Flames. Sul palco
s’incrociano le chitarre del giovanissimo Randy California (poi fondatore degli Spirit) e
del leader del gruppo, tale James Marshall Hendrix da Seattle che, suonando il
proprio strumento in modo inconsueto ed utilizzando alcuni strani trucchi scenici,
colpisce immediatamente l’attenzione di Chandler, il quale si convince che nel
panorama del dopo beat inglese un siffatto personaggio può avere qualche possibilità
d’emergere. Sicuramente, nemmeno lo stesso Chandler immagina quale sconvolgente
impatto Hendrix sarà in grado di produrre nell’ambito della musica rock.
In quel volo del 23 settembre che lo porta in Inghilterra Hendrix porta con sé la
chitarra e la speranza di successo, fino allora sempre vanificata nei tanti complessi
giovanili e nelle castranti collaborazioni con i vari Little Richard, Jackie Wilson, Sam
Cooke, Isley Brothers.
Il primo di ottobre è già sul palco del Polytechnic di Londra, ospite dei Cream di Eric
Clapton, e nel giro di pochi giorni gli vengono presentati Noel Redding (un oscuro
chitarrista reduce da piccole formazioni, che pur di suonare con Hendrix s’adatta al
ruolo di bassista) e Mitch Mitchell (batterista di buone qualità, già con Screaming Lord
Sutch, Johnny Kidd & the Pirates, Georgie Fame & Blue Flames e, per brevissimo
tempo, con i Pretty Things).
La Jimi Hendrix Experience è pronta per le prime esibizioni francesi e tedesche : il
musicista inizia a suscitare interesse dal vivo affidandosi ad una musica che deriva in
linea retta dal blues, rivisto in chiave psichedelica tramite uno stile chitarristico
innovativo, e grazie alla selvaggia presenza scenica che riflette l’emozione del suono.
L’esordio discografico avviene il 16 dicembre con Hey Joe, un brano molto eseguito
negli Stati Uniti (tra gli altri l’interpretano i Byrds, i Love, i Leaves e Frank Zappa l’ironica controcover di Flower punk). La versione dell’Experience, introdotta da una
semplice ma memorabile frase di chitarra che cattura l’attenzione dell’ascoltatore,
acquista un aspetto drammatico a causa dell’utilizzo di un tempo fortemente
rallentato, scandito da una lirica e controllata parte strumentale e dalla severa voce
narratrice di Hendrix. Al pezzo viene associata Stone free, prima composizione
originale di Jimi (almeno per quanto riguarda la nuova carriera inglese), una bella
canzone con chiari accenti soul, dallo stile sufficientemente definito.
Ben più impressionante è il secondo singolo Purple haze (marzo ’67), una sorta di
precoce hard blues carico di tensione visionaria, che entra di diritto nel novero delle
migliori produzioni hendrixiane, con la chitarra che soffre, geme, s’impenna in un
concentrato di riff micidiali. Il disco arriva fino al terzo posto in classifica e l’Experience
consolida rapidamente la popolarità in Inghilterra grazie ad un’intensa attività live.
Un ulteriore 45 giri, con l’eterea The wind cries Mary, precede di pochi giorni la
pubblicazione del primo album che avviene il 12 maggio 1967.
21
JIMI HENDRIX EXPERIENCE - ARE YOU EXPERIENCED ?
(Track - 1967)
Are you experienced ? scuote dalle fondamenta il panorama musicale inglese, proponendo uno strepitoso
rock blues psichedelico ; i tempi del beat, delle ordinate linee melodiche, delle pulite armonie vocali, degli
strumenti ben controllati ed allineati sembrano lontani un secolo. Qui la musica eccita, punta diritta allo
sballo fisico e psichico, trasmette elettricità allo stato puro, assimila la tradizione del blues per ridisegnarne
la forma. L’Experience si rivela il gruppo perfetto per le esigenze di Hendrix : Mitchell, con il suo stile in
apparenza disordinato, offre un ottimale contributo poliritmico e Redding suona il basso con un’originale
tecnica, direttamente derivata dalla sei corde, che rende ancor più movimentata e imprevedibile la base
ritmica.
Da parte sua, il leader definisce nuovi parametri di confronto e non è esagerato parlare di tecnica della
chitarra rock prima e dopo Hendrix, mentre lo stile vocale declamatorio di Jimi s’adatta molto bene ad una
musica di gran peso specifico.
Alcune canzoni stordiscono per il furore ritmico e creativo : la danza tribale di I don’t live today, guidata da
un secco riff sospeso su un mare di feedback (qui appare per la prima volta l’effetto wah-wah , del quale
Hendrix resta insuperato maestro), le affascinanti sezioni sovrapposte di Love or confusion, con le chitarre
impalpabili, liquide, che improvvisamente raggrumano per dettare il ritmo sostenuto da un Mitchell libero di
qualsiasi preoccupazione formale, la dimenticata Manic depression, basata su un insolito tempo di valzer,
dove ancora Mitch fornisce una propulsione ritmica circolare, ideale rampa di lancio per uno degli assolo di
chitarra più selvaggi di tutto il rock.
I brani più sperimentali sono 3 rd stone from the sun, un’allucinata jam spaziale caratterizzata da una melodia
senza tempo e dall’uso di nastri manipolati a diverse velocità per i dialoghi delle voci, che risultano
fortemente rallentati, e la conclusiva Are you experienced ? che presenta parti con tutti gli strumenti registrati
alla rovescia, in un coinvolgente e fascinoso rituale asimmetrico.
Foxy lady, Fire, Can you see me, graffianti e dinamici, sono classici del repertorio hendrixiano
particolarmente adatti all’atmosfera dei concerti, così come il nitido blues di Red house, né si possono
dimenticare le linee fluttuanti di May this be love. Il roccioso rhythm & blues di Remember appare l’unico
episodio leggermente sotto tono, ma forse la sua colpa è solo quella di essere inserito in uno dei grandi
capolavori della storia del rock.
Dopo la pubblicazione dell’album d’esordio Hendrix è già personaggio d’enorme fama
e successo ; i dischi navigano nelle posizioni alte delle classifiche inglese e americana
e l’Experience, per tutto il 1967, si dimostra un’instancabile macchina da concerti
(nella sua breve esistenza, prima dello scioglimento nel giugno 1969, il gruppo
effettua ben 480 esibizioni ufficiali !).
In giugno l’Experience vola negli Stati Uniti dove il 18 esordisce in occasione del
Monterey International Pop Festival, uno dei più importanti avvenimenti dell’estate
californiana. Nella scaletta del concerto, Hendrix propone versioni solide e precise di
alcuni brani di successo e, a sorpresa, inserisce una brillante, personale rilettura del
classico di Bob Dylan Like a rolling stone. La performance è di altissimo livello, ma ciò
che la rende unica è il gran finale dedicato a Wild thing, un brano scritto da Chip
Taylor e portato alla notorietà dai Troggs nell’aprile 1966. Qualcosa di ve ramente
selvaggio s’abbatte sullo sbigottito pubblico californiano. Gli altoparlanti al massimo
del volume sembrano sul punto di scoppiare sotto la spasmodica azione della chitarra
di Jimi, che si fionda in devastanti sequenze dissonanti, al limite del caos e del rumore
puro. Anche l’ingenuo trucco scenico finale, con il rito della chitarra arsa viva, assume
contorni inquietanti, con lo strumento abbandonato, agonizzante, che continua a
gemere impietosamente.
Tra le incessanti tournée e le sessioni di studio, la Jimi Hendrix Experience trova il
tempo per realizzare alcune eccellenti registrazioni per le trasmissioni radiofoniche
Saturday Club, Top Gear e Alexis Korner’s R & B Show (prodotte dalla BBC), nastri che
per anni costituiscono la base di numerose pubblicazioni discografiche illegali e nel
1988 vengono raccolti nell’ottimo doppio Radio One.
22
Verso la fine dell’anno è la volta del nuovo LP, Axis : bold as love. E’ l’ultimo lavoro
prodotto da Chandler che poco dopo si defila dal management di Hendrix e il disco,
pur accusando inevitabilmente l’assenza del fattore novità, conferma l’eccellente
momento del chitarrista. I brani memorabili sono la granitica Spanish Castle magic,
dotata di un impatto poderoso, le delicate e poetiche Little wing e Castles made of
sand, l’avvolgente Bold as love (basata sul largo uso dell’effetto phasing) e la concisa
If six was nine, con le dure contrazioni della scorza blues.
-6Il 1967 inizia per i Beatles con la pubblicazione (in febbraio) del singolo
Penny Lane / Strawberry fields forever. Se Penny Lane presenta un incedere classico,
valorizzato da arrangiamenti raffinati, Strawberry fields forever prosegue il lavoro
iniziato con l’album Revolver, alla ricerca di una viva sperimentazione sonora. Il
brano, caratterizzato da un’introduzione pastorale che sfocia in un dolce capogiro
psichedelico, è uno dei capolavori dei Beatles, sia per quanto concerne le imprevedibili
soluzioni timbriche adottate che per ciò che riguarda la tecnica di produzione, basata
sulla manipolazione di nastri ottenuti da due diverse registrazioni che convergono
miracolosamente sulla stessa tonalità e si fondono perfettamente tra loro.
BEATLES - SGT. PEPPER’S LONELY HEARTS CLUB BAND (Parlophone - 1967)
Il primo giugno 1967 viene commercializzato, in unica versione mondiale e senza estratti a 45 giri, Sgt.
Pepper’s lonely hearts club band, un album considerato come lo storico momento di trapasso dalla cultura
beat alle nuove proposte progressive della musica giovanile.
Se da un punto di vista formale, d’immagine e d’impatto sulla scena musicale dell’epoca, l’affermazione è
condivisibile, sotto l’aspetto dei contenuti appare doveroso riconoscere che altri, e più radicali innovatori,
negli stessi giorni definiscono le linee portanti del suono progressivo, ottenendo risultati formidabili.
Lennon e McCartney (autori di tutti i brani ad eccezione di Within you without you, composta da Harrison)
scelgono di produrre un flusso musicale senza soluzione di continuità, determinando, di fatto, l’inizio della
moda degli album a tema specifico (concept) ; inoltre, il puntiglioso lavoro d’ingegneria sonora già
sperimentato con eccellenti risultati viene perfezionato e posto alla base di ogni creazione. Ugualmente, il
gruppo è indotto a seguire tracce melodiche raffinate ed arrangiate in modo invidiabile, ma anche troppo
usuali e costringenti : è il caso della bella ma innocua marcetta di A little help from my friends (Joe Cocker
riuscirà a cavar fuori da queste stesse note ben altre suggestioni), delle graziose Getting better e Lovely Rita,
dell’iniziale title track (che non va oltre ad un pulito R’n’R di base), persino dell’ottima Fixing a hole, il cui
lirico contenuto meriterebbe un arrangiamento con un pizzico di coraggio in più.
Le intuizioni migliori sono sparse in Lucy in the Sky with Diamonds, una nenia allucinata da carillon
psichedelico, e nello stralunato valzer di Being for the benefit of mr. Kite !. Convincono pure le abituali
movenze orientali di Within you without you e diverte il bestiario di Good morning, good morning, un R & B
decisamente inconsueto.
A day in the life chiude simbolicamente l’era psichedelica dei Beatles, formando con Tomorrow never knows
e Strawberry fields forever un indimenticabile trittico denso di emozioni ; l’introduttiva, tremante melodia
viene risucchiata in una spaventevole spirale da incubo che porta all’immaginario risveglio, forse solo
un’illusione di poter fuggire dal tormento dei propri sogni, definitivamente inghiottiti dalla voragine
orchestrale che chiude il brano con un’affermazione drammatica.
Nell’estate 1968 il gruppo coglie un nuovo, grande successo con il 45 giri Hey Jude,
caratterizzato dalla celebre coda corale, canzone che paga un evidente e forse
volontario tributo a Dear mr. Fantasy dei Traffic (istruttiva in tal senso la bella
versione in medley fornita da Al Kooper e Mike Bloomfield nel loro Live adventures -
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Columbia 1969 - dove i due brani si compenetrano alla perfezione, apparendo come
un’unica entità).
Il doppio album omonimo, pubblicato nel novembre successivo, è l’ultimo disco
importante dei Beatles, in netto contrasto con i colori e le atmosfere del Sgt. Pepper
sin dalla copertina completamente bianca. Il “white album” s’affida ad un duro
realismo sonoro, ben rappresentato dai ro ck’n’roll scarni ed essenziali di Back in the
U.S.S.R.. e di Birthday, dal blues rock tirato ed urlato di Yer blues e soprattutto dalla
stravolta Helter Skelter, costruita su un muro di chitarre informi e strazianti. In
generale, il lavoro presenta un’ampia molteplicità di stili, passando con disinvoltura
dal rock duro e graffiante a raffinate e suadenti ballate (Dear prudence, While my
guitar gently weeps con Eric Clapton), dall’ironica e neoclassica Piggies (con tanto di
grugniti finali) al country western di Rocky Raccoon, dal blues impertinente di Why
don’t we do it in the road ? all’enfatica tessitura ritmica di Everybody’s got something
to hide except me and my monkey, per finire con le caotiche ed inquietanti
sperimentazioni di Revolution 9.
I Beatles si avviano al termine della loro colossale carriera, con la residua forza per
realizzare altri due album onesti quali Abbey road (Apple - 1969) e Let it be (Apple 1970), a tratti molto belli ma inesorabilmente avulsi dal contenuto musicale più
avanzato della fine del decennio.
-7Tra le decine di piccoli locali che hanno costituito la rete di sviluppo delle
tendenze underground e progressive nella zona di Londra (Middle Earth, Marquee,
Pink Flamingo, Roundhouse, Speakeasy ecc.) uno dei più mitici è sicuramente l’Ufo
Club, con base a Tottenham Court Road. Il ritrovo viene allestito da John Hopkins alla
fine del 1966, allo scopo di raccogliere fondi per la neonata rivista underground I.T. International Times. In breve tempo, l’Ufo diventa il rifugio dei musicisti alternativi,
dediti a pratiche sperimentali e alla ricerca di sintesi innovative ; qui vengono
sperimentati i primi light show psichedelici, sottolineati dalla musica di complessi agli
esordi quali Soft Machine, Tomorrow, Crazy World of Arthur Brown, Giant Sun Trolley
(poi Third Ear Band) e, tra i più assidui frequentatori, Pink Floyd.
Originario di Cambridge, Syd Barrett è un bizzarro chitarrista in perenne ed affannosa
ricerca, che sperimenta rumori assurdi fino alle prime ore del mattino rischiando il
linciaggio da parte dei vicini di casa. Nel settembre 1964 si trasferisce a Londra dove
incontra Roger Waters (bs.v.) che l’invita ad unirsi al suo gruppo, gli Abdabs, nel
quale suonano pure Richard Wright (ts.) e Nick Mason (bt.) ; prima della fine
dell’anno nascono i Pink Floyd (la sigla deriva da un’idea di Barrett, che accosta i nomi
di due bluesmen della Georgia, Pink Anderson e Floyd Council). All’inizio la
formazione è composta da sei elementi, ma ben presto il chitarrista Bob Close e il
cantante Chris Dennis abbandonano e i Pink Floyd s’assestano con Barrett, Waters,
Wright e Mason.
Gli ultimi mesi del ’66 sono decisivi per lo sviluppo della scena underground londinese
e i Floyd non perdono occasione per partecipare a tutti gli appuntamenti importanti,
dagli spettacoli alla Roundhouse del 15 ottobre (per il lancio di I.T.) e del 3 dicembre
(per il primo grande ritrovo psichedelico, Psycodelphia versus Ian Smith), fino
all’inaugurazione dell’Ufo Club (23 dicembre).
L’inizio del nuovo anno vede il gruppo in studio di registrazione, sotto la produzione di
Joe Boyd, per la realizzazione di alcune sessioni che fruttano quattro brani ; due di
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questi sono scelti per il singolo d’esordio, Arnold Layne e Candy and a current bun,
edito l’undici marzo.
Arnold Layne presenta un testo audace ed ambiguo, che procura difficoltà per la
radiodiffusione ma, al tempo stesso, permette ai Pink Floyd di diventare una delle
formazioni più rispettate nell’ambiente underground. La canzone, costruita su un
impianto di ballata folk, lascia trasparire solo a tratti alcuni degli elementi timbrici che
renderanno tipica la musica del gruppo, soprattutto per ciò che riguarda l’uso
dell’organo da parte di Wright.
Di maggior efficacia appare il secondo singolo See Emily play, registrato in maggio con
il nuovo produttore Norman Smith (un ex tecnico dei Beatles) e originariamente
intitolato Games for May, che è pubblicato il 16 giugno ed ottiene un lusinghiero
piazzamento in classifica (n. 5). La musica è calata alla perfezione nella fervida scena
psichedelica, con la proposta di soluzioni fantasiose ed un gustoso assaggio della
chitarra siderale di Syd Barrett.
Nel bel mezzo della pubblicazione dei due dischi, il complesso partecipa al 14th Hour
Technicolour Dream - Free Speech Benefit, una manifestazione organizzata dal solito
John Hopkins all’Alexandra Palace di Londra, tra la notte del 29 e il mattino del 30
aprile 1967, per finanziare International Times. Il grande concerto si trasforma
nell’evento più ricordato di tutta la psichedelia inglese, al quale assistono diverse
migliaia di persone ; tra le numerose formazioni che vi prendono parte spiccano i nomi
dei primi Soft Machine, di Arthur Brown, Pretty Things, Social Deviants, Tomorrow,
Sam Gopal e Mick Hutchinson. I Pink Floyd suonano poco prima dell’alba, in
un’atmosfera surreale, e l’esibizione li consacra ai vertici della scena underground.
PINK FLOYD - THE PIPER AT THE GATES OF DAWN (Columbia - 1967)
Le sedute di registrazione del primo LP, agli studi di Abbey Road della Emi, si protraggono per circa sei
mesi e sono rese difficili dal comportamento imprevedibile di Barrett, che a quei tempi è il leader e il
maggior compositore del gruppo. Finalmente, il 5 agosto 1967 vede la luce The piper at the gates of dawn
che rapidamente ottiene ottimi risultati di vendita.
Il disco lancia i Pink Floyd in orbita stellare e conferma le qualità come autore di Barrett ; il suono spiazza
l’ascoltatore, ancora abituato a confrontarsi con stili derivati dal blues e dal rock’n’roll, presentando una
latente matrice folk, oltre a tematiche ereditate dalla cultura musicale europea (in particolare classica),
introdotte per la prima volta in un contesto rock dai Beatles. Anche l’aspetto psichedelico della loro musica e
la propensione alla ricerca sulle tecniche di registrazione hanno un debito da saldare nei confronti del
quartetto di Liverpool (che, per uno strano gioco del destino, in quei giorni completa la produzione del Sgt.
Pepper proprio a Abbey Road, in uno studio attiguo a quello dei Floyd).
L’approccio dei Pink Floyd è comunque irriverente e proiettato verso ardite soluzioni psichedeliche, ben
lontano da quanto proposto nello stesso periodo da altri gruppi neoclassici, quali i Procol Harum di A whiter
shade of pale. Alla pulizia formale il complesso preferisce un impegno in bilico fra sperimentazione e
semplici melodie di base.
Barrett non insegue virtuosismi solistici ma si concentra sul rumore e sul fascino del timbro del suono,
confermandosi uno tra i più decisi innovatori dello stile del proprio strumento. Canzoni come Lucifer Sam e
Take up thy stethoscope and walk (con un memorabile trattamento nevrotico della sei corde) sono deviate
dalle originarie linee melodiche ; da parte sua, Wright disegna all’organo inconsueti arabeschi nelle ballate
psichedeliche di Matilda mother e The scarecrow, emoziona nelle atmosfere classiche di Flaming, nella
rumorista e suggestiva Pow R. Toc. H. e nell’enigmatica Chapter 24.
I brani più significativi e futuribili sono le magistrali Astronomy domine, sospinta in volo dalle pulsazioni
vitali della chitarra di Barrett e delle percussioni di Mason, e l’inarrivabile Interstellar overdrive, valvola di
sfogo delle ulcere sonore barrettiane risucchiate dai gorghi cosmici dell’organo di Wright.
Bike è pazzesca, con quella voce sfuggente e con l’orgiastico caos finale, quasi un prematuro epitaffio di
Barrett che poco dopo perde la misura, manifesta segni di squilibrio mentale ed entra in una sorta di trance
impenetrabile, costringendo i suoi compagni di viaggio a scaricarlo per non smarrire la strada del successo.
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La comunicazione tra Barrett e il resto del gruppo diviene impossibile, con il chitarrista
proteso verso qualcosa di troppo nuovo, di troppo diverso, e con i compagni incapaci
di seguirlo convenientemente. Viene contattato David Gilmour, amico di vecchia data
dello stesso Barrett, e per breve tempo i Floyd tentano di tenere a galla una
formazione a cinque, ma nel marzo 1968 Syd Barrett esce dal gruppo.
Il secondo album, A saucerful of secrets (giugno 1968), segna il trapasso dalla dolce,
allucinata follia dei primi lavori alle regole che fissano il classico stile dei Pink Floyd. Se
The piper at the gates of dawn è il capolavoro dell’era psichedelica inglese, il nuovo
disco acquista in peso strumentale, scandagliando immani profondità astrali in brani di
gran fascino, come l’ipnotico Set the controls for the heart of the sun (dove,
probabilmente, suona ancora Barrett) e Let there be more light, due composizioni di
Roger W aters che diventa il nuovo punto di riferimento creativo della formazione.
Il vertice del disco è la lunga ed ambiziosa title track, un’ardita mini suite in tre
movimenti quasi a carattere sinfonico che riveste notevole importanza nell’evoluzione
futura della musica dei Pink Floyd.
Barrett è presente in due registrazioni del 1967, Remember a day e la deliziosa
Jugband blues, che significativamente chiude in modo sarcastico la collaborazione del
musicista con il suo gruppo.
-8L’impatto d ei Traffic sulla scena musicale del 1967 è meno sconvolgente
rispetto a quello generato da Jimi Hendrix e dai Pink Floyd, né la formazione è in
grado di fare affidamento, come nel caso dei Beatles, su un’autorevolezza conseguita
negli anni del beat. Eppure , la loro musica (forse proprio per il fatto che evita clamori
sperimentali, preferendo attingere a svariate e tradizionali fonti d’ispirazione) è un
importante momento propositivo destinato a far scuola, e va considerata come la
prima riuscita sintesi nel campo del rock progressivo.
Dopo il successo commerciale con lo Spencer Davis Group ed esaurita la breve
parentesi di studio con i Powerhouse di Eric Clapton (1966), Stevie Winwood organizza
un nuovo nucleo di musicisti nella primavera del 1967, con l’int ento di dedicarsi ad
una musica ambiziosa. I componenti dei Traffic provengono da due formazioni della
zona di Birmingham : Dave Mason (ch.me.si.v.) e Jim Capaldi (bt.v.) hanno fatto
gavetta nei Deep Feeling, mentre Chris Wood (sf.or.v.) è reduce dai Locomotive. Il
nuovo gruppo mette a punto la propria formula musicale provando per alcuni mesi in
una fattoria del Berkshire e i singoli Paper sun (giugno ’67) e Hole in my shoe
(settembre ’67) raggiungono le zone alte della classifica di vendita.
TRAFFIC - MR. FANTASY
(Island - 1967)
Nel dicembre 1967 Mr. Fantasy dà forma ad una brillante fusione di folk, blues, jazz e soul, venata da una
morbida psichedelia. Il disco si apre con l’emozionante Heaven is in your mind, una ballata folk sorretta
dall’anima soul del piano di Winwood e della scarna batteria di Capaldi. Chris Wood colora la musica con i
fiati in modo naturale e discreto, senza forzature, raggiungendo vertici assoluti in No face no name no
number, una struggente canzone autunnale di cristallina bellezza, accarezzata dalla melodia del flauto che
evoca ricordi densi di nostalgia ; con la sua impostazione classica (organo, mellotron e clavicembalo) il
brano è un vero e proprio preludio al rock romantico degli anni settanta.
Coloured rain, marcata dall’incalzante organo di Winwood e nobilitata dall’elegante lavoro al sax di Wood,
e Dear mr. Fantasy (brano dal quale trae ispirazione Hey Jude dei Beatles), che si fonda su una felice
intuizione melodica risolta da un’infocata jam chitarristica, sono i manifesti psichedelici dei Traffic.
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Mason è responsabile dell’orientaleggiante Utterly simple, valida, ma troppo legata ad analoghe
esperienze dei Beatles, e della discreta Hope I never find me there ; degne d’interesse anche Dealer
(un brano di Capaldi) e il conclusivo strumentale blues jazz di Giving to you.
Dopo appena pochi mesi, il gruppo diviene instabile a causa delle divergenze sulla
conduzione artistica esistenti tra Winwood e Mason ; quest’ultimo abbandona per
dedicarsi ad alcune collaborazioni con grossi nomi del circuito rock (Stones, Hendrix) e
alla produzione degli emergenti Family. Da parte loro, nella primavera ‘68 Winwood e
Wood partecipano alle registrazioni di Electric Ladyland di Jimi Hendrix, apportando un
importante contributo al lavoro del chitarrista di Seattle.
I Traffic si riuniscono per le sessioni che danno vita al secondo album omonimo,
pubblicato nell’ottobre 1968 ; nonostante contenga materiale di ottima qualità, il disco
risente della difficile situazione interna e mostra i musicisti divisi sugli obiettivi da
raggiungere.
Da un lato Mason progetta una musica lineare e tradizionalmente rock, come
dimostrano il country di You can all join in e le belle ballate di Feelin’ alright ? e Don’t
be sad, dall’altro Winwood e Capaldi recuperano sonorità tipiche dei primi Traffic nelle
ottime Forty thousand headmen e No time to live. Notevoli sono Pearly queen,
dall’accattivante cadenza rock blues, e Cryin’ to be heard, un brano di Mason che
Winwood fa suo con un poderoso suono d’organo.
Il gruppo trova la forza per incidere un terzo album, Last exit (Island - maggio 1969,
con una parte dal vivo al Fillmore West), discreto anche se inferiore ai lavori
precedenti, prima che Winwood nel febbraio del ’69 decida di sciogliere il gruppo per
entrare nell’effimero nucleo dei Blind Faith.
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IL FUOCO E L’ACQUA
un ricordo di British blues
-9Sin dai primi mesi del 1966 nella scena del blues revival inglese inizia ad
affermarsi un nuovo atteggiamento, teso alla ricerca di una sistemazione
dell’originario linguaggio di recupero delle matrici blues all’interno di un contesto
espressivo progressivo.
Tra i pionieri del genere, un posto di rilievo spetta agli Yardbirds che per primi escono
dagli schemi consolidati del blues revival e del rock’n’roll, introducendo (già nel ‘65)
decisivi elementi di novità e giungendo ad un'ottimale sintesi nella seminale Shapes of
things, primo compiuto esempio di rock blues.
Neppure va dimenticata l’appartenenza a questa formazione di tre chitarristi di
primaria importanza, quali Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page, che con i rispettivi
gruppi saranno tra i più significativi esponenti del blues duro e progressivo.
Proprio nel 1966 Eric Clapton raccoglie sotto la sigla Powerhouse alcuni noti
musicisti dell’epoca, tra i quali Stevie Winwood, Pete York e il cantante Paul Jones ; in
questa effimera formazione ha modo di suonare assieme al bassista Jack Bruce, con il
quale matura l’idea di costituire un nuovo complesso. Nel luglio del ’66 è il produttore
Robert Stigwood a realizzare operativamente il progetto di un vero e proprio
supergruppo con Clapton, Bruce e il batterista Ginger Baker ; i Cream sono, di fatto,
il primo complesso triangolare della storia del rock, configurazione che sottintende una
diversa organizzazione del suono e dei compiti, nella quale ogni strumento acquisisce
(in particolare dal vivo) una valenza ritmica e solistica di reciproco stimolo.
E’ l’epoca dell’immigrazione londinese di Jimi Hendrix, che il primo di ottobre è ospite
del trio sul palco del Polytechnic ; Hendrix diventa grande ammiratore ed amico di
Clapton e tiene in debita considerazione l’insegnamento dei Cream, la potenza e la
tensione emotiva del loro blues, la propensione per una musica liberata dagli schemi
del successo di classifica e spinta verso modalità d’improvvisazione ancora sconosciute
in ambito rock. Come accade a mille altri gruppi, anche Hendrix crea la propria
formazione sull’esempio triangolare dei Cream e, di cert o, trae giovamento dalla
crescente popolarità di Clapton e soci e dall’affermazione dei principi della loro musica.
Appena un attimo dopo la situazione si ribalta : saranno i Cream, e tutti gli altri
musicisti inglesi del periodo, ad inseguire le teorie evolutive hendrixiane.
Nel dicembre 1966 viene dato alle stampe il primo album Fresh Cream che, pur non
essendo esente da pecche, ha il merito di mostrare gli elementi portanti dello stile del
gruppo. Il disco contiene numerose versioni di classici blues, reinterpretati con grande
potenza e dinamismo : nelle varie Spoonful (Dixon), Rollin’ and tumblin’ (Waters) e
Cat’s squirrel la chitarra di Clapton, pur mantenendo una lirica classicità, indurisce
notevolmente il suono, sostenuta da un’eccellente sezione ritmica capace di andare
ben oltre ad un mero ruolo d’accompagnamento. La produzione originale dei Cream
appare ancora piuttosto incerta, anche se i timidi frammenti di N.S.U., Toad e Sweet
wine diventano dal vivo solide basi per lunghe, incandescenti improvvisazioni
strumentali.
Come altre importanti formazioni del tempo (Beatles, Rolling Stones, Animals), i
Cream nel 1967 aderiscono all'imperante cultura psichedelica con la realizzazione del
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secondo album Disraeli gears, che in parte ripropone il caratteristico power blues e in
parte si espone al contagio del morbo lisergico. Il disco segna il passaggio della
produzione da Robert Stigwood a Felix Pappalardi (futuro bassista dei Mountain),
capace d’offrire anche un valido contributo come sessionman, e determ ina il
consolidamento della proficua collaborazione tra Jack Bruce e il paroliere Pete Brown,
che proseguirà nei successivi lavori dei Cream e dello stesso bassista. Tra i brani
spicca prepotente la sagoma di Sunshine of your love, un rock blues scolpito n ella
roccia con un riff epocale di chitarra ; è il pezzo più ricordato dell’intero repertorio (si
dice dedicato a Hendrix) e fissa definitivamente i tratti salienti della musica del
gruppo. L’ottima Tales of Brave Ulysses si ricollega al suono tradizionale del
complesso, come pure l’aggressiva Swlabr mentre al versante flower power appartiene
l’iniziale Strange brew, che propone cadenze meno ruvide e un suono più colorito,
oltre alle melodiche e sognanti World of pain (un bel brano di Pappalardi), Dance the
night away e We’re going wrong.
Disraeli gears va, in ogni caso, considerato un lavoro di transizione, con il gruppo
ancora alla ricerca di una piena maturità espressiva che, in parte, giunge con il
seguente Wheels of fire.
CREAM - WHEELS OF FIRE (2 LP Polydor - 1968)
Il doppio album si compone di un disco registrato in studio, con l’aiuto del produttore Pappalardi in qualità
di musicista aggiunto, e di una parte dedicata al resoconto di un concerto tenuto nel marzo 1968 al Fillmore
West.
I brani più significativi del disco di studio sono due composizioni di Jack Bruce (sempre coadiuvato dal fido
Pete Brown), la stupenda White room, caratterizzata dalla lirica frase introduttiva, vero miracolo d’equilibrio
tra il ruvido rock blues di base e la formidabile linea melodica vocale, e la cadenzata Deserted cities of the
heart, che s’avvale di ricercati arrangiamenti per viola e violoncello.
Il blues emerge prepotente nelle notevoli interpretazioni di Sitting on top of the world (Howlin’ Wolf), Born
under a bad sign e Politician, un originale brano composto da Bruce / Brown.
La sognante Passing the time, la bella Those were the days e l’atipica Pressed rat and warthog, tutte di
Ginger Baker, sono valorizzate dagli interventi con viola, tromba e percussioni di Pappalardi, e ancora va
ricordata l’obliqua melodia di As you said, che anticipa atmosfere care alla futura produzione solistica di
Jack Bruce.
In sintesi, le registrazioni di studio di Wheels of fire appaiono tanto brillanti ed originali, quanto espressione
di tre musicisti divisi sulla direzione artistica da intraprendere e con Clapton totalmente escluso in fase
compositiva.
Il disco dal vivo si apre con l’energica versione del blues di Robert Johnson Crossroads, completamente
riscritta per l’occasione ; la seguente Spoonful (Dixon) mostra il virtuosismo dei musicisti e risulta un po’
prolissa, pur appassionando a tratti per la volontà di tirare al massimo gli strumenti, in perenne rincorsa tra
loro. Traintime (un brano di Bruce, già nel repertorio di Graham Bond) è una performance per armonica che
sfocia nella durissima Toad, introduzione ad un ottimo ma interminabile assolo di Baker.
Dopo appena due anni dalla nascita forti tensioni interne portano al termine
dell’avventura con uno spettacolare concerto d’addio (che diventa anche un film
musicale) tenuto il 26 novembre 1968 alla Royal Albert Hall di Londra.
Ciò che resta viene pubblicato l’anno successivo, nel postumo Goodbye (Polydor1969) che contiene buone versioni dal vivo di I’m so glad, Politician, Sitting on top of
the world e una manciata di brani di studio tra i quali emerge la bella melodia di
Badge, una canzone di chiaro stampo beatlesiano composta da Clapton assieme a
George Harrison, che vede la presenza dell’ex Beatles alla seconda chitarra e del solito
Pappalardi alle tastiere.
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Allo scioglimento dei Cream, Jack Bruce decide di percorrere la strada solistica
ottenendo interessanti risultati artistici ; Clapton e Baker, invece, restano insieme per
la controversa ed effimera esperienza dei Blind Faith. La nuova formazione si
atteggia, ancor più dei Cream, a supergruppo, per via della presenza dell’affermato
Stevie Winwood e di Ric Grech (bs.vi. - proveniente dai Family). Sull’operazione
aleggia il sospetto di precisi calcoli commerciali sin dal debutto ufficiale che avviene il
7 giugno 1969, in occasione di un concerto tenuto a Hyde Park di fronte a 100.000
persone e la musica del gruppo non risulta così incisiva come avrebbe dovuto, viste le
capacità dei musicisti coinvolti nel progetto.
Il materiale del loro unico disco pubblicato (Blind Faith, Polydor-1969) è valido, ma il
gruppo non osa, il suono estremamente misurato resta ancorato a reminiscenze
Cream e Traffic, privo di sbavature ma anche di particolari sussulti, con un'equa
divisione dei ruoli tra i musicisti. L’iniziale Had to cry today è un perfetto esempio del
loro stile, con la chitarra di Clapton a sciorinare un piacevole hard blues senza uscire
dalle righe e la stentorea voce di Winwood (autore del brano) che non è certo la più
adatta alle atmosfere forti del rock blues. Nonostante il buon assolo centrale e quello
finale (notevole, con due chitarre soliste sovraincise) Clapton non riesce a ripristinare
il tipico clima da jam dei Cream e, alla lunga, il brano suona ripetitivo.
Sea of joy, una canzone vicina ai Family più intimisti valorizzata dal violino di Grech,
gode della scrittura e dell’interpretazione di Winwood risultando tra gli episodi migliori,
così come l’unico brano di Clapton, il classico Presence of the Lord, giocato sul
contrasto tra il sofferto preludio dai toni gospel e l’improvvisa eruzione centrale della
chitarra.
A promozione dell’album il gruppo s’imbarca in una tournée americana, al termine
della quale (nel gennaio 1970) Clapton e compagni decidono di separarsi, lasciandosi
alle spalle il dubbio di una grande occasione persa.
- 10 Il 1968 è per Jimi Hendrix l’anno della consacrazione ai vertici della scena
rock mondiale. Il baricentro della sua attività si sposta decisamente negli U.S.A., dove
tiene la maggior parte dei concerti (sempre affiancato dall’Experience) ed effettua,
agli studi Record Plant di New York, la quasi totalità delle registrazioni che formano
l’ossatura del nuovo ambizioso album.
JIMI HENDRIX EXPERIENCE - ELECTRIC LADYLAND (2LP Track - 1968)
Electric Ladyland, pubblicato nell’ottobre 1968, nonostante sia accreditato alla Jimi Hendrix Experience può
essere considerato come un disco solista del chitarrista, che per la prima volta si avvale di numerosi
collaboratori esterni ; in particolare l’apporto di Noel Redding è molto ridotto (è titolare della decorosa Little
miss strange ma in circa metà dei brani viene sostituito al basso da Jimi) mentre Mitchell, batterista ideale
per Hendrix, è saldamente al suo posto, a parte un paio di pezzi nei quali dietro ai tamburi siede Buddy
Miles.
Hendrix produce autonomamente quasi tutto il materiale e il suono risulta più curato, senza perdere in
aggressività ed espressività. C’è un ampio uso di ricercate tecniche di registrazione e molte canzoni sono
realizzate attraverso fasi di lavorazione più lunghe e complesse del solito.
I nastri manipolati di ...and the gods made love, la raffinata melodia di Have you ever been (to electric
ladyland) e la ritmata Crosstown traffic (con Dave Mason ai cori) servono da introduzione al primo
capolavoro dell’album, Voodoo chile. Il brano è un lungo blues originale che vede la presenza del bassista
Jack Casady (Jefferson Airplane / Hot Tuna) e di Stevie Winwood all’organo. Hendrix disegna linee di
chitarra nitide e profonde, creando un’atmosfera impregnata di tensione che rende unico l’incedere del
pezzo, valorizzato da una sezione ritmica potente e dall’ottimo lavoro di Winwood.
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Come on - Let the good times roll, un ottimo blues & roll senza peli sulla lingua (opera di Earl King) e Gypsy
eyes, un soul rock dominato da chitarre graffianti, riportano ad un rock immediato e serrato.
Burning of the midnight lamp, registrata nel luglio ’67 e prodotta da Chandler come singolo nel settembre
dello stesso anno, è una delle più elaborate canzoni di Jimi, dotata di una bella melodia epica e decadente e
caratterizzata dall’uso di clavicembalo e mellotron (per le armonie vocali). Rainy day, dream away, che ha
una singolare ‘reprise’ in Still raining, still dreaming, è un raffinato blues jazz dove Hendrix esibisce
magistralmente l’effetto wah-wah della chitarra ; nell’occasione sono presenti Freddie Smith (sax.), Mark
Finnigan (or.) e Buddy Miles (bt.), coadiuvato da Larry Faucette (pr.). Il brano sfocia nella stupenda
1983...(a merman I should turn to be), un affresco sonoro maestoso e di grande suggestione. Nel viaggio
Hendrix è accompagnato da un Mitchell ispirato e dal flauto di Chris Wood ; la sua produzione è a tratti
eccessivamente d’effetto ma il lirismo poetico della canzone inebria il suono, che ondeggia fino a
sprofondare in gelidi abissi marini e si dissolve nella coda rumorista di Moon, turn the tides... House burning
down, con la fiammeggiante chitarra trattata dall’effetto phasing, crea la giusta tensione per il travolgente
finale del disco.
All along the watchtower (una canzone di Dylan, dall’album John Wesley Harding) è completamente riscritta
da Hendrix che ne modifica il significato sostanziale ; tanto l’originale di Dylan è un timido folk rock scarno
ed essenziale, quanto l’edizione di Jimi si fregia di soluzioni fantasiose, affidandosi ad una ritmica serrata e
alla magia delle chitarre che si librano in volo verso orizzonti di straordinaria bellezza.
Il contrasto con la conclusiva Voodoo child è aspro, torna a trionfare il magnifico marasma sonoro
dell’Experience in un rituale selvaggio, sconvolto da chitarre che sputano fulmini, che provocano scosse
telluriche, che graffiano come artigli la corteccia stagionata del blues.
Electric Ladyland è l’apice della creatività hendrixiana ed è anche l’inizio della fine
dell’Experience, con il leader desideroso di provare nuove esperienze e con Redding
che si sente trascurato, smanioso di affermare le proprie capacità come propulsore del
suo gruppo, i Fa t Mattress. Dal vivo il trio si conferma convincente, come dimostrano
i concerti dell’ottobre 1968 al Winterland di San Francisco, quelli europei d’inizio 1969
(in particolare Stoccolma) e il famoso spettacolo del 24 febbraio tenuto alla Royal
Albert Hall di Londra con la partecipazione di Dave Mason e Chris Wood.
Sciolta l’Experience nel giugno ’69, Hendrix sospende la stressante attività live per
predisporre un’ampia formazione che gli permetta di esprimere una musica più
articolata. L’esperimento dei Gypsy Sons and Rainbows dura soltanto il tempo
dell’importante esibizione che segna la chiusura del festival di Woodstock, la mattina
del 18 agosto 1969.
In seguito Hendrix matura l’idea di un nuovo ristretto nucleo composto da soli
musicisti di colore, che si concretizza in ottobre con la fondazione della Band of
Gypsys ; lo accompagnano nella breve avventura il metronomico Buddy Miles (bt.) e il
vecchio amico Billy Cox (bs.). Il suono della formazione è meno fantasioso ed
aggressivo rispetto alla gloriosa Experience, imperniato su un accattivante soul blues
che solo a tratti (Machine gun) permette a Jimi di esprimersi liberamente all’interno di
una struttura troppo rigida e calcolata.
Dopo l’esito deludente dell’ambizioso Rainbow Bridge Vibratory Color Sound
Experiment (luglio ’70 - isola di Maui, con Mitchell e Cox) e in seguito
all’inaugurazione a New York dello studio privato di registrazione Electric Lady,
Hendrix torna in Inghilterra per partecipare al festival dell’isola di Wight dove suona
(all’alba d el 30 agosto) una controversa e sofferta esibizione, mai giustamente
apprezzata per il suo effettivo valore musicale e storico.
Hendrix è allo stremo delle forze ; nei giorni successivi effettua alcune date nel nord
Europa (in Danimarca abbandona il palco dopo due soli brani) e il 6 settembre tiene il
suo ultimo concerto nell’allucinante atmosfera del Love and Peace Festival, tenuto in
Germania nell’isola di Fehmarn.
Il 18 settembre 1970 muore a Londra, in circostanze mai definitivamente chiarite ;
con Jimi Hendrix scompare il più importante ed influente chitarrista di tutto il rock.
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- 11 La splendida trilogia blues elaborata da John Mayall tra il 1966 e il 1967
(Bluesbreakers - John Mayall with Eric Clapton, A hard road e Crusade) vanta
l’indiscutibile merito di lanciare diversi giovani musicisti che affermano, negli anni
immediatamente successivi, le loro doti in proprie formazioni di blues progressivo.
Da quelle edizioni dei Bluesbreakers provengono Eric Clapton, fondatore dei Cream,
Peter Green e John McVie, poi nei Fleetwood Mac, il chitarrista Mick Taylor (che nel
luglio ’69 sostituisce Brian Jones nei Rolling Stones) e i batteristi Aynsley Dunbar e
Keef Hartley, in seguito titolari di complessi di buon valore.
In seguito alla pubblicazione di Crusade, Mayall è costretto a riorganizzare i
Bluesbreakers per l’ennesima volta e la scelta si rivolge ad un gruppo orientato verso
un blues meno canonico, con accenti jazzati e uno stile progressivo. Ne esce
un’ambiziosa formazione a sette che, oltre al leader e a Mick Taylor, presenta Dick
Heckstall Smith, Jon Hiseman (bt.), l’ottimo Tony Reeves (bs.) e una corposa sezione
fiati con Chris Mercer e Henry Lowther (che si esibisce anche al violino).
JOHN MAYALL’S BLUESBREAKERS - BARE WIRES (Decca - 1968)
Bare wires è idealmente suddiviso tra una prima sezione costituita da una singolare suite blues che titola l’intero
lavoro e una seconda parte più in linea con la precedente produzione di Mayall. Gli aspetti moderatamente
innovativi e sperimentali della suite di Bare wires, interamente composta da Mayall, creano un affascinante
contrasto con il blues sempre rigoroso della struttura complessiva dell’opera, sostenuta da una sezione ritmica che
si affida alla colorita poliritmia di Hiseman e alle capacità tecniche di Reeves, e valorizzata dall’inserimento dei
fiati che dettano gli arrangiamenti con originalità.
Come al solito il gruppo dura lo spazio di un LP in quanto Hiseman, Reeves e Heckstall
Smith nello stesso anno elaborano il progetto Colosseum. Gli ultimi lavori di notevole
interesse, entrambi del ’69, restano l’esuberante roccato Blues from Laurel Canyon e
l’acustico raffinato The turning point (Polydor).
Il primo nucleo dei Fleetwood Mac prende corpo nel luglio ’67 quando Peter Green e
Mike Fleetwood (bt.), già assieme nei Shotgun Express, si uniscono a Jeremy Spencer
(ch.) e a Bob Brunning (bs.). Poco dopo l’esordio del gruppo (in agosto, al Windsor
Jazz & Blues Festival) il bassista abbandona per dedicarsi alla propria Sunflower
Band ; al suo posto entra McVie che pone termine alla collaborazione con Mayall.
E’ il produttore Mike Vernon ad offrire al complesso un contratto con la sua etichetta
appena costituita, la Blue Horizon. Sono così pubblicati il primo album omonimo (Blue
Horizon-1967) e il secondo Mr. Wonderful (Blue Horizon-1968), con i quali i Fleetwood
Mac si affermano in modo autorevole nel panorama del blues inglese, facendo leva su
uno stile piuttosto classico.
La presenza di un talento del calibro di Green, naturalmente portato ad affrontare la
materia blues con spirito innovativo, spinge il gruppo ad elaborare la musica in senso
progressivo e l’ingresso in organico di un terzo chitarrista (Danny Kirwan) accentua
ancor più questo processo evolutivo.
Nel novembre ’68 esce il singolo Albatross, un brano melodico che differisce in modo
evidente dalla produzione precedente ma la mossa successiva appare ancora
saldamente legata alla tradizione e vede i Fleetwood Mac registrare, nel gennaio 1969,
i nastri per un doppio LP nei mitici studi Chess di Chicago, a diretto confronto con
musicisti quali Shakey Horton, Willie Dixon e Otis Spann. La musica contenuta in
Blues jam at Chess (1969) è sanguigna ed appassionante, ma i tempi sono pronti per
un deciso cambiamento di rotta ; purtroppo questo avviene solamente per il materiale
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inserito nell’album Then play on (1969), un disco di valore anche se non privo di
sbavature.
L’album viene commercializzato in modo caotico, con svariate differenti versioni sia
per il mercato inglese sia per quello americano. Tra i brani sparsi sono da sottolineare
i notevoli contributi di Green in Show-biz blues, che calca la mano sul folk blues più
coinvolgente, in Underway, dotata di una melodia avvolgente che si collega a certo
suono ‘acquatico’ alla Hendri x, nella pacata Before the beginning, che mostra il suo
fluido stile caldo e passionale. Due composizioni si collocano ai vertici dell’album : la
mutevole Oh well, che passa dal torrido clima hard blues dell’ouverture agli sprazzi
classicheggianti della lunga e suggestiva coda acustica, e l’elettrizzante Rattlesnake
shake, caratteristica nell’incedere pesante e caracollante, poggiata su una serie di
marmorei riff delle chitarre che rendono il brano un vero manuale del rock blues.
Gli ultimi frutti del lavo ro di Peter Green sono raccolti nei 45 giri di Man of the world e
Green Manalishi, subito prima dell’improvviso abbandono da parte del chitarrista
all’inizio del 1970.
Tra i musicisti che entrano a far parte dei Fleetwood Mac negli anni settanta è da
sottolineare la presenza della moglie di John McVie, Christine Perfect, cantante e
tastierista con alle spalle un’interessante avventura nei Chicken Shack, formazione
ideata dal chitarrista Stan Webb.
Nel 1968 il gruppo pubblica l’album d'esordio, 40 blue fingers freshly packed & ready
to serve (prodotto da Mike Vernon), al quale collaborano Dick Heckstall Smith e
Johnny Almond ai sassofoni. La musica ha dei solidi punti di riferimento nel blues
revival dei primi anni sessanta e nei Bluesbreakers di Mayall, accostando alla matrice
tradizionale l’attitudine ad un suono non eccessivamente curato ed elaborato, che fa
della semplicità espressiva il suo punto di forza.
Sempre sotto la produzione di Vernon, nello stesso anno vengono effettuate le brevi
sessions che generano il secondo LP O.K. Ken ?, lavoro che non aggiunge novità alla
loro proposta musicale ed appare leggermente inferiore al precedente. Nel 1969 i
Chicken Shack ottengono un buon successo con il singolo I’d rather go blind, una
canzone del repert orio di Etta James che raggiunge le parti alte della classifica di
vendita, poco prima che la Perfect abbandoni per entrare nei Fleetwood Mac, destinati
alla conquista delle classifiche mondiali con la produzione di musica di facile ascolto
che nulla ha da spartire con i fasti blues dei sessanta.
Quando all’inizio del 1970 Peter Green decide di lasciare i Fleetwood Mac il
musicista è all’apice della popolarità, leader di uno dei più rispettati gruppi dell’epoca
e chitarrista tra i migliori della sce na rock. In realtà l’imprevedibile dipartita di Green
evidenzia una grave crisi esistenziale, acuita da problemi legati all’assunzione di
notevoli quantità di alcool e droghe. Da qui la necessità di chiudere il conto con
l’assillante stile di vita proprio dello star system, senza ripensamenti, con il musicista
che arriva addirittura a devolvere in beneficenza i diritti e i guadagni derivanti dalla
vendita dei suoi dischi, quasi a volersi spogliare di ogni superfluo fardello di notorietà.
PETER GREEN - THE END OF THE GAME
(Reprise - 1970)
In una situazione di così profonda instabilità psichica, Green riesce a trovare la lucidità per registrare un
disco solistico di straordinaria bellezza, che con amara ironia viene intitolato The end of the game.
Registrato nel maggio 1970 con l’aiuto di musicisti di notevoli capacità quali Zoot Money (pn.) e Alex
Dmochowsky (bs. - membro della Retaliation di Aynsley Dunbar), senza l’ausilio di produzioni esterne, il
disco vede la luce in settembre generando costernazione tra gli appassionati, che si aspettano qualcosa di
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simile a Bluesbreakers e Fleetwood Mac, e spiazzando gli stessi addetti ai lavori, portati a reagire per lo più
negativamente di fronte ad una musica senza inizio né fine, ben lontana dal consolidato concetto di canzone
blues e rock’n’roll.
In effetti, più che un disco tradizionalmente rock The end of the game appare come un estremo tentativo,
privo di compromessi, di rendere comprensibile la grande passionalità dell’anima di Green, di cogliere
l’attimo fuggente della propria arte tramite una musica in libertà, disinibita, aperta a contaminazioni di ogni
genere, dotata di estatiche vibrazioni e d'improvvisi cambi d’umore.
La materia trattata è completamente strumentale e le parti liriche spettano di diritto alla chitarra che canta
d'amore e sofferenza, di splendori e di disillusione. Naturalmente un’opera siffatta non vende, ma questa è di
certo l’ultima preoccupazione di Peter Green, ormai destinato ad una dolorosa, autonoma emarginazione dal
music business.
L’apertura spetta al vortice senza vie d’uscita di Bottoms up, un’informale jam funky blues dove Green mette
a frutto la lezione hendrixiana, cavalcando con autorità le potenti ondate ritmiche (notevole il lavoro al basso
di Dmochowsky) e insinuandosi tra le pieghe del suono, quando la cadenza rallenta e prende respiro.
L’introduzione di Descending scale mette in luce il piano di Zoot Money, fino all’impatto con la chitarra che
geme disperatamente trasformando il brano in un’ostica improvvisazione a forma libera. Burnt foot si affida
a modi jazzati che evolvono in un’enfasi ritmica liberatoria ; Hidden depth è rarefatta e rilassata (come pure
il breve frammento di Timeless time), illuminata dalla chitarra languida ed espressiva. La conclusiva The end
of the game esplode nel turbine impetuoso dello strumento di Green, per poi navigare verso l’ignoto in una
sensazione di pace irreale.
La leggenda vuole che Green, negli anni settanta, entri un paio di volte in manicomio
e, per sopravvivere, si dedichi ad umili attività (becchino, infermiere ecc.) : la dura
realtà ci riconsegna, nel 1979, un musicista ben diverso, impegnato con uno stuolo di
onesti mestieranti (si confondono nel mucchio anche il vecchio amico Peter Bardens e,
in un solo brano, il batterista Godfrey Maclean) nella realizzazione dell’album In the
skies, lavoro stanco e di modesti contenuti.
Una storia finita male, ma non troppo, con la passione e l’amore per la musica, con
fasti e disgrazie, e perciò ancor più vera. In ogni caso, alla fine del gioco, restano la
musica e lo stile di grande strumentista di Peter Green, tra i maggiori innovatori del
rock progressivo inglese.
Tra i gruppi derivati in linea retta dai Bluesbreakers, meritano di essere ricordate
almeno altre tre formazioni in grado di proporre una musica di buon livello nel
panorama del British blues, sia pure partendo da presupposti e con stili diversi. Si
parla di Aynsley Dunbar Retaliation, di Keef Hartley Band, di Mark -Almond.
Nell’estate 1966 Aynsley Dunbar entra in una delle più importanti edizioni del gruppo
di John Mayall, quella con Peter Green e John McVie che alla fine dello stesso anno
registra A hard road. Per la sua Retaliation, nel 1968, il neo leader s’avvale della
collaborazione del cantante Victor Brox (già con Alexis Korner), di John Moorshead
(ch.) e di Keith Tillman (bs.), presto sostituito da Alex Dmochowsky.
Così sistemato, il gruppo registra i primi due album, Aynsley Dunbar Retaliation
(Liberty-1968) e Dr. Dunbar prescription (Liberty-1969), validi anche se legati ai
collaudati schemi del blues revival e privi di riscontro commerciale.
AYNSLEY DUNBAR RETALIATION - TO MUM, FROM AYNSLEY AND THE BOYS
(Liberty - 1969)
L’avvento in organico di Tommy Eyre, tastierista della Grease Band (il gruppo di Joe Cocker, suo
l’indimenticabile organo di With a little help from my friends), apporta sostanziali novità nella musica del
complesso. Pur mantenendo una chiara impostazione blues (c’è la produzione di John Mayall) il suono
acquisisce un approccio decisamente moderno, con una tendenza vagamente jazz sotto l’aspetto timbrico ;
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l’equilibrio e il buon gusto dei musicisti fanno il resto, rendendo la proposta raffinata e, al tempo stesso,
dotata di notevole dinamismo.
L’assenza di successo rende difficile la vita della Retaliation che, nel 1970, attraversa
una crisi piuttosto profonda, con lo stesso Dunbar che si defila momentaneamente.
Ancora due dischi (Remains to be heard, Liberty) e Blue whale (Warner Bros.), la
collaborazione a diverse registrazioni di F rank Zappa (tra il ’70 e il ’72), nel ’74
Diamond dogs di David Bowie, infine Dunbar raccoglie i frutti di una gloriosa carriera
partecipando alle fortune commerciali dei Journey e degli stracotti Jefferson Starship.
Il batterista Keef Hartley, già in Artwoods e nei Bluesbreakers di Crusade, dà vita
nel 1968 ad una propria band con Miller Anderson e Spit James (ch.), Peter Dines (ts.)
e Gary Thain (bs.) ; il suono parte, ovviamente, da presupposti blues ma la proposta
manca del rigore stilistico della Retaliation, né riesce a colmare le lacune con un
impatto forte degli strumenti. L’aspetto più originale va ricercato nell’afflato melodico
di gran parte del materiale presente sul primo album Halfbreed, registrato sul finire
del 1968.
I successivi The battle of north west 6 (Deram-1969), che vede la partecipazione di
Mick Taylor, e The time is near (Deram-1970) sono dischi dignitosi che non
aggiungono granché a quanto espresso nell’album d’esordio.
Il chitarrista Jon Mark e il sassofonista Johnny Almond costituiscono l’ossatura del
complesso di John Mayall che nel 1969 registra il long playing di The turning point. Ai
due si uniscono Tommy Eyre (ts.), al termine dell’avventura con i Retaliation, e Roger
Sutton (v.ch.bs.pr.vc.) proveniente dai Jody Grind.
I Mark-Almond rappresentano l’espressione soft della scena del blues progressivo
inglese, con la particolarità di una musica completamente acustica che associa
rarefatte atmosfere folk blues a raffinati toni di derivazione jazzistica. Il limite della
loro proposta risiede nella natura stessa dello stile, indolente ed esasperatamente
ricercato, che affascina ma, pure, congela le emozioni in fragili cristalli sonori.
L’omonimo album d’esordio del 1971 sintetizza al meglio i concetti creativi del gruppo,
ad iniziare dall’estatica pace gospel di The ghetto che funge da suggestiva
introduzione al lavoro. La delicata chitarra di Mark ricama movenze eleganti nella
calda The city, prima di un repentino ritorno al minimalismo timbrico, quasi
cameristico, di Tramp and the young girl, caratterizzata da vibrafono (Almond), flauti
e violoncello.
La mini suite di Love è il brano più ambizioso del disco, dove il ritmo s’accende
all’improvviso creando un concreto punto di riferimento per gli spunti solistici di una
moltitudine di strumenti ; la chiusura è riservata ai bagliori rifratti delle sensazioni
jazz di Song for you.
- 12 Jeff Beck entra negli Yardbirds in sostituzione del dimissionario Eric Clapton
nel marzo 1965, dopo una breve gavetta con i Tridents, e vi resta sino al novembre
1966, quando abbozza l’idea di una propria formazione che s'inserisca con autorità
nella nascente era del rock blues, inaugurata dai bollenti eccessi sonori di Jimi Hendrix
e dal power blues dei Cream.
La prima vers ione del complesso si concretizza nel 1967 e s’avvale dell’apporto di Rod
Stewart (v. - Steampacket, Shotgun Express), di Ron Wood (Birds, Creation ingaggiato come bassista) e di Aynsley Dunbar ; il batterista preferisce continuare per
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la sua strada form ando nel ’68 la Retaliation e il posto ai tamburi viene rilevato da
Mick Waller, ex Steampacket.
JEFF BECK - TRUTH
(Columbia - 1968)
Truth fissa con determinazione i punti fermi di un rock blues conciso e muscoloso, che mostra chiaramente
la via da seguire per giungere all’hard più creativo. Se i Cream dirigono la loro musica verso
l’improvvisazione radicale, espandendo all’inverosimile la struttura delle canzoni in particolare nelle
esibizioni dal vivo, Jeff Beck preferisce seguire l’insegnamento del primo Hendrix, proponendo creazioni
stringate, mirate ad un diretto coinvolgimento fisico dell’ascoltatore. E’ fuori di dubbio che da queste solide
basi attingono a piene mani gruppi come Free e, soprattutto, Led Zeppelin, per la messa a punto di uno stile
hard blues di grande impatto emotivo e commerciale.
Certo non è casuale la scelta d’aprire il disco con Shapes of things (dal repertorio degli Yardbirds), brano che
segna un fondamentale momento evolutivo del British blues, rivolto verso nuovi orizzonti. Beck riscrive la
canzone sotto l’aspetto ritmico e melodico, con l’apporto decisivo del fraseggio agile ed insistente del basso
di Wood e del caldo timbro vocale di Stewart, tra i cantanti più adatti al genere. Il suono è indurito da un
eccellente lavoro di Beck, che sovrappone diverse parti di chitarra riuscendo a donare al brano una
consistenza inedita.
Rod Stewart si propone come compositore di alcune ottime canzoni, tra le quali risalta la possente Let me
love you, dominata da un pregevole assolo di chitarra che conferma Beck grande strumentista ed innovatore ;
valide anche Rock my plimsoul, che segue le medesime coordinate sonore, e Blues de luxe, un blues ordinato
che permette di apprezzare l’operato al piano di Nicky Hopkins, in una finta atmosfera live.
Tra le versioni di classici del blues spiccano due composizioni di Willie Dixon, You shook me, della quale
terranno debito conto i Led Zeppelin sul loro album d’esordio, e I ain’t superstitious, con Beck che si supera
all’effetto wah-wah.
Beck’s bolero è un breve e gustoso omaggio ai modi di Ravel, con le chitarre che ondeggiano sfuggenti sul
ritmo ossessivo spezzato, nella parte centrale, da una poderosa esplosione hard. La session, che risale al
1966, è realizzata da una formazione di gran prestigio, con Beck e Jimmy Page (autore del brano) alle
chitarre, Nicky Hopkins (pn.), John Paul Jones (bs.) e Keith Moon (bt.).
Non tutto l’album è su livelli così elevati, ma qualche piccola caduta di tono non toglie a Truth il rilievo
storico che merita nell’ambito della nascente scena rock blues.
Nel 1969 il Jeff Beck Group si ripropone con l’ingresso a pieno titolo di Nicky Hopkins,
mentre Waller viene sostituito dall’ottimo Tony Newman, proveniente dai Sounds
Incorporated. Il gruppo concede il bis con l’album Beck-Ola che conferma le qualità
della musica senza aggiungere grandi novità, risultando disco compatto e privo di
sbavature. Anche in Beck-Ola trovano posto belle versioni di classici quali All shook up
e Jailhouse rock, ma l’apporto creativo d ei membri del gruppo è accresciuto come
dimostrano Plynth (water down the drain) e Hangman’s knee. Di rilievo la conclusiva
Rice pudding, una ruvida jam caratterizzata da una delicata parentesi centrale, dove
Beck e Hopkins tolgono il respiro approntando u n fraseggio d’incantata bellezza che
anticipa le atmosfere esportate in California dallo stesso Hopkins, sull’album
Volunteers dei Jefferson Airplane.
L’improvviso scioglimento della formazione, nel luglio 1969, porta Stewart e Wood
(tornato alla sei corde) all’unione con gli ex Small Faces Ronnie Lane, Ian McLagan e
Kenny Jones per la nascita dei Faces, onesto gruppo rock blues di buon successo con
diversi album all’attivo.
Sciolta la congrega dei Faces nel 1975, in seguito all’abbandono di Stewart lanciato
verso una proficua carriera commerciale, Ron Wood pesca il jolly dell’intera carriera
rilevando il posto di Mick Taylor nei Rolling Stones.
Una nuova edizione del Jeff Beck Group nasce nel 1971 e nell’arco di un paio d'anni
pubblica Rough and ready (Epic-1971) e Jeff Beck Group (Epic-1972), due dischi di
simile livello qualitativo caratterizzati da un hard melodico con venature soul e
qualche vaga sfumatura jazz.
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I Black Cat Bones sono un’oscura formazione del primo rock blues inglese, nella quale
militano il chitarrista Paul Kossoff e il batterista Simon Kirke. I due non riescono ad
incidere con il gruppo e all’inizio del 1968 provano a cercare maggior fortuna nei
Free, assieme al cantante Paul Rodgers e al bassista sedicenne Andy Fraser. Nello
stesso anno il gruppo esordisce brillantemente con l’album Tons of sobs, che mette
subito in chiaro gli elementi basilari del loro rock blues, tirato e sudato, in brani di
notevole spessore quali Worry, Goin’ down slow, Moonshine, I’m a mover.
Rodgers s’impone come uno dei migliori interpreti del genere, dotato di un timbro
vocale caratteristico e di un approccio personale, bilanciando sapientemente una
trasandata aggressività con l’ottima predisposizione melodica. Kossoff è un chitarrista
piuttosto originale, in gra do di fornire un buon impatto ritmico e un apporto solistico
asciutto ed essenziale, sostenuto dal basso irrefrenabile di Fraser e dalla metronomica
batteria di Kirke.
FREE - FREE
(Island - 1969)
Il secondo long playing, pubblicato nell’autunno del 1969, raggiunge l’apice delle possibilità espressive dei
Free. Così come Tons of sobs mostra la potenza e la vitale aggressività del suono con il blues roccato e urlato
di Worry, Free propone subito, con I’ll be creepin’, arrangiamenti curati ed eleganti mediante l’uso di tempi
rallentati e di frequenti aperture melodiche.
Fraser e Rodgers, autori di quasi tutte le composizioni, propongono un’alternanza tra brani lenti, melodici e
canzoni di maggior spessore ritmico, senza mai scadere in sonorità scontate o banali. Songs of yesterday
marca il tempo in modo deciso, con il sostegno fantasioso del basso di Fraser e della possente batteria di
Kirke. Se la raffinata Lying in the sunshine non convince del tutto, notevoli sono invece la rarefatta
Mouthfull of grass (uno strumentale illuminato dalla lirica chitarra di Kossoff, che accarezza le note con
disarmante semplicità) e la sofferta ballata blues di Free me. Trouble on double time s’affida ad un
accattivante rhythm & blues dotato di un’originale coda finale a tempo di valzer, mentre Woman mostra il
gruppo compatto ed aggressivo. Broad daylight e Mourning sad morning sono belle ballate, elettrica ed
indolente la prima, acustica e malinconica l’altra, a conclusione di un disco originale e ricco di fascino.
I Free sono all’apice della notorietà quando, nel 1970, incidono il terzo LP Fire and
water, che li conferma ancora ad alto livello. Il disco contiene una ‘long version’ di All
right now (grande successo a 45 giri), sicuramente ben costruita anche se non troppo
fantasiosa e alcune canzoni mostrano un suono piuttosto rilassato, in qualche caso
convincente (Oh I wept, Heavy load), in altri momenti con evidenti segni di
stanchezza (Remember, Don’t say you love me). Ad elevare notevolmente la media
qualitativa dell’album contribuisce la stupenda Fire and water, un rock blues tra i più
classici del repertorio dei Free che presenta un’epica e concisa introduzione, cadenze
dure e un memorabile, ficcante assolo minimale di Paul Kossoff. La vitalità residua
viene spesa nell’entusiasta jam di Mr. Big che si apre sofferta e strascicata, nella
migliore tradizione del gruppo, per poi evolvere in un concentrico ed ipnotico effetto
armonico realizzato dalla chitarra di Kossoff, a sostegno dell’incontenibile basso solista
di Fraser.
Sull’onda del successo i Free si esibiscono nell’agosto 1970 al festival dell’isola di
Wight e pubblicano un nuovo microsolco, che segna l’inizio della decadenza creativa
del complesso. Highway (Island-1970) non possiede la forza propulsiva d ei primi
tempi, né le raffinate intuizioni e l’equilibrio stilistico del secondo album e nella musica
dei Free si fa strada un manierismo che provoca alcune nette cadute di tono,
intaccando la qualità delle pur discrete The highway song, The stealer, Be my friend,
che in ogni caso s’ascoltano più volentieri di decine di modesti epigoni.
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Sin dal 1963 Jimmy Page è un apprezzato sessionman della scena rock (la sua
chitarra appare in registrazioni di Them, Kinks, Donovan, Chris Farlowe, Jeff Beck, Joe
Cocker e mille altri) e nel giugno 1966 trova un posto fisso (come bassista) negli
Yardbirds, in sostituzione del dimissionario Paul Samwell Smith. Pochi mesi più tardi,
quando abbandona anche Jeff Beck, Page torna ad esibirsi alla chitarra solista e
gestisce l’ultima fase della carriera del complesso ; nel settembre del ’68 è senza
gruppo, con il problema di dover ottemperare ad impegni presi per un tour in
Scandinavia e, per far fronte alla situazione, decide di allestire una formazione
provvisoria chiamata New Yardbirds. Il chitarrista si ricorda di John Paul Jones
(bs.or.), un sessionman con il quale ha ripetutamente avuto modo di lavorare, e per i
ruoli di cantante e batterista contatta il già famoso Terry Reid e B. J. Wilson dei Procol
Harum. I due, però, non si rendono disponibili e Page è costretto a ripiegare su
sconosciuti musicisti che tra il ’67 e il ’68 suonano con la Band of Joy, Robert Plant
(v.) e John Bonham (bt.).
Stanco di suonare in dischi di altri, Page insiste nell’ipotesi di un suo gruppo e in
ottobre i New Yardbirds cambiano sigla in Led Zeppelin.
LED ZEPPELIN - LED ZEPPELIN
(Atlantic - 1969)
Le potenzialità del gruppo sono eccezionali e le poche ore di lavoro in studio risultano sufficienti a partorire
un album eccellente e travolgente, che si colloca al vertice dell’espressione più dura ed intransigente del
blues inglese.
Le intuizioni della loro proposta derivano in linea retta da Truth di Jeff Beck ma il gruppo di Page va ben
oltre, sintetizzando al massimo l’ispirazione blues delle canzoni in una musica ruvida e coinvolgente che
rappresenta l’anticamera dell’hard rock. Page sfrutta la notevole esperienza maturata in anni di sessioni di
registrazione dimostrando una padronanza tecnica invidiabile, sempre puntuale nella propulsione ritmica,
incontenibile e al tempo stesso misurato nel solismo, arricchendo nel corso degli anni uno stile che rimane
costante punto di riferimento per i chitarristi del genere. Robert Plant non dispone degli straordinari mezzi
vocali di un Rod Stewart ma grazie ad una grande personalità, nel tentativo di adattarlo perfettamente alla
musica del gruppo, modella il canto rendendolo immediatamente riconoscibile. La sezione ritmica è solida e
precisa come poche, non solo per merito di Page ma anche per il suono profondo e spettrale del basso di
Jones e per i poderosi colpi inferti ai tamburi da Bonham.
Good times bad times mette subito le cose in chiaro : mai si era ascoltato un approccio così duro e
schematico, se si eccettuano alcune invenzioni del primo Hendrix (Fire, If six was nine, Spanish Castle
magic). Qui però il suono è puro metallo fuso, privo d’implicazioni psichedeliche, crudo e diretto ad un
impatto fisico meno selvaggio ma ancor più pesante e senza vie di fuga.
Babe I’m gonna leave you, un traditional arrangiato da Page, è giocata sul continuo contrasto tra un clima
acustico stemperato e improvvise accelerazioni ritmiche, con una sofferta interpretazione di Plant.
Due sono gli omaggi a Willie Dixon, sicuramente uno dei compositori più apprezzati dai musicisti inglesi
nell’ambito del blues di Chicago : You shook me, già proposta da Jeff Beck su Truth, è resa con un
arrangiamento originale che annovera interventi di organo, armonica e un pirotecnico assolo di chitarra con
eco, mentre I can’t quit you baby appare classica e controllata ma non per questo meno brillante, a
dimostrazione che gli Zeppelin sanno calarsi nel blues anche a stretto confronto con la tradizione.
Dazed and confused è un blues da girone infernale, condotto dalla sicura voce di Plant e da un inquietante
giro di chitarra ; il suono si placa e Page accarezza le corde con l’archetto del violino (seguendo l’esempio di
Eddie Phillips dei Creation) sino alla micidiale ripresa che spezza bruscamente l’irreale atmosfera del brano.
La ballata di Your time is gonna come si apre con l’organo di Jones che allenta la tensione, mentre la
seguente Black mountain side, uno strumentale acustico di Page con il sapore della canzone folk, si avvale
dell’accompagnamento di Viram Jasani alle tabla. Il brano è interrotto dall’improvvisa eruzione della
chitarra elettrica che con un riff mozzafiato spiana la strada a Communication breakdown, il primo grande
pezzo hard del gruppo, dove Plant riesce a dominare l’alta tensione generata con una prestazione
estremamente aggressiva. Chiude il disco la spigliata How many more times che prende spunto da un giro di
blues velocizzato, rendendo quasi l’impressione della prova da sound check nel suo incedere privo di precisi
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punti di riferimento (una citazione di The hunter, classico soul ripreso anche dai Free sul loro primo LP), con
frequenti stacchi solistici e repentini cambi d’umore.
- 13 L’espressione più calda e creativa del rock blues inglese si afferma nel
biennio 1969 / 1970, nel quale si assiste ad un’ampia proliferazione di gruppi e
musicisti dediti, con diversi approcci e caratteristiche, allo sviluppo di questo genere
musicale.
In tale momento storico molti iniziano (e a volte terminano pure) la loro carriera, altri
raggiungono la piena maturità ; alcuni conquistano un consistente successo
commerciale, i più si devono accontentare della gloria e a volte nemmeno di quella.
Tra le formazioni longeve va segnalata quella dei Ten Years After del chitarrista
Alvin Lee, attiva sin dal 1966 ; oltre a Lee, il quartetto comprende Chick Churchill
(ts.), Leo Lyons (bs.) e Ric Lee (bt.). Sotto la produzione del solito Mike Vernon,
nell’ottobre ’67 esce il primo omonimo LP che evidenzia un gruppo alle prese con una
musica piuttosto rigorosa ed illustra lo stile virtuoso di Alvin Lee. I risultati sono buoni
nel blues’n’roll di I want to know, nel lento d’atmosfera I can’t keep from crying,
sometimes valorizzato da un'accattivante chitarra a tinte jazz, in Love until I die che
(pur con un arrangiamento diverso) presenta curiose assonanze con la versione di
Crossroads dei Cream. Anche le immancabili versioni di brani composti da Willie Dixon
sono riuscite : Spoonful, meno potente rispetto all’interpretazione dei Cream, e Help
me si basano essenzialmente sullo stile veloce e tecnico di Alvin Lee, che a volte
esagera tirando le esecuzioni troppo per le lunghe con il rischio d’annoiare.
Nell’agosto del 1968 esce il secondo album Undead, registrato dal vivo al Klooks Kleek
di Londra, che presenta un effervescente blues jazz elettrico e roccato di buona
fattura e contiene uno dei classici del repertorio del gruppo, I’m going home.
TEN YEARS AFTER - STONEDHENGE
(Deram - 1969)
Album di transizione nella discografia dei Ten Years After, Stonedhenge è stato fin troppo sottovalutato
dalla critica che lo ha sempre posto in secondo piano rispetto ad altri lavori del gruppo.
Registrato nel settembre ’68 e pubblicato all’inizio del 1969 ancora con la produzione di Vernon, l’album, in
effetti, risulta vario e poliedrico, apprezzabile tentativo da parte di Alvin Lee e compagni di confrontarsi con
materiale più elaborato e, in parte, distante dalla classica matrice blues che contraddistingue i primi due
dischi. Emblematico è l’esempio della complessa (e un poco frammentaria) Going to try, che passa con gran
disinvoltura dal rock’n’roll a certo ‘Oriental space rock’ d’impostazione floydiana.
Churchill è responsabile del breve frammento pianistico (...Monk ?...) di I can’t live without Lydia, che
anticipa la godibile Woman trouble, un blues jazz dall’impronta simile alle atmosfere di Undead.
Skoobly-oobly-doobob è un divertente scioglilingua chitarristico, introduzione al trascinante boogie di Hear
me calling. I due blues sepolcrali A sad song e No title sono collegati tra loro dalla sarabanda percussiva di
Three blind mice ; in particolare piace No title, che si dipana sonnecchiante per rivolgersi all’improvviso
verso profili rock blues, grazie alle contorsioni della graffiante chitarra di Lee.
I Ten Years After ottengono un crescente successo commerciale e Alvin Lee è uno
degli strumentisti più apprezzati quando partecipano al festival di Woodstock,
nell’agosto 1969. In quell’occasione il gruppo fornisce una brillante prestazione che
culmina nell’esecuzione al fulmicotone di I’m going home. Sono lontani i tempi delle
raffinatezze di Undead e la musica, nella sua coinvolgente enfasi, appare decisamente
orientata verso sonorità hard che trovano puntuale riscontro su Ssssh., il nuovo album
pubblicato in settembre. Lo stile del complesso è sostanzialmente lo stesso ma
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l’approccio appare convenzionale, legato alle esigenze del successo di classifica : da
un lato il suono indurisce, conservando qualche appiglio con le origini blues, dall’altro
si perde in mollezze insipide, come dimostra la debole e leggera If you should love
me. Ssssh. non è certo un brutto disco ma, di fatto, rappresenta l’avvio verso un lento
ed inesorabile declino della fantasia creativa di Alvin Lee.
Più duratura, rispetto ai Ten Years A fter, ma meno produttiva ai fini del successo
conseguito è la storia dei Groundhogs, un gruppo le cui origini risalgono addirittura
al 1962. In pieno fenomeno blues revival il chitarrista Tony McPhee allestisce una
formazione che spesso funge da sostegno per i bluesmen americani in tour nel vecchio
continente (tra questi il grande John Lee Hooker).
Dopo un prematuro scioglimento nel 1968 il chitarrista rispolvera il vecchio marchio,
con un organico che prevede Pete Cruickshank (bs.), Ken Pustelnik (bt.) e Steve Rye
(v.ar.).
Perso per strada Rye, il gruppo s’assesta in un’asciutta configurazione triangolare che
evolve la propria musica verso un’espressione moderna, tenendo in debito conto la
lezione della Jimi Hendrix Experience.
Con alla base un suono scarno ed essenziale, dalle profonde convinzioni blues, si fa
largo l’impetuoso ed originale stile alla chitarra di McPhee che sicuramente deve molto
a Hendrix, soprattutto per la predisposizione a saltare a piedi pari i vincoli
precostituiti. Tra i tanti campioni della chitarra elettrica, McPhee è penalizzato dalla
mancanza di un adeguato riscontro commerciale che gli consenta di elevarsi alla
notorietà dei grandi dello strumento, come meriterebbe ; per contro, lo status di
musicista underground è ciò che gli co nsente di rimanere per lungo tempo rigoroso
nelle proposte, estraneo alle tentazioni di facili accomodamenti e compromessi. Come
lo stile del chitarrista, anche la musica dei Groundhogs trova l’originalità della propria
essenza non tanto in ambiti innovativi o sperimentali, quanto nel singolare contrasto
tra una scrupolosa, e quasi testarda, ricerca timbrico - melodica e la propensione a
liberare il suono in modo spregiudicato. Da parte loro, Cruickshank e Pustelnik
forniscono un adeguato sostegno ritmico, all’apparenza disordinato ma pure solido ed
efficace.
GROUNDHOGS - BLUES OBITUARY
(Liberty - 1969)
Nel giugno 1969 i Groundhogs registrano il materiale (composto ed arrangiato da McPhee) che viene incluso
nel secondo LP Blues obituary. Accanto a brani che mantengono una fisionomia tradizionale, come le ottime
Express man e Natchez burning, trovano posto composizioni personali quali B.D.D., in grado di passare da
un clima pacato a sfuriate al limite dell’hard rock, Times e Mistreated, blues ad alta velocità che adottano
interessanti ed atipiche soluzioni timbriche.
La creatività cruda e disorientante di McPhee si esplica nella stupenda Daze of the weak, introdotta da
movenze hendrixiane e sviluppata attorno ad un'altalenante sequenza di suoni deraglianti, sostenuti
dall’informale sezione ritmica. Altro vertice del disco è la conclusiva Light was the day, una cupa e frenetica
cavalcata strumentale condotta da una chitarra da incubo, che modifica continuamente la cadenza in una
sorta di rituale ossessivo di gran presa.
Blues obituary chiude il lungo periodo marcatamente blues dei Groundhogs, risultando tra le migliori
espressioni del genere in ambito progressivo.
Il successivo Thank Christ for the bomb, registrato nel febbraio 1970, stabilisce in
modo irreversibile le basi dello stile dei Groundhogs per i dischi degli anni settanta. Il
suono è ora orientato verso un rock più schematizzato, che mantiene connotati blues
privilegiando aspetti vicini all’hard, mitigato da improvvise aperture melodiche.
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L’omonima suite suddivisa in quattro parti che titola il seguente album Split
(novembre ’70) rimane la migliore sintesi dell’originale hard rock del complesso.
Non meno intrigante ed ugualmente di scarso successo commerciale è la musica
proposta dai Patto. A seguito dell’esperienza come Timebox, Mike Patto (v.), Ollie
Halsall (ch.), Clive Griffiths (bs.) e John Halsey (bt.) verso la metà del 1970 firmano
un contratto per l’etichetta progressiva Vertigo e realizzano un primo album omonimo
che ottiene giudizi lusinghieri da parte degli addetti ai lavori, ma vende decisamente
poco.
PATTO - PATTO
(Vertigo - 1970)
Certo, la proposta del gruppo non è tra le più immediatamente digeribili ma, lo stesso, si fatica a capire come
musicisti tanto preparati, autori di una musica originale, non facile ma pure di buon impatto fisico, vadano
incontro ad un così netto insuccesso commerciale.
Halsall, un chitarrista molto considerato nell’ambiente, è titolare di uno stile atipico, che scorre velocemente
da entusiasmi hard a sfumature jazz, eppure resta in sostanza un emerito sconosciuto dovendosi accontentare
in carriera di ruoli interessanti ma, in ogni caso, marginali. Griffiths e Halsey rendono la base ritmica
imprevedibile ed imprendibile, eccellenti strumentisti che finiscono ben presto nel dimenticatoio. L’unico ad
ottenere una meritata (e non esagerata) notorietà è Mike Patto, capace d’esprimere una delle più belle voci
rock dei primi anni settanta.
I Patto dimostrano una buona dose di coraggio aprendo l’album con un brano quale The man che punta su
fascinose e raffinate sonorità, in un’ideale sintesi di rock, blues e jazz. E’ una musica dai toni pacati, ben
caratterizzata sotto l’aspetto timbrico (eccellente il tocco di vibrafono di Halsall), dove il blues è presente a
livello di citazione embrionale nelle cellule che compongono i tessuti di un’espressione complessa,
autonomamente svincolata dai modi classici del British blues.
Gli stessi elementi sono alla base della bella Government man, gestita con una maggiore attenzione verso la
forma canzone tipicamente rock, mentre l’impervia introduzione strumentale di Money bag riflette
un’insolita predisposizione ad un approccio vicino al free jazz, mascherando qualche giustificabile incertezza
con il brillante solismo di Halsall.
Hold me back evolve in efficaci scansioni contrapposte, schizzi rock’n’roll, minimali riff hard blues e, come
le più tradizionali Time to die e San Antone, mantiene un’elevata libertà espressiva. La rocciosa Red glow e il
moto circolare dell’hendrixiana Sittin’ back easy completano l’ampio spettro sonoro dell’album, fissando i
momenti di maggior solidità, affidandosi ad impetuose ondate chitarristiche imparentate con il grintoso rock
blues del tempo, senza perdere un grammo dell’originale propensione creativa.
Dal vivo i Patto ottengono buoni consensi, ma le vendite discografiche sono modeste
anche in occasione del secondo LP Hold your fire (1971) che propone un suono
levigato ed equilibrato, smussando gli estremismi presenti sul lavoro precedente. I
riferimenti stilistici restano gli stessi ma la loro moderna sintesi strumentale si fa più
complessa e personale, priva di definiti punti di riferimento e, forse proprio per questo
motivo, difficile da collocare sul mercato. Tra i brani vanno ricordati la bella Hold your
fire, che si riallaccia a schemi già sperimentati, l’ottima polemica ballata di You, you
point your finger, il rock’n’roll dai mille sviluppi di See you at the dance tonight e la
rilassata Magic door.
La Vertigo non rinnova il contratto al gruppo e un’ulteriore possibilità è offerta dalla
Island per la quale esce un terzo album, l’ancora valido Roll’em smoke’em put another
line out (Island-1972), ma tutti i tentativi per emergere sono vani. Dopo un concerto
di addio tenuto a Sh effield nell’aprile del 1973, i Patto si sciolgono e la quarta fatica a
33 giri (Monkey’s bum) resta inedita per lunghi anni.
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I Taste vivono un’importante quanto breve stagione tra il 1969 e il 1970, durante
la quale il complesso guidato dal chitarrista irlandese Rory Gallagher sfiora il grande
successo e viene additato da molti critici del tempo come la possibile reincarnazione
del mito dei Cream.
La nascita della formazione più nota avviene nel maggio del ’68, quando entrano nel
gruppo due ottimi s trumentisti quali Charlie McCracken (bs.) e John Wilson (bt.),
anche loro irlandesi.
Le prime uscite discografiche, l’album Taste (Polydor-1969) e il singolo Born on the
wrong side of time, propongono un triangolo compatto ed aggressivo che recupera la
tradizione del blues elettrico con piglio duro e sfrontato, senza curarsi troppo della
forma estetica dei brani.
Il paragone con i Cream è giustificabile, ma pure forzato ed ingrato per i Taste che
non possiedono l’eccelsa levatura tecnica del gruppo di Clapton, né la facilità di
scrittura della coppia Bruce / Brown ; dal vivo poi Gallagher e compagni appaiono un
poco velleitari, impostando il repertorio su lunghe improvvisazioni impetuose,
coinvolgenti ma prive di quell’interscambio solistico che caratterizza le migliori
rappresentazioni live dei Cream.
Il secondo LP On the boards (Polydor-1970) riscuote buon successo e lascia trasparire
sprazzi di sonorità insolitamente eleganti, anche se il rock duro e spigoloso è subito
dietro l’angolo come dimostra What’s going on (edita pure come singolo). Nel
momento in cui i Taste sono sul punto di acquisire un ruolo di primo piano nell’ambito
della scena rock inglese Gallagher, spinto da ambizioni solistiche, decide
d’abbandonare i compagni, decretando la fine del gruppo all’inizio del 1971.
McCracken e Wilson proseguono in trio con il chitarrista Jim Cregan (proveniente dai
Blossom Toes) sotto la sigla Stud, pubblicando tre onesti LP.
Gruppo molto vicino nei primi tempi al blues revival di scuola Bluesbreakers, i
Savoy Brown nascono nel 1966 da un’idea del chitarrista Kim Simmonds.
SAVOY BROWN - BLUE MATTER
(Decca - 1969)
Nel maggio 1969 il terzo LP Blue Matter raggiunge l’apice delle possibilità del complesso, mediando il
rigoroso idioma tradizionale dei primi tempi con un suono forte e deciso, convincente e ancora lontano da
superflui esibizionismi. Il lavoro si compone di una parte registrata in studio ed una che fissa l’esibizione dal
vivo del dicembre ’68 al Leicester College of Education.
In studio il gruppo appare elegante e creativo nel sostenere originali forme di blues progressivo, come
nell’iniziale Train to nowhere che s’avvale del decisivo apporto di un’inconsueta sezione di cinque tromboni.
Nel brano è ancora presente il bassista Rivers Jobe, come pure nella seguente Tolling bells, un raffinato blues
d’atmosfera caratterizzato dalla presenza del piano ritmico suonato da Simmonds che accompagna quello
solista di Bob Hall.
Ancora il piano di Hall è protagonista assoluto in Vicksburg blues, a sostegno della potente e personale voce
di Chris Youlden. She’s got a ring in his nose and a ring on her hand è mossa e gradevole, mentre la cover
di Don’t turn me from your door (John Lee Hooker) scuote alla base la musica dei Savoy Brown, affidandosi
ad un inedito clima torrido.
Dal vivo l’organico presenta la defezione di Youlden, con un assetto a cinque dal quale emergono le qualità
di Dave Peverett come chitarrista e cantante ; May be wrong (composta dallo stesso musicista) illustra il suo
tagliente stile alla chitarra, mentre la voce appare meno convincente rispetto a quella di Youlden. L’energica
e coinvolgente versione di Louisiana blues (Waters) e la classica It hurts me too concludono l’album nel
migliore dei modi.
La produzione discografica si conferma di valore più che discreto almeno fino al
successivo A step further (Decca-1969), ultimo disco al quale partecipa il brillante
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pianista Bob Hall, poi i toni della musica dei Savoy Brown si fanno tesi e meno
interessanti.
Personaggio di notevole fama (anche ai giorni nostri), Joe Cocker non può essere
considerato figura fondamentale del British blues, in virtù dell’assenza da buona parte
della sua produzione di connotati particolarmente originali e di un’attitudine
realmente progressiva .
L’anno decisivo per il cantante di Sheffield è il 1968, quando pubblica a 45 giri la
discreta Marjorine, effettua un'applaudita esibizione al festival di Windsor e giunge al
successo con il secondo singolo, una versione di With a little help from my friends dei
Beatles. Per l’incisione del brano Cocker si avvale di una formazione prestigiosa, con
Jimmy Page (ch., poco dopo fondatore dei Led Zeppelin), Chris Stainton (bs.), Tommy
Eyre (or., poi con Aynsley Dunbar Retaliation e Mark-Almond) e B.J. Wilson (batterista
dei Procol Harum) ; il pezzo è completamente ridisegnato su schemi R & B e gospel,
con la calda e grintosa voce del cantante, la fulminante chitarra di Page e il fluido,
drammatico timbro dell’organo di Eyre.
All’inizio del 1969 il primo LP With a little help from my friends sfrutta sin dal titolo
l’enorme popolarità del pezzo guida e risulta un lavoro valido, anche se non del tutto
convincente. Accompagnato da un favoloso cast di musicisti, Cocker si dimostra
ottimo interprete quanto poco prolifico ed efficace compositore. Tre soli i brani
originali (di discreta qualità) che portano la sua firma, associata a quella del fido
Stainton, e le cose migliori sono (oltre alla celebre title track) una bella e annerita
versione di Feelin’ alright ?, dal repertorio dei Traffic, l’azzeccato arrangiamento
romantico della Just like a woman di Bob Dylan e la bella Do I still figure in your life ?
con l’organo di Stevie Winwood.
La gloria definitiva arriva nell’agosto 1969, quando Cocker consegna alla storia del
rock una esaltante performance di fronte all’infinito pubblico del festival di Woodstock.
Il cantante si supera in una memorabile interpretazione di With a little help from my
friends, resa con eccezionale trasporto emotivo in un’elettrizzante condizione di trance
epilettica. Woodstock rimane per Cocker il momento più fulgido di una parabola
artistica che tende ad un rapido deterioramento, anche se il secondo LP Joe Cocker !
(Regal Zonophone -1970) è una dignitosa conferma dei pregi e dei difetti del suo stile,
e il doppio Mad dogs & englishmen (A&M-1970), registrato nel marzo ’70 in occasione
dei concerti al Fillmore East di New York, appare album denso di classici R’n’R, soul e
R & B proposti con un’attitudine ancora coinvolgente.
- 14 Un importante contributo creativo alla scena del British blues è offerto da
complessi che agiscono essenzialmente in ambito underground, privi di grande
notorietà (a volte quasi sconosciuti), che proprio per la mancanza di un rapporto
diretto con le classifiche discografiche riescono a mantenere un’identità immune da
compromessi sulle scelte stilistiche.
Tra i nomi relativamente più noti emerge quello dei Blodwyn Pig, valvola di sfogo per
le evoluzioni del chitarrista Mick Abrahams costretto, alla fine del ’68, ad abbandonare
i Jethro Tull, a causa dei notevoli contrasti con Ian Anderson riguardo alla direzione
musicale da seguire.
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BLODWYN PIG - AHEAD RINGS OUT
(Island - 1969)
Sulla carta Blodwyn Pig è una buona occasione per l’ex Jethro Tull, potendo liberamente attingere a matrici
blues e jazz che confluiscono in una sorta di hard progressivo, buon punto di mediazione tra la pregevole
chitarra di Abrahams (tecnicamente ineccepibile, limpida e pure impetuosa) e le interessanti soluzioni ai fiati
di marca jazz adottate da Jack Lancaster, che rendono il suono prezioso ed elegante, il tutto sostenuto dalla
solida sezione ritmica costituita da Andy Pyle (bs.) e Ron Berg (bt.).
Si passa da R & B dinamici e grintosi quali It’s only love e Summer day ad orientamenti jazz, come nella
strumentale The modern alchemist, e a blues di squisita fattura acustica in Dear Jill e in The change song
(con il violino di Lancaster). Tra i pezzi migliori sono da annoverare anche le robuste Walk on the water,
Ain’t ya coming home ? e See my way, che prediligono una vigoria metallica non strettamente in linea con
l’orientamento generale del lavoro.
Ahead rings out non ottiene gran riscontro di vendite ma il gruppo insiste ed incide un
secondo album, Getting to this (Island-1970), che non presenta grandi novità e perde
qualcosa in equilibrio e freschezza. Nel disco risalta la mini suite San Francisco
sketches, forse troppo pretenziosa, e trova posto un’inspiegabile ripresa di See my
way.
Visti gli scarsi risultati commerciali Abrahams abbandona per fondare la Mick
Abrahams Band. Il primo album omonimo (Chrysalis-1971) appare più che discreto
(ottima la lunga Seasons), facendo perno su un rock progressivo distante dalle
originarie matrici blues ma lo stesso ben organizzato e piacevole.
In assoluto tra le migliori formazioni del blues progressivo inglese, gli
Steamhammer nascono alla fine del 1968 appoggiandosi sulle solite basi tradizionali,
senza nascondere però fin dai primi momenti una moderna impostazione destinata a
sviluppare un discorso originale ed ambizioso. Dal circuito folk provengono Martin
Quittenton (ch.) e Kieran White (v.ch.ar.), ai quali s’uniscono Martin Pugh (ch.), Steve
Davy (bs.) e Michael Rushton (bt.), tutti musicisti con alle spalle esperienze in gruppi
R & B.
Questo organico strappa un contratto alla CBS e nel 1969 l’album d’esordio Reflection
pone in risalto un rock blues spedito e piacevole, caratterizzato da soluzioni melodiche
e timbriche piuttosto personali, con largo uso di brani di propria composizione
(Quittenton, White, Pugh). Tra i più significativi vanno ricordati Junior’s wailing
(pubblicata anche a 45 giri), She is the fire, When all your friends are gone e la buona
e potente rilettura di You’ll never know (B.B. King).
STEAMHAMMER
-
M K II
(CBS - 1969)
Al posto della chitarra di Quittenton, futuro collaboratore di Rod Stewart, arrivano i fiati del
pluristrumentista Steve Jollife, avvenimento che modifica sostanzialmente gli equilibri creativi del
complesso ; M K II è un deciso salto in avanti che pone gli Steamhammer tra i migliori esponenti della
ricerca progressiva, e non solo in ambito blues.
Sin dall’iniziale, stupenda, Supposed to be free si fa strada un nuovo metodo, completamente svincolato
dagli aspetti tradizionali del genere, uno stile lirico, raffinato, aperto ad importanti contaminazioni jazz
introdotte con gusto e moderazione dai fiati di Jollife. La chitarra di Pugh esprime una sorprendente libertà
melodica e il nuovo Mick Bradley si dimostra percussionista poliedrico ed elegante.
Il peso creativo, dopo la dipartita di Quittenton, passa essenzialmente sulle spalle di Kieran White, con
contributi di Jollife e Pugh che in molti arrangiamenti svolgono una duplice funzione propositiva e di
rifinitura strumentale.
L’originale Johnny Carl Morton introduce il clavicembalo suonato da Jollife, Pugh sposta a sorpresa
l’accento sull’ambientazione folk della breve ed intensa Sunset chase, Contemporary chick con song si
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riallaccia al blues più roccato e moderno ed è l’unico brano a portare la firma di tutti i membri del
complesso.
Turn around è un altro parto di Jollife, composizione di sobria bellezza con clavicembalo, flauto e un suono
che mirabilmente resta in equilibrio tra il neoclassicismo di marca beatlesiana e tenui sfumature jazz.
6/8 for Amiran sceglie la strada dei ritmi complessi con profonde convinzioni blues, mentre White preferisce
affidarsi a soluzioni (a lui care) da lirica e trasognata ballata folk nella bella Passing through, valorizzata da
un ottimo lavoro alla chitarra di Pugh.
Il brano più ambizioso è Another travelling tune che nella lunghissima stesura mai perde in lucidità,
evolvendo con passione in calde e premurose atmosfere blues jazz, esempio insuperato di un concetto di fare
musica romantico e libero da costringenti punti di riferimento, sulla falsariga di ciò che nello stesso periodo
viene proposto oltreoceano dai Grateful Dead, sentimento condiviso dalla strumentale e sfuggente coda
finale di Fran and Dee take a ride.
Come sovente acca de, a tanto impegno ed amore non corrisponde necessariamente
un ritorno concreto in termini d’interesse e gli Steamhammer si devono accontentare
della buona popolarità ottenuta in alcuni paesi europei che certo non è sufficiente alla
CBS per rinnovare il contratto. Jollife preferisce lasciare e il gruppo prosegue come
quartetto, ripiegando in Germania per riuscire a trovare nella Brain una nuova
controparte discografica.
Nell’estate del ’70 gli Steamhammer registrano il terzo album Mountains ; l’assenza
dell’apporto creativo e strumentale di Jollife rende la musica meno varia e priva
dell’originale impronta jazz, ma quest'aspetto non pregiudica la qualità sempre
elevata del disco. La prima facciata muove in territori vicini a certo hard progressivo
con la bellissima I wouldn’t have thought, dominata da un Pugh ispirato alla chitarra
solista, e con l’ottima performance dal vivo fissata su nastro in occasione di un
concerto al Lyceum di Londra (Riding on the L&M / Hold that train), sempre con i
Dead ben fissi i n mente anche se il tenore è più duro ed esplicito. La seconda parte
del disco, interamente composta da White, è imperniata su alcune buone canzoni dallo
stile dolce ed estatico, tipico del cantante, quali Levinia e Mountains.
Nulla riesce a scalfire l’indifferenza del grande pubblico e White, nell’autunno 1970,
decide di abbandonare il progetto ; l’ultimo LP Speech (Brain-1972) vede la luce
quando gli Steamhammer già non esistono più.
I Bakerloo, formazione underground originaria di Birmingham inizialmente
denominata Bakerloo Blues Line, cominciano a farsi conoscere verso la fine del 1968
quando hanno l’occasione d'esibirsi al Marquee come spalla dei Led Zeppelin, in uno
dei primi concerti del gruppo di Jimmy Page. Sono notati dalla Harvest che li mette
sotto contratto e nel luglio ’69 pubblicano a sorpresa un atipico singolo, Drivin’
Bachwards, che recupera Bach per gruppo rock, clavicembalo, tromba (Jerry
Salisbury), proponendo soluzioni lontane dalla naturale ispirazione del trio. Curiosa la
sovrapposizione temporale con la ben più celebre Bourée dei Jethro Tull, pubblicata
sull’album Stand up proprio in quei giorni.
BAKERLOO - BAKERLOO
(Harvest - 1969)
Ben diversa è l’impressione generata dall’ascolto del loro unico album pubblicato alla fine del 1969 ; il
gruppo suona forte, vicino all’approccio dei primi Led Zeppelin, anche se manca l’esuberante personalità
della formazione di Page e Plant e le composizioni appaiono più orientate verso una sensibilità di stampo
underground. I Bakerloo sopperiscono alle lacune grazie ad una notevole forza d’urto e alle indubbie
capacità strumentali dei singoli musicisti. La grande opportunità per confrontarsi con una musica libera da
impegni formali e satura di grinta ed elettricità viene impegnata nel quarto d’ora della devastante Son of
moonshine, ma si rivela un’occasione perduta in quanto Bakerloo già all’uscita dell’album non esiste più.
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In ottobre Clempson accetta l’offerta di entrare nei Colosseum, in sostituzione di
James Litherland, mentre Baker e Poole s’impegnano nell’ideazione dei May Blitz (con
i quali non riescono ad incidere) e in seguito Baker occupa il ruolo temporaneo di
batterista per le registrazioni del secondo LP degli Uriah Heep (Salisbury).
Gruppo conosciuto esclusivamente per aver annoverato nei primi tempi musicisti
destinati alla notorietà, quali Paul Kossoff, Simon Kirke (entrambi nei Free) e Rod
Price (con i Foghat), i Black Cat Bones meritano qualcosa di più di una fredda
citazione grazie alle qualità del loro unico a lbum Barbed wire sandwich. La musica è
onesta, priva di fronzoli, diretta ed aggressiva, con lo stile basato su un blues duro e
sfrontato che presenta più di qualche punto di contatto con i Free dell’esordio. Così è
per la grintosa Chauffeur e per i trasci nanti hard blues di Save my love e Good lookin’
woman, mentre Death valley blues è un ottimo blues nobilitato da un bell’assolo di
chitarra di Rod Price. Il disco passa pressoché inosservato e la formazione si avvia ben
presto al fallimento con l’abbandono di Price, destinato ai Foghat assieme a tre ex
Savoy Brown.
Di esito poco diverso è la carriera dei Killing Floor, formazione che s’inserisce
nell’ormai affermato panorama del rock blues inglese di fine decennio. La musica
proposta sul primo LP omonimo è un frizzante rock blues di ottima qualità
strumentale, che non prevede importanti novità concettuali ma si distingue per la
scioltezza delle esecuzioni e per l’energico divertimento profuso. Il secondo LP Out of
Uranus (Penny Farthing-1971) propone un suono più schematico e vicino all’hard rock,
manca del brillante contrasto tra la chitarra di Michael Clarke e il piano di Lou Martin,
nel frattempo trasferitosi alla corte di Rory Gallagher. Resta in ogni caso una
sufficiente freschezza esecutiva e, pur con qualche caduta di tono, il materiale appare
più che dignitoso.
Fra le tante formazioni delle quali con il passare del tempo s’è persa ogni memoria,
gli NSU meritano di essere ricordati se non altro per l’onestà di fondo che permea la
loro proposta musicale. Impostati a quartetto con Ernest Rea (ch.), John Pettigrew
(v.), Peter Nagle (bs.) e William Brown (bt.) gli N.S.U. giungono alla prova
discografica grazie alla Stable, piccola e mitica etichetta underground che annovera
tra le sue fila anche Deviants e Sam Gopal, tra gli altri. In soli tre giorni del febbraio
1969 il gruppo registra il materiale utile al loro unico album Turn on, or turn me down,
prima di essere travolto dal fallimento della stessa casa discografica.
Il disco presenta evidenti difetti dovuti, presumibilmente, al poco tempo a disposizione
per le registrazioni e mostra gli N.S.U. un poco indecisi sulla via da seguire, ma
ugualmente è godibile per l’utilizzo insistito di linee melodiche abbastanza insolite
(come nel brano che t itola l’album) e buone intenzioni sono sparse nei pezzi più densi
e tirati (His Town, You can’t take it from my heart, The game). Originali, anche se
deboli, le parti vocali.
Una delle cose più difficili nel trattare dei May Blitz è riuscire ad inquadrare il
gruppo di Tony Newman in un genere ben definito. Questa, probabilmente, è la forza
relativa del complesso, relativa perché se la promiscuità tra blues, hard rock e suono
progressivo rende la musica dei May Blitz appassionante e moderna, la sua stessa
natura poco incline a facili accomodamenti commerciali relega Newman e compagni ai
margini del mercato, costringendoli ad una rapida ritirata. Purtroppo, proprio
l’ingarbugliata relazione fra creatività e music business è uno degli elementi deboli
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dell’espressione rock, sia che ciò si rifletta in grandi tragedie umane o più
semplicemente nell’incapacità di realizzare i propri sogni e progetti.
Ancor più insolita è la vicenda che porta alla costituzione della band. L’idea originale
risale alla fine del 1969 quando Keith Baker e Terry Poole dei Bakerloo decidono di
proseguire insieme progettando una nuova formazione triangolare chiamata May Blitz.
In realtà il gruppo non decolla perché Baker collabora con gli Uriah Heep per le
registrazioni del loro secondo album Salisbury (e solo per quell’occasione), mentre
Poole, di conseguenza, va a suonare con Graham Bond.
MAY BLITZ
-
MAY BLITZ
(Vertigo - 1970)
Tony Newman è un veterano della scena beat e suona con il Jeff Beck Group nell’album Beck-Ola. Il
batterista rifonda completamente il complesso, chiamando due ottimi strumentisti quali James Black (ch.v.) e
Reid Hudson (bs.v.), e il nuovo gruppo ottiene un contratto discografico per la Vertigo.
L’omonimo esordio su vinile convince per la ricercata elaborazione di una sintesi hard blues permeata da una
spiccata attitudine progressiva. Smoking the day away enuncia le coordinate della musica del trio :
padronanza strumentale, equilibrio formale, agili strutture in continua evoluzione. Tra i tanti gruppi del dopo
Cream, i May Blitz sono tra i meno indiziati di plagio e forse tra i più limpidi estensori del verbo rock blues.
Newman si trova benissimo in tale contesto e mette in mostra le sue migliori qualità poliritmiche, Black e
Hudson suonano convinti e concisi, evitando di perdere il fiato dietro ad evanescenti elucubrazioni solistiche.
I don’t know ? parte da climi contenuti per aprirsi in una stringata jam memore di free festival e concerti in
piccoli club. Dreaming attenua notevolmente il ritmo, preferendo atmosfere soffuse, suoni rilassati che
deragliano all’improvviso nella parte centrale della canzone. La frastagliata Squeet e soprattutto la
pirotecnica Fire queen affrontano il suono sul lato di maggior tensione, divise dalla bellissima e raffinata
Tomorrow May come, cullata dagli asciutti colori del vibrafono di Newman. L’epica Virgin waters chiude il
disco, a metà tra il sogno e la consapevolezza, con parti di grande fascino.
La Vertigo concede al gruppo una seconda possibilità, con la pubblicazione (il due di
maggio 1971) di un nuovo lavoro, appunto The 2 nd of May. La via si fa più stretta,
forse per trovare una maggiore concretezza commerciale ; For mad men only è hard
al fulmicotone, aggressivo, coinvolgente, ma perde in varietà tematica, c’è qualche
contraddizione di troppo ma siamo comunque su livelli qualitativi di rilievo, in
presenza di musica esente da clamorosi compromessi che trova nella ballata di High
beech, nella quasi psichedelica Just thinking e nell’esposizione tesa e sincera ragioni
sufficienti a giustificare la propria esistenza. Le vendite, naturalmente, sono scarse e il
gruppo (privo di contratto discografico) non ha più motivi per continuare.
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A ROCK’N’ROLL DAMNATION
. . . ovvero il diavolo, probabilmente
- 15 Può apparire argomento strano, addirittura presuntuoso e fuori luogo, trattare
di musica progressiva riferendosi ai Rolling Stones, il gruppo che più di ogni altro ha
definito in modo netto ed immediatamente riconoscibile il proprio stile musicale.
La più grande band di rock’n’roll al mondo, tutto vero, ma almeno fino a quando nei
Rolling Stones è stata presente la creatività sregolata di Brian Jones, la musica del
gruppo ha subito una costante evoluzione, se non nella sostanza quantomeno nella
forma. Basta ricordare singoli epocali quali (I can’t get no) Satisfaction, Paint it, black
e un album dal valore assoluto come Aftermath.
Alla fine del 1967 anche gli Stones, al pari di tanti altri, si fanno coinvolgere
nell’ondata psichedelica producendo l’album Their satanic majesties request, un lavoro
complesso, reso in modo piuttosto frammentario, che appare pretenzioso e di molto
inferiore ai grandi parti discografici di quel magico anno (belle, in ogni caso, Citadel,
In another land e She’s a rainbow).
ROLLING STONES
-
BEGGAR’S BANQUET
(Decca - 1968)
Licenziato il vecchio manager Loog-Oldham e visti gli scarsi risultati ottenuti con la breve svolta
psichedelica, i Rolling Stones decidono di virare verso schemi a loro più congeniali. Già il singolo di
Jumping Jack Flash, con quel riff assassino, preferisce climi sporchi e grintosi. La conferma, eclatante,
arriva nel dicembre 1968, giusto un anno dopo il ‘satanic’, con la pubblicazione di Beggar’s banquet.
La musica pare sorgere dal nulla nella grandiosa Sympathy for the devil, cresce in progressione, sorretta da
un fitto tappeto percussivo e dal prezioso lavoro al piano di Hopkins (perfetto su tutto il long playing). Strani
fremiti pervadono il brano, chitarre taglienti, e Jagger esibisce una delle performance più calde ed incisive
del suo ricco repertorio.
Nel disco trovano posto diversi brani direttamente collegati alla tradizione country blues rivista con spirito
moderno : No expectations si crogiola nel tiepido torpore della chitarra slide, Dear doctor muove con passo
di valzer zoppicante, Prodigal son è spigliata e priva di remore. Parachute woman rivitalizza dure cadenze
blues, sintetizzando al massimo il ritmo. Piacciono pure Jig-saw puzzle, che recupera il movimento ritmico
di Sympathy for the devil preferendo climi più rilassati, e la contenuta Factory girl.
Street fighting man è dura, monolitica, incisiva più per la forma e le maniere che per il suono ; la graffiante,
torrida Stray cat blues è immersa in un quattro quarti tipicamente rock blues, un grimaldello capace di
forzare il coperchio della coscienza pulita del pop psichedelico in declino, negazione convinta del ‘satanic’,
trionfo del rock tirato per i capelli. Salt of the earth è una ballatona dalle sfumature decadenti e accento
gospel, che chiude il cerchio di un lavoro irripetibile per il gruppo di Jagger e Richard.
Rock’n’roll è un termine nobile ma riduttivo per musica di questo livello. Che il diavolo ci abbia davvero
messo lo zampino ? Ai tanti esorcisti del rock l’ardua sentenza...
Dopo essere diventato uno dei cantanti più rappresentativi del blues revival inglese,
Eric Burdon pone termine all’avventura degli Animals nell’estate del 1966 quando
s’infatua del movimento flower power di cui, dalla lontana California, giungono notizie
inebrianti anche nel cuore della ‘riservata’ Inghilterra.
Burdon segue una rotta inversa rispetto a quella intrapresa al tempo da Jimi Hendrix,
trasferendosi a San Francisco per toccare con mano i fermenti della scena musicale
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locale. Là decide di dar vita ad una nuova formazione sotto il nome di Eric Burdon &
the Animals, conosciuta anche come New Animals, con la quale approntare progetti
inediti e sfogare le proprie capacità come compositore, sempre represse nell’economia
creativa del vecchio complesso.
Nel giugno del 1967 la formazione partecipa al Monterey International Pop Festival,
avvenimento fondamentale e momento di maggior fulgore della California musicale dei
sessanta, o forse solo evento che sancisce la prematura fine di un breve ma splendido
ciclo creativo, a puro scopo commemorativo.
Burdon comunque gioca al rialzo. Winds of change, il suo nuovo album del 1967,
mette in chiaro la nuova impostazione stilistica del cantante ; la musica è rarefatta,
colorata, intrisa di psichedelia, le chitarre più che aggredire accarezzano il suono e il
violino di John Weider scompagina ulteriormente ciò che resta del rhythm & blues
originario. San Franciscan nights è l’inno del nuovo corso dove Burdon esprime, con
sconfinata dolcezza e qualche tratto nostalgico, tutto l’amore per quei giorni unici.
La proposta di Burdon è, in ogni caso, lontana dalla spensieratezza di certo flower
power e sull’opera persiste un’impressione d’angoscia, di drammaticità, di pesante
inquietudine, quasi a contraddire lo spirito apparente di quei tempi.
ERIC BURDON & THE ANIMALS - THE TWAIN SHALL MEET
(MGM - 1968)
Al nuovo disco collabora il tastierista Zoot Money, un ottimo ma poco conosciuto musicista reduce
dall’epoca del blues revival con la sua Big Roll Band. Nel luglio 1967 con Andy Summers (ch.), Colin Allen
(bt.) e Pat Donaldson (bs.) dà vita ad un’effimera formazione che si dedica ad argomenti psichedelici, i
Dantalion’s Chariot. Il gruppo pubblica un solo, mitico singolo (Madman running through the fields, ottobre
’67) e tiene qualche esibizione al Middle Earth.
The twain shall meet inaugura un 1968 di grande intensità per Burdon (tre album, di cui uno doppio, in
quell’anno) e rappresenta un ulteriore salto in avanti. Se Winds of change annusava i sintomi del
cambiamento e si predisponeva a seguirne le coordinate, Monterey è già celebrazione per il mito
californiano. Non c’è molto altro da aggiungere, si può solo confermare la tesi, decadere lentamente, con
gioia meravigliata che presto si trasforma in nostalgia. Closer to the truth pare scaturire dai residui della
memoria di Burdon e si rammenta degli entusiasmi giovanili per il blues. Burdon introduce solitario la
stupenda Sky pilot che, dietro all’incedere accattivante e all’innocente ritornello, nasconde meraviglie
inenarrabili, chitarre siderali in partenza per lo spazio, vecchie cornamuse scozzesi e scenari di battaglie
campali, docili quartetti d’archi, orchestrazioni di largo respiro e la voce del cantante, strumento concreto,
palpabile, vero. E’ il vertice creativo dei New Animals. Nulla può andare oltre.
Ci prova We love you Lil, e quasi ci riesce, con quel suo epico incedere alla Quicksilver, carico di tensione
non completamente liberata; le cornamuse s’incrociano al sitar per illuminare la nenia di All is one che si
apre su placidi orizzonti di speranza, alla fine.
Il seguente Every one of us resta in cielo almeno nella risoluta ed accattivante White
house e nella potente Year of the guru, entrambe composte dal solo Burdon. La tanto
decantata New York 1963 - America 1968 si perde in qualche lungaggine di troppo,
anche se non mancano attimi di grande intensità emotiva e strumentale.
Nell’ultimo Love is l’aspetto visionario della musica di Burdon è ormai
irrimediabilmente perduto. Rimangono però le qualità di un suono spigliato, vitale,
privo di sofisticazioni ; da segnalare le belle ed originali versioni di River deep
mountain high (un successo per Ike and Tina Turner), di Coloured rain (Traffic), di
Madman running through the fields (in eredità dai Dantalion’s Chariot), di To love
somebody (Bee Gees) e ancora le trame progressive di Gemini e il buon originale di
Burdon I’m dying (or am I).
Il miglior disco degli anni settanta è il Sun secrets pubblicato nel 1974, dove il
cantante mette in opera un grintoso e pirotecnico recupero di grandi classici quali It’s
my life, Don’t let me be misunderstood, When I was young, Ring of fire, affiancati da
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qualche buona nuova composizione. Il suono è secco e tagliente, caratterizzato dalla
chitarra del giovane Aalon, da una dinamica e potente sezione ritmica di colore e con
Burdon incontenibile, in forma smagliante.
- 16 E’ con la pubblicazione del Sgt, Pepper dei Beatles che s’inaugura la moda
dell’album concept, con canzoni realizzate sulla base di un tema dominante che funge
da ispirazione per lo sviluppo del lavoro di composizione.
Tra coloro che per primi aderiscono al nuovo metodo sono da annoverare i Who, con
l’album The Who Sell out, gli Small Faces e, poco dopo, altre due formazioni, Pretty
Things e Kinks, che (ancora con il gruppo di Pete Townshend) producono alcuni dischi
imperniati su una concezione sempre più complessa, mirata all’elaborazione di vere e
proprie storie in musica, le cosiddette opere rock.
SMALL FACES - OGDENS’ NUT GONE FLAKE
(Immediate - 1968)
Nell’estate 1968 il nuovo album degli Small Faces, Ogdens’ nut gone flake, suscita buon interesse non solo
per l’originale copertina rotonda (la prima nel rock) ma soprattutto per il contenuto musicale, che si riallaccia
alla psichedelia più dura in voga all’epoca. Si tratta del primo ed unico 33 giri organico della formazione,
abituata a produrre compilazioni di successi ottenuti su singolo, e il tentativo acquisisce un importante rilievo
sia per l’apprezzabile (anche se non rivoluzionaria) qualità della musica proposta, sia per un approccio
vagamente ‘a concetto’ con diverse canzoni proposte in medley.
Afterglow appare indecisa, tra delicati arpeggi intrisi di melodia e una propensione per rudezze quasi hard,
seguita in rapida successione da Long agos and worlds apart e dalla facile cadenza di Rene, nobilitata da una
solida coda con chitarre distorte, armonica e tastiere in evidenza. Song of a baker è hard, senza mezzi
termini, melodica come nella migliore tradizione di Marriott, inesorabile e bella. Lazy Sunday riporta a pigre
atmosfere da psichedelia soffice, con particolare attenzione all’equilibrio formale e un azzeccato utilizzo di
effetti speciali. La seconda parte del disco è costituita da una sorta di suite intitolata Happiness Stan che
alterna ariose aperture a carattere sinfonico ad un rock semplice e diretto.
Di peso ben superiore è il contributo offerto, sempre nel 1968, dai Pretty Things.
Nel novembre 1967 l’ottimo singolo di Deflecting grey mostra già il nuovo volto dei
Pretty Things, ma è con l’album S.F. Sorrow che Taylor e compagni realizzano il
massimo sforzo creativo dell’intera carriera.
PRETTY THINGS - S. F. SORROW
(Columbia - 1968)
I Pretty Things inaugurano, di fatto, l’epoca delle opere rock senza la minima indecisione e contraddizione,
con un esempio sobrio sotto l’aspetto concettuale e risoluto dal punto di vista espressivo.
Le chitarre efficaci e taglienti di Taylor, la voce di May capace di passare con disinvoltura da climi infuocati
a momenti delicati e melodici, le percussioni surreali di Twink (dai Tomorrow, per l’occasione subentrato a
Skip Alan) e il prezioso apporto strumentale di John Povey e Wally Allen rendono il suono molto vario e
sfuggente a sterili classificazioni.
S.F. Sorrow is born apre con le chitarre di Taylor in grande spolvero, armonie vocali ben congegnate e ariosi
inserti di organo quasi floydiano. Bracelets of fingers è un carillon psichedelico dagli scenari in continuo
mutamento, ricco di soluzioni armoniche e ritmiche veramente originali. She says good morning prende la
strada della consapevolezza e stabilisce un ottimale punto d’incontro tra Beatles e Pink Floyd. La ballata
folk, stravolta e ridisegnata, di Private Sorrow termina sui colpi inesorabili di Twink e solidifica nel ritmo
della sostenuta Balloon burning, guidata dalla ficcante chitarra di Taylor.
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Death, e pare che il mondo s’afflosci sulle proprie miserie, sul dolore di una processione funebre che
sgombra il campo, con perfido realismo, dell’innocuo agitarsi di tanti stregoni dark di seconda mano. Le
chitarre tremano, il sitar intona la litania, le voci spettrali e i tamburi di Twink, come pietre che rotolano
negli abissi dell’oblio.
Baron Saturday riporta in auge il ritmo di uno sbilenco R & B, con il gruppo camuffato da Beatles
psichedelici ; l’apertura acustica di The journey conduce ad una spontanea jam elettrica dal sapore
sotterraneo, mentre I see you fonda la sua essenza su trame sognanti e passionali, contrapposte ad incubi
chitarristici che trovano ulteriore sfogo nel frammento strumentale di Well of destiny.
Trust è quasi normale nella sua stupenda melodia e prepara il campo all’esplosione metallica di Old man
going, con le chitarre che avvolgono la canzone in una spirale di drammatica costrizione, contorcendosi e
sibilando, supportate da un implacabile Twink che pare divertirsi ad evitare sistematicamente i luoghi
comuni della batteria rock. L’epilogo malinconico di Loneliest person chiude degnamente un gran disco,
capace (in teoria) d’elevare i Pretty Things ai vertici espressivi del rock’n’roll progressivo.
Purtroppo, come spesso accade alle cose belle ma scomode, l’album viene
ingiustificatamente ignorato. Non da Pete Townshend, che più volte ha riconosciuto
l’influenza di S.F. Sorrow sull’ispirazione che lo ha portato alla stesura del celebrato
Tommy. Per ironia della sorte, quando il capolavoro dei Pretty Things viene dato alle
stampe negli Stati Uniti, con quindici mesi di colpevole ritardo, il disco finisce alla
gogna per aver copiato Tommy dei Who!
Subito dopo la pubblicazione del long playing Twink si dilegua nei sotterranei londinesi
per preparare nuove avventure, lasciando il posto al ritorno di Skip Alan. Ancora più
pesante risulta la perdita del fondatore Dick Taylor che va a collaborare con gli
Hawkwind.
May, Povey, Allen e Alan trovano un temporaneo sostituto nel chitarrista della Edgar
Broughton Band, Victor Unitt, e così sistemato il gruppo registra Parachute (1970),
ancora prodotto da Norman Smith. Il disco alterna brani melodici quali In the square,
The letter, Grass a tempi medi come Sickle clowns e She’s a lover ; il brano di
maggior interesse è la dura e sofferta Cries from the midnight circus e la qualità
media del materiale è molto buona.
Poi le vendite modeste fanno sbandare il gruppo che sopravvive senza particolare
convinzione, tra separazioni ufficiose e riunioni dettate dalla nostalgia.
I tempi della maturità artistica per Ray Davies e i suoi Kinks si materializzano nel
1967, con la realizzazione di due 45 giri di notevole qualità. In maggio esce Waterloo
sunset, un bellissimo brano melodico, con armonie vocali impostate alla Beatles, che
sogna di estatici tramonti ; nel luglio seguente è la volta della ballata di Death of a
clown che conferma i Kinks sempre più lontani dalle dure matrici R’n’R degli inizi, con
Ray Davies proteso verso creazioni armoniche e melodiche di grande respiro, ricche di
trasporto emotivo, spesso intrise d’ironia e accompagnate da testi polemici (entrambe
le canzoni sono comprese su Something else by the Kinks, ottobre 1967).
Le ambizioni del gruppo (in particolare di Ray Davies) si orientano insistentemente
verso progetti a concetto e The Kinks are the village green preservation society (Pye1968) è il primo LP a tema dei Kinks.
KINKS
-
ARTHUR OR THE DECLINE AND FALL OF THE BRITISH EMPIRE
(Pye - 1969)
All’inizio del ’69, Arthur...si colloca tra S.F. Sorrow dei Pretty Things e Tommy dei Who, non possedendo il
coraggioso vigore sperimentale del primo, né la razionale lucidità narrativa del secondo. Il disco gode di un
approccio diretto ed essenziale evitando, come costume di Ray Davies, soluzioni sperimentali e proponendo
belle canzoni intrise di amara ironia. La divertita, beffarda nostalgia di Victoria contrasta con la rudezza
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tematica di Yes sir, no sir, con la triste elegia di Some mother’s son e con il duro monito dell’esplicita
Brainwashed. Australia torna all’ironia pungente e si risolve in un magistrale arrangiamento che trae spunto
da citazioni rock’n’roll, romanticismo classico e fiati rhythm & blues.
Dopo la pubblicazione del non eccelso A quick one (1966), nel ‘67 i Who registrano
il terzo LP The Who sell out che si propone come uno dei primi esempi di album
concept. Il disco, quasi interamente firmato da Pete Townshend, presenta il complesso
in ottima forma e s’avvale di un atteggiamento ambizioso a livello creativo ; il tema
affrontato è quello della pubblicità, con le canzoni collegate tra loro dai jingles delle
radio pirata inglesi, dichiarate fuorilegge proprio in quei giorni. Tra i brani migliori
figurano la psichedelica Armenia city in the sky, la melodica Tattoo, I can see for
miles, percorsa dai fremiti di una micidiale progressione ritmica, e Rael 1+2, che
permette d’ascoltare alcune embrionali idee poi utilizzate da Townshend per la stesura
del fortunato Tommy.
Townshend lavora ossessionato dalla volontà di realizzare una rock opera a carattere
teatrale, che possa rappresentare un contributo definitivo alla storia del rock, e pensa
la figura di Tommy, un ragazzo cieco sordo muto la cui novella è parabola del
successo, con la crescente esaltazione, l’onnipotenza e la rapida decadenza. La
pubblicazione del doppio disco, nel 1969, giunge in ritardo rispetto a S.F. Sorrow dei
Pretty Things (dal quale Townshend si dichiara fortemente impressionato) e a Arthur
dei Kinks, ma il lavoro dei Who supera di gran lunga il successo dei predecessori, a
livello di critica e soprattutto per l’impatto sul pubblico.
Dedicato al guru Meher Baba, influenza di Townshend sin dal ’68, Tommy è
valorizzato da una stesura raffinata e godibile, strutturato quasi a forma di musical,
dotato di un solido impianto narrativo che porterà l’opera ad essere adattata per
numerose versioni teatrali e a diventare nel 1974 un film per la regia di Ken Russell.
Overture e Underture fungono da necessari collegamenti fra le sezioni del lavoro, a
proposta e recupero dei temi salienti. Il brillante strumentale di Sparks, il focoso soul
rock di Acid queen, il divertente rock’n’roll di Pinball wizard (anche su singolo), con la
celebre introduzione alla chitarra acustica di Townshend, sono i brani più significativi.
La progressione epica di We’re not gonna take it chiude il disco in un crescendo
emotivo, ma alla fine resta la sensazione di una grande occasione parzialmente
sprecata.
In Tommy manca il coraggio d’osare, di incrinare e mettere in discussione le certezze
strutturali e con questo dare un valore al perfezionismo formale che permea l’intero
lavoro. Solo di rado affiora la rude forza espressiva che rende irresistibili i concerti dei
Who e una dimostrazione pratica viene dal magnifico Live at Leeds, dove è possibile
toccare con mano la consistenza dal vivo di parte del materiale ereditato da Tommy.
WHO
-
WHO’S NEXT
(Track - 1971)
Non pago del gran successo di Tommy, Townshend inizia a lavorare ad un’opera rock ancor più complessa
ed ambiziosa, dal titolo provvisorio di Lifehouse. Il progetto, strutturato in circa quaranta canzoni, naufraga
miseramente ma per fortuna alcuni brani di eccezionale qualità vanno a costituire l’ossatura del nuovo album
Who’s next, senza dubbio il miglior disco di studio dei Who, capace di condensare in una manciata di
canzoni gli elementi essenziali delle capacità creative di Townshend e in grado di recuperare quell’urgenza
espressiva, semplice e diretta, che dopo il primo album si era un poco persa per strada.
Le tastiere suonate da Townshend introducono sonorità derivate dal minimalismo di Terry Riley, sia su Baba
o’Riley che su Won’t get fooled again, parti estreme del lavoro accomunate da un senso di fiera
rassegnazione e disillusione riguardo agli ideali ‘rivoluzionari’ degli anni sessanta. L’iniziale si stempera in
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uno stupendo scenario in equilibrio tra Rile y e il violino di Dave Arbus, ad est dell’Eden, mentre la
conclusiva trova nella durissima ed amara scorza la propria attrazione fatale.
Altro vertice del disco è la splendida Behind blue eyes, il cui disagio interiore attraversa con inaudita
disinvoltura climi dolcissimi ed improvvisi sfoghi rabbiosi. Bargain è secca e tagliente, e ancora nella quieta
e melodica Song is over e nella solida Getting in tune si può ascoltare l’ottimo contributo strumentale di
Nicky Hopkins.
Townshend continua nella ricerca e sasperata della perfetta opera rock e nel ’73 ci
riprova con Quadrophenia (anche in questo caso si arriverà alla trasposizione
cinematografica), un doppio LP incentrato sulle vicissitudini e sulle incomprensioni di
un giovane mod. Il rock asciutto e vibrante di The real me, la spigliata 5 :15 e la
drammatica Love, reign o’er me sono gli attimi salienti di un lavoro compatto e ben
assemblato, che mostra qualche piccolo segno di stanchezza e, in ogni caso, non
raggiunge il livello del disco precedente.
Nell’ambito dei lavori a tema, su basi chiaramente di stampo rock’n’roll, un
pensiero va dedicato agli sconosciuti Fire del chitarrista David Lambert che nel 1970
pubblicano il loro unico album The magic shoemaker (Pye). L’album accusa qualche
ingenuità e caduta di tono e si colloca a debita distanza dai più importanti esempi del
genere, ma non è privo di belle composizioni e di spunti pregevoli. Tutte le canzoni,
come del resto la parte narrativa, sono opera di Lambert e tra le migliori vanno
segnalate le grintose Tell you a story, Flies like a bird e l’ottima ballata di Reason for
everything.
- 17 In ordine sparso, uno scarno ed eterogeneo manipolo di musicisti che vantano
al denominatore una comune origine dalle solide radici del rock’n’roll più disinvolto ed
intelligente.
Terry Reid, ad esempio, pur avendo sviluppato la parte decisiva della carriera negli
Stati Uniti è personaggio tutt’altro che marginale per la scena inglese.
Ancora giovanissimo, all’inizio del 1968 entra nell’orbita del produttore Mickie Most
(Jeff Beck, Donovan...) e se ne va in America al seguito dei Cream, conseguendo
discreto successo. Per capitalizzare l’interesse creatosi sul posto, Reid incide un
album negli Stati Uniti con il quale ottiene una buona risposta a livello commerciale.
Bang, bang you’re Terry Reid mette in mostra le inequivocabili doti vocali di Reid,
assieme ad un suono privo di fronzoli imperniato sul lavoro di chitarra e tastiere. Molti
brani si risolvono nella forma di ballata, con Reid sempre puntuale nell’interpretazione
vocale ; belle sono le versioni di Bang, bang (my baby shot me down) di Sonny Bono,
pervasa da improvvise mutazioni di ritmo, e del robusto soul rock di Something’s
gotten hold of my heart. La lunga Season of the witch perde il respiro psichedelico
dell’originale di Donovan, acquisendo sincere cadenze rock che vivono di luce propria,
come accade per l’altrettanto lungo e convincente medley che comprende l’ottima
Writing on the wall (forse la miglior composizione di Reid) e l’o riginale rilettura di
Summertime blues. Tra le canzoni a firma di Reid convincono Tinker Taylor (un
rhythm & blues progressivo) e Loving time, dove un lucido suono d’organo si mescola
all’efficacia ritmica della chitarra.
Poi i grandi rifiuti, prima come cantante dei Led Zeppelin, quindi per un posto nei
Deep Purple e la carriera di Reid non riesce a decollare, nonostante la pubblicazione di
un secondo valido LP omonimo (Epic-1969).
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Gli Spooky Tooth, formazione dall’esistenza tribolata e di buon impatto alla fine
degli anni sessanta, hanno le loro radici nei V.I.P., un complesso del 1966 dove si
conoscono Mike Harrison (v.pn.), Luther Grosvenor (ch.), Greg Ridley (bs.) e Mike
Kellie (bt.). I V.I.P., con i quali suona brevemente anche Keith Emerson prima
dell’esperienza Nice, pubblicano due singoli e nel 1967 cambiano nome in Art,
dedicandosi ad una proposta in linea con la psichedelia dell’epoca. Dopo un album
(Supernatural fairy tales, Island-1967) e la partecipazione al primo LP degli Hapshash
& the Coloured Coat, nell’ottobre del ’67 i quattro s’imbattono nell’organista
americano Gary Wright e danno luogo ad un'ennesima metamorfosi, diventando
Spooky Tooth.
Con la produzione di Jimmy Miller (Traffic, Rolling Stones) l’esordio di It’s all about
(Island-1968, con una dura cover di Tobacco road) è confortante, così come il
successivo Spooky two che nel 1969 fissa lo stile del gruppo su una fusione tra R & B
e R’n’R progressivo, con qualche influenza Traffic e una sostanza riconducibile più ai
toni duri dell’hard che alla raffinata psichedelia e alla varietà stilistica del gruppo di
Winwood.
Thunderclap Newman, un gruppo del giro Who prodotto da Pete Townshend, vive
un attimo di fuggevole gloria nel 1969 quando imbrocca un brano come Something in
the air, che sorprendentemente si piazza al primo posto della classifica inglese. Si
tratta di una bella canzone dall’ampio respiro melodico, valorizzata da un misurato
arrangiamento orchestrale che non nasconde l’originalità dello stile del gruppo.
Il trio è composto da Andy Newman (ts.), un ex impiegato postale di quarant’anni che
si diletta a suonare il piano jazz e ragtime, dal giovanissimo chitarrista scozzese
Jimmy McCulloch, scoperto da Townshend mentre suona al Middle Earth con il suo
complesso One In A Million, e da John ‘Speedy’ Keen (v.bt.), con all’attivo una
collaborazione con John Mayall e autore della bella Armenia city in the sky inclusa dai
Who nell’album Sell out.
L’unico album Hollywood dream (Track-1969) risulta valido, ma non vende. Il
divertimento ragtime di Hollywood 1 e l’esotismo percussivo di Hollywood 2 , Wild
country, con Newman che s’impegna ad oboe e flauto, e la discreta cover di Open the
door, homer (con il consueto inserto ragtime - Dylan, dal bootleg di Great white
wonder) dimostrano che i Thunderclap Newman sono in grado d’esprimere qualcosa di
più rispetto al rock’n’roll di base.
Ancora, The reason è decisamente bella con quell’incedere risoluto, tipico delle ballate
in stile Townshend, impreziosita dal pregevole lavoro alle chitarre di McCulloch. Viene
pubblicata anche su singolo ma nessuno se ne accorge e al gruppo non resta che la
scelta di un rapido scioglimento, nel 1970.
Un pensiero per David Bowie non è fuori luogo, in questo contesto. Per il Bowie
del primo periodo, quando il musicista ancora si agita nei meandri dell’underground
alla ricerca di un’identità definita, che del resto mai riuscirà (e vorrà) trovare. Proprio
il disinvolto trasformismo è alla base del suo immane successo commerciale, essenza
fondamentale per un artista sempre in grado di riproporsi a seconda (o incurante)
delle mode di passaggio.
Dopo un lungo periodo di gavetta, la svolta della carriera di Bowie avviene nel luglio
’69 con la pubblicazione del singolo Space oddity, un brano melodico ed accattivante
ispirato al film ‘2001 odissea nello spazio’ di Stanley Kubrick.
Tony Visconti diventa il manager del cantante e nascono gli Hype, con lo stesso
Visconti (bs.), John Cambridge (bt.) e soprattutto Mick Ronson (ch.) ; per il nuovo
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album The man who sold the world entra nel gruppo il batterista Mick Woodmansey,
che successivamente con Ronson sarà negli Spiders From Mars.
The man who sold the world non è certo l’album migliore di Bowie, nemmeno il più
bello e piacevole, ma è l’unico dell’intero catalogo ad ostentare con convinzione la sua
natura sotterranea, disponendo ritmo ed elettricità senza curarsi troppo di subdoli
calcoli commerciali. Musica ingenua, se si vuole, soluzioni semplici, una voce
innamorata di Dylan e le chitarre di Ronson dispiegate al vento come nelle crude
Running gun blues e She shook me cold, come nel vortice di Saviour machine. The
width of a circle è il brano più ambizioso, con l’insinuante melodia che raccoglie per
strada tutti gli scampoli d’elettricità disponibili e si chiude con la citazione del
Zarathustra di Richard Strauss (curiosamente la stessa conclusione poi riservata alla
celebre Life on Mars ?, sull’ellepì di Hunky dory). C’è spazio per momenti meno
convulsi, anche se le sinistre trame di After All e il sapore decadente della title track
contribuiscono ulteriormente ad elevare la tensione sonora.
L’ultimo contributo al mondo musicale alternativo avviene nel 1971, con l’esibizione
alla festa del Glastonbury Fayre; Bowie concede ai compilatori del triplo album che
celebra l’evento la discreta The supermen, in una versione di studio diversa da quella
compresa su The man who sold the world.
Poi il trasformismo prende la mano, Bowie diventa Ziggy Stardust, si ricicla come
Duca Bianco su territori soul rock, arriva alle pregevoli sintesi elettroniche di Low e
Heroes (1977, con Fripp e Eno), per dedicarsi in seguito a discutibili soluzioni dance.
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PIU’ DURO DI TUO MARITO
i miti e le illusioni dell’hard rock inglese
Quant e volte, ascoltando un brano di musica hard, abbiamo rischiato di cadere in
una crisi di euforica epilessia, presi dalla potenza liberatoria del suono ; quante volte,
con atteggiamento freddo e distaccato, ci siamo accorti di presenziare a strutture
sonore banali e risapute, d’assistere a fenomeni iconografici più pacchiani che
oltraggiosi.
In fin dei conti, è proprio a questo vizio originario, a questo dubbio storico, che paga il
pedaggio gran parte della critica di settore, spesso incapace di (o forse non
interessata a) separare il buono dal cattivo, di attribuire al fenomeno una valutazione
serena e al di sopra delle parti. Da un lato i sostenitori a tutti i costi del verbo
metallico, capaci d’accettare le esasperazioni più allucinanti, dall’altro il gruppo dei
colti, convinto che dietro alla facciata di sudore e rumore si celi il nulla intellettuale.
A ben guardare, sono entrambi atteggiamenti che nascondono una lunga teoria di
luoghi comuni.
Nonostante tutto, l’hard rock inglese vanta nobili radici, riconducibili al fenomeno del
British blues, all’Hendrix quadrato e vigoroso, agli alfieri della musica post beat più
ispida che mal digerivano il neoclassicismo inaugurato dai Beatles (Rolling Stones,
Who, Pretty Things). Un crescendo di soluzioni, sempre più tese ed ossessive, porta
alla coniazione di un linguaggio caratterizzato da un suono violentemente fisico e
possente, fortemente coinvolgente e altrettanto costringente, destinato a canalizzarsi
in aridi rivoli di musica ripetitiva, che a lungo andare paga l’essenza della propria
natura con la perdita di quella freschezza dinamica che appare come la componente
originaria di maggior attrazione.
In questo panorama non mancano situazioni tristi ed incresciose, esecutori di musica
priva di fantasia e di qualità trascurabile, ma neppure ci si deve dimenticare di coloro,
grandi e piccini, che hanno avuto il merito d’offrire una versione credibile e, perché
no, progressiva del suono più duro della roccia.
- 18 Innanzi a tutti, i Led Zeppelin.
Se il primo album della formazione fornisce un’interpretazione estrema del rock blues
più duro in voga all’epoca, restando in ogni caso saldamente ancorato all’idioma
originario, il seguente lavoro Led Zeppelin II (pubblicato nell’ottobre 1969) non
conosce compromessi e stabilisce, in via definitiva, le modalità del loro personale e
godibile hard rock.
LED ZEPPELIN
-
LED ZEPPELIN II
(Atlantic - 1969)
Whole lotta love si apre con il riff tagliente della chitarra di Page, una sorta di tema blues sviluppato a
velocità supersonica ; l’immediato raddoppio del basso di Jones, l’enfatico fraseggio di Plant e il dirompente
ingresso dei tamburi di Bonham producono una tensione crescente ed avvolgente. Incubi, lacerazioni,
selvaggi vocalizzi orgasmici, stacchi mozzafiato, assoli lancinanti. E’ la sigla di un modo imperioso, estremo
ed implacabile di concepire, plasmare e esternare gli ultimi residui della cultura blues.
L’unico brano che si avvicina allo stile dell’album d’esordio è The lemon song, uno spesso power blues
dominato dalla chitarra di Page. Heartbreaker sospinge gli Zeppelin verso l’hard più arcigno, pompato dal
basso e dalla perentoria batteria, con la chitarra che produce riff poderosi e un iperbolico solismo ; la
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tremenda forza d’urto si placa nell’orecchiabile Living loving maid (she’s just a woman), carina ma nulla più.
What is and what should never be è giocata sul contrasto tra un raffinato blues da night club e violente frasi
hard, così come Ramble on, un brano molto importante per l’evoluzione futura della musica dei Led
Zeppelin, muove in territori a mezza strada tra il folk acustico e l’esuberanza elettrica tipica del gruppo.
Discreta è Thank you, ballata di vaga ispirazione folk segnata dall’organo di John Paul Jones, mentre Moby
Dick offre l’occasione a Bonham per scuotere le pelli della batteria a mani nude. La conclusiva Bring it on
home, introdotta da un noto blues di Willie Dixon (stranamente non citato tra gli autori della canzone), si
scatena nel solito turbinio ritmico selvaggio ed assordante.
Il successo dell’album è eccezionale, la strada da seguire, facile e priva di rischi, è
quella di ripetere gli schemi e bissare i risultati di vendita. Invece no. Il notevole Led
Zeppelin III (ottobre ’70) dà dimostrazione di notevole eclettismo, mettendo a
confronto con disinvoltura i diversi aspetti della musica del gruppo. La prima parte
sfoglia Immigrant song, dal ritmo sincopato e incessante, che pare travolgere ogni
ostacolo, l’acustica Friends, costruita su strane armonie ed intriganti arrangiamenti
d’archi, il robusto rock’n’roll di Celebration day e Since I’ve been loving you, un lungo
blues dominato da una chitarra brillante e incisiva. La seconda facciata è quasi
completamente acustica con la saltellante Gallows pole, le ballate di That’s the way e
Bron-y-aur-stomp ; c’è anche spazio per una dedica, non proprio memorabile, a Roy
Harper (Hats off to Roy Harper), amico di vecchia data di Page. Tangerine è stupenda,
commovente nostalgia dell’estasi di una tarda psichedelia folk che rapisce il cuore. Il
risultato commerciale non cambia: primo posto ovunque.
Nel novembre 1971 è la volta del quarto LP, che curiosamente non presenta alcun
titolo ; per praticità d’uso (e senza troppa fantasia) scegliamo di chiamarlo Led
Zeppelin IV. L’impressione che s’ottiene ascoltando questo album è quella di musicisti
alla ricerca di risultati definitivi sul piano artistico. La cosa riesce solo in parte, di certo
nella fantastica Stairway to heaven che si evolve all’interno di un’incantata
sospensione generata dai delicati arpeggi dell’acustica di Page e dal canto
confidenziale di Plant. La tensione sale con l’ingresso della batteria e, al culmine, le
chitarre (come squilli di fanfara che annunciano l’imminente battaglia) si lanciano in
un memorabile assolo, a conclusione di un capolavoro assoluto del concetto di ballata
hard.
Altro vertice del disco è il Black dog d’apertura, dove l’introduzione vocale e il riff
convulso e complicato della chitarra devono non poco alla Oh well di Peter Green
(come ha modo di affermare lo stesso Page). Notevole appare anche la suggestiva
versione di When the levee breaks, un vecchio blues di Memphis Minnie ristrutturato
secondo i progetti dell’architetto Page. Il resto dell’album non risulta altrettanto
convincente.
Il successivo Houses of the holy (Atlantic-marzo ’73) presenta materiale piuttosto
buono (The rain song, la notevole No quarter, Over the hills and far away), ma le
interpretazioni non brillano, mostrando qualche segno di stanchezza.
Previsto sulla doppia distanza e pubblicato all’inizio del ’75 per la personale neonata
etichetta Swan Song, Physical graffiti è l’ultimo grande impegno discografico dei
Zeppelin introducendo alcune novità nella musica e rilanciando l’entusiasmo
strumentale. Tra l’aggressività di Custard pie e la contagiosa nostalgia di Ten years
gone si snodano le lunghe e complesse In my time of dying, che raggiunge un’enfasi
ritmica devastante, Kashmir, con convincenti orchestrazioni di sapore orientale, In the
light, che passa senza problemi da tonalità leggere ed ariose ad implacabili cadenze
metronomiche.
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La carriera dei Deep Purple attraversa varie fasi storiche, contraddistinte dalla
presenza di diversi organici, che riflettono almeno due momenti fondamentali e ben
distinti della loro produzione discografica.
Nella parte iniziale della carriera, tra il ’68 e il ’69 con la formazione originaria, il
gruppo produce tre discreti album dal contenuto estremamente eterogeneo, in bilico
tra hard rock, soluzioni progressive e tardo psichedeliche, versioni di brani famosi,
senza riuscire a definire con precisione il proprio stile.
In una seconda fase, che decorre dal 1970 e comunemente viene contrassegnata dalla
sigla ‘Mark II’, i Deep Purple raggiungono l’apice della notorietà realizzando i lavori
classici del repertorio e stabilendo con estrema chiarezza uno stile immediatamente
riconoscibile.
Jon Lord (ts. - Artwoods, Flowerpot Men), Ritchie Blackmore (ch. - Roundabout), Nick
Simper (bs. - Flowerpot Men), Rod Evans (v.) e Ian Paice (bt. - entrambi dai Maze) si
costituiscono come Deep Purple nel marzo del ’68. Il complesso esordisce con un
singolo che presenta una bella versione hard soul di Hush, un brano di Joe South, che
in estate ottiene un insperato successo negli Stati Uniti. L’ottimo risultato di Hush
rimane però isolato e i tre album pubblicati tra il ’68 e il ’69 non riescono ad andare
oltre un tiepido interesse da parte del pubblico inglese. Del resto i Deep Purple
faticano oltremodo nell’elaborare trame sonore originali di un certo valore e si affidano
in larga misura alla proposta di cover di brani celebri.
Sul primo LP Shades of Deep Purple (Parlophone -1968), oltre a Hush, sono comprese
le discrete I’m so glad (Skip James), Hey Joe, e Help (Beatles), in una versione
rallentata percorsa da fremiti hard e vaghe sfumature soul. Nella musica dei primi
Deep Purple si nota un’evidente preminenza delle tastiere di Lord sugli altri
strumenti, ribadita anche su The book of Taliesyn (1969), con il quale la EMI gira il
gruppo alla nuova etichetta progressiva Harvest, e dal terzo album Deep Purple
(Harvest-1969) che comprende la suite in tre parti di April, dove il tastierista sfoga la
sua visione ‘classica’ del rock con l’ausilio di una piccola formazione da camera
comprendente flauti, oboe, clarinetti ed archi.
Con l’ingresso del cantante Ian Gillan e del bassista Roger Glover, provenienti dagli
Episode Six, prende forma la Mark II. In apparenza nulla cambia nelle strategie del
gruppo, dal momento che i Deep Purple s’impegnano nella realizzazione di un
ambizioso concerto rock per gruppo ed orchestra sinfonica, composto nell’arco di tre
mesi dal solito Lord e messo in pratica il 24 di settembre con uno spettacolo tenuto
alla Royal Albert Hall, alla presenza della Royal Philarmonic Orche stra (Concerto for
group & orchestra, Harvest-1970).
DEEP PURPLE
-
IN ROCK
(Harvest - 1970)
I primi sintomi di un radicale cambiamento di stile sono annunciati dal singolo di Black night, che nel giugno
del ’70 riesce finalmente a conquistare le classifiche inglesi. Il nuovo 33 giri In rock sancisce definitivamente
le intenzioni.
Il caos, la frenesia esplosiva, le brusche accelerazioni del rhythm & blues al tritolo di Speed King in pochi
minuti spazzano via i residui e le incertezze del passato. Lo spazio per la chitarra di Blackmore è
notevolmente aumentato, Lord si limita a rifiniture ritmiche e a sprazzi solistici più controllati, in sintonia
con l’hard rock del gruppo. La ritmica è potenziata dal plastico basso di Glover e Gillan mostra una forza ed
un’esuberanza vocale sconosciute a Evans. Gli ultimi spasmi di Speed King lasciano strada al devastante riff
della chitarra in Bloodsucker ; è musica creativa, originale, trascinante, in apparenza libera d’osare. Non
possiede la varietà dei toni, le sfumature, la poliedricità che rendono inarrivabile l’hard dei Led Zeppelin, ma
funziona. Child in time presenta un’introduzione dal sapore orientale copiata da, o quantomeno identica a,
Bombay calling (dal primo album dei californiani It’s a Beautiful Day). Non importa, il brano si evolve
autonomamente con buona lucidità d’intenti e diventa un classico del repertorio dei Purple.
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Into the fire ha un bell’incedere ritmico e un riff accattivante, Flight of the rat è durissima, compatta, così
come le meno brillanti Living wreck, che a tratti furbeggia alla Grand Funk, e Hard lovin’ man, dove
s’avverte puzza di bruciato, dopo soli quaranta minuti scarsi il sapore di cose già ascoltate.
Il disco vende più di un milione di copie e forse il problema sta t utto qui. Il nuovo
Fireball (Harvest-1971) manca di un vero pezzo guida e ricalca la matrice di In rock,
senza possederne l’esuberanza e l’impatto travolgente. Che poi l’album finisca al
primo posto della classifica sorprende relativamente poco (così va il mondo) ; anche il
successivo Machine head (Purple-1972) non sposta di una virgola lo stile dei Deep
Purple, ma contiene almeno due classici del repertorio quali Highway star e la
celeberrima Smoke on the water. In ogni caso meglio rivolgersi a Made in Japan,
doppio album registrato dal vivo in Giappone nell’agosto del ’72, che risulta essere
una buona antologia live con graffianti interpretazioni di brani famosi e qualche
lungaggine di troppo (Space truckin’ e il non indispensabile solo di batteria su The
mule).
E’ fumo sull’acqua...o meglio negli occhi.
Gruppo tra i più controversi, agli inizi osteggiato e a volte ridicolizzato dalla critica
musicale, in tempi recenti riscoperto ed elevato al rango di influenza essenziale da
parte di numerosi complessi grunge e heavy metal, i Black Sabbath vanno
considerati tra gli iniziatori e i massimi esponenti di una corrente dark sviluppatasi nel
rock degli anni settanta.
A differenza di Led Zeppelin e Deep Purple, formazioni composte da strumentisti di
notevole livello tecnico, i Black Sabbath puntano tutto nella cocciuta ricerca di una
musica dal timbro originale, compromessa con aspetti legati all’occulto e a sentimenti
attratti dal polo negativo, evitando di lanciarsi in improbabili virtuosismi individuali.
Quanto di sinceramente arcano si cela nella musica dei Black Sabbath e quanto è
dovuto alla necessità di stupire, di pubblicizzare il prodotto, può benissimo essere
oggetto di studi filosofici da parte dei soliti benpensanti (con le loro prove
schiaccianti !), purché non si voglia cogliere a tutti i costi l’occasione, con una scusa o
un’inquisizione, per cancellare con un colpo di spugna ciò che procura fastidio e va
contro il tetro (quello sì !) concetto di normalità quotidiana.
BLACK SABBATH
-
BLACK SABBATH
(Vertigo - 1970)
Un temporale, rintocchi di campana a morto, un tuono libera un’agghiacciante cascata di dure vibrazioni
metalliche partorite dalla chitarra di Tony Iommi. La voce di Ozzy Osbourne è asfissiante, spettrale ; il suono
avvolgente, plumbeo, gravido d’inquietudine non concede distrazioni. Black Sabbath è il manifesto
programmatico del gruppo e si capisce perché, prima di venire accettati dalla Vertigo, Iommi e compagni
sono costretti a sopportare ben quattordici rifiuti da parte di altrettante etichette discografiche. The wizard
rompe il grave peso e s'inerpica su possenti strutture di derivazione blues, mentre Behind the wall of sleep è
costruita su impietosi riff carichi di oscuri presagi e convince per la capacità di mutare ritmi e modalità. Evil
woman si accomoda su argomentazioni vicine ai territori del rock’n’roll, subito zittita dalle atmosfere da film
dell’orrore di Sleeping village, con la chitarra che si contorce, s’allunga e si contrae sugli spasmi del ritmo.
In N.I.B. e in Warning (un pezzo di Aynsley Dunbar) Osbourne si produce in performance efficaci ed
originali e la chitarra di Iommi esprime tonalità cupe, appare veloce, precisa ; la sezione ritmica è a suo
modo virtuosa, con Geezer Butler a disegnare linee pesanti ma sufficientemente elastiche e Bill Ward che si
dimostra capace di raffinatezze, in grado di donare alla struttura granitica delle canzoni sfumature poco
appariscenti ma indispensabili.
Registrato in due giorni, nel febbraio 1970, senza produzioni faraoniche e in completa autonomia creativa,
Black Sabbath desta al tempo numerose e pretestuose polemiche riguardo a presunte accelerazioni dei nastri
con le parti di chitarra, e sono in molti a deridere il complesso a causa delle prime caotiche esibizioni dal
vivo, ma il disco lascia un segno indelebile generando discreto interesse tra il pubblico.
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Il fortunato 45 giri di Paranoid (un rock’n’roll scuro e compresso, destituito di ogni
apparenza di divertimento) proietta i Black Sabbath ai vertici delle classifiche di
vendita, trascinando al successo anche il secondo omonimo album. C’è la voglia di
stupire, qualche forzatura di troppo ma anche alcune buone composizioni (War pigs,
Hand of doom, Fairies wear boots).
Nel luglio 1971 Master of reality (Vertigo), pur introducendo alcuni frammenti acustici,
non riesce a rinnovare il suono e si crogiola nella routine di lusso della granitica Sweet
leaf. Sembra l’inizio di una precoce decadenza creativa ma il Vol. IV del settembre ’72
rialza la testa, per un attimo, q uanto basta a produrre una manciata di piccoli classici
dell’hard inglese quali la lunga ed articolata Wheels of confusion, le concise e
aggressive Tomorrow dream, Supernaut, Cornucopia e, in particolare, Snowblind, che
si posiziona ai vertici del loro personale rock duro sfoderando una cadenza micidiale.
E’ l’ultimo sussulto.
Di minor interesse la vicenda degli Uriah Heep, creati alla fine del ’69 da Ken
Hensley (ch.ts. - ex Gods e Toe Fat). ...very ‘eavy...very ‘umble (Vertigo-1970)
illustra la mus ica del complesso sin dall’iniziale Gypsy, tutta raccolta attorno alla
pesante chitarra di Mick Box, all’organo di Hensley e al caratteristico timbro vocale
vibrato di David Byron. Come away Melinda propone soluzioni acustiche di discreta
fattura, pur rimanendo inferiore alla precedente versione del brano rilasciata dagli
sconosciuti Velvett Fogg. I toni dominanti sono però quelli sfrontati e spietati del rock
duro di Dreammare, di I’ll keep on trying e il risultato finale non appare eclatante.
Tutto si mescola nel successivo Salisbury (Vertigo-1971) con l’omonima suite a
generare confusione e la tuonante Bird of prey che pare dover demolire il mondo, ma
alla fine suona un poco ridicola, non si sa bene se con una punta d’ironia o
tragicamente seria.
Steve Upton (bt.) e Martin Turner (bs.v.) sono la sezione ritmica dei Tanglewood,
un oscuro complesso attivo verso la fine degli anni sessanta nel quale suona anche
Glen Turner (chitarrista, fratello di Martin). Quando Glen abbandona la formazione
Steve e Martin decidono di pubblicare un’inserzione sul Melody Maker per reperire un
nuovo chitarrista e finiscono per trovarne due : con l’aggiunta di Andy Powell e di Ted
Turner, nel 1969 nascono i Wishbone Ash.
Il gruppo nel dicembre ’70 realizza un primo omonimo LP (Mca) che tradisce subito il
particolare approccio del quartetto, sicuramente atipico rispetto ai normali canoni
dell’hard inglese. Nel disco brilla Phoenix, una canzone che nelle esibizioni live si
espande tranquillamente verso i venti muniti di durata, capace di elencare con
precisione le principali caratteristiche della musica dei Wishbone Ash. Le chitarre di
Powell e Turner dominano il suono, a tratti eteree, legate tra loro in rarefatte
ambientazioni di stampo westcoastiano, spesso indurite e pressanti, pronte ad
alternarsi ed incrociarsi in lunghe parti solistiche.
Il successivo Pilgrimage (maggio ’71) è un deciso passo in avanti ; The pilgrim muove
da quiete atmosfere per gettarsi in un vortice strumentale di sicuro effetto, adottando
soluzioni originali ed interessanti e non mancano eccellenti frammenti strumentali a
forte componente romantica come Lullabye e Alone, concetto ampiamente ribadito
nella passionale Valediction.
WISHBONE ASH
-
ARGUS
(Mca - 1972)
Il terzo LP Argus porta il gruppo al massimo risultato di vendita grazie ad un’impostazione musicale ancor
più melodica e, se vogliamo, commerciale. Laddove Pilgrimage enumerava gli elementi del loro particolare
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hard rock, mostrando abbastanza frequentemente i muscoli e le chitarre incandescenti, Argus sviluppa su
territori d’apparente mollezza che vantano, invece, il pregio di evidenziare meglio l’originalità e la diversità
dalle mode correnti del rock duro, sin dall’essenza stessa della musica proposta. Le chitarre di Powell e
Turner si dividono equamente le parti solistiche, spesso anche all’interno della stessa canzone, e il gruppo
riesce a mascherare bene l’assenza di un cantante potente e carismatico tramite l’utilizzo quasi sistematico di
armonie vocali corali di buona fattura. Warrior è l’unico pezzo veramente hard del disco, almeno nelle
intenzioni introduttive dove le chitarre si sovrappongono per offrire vigore al suono, senza rinunciare ad una
lunga parte centrale rarefatta e meditativa per poi riannodare le sei corde in un finale dai toni epici.
Dal successivo Wishbone four (Mca-1973) il complesso comincia a ripetersi ma
comunque riesce ad offrire un saggio delle notevoli capacità dal vivo con la
pubblicazione del doppio Live dates, bellissima escursione all’interno del classico
repertorio del gruppo. La passione, l’onestà, la semplice ma creativa dizione del loro
rock assumono nella dimensione live una coerenza ammirevole.
- 19 Non è tutto oro (nel senso di milioni di dischi venduti) ciò che riluce di riflessi
hard. Tra i gruppi dediti in modo creativo ad una proposta musicale dura ed
intransigente s’eleva il nome dei mitizzati Clear Blue Sky, una formazione triangolare
che si forma all’inizio del 1970 dall’unione di tre giovanissimi musicisti (John Simms ch.v. - Mark Sheather - bs. - Ken White - bt.) praticamente alle prime armi.
CLEAR BLUE SKY - CLEAR BLUE SKY
(Vertigo - 1970)
I tre sconosciuti diciottenni ottengono la fiducia della Vertigo che consente la realizzazione di un trentatré
giri, mettendo a disposizione anche la firma prestigiosa di Roger Dean per quanto riguarda il disegno di
copertina. Ne scaturisce un lavoro d’indubbio interesse per l’originale forma dell’hard rock proposto, che
però non trova il necessario riscontro da parte del pubblico.
La prima facciata del disco è occupata da Journey to the inside of the sun, una specie di opera a tema che si
risolve in tre brani ben distinti : Sweet leaf, una lunga jam informale costruita su un ritmo sostenuto ed
insistente e frenata ripetutamente da sospensioni di vaga ispirazione psichedelica, The rocket ride, che
propone un approccio secco, micidiale, gli strumenti al massimo della tensione, stacchi improvvisi, assoli
lancinanti di chitarra, disorientanti aperture melodiche, il lato migliore della musica dei Clear Blue Sky, I’m
comin’ home, più ortodosso e di minore interesse.
Sull’altra parte del disco You mystify è una nuova possente esplosione di ritmi e soluzioni in continua
mutazione, Tool of my trade porta il sapore della ballata elettrica con intrusioni ritmiche alla Black Sabbath,
la bella My heaven concede un importante spazio alla chitarra acustica senza rinunciare alle consuete
accelerazioni del suono.
Alcune inevitabili ingenuità dovute all’inesperienza e parti vocali un poco deboli non
pregiudicano eccessivamente il risultato complessivo, ma il disco non vende e,
nonostante un secondo album sia già praticamente pronto, la Vertigo scarica
frettolosamente il gruppo.
Sicuramente fa piacere ritrovare la sigla Clear Blue Sky nel 1990 per un nuovo disco
(Destiny, Saturn-1990) e in occasione di una nostalgica esibizione sotterranea a
Wight, assieme ad altre vecchie ‘glorie’ del sottobosco inglese (Trees, Janus...), anche
se il solo rimasto della formazione originale è John Simms.
A differenza dei Clear Blue Sky, l’organico dei Leaf Hound è composto da musicisti
di buona esperienza, dotati di capacità tecniche non trascurabili ; anche se l’unico
album inciso si dimostra di elevato livello qualitativo e può essere considerato un
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piccolo classico dell’hard dei primi anni settanta, i Leaf Hound rimangono relegati nel
più assoluto anonimato, dimenticati pure quando, in anni recenti, la moda del
recupero nostalgico dello stile progressivo provvede a restituire dignità a tanti
musicisti persi nella memoria storica del rock inglese.
LEAF HOUND
-
GROWERS OF MUSHROOM
(Decca - 1971)
I cugini Peter French (v.) e Mick Halls (ch.) si ritrovano nella Brunning Sunflower Blues Band, il gruppo del
bassista originale dei Fleetwood Mac. Subito dopo i due entrano a far parte dell’ultimo organico dei Black
Cat Bones, in sostituzione di Rod Price partito in cerca di gloria con i Foghat. Qui trovano i fratelli Derek
(ch.) e Stuart (bs.) Brooks, reduci di quell’onesto complesso di power blues, e con il nuovo batterista Keith
Young il gruppo cambia sigla in Leaf Hound.
French e Halls si propongono come nucleo creativo e propulsivo della formazione, puntando su un suono
pesante, inesorabile ma non privo di freschezza. La Decca mette sotto contratto i Leaf Hound, anche se la
complicata gestazione del loro unico album Growers of mushroom dimostra quanto poca fosse la fiducia
riposta dalla casa discografica nelle capacità del gruppo. Il disco viene inizialmente pubblicato in Germania
per la Telefunken, oltretutto privo di due brani, e la versione inglese completa vede la luce solo nell’ottobre
del ’71, quando il complesso si è già dissolto. Growers of mushroom è registrato in sole undici ore di studio e
il contenuto ne risente in senso positivo per l’immediatezza del suono, e in negativo per alcune inevitabili
imperfezioni dovute alla fretta con cui il disco è realizzato.
Freelance fiend entra subito nel vivo, introdotta da un attacco micidiale della chitarra di Halls, ed è priva di
compromessi, con gli strumenti che all’unisono si lanciano in una danza tribale di inaudita potenza. Alcuni
brani risentono in modo evidente del retaggio rock blues dei musicisti ; Drowned my life in fear è basata su
un classico e potente riff blues e su una notevole consistenza strumentale, Work my body naviga sulla rotta di
collisione con certa musica underground mentre Stagnant pool e la supersonica Stray sono gli esempi
marcatamente duri ed intransigenti del loro stile. Entrambe pilotate dai riff d'acciaio della chitarra,
presentano affinità con i Led Zeppelin più impettiti mostrando comunque una buona personalità.
L’unico membro del gruppo che riesce a lasciare un piccolo segno nella storiografia del
rock è il cantante Peter French che, subito dopo lo scioglimento dei Leaf Hound, entra
negli Atomic Rooster (autunno ’71) in tempo per registrare l’album In hearing of.
Dal mondo sommerso del più oscuro rock inglese gli Zior, un’idea nata dalle menti
di Keith Bonsor (v.ch.ts.) e di Pete Brewer (bt.ts.), con John Truba (ch.v.) e Barry
Skeels (bs.v.). Il gruppo gode di un breve momento di gloria quando accompagna i
Cream per qualche data inglese, e proprio dal vivo esprime i contenuti di maggior
interesse proponendo spettacoli selvaggi, con l’ausilio di effetti speciali, di luci
stroboscopiche, con la messa in scena di rituali satanici e altre trovate da film
dell’orrore, il tutto sostenuto da un rock maniacale.
Gli Zior ottengono un contratto discografico dalla Nephenta, la nuova etichetta
progressiva fondata da Larry Page (manager dei primi Kinks e dei Troggs), che
concede un piccolo spazio anche a Dulcimer e Earth and Fire ; l’omonimo LP d’esordio
(giugno ’71) è orientato ad un suono duro e legnoso, con connotati dark (I really do,
Your life will burn), non particolarmente fantasioso ma neppure disprezzabile. A
sprazzi affiorano elementi psichedelici e progressivi (New land) che rendono la musica
del gruppo più varia e, al tempo stesso, confusa. Il fallimento della Nephenta porta
con sé anche quello degli Zior che poco più avanti contribuiscono alla realizzazione di
un altro illusorio lavoro, accreditato come Monument.
Un doveroso riconoscimento ai Third World War, oggi dimenticati da tutti ma
ancora attuali in virtù della serietà dimostrata, credibili in quanto incapaci di attribuire
62
una bella facciata di comodo alla propria musica, fieri sostenitori di un rock da
combattenti di razza, stradaiolo e a suo modo poetico.
Il gruppo prende forma all’inizio del 1970, atteggiandosi a nucleo apert o ad una
moltitudine di collaborazioni con alla base Terry Stamp (ch.v.), Jim Avery (bs.) e Fred
Smith (bt.). Per l’omonimo album d’esordio, registrato nell’autunno del ’70, i Third
World War s’avvalgono della chitarra solista di Mick Lieber e delle prestazioni al piano
di Tony Ashton. Ascension day è ruvida, rauca, pura carta vetrata strofinata sulle
corde vocali e della chitarra, quasi un esempio di perfetta, epica sintesi punk sei anni
prima. E’ un suono povero, che si sistema lontano anni luce dai lustrini e dalle
tentazioni del music business, quello che unisce la lunga M.I.5’s alive alla scarna
Teddy teeth goes sailing, l’intransigente Working class man alle parti intrise di
consapevolezza di Stardom road. Shepherds bush cowboy (con il piano di Ashton)
coglie la sana essenza del rock’n’roll venato di R & B e Preaching violence (ancora con
Ashton) anticipa durezze che saranno, debitamente levigate e ricondotte entro i
termini del gioco, tipiche in certo rock della metà dei settanta (Mott The Hoople).
63
SEASONS THEY CHANGE
le contaminazioni del folk inglese
Le radici dell’espressione progressiva del rock inglese risiedono senza dubbio negli
stili musicali importati dagli Stati Uniti da parte dei complessi del beat e del blues
revival. Non sono questi, però, gli unici elementi a provocare la caratterizzazione del
suono : la cultura classica europea è alla base dello sviluppo di un filone rock definito
romantico / sinfonico, così come la cultura della tradizione popolare inglese, scozzese
e irlandese determina la nascita di un’originale rappresentazione musicale
riconducibile alla spesso abusata marca del folk rock.
Senza voler entrare nel merito della storia e degli aspetti della musica popolare
britannica, in questa occasione importa rivolgere l’attenzione alla contaminazione, alla
fusione di matrici e stili diversi, spesso anche solo alla colorazione che il suono ricava
a seguito del contatto con la materia.
- 20 I Fairport Convention nascono nel novembre 1967 con un organico
imperniato sulle chitarre di Richard Thompson e Simon Nicol, sulle voci di Ian
Matthews e Judy Dyble, con il basso di Ashley Hutchings e la batteria di Martin
Lamble.
Nel maggio del 1968 la Dyble lascia i Fairport per formare i Trader Horne, con l’ex
Them Jackie McAuley (discreto l’unico album Morning way, Dawn-1970). In
sostituzione della Dyble arriva Sandy Denny (via Strawbs), destinata a divenire
personaggio centrale nella scena del folk inglese. Il suo apporto compositivo e vocale
si rivela importantissimo sin dal secondo LP What we did on our holidays (Island gennaio ’69, con la produzione di Joe Boyd) ; l’album è un collage valido ma alquanto
disorganico di brani di varia estrazione, con i Fairport Convention che passano
disinvoltamente da pezzi d’ispirazione country folk e rock blues a tradizionali quali il
classico irlandese She moves through the fair, reso in un’ottima interpretazione dalla
chitarra di Thompson e dalla magica voce della Denny.
Unhalfbricking (luglio ’69, senza Matthews) si conferma legato ad un suono di
prospettiva USA, con ben tre versioni di brani di Bob Dylan, Si tu dois partir, Percy’s
song e Million dollar bash. La Denny regala momenti intensi con le ballate di Autopsy,
dal soffuso profumo di estati californiane, e di Who knows where the time goes.
Episodio centrale del disco è la lunga, emozionante cavalcata di A sailor’s life che
muove da rarefatte atmosfere per acquisire un crescente peso strumentale ;
l’arrangiamento di questa canzone tradizionale, con l’atteggiarsi degli strumenti ai
modi della jam rock, si rivela decisivo per la definizione del tipico stile Fairport
Convention, traccia base di grande importanza per tutto il movimento folk a carattere
progressivo.
FAIRPORT CONVENTION
-
LIEGE & LIEF
(Island - 1969)
Subito prima della pubblicazione di Unhalfbricking Martin Lamble rimane ucciso in un incidente stradale ; il
gruppo reagisce alla sventura aggregando nei due mesi successivi Dave Swarbrick (vi.) e Dave Mattacks
(bt.).
64
I tempi sono maturi per ottenere un grande risultato e puntualmente questo si verifica quando, alla fine del
1969, viene dato alle stampe l’album Liege & lief, giustamente considerato il capolavoro del folk rock
inglese. Tale definizione appare perfino riduttiva perché il lavoro è, prima di tutto, un disco profondo,
sincero, umano, vero, che trascende ogni catalogazione e ancora oggi non ha smarrito la struggente poesia
della quale a suo tempo fu nutrito. Essendo presenti ben cinque brani tradizionali il disco risulta, tra i primi
lavori dei Fairport Convention, quello che maggiormente s’avvicina all’ispirazione popolare e pure appare
come il più sperimentale e carico di novità.
L’originale violino di Swarbrick e le chitarre a forti tinte rock dominano l’iniziale Come all ye. Reynardine è
magica ; l’estatico, meraviglioso canto di Sandy crea profonde suggestioni, sospeso sulle placide onde delle
chitarre, del tenue violino, delle percussioni.
I Fairport raggiungono vertici espressivi impensabili solo pochi mesi prima ; il dolce respiro di Reynardine si
dissolve nella quadrata struttura di Matty groves che recupera e spazia i concetti di A sailor’s life, attribuendo
al suono una solidità ancora superiore. L’enfasi ritmica, gli improvvisi cambi di tensione, la padronanza
strumentale sempre al servizio della globalità del risultato finale fanno di Matty groves uno degli attimi di
massimo splendore della musica del gruppo.
The deserter s’affida ad una linea melodica nitida, supportata da atipiche soluzioni ritmiche, l’arrangiamento
della bellissima Tam lin è sottolineato da chitarre insolitamente dure e dall’insistente ripetitività del tema
dominante, che donano alla canzone un carattere teso e drammatico. L’unico episodio che non s’avvale delle
notevoli prestazioni vocali di Sandy Denny è il Medley, costituito da quattro frammenti strumentali che
rappresentano una piacevole incursione nel campo della musica popolare da ballo, con Swarbrick in gran
risalto. In conclusione dei lati dell’album Farewell, farewell e Crazy man Michael, due canzoni originali,
melodiche e delicate, dipinte dalla voce di Sandy Denny.
Nonostante l’interesse sollevato e la qualità eccelsa della musica Liege & lief vende
relativamente poco, sicuramente molto meno di quanto avrebbe meritato. Hutchings
preferisce lasciare per dedicarsi al progetto Steeleye Span e subito dopo se ne va
anche la Denny, che appronta i Fotheringay e si dedica alla carriera solista. A queste
pesanti perdite il gruppo fa fronte ingaggiando Dave Pegg (bs.) e decidendo di non
sostituire la cantante, puntando su una musica asciutta ed essenziale espressa al
meglio nel disco del 1970, Full house. Certo è andata persa l’impalpabile magia sonora
del capolavoro precedente, i Fairport si sfogano con le chitarre al vento, con le
evoluzioni del violino e una ritmica concisa e puntuale (buona soprattutto la lunga e
sofferta ballata di Sloth).
La folta produzione successiva risulta di livello altalenante, la dignità, quella sì, rimane
sempre.
A differenza dei Fairport Convention che iniettano la tradizione folk su solide basi
rock, i Pentangle evolvono il loro credo musicale mischiando disinvoltamente
l’ispirazione popolare con il jazz e il blues, come ben dimostrano i lavori più indicativi
del gruppo, Sweet child e Cruel sister.
Bert Jansch e John Renbourn, chitarristi allievi di Davy Graham, sono tra gli esponenti
importanti del folk inglese ; nel 1966 i due collaborano per la realizzazione dell’ottimo
Bert & John (Transatlantic-1966) e alla fine dell’anno successivo decidono d’unire
stabilmente le forze in un nucleo che chiamano Pentangle. Con loro sono la cantante
Jacqui McShee, già collaboratrice di Renbourn, Danny Thompson (cb.) e Terry Cox
(bt.), provenienti dalla Blues Incorporated di Alexis Korner.
Dopo la pubblicazione di un buon disco d’esordio (Pentangle, Transatlantic-1968) il
gruppo raggiunge elevati livelli espressivi con il doppio Sweet child (sempre nel ’68,
prodotto da Shel Talmy), proponendo un folk jazz blues di notevole qualità. L’album si
compone di un disco registrato dal vivo alla Royal Festival Hall di Londra nel giugno
del ’68 e di una parte realizzata in studio nell’agosto seguente. Dal vivo risalta la
limpida bellezza di Market song, che svaria su tempi complessi, dei brevi frammenti
che compongono le Three dances, del duetto di chitarre di No exit (dal long playing
65
Bert & John), del tradizionale inglese di Bruton town. Toccante è la poesia di A woman
like you, una canzone scritta e interpretata dal solo Jansch. Presenti due brani di
Charles Mingus, Haitian fight song in un’interpretazione di Danny Thompson e il
classico tributo a Lester Young di Goodbye Pork-Pie hat. Non meno interessante il
materiale di studio che presenta una rifinitura sonora estremamente curata. Ancora
grande musica in Sweet child, nella cameristica Three part thing, nei briosi strumentali
In time e Hole in the coal, nelle linee melodiche della bella The trees they do grow
high, nel suono ancestrale delle percussioni di Cox in Moon dog.
PENTANGLE
-
CRUEL SISTER
(Transatlantic - 1970)
Cruel sister, tutto imperniato su materiale tradizionale arrangiato con maestria ed interpretato con sopraffina
duttilità strumentale, è il capolavoro dei Pentangle. A maid that’s deep in love colpisce per l’intreccio delle
chitarre, acustica ed elettrica, di Renbourn, con il dulcimer di Jansch e la soave voce della McShee che subito
dopo s’esibisce nel canto solitario di When I was in my prime. Lord Franklin è una canzone eseguita da
Renbourn con l’ausilio della concertina di Jansch e delle armonie vocali di Jacqui McShee. La chitarra di
Jansch e la celebre nenia vocale fanno di Cruel sister un piccolo classico, al quale il sitar di Renbourn
attribuisce un sapore insolito, che vagamente richiama il folk hippie della Incredible String Band. Il
compendio delle intenzioni si concentra nei quasi venti minuti di Jack Orion, che attraversa i modi della
canzone popolare con la consueta visuale jazz - blues, dilatando il tempo e lo spazio ai limiti estremi con un
approccio affine alle lucide sintassi dei primi Grateful Dead.
Distante sia dalle quadrate strutture ritmico melodiche dei Fairport Convention, sia
dal preziosismo strumentale dei Pentangle, la Incredible String Band nasce nel
1965 su impulso di Mike Heron e di Robin Williamson, polistrumentisti e soprattutto
hippie per vocazione.
INCREDIBLE STRING BAND - THE HANGMAN’S BEAUTIFUL DAUGHTER
(Elektra - 1968)
Heron e Williamson mettono a punto uno stile originale, una sorta di caleidoscopio musicale variopinto e
bizzarro che trova nel seguente The hangman’s beautiful daughter la sua massima espressione.
Sin dall’iniziale Koeeoaddi there la Incredible String Band esibisce le strane, immaginarie linee che
uniscono tradizione popolare britannica e misticismo orie ntale, stupende melodie perse nel tempo e anomale
particelle sonore che si fondono e si scompongono con continuità sorprendente. The minotaur’s song pare
nutrirsi della medesima scienza che illumina le visioni schizoidi di Syd Barrett. I cori assurdi e i modi
sgarbati di Swift as the wind contrastano (ma solo in apparenza) con il raffinato lirismo di Waltz of the new
moon, con la poetica The water song, con il sogno sfuggente di Nightfall.
Davvero non si capisce quale preponderante fonte d’ispirazione permetta ai musicisti di generare un affresco
sonoro quale A very cellular song, dove si mischiano echi folk, blues, gospel, classicismo barocco, Donovan
forse. Verrebbe quasi voglia di parlare di musica totale, se con questo abusato termine spesso non si cercasse
di celare la mancanza d’ispirazione e la confusione creativa. Diciamo allora musica free form, libera da ogni
condizionamento, pura nell’essenza primordiale del suono, concepita ed eseguita per il piacere di esserlo.
- 21 Gli Strawbs nascono nel 1968 su impulso di Dave Cousins (v.ch.) e Tony
Hooper (v.ch.) ; nel gruppo fa una breve apparizione anche la cantante Sandy Denny,
prima di entrare nei Fairport Convention. L’organico si completa con l’ingresso di John
Ford (bs.) e Richard Hudson (bt. - entrambi provenienti dagli Elmer Gantry’s Velvet
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Opera) e prevede la partecipazione del giovane tastierista Rick Wakeman, formatosi
su studi classici alla Royal Academy of Music e non ancora in fase di sproloquio
strumentale.
From the witchwood, registrato all’inizio del ‘71, è il frutto migliore fino a quel
momento, con le belle A glimpse of heaven, Witchwood, Flight, In amongst the roses,
la più complessa The shepherd’s song ; The hangman and the papist e Sheep
risentono in modo netto della co mmistione con il rock romantico e progressivo
dell’epoca, fornendo importanti spunti per il successivo Grave new world.
STRAWBS
-
GRAVE NEW WORLD
(A&M - 1972)
L’atmosfera di Grave new world, registrato nel novembre del ’71 con Blue Weaver al posto di Wakeman
(Yes), è intrisa di misticismo e la musica appare decisamente votata ad aspetti romantico - progressivi.
Benedictus ha le movenze della ballata folk, percorsa dalle tastiere sinfoniche di Weaver e caratterizzata
dall’epico canto corale; questo vale anche per la bella The flower and the young man, introdotta da un
suggestivo coro a cappella. New world è un girone infernale, durissima nelle intenzioni la voce di Cousins,
sinfonica nell’impostazione la musica, con il mellotron in grande evidenza. Tomorrow, così come la
piacevole Queen of dreams, riconduce a trame care ai Jethro Tull e per l’occasione Cousins sfodera una
ficcante chitarra elettrica.
Tutto sommato, con il loro folk barocco e romantico, gli Strawbs escono positivamente dalla prova, in una
stagione dove già s’avverte aria pesante di recessione creativa, nell’ambito del rock sinfonico.
In seguito all’esperienza esaltante con i Fairport Convention, la Denny nel 1970 è
giustamente annoverata tra i protagonisti fondamentali della scena folk rock inglese.
Nel marzo dello stesso anno nascono i Fotheringay, in teoria la formazione ottimale
per la cantante, con Jerry Donahue (ch.), Pat Donaldson (bs.), Trevor Lucas (v.ch.) e
Gerry Conway (bt.).
FOTHERINGAY
-
FOTHERINGAY
(Island - 1970)
Pur essendo la figura più nota ed importante, Sandy Denny non monopolizza la musica del gruppo, raffinata
ma fondamentalmente semplice, caratterizzata da una notevole brillantezza strumentale, nella quale
sentimento, intensità, trasporto emotivo sono le virtù principali.
La cantante apporta quattro composizioni personali. Nothing more è stupenda ; la canzone, interpretata con
passione ineguagliabile dalla Denny, si risolve in un flusso continuo di raffinate sonorità incastonate in una
limpida melodia folk. La sua voce accarezza le pacate armonie di The sea, colora la cristallina poesia di
Winter winds, sublima la narrazione di The pond and the stream.
Lucas imposta The ballad of Ned Kelly e Peace in the end con sicuro passo cadenzato, molto bella è la
versione corale di The way I feel di Gordon Lightfoot, che ricorda da vicino l’approccio vocale di certi
gruppi della California fine anni sessanta, coinvolgente è Too much of nothing, immancabile cover di un
brano di Dylan. Il tradizionale Banks of the Nile, arrangiato dalla coppia Denny / Lucas, chiude degnamente
l’eccellente unico lavoro dei Fotheringay che pochi mesi più tardi, nel corso delle registrazioni di un secondo
album mai completato, pongono fine alla breve avventura.
Sandy Denny intraprende la carriera come solista, pubblicando nel ’71 l’ottimo The
north star grassman and the ravens che, seppur inferiore, si avvicina molto al
repertorio stilistico dei Fotheringay, presenti al completo alle registrazioni del disco.
Tra i brani significativi dell’album vanno ricordati Late november, una ballata dalle
struggenti linee melodiche nella migliore tradizione della Denny, la tradizionale
Blackwaterside, la marziale John the gun e le autunnali The north star grassman and
the ravens e Next time around.
67
Ancora una manciata di validi lavori prima di quel maledetto 21 aprile 1978 quando
una banale caduta dalle scale le procura un’emorragia cerebrale e la porta via,
sicuramente per il paradiso.
Altro personaggio di notevole rileva nza del folk rock inglese, Ashley Hutchings
(come la Denny) lascia i Fairport Convention subito dopo la pubblicazione del
capolavoro Liege & lief, alla fine del 1969. Il passo successivo è la creazione degli
Steeleye Span, con la cantante Maddy Prior. Dopo la pubblicazione dell’eccellente
Ten man mop or Mr. Reservoir Butler rides again, miglior disco del primo periodo, il
fondatore Hutchings abbandona il complesso che s’assesta definitivamente con i nuovi
Robert Johnson (ch.) e Rick Kemp (bs.), in appoggio ai già presenti Tim Hart (ch.v.),
Peter Knight (vi.) e Maddy Prior.
STEELEYE SPAN -
BELOW THE SALT
(Chrysalis - 1972)
Il primo risultato del nuovo corso è Below the salt, un disco controverso che rispetto al passato presenta un
suono notevolmente orientato al rock, ma che non per questo rinnega l’aspetto tradizionale della musica del
gruppo ; si tratta di un riuscito momento d’incontro tra musica popolare (tutto il materiale è ancora d’epoca)
e la propensione ad un’espressione che tiene maggior conto del numero di copie vendute. Purtroppo, per gli
Steeleye Span Below the salt è anche un punto di non ritorno, un precedente di successo che induce la
formazione a svilire i contenuti della proposta musicale alla ricerca di una costante conferma commerciale.
In ogni caso l’album è opera degna, in parte pregevole, che pure riflette una certa freddezza stilistica tipica
del complesso.
La gelida King Henry presenta un incedere deciso, la chitarra è più elettrica che mai e Knight orchestra i
violini concedendosi qualche licenza espressiva. Molto belle pure Sheepcrook and blackdog e Saucy sailor,
che sfrutta un arrangiamento facile e ammiccante senza smarrire la vena romantica mentre Rosebud in june e
l’inno sacro di Gaudete sono maestosi canti a cappella.
Un breve cenno per gli irlandesi Horslips, autori dell’album Happy to meet sorry to
part che nel 1973 rivisita in maniera elettrica e con arrangiamenti elaborati la musica
tradizionale dei propri luoghi d’origine. Il disco è il più rappresentativo della folta
discografia ed esplica le soluzioni sonore care al complesso, forse non troppo originali
per via del facile (e ingeneroso) paragone con i Jethro Tull, comunque accettabili e
non forzatamente commerciali, almeno nei primi due lavori (The tain, Oats-1973).
- 22 Numerose formazioni poco conosciute dal grande pubblico si agitano nel
panorama underground offrendo un sottovalutato, quasi sempre fuggevole ma anche
originale, contributo ad un rock d'ispirazione folk. Tra queste, i Foresters of Walesby
nascono nel 1967 dall’unione dei fratelli Martin e Hadrian Welham con Derek Allenby,
tutti polistrumentisti. Il gruppo, mutato il nome in Forest, firma un contratto
discografico con la Harvest che frutta la pubblicazione di un singolo e del primo album
omonimo.
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FOREST
-
FOREST
(Harvest - 1969)
Interamente composti dai tre musicisti, i brani dei Forest sono costruiti su arrangiamenti piuttosto originali e
bizzarri, con improvvisi cambi di umore e di tempi, sorretti da un approccio strumentale complesso ed
articolato, solo in apparenza trasandato. La proposta dei Forest è avvicinabile a quella della Incredible String
Band anche per le strane, atipiche armonie vocali ; il gruppo si ferma però all’aspetto esteriore e superficiale
delle canzoni, magari rese in modo informale, mancando del surrealismo, del fervore sperimentale e
visionario di un’opera quale The hangman’s beautiful daughter.
Filastrocche dall’incedere obliquo (Bad penny, While you’re gone), canzoni cariche d'inatteso lirismo (A
glade somewhere, Don’t want to go), limpide e suggestive ballate sempre pronte a stupire per l’elasticità
della struttura (Lovemakers’ ways, Sylvie, Rain is on my balcony) ; in Mirror of life si assiste ad un piccolo
delirio sulla stessa lunghezza d’onda di Peter Hammill e l’emozionante Fading light conquista uno spazio nel
cuore per via dell’ottimo lavoro alle chitarre e per la bella melodia della voce di Hadrian Welham.
Nella primavera del 1970 i Forest registrano il nuovo LP Full circle (sempre per la
Harvest), che appare leggermente meglio rifinito, perdendo parte dell’aspetto
estemporaneo e mantenendo pressappoco lo stesso livello qualitativo del disco
precedente. Ovviamente una simile musica non vende e il destino dei Forest è
segnato, senza possibilità d’ulteriore appello.
Ancora più amara è la storia dei Trees, autori di due splendidi lavori per la CBS nel
1970 che non hanno molto da invidiare ai migliori esempi del folk rock inglese.
Nessuno li ha degnati di uno sguardo, di un tardivo ascolto.
La formazione presenta un organico sul modello dei primi Fairport Convention, con le
chitarre di Barry Clarke e David Costa, una solida sezione ritmica composta da Bias
Boshell (bs.v. e principale compositore) e da Unwin Brown (bt.), con la voce solista di
Celia Humphris. All’inizio del 1970 il gruppo pubblica l’album The garden of Jane
Delawney, che propone materiale tradizionale alternato ad ottime composizioni di
Boshell. Indubbiamente riusciti appaiono gli arrangiamenti della bella melodia
tradizionale di The great silkie, le ottime elaborazioni di Lady Margaret e Glasgerion,
l’appassionante rilettura della classica She moved thro’ the fair, tutti brani
caratterizzati da un emozionante suono elettroacustico che a tratti presenta forti tinte
rock.
Tra i brani composti da Boshell spiccano la pacata ballata di The garden of Jane
Delawney, la delicata Epitaph e il canto meravigliato della conclusiva Snail’s lament.
TREES
-
ON THE SHORE
(CBS - 1970)
Il disco passa pressoché inosservato, ma ugualmente al gruppo viene concessa una doverosa ulteriore
chance ; il secondo On the shore è lavoro che merita d’essere ricordato tra i più interessanti del folk rock
britannico. Il gruppo appare compatto e convinto dei propri mezzi, la musica acquista maggior consistenza e
sposta l’attenzione verso un’espressione marcatamente rock. La voce di Celia Humphris, un poco timida e
priva della personalità delle grandi cantanti della scena folk, si difende bene e risulta più sicura e precisa che
in precedenza.
Soldiers three inaugura il disco con sonorità decisamente elettriche. Murdoch è una notevole composizione
di Boshell, con un’ottima interpretazione della Humphris, chitarre acustiche ed elettriche a sostenere il ritmo
e la melodia. L’attacco della magnifica e fiera Streets of Derry è quasi hard, la ritmica insistente e mutevole,
le chitarre elettriche si distendono verso drammatici orizzonti rosso fuoco. I Trees sono al massimo delle
possibilità espressive, difficile andare oltre. Sally free and easy (con Tony Cox al basso) ci prova, con un
approccio sussurrato e melodico che spazia in un coinvolgente crescendo strumentale. La seconda parte del
69
disco appare equilibrata, priva di sbavature, con due buoni originali quali Fool e While the iron is hot e
ancora offre prestazioni di rilievo in Geordie e in Polly on the shore.
Ignorati al di fuori della scena underground, ai Trees non resta che rassegnarsi
all’ennesimo beffardo scioglimento.
I nomi del sottobosco folk sono numerosi : la fascinosa C.O.B., gli sconosciuti
Dulcimer, la appena più nota formazione dei Tudor Lodge (un album nel ’70 per la
Vertigo, al quale collaborano Danny Thompson e Terry Cox dei Pentangle), gli originali
Dr. Strangely Strange (ottimo Heavy petting, Vertigo-1970), gli accattivanti Dando
Shaft (bella la vena limpida e raffinata del secondo Dando Shaft, Neon-1971), ma uno
in particolare brilla d’intensa luce ..... è la fine degli anni sessanta quando l’ex
manager degli Yardbirds Simon Napier-Bell, alla ricerca di musicisti emergenti per la
sua etichetta SNB, s’imbatte in due dotate cantanti irlandesi, Clodagh Simonds e
Alison Williams. Il duo si battezza come Mellow Candle e nell’agosto 1968, per
l’etichetta di Napier-Bell, realizza il singolo Feeling high / Tea with the sun. Il 45 giri
riscuote un insuccesso assoluto, come del resto la stessa casa discografica che ben
presto fallisce.
Bisogna attendere l’inizio del nuovo decennio per ritrovare il nome Mellow Candle, alla
ribalta per alcuni concerti irlandesi. La formazione si è nel frattempo ampliata, con
l’ingresso di David Williams (ch.), fratello di Alison, di Frank Boylan (bs.) e di William
Murray (bt. - che vanta una collaborazione con Kevin Ayers).
Nell’autunno del ‘71 i Mellow Candle firmano per la Decca, che prima pubblica (per
l’etichetta Deram, all’inizio del ’72) il singolo di Silver song / Dan the wing e quindi
l’album Swaddling songs.
MELLOW CANDLE
-
SWADDLING SONGS
(Deram - 1972)
La formazione si esprime con delicate, stupende melodie dal sapore antico, rivisitate con spirito attuale e
afflato romantico, come la preziosa Heaven heath, l’incantevole Sheep season, con le voci di Simonds e
Williams che s’incrociano e si rincorrono mirabilmente, in un’estasi sonora alla quale contribuisce una
strumentazione raffinata ed essenziale. La pianistica Reverend sisters e la tenue ballata di Silver song,
entrambe composte dalla Simonds, si associano alla bellissima melodia di Messenger birds (della Williams)
nell’affrontare ed impadronirsi dei fragili, emozionanti equilibri che regolano questa musica. Anche quando i
ritmi si fanno più sostenuti la stesura rimane diretta e naturale, priva d'artifizi, innocente nel suo profondo
romanticismo : The poet and the witch, Dan the wing, Break your token, Buy or beware, Boulders on my
grave s’avvalgono delle eccellenti capacità strumentali dei musicisti, delle chitarre di David Williams
(Lonely man), della mai invadente sezione ritmica.
Nonostante l’elevata qualità il disco vende pochissimo e davvero non si capisce il
perché, dal momento che la proposta non sottintende ricerche sperimentali, né
evidenzia particolari asperità timbriche. Il finale di partita è già visto, con i Mellow
Candle che si dissolvono nel nulla accompagnati dalla loro eterea musica.
Per concludere, i Gryphon, una formazione sorta nel 1972, da molti considerata una
fulgida speranza del folk inglese, promessa mantenuta solo in parte a causa di un
precoce decadimento commerciale dopo i primi tiepidi entusiasmi. Richard Harvey
(ts.s f.) e Brian Gulland (sf.), due brillanti studenti del Royal College of Music, si
uniscono al chitarrista Graeme Taylor e al percussionista e cantante David Oberlé con
l’obiettivo di realizzare una musica basata su soluzioni acustiche d’impostazione
70
tradizionale, attraverso una rivisitazione personale, un atteggiamento estroverso,
tutt’altro che cattedratico.
GRYPHON
-
RED QUEEN TO GRYPHON THREE
(Transatlantic - 1974)
Dopo due buoni album dediti ad un approccio più tradizionale, anche se non certo di maniera, il nuovo Red
queen to Gryphon three (registrato nell’agosto del ’74) avvicina notevolmente il gruppo a forme di rock
progressivo, con largo uso di strumentazione elettrica.
L’estetismo di Opening move offre la prospettiva del folk ormai completamente assorbito nei tessuti di una
musica che riassume la propria bellezza formale in lunghe e raffinate composizioni interamente strumentali,
di notevole equilibrio stilistico ed estremamente seducenti, vagamente assimilabili alle prime esperienze di
un Mike Oldfield ma dotate di un’anima più profonda. Second spasm richiama in linea retta i dischi
precedenti ma tastiere, chitarra e ritmica sono ben più presenti e corpose, il contrasto fra strumenti elettrici e
d’epoca crea un singolare fascino e una musica intelligente e divertente.
Lament si basa su una splendida melodia senza tempo, che gli Yes avrebbero pagato a peso d’oro, e
internamente evolve in svariate direzioni dimostrando la poliedricità e la sensibilità di questi musicisti. La
conclusiva Checkmate appare ancora più complessa e moderna nella scelta dei suoni, senza perdere in
immediatezza.
71
LE SETTIMANE ASTRALI E I GIORNI DELLA LUNA ROSA
- 23 Chiusa l’avventura dei Them, il produttore Bert Berns convince Van Morrison
a trasferirsi a New York per registrare alcuni singoli e una serie di canzoni, raccolte su
vari album senza l’autorizzazione dell’artista. Dopo la morte di Berns, l’irlandese trova
spazio alla Warner Bros. e qui inizia una monumentale carriera come solista.
VAN MORRISON
-
ASTRAL WEEKS
(Warner Bros. - 1968)
Il vero esordio avviene con Astral weeks (novembre ’68), registrato nell’arco di due sessioni di studio
consecutive, per un totale di ben...sedici ore complessive di lavoro. I tempi del focoso rhythm & blues dei
Them sembrano appartenere alla preistoria : la musica ora è acustica, fascinosa e romantica, di grande
raffinatezza strumentale con presupposti folk e jazz, arricchita da misurati interventi orchestrali.
Ciò che importa in Astral weeks non sono tanto la bellezza e le soluzioni di ogni singolo episodio, quanto
l’imponente struttura complessiva del lavoro, concepito come una sinfonia per ‘low budget orchestra’ che si
stempera in una sobria atmosfera quasi cameristica. Il solo brano che in qualche modo si ricorda del R & B
originario è The way young lovers do, che recupera il ritmo confondendolo con chiari riferimenti jazzistici.
Le altre (Astral weeks, Beside you, Cyprus avenue e Madame George le più virtuose) sono canzoni rarefatte
ed intense, con chitarra, flauto, vibrafono, violino, contrabbasso che si alternano alla guida del suono,
duettano, si fondono tra loro creando uno spazio vergine colmato magistralmente dalla voce di Morrison,
caratteristica, forte ed espressiva, capace di assumersi la responsabilità di un contesto musicale tutt’altro che
semplice e accomodante, dando fiato ad una poesia visionaria, trasognata e nostalgica. Astral weeks appare
momento unico, isolato nella discografia di Van Morrison che nei lavori successivi solo episodicamente
rinverdirà l’approccio stilistico di tale capolavoro.
Philip Donovan Leitch è originario di Glasgow e, a soli diciannove anni, viene già
definito il nuovo Bob Dylan. E’ il primo di un’interminabile serie (che continua ancora
oggi) di presunti discepoli del menestrello di Duluth ma, come spesso accade,
l’accostamento con il maestro è improprio.
Donovan intelligentemente cerca di sfruttare la popolarità derivata dallo scomodo
paragone atteggiandosi a novello folksinger e nel 1965 incide una notevole quantità di
brani, che vengono raccolti su alcuni singoli e su due LP (What’s bin did and what’s bin
hid e Fairytale, Pye). Il repertorio spazia da canzoni di protesta, dal tono comunque
gentile, a dolci brani che in parte anticipano lo stile futuro. Buone canzoni, ma nel
complesso nulla di trascendentale.
Ben presto Donovan entra in contatto con la scena psichedelica californiana e con il
flower power. Sotto la produzione di Mickie Most vedono la luce due importanti album
improntati ad una musica sognante e psichedelica, percorsa da brividi orientali,
sostanziata da arrangiamenti rock e da un uso misurato di orchestrazioni classiche. Il
notevole Sunshine superman (Pye, per il mercato inglese) e la ve rsione USA Mellow
yellow (Epic) sono pubblicati nel 1967 e comprendono numerosi titoli in comune. Al
fianco di canzoncine preparate con gusto inimitabile, quali Sunshine superman e
Mellow yellow, trovano posto delicati acquerelli d’infinita dolcezza che rispondono ai
nomi di Guinnevere, Celeste, Writer in the sun e la bellissima Season of the witch,
sulla quale spira un tiepido vento proveniente dalla costa occidentale degli States che
porta una musica elettrica e disinvolta.
72
DONOVAN
-
A GIFT FROM A FLOWER TO A GARDEN
(2 LP Pye - 1968)
Alla fine del ’67 Donovan ripone le fantasie psichedeliche di Sunshine superman e diventa seguace del guru
indiano Maharishi Mahesh Yogi ; la musica ne risente fortemente, acquisendo serenità e toni quieti in
omaggio alla teoria dell’amore assoluto ed universale. La voce del cantante appare ancora più distesa,
rilassata, e la strumentazione si propone con gran sobrietà, dimenticando buona parte dei preziosismi timbrici
senza perdere in eleganza e fascino. Il risultato è il doppio A gift from a flower to a garden.
Il primo disco presenta un suono moderatamente elettrico, equilibrato ed arricchito dai misurati interventi di
ospiti quali Harold McNair (fl.) e Mike O’Neil (ts.). I brani più significativi sono l’eterea Wear your love like
heaven, l’accattivante Mad John’s escape e l’affascinante cadenza jazzata di Oh gosh con il decisivo apporto
del flauto di McNair. Il secondo LP, completamente acustico e con sporadici interventi di musicisti esterni, è
ancora più rigoroso ed estremo nella scelta stilistica, rasentando a tratti una certa monotonia di fondo. Non
mancano però attimi di assoluta illuminazione, come nel caso di Isle of Islay, forse la più bella canzone di
Donovan tra quelle che si muovono in territori di delicata passione.
La pubblicazione dell’album è seguita da un nuovo tour americano di gran successo.
Da alcuni concerti tenuti al Fillmore West di San Francisco è tratto il materiale di
Donovan in concert, squisito esempio della capacità di coinvolgimento e della nitida
bellezza della sua proposta acustica. Il successo prosegue anche con gli ultimi lavori
dei sessanta, Hurdy gurdy man (Epic-1968) e Barabajagal (Epic-1969, con la facile
ballata di Atlantis e la presenza del Jeff Beck Group).
Certamente meno interessante, ma non per questo trascurabile, la parabola
artistica di Steven Georgiou, un cantante d’origine greca che nel 1966 esordisce dopo
essersi ribattezzato Cat Stevens. Durante un periodo di forzata inattività per motivi
di salute il cantante prepara buona parte del materiale utilizzato per il suo album
migliore, Mona bone jakon. Cat Stevens propone una musica acustica che prende
spunto dalla canzone d’autore piuttosto facile ma di buon gusto, ispirata a modelli
vagamente folk. La voce è caratteristica, modulata con precisione, capace di
affrontare atmosfere dolci e morbide, come di passare senza problemi a toni più
robusti. Le ottime vendite del singolo con la leggiadra ballata di Lady d’Arbanville
servono da traino per tutto il long p laying, che si sostenta con le semplici ma efficaci
armonie delle buone Maybe you’re right, I think I see the light, Mona bone jakon,
trova sfogo nell’ironia di Pop star e si crogiola nelle leggere tinte color pastello di
Trouble e di Katmandu.
- 24 Syd Barrett : mito e leggenda, disgrazia e disperazione, forse solo un uomo
alla ricerca di se stesso, con le sue illusioni, con i suoi vertici creativi e i frequenti crolli
psichici, esaltato da inafferrabili voli d’immaginazione, provato dalle droghe e
dall’incapacità d’esprimere compiutamente in musica il pensiero. Il chitarrista infuriato
di sperimentazione degli anni sessanta o il grasso, tranquillo e un poco strano signore
dei tempi recenti, quale sia il suo vero volto alla fine ha ben poca importanza. Meglio
lasciar perdere il complicato rebus della sua vita, anche per rispetto alla persona, e
guardare con serenità alla sua opera da solista, a quella preziosa manciata di canzoni
che ha lasciato come testamento musicale di un’epoca colma di disagio, ma non solo
di sofferenza.
73
SYD BARRETT
-
THE MADCAP LAUGHS
(Harvest - 1970)
Dopo l’inevitabile, sofferto abbandono dei Pink Floyd, nell’aprile del 1969 Barrett torna in studio in discreta
forma per registrare, con l’aiuto del produttore Malcom Jones, del nuovo materiale da inserire in un ipotetico
album. Per facilitare il lavoro Jones decide di far incidere la base di chitarra e voce dal solo Barrett, evitando
il problematico confronto diretto con altri musicisti (Wyatt, Hopper, Ratledge - i Soft Machine - Jerry
Shirley degli Humble Pie e Willie Wilson dei Jokers Wild) che successivamente vengono chiamati a
sovraincidere i propri strumenti. Da queste sedute sono ricavate la lenta e indolente Terrapin, la tipica
filastrocca di Love you e un gruppo di ottime composizioni caratterizzate da un suono piuttosto elettrico :
molto bella è No good trying, probabilmente sovraincisa dai Soft Machine al completo, No man’s land è
elettrica e caotica, Late night è arrangiata in stile Pink Floyd mentre Here I go viene registrata in diretta con
Wilson e Shirley. La musica appare notevolmente lontana dalle sperimentazioni dei primi Pink Floyd, una
sorta di pigro e stravolto impasto elettroacustico che si muove attorno alla voce trasognata di Barrett, resa
ancora più insolita dal forzato montaggio sonoro adottato per l’occasione.
In giugno Jones è rimpiazzato da David Gilmour e Roger Waters, che cercano d’imprimere al lavoro di
Barrett una maggiore concretezza. Una nuova seduta di registrazione frutta l’accattivante ballata di Octopus,
la suggestiva Golden hair e due nuovi brani, le notevoli Dark globe e Long gone (la prima solitaria, la
seconda con qualche aggiunta di voce e organo) che portano Barrett ai limiti delle sue possibilità.
Nel gennaio ’70 viene infine pubblicato The madcap laughs, che ottiene ottime recensioni e vendite
incoraggianti.
Il secondo LP Barrett esce nel novembre del 1970, costituito essenzialmente da
canzoni composte nel ’69 durante la lavorazione di The madcap laughs, oltre che da
alcuni nuovi brani tra i quali la pregevole Baby lemonade, lo strampalato blues di
Maisie e Rats, una pazzesca jam in presa diretta che si risolve in un caotico ed
insistente crescendo vocale e strumentale.
In seguito alla pubblicazione di Barrett l’artista non riesce a combinare granché. Nel
febbraio del ’72 il bassista Jack Monk (ex membro dei Delivery, una poco conosciuta
formazione di Canterbury) matura l’idea degli Stars, un gruppo che coinvolge Barrett
oltre al batterista John ‘Twink’ Alder (personaggio di centrale importanza
dell’underground londinese, già con Tomorrow, Pretty Things, Pink Fairies). La
formazione effettua l’esordio ufficiale il 24 febbraio al Corn Exchange di Cambridge,
con gli MC5 e gli Skin Alley. Le precarie condizioni di Barrett determinano il totale
insuccesso dell’esibizione e il rapido scioglimento degli Stars. Benché circoli la voce
insistente dell’esistenza di nastri del gruppo registrati dallo stesso Barrett, nulla di
quell’effimera avventura vede la luce su disco .
Poi il silenzio cala su Barrett, a cementare la solita leggenda del perdente. Ciò che
importa e deve bastare sono le tracce da lui lasciate nei dischi, da solo e con i Floyd,
inamovibile testimonianza del talento di uno dei grandi innovatori del rock progressivo
inglese.
- 25 Musicista di notevole interesse della scena musicale inglese Jack Bruce, dopo
gli eclatanti ma poco duraturi entusiasmi con i Cream, preferisce dedicarsi ad una
carriera come solista di non facile affermazione, ancora più coraggiosa dal momento
che l’attenzione creativa viene rivolta ad un’originale mistura di rock, folk, canzone
melodica con forti inflessioni jazz, che ben poco ha da spartire con i precedenti rock
blues.
74
JACK BRUCE
-
HARMONY ROW
(Polydor - 1971)
Il vertice qualitativo è raggiunto con le registrazioni del gennaio ’71, dalle quali emerge il piccolo
capolavoro di Harmony row. Avvalendosi esclusivamente dell’apporto di Chris Spedding (ch.) e di John
Marshall (bt.), a quei tempi entrambi di stanza nei Nucleus di Ian Carr, Bruce si dimostra compositore
sopraffino e musicista completo, bassista fantasioso e dotatissimo (già si sapeva), tastierista misurato e
cantante limpido ed equilibrato. Impossibile resistere al fiero e struggente lirismo della pianistica Can you
follow ?, alle ingegnose soluzioni armoniche della bellissima Escape to the Royal Wood (on ice), alla grazia
melodica di Folk song, al rock brioso e mai ottuso di You burned the tables on me, con la chitarra
scoppiettante di Spedding, e ancora di Post war e di A letter of thanks.
Roy Harper è un cantante e compositore atipico dalla complessa personalità, che
sconta un’infanzia difficile e disavventure varie a base di manicomio, elettroshock e
galera. Dopo continui ca mbi di casa discografica finalmente Harper trova spazio alla
Harvest e, con la pubblicazione di Flat baroque and beserk (1970), inizia il periodo
decisivo della sua carriera. Sull’album appaiono i Nice e proprio in quei giorni Harper
ha modo di conoscere i Led Zeppelin, in occasione del festival di Bath.
ROY HARPER
-
STORMCOCK
(Harvest - 1971)
Stormcock raggiunge il vertice espressivo in una complessa, matura elaborazione acustica e vocale che si
dispiega in quattro lunghe composizioni. Apre la pacata Hors d’oeuvres con quelle voci impossibili, sospese
ed intrecciate su diversi piani mentali ; uno stato d’incoscienza virtuale, un sogno ad occhi aperti. The same
old rock riporta a terra, con la chitarra solista di Jimmy Page, e affronta una maggiore varietà armonica,
alternando frasi di notevole pregnanza e bellezza formale ed evoluzioni vocali d'assoluta eccellenza che
ricordano i voli stellari di Tim Buckley, gli incubi spaziali di Peter Hammill, in ultima analisi l’insegnamento
basilare delle stratificazioni sonore di Ligeti, sia pure rivisti in forma barocca.
Le linee folk blues della chitarra di One man rock and roll band sono allungate, strascicate fino
all’esasperazione del suono, nella trepidante attesa di un evento mai consumato. Me and my woman è
stupenda, equilibrato esempio di suite da camera in quattro tempi con misurati ed adeguati interventi
orchestrali di David Bedford, sviluppata in una sequenza di lirici frammenti folk, canzoni intime, suggestive,
momenti ritmati e lucidi sprazzi strumentali.
Nell’ottimo Lifemask (1973) la musica si assesta su strutture meno ambiziose in
canzoni d’intrinseca bellezza come Highway blues, Bank of the dead, la funerea All
Ireland ; l’eccezione è costituita dal poema musicale The Lord’s prayer che tradisce un
assetto troppo rigido e severo, accusando qualche cedimento nell’arco della lunga
esposizione.
L’artista è all’apice della notorietà, tiene esibizioni live accompagnato da musicisti di
fama. Nel febbraio ’74, il giorno di San Valentino, viene pubblicato il nuovo LP
Valentine (Harvest) e Harper tiene un famoso concerto al Rainbow con il sostegno tra
gli altri di Jimmy Page, Keith Moon e di un’orchestra diretta da David Bedford. Di non
minore effetto il concerto a Hyde Park, gratuito come agli inizi di carriera, ma ora
l’artista è accompagnato da Dave Gilmour, John Paul Jones e Steve Broughton.
L’approccio è divenuto decisamente elettrico, molto del fascino originario è andato
perso ma Harper rimane un musicista credibile, capace di conservare dignità e
sincerità nel suo modo introspettivo di fare musica.
Michael Chapman è un altro folksinger sotterraneo e ingiustamente
sottovalutato ; valido chitarrista, ma pure cantante ricco di sensibilità, dotato di una
75
voce cruda e vissuta, come Harper fa parte della scuderia Harvest, almeno nel periodo
migliore dal punto di vista creativo. I suoi Rainmaker (1969), Fully qualified survivor
(1970), Window (1971) e Wrecked again (1971) spiegano abbondantemente l’onestà
e le qualità del musicista. Si passa da brani per sola chitarra acustica come Rainmaker
o come lo squisito ragtime di Naked ladies and electric ragtime alle belle ballate folk di
In the valley e The first leaf of autumn, sino alla schiettezza stilistica di Last lady song
che richiama vaghe allusioni soul. In alcuni brani del secondo album appare l’elettrica
di Mick Ronson : notevoli sono Kodak ghosts, Soulful lady (dal forte accento rock) e
soprattutto la triste e decadente Postcards of Scarborough, valorizzata da un misurato
arrangiamento di archi di Paul Buckmaster. L’intervento di Buckmaster è decisivo alla
riuscita della magnifica Wrecked again, una canzone nel cui impianto folk s’innestano
interventi orchestrali di stampo classico.
Texano di Fort Worth, Shawn Phillips può essere considerato inglese d’adozione
anche se, per il carattere libero ed aperto, pare giusto definirlo un girovago cittadino
del mondo. Il primo risultato di rilievo viene colto con Contribution (A&M-1970) che
riassume alcune parti di quello che sarebbe dovuto diventare un progetto ambizioso,
un album triplo con musicisti della London Philarmonic Orchestra, Paul Buckmaster e i
Traffic. Phillips inizia a sviluppare uno stile vocale affascinante ed originale,
caratterizzato dalla grande capacità di controllo di toni e sfumature. Il modello preso a
base del suo lavoro è di certo quello del Tim Buckley sperimentale di opere come
Lorca, Blue Afternoon e in parte di Starsailor.
Second contribution nel 1971 ottiene i risultati migliori con un collage sonoro di
grande e quilibrio formale, reso possibile da una raggiunta maturità compositiva ed
interpretativa di Phillips, oltre che dall’aiuto profuso da una fitta schiera di musicisti di
valore, tra i quali il tastierista Pete Robinson (Quatermass, Come To The Edge) e Paul
Buckmaster, splendido esecutore al violoncello e responsabile di pregevoli
arrangiamenti orchestrali.
Kevin Coyne inizia la carriera nei Siren, una formazione che nel 1970 ha modo di
registrare e vedere pubblicati un paio di album (Siren e Strange locomotion) per la
Dandelion, l’etichetta di John Peel.
Passato alla neonata Virgin, Coyne raccoglie le principali configurazioni del suo
particolare stile in due LP ; verso la fine del ’73 Marjory razor blade si dibatte tra il
rhythm & blues di Marlene (e della potente Eastbourne ladies) e il rock’n’roll di
Chicken wing, tra canzoni prossime alla ballata folk (Talking to no-one, Chairmans ball
e la pregevole House on the hill) e brani d’impostazione blues come Jackie and Edna e
il tradizionale I want my crown. La voce è decisamente sgraziata, a volte ricorda
l’approccio insofferente di Van Morrison, in altre occasioni si deforma attingendo alla
scuola ‘bestiale’ di Captain Beefheart, come nella Marjory razor blade iniziale e in
Karate king, pur rimanendo originale, sofferta, spesso al limite dell’insolenza (Dog
latin, This is Spain, Good boy). Certo siamo lontani da improponibili accostamenti con
Joe Cocker, come qualcuno ha furbescamente cercato di lasciar intendere, forse per
agevolare una poco probabile ca rriera commerciale.
- 26 John Martyn e Nick Drake, musicisti diversi tra loro ma uniti da una comune
sensibilità artistica che, ciascuno a modo suo, li fa giungere alle soglie della
consapevolezza.
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John Martyn è il più forte dei due, la personalità più spiccata, capace di governare
creativamente le spinte propulsive del proprio animo e per questo estremamente
efficace nell’interpretazione, duraturo nei risultati, ma pure privo della tremante,
sofferente purezza poetica della musica di Nick Drake.
Martyn raggiunge il culmine della sua lunga carriera nel 1973 con la pubblicazione di
due lavori fondamentali, quali Solid air e Inside out.
Solid air ricorda da vicino il quieto e raffinato folk acustico, intriso di blues e di jazz, di
Mark-Almond, con in aggiunta una voce espressiva e coinvolgente ; su questo piano si
collocano brani come la title track e Don’t want to know, mentre altri preferiscono
affidarsi a nitide rimembranze folk (Over the hill) o ad esuberanze blues (The easy
blues). La s perimentazione si fa strada nella rilettura di I’d rather be the devil di Skip
James, resa con gran trasporto ritmico e con sonorità che si dividono tra basi
acustiche ed impennate elettriche.
JOHN MARTYN
-
INSIDE OUT
(Island - 1973)
Registrato nel luglio 1973 con l’aiuto di musicisti del calibro di Stevie Winwood, Chris Wood (Traffic) e
Danny Thompson (Pentangle), Inside out è il superbo risultato della creatività di Martyn. Fine lines mostra
subito una voce profonda, appassionata e una totale padronanza sugli arrangiamenti. Il traditional Eibhli
ghail chiuin ni chearbhaill è un leggero alito di vento tiepido spazzato via dal brusco realismo di Ain’t no
saint, che aggredisce con una vocalità insistente e con un memorabile, spasmodico trattamento di chitarra.
Outside in capovolge i termini del discorso musicale di Martyn che esce allo scoperto e fornisce la pagina
più sperimentale, coniugando enfasi ritmica e lirici sprazzi armonici, echi ancestrali e prospettive di moderna
sintassi in un’atipica simmetria di suoni e colori. Subito dopo, The glory of love diffida ironicamente a
prendere tutto troppo sul serio. Di minore intensità la seconda parte dell’album, che offre le cose migliori
nell’acida Look in e nel toccante strumentale di Beverley.
Quando, il 25 novembre 1974, Nick Drake si toglie la vita assumendo una dose
eccessiva di un antidepressivo il mondo della musica rock resta indifferente al
consumarsi dell’ennesima grande tragedia. Proprio perché di grande tragedia non si
tratta, non di mito né di leggenda ma solo di un sensibile ragazzo impegnato nel
disperato tentativo di comunicare con il prossimo, con la natura, con il mondo esterno
che impietosamente lo respinge. Una figura fragile, un angelo di depressione e
d'infinito amore.
E’ Ashley Hutchings, allora bassista nei Fairport Convention, a scoprirlo nel 1968 e ad
introdurlo al solito Joe Boyd, produttore di primaria grandezza in ambito folk rock. Il
risultato è la pubblicazione nel 1969 di Five leaves left (Island) nel quale la musica di
Drake non pare ancora completamente definita, anche se il disco evidenzia
ugualmente le principali doti di uno stile costruito su ballate semplici e lineari, di
lucente bellezza, reso appena più severo dal frequente utilizzo di arrangiamenti
orchestrali di stampo classico.
Nel settembre del 1970 Drake ci riprova con maggior convinzione dando alle stampe
lo splendido Bryter layter. La disillusione e la tragedia sono lontane e Drake offre
ampia dimostrazione delle potenzialità creative ed interpretative, fissando le qualità e
i limiti della sua musica, perfezionando un timbro vocale caratteristico, fatto di ‘aria
solida’ e colmo di passione.
Si passa dalle due spigliate Hazey Jane, con i Fairport Convention (Thompson, Pegg e
Mattacks), a One of these things first nel più classico stile di Drake. At the chime of a
city clock e Poor boy presentano un incedere ricco di sfumature jazzate mentre Bryter
layter e Sunday sono frammenti d’illuminata semplicità nei quali, riposta per un attimo
l'affascinant e voce, Drake traccia una serena linea melodica alla chitarra, valorizzata
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dal delicato fraseggio del flauto e da una sobria sezione d’archi. Basilare la presenza
dell’ospite d’onore John Cale, che lega il proprio contributo a due delle canzoni più
belle : la magnifica Fly, cameristica ed appassionata, con l’ex Velvet Underground alle
prese con clavicembalo e l’inseparabile viola, e Northern sky, nel tipico stile del
cantautore.
NICK DRAKE
-
PINK MOON
(Island - 1972)
Purtroppo la qualità di Bryter layter non è ripagata dal giusto riscontro di pubblico ; stimato da musicisti e
addetti ai lavori, ma incapace di trovare il necessario rapporto con il pubblico e il music business, Drake si
chiude in se stesso e il carattere fragile ed introverso gli rende problematico l’esibirsi dal vivo con continuità.
Questa situazione porta l’artista ad incidere in completa solitudine il terzo album Pink moon, pubblicato nel
febbraio del 1972.
L’iniziale brano omonimo fa gelare il cuore, illustrando perfettamente lo stato d’animo decadente e privo di
speranza di Drake che canta con voce cupa e rassegnata, accompagnandosi con un pregevole quanto
inanimato suono di chitarra ed inserendo poche tristi note di pianoforte. L’intrinseca bellezza di canzoni
quali Place to be, Road, Which will non modifica l’atmosfera opprimente che attanaglia il disco. Nick Drake
canta la solitudine, l’impotenza, l’incapacità di comunicare al prossimo la propria arte.
Horn è un breve, desolato frammento per sola chitarra che emette rintocchi funerei. Things behind the sun,
capolavoro dell’album, si muove su spigliate linee da ballata folk, sembra dare segni di ripresa ma è solo
apparenza, la voce di Drake raggiunge l’apice della sofferenza, l’uomo è ormai solo sotto la pioggia.
La minimale Know lascia presagire poco di buono con il suo canto patito, uno spiritual proveniente da una
dura terra di ghiaccio ; dopo l’interlocutoria Free ride, Parasite getta nuovamente nella costernazione, e
nelle note finali di Harvest breed e di From the morning non si trova serenità, nessun messaggio positivo. Il
suono della chitarra si spegne senza sussulti, quasi a volersi mettere definitivamente in disparte. La debole
spinta è esaurita, il destino segnato.
Un lavoro carico d'eccezionale umanità, sotto quest’aspetto simile ai grandi capolavori incompresi di un altro
illustre disperato del rock, Tim Buckley.
78
ARS LONGA VITA BREVIS
la musica della casa delle bambole
- 27 Uno dei sicuri meriti, fra i tanti, che deve essere ascritto ai Beatles è quello
dell’introduzione nella musica rock di tematiche proprie alla tradizione culturale
classica. L’uso che il quartetto di Liverpool fa di strumenti, arrangiamenti e
orchestrazioni derivanti dalla musica classica contagia ben presto il panorama del beat
e persino quello del blues revival, tanto che in certe canzoni dei Rolling Stones e degli
Yardbirds, per portare un paio d’esempi, accanto alla chitarra elettrica e alla batteria
compare l’austero clavicembalo.
L’allargarsi del fenomeno, dovuto al successo di brani pionieristici (come A whiter
shade of pale dei Procol Harum), e l’avvento nei gruppi rock di numerosi studenti
provenienti dalle scuole d’arte e dal conservatorio sono alla base della nascita del
cosiddetto rock romantico - sinfonico, che tanta fortuna commerciale riscuote nei
primi anni settanta.
Non tutte le formazioni che solcano il mare in fermento del rock progressivo
inglese decidono però di affidarsi al suono neoclassico. Alcune preferiscono
confrontarsi in modo diretto, anche se con diverse prospettive rispetto al passato, con
i vecchi e sempre validi idiomi del folk, del blues e del jazz. Tra queste i Traffic di
Stevie Winwood, che all’inizio del 1970, dopo lo scioglimento dei Blind Faith,
ricostituisce il gruppo tornando a collaborare con Chris Wood e Jim Capaldi.
TRAFFIC
-
JOHN BARLEYCORN MUST DIE
(Island - 1970)
John Barleycorn must die (che in origine doveva essere Mad shadows del solo Winwood) viene pubblicato
nell’aprile del ’70 e consente ai Traffic di riguadagnare rapidamente la popolarità d’inizio carriera. La
musica è notevolmente cambiata rispetto ai lavori degli anni sessanta ; non c’è traccia di psichedelia, oramai
fuori moda, e il suono si fa professionale e concreto, sicuramente ancora in grado di generare forti emozioni.
La prima facciata dell’album è da antologia. L’apertura è affidata al fluire della strumentale Glad, condotta a
buon ritmo dal piano di Winwood e dal sax di Wood ; nella parte conclusiva il brano si risolve in pacate
armonizzazioni che si dissolvono nella seguente Freedom rider, introdotta da un suadente sax. Torna
l’inconfondibile voce di Winwood, Wood soffia nel flauto con il consueto buon gusto e Capaldi fornisce
l’asciutto, indispensabile sostegno ritmico. Infine, la bellissima Empty pages è un rhythm & blues di tempo
medio basato su un grande suono d’organo.
Nel 1971, con l’organico ampliato a Ric Grech (bs. - dai Family), Jim Gordon (bt.) e
Reebop (pr.), i Traffic realizzano il nuovo album d i studio The low spark of high heeled
boys (Island), un buon disco anche se nettamente inferiore a John Barleycorn. La
musica presenta tessiture ritmiche frastagliate e complesse, evolve in lunghe parti
strumentali senza per questo perdere in immediatezza, anzi risultando più facilmente
fruibile nell’ambito di canzoni quali la title track, Light up or leave me alone,
Rainmaker ; le pagine migliori sono la raffinata Hidden treasure e l’appassionata
ballata di Many a mile to freedom.
Shoot out at the fantasy factory (Island-1973) enfatizza il nuovo corso musicale dei
Traffic, proponendo un piacevole e leggero soul rock ; Winwood ammette
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candidamente in musica di attraversare momenti di scarsa ispirazione
creativa...Sometimes I feel so uninspired.
Alla fine del ’73, dopo il valido doppio live On the road, i Traffic tornano al classico
triangolo d’inizio decennio ; con l’aiuto del bassista Rosko Gee il gruppo pubblica
l’ultimo When the eagle flies (Island-1974), prima di sciogliersi alla fine dell’anno.
Winwood e compagni dimostrano di poter ancora produrre musica dignitosa, il suono
riacquista parte della scarna semplicità espressiva di qualche anno prima e canzoni
come Dream Gerrard e When the eagle flies meritano di suggellare la gloriosa carriera
dei Traffic.
Gruppo di fondamentale importanza per lo sviluppo della musica progressiva
inglese, ingiustamente relegato ai margini della vasta notorietà, i Family nascono nel
1966 dalle ceneri dei Roaring Sixties. L’organico si compone del cantante Roger
Chapman, del chitarrista Charlie Whitney, del bassista / violinista Ric Grech, del
fiatista Jim King, del batterista Rob Townsend e giunge all’esordio su LP con Music in a
doll’s house (Reprise-1968). L’influenza principale è certamente quella dei Traffic e
non è un caso che la produzione del long playing sia affidata a Dave Mason. Il gruppo
riesce comunque ad imprimere, sia pure in modo caotico e privo della futura potenza
espressiva, alcuni spunti personali di notevole rilievo che preparano il terreno per
audaci ed innovative sintesi sonore. In particolare, la sequenza The chase / Mellowing
grey sorprende per gli arrangiamenti originali e soprattutto la seconda è imbevuta di
classicismo fino al midollo, anticipando atmosfere care ai primi King Crimson.
FAMILY
-
FAMILY ENTERTAINMENT
(Reprise - 1969)
Se Music in a doll’s house abbozza in ordine sparso gli elementi di un nuovo approccio stilistico, Family
Entertainment è in grado di raccogliere i primi significativi risultati. Le fonti d’ispirazione della musica del
gruppo sono innumerevoli (rock, folk, jazz, classica e qualsiasi d’altro) ma miracolosamente non s’assiste ad
un forzato ed accademico esercizio d'accostamento fra generi, bensì al riuscito tentativo di creazione di un
rock sfaccettato, dai molteplici interessi. Chapman inizia a stabilire con chiarezza il tipico stile dei Family, a
cominciare dall’indimenticabile The weaver’s answer, uno dei brani più belli di tutto il ‘progressive’ inglese.
L’introduzione è dolcissima, una tenue melodia folk sottolineata dal violino ed interpretata dalla stupenda
voce del cantante. Subito la canzone acquista peso, con un incedere ritmico che si fa ossessivo senza bisogno
di elettrificare in eccesso il suono ; i fiati di King sibilano, Chapman supera ogni barriera, apre squarci
vibranti d’emozione al limite delle possibilità fisiche. Alla fine tutto si quieta, come per incanto torna il tono
iniziale.
Observations from a hill è più di maniera ma ugualmente di notevole interesse, per quel suo mescolare la
brillante melodia folk con un violino prossimo a modi classici. Chapman è di nuovo incontenibile
nell’originalissima Hung up down, e chissà da quali meandri proviene l’idea di Whitney per l’arrangiamento
d’archi di Summer ’67, in bilico con un indefinito sapore orientale. Ancora, From past archives possiede un
impianto classico e nostalgico che all’improvviso si schiude in estemporanee visuali jazz, mentre
Processions è bellissima nel suo incedere decadente e pieno di fascino, mirabilmente sostenuta dalle chitarre
di Whitney e dalla stupenda interpretazione di Chapman ; in successione la bellissima Face in the cloud, con
sitar e ambientazione classica, nella quale si vanno a spegnere gli ultimi bagliori psichedelici.
A seguito dell’abbandono di King e Grech e con i nuovi John Weider (New Animals) e
John ‘Poli’ Palmer (dai Deep Feeling) che apporta vibrafono, tastiere e flauto, i Family
nel 1970 realizzano A song for me, un lavoro ancora più radicale del precedente.
Drowned in wine è priva di compromessi, audace convergenza di riff hard, tre / quarti
improbabili, arpeggi folk, spunti jazzati, con la voce che non fatica a ritagliarsi lo
spazio necessario all’interno di un arrangiamento caotico ma godibile. Diverse sono le
canzoni di notevole bellezza, come la paca ta Some poor soul, la strumentale 93’s ok J
80
e Song for sinking lovers, con il violino di Weider. Tra i solchi affiora qualche rudezza
in più del solito, che si nota nelle insinuanti linee di chitarra di Love is a sleeper e
soprattutto nel giro micidiale di A song for me.
Anyway... nello stesso anno ha il pregio di mostrare le indiscutibili doti del gruppo dal
vivo : Good news - bad news è esaltante e durissima, con qualche spunto ricercato
(l’assolo centrale di vibrafono) e chi pensava che la voce di Chapma n fosse
un’invenzione di studio è destinato a ricredersi, Strange band raggiunge i confini
estremi della forza espressiva, la voce è spinta ai limiti della dissonanza, l’approccio è
selvaggio, appena mediato da violino, vibrafono e qualche apertura melodica. La
seconda parte registrata in studio guadagna la piena maturità, i suoni sono intensi e
curati, Part of the load è una sorta di moderno R & B e pregevoli sono la ballata di
Anyway e lo strumentale di Normans. Infine la stupenda Lives and ladies che apre la
strada alla fortunata progenie della ballata rock epico - romantica.
Fearless (nel 1971) segna un nuovo vertice nella discografia del gruppo. Tra i brani,
estremamente livellati, risaltano Between blue and me, i raffinati Spanish tide e
Burning bridges, la solida e moderna Take your partners. Dal successivo Bandstand
(Reprise-1972) la vena creativa di Chapman e soci appare in decisa fase calante,
anche se questo non comporta svendite e facili liquidazioni, la caduta nel banale.
Piuttosto lo sciogliment o, nell’ottobre del ’73.
L’avventura dei Jethro Tull, uno dei gruppi più longevi di tutto il rock inglese,
inizia nel novembre 1967 dall’unione di Ian Anderson (v.fl.), Mick Abrahams (ch.),
Glenn Cornick (bs.) e Clive Bunker (bt.).
Nell’ottobre del ‘68 esce il primo album This was accompagnato dal singolo A song for
Jeffrey. Il disco mostra in modo esauriente lo stile dei primi Jethro Tull, improntato ad
un entusiasta rock blues nel quale si trova a perfetto agio la chitarra di Abrahams,
grintosa ed ineccepibile sotto l’aspetto tecnico. Meno impeccabile risulta l’approccio al
flauto da parte di Anderson, con uno stile ancora approssimativo, mutuato dal jazzista
Roland Kirk ; il suono dello strumento caratterizza però in modo deciso il timbro della
musica del gruppo, Anderson è un front man spettacolare in grado di coinvolgere il
pubblico dei concerti e inoltre dispone di una bella voce immediatamente riconoscibile.
La sezione ritmica è solida e precisa, anche inventiva dal momento che Glenn Cornick
è un bassista piuttosto fantasioso e Clive Bunker si dimostra batterista capace di
andare oltre ad un oscuro lavoro di accompagnamento.
L’atmosfera del disco è frizzante e brani come My Sunday feeling, Beggar’s farm, It’s
breaking me up, l’incontenibile Cat’s squirrel e l’originale A song for Jeffrey sono ben
congegnati ed eseguiti con passione e freschezza.
I contrasti tra Anderson e Abrahams, sulla direzione musicale da seguire e riguardo
alla leadership interna del complesso, si fanno sempre più netti e il chitarrista
abbandona per dedicarsi ai Blodwyn Pig. Il sostituto (che vince la concorrenza, tra gli
altri, di Dave O’List e di Tony Iommi) è Martin Barre, uno strumentista di ottima
qualità e (guarda caso) in piena sintonia con le esigenze stilistiche di Ian Anderson.
Nell’estate del ’69 è la volta di Stand up, manifesto del nuovo corso musicale
intrapreso dai Jethro Tull che da questo momento, sotto la spinta determinante del
padre padrone Anderson, preferiscono attingere a matrici folk, con canzoni di ampio
respiro melodico notevolmente irrobustite dalle sferzate hard della chitarra e segnate
dalla presenza sempre più insistita del flauto. Il blues rimane come influenza
marginale, qualcosa si può ancora scorgere nella tirata struttura di A new day
yesterday. Capolavoro in ambito acustico è Reasons for waiting, mirabilmente in
equilibrio tra squisita canzone dal sapore folk ed arrangiamenti orchestrali che
ricordano l’esperienza della melodica Living in the past, pubblicata a 45 giri due mesi
81
prima. L’egregia Back to the family s’avvale di una base melodica di stampo folk ed è
scossa da potenti soluzioni elettriche, ben lontane dal soffocare l’apparato narrativo
della canzone. La notevole Nothing is easy è invece imperniata su una struttura
ritmica circolare che ricorda l’Experience, con stacchi e sospensioni eccitanti e una
buona prestazione di Lancelot Barre.
Il bellissimo singolo di The witches promise (gennaio ’70) precede di qualche mese la
pubblicazione dell’album Benefit, punto più alto raggiunto dai Jethro Tull nella prima
parte della carriera. Al disco collabora in modo sistematico (per il momento come
membro esterno) il vecchio amico John Evan, che introduce piano e organo. L’iniziale
With you there to help me, marcata da un flauto spettrale, svi luppa sonorità dure, a
tratti sorrette da ritmi convulsi. To cry you a song è hard in continua evoluzione,
capace di guardare oltre l’angusto recinto del riff implacabile grazie alla duttilità della
chitarra e all’elasticità dell’impronta ritmica. Non mancano canzoni di gran presa
melodica come la bellissima e poetica Nothing to say, la romantica For Michael Collins,
Jeffrey and me, la ballata di Sossity ; you’re a woman.
Subito dopo la pubblicazione di Benefit John Evan entra come quinto elemento stabile
e a seguito della dipartita del bassista Glenn Cornick, sostituito da Jeffrey Hammond
Hammond, i Jethro Tull sono pronti per affrontare il grande successo anche negli Stati
Uniti, che giunge puntuale per merito di Aqualung.
JETHRO TULL
-
AQUALUNG
(Chrysalis - 1971)
Pubblicato nel marzo del 1971, Aqualung è una sorta di album concept incentrato sul tema della religione.
Alla ricerca di un vasto riscontro di vendite negli USA, Anderson predispone un lavoro nel quale prevalgono
gli estremi dei concetti sonori sviluppati dal gruppo sino a quel momento.
Sotto l’aspetto più prossimo al rock duro i Jethro Tull realizzano tre brani tra i più importanti di tutta la loro
produzione. Aqualung s’affida ad un giro micidiale di chitarra e ai modi della ballata folk, con chitarra
acustica e una lontana, nostalgica voce narratrice ; come sempre alla base esiste una forte componente
melodica in grado di donare equilibrio e gradevolezza all’insieme. Cross-eyed Mary, introdotta da flauto e
mellotron, evolve in un rhythm & blues moderno e personale, schematizzato da una quadrata sezione ritmica.
My God sorge magnifica su un’audace architettura gotica, in continua trasformazione tra suoni acustici,
durissime linee di chitarra ed incontenibili assoli di flauto.
In alternativa a questi suoni spigolosi Anderson pone alcune ballate d’impronta folk, per lo più esili, delicate
e di breve durata quali Cheap day return, Mother goose, Wond’ring aloud, Slipstream. In mezzo alle due
tendenze alcuni episodi di minore interesse (le discrete Hymn 43, Wind up, Up to me) e la bella Locomotive
breath, destinata a diventare un classico nello sconfinato repertorio del gruppo per via del coinvolgente
incedere ritmico.
Aqualung raccoglie le ultime prestazioni dell’ottimo Clive Bunker, che in maggio lascia
i Jethro Tull per formare l’effimero gruppo dei Jude con Robin Trower (chitarrista dei
Procol Harum), James Dewar (bassista degli Stone the Crows) e il cantante Frankie
Miller.
Il sostituto è Barriemore Barlow che esordisce su Thick as a brick (febbraio 1972),
opera che porta Anderson al raggiungimento della forma espressiva della suite. Sono
lontani i tempi dell’euforia rock blues di This was, del pregevole hard folk degli album
successivi. Distante dal vuoto estetismo di cui è stato spesso accusato, Thick as a
brick presenta un collage ben organizzato di temi, melodie vagamente folk, improvvisi
stacchi hard, ‘reprise’ e cambiamenti di ritmo tenuti insieme dalla sicura voce di
Anderson.
E’ l’ultimo importante lavoro dei Jethro Tull che continuano imperterriti a realizzare
dischi con risultati altalenanti e ancora oggi insistono, incuranti delle mode e degli
anni che pesano sulle spalle.
82
- 28 Verso la metà degli anni sessanta Keith Emerson (ts.) e Lee Jackson (bs.)
suonano in un complesso chiamato Gary Farr & the T. Bones. Dopo una breve
parentesi nel 1966 con i V.I.P. Emerson si ritrova con Jackson nei Nice, con la
partecipazione di David O’List (ch.) e di Brian Davison (bt.).
NICE
-
THE THOUGHTS OF EMERLIST DAVJACK
(Immediate - 1968)
In seguito a una fortunata partecipazione al festival di Windsor il gruppo firma per la Immediate e pubblica
l’album The thoughts of emerlist davjack, nel maggio del 1968. Spinti da Emerson, musicista di
predisposizione classica, i Nice sperimentano una musica che porta alle estreme conseguenze le forme
neoclassiche introdotte nel rock dai Beatles, mettendo in risalto la posizione preminentemente solistica
dell’organo rispetto alla chitarra (pure presente con esiti qualitativi) e gettando un ponte decisivo verso le
forme di rock classico - sinfonico dei primi anni settanta.
Le regole del gioco sono fissate in brani di notevole impatto quali Flower king of flies, War and peace e
Rondo : in particolare quest’ultimo brano riveste importanza fondamentale per lo sviluppo di certo rock a
forte caratterizzazione classica, basato su una fluida e mai verbosa esercitazione all’organo di Emerson
disturbata dalla chitarra del guastatore O’List e sostenuta da un’estrosa sezione ritmica. Proprio il suono
della chitarra di O’List, incentrato sul rumore e sul timbro (sulle orme di Barrett), contribuisce a definire in
modo originale i tratti della musica dei Nice. Possono così prendere forma impegnativi affreschi
d’ispirazione psichedelica, quali l’eterea The cry of Eugene, pervasa dall’acido timbro della chitarra che
culmina in vortici allucinati, e l’ottima Dawn, resa affascinante dal gioco di chiaroscuri messo in opera da
tastiere e chitarra.
David O’List abbandona i Nice subito dopo. Nella sua sfortunata carriera perde varie
buone occasioni, alla fine del ’68 quando va in prova con i Jethro Tull (che per
sostituire Mick Abrahams scelgono poi Martin Barre) e nel 1971 con i neonati Roxy
Music, dove viene rapidamente avvicendato da Phil Manz anera.
Dopo la pubblicazione su singolo di America, tema tratto dalla commedia musicale
West side story di Leonard Bernstein, i Nice ridotti a trio producono il nuovo album Ars
Longa Vita Brevis, che contiene un adattamento della Carelia suite di Jean Sibelius e
la suite che titola il disco, nella quale appaiono un’orchestra sinfonica e una citazione
dai Concerti Brandeburghesi di Bach.
Con uno stile ancora lontano dal futuro freddo conformismo, il terzo LP Nice
(settembre ’69) chiude la stagione migliore della formazione. Sul primo lato, registrato
in studio, trovano posto buone canzoni progressive come Azrael revisited (dove viene
citato il compositore russo Serghei Rakhmaninov), la fluida For example e un'ispirata
versione della Hang on to a dream di Tim Hardin. La seconda parte, dal vivo al
Fillmore East di New York, presenta una brillante esecuzione della classica Rondo e
una libera interpretazione di She belongs to me di Bob Dylan.
Di minor interesse la non esaltante prova di Five bridges (Philips -1970) e l’ultimo
Elegy (Philips -1971), che esce postumo in seguito allo scioglimento del gruppo.
Procol Harum e Moody Blues sono tra le prime formazioni ad elaborare una musica
di evidente impostazione classico - sinfonica, ottenendo notevoli consensi commerciali
a fronte di un rock melodico dai toni esili, che spesso stenta a trovare contenuti
efficaci.
La carriera dei Procol Harum registra un fondamentale, imprescindibile punto di
riferimento nella pubblicazione del primo singolo, quella A whiter shade of pale che nel
maggio 1967 vola al comando della classifica inglese vendendo mezzo milione di copie
83
in tre sole settimane. Il brano costituisce uno degli esempi embrionali del cosiddetto
‘art rock’, ispirato all’Aria sulla quarta corda di Johann Sebastian Bach e con un latente
gusto soul che rende la canzone un classico per le sale da ballo dell’epoca.
Alla fine del 1967 il gruppo incide il materiale del primo album omonimo, che
comprende anche quel celebre singolo. Il disco appare piuttosto timido e fragile,
nonostante la presenza di alcune canzoni dall’accattivante linea melodica (A Christmas
camel, She wandered through the garden fence) e di concise soluzioni soul rock
(Certes e la bella Kaleidoscope).
Il long playing e quelli immediatamente successivi, Shine on brightly (Regal
Zonophone -1968) e A salty dog (Regal Zonophone -1969), confermano i limiti
espressivi del gruppo : accanto a buone canzoni, come la sinfonica A salty dog, che
comunque non vanno oltre l’impianto melodico sul quale sono costruite, i Procol
Harum si lasciano prendere la mano da eccessive ambizioni (la lunga, artificiosa In
held twas in I) risultando dispersivi e poco credibili.
I Moody Blues si formano in piena epoca beat nel maggio del 1964, ma solo nel
‘67 lo stile muta dal rhythm & blues degli esordi ad un ambizioso pop sinfonico, che
trova ampia raffigurazione sul 33 giri di Days of future passed (Deram), realizzato con
la partecipazione della London Festival Orchestra diretta da Peter Knight. Days of
future passed è un lavoro pretenzioso, che solo a tratti riesce ad esprimere qualche
spunto convincente (la leggera Peak hour, che perlomeno risveglia dal torpore
generale, e le belle melodie di Forever afternoon (Tuesday ?) e soprattutto di Nights in
white satin), all’interno di una logica sinfonico - orchestrale troppo enfatica.
Forse un tantino sopravvalutati, i Trinity del tastierista Brian Auger meritano
giusta considerazione almeno per il doppio LP Streetnoise del 1969. A quei tempi,
oltre a Auger e a Julie Driscoll, il gruppo comprende Dave Ambrose (bs.) e Clive
Thacker (bt.), proponendo una musica che spazia dalla canzone melodica di facile
presa alle nuove istanze progressive, con qualche timida influenza jazz. Elementi
fondamentali sono la brillante tecnica all’organo di Brian Auger che si può assaporare
in tutto il lavoro, in particolare nelle dinamiche escursioni di Tropic of capricorn, Ellis
island, Finally found you out, e la voce della Driscoll che pare atteggiarsi come una
Grace Slick più eterea e jazz, priva dell’emozionante respiro psichedelico della
californiana (belle interpretazioni in Czechoslovakia e When I was young). Presenti
anche numerose cover, alcune riuscite come Save the country di Laura Nyro
(dall’album New York Tendaberry), altre discrete (All blues, dal monumentale Kind of
blue di Miles Davis), altre ancora certamente poco ispirate (la discutibile versione di
Light my fire dei Doors).
Di rilievo indubbiamente superiore sono i risultati artistici conseguiti dai
Colosseum, una delle forma zioni più interessanti tra quelle che si misurano con una
sintesi sonora che riassume senza forzature rock, jazz, blues e influenze classiche.
Il nucleo base dei Colosseum prende forma all’interno dei Bluesbreakers di John
Mayall, dove si ritrovano Jon Hiseman, Dick Heckstall Smith e Tony Reeves ; quella
versione del complesso nel 1968 è responsabile dell’album Bare wires. Con Dave
Greenslade (ts.vb.) e James Litherland (ch.), nello stesso anno viene ufficializzata la
nascita del nuovo gruppo.
84
COLOSSEUM
-
VALENTYNE SUITE
(Vertigo - 1969)
In seguito al buon esordio di Those who are about to die salute you (inizio ’69) i
Colosseum producono il massimo sforzo compositivo con la realizzazione del secondo album Valentyne
suite (prima pubblicazione assoluta per l’etichetta Vertigo). Il disco appare idealmente suddiviso in due parti
ben distinte. Nel primo lato i Colosseum mostrano i diversi aspetti della propria ispirazione con il rock
trascinante dell’aggressiva The kettle, con le escursioni jazz di Elegy (l’arrangiamento degli archi è curato da
Neil Ardley), con il blues fiatistico di Butty’s blues, mentre atipico è il rituale ritmico di The machine
demands a sacrifice.
E’ la seconda parte del disco, interamente occupata dalla suite che titola l’album, a fissare i confini e
sublimare la sostanza della musica dei Colosseum ; si tratta di una composizione suddivisa in tre sezioni, ben
strutturata ed arrangiata, capace di fare coesistere umori e suoni di diversa origine. January’s search associa
immagini evocative a ripide trame ritmiche, condotte dal fluido organo di Greenslade che salda su
fondamenta classiche la propensione a fughe jazz, facendo tesoro della lezione dei Nice di Keith Emerson.
La corale February’s Valentyne serve da sezione di collegamento con la maestosa, indimenticabile apertura
melodica di The grass is always greener..., che prima anticipa certo estetismo romantico tipico del rock
d’inizio anni settanta (poggiando su solide basi classiche - Ravel), quindi si lancia in una pirotecnica jam con
tanto di chitarra ai limiti dell’hard.
A dispetto dell’ottimo risultato ottenuto il gruppo comincia a mostrare sintomi di
cedimento ; nell’ottobre del ’69 Litherland viene sostituito dall’ottimo Dave Clempson
(Bakerloo), che con il suo robusto stile rock blues rende più pesante la musica dei
Colosseum, in particolare dal vivo. E’ poi il turno di Tony Reeves che lascia il posto a
Mark Clarke, ed infine l’affermato Chris Farlowe entra come cantante.
I primi frutti del nuovo organico sono contenuti su Daughter of time (Vertigo-1970)
dove la musica dei Colosseum appare ancora interessante, anche se viziata da troppe
pretese stilistiche, con il vocione baritonale di Farlowe a creare un singolare contrasto
con il jazz rock del gruppo. Dal vivo lo stile del complesso indurisce notevolmente
come dimostra il valido Colosseum live, con buone versioni di Rope ladder to the
moon e di Walking in the park e con l’eccellente performance conclusiva di Lost
Angeles che pare rinverdire i fasti dei tempi migliori.
Dopo lo scioglimento nell’autunno ’71 Greenslade e Reeves formano (alla fine del
1972) i discreti Greenslade ; in organico anche il tastierista Dave Lawson, proveniente
dai Samurai e in precedenza membro dei Web, una buona ma poco conosciuta
formazione con all’attivo tre LP tra i quali il migliore risulta l’ultimo I Spider. Di un
certo interesse è il progetto dei Tempest, con Hiseman e Clarke, oltre al cantante
Paul Williams (ex Juicy Lucy) e al chitarrista Allan Holdsworth. Il primo album
omonimo, pubblicato nel 1973, non sempre presenta materiale di assoluta originalità.
Sorprendono la potenza del suono in brani quali Gorgon e Foyers of fun e la buona
personalità di canzoni come Up and on e Upon tomorrow, con Holdsworth che sfoggia
uno stile tecnicamente ineccepibile associando in modo originale riff d’impostazione
hard con tirate solistiche veloci e jazzate.
Dopo il furioso periodo creativo con Syd Barrett e la lucida sperimentazione
controllata di A saucerful of secrets i Pink Floyd, all’inizio del 1969, s’impegnano
nella realizzazione di More (Columbia-1969), colonna sonora del film di Barbet
Schroeder. Il disco, a parte un’inevitabile frammentarietà tematica, evidenzia
momenti d’ispirazione folk in belle composizioni quali Cirrus minor, Green is the
colour, Cymbaline e presenta due inconsueti brani hard, The nile song e Ibiza bar.
Il doppio Ummagumma (un disco dal vivo e uno in studio) nell’ottobre dello stesso
anno chiude la fase creativa del periodo iniziale, prima della svolta sinfonica decretata
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da Atom heart mother. La parte live, registrata nel giugno ’69 a Birmingham e
Manchester, contiene eccellenti versioni di classici come Astronomy domine, Set the
controls for the heart of the sun, A saucerful of secrets, oltre alla lisergica Careful with
that axe, Eugene, uno degli esempi più eclatanti di musica sott’acido, una sorta di
estatico dormiveglia squarciato da un’improvvisa, agghiacciante esplosione sonora.
Il disco di studio sceglie il metodo di quattro distinti progetti predisposti dai singoli
musicisti, rinunciando all’ideale coesione d’intenti del precedente A saucerful of
secrets. La musica tocca vertici notevoli nelle impressionanti tonalità delle quattro
parti che compongono Sysyphus, generate dall’impetuoso, esasperato, appassionato,
vivisezionato classicismo delle tastiere di Wright, e nell’ottima sequenza di The narrow
way con Gilmour che si disimpegna tra la ballata acustica di buone maniere della
prima parte, gli inquietanti fremiti elettrici della sezione seguente e la bella melodia
conclusiva, anticipazione di alcuni aspetti del futuro stile del gruppo. Waters si affida
al folk campestre in Grantchester meadows ed è responsabile della divertente
gazzarra faunistica di Several species of small furry animals gathered together in a
cave and grooving with a pict, mentre intelligente ed originale appare l’affresco
percussivo di The grand vizier’s garden party proposto da Mason.
PINK FLOYD
-
ATOM HEART MOTHER
(Harvest - 1970)
Il possente sperimentalismo di Ummagumma lascia posto alla suite di Atom heart mother, un’elaborazione
concettualmente vicina al poema sinfonico a carattere epico, articolato attraverso l’imponente introduzione di
Father’s shout, le atmosfere pastorali di Breast milky, le partiture corali di Mother fore, lo space funk di
Funky dung, fino alla rumorista Mind your throats please e all’affannoso riflusso mnemonico di
Remergence.
La decisa virata stilistica trova riscontro anche nelle moderate creazioni della seconda parte. If è un delicato
arpeggio della chitarra acustica, con la voce indolente di Waters ; migliori sono Summer ’68, un brano di
Wright che adotta interessanti soluzioni armoniche, e l’ottima Fat old sun (Gilmour), pallido tramonto degli
ultimi tepori psichedelici. La conclusiva Alan’s psychedelic breakfast s’affida ad un crudo realismo poco
consono agli scenari psichedelici evocati nel titolo e il timido contributo strumentale non permette alla
creazione di decollare pienamente.
Da questo momento la musica dei Pink Floyd s’incammina decisa verso scenari che
necessitano di ambiziosi soggetti a tema e di lunghe, complesse elaborazioni,
abbandonando sempre più i territori della ricerca e dell’intuito. Per qualche tempo il
gioco funziona egregiame nte, almeno fino al novembre del ’71 quando esce Meddle,
album in grado di regalare attimi di grande intensità e bellezza (One of these days e
l’eccellente Echoes). Poi nel ’73 giunge l’immane successo del commerciale The dark
side of the moon, paradossale opera a tema che contiene una dura critica alla società
dei consumi e una denuncia sull’alienazione del moderno vivere umano, ma è pure il
trionfo dell’estetica del bello a tutti i costi, dell’esigenza di raggiungere una platea di
acquirenti sempre più va sta.
Il gusto inconfondibile per la ballata melodica dei Beatles, il classicismo privo di
remore dei Nice, le intuizioni sinfoniche dei primi Family e lo sperimentalismo colto dei
Pink Floyd post Barrett (e pure la chitarra free form di Syd) sono alla base
dell’originale stile dei King Crimson di Robert Fripp, che trova adeguato sfogo nel
loro album d’esordio, primo compiuto tentativo (e in assoluto tra i migliori esempi) di
rock sinfonico impressionista.
86
KING CRIMSON
-
IN THE COURT OF THE CRIMSON KING (Island - 1969)
I ritmi convulsi e schizofrenici, gli scatti repentini, l’apparente disordine e il rigido controllo dinamico
imposto da Fripp fanno di 21 st century schizoid man un brano dalla notevole originalità, destinato ad
imprimere un importante segno sulla scena musicale progressiva. Il personale approccio di Fripp alla chitarra
genera un suono teso, inquieto e stridente, capace d’improvvise aperture melodiche, i fiati e le tastiere (il
mellotron in particolare) di Ian McDonald costruiscono affascinanti ambientazioni classiche e la sezione
ritmica si disimpegna con eleganza, grazie al solido e tecnico basso di Greg Lake e al leggero, variegato
tocco percussivo di Mike Giles, già con il leader nella non esaltante avventura di Giles, Giles & Fripp.
I talk to the wind è una canzone di meravigliata dolcezza, che nulla pare avere in comune con l’intransigenza
dell’episodio precedente e mette in primo piano i fiati di McDonald ; la stessa Moonchild muove in territori
placidi, con toni quieti e sfumati, quasi alla ricerca di una recondita natura intima del suono.
Le grandiose ambientazioni di Epitaph e di The court of the Crimson King possiedono un incedere epico, con
il mellotron che produce imponenti squarci sinfonici punteggiati dalla romantica chitarra di Fripp e
contrapposti alla bellezza dei temi lirici delle canzoni.
In the wake of Poseidon (Island-1970) ricalca le cadenze e i modi del lavoro
precedente con discreti risultati : Pictures of a city ricorda da vicino le atmosfere tese
di 21 s t century schizoid man senza possederne il devastante impatto, Cadence and
cascade cerca invano di catturare la magica dolcezza di I talk to the wind, In the wake
of Poseidon si cala con gusto ed equilibrio nel più tipico sinfonismo crimsoniano. Tra
gli episodi di maggior interesse è da annoverare la mini suite di The devil’s triangle,
che attinge pesantemente dal primo movimento (Mars, the bringer of war) de I pianeti
di Gustav Holst, tanto che il compositore classico d’origine svedese avrebbe meritato
almeno una fredda citazione fra gli autori del brano.
Attorno alla figura centrale di Robert Fripp l’organico dei King Crimson comincia a
modificarsi senza soste : Mike Giles esce definitivamente di scena, Greg Lake
abbandona all’inizio del 1970 durante le registrazioni del secondo LP per costituire
E.L.& P. Con l’aiuto di una sostanziosa schiera di jazzisti (tra i quali spicca la presenza
di Keith Tippett) la formazione registra il controverso Lizard (Island-1970) che non
raggiunge i vertici assoluti della produzione dei King Crimson, ma neppure va
disconosciuto il coraggio di Fripp nel voler utilizzare sistematicamente un linguaggio
contaminato da accenti jazz, senza perdere di vista il classicismo sinfonico di base.
Nel 1971 la nuova sezione ritmica dei K ing Crimson è composta da Raymond ‘Boz’
Burrell (bs.v.) e da Ian Wallace (bt.), mentre si conferma la presenza del fiatista Mel
Collins ; così sistemato il gruppo registra l’ottimo Islands, lavoro che riassume un
raffinato connubio tra rock, jazz e classica dai toni soffusi e romantici. Dopo l’apertura
riservata al pop jazz impertinente di Ladies of the road e preceduta dalle movenze
classiche di Song of the gulls, Islands è un tenue, suggestivo affresco che conquista
nonostante l’assoluta staticità di esposizione. Sulla stessa cadenza rallentata si muove
la bella Formentera lady, che sfocia nel maestoso sussulto ritmico di Sailor’s tale ; la
conclusiva The letters si agita tra morbide linee melodiche, rock d’avanguardia e free
jazz, anticipando in parte i modi a venire della musica del Re Cremisi.
- 29 E’ la fine del 1969 quando Keith Emerson comincia a meditare sulla possibilità
di costituire una formazione triangolare, in grado d’inserirsi autorevolmente nel
dilagante fenomeno del rock classico progressivo che inizia a raccogliere importanti
risultati commerciali. L’idea è quella del supergruppo e il primo ad essere coinvolto è
Greg Lake (dai King Crimson), seguito a breve distanza da Carl Palmer (bt.), già con
Chris Farlowe, Arthur Brown e Atomic Rooster.
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EMERSON, LAKE & PALMER - EMERSON, LAKE & PALMER
(Island - 1970)
Le ambizioni del gruppo si riflettono anche sulla scelta del prestigioso palcoscenico dell’isola di Wight per il
debutto live, nell’agosto del 1970. Il trio propone una musica ad elevata concentrazione tecnica, di notevole
effetto e non priva di soluzioni interessanti. Sicuramente sono lontane la freschezza, le trovate estemporanee
dei primi Nice, ma almeno non compaiono stucchevoli tentazioni orchestrali, assai diffuse nel territorio del
rock neoclassico ; qui le tastiere inseguono vertigini barocche ad alta definizione, il basso sostiene
possentemente la struttura delle canzoni e la batteria fornisce una propulsione inarrestabile. The barbarian
propone uno scorcio strumentale introduttivo mentre Knife-edge lascia scorrere plastiche configurazioni
ritmiche d’indubbia presa. The three fates permette ad Emerson di sfogare le brame classiche con partiture
per organo e piano (solo e trio), Tank riporta il ritmo sul rock ad alta tecnologia e Lucky man è un finale
atipico con il passo della ballata elettrica.
Il freddo e calcolato Tarkus (1971) piace ancora molto, pur nell’estrema rigidità
tematica ed espressiva dell’omonima suite. Le ultime cose degne di nota si possono
reperire nel controverso Pictures at an exhibition (Island-1971, dal vivo su musiche
del compositore russo Modest Mussorgski) e nel Trilogy del ’72 (Island), prima della
definitiva scomparsa di ogni residua emozione creativa.
Contemporanei di E.L.& P., i Quatermass sono una formazione costruita sulle
stesse modalità del triangolo con al vertice le tastiere dell’ottimo Pete Robinson,
capace di lasciare il segno della propria effimera esistenza con la realizzazione di un
album di notevole qualità.
QUATERMASS
-
QUATERMASS
(Harvest - 1970)
L’unico lavoro inciso dai Quatermass resta uno dei migliori esempi di rock progressivo realizzato da una
formazione priva di chitarra solista. Il gruppo dimostra padronanza strumentale e, al tempo stesso, notevole
vitalità e dinamismo esecutivo ; ciò che per E.L.&P. appare serioso e forzato è reso dai Quatermass in modo
disinvolto, con gran naturalezza.
La proposta in alcuni episodi possiede l’impatto dell’hard rock : è il caso di Black sheep of the family, così
come di Gemini e della bella Make up your mind, che fa perno su un convincente apparato melodico per poi
svolgersi nella parte centrale con una buona sequenza strumentale. Good Lord knows è una melodia
felicemente arrangiata da Robinson, con clavicembalo e orchestra d’archi mentre l’introduzione di stampo
progressivo di Post war Saturday echo lascia il posto ad un lento blues d’atmosfera, valorizzato dall’ottimo
lavoro di Robinson all’organo e al piano. Up on the ground libera gli strumenti e propone qualcosa di molto
simile (e di meglio) a ciò che utilizzeranno i decantati E.L.&P. per Tarkus.
Purtroppo i Quatermass non godono di un sufficiente riscontro di vendite e sono
costretti allo scioglimento già nell’aprile del 1971. Mick Underwood (bt.) si associa a
Paul Rodgers nella brevissima esperienza dei Peace, Robinson sceglie la via del jazz
rock con i Come To The Edge di Stomu Yamash’ta mentre John Gustafson (bs.) finisce
nei Roxy Music all’epoca di Stranded.
Uno dei primi gruppi ad essere messo sotto contratto dal manager Tony StrattonSmith per la sua etichetta Charisma, i Rare Bird pubblicano il primo album omonimo
nel 1968. L’organico del complesso ricalca i presupposti del triangolo basato sulle
tastiere, di gran moda a quei tempi, con la particolarità della presenza di due
strumentisti che agiscono in sincrono, Graham Field (or.) e David Kaffinetti (pn.),
sostenuti da una sobria sezione ritmica (Steve Gould : v.bs., Mark Ashton : bt.v.).
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Rare Bird evidenzia una buona varietà di temi in brani quali Iceberg, Beautiful scarlet,
God of war, mantenendo alla base una musica dai toni romantici abbastanza originale
e semplice, evitando complicazioni tecnologiche ed arrangiamenti troppo appariscenti,
ma nonostante la presenza di una canzone accattivante come la melodica Sympathy il
disco ottiene risultati commerciali deludenti.
I Rare Bird pubblicano un secondo album, As your mind flies by contenente una suite
suddivisa in quattro movimenti (Flight), ma la fortuna non s’accorge del complesso e
oggi nessuno si ricorda della loro esistenza.
Dal maggio ’63 al luglio ’68 Jim McCarty e Keith Relf sono nei gloriosi Yardbirds ;
dopo lo scioglimento del gruppo, i due provano come Together e poi (nel giugno del
1969) organizzano un’ambiziosa formazione, i Renaissance, con la quale affrontare
la stagione del rock romantico progressivo. Con loro sono la cantante Jane Relf
(sorella di Keith), John Hawken (ts.) e Louis Cennamo (bs.).
Il primo album omonimo del 1969 (Island) propone un’efficace miscela di folk, rock e
romanticismo classico, capace di mantenere i piedi ben ancorati a terra. Si tratta,
ovviamente, di musica molto distante dalle precedenti esperienze di Relf e McCarty,
nella quale emergono in particolare il tocco al piano di Hawken e l’aggraziata, esile
voce di Jane Relf. Kings & queens e Innocence trovano la giusta mediazione tra stimoli
ritmici, belle melodie ed influenze classiche. Se Island si sofferma esclusivamente su
toni pacati e romantici, la bella Wanderer preferisce reminiscenze barocche con il
clavicembalo in primo piano. La complessa Bullet torna a forme tipicamente rock, con
timidi accenni jazz e un’inconsueta (per il genere) armonica country blues, per
disperdersi nell’enigmatica atmosfera finale direttamente derivata dalle figure corali di
Gyorgy Ligeti.
Ben presto la formazione si sfalda per rinascere nel 1972 guidata dalla cantante Annie
Haslam, impegnata in un rock sinfonico che attinge a piene mani dal panorama
classico (in particolare russo dell’ottocento), con citazioni di Rimski-Korsakov, Borodin
e Mussorgski tra gli altri. Ottima sintesi della loro opera rimane il doppio Live at
Carnegie Hall, registrato con l’apporto della New York Philharmonic nel giugno del
1975.
I psichedelici Syn registrano nel 1967 due singoli, l’ultimo dei quali contiene la
mitica 14 hour technicolour dream, dedicata al festival della psichedelia e
dell’underground inglese tenuto nell’aprile ’67 all’Alexandra Palace. Del gruppo fanno
parte Pete Banks (ch.) e Chris Squire (bs.) che, nel giugno del 1968, si uniscono a Jon
Anderson (v.), Tony Kaye (ts.) e Bill Bruford (bt.) dando vita agli Yes.
I primi due album, Yes (Atlantic-1969) e Time and a word (Atlantic-1970), sono
discreti (e nulla più) alternando brani originali a numerose cover (tra queste canzoni
di Byrds, Beatles e Stephen Stills), senza che il gruppo individui con precisione uno
stile sufficientemente personale.
YES
-
THE YES ALBUM
(Atlantic - 1971)
Una prima importante svolta avviene all’inizio del 1970, quando Pete Banks lascia i compagni per entrare
nei Blodwyn Pig in sostituzione di Mick Abrahams ; il suo posto viene rilevato da Steve Howe, reduce
dall'esaltante avventura con i Tomorrow. Lo stile del gruppo subisce una decisa maturazione acquisendo
un’identità ben definita, come dimostra il terzo LP The Yes album (registrato nell’autunno del 1970).
L’incedere fratturato della sezione ritmica, i preziosismi della chitarra di Howe e le ottime parti corali di
Yours is no disgrace introducono al classico Yes sound, uno stile articolato e complesso, ma ancora lontano
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dagli esagerati arrangiamenti sinfonici dei tempi a venire. E’ evidente il gusto per la ballata, per un rock che
mantiene agganci (sempre più esili) con certa musica di derivazione americana. I’ve seen all good people
suona come una ballata folk impreziosita da formidabili parti vocali (sul modello di C.S.N.&Y.) e solidifica
in un originale rock’n’roll, chiuso da un gran finale per organo e coro a cappella. La dinamica struttura dalle
belle aperture melodiche di Perpetual change e le indovinate sequenze armoniche delle tre parti di Starship
trooper offrono la misura estrema dei delicati meccanismi che regolano la sintesi sonora degli Yes.
In seguito alla pubblicazione di The Yes album, Tony Kaye lascia e con l’ingresso di
Rick Wakeman, dagli Strawbs, si costituisce l’organico degli Yes più conosciuto e
fortunato sotto il profilo commerciale.
L’ottimo Fragile (settembre’71) determina l’avvicinamento a modi classici, non solo nel
breve estratto dalla quarta s infonia di Brahms (Cans and Brahms) ma nell’intera opera
del gruppo. Tre sono gli episodi centrali del disco : Roundabout, sostanzialmente un
raffinato e brillante rock’n’roll dove emergono squarci del crescente approccio
classicheggiante, South side of the sky e soprattutto la notevole Heart of the sunrise,
che coglie l’essenza del migliore rock sinfonico sull’esempio dei King Crimson.
Al culmine del successo Close to the edge nel 1972 inaugura la fiera delle vanità per
gli Yes, ormai proiettati verso una ricerca esasperata della perfezione tecnica ed
estetica, pesantemente ostentata nelle esibizioni dal vivo. Il disco non manca di spunti
pregevoli, come nell’ambiziosa And you and I, imperniata sul già sperimentato
contrasto fra trame acustiche ed aperture di romantico sinfonismo. Poche novità sotto
i cieli ma almeno un suono ancora vivo, capace di regalare tenere emozioni, quello
che non sempre accade nella pomposa suite che titola l’album, con i suoi quattro
tempi viziati da un eccesso di freddo e calcolato formalismo.
Per Bill Bruford la misura è colma ; nel luglio ’72 effettua la coraggiosa scelta di
lasciare gli Yes per raggiungere i riorganizzati King Crimson di Robert Fripp.
L’elefantiaco Tales from topographic oceans (2 LP Atlantic-1973), che pure in alcune
parti mostra residui segni di vitalità, e Relayer (Atlantic-1974), inciso con l’aiuto del
tastierista Patrick Moraz (Refugee, al posto di Wakeman), sono il perfetto compendio
della decadenza di una musica priva di respiro, soffocata da una maniacale cura
riservata ad ogni benché minimo particolare, che determina un inestricabile, barocco
groviglio di note senz’anima.
Gruppo che s’orienta su coordinate sonore non molto distanti da quelle degli Yes, i
Gentle Giant si formano nel 1970 su impulso dei fratelli scozzesi Derek (v.), Ray
(bs.vi.) e Phil (sf.) Shulman. Con Gary Green (ch.), Kerry Minnear (ts.) e Martin
Smith (bt.) i Gentle Giant propongono una musica ancor più raffinata e composita
rispetto a quella degli Yes, con una fusione tra rock, R & B, classica, jazz, folk che
prevede l’utilizzo di un’ampia strumentazione.
Il primo LP Gentle Giant (1970) è un’ottima dimostrazione del già ben definito stile del
complesso, con la presenza di alcuni dinamici brani rock basati su cadenze ricche di
variabili e con un suono caratterizzato dalle lucide tonalità di chitarra e tastiere,
mentre il folk e il rhythm & blues fanno capolino nelle strutture barocche di Funny
ways e Alucard.
GENTLE GIANT
-
ACQUIRING THE TASTE
(Vertigo - 1971)
Acquiring the taste raggiunge i limiti espressivi dei Gentle Giant sin dall’iniziale Pantagruel’s nativity,
marcata dalla chitarra di Green che ne scolpisce la struttura portante ; le raffinate parti vocali, il tocco di
vibrafono, la jam della parte centrale rendono un insieme di notevole impatto, in equilibrio fra preziosismi
funambolici e potenza hard. Le valide The house, the street, the room (con maniacali inserti strumentali) e
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Wreck seguono le stesse direttive, in contrasto con gli arrangiamenti estremamente elaborati di Edge of
twilight, di The moon is down e di Black cat, pregevoli sotto l’aspetto strumentale ma prossime ad un rigido
formalismo.
Il gruppo mantiene inalterato lo stile anche nei dischi successivi, senza particolari
accomodamenti co mmerciali ma pure rinunciando ad una ricerca originale che possa
evitare le ripetitive regole della propria musica. Three friends (1972) si affida al vago
R & B di Working all day e alla classica Peel the paint, che maschera una certa carenza
d’ispirazione dietro l’overture da camera e nei potenti riff hard rock della chitarra di
Green.
Cosa resta oggi delle canzoni dei Genesis, di quelle fragili tessiture fantastiche che
trovano sistemazione nelle loro opere migliori, agli albori degli anni settanta. Oggi che
Peter Gabriel è diventato un musicista moderno, alla ricerca di eccitanti
contaminazioni tra musica occidentale e suoni del ‘terzo e quarto mondo’, oggi che
Phil Collins è assurto agli onori delle cronache facendo l’attore, producendo musica di
facile ascolto e di gran consumo. Nostalgia, forse un po’ di tristezza, ma vale la pena
ricordare quella storia iniziata nell’autunno del 1967 con l’incontro tra Peter Gabriel
(v.), Tony Banks (ts.), Anthony Phillips (ch.) e Michael Rutherford (bs.).
Il primo significativo frutto è Trespass (Charisma-1970) che, sia pure con qualche
timidezza di troppo e in modo frammentario, mostra le potenzialità del gruppo. Con
l’ingresso di Steve Hackett (ch. - al posto di Phillips) e di Phil Collins, batterista nei
Flaming Youth, si concretizza la formazione più celebre dei Genesis.
GENESIS
-
NURSERY CRYME
(Charisma - 1971)
Pur essendo dei discreti strumentisti, i Genesis non possono essere paragonati dal punto di vista tecnico a
complessi quali Yes e Gentle Giant ; il maggior impegno è perciò profuso sotto l’aspetto creativo e degli
arrangiamenti, e questo permette alla musica del gruppo (almeno per quanto riguarda l’eccellente Nursery
Cryme) di mantenere una sufficiente semplicità di esposizione, all’interno di un contesto curato ed elegante.
Gabriel non è cantante dotato di particolare estensione e preferisce lavorare sulla tonalità della voce,
rendendola immediatamente riconoscibile ; inoltre dimostra di essere personaggio estroso, adottando in scena
travestimenti a dir poco fantasiosi, contribuendo in modo decisivo all’affermazione del complesso che dal
vivo si esibisce in sofisticate ambientazioni di ‘rock teatrale’.
Nursery Cryme vede la luce nel novembre 1971 e lo stile espressivo preferito appare quello della canzone
romantica, come dimostrano i riusciti episodi di For absent friends, Seven stones, Harlequin, mentre The
return of the giant Hogweed possiede un accentuato telaio ritmico.
Ancora lontana per i Genesis appare la dilagante moda della suite, anche se i brani più significativi
anticipano, di fatto, la futura adesione ad ambiziose forme a tema. Introdotta da un delicato arpeggio, The
musical box scorre fluida su un tappeto di soffuse e romantiche melodie per chitarra, flauto e voce, animata a
più riprese dal dialogo serrato tra chitarra e organo, fino all’epico crescendo del finale ; il tema di The
fountain of Salmacis, sufficientemente movimentato ed impreziosito dagli interventi di Hackett, è
caratterizzato dal mellotron che si produce in folate d’intenso sinfonismo.
Foxtrot nell’ottobre del ’72 ottiene risultati commerciali addirittura migliori (in Italia,
dove in pochi mesi i Genesis tengono ben 31 concerti, è n. 1), ma risulta
musicalmente inferiore all’opera precedente. Giunge l’ora della suite e Supper’s ready,
nonostante la presenza di qualche spunto notevole, si perde in un eccessivo sforzo di
connessione delle varie parti, senza raggiungere un risultato pari alle energie profuse.
Del resto anche i rimanenti brani non valgono le piccole gemme di Nursery Cryme; in
generale c’è minore fantasia ed affiora un rigido schematismo sonoro.
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Nell’autunno del ’73 esce il nuovo album di studio Selling England by the pound che
tenta di recuperare l’originaria forma canzone, ma purtroppo il suono soffre di un
crescente tecnicismo che penalizza le buone intenzioni sparse sul disco, soffocando la
natura romantica della musica. La situazione non migliora con il doppio The lamb lies
down on Broadway (Charisma-1974) che si affida a soluzioni concept, tanto
spettacolari quanto fredde e calcolate. Il 24 marzo 1975 la formazione classica dei
Genesis tiene, per l’ultima volta in Italia, un concerto nell’affollatissimo palasport di
Torino, con situazioni di grande tensione per gli scontri che coinvolgono la polizia e
numerosi dei presenti ; il gruppo propone The lamb... in modo scontato, senza
entusiasmo. Due mesi dopo Gabriel abbandona clamorosamente i compagni. Per lui
l’età delle favole è terminata.
Formazione che soffre le contraddizioni di una musica scarsamente equilibrata e
ricca d’ingenuità, i Beggar’s Opera nel 1970 pubblicano Act one (Vertigo), un lavoro
che porta all’esasperazione le tipiche componenti dello stile classico progressivo, con
forti accenti barocchi di dubbio gusto. Davvero non si capisce se ad animare pasticci
sonori quali Poet and peasant, Passacaglia, Raymond’s road, Light cavalry sia una
sana necessità di divertimento al limite dell’ironia, oppure una triste consapevolezza
dettata da artificiose ed improbabili elucubrazioni b en poco piacevoli. Se questa è
l’opera dei poveri, i poveri restano tali, in quanto all’opera...
Fortunatamente il gruppo con il secondo LP Waters of change (Vertigo-1971) rende il
suono un po’ più sobrio, e il successivo Pathfinder riesce perfino a suscitare un
discreto interesse. Bella in particolare la versione di MacArthur park, un brano di
Jimmy Webb di gran successo alla fine dei sessanta, riadattato con un gustoso
arrangiamento soft jazz e venato da forme classiche più contenute.
Appartenenti alla schiera dei classico -romantici di successo, i Curved Air si
distinguono per la propensione verso moderate soluzioni sperimentali, come lascia
intendere perfino il nome scelto per il complesso, tratto da una celebre composizione
di Terry Riley (A rainbow in Curved Air).
La nascita del gruppo risale al marzo del 1970, quando Darryl Way (vi.), Francis
Monkman (ch.) e Florian Pilkington (bt.) si uniscono alla cantante Sonja Kristina e al
bassista Robert Martin ; con quest’organico i Curved Air registrano l’album d’esordio
Air conditioning.
CURVED AIR
-
AIR CONDITIONING
(Warner Bros. - 1970)
I buoni propositi sperimentali restano però sulla carta e solo di rado trovano collocazione nel vivo
dell’esposizione strumentale ; Monkman si dimostra il più convinto assertore del verbo di Riley ma,
nonostante l’ottimo operato alle tastiere e le tonalità elettriche, secche e dilatate delle chitarre, è obbligato a
rimanere sulla difensiva per via del virtuosismo dilagante del violino di Way e della presenza della piacevole
voce solista di Sonja Kristina. Inoltre, il gruppo è spinto in modo consistente a livello promozionale e
l’esigenza dell’ottenimento di un riscontro commerciale immediato contrasta con la produzione di una
musica che risulti troppo slegata dai canoni della bella melodia.
In ogni caso Air conditioning, che si presenta negli scaffali di vendita in una rivoluzionaria (per i tempi)
veste ‘picture’, appare convincente e al di sopra della media di produzioni similari. Il complesso si
disimpegna bene in alcuni brani rock corposi, come l’intrigante It happened today e l’originale Propositions,
forse la composizione di maggior interesse, con le tastiere e le chitarre di Monkman a ricordare da vicino le
strutture iterative di Terry Riley. Screw, Rob one e la celebre Vivaldi approdano su atmosfere classiche, con
il violino a generare impressioni romantiche di gran fascino.
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Il Second album (Warner Bros.-1971) conferma l’interesse per il gruppo, beneficiato
dal successo del vigoroso singolo Back street Luv. Ancora il buon Phantasmagoria
(Warner Bros.-1972) subito prima dell’abbandono di Darryl Way che, formando i Wolf,
in pratica determina lo scioglimento dei Curved Air. Le successive restaurazioni del
complesso non portano risultati particolarme nte apprezzabili.
- 30 Per alcuni gruppi del rock romantico che riescono ad agguantare un solido
successo commerciale, ve ne sono parecchi altri (non sempre di trascurabile qualità)
che restano desolatamente ai margini della scena, ignorati dal grosso pubblico e
colpevolmente dimenticati dagli addetti ai lavori.
Il nome più fulgido è quello dei Cressida, complesso autore di due interessanti album
per la Vertigo, il primo dei quali pubblicato all’inizio del 1970 con un organico che
prevede Peter Jennings (ts.), Angus Cullen (v.), John Heyworth (ch.), Kevin McCarthy
(bs.) e Iain Clark (bt.).
Cressida appare esordio timido ma privo di particolari scadimenti, che riesce a gettare
le fondamenta del suono del gruppo con una manciata di limpide composizioni in
equilibrio tra rock romantico e derivazioni della prima scuola di Canterbury (in
particolare Caravan).
CRESSIDA
-
ASYLUM
(Vertigo - 1971)
Asylum, con il nuovo chitarrista John Culley e la prestigiosa partecipazione di Harold McNair al flauto,
raggiunge livelli d’assoluta eccellenza con una musica che piace soprattutto per la scioltezza stilistica ed
esecutiva. Gli elementi della proposta dei Cressida restano quelli iniziali, con riferimenti al Canterbury sound
sia per l’approccio strumentale, sia per l’impostazione vocale di Cullen, come si può dedurre dall’ascolto
delle belle Asylum e Goodbye post office tower goodbye ; il lavoro mantiene comunque una profonda
originalità, grazie al sentimento e all’intima decadenza romantica che le canzoni dimostrano di possedere.
Munich, ad esempio, è un lungo brano melodico giocato sul morbido dialogo tra voce e organo, con lirici
interventi di chitarra, misurate intromissioni orchestrali e con una brillante parte centrale strutturata a forma
di jam session. La maggior intensità emotiva è raggiunta da Lisa, brano che racchiude la migliore
espressione del rock romantico, senza dover fare ricorso ad inutili orpelli, preferendo accarezzare i risvolti
più intimi del suono con sprazzi di gran lirismo e con eccellenti spunti strumentali (il flauto di McNair) ed
orchestrali.
Giustizia vuole che almeno altri tre complessi del sottobosco musicale inglese
meritino d’essere presi in considerazione e, anche solo per un attimo, fatti emergere
dalla fitta nebbia che ne oscura il ricordo.
I Gracious si formano nel 1968 e nella primavera del ’70 registrano il primo album
Gracious !, per l’etichetta Vertigo ; il rock conciso di Introduction echeggia soluzioni
care ai primi Gentle Giant, con inserti di clavicembalo e una buona predisposizione
ritmica, un organo floydiano si staglia all’orizzonte del placido neoclassicismo di
Heaven, che confluisce nelle devastanti, soffocanti spirali di Hell. Discreta è la lunga e
complessa sequenza di The dream, che poggia su elaborate frasi rock alternate a
creazioni melodiche di derivazione classica, mostrando però una frammentarietà
troppo accentuata.
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I Czar sono un ancor più oscuro gruppo, che ha la forza d’incidere nel 1970 il solo
album omonimo d’esordio, pubblicato dalla Fontana. La formazione è titolare di una
musica dalle sonorità avvolgenti, direttamente derivata dal rock sinfonico, con largo
spiegamento di mellotron e un’impostazione marcatamente rock nell’uso della
chitarra. Nei brani migliori, la valida Tread softly on my dreams e le belle ballate di
Cecelia e Today, affiora qualche tonalità dark che rende la proposta moderatamente
originale.
Gli Spring dimostrano soprattutto di possedere una vena creativa semplice ed
estremamente efficace, che permette al gruppo d’ottenere risultati di tutto rispetto
con brani caratterizzati da una pronunciata sensibilità romantica. Anche loro, come
molte altre formazioni underground, capitalizzano gli sforzi in un’unica pubblicazione
(Spring, per la Neon ne l 1971).
Con un organico dominato dalla presenza di ben tre mellotron il gruppo evita di
affondare in un pesante e forzato sinfonismo, avendo l’accortezza di porre particolare
cura alla melodia delle canzoni che, dotate di un'appassionante anima acustica
(Golden fleece, Gazing, Grail), conquistano senza riserve con il loro fascino discreto.
- 31 Tra i nuclei più interessanti del pop progressivo inglese, i Van Der Graaf
Generator si collocano ai margini del rock a tinte classiche, preferendo dedicarsi ad
una musica aperta a svariate influenze stilistiche, filtrata attraverso il comune
denominatore della creatività cosmica e visionaria di Peter Hammill.
L’esordio di The aerosol grey machine (Fontana-1969) non può certo essere
annoverato tra le migliori produzioni del periodo, anche se un po’ tutte le composizioni
hanno il pregio d’evidenziare l’interessante impostazione vocale di Hammill, non
adeguatamente supportata da una musica ancora lontana dall’acquisire una maturità
stilistica ben definita.
Dal secondo LP The least we can do is wave to each other (1970) l’organico si
stabilizza con Hammill, David Jackson (sf.), Hugh Banton (ts.) e Guy Evans (bt.).
L’oscura, glaciale Darkness è il primo risultato di rilievo per i Van Der Graaf, merito
delle tastiere spaziali di Banton, delle interessanti (e spesso imprevedibili) tessiture
armoniche dei fiati di Jackson, di una sezione ritmica (in particolare Evans) dotata di
fantasia e buon dinamismo, e ovviamente delle notevoli armonie vocali di Hammill che
affina il canto, prendendo a prestito spunti dal Tim Buckley più melodico per inserirli in
un intenso romanticismo gotico ricco di fascino. Refugees, canzone pervasa da una
dolcezza nostalgica e decadente, il lirismo epico dell’ottima White hammer e la lunga,
articolata After the flood sono i momenti importanti di un lavoro sicuramente riuscito.
H to He, who am the only one, sempre nel 1970, registra l’illustre partecipazione di
Robert Fripp, la cui chitarra s’insinua tra le spirali nevrasteniche di The emperor in his
war-room. Il disco è aperto da Killer, un brano insolitamente aggressivo che sfrutta un
accattivante riff dettato dai fiati di Jackson e determina un netto contrasto con la
riflessiva pacatezza pianistica della successiva House with no door. Hammill rende
ancor più verticale l’impostazione del cupo romanticismo vocale, estremizzando le
escursioni tonali, assecondato efficacemente dal gruppo alla ricerca di un suono
elaborato e surreale in Lost e Pioneers over C, composizioni che anticipano le
magistrali evoluzioni di Pawn hearts.
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VAN DER GRAAF GENERATOR
-
PAWN HEARTS
(Charisma - 1971)
Pawn hearts è il capolavoro dei V.D.G.G. con il suono indirizzato verso inquietanti forme di psichedelia
dark. Gli strumenti evitano di scendere a smaccati compromessi di natura classica, esibendosi in intricate
architetture che piuttosto fanno affiorare qualche affinità con le partiture dei King Crimson (in tal senso
appare tutt’altro che casuale la rinnovata e più radicata presenza della chitarra di Fripp). Notevoli sono le due
lunghe composizioni di Hammill (Lemmings e Man-erg) che trovano posto sulla prima facciata del disco,
brani che evidenziano l’abilità del gruppo nell’attraversare climi strumentali mutevoli e di gran
caratterizzazione lirica, così come la suite A plague of lighthouse-keepers che recupera in sintesi tutti gli
aspetti fondamentali della loro musica, fornendo una sorta di affascinante epitaffio della storia di Hammill e
compagni.
La decisione del cantante è quella di proseguire sotto proprio nome, determinando
così lo scioglimento dei Van Der Graaf che torneranno alla ribalta solo nel 1975, senza
riuscire a conseguire i mirabili risultati dei primi tempi. L’ottimo Chameleon in the
shadow of the night sceglie la via di un suono scarno ed essenziale, basato quasi
esclusivamente su chitarra acustica, piano e voce, con belle e impressionanti
composizioni (German overalls, Easy to slip away e l’elettrica Rock and Role) che
mostrano qualche punto di contatto con lo stile di Roy Harper. La carriera solista di
Hammill prosegue ricca di episodi sino ai nostri giorni, sempre contraddistinta da una
buona qualità media dei lavori.
Spesso associati ai Van Der Graaf, probabilmente a causa della presenza dei fiati di
Keith G emmell, gli Audience muovono su coordinate sonore nettamente diverse da
quelle del gruppo di Peter Hammill.
La musica è lontana dagli oscuri, plumbei incubi psicospaziali tipici dei migliori Van
Der Graaf e si sofferma sulla modalità della ballata rock, presentata di volta in volta
con caratteristiche diverse, come si può desumere dal lavoro più rappresentativo, The
house on the hill del 1971. Il brano più noto (e forse più bello) è Jackdaw, che mette
in risalto un’intensa scrittura melodica con solidi arrangiamenti dei fiati e la
convincente prestazione al canto di Howard Werth, potente e sicuro.
Quando alla fine del 1969 crea un proprio gruppo con il quale affrontare i modi del
pop romantico progressivo, Rod Argent (ts.) è musicista con alle spalle un lungo
tirocinio nella formazione beat degli Zombies. Nel nuovo complesso, denominato
semplicemente Argent, confluiscono Russ Ballard (ch.), Robert Henrit (bt.) e Jim
Rodford (bs.).
Con gran parte del materiale composto da Argent e da Chris White (ex compagno del
leader negli Zombies), e qualche significativo contributo di Ballard, gli Argent
esordiscono nel 1970 con un discreto album omonimo per la CBS che appare tentativo
di superamento del vecchio idioma beat. Solo a tratti lo sforzo per cercare di creare un
suono vario ed eclettico ottiene i risultati sperati, pur in presenza di buone canzoni
quali Like honey, Liar, The feeling is inside.
Sicuramente più maturo e godibile risulta il successivo Ring of hands, che cattura il
giusto equilibrio di un pop progressivo facile ed ordinato, sempre molto curato, con
belle melodie e precise soluzioni vocali come nell’iniziale Celebration, nella grintosa
Chained (una sorta di riff rallentato alla Hendrix, sul quale viene incastonata una
stratificazione corale di grand’effetto), come nelle beatlesiane Rejoice e Pleasure (con
echi Yes). Di buon interesse sono le trame classicheggianti dell’ambiziosa Lothlorien, il
pop jazz di Sleep won’t help me e lo spedito senso affermativo di Where are we going
wrong che chiude il disco.
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Pete York è il batterista dello Spencer Davis Group sin dalla fondazione del
complesso, nell’aprile del ’63 ; Eddie Hardin entra in formazione nel 1967, a seguito
della dipartita di Stevie Winwood. Insieme elaborano un ambizioso (anche se scarno)
progetto e nell’ottobre del ’68, dopo avere lasciato Davis, decidono di attuarlo. Nasce
così uno stravagante duo che rivede in termini minimali il concetto di formazione rock
impostata sulle tastiere (in pratica organo + batteria), fregiandosi del titolo di ‘più
piccola Big Band del mondo’. Il primo LP di Hardin & York, Tomorrow today
(pubblicato a metà del ’69), è un buon esempio della loro proposta musicale
imperniata su un suono scarno, essenziale ma non privo di arrangiamenti ricercati e in
grado d’interessare grazie alla notevole fluidità strumentale, dimostrata dal duo
soprattutto dal vivo. In particolare piacciono canzoni semplici (ma tutt’altro che
banali) quali Tomorrow today (un soul rock alla Traffic), Candlelight, le moderate
Listen everyone e I’m lost.
Il progetto si consuma rapidamente con la realizzazione di altri due buoni lavori,
World’s smallest big band (Bell-1970) e For the world (Decca-1971).
Dopo una lunga trafila in gruppi R & B, nei primi anni settanta l’organista Peter
Bardens si tuffa nella tarda scena progressiva con le creature dei Village (poi
ribattezzati Global Village Trucking Co.) e quindi degli On, che nel 1972 comprendono
tre ex membri dei Brew, Andrew Latimer (ch.v.), Doug Ferguson (bs.v.) e Andy Ward
(bt.). L’anno successivo gli On mutano nome in Camel.
CAMEL
-
CAMEL
(MCA - 1973)
La nuova formazione concretizza immediatamente ottimi risultati con la pubblicazione dell’album omonimo
d’esordio, che sin dall’iniziale Slow yourself down esprime al meglio il tipico suono sobrio, elegante ed
efficace, povero di novità ma ricco d’equilibrio, ciò che manca ai gruppi del rock romantico degli anni
settanta inoltrati. I Camel ricordano da vicino il suono di Canterbury per il tocco leggero e gentile e per
l’incedere fluido, mai forzato degli strumenti. Tra i lati negativi, la modesta qualità delle parti vocali è il
punto debole della loro proposta, sicuramente più attraente nella veste strumentale.
Mystic queen è un bel lento d’atmosfera, che presenta linee d’organo sinuose e gradevoli e una lirica chitarra,
ottenendo un effetto non molto distante dai migliori Argent, mentre le ottime Separation e Arubaluba
rivitalizzano un suono scattante che, soprattutto per la chitarra in stile simil Hillage dei primi tempi e per
l’articolazione della struttura dei brani, ricorda i Khan più determinati.
Il buono stato di forma è confermato dal vivo; nell’ottobre del ’73 i Camel
contribuiscono alla realizzazione del doppio Live at Dingwall’s Dance Hall, che
raccoglie performance di Global Village Trucking Co., Henry Cow e Gong. La loro suite
strumentale in tre parti God of light revisited sfoggia un suono brillante e privo di
fronzoli, basato essenzialmente sull’ottimo lavoro all’organo di Bardens.
Il gruppo tiene bene anche nel successivo album di studio del ’74, Mirage, che non
introduce elementi di novità, focalizzando l’abilità dei musicisti nel saper dar vita a
trovate armoniche ingegnose e poco complicate, a mezza strada tra rock duro e
melodia romantica.
- 32 ‘Jazz rock’ è uno dei termini più ambigui e, al tempo stesso, ricchi di fascino di
tutto il ‘progressive’ inglese. Ricco di fascino perché lascia presagire sconvolgenti
architetture sonore in grado di tener conto della trazione diretta del rock e della
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libertà espressiva del jazz ; ambiguo in quanto, come di sovente accade ai sistemi
binari, sottintende forzati compromessi destinati a produrre esiti deludenti, privi della
necessaria lucidità tematica.
Non tutto, però, è confusione o scontata ‘fusion’ : tralasciando volutamente esemplari
musicisti jazz, solo marginalmente coinvolti nel panorama rock, quali Mick Westbrook,
John Surman e simili, ottimi esempi vengono dai Soft Machine e da più di un gruppo
dell’orbita di Canterbury (presi in considerazione nel successivo capitolo), dai Nucleus
di Ian Carr e dalla Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin.
I Nucleus del trombettista Ian Carr esordiscono nel 1970 con Elastic rock
(Vertigo), un buon disco che però solo raramente riesce a scalfire lo stile freddo e
calcolato che contraddistingue la proposta del gruppo.
We’ll talk about it later si rivela il miglior album grazie all’omogeneità di fondo della
musica proposta più che alle pur eccellenti prestazioni strumentali dei musicisti.
Grande importanza nell’economia del suono dei Nucleus spetta al ruolo di Chris
Spedding (ch.) che, con il suo informale approccio rock, dona alla musica solidità
ritmica e allo stesso tempo varietà timbrica. Di rilievo l’ottima Song for the bearded
lady, perfetta i llustrazione delle caratteristiche del tipico brano jazz rock, mediata tra
l’elastico sostegno ritmico di stampo rock e la stratificazione armonica generata dalla
sezione fiati.
Musicista tra i più significativi per la capacità di sapersi porre come tramite tra jazz
e rock con precisa cognizione di causa, John McLaughlin inizia la carriera nei primi
anni sessanta facendo gavetta nei complessi di Graham Bond e di Brian Auger. Nel
1969 il chitarrista entra nella formazione di Miles Davis, partecipando all’incisione di
due album storici come In a silent way (in febbraio) e Bitches brew (in agosto). Inoltre
pubblica a proprio nome l’ottimo Extrapolation (Polydor), con l’aiuto di alcuni
esponenti di prestigio dell’English jazz (John Surman, Brian Odges e Tony Oxley). Tra
le varie collaborazioni e i dischi incisi come solista spicca My goal’s beyond (Douglas1971), nel quale suonano il violinista Jerry Goodman (già membro dei Flock) e il
batterista di colore Billy Cobham che, nel 1972, con l’innesto del pianista cecoslovacco
Jan Hammer e del bassista Rick Laird formeranno l’ossatura della Mahavishnu
Orchestra.
MAHAVISHNU ORCHESTRA
-
BIRDS OF FIRE
(CBS - 1973)
La Mahavishnu Orchestra è, nelle intenzioni di McLaughlin, il complesso ideale per tornare ad eseguire una
musica di chiara impostazione elettrica e con l’album del 1973 Birds of fire il gruppo raggiunge i limiti delle
possibilità espressive del genere. Il suono è secco, graffiante, elettrico, teso allo spasimo : nell’iniziale Birds
of fire gli strali di fuoco della chitarra s’avvinghiano alle evoluzioni del violino, in una straordinaria
sospensione dai contorni indefiniti, sostenuti dal treno ritmico Laird / Cobham.
Non mancano belle e pacate melodie quali Miles beyond e Sanctuary, che vengono comunque sottoposte ad
interessanti trattamenti armonici. L’ardore ritmico di Celestial terrestrial commuters e di One word mette in
luce l’abilità strumentale dei musicisti, sfiorando territori fusion senza scadere nella banalità più ovvia. La
conclusiva Resolution è magistrale nella sua ascesa disperata, senza fine e senza meta, e pare preludere alle
sequenze utilizzate a piene mani da Robert Fripp su Red, qualche mese più tardi.
Anche il sassofonista Dick Morrissey è musicista d’estrazione jazz e nel 1970 fonda
gli If, una formazione a sette modellata sullo stile di analoghi complessi americani
97
quali Blood Sweat & Tears e Chicago. Tra i lavori più importanti può essere scelto ad
esempio il secondo I f 2, pubblicato verso la fine del 1970 ; la musica è
prevalentemente orientata in ambito rock, con canzoni ben strutturate, dotate di belle
linee melodiche (Sunday sad, I couldn’t write and tell you) e colorate da una poco fitta
ma solida sezione di fiati derivata dal jazz e dal rhythm & blues (A song for Elsa,
Three days before her 25th birthday). Certo non si tratta di jazz rock nel senso
letterale del termine, ma questi If risultano piacevoli e meritano un piccolo angolo di
considerazione.
98
LA LUNA IN GIUGNO
nella terra del grigio e del rosa
- 33 Gruppo seminale della scena musicale sviluppatasi nella zona di Canterbury, i
Wilde Flowers nascono nel giugno del 1963 dall’aggregazione di alcuni giovani
musicisti del luogo, tali Robert Wyatt, Kevin Ayers, Richard Sinclair e i fratelli Hopper,
Brian e Hugh. Nei primi mesi del ’66 Ayers e Wyatt lasciano i Wilde Flowers e si
uniscono ad un bizzarro personaggio proveniente dall’Australia, Daevid Allen.
Nell’agosto di quell’anno l’insolito trio si trasforma in quintetto, con l’aggiunta di Mike
Ratledge (anch’egli del luogo) e del chitarrista americano Larry Nolan, denominandosi
Soft Machine.
Ben presto Nolan se ne va e la formazione s’assesta a quartetto, risultando tra le più
assidue frequentatrici dell’Ufo Club e partecipando alla 14th hour technicolour dream,
leggendaria festa dell’underground e della psichedelia inglese ; sono gli ultimi fuochi
della formazione originaria che in settembre perde Daevid Allen, al quale viene negato
il rinnovo del permesso di soggiorno.
Wyatt, Ayers e Ratledge decidono di proseguire come trio e nel 1968 pubblicano
l’album d’esordio omonimo. L’inizio di Hope for happiness è un tuffo al cuore per via
della voce di Wyatt, originale per i riferimenti alla cultura jazz, eterea e tremante,
imprendibile nel suo volo in caduta libera, prima che il ritmo e l’organo di Ratledge
prendano il sopravvento. In generale il materiale è valido, l’album non delude pur
scontando una cura sommaria della produzione, che si riflette nell’eccessiva
frammentarietà della musica.
Ayers preferisce abbandonare per dedicarsi ad una carriera solistica inizialmente
densa di buoni risultati ; al suo posto entra Hugh Hopper (bs.), altro ex Wilde Flowers.
All’inizio del 1969 il nuovo trio registra Soft Machine volume two, nel quale esibisce i
notevoli progressi conseguiti. Le buone intuizioni comprese nel lavoro d’esordio sono
confermate e le varie e complesse componenti dello stile vengono amalgamate con
equilibrio e preci sione. Decisivo è l’apporto strumentale e compositivo di Hugh Hopper
(sua la bellissima Dedicated to you but you weren’t listening) che, in perfetta sintonia
con Wyatt, tende a spostare l’accento della musica verso influenze jazz, con alcune
parti al limite del free (Fire engine passing with bells clanging). L’apertura è affidata
ad una snella Pataphysical introduction che incappa nel divertimento delirante di A
concise British alphabet. L’eccellente Hibou anemone and bear sfoggia un suono
maturo, che si co nfronta con l’evidente ispirazione jazz e con il canto di Wyatt che si
libera improvviso, limpido ed impalpabile, carico di sentimento al limite dello
stordimento.
SOFT MACHINE
-
THIRD
(2 LP CBS - 1970)
Le ambizioni dei Soft Machine aumentano e, di pari passo, la formazione si allarga con l’ingresso, come
elemento fisso, del sassofonista Elton Dean. Inoltre, alle registrazioni del terzo album partecipano alcuni
esponenti di rilievo del ‘new English jazz’, che donano alle composizioni un’inedita intensità strumentale.
Third rappresenta l’ideale punto d’incontro tra l’aspetto trasognato e dadaista dei primi Soft Machine e il
jazz moderno, elettrico e sperimentale, dei dischi degli anni settanta, con esiti qualitativi di primaria
grandezza. E’ musica che trascende il significato del termine jazz rock, che evita una fredda fusione di stili e
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generi per intervenire direttamente sulla consistenza molecolare del suono, modificandone le caratteristiche
atomiche al fine di generare un risultato creativo e originale.
Il doppio LP si compone di quattro lunghe composizioni che occupano i relativi lati del disco. Due portano la
firma di Ratledge : Slightly all the time, fluida disposizione di una bella varietà di temi, e Out-bloodyrageous, che attinge a certo minimalismo iterativo vicino a Philip Glass e ancor più a Terry Riley, per poi
ricollegarsi al jazz elettrico e fiatistico. Hopper presenta Facelift che si apre con una libera sequenza di suoni
elettronici ed evolve in una serie d’affascinanti aperture armoniche improntate sui fiati.
La felice vena creativa di Wyatt dona al pop inglese la stupenda Moon in June, unico brano a presentare una
parte vocale e a non tradire lo spirito originario della Soft Machine. Il canto colmo di sentimento e la
bellezza inarrivabile della parte strumentale, che non prevede l’intervento di strumenti a fiato, afferma per
l’ultima volta e in modo definitivo (almeno con i Softs) la scienza ‘patafisica’ tanto cara a Robert.
La direzione musicale del gruppo procede in senso inverso, alla ricerca di forme
sempre più impervie di jazz elettrico ; nel pur valido Fourth (CBS-1971) non c’è spazio
per la creatività di Wyatt, relegato al ruolo di comprimario di lusso, batterista virtuoso
capace di trasferire la gran personalità della sua arte sui tamburi dello strumento
prediletto. Il quarto parto dei Soft Machine resta in ogni caso un disco di buon livello ;
sotto le indicazioni stilistiche dettate da Hopper, Ratledge e Dean, e per merito di un
agguerrito manipolo di fiatisti, il disco sviluppa un forte approccio bandistico che
straripa fin sulle rive del free jazz. Prima della pubblicazione di Fourth, Wyatt sfoga la
creatività repressa realizzando un album come solista, il mitico The end of an ear, e
nell’estate del ’71 saluta la compagnia per formare, non senza una punta di polemica
ironia, i Matching Mole (da Machine Molle, sua personale soffice macchina).
I Caravan vantano una comune derivazione genealogica con i Soft Machine.
Richard Sinclair (bs.) fa parte dei Wilde Flowers sin dalla loro costituzione e quando,
all’inizio del 1966, Wyatt e Ayers abbandonano per formare i Soft Machine, i due
vengono rimpiazzati (in tempi diversi) dal fratello di Richard, David (ts.), da Pye
Hastings (ch.) e da Richard Coughlan (bt.). I Wilde Flowers si sciolgono ufficialmente
alla fine del 1967, trasformandosi in Caravan.
Dopo un primo album dignitoso (Caravan, Verve-ottobre1968), i Caravan firmano per
la Decca e nel settembre del ’70 pubblicano l’eccellente If I could do it all over again,
I’d do it all over you, che stabilisce i canoni dello stile con brani di notevole qualità
come la frizzante title track e le notevoli sequenze di And I wish I were stoned e,
soprattutto, di Can’t be long now.
CARAVAN
-
IN THE LAND OF GREY AND PINK
(Deram - 1971)
Pubblicato nella primavera del 1971, In the land of grey and pink rappresenta la definitiva consacrazione
artistica dei Caravan, che si propongono come secondo polo d’attrazione del Canterbury sound, con una
musica meno cerebrale e all’avanguardia rispetto a quella dei Soft Machine, ma non per questo di minore
efficacia ed importanza per l’influenza esercitata su numerose altre formazioni. Se la ‘macchina soffice’,
sospinta da una furiosa creatività, evolve verso soluzioni complesse e spesso di difficile assimilazione, i
Caravan predicano il verbo della semplicità e della melodia, evitando accuratamente ogni accento
sperimentale. Il suono appare nitido e pulito, semplice ma curato nei minimi particolari, con in evidenza le
tastiere spumeggianti di David Sinclair e le belle armonie vocali di Richard Sinclair e Pye Hastings.
La gustosa ed indolente cadenza di Golf girl ammalia sin dall’originale introduzione e pone in evidenza
l’importante contributo ai fiati di Jimmy Hastings. Winter wine è una canzone stupenda, intrisa di nostalgia,
interpretata magistralmente dalla malinconica voce di Richard Sinclair mentre la raffinata ballata di In the
land of grey and pink conferma l’equilibrio stilistico ed esecutivo raggiunto dai musicisti.
100
La suite di Nine feet underground raccoglie l’esperienza globale della proposta Caravan, senza cadere in
facili riti celebrativi, mantenendo il suono straordinariamente compatto come solo i migliori Traffic in quel
periodo riescono a fare.
Waterloo Lily (maggio ’72) raccoglie critiche controverse, ma tutto sommato non
delude. L’assenza delle tastiere di Sinclair (che raggiunge i Matching Mole, ben
sostituito dall’ottimo Steve Miller dei Delivery) si fa sentire e la maggiore propensione
verso aspetti jazzati, unita alla ricerca accentuata del particolare e di tonalità originali,
determina un leggero appesantimento delle canzoni.
Il gruppo è in evidente difficoltà per via dell’immediato abbandono di Miller e
soprattutto a causa dell’uscita di Richard Sinclair, che ritrova il fratello negli Hatfield &
the North. I lavori successivi segnano un notevole calo qualitativo ma tanto basta, la
musica del grigio e del rosa non si può cancellare dai nostri cuori.
A mezza strada tra Soft Machine e Caravan si collocano gli Egg del tastierista Dave
Stewart. Completato da Hugh Montgomery -Campbell (bs.v.) e da Clive Brooks (bt.) il
gruppo giunge alla prova sulla lunga distanza nel marzo del ’70. Egg (pubblicato dalla
Deram) è un esordio di tutto rispetto, che nelle ottime I will be absorbed e The song
of McGillicudie the pusillanimous mette a fuoco lo stile del gruppo, in gran parte
basato sul talento di Stewart e sull’uso di tempi inconsueti di lontana derivazione jazz.
Emergono anche evidenti aspetti classici soprattutto nella stesura dei quattro
movimenti della Symphony no. 2 che, pur sfoderando episodi strumentalmente
brillanti, appare nell’insieme di pretese un po’ esagerate.
EGG
-
THE POLITE FORCE
(Deram - 1970)
Passano pochi mesi ed entro la fine dell’anno gli Egg pubblicano il secondo LP The polite force, un lavoro
maturo e particolarmente complesso. A visit to Newport hospital presenta una cadenza grave, pesante, con la
parte centrale del brano abilmente strutturata attorno all’agile gioco delle tastiere. In Contrasong viene
introdotta una nutrita sezione di fiati, in un bell’intreccio di tempi complessi. Il secondo lato del disco è
interamente occupato dalle quattro parti di Long piece no. 3, realizzata con soluzioni armoniche e ritmiche
formalmente inappuntabili ma sfiorate da una latente freddezza espressiva.
La sigla Egg torna in scena per l’ultima volta nel 1974, quando i tre membri si
riuniscono temporaneamente per l’incisione di The civil surface (Caroline-1974), con
un organico allargato a numerosi musicisti esterni.
Dopo la breve ed intensa esperienza degli Egg, Dave Stewart all’inizio del 1972
ritrova sulla sua strada il vecchio compagno Steve Hillage (già conosciuto negli Uriel),
il quale ha nel frattempo allestito la formazione d ei Khan. Quando si presenta
l’occasione di recarsi in studio d’incisione per realizzare un album, Hillage si rivolge a
Stewart per le parti relative alle tastiere ; nel maggio del 1972 la Deram pubblica
Space shanty, pregevole parto di tal estemporanea collaborazione.
La musica è un’interessante, spettacolare fusione tra soluzioni romantiche d’impronta
canterburiana e un rock spigliato ed incisivo, dotato di gran dinamismo strumentale,
con l’ovvia predominanza della chitarra di Hillage e delle pregevoli tastiere di Stewart.
Hillage e Stewart lavorano per breve tempo all’allestimento di una nuova formazione
dei Khan, senza esito, dal momento che il tastierista entra negli Hatfield & the North
mentre il chitarrista finisce nei Gong di Daevid Allen. In quel b izzarro complesso
rimane fino al 1976, ma già l’anno precedente Hillage inizia una carriera solistica che
101
dà ottimi frutti con i primi lavori, Fish rising e L. Fish rising (Virgin-1975) si collega
direttamente alle precedenti esperienze dei Khan e dei Gong, con l’elaborazione di
alcune riuscite mini suite (Solar musick suite, The salmon song, Aftaglid).
Gruppo di nobili radici del Canterbury sound, Hatfield & the North prende forma
nell’ottobre del 1972. I fratelli David e Richard Sinclair affrontano assieme le
esperienze dei Wilde Flowers e dei Caravan, Phil Miller (ch.) proviene dai Delivery e
suona (con lo stesso David Sinclair) nei Matching Mole, Pip Pyle (bt.) è alla corte di
Daevid Allen e nei primi Gong. L’organico s’assesta definitivamente all’inizio del 1973
con l’ingresso di Dave Stewart, in sostituzione di David Sinclair tornato a suonare con i
Caravan.
HATFIELD AND THE NORTH
-
HATFIELD AND THE NORTH
(Virgin - 1973)
Pubblicato alla fine del 1973, Hatfield and the North non delude di certo le esigenti aspettative dei pochi
appassionati del genere. Sin dall’iniziale The stubbs effect, gli Hatfields danno dimostrazione dell’abilità nel
saper trasporre le precedenti esperienze dei singoli musicisti in un’entità sonora indivisibile. Echi di
Matching Mole e Caravan (nel momento in cui questi gruppi hanno cessato di esistere o di produrre musica
di qualità) si rincorrono in un vortice di emozioni ; sintetizzando al massimo, si può parlare di jazz rock ma,
in realtà, è facile rendersi conto dell'insufficiente precisione del termine.
Going up to people and tinkling fa leva, come tutto il lavoro, su una notevole poliedricità strumentale e
d’ispirazione, le composizioni di Sinclair (Big jobs, Bossa nochance, l’eccellente Fol de rol) non perdono di
vista l’aspetto romantico (e di commovente nostalgia) di una proposta che, a ben vedere, chiude un ciclo e
forse l’intera epopea della musica di Canterbury. Se un difetto si vuole trovare a tutti i costi, si può ragionare
su qualche parte che tollera una certa freddezza stilistica, ma è un’impressione dovuta alla natura elaborata e
‘seria’ della materia trattata, assolutamente estranea a qualsiasi concessione commerciale.
Nonostante lo scarso riscontro ottenuto, gli Hatfield & the North ci riprovano e all’inizio
del 1975 registrano i nastri del secondo The rotter’s club. Il risultato appare
ugualmente ispirato e raffinato, con belle e limpide composizioni quali Share it e
Didn’t matter anyway, oltre alle complicate configurazioni ritmiche di The yes no
interlude e all’ennesima elaborazione a forma di suite ad opera di Stewart (Mumps).
Ma tutti gli sforzi sono inutili, il gruppo non riesce a suscitare interesse nel pubblico
inglese scivolando tristemente verso lo scioglimento.
- 34 Ma che fine hanno fatto i tre Soft Machine originali, Kevin Ayers, Daevid Allen
e Robert Wyatt ?
Kevin Ayers abbandona i Soft Machine nel 1968 e torna sulla scena verso la fine del
’69, con la pubblicazione per la Harvest di Joy of a toy, buon album dallo stile in
apparenza scanzonato e leggero che, in verità, nasconde insidie d’ogni tipo in brani
quali Stop this train again doing it, Town feeling, Song for insane times, Lady Rachel,
Oleh oleh bander bandong. Al disco partecipano i Soft Machine al completo (Wyatt,
Ratledge, Hopper), il compositore / arrangiatore / tastierista David Bedford e il
batterista Rob Tait (Battered Ornaments e Piblokto).
102
Ayers matura l’idea di una formazione fissa ed allestisce il Whole World, eterogenea
unione comprendente B edford, il giovane e promettente Mike Oldfield (ch. - ancora
lontano dai fasti delle ‘campane tubolari’) e Mick Fincher (bt.). A completamento del
gruppo il sassofonista Lol Coxhill, personaggio sempre rimasto ai margini della
notorietà, capace di passare con disinvoltura dal rhythm & blues al free jazz e a tutto
ciò che può stare in mezzo. Nella sua carriera suona con Alexis Korner, nel 1969
appare con i Delivery e ancora vaga senza una meta precisa, passando da Robert
Wyatt a Hugh Hopper, da Mike Oldfield a Mike Westbrook, esibendosi da solo ovunque
possibile. Il suo Ear of beholder (2 LP Dandelion-1971) merita un ascolto, con la
dovuta attenzione.
KEVIN AYERS AND THE WHOLE WORLD - SHOOTING AT THE MOON
(Harvest - 1970)
Shooting at the moon è il saporito frutto della collaborazione con il Whole World; stimolato
dall’intraprendenza dei compagni, Ayers s’impegna nella realizzazione di un insieme a nuclei contrapposti,
dove cialtroneria e sperimentazione s’affrontano mantenendo peso ed identità ben distinti. Siamo lontani
dalla scienza ‘patafisica’ di Wyatt e dalla pietra filosofale della ‘musica totale’ ; qui si bada ad accostare le
sostanze senza generare incontrollate trasformazioni della materia, puntando piuttosto sul contrasto timbrico
tra i suoni. L’apertura è riservata a May I, perfetto prototipo di ballata indolente in ossequio del carattere
pigro dell’autore ; Rheinhardt and Geraldine azzecca un piacevole giro armonico (sottolineato dal sax di
Coxhill), che s’infrange in un furioso zapping radiofonico (Cage ?) per lasciare posto alla concreta Colores
para dolores.
Lunatics lament fa il verso all’hard freak informale di Daevid Allen, in antitesi con la sperimentazione di
Pisser dans un violon, dove s’avverte lo zampino di Bedford. Le divertenti The oyster and the flying fish e
Clarence in wonderland scelgono la trama della filastrocca di poco senso, spezzate dal frammento allucinato
di Underwater. Coxhill si conferma in gran forma nell’ottima melodia di Red green and you blue e nell’acida
iterazione conclusiva di Shooting at the moon.
La strana congrega del Whole World si dimostra priva di unità, impossibilitata a durare
nel tempo, e dopo diversi rimaneggiamenti la sigla viene accantonata ancor prima
della pubblicazione del terzo LP Whatevershebringswesing (1972), nel quale Ayers è
accompagnato dall’ennesimo lussuoso cast di musicisti (ancora Bedford, Oldfield e
Wyatt, Didier Malherbe dei Gong, i batteristi Tony Carr e William Murray, tra gli altri).
Il disco chiude la fase creativa di Ayers e s egna l’approdo a climi più rilassati, con
qualche sussulto distribuito nell’iniziale There is loving / Among us, dotata di un
interessante arrangiamento approntato da Bedford, nella deragliante allucinazione di
Song from the bottom of a well, nel rock’n’roll di Stranger in blue suede shoes, che
scherza con Lou Reed e i Velvet Underground.
Daevid Allen, australiano, musicista di professione e freak per vocazione, giunge
in Inghilterra all’inizio dei sessanta e nel ’66 finisce nella formazione originale dei Soft
Machine. Con il gruppo di Robert Wyatt rimane fino al settembre 1967, quando è
costretto a rinunciare per via del mancato rinnovo del permesso di soggiorno. Assieme
alla compagna Gilli Smyth non gli resta che trasferirsi in Francia, dove suona co n
musicisti del posto, conosce Didier Malherbe (sf. - con il quale nel 1970 fonderà i
Gong) e pubblica due album come solista, Magick brother, mystic sister (Byg-1970) e
l’ottimo Banana moon (Byg), pubblicato nel 1971.
Banana moon, che vede la partecipazione di un nutrito gruppo di musicisti tra cui
Robert Wyatt, Pip Pyle e l’organista Gary Wright, è un esemplare compendio di
stranezze freak con un ampio ventaglio di soluzioni sonore a disposizione. Time of
your life si colloca a metà strada tra Hendrix e i Beatles, Memories (cantata da Wyatt)
103
è una bella, romantica ballata ripescata dalle prime sessions dei Soft Machine mentre
Stoned innocent Frankenstein regge le briglie dell’hard più estroso ed estroverso e la
prosecuzione & his adventures in the land of flip si lascia andare ad un lungo delirio
free form.
Contemporanea è la creazione dei Gong che, oltre Allen, la Smyth e Malherbe,
comprendono Christian Tritsch (bs.) e Pip Pyle (bt.) ; quest’organico esordisce nel
1971 con Continental circus (Philips -1971) e nello stesso anno ultima le registrazioni
di Camembert electrique (Byg), album di notevole importanza che prosegue il discorso
iniziato dai dischi solistici di Allen ed introduce alle fantastiche storie spaziali del
pianeta Gong.
Il 22 giugno 1971 Allen torna in Inghilterra, per esibirsi con i Gong alla festa
alternativa del Glastonbury Fayre Festival (il gruppo è presente sul triplo LP che
commemora l’evento). In seguito l’artista decide di sciogliere temporaneamente il
complesso, per dedicarsi alla m essa a punto della fantasiosa e strampalata trama di
Radio Gnome, una sorta di radio pirata che effettua le trasmissioni a bordo di una
teiera volante proveniente dal pianeta Gong. Verso la fine del ’72 giunge l’ora di
riassettare la formazione, per dare riscontro discografico alla storia di Radio Gnome ;
l’organico prevede la presenza, oltre alla vecchia guardia (Allen, la Smyth e
Malherbe), di Steve Hillage (reduce dai Khan), di Francis Moze (bs. - ex Magma), di
Tim Blake (ts.sn.) e di Laurie Allan (bt.).
GONG
-
RADIO GNOME INVISIBLE Part 1 : FLYING TEAPOT (Virgin – 1973)
All’inizio del ’73 Flying teapot costituisce la prima parte della prevista trilogia di Radio Gnome e già
l’introduttiva Radio Gnome invisible offre una sintesi con i classici ingredienti del maturo suono Gong, un
mix di ‘stupid music’, scatti jazz, soavi linee dall’intenso sapore orientale, sibili elettronici dall’iperspazio,
gorgheggi sospesi a mezza via tra echi spaziali e sogni erotici.
La proposta appare originale e divertente, passando dal brioso jazz rock di Flying teapot all’accattivante
canzoncina di The pot head pixies, dalla distesa elettronica di The octave doctors & the crystal machine allo
sciolto dinamismo strumentale di Zero the hero and the witch’s spell.
Di livello ugualmente elevato è il secondo capitolo Angel’s egg ; nell’esigenza di
continuità con il lavoro precedente la musica non subisce modifiche di rilievo,
confermandosi godibile nella tranquilla cantilena di Selene, nello space rock di Other
side of the sky, nello spigliato jazz rock di Oily way e di I niver glid before e un po’
ovunque. Memorabile Prostitute poem, dotata di un passo di valzer tinto d’oriente, con
una curiosa interpretazione sexy della Smyth.
Nell’estate 1974 i Gong provvedono alle incisioni che compongono l’ultima parte della
trilogia di Radio Gnome, raccolte su You (Virgin-1974). Il gioco comincia a farsi
prolisso, pur essendo un discreto album You non possiede la spontaneità e l’originalità
dei capitoli precedenti, suona un poco noioso e anche i passaggi strumentali di
maggior impatto (The isle of everywhere, Master builder) appaiono risapute copie del
glorioso passato.
Abbiamo lasciato Robert Wyatt al tempo in cui abbandona i Soft Machine (fine
estate ’71), in totale disaccord o con le scelte artistiche intraprese dal gruppo. Già
l’anno precedente il batterista pubblica un album come solista, The end of an ear, che
si dimostra coraggioso tentativo di portare alle estreme conseguenze le intuizioni dei
primi due lavori dei Soft Ma chine. Senza preoccupazioni di carattere commerciale, in
totale libertà espressiva, Wyatt travolge Gil Evans nelle due tracce di Las Vegas tango
104
- part 1 , sfigura il jazz con uno sfacciato, infantile, provocatorio approccio free, aiutato
da un manipolo di prodi strumentisti, tra i quali i fiatisti Elton Dean, Mark Charig e
l’organista David Sinclair.
Wyatt non perde tempo e con Matching Mole appronta una personale, ironica,
clamorosa rivincita sul vecchio gruppo. A dargli man forte sono il solito David Sinclair
(che rinuncia momentaneamente ai Caravan), Phil Miller e il bassista Bill MacCormick
(proveniente dai Quiet Sun di Phil Manzanera).
MATCHING MOLE
-
MATCHING MOLE
(CBS - 1972)
Il primo album omonimo, che vede la partecipazione di Dave McRae al piano, appare opera di eccellente
qualità, poetica e raffinata fusione tra rock, jazz e melodia pop. La parte iniziale del disco è trasognata e
melodica ; la voce di Wyatt colpisce per la profonda umanità del tono nella ballata pianistica di O Caroline,
le tastiere di Sinclair e dello stesso Wyatt forniscono una base armonica di gran fascino. Instant pussy
introduce batteria e chitarra, in un’eterea sospensione solcata dai vocalizzi del leader, mentre la magnifica
Signed curtain (solo piano e voce) segna il ritorno all’essenza originaria del concetto di canzone, sin dal
realismo minimale e geniale delle liriche.
La magia è infranta dagli echi psichedelici della complessa Part of the dance, che ricava spunti dal jazz
elettrico per un viaggio negli anfratti del ritmo e dell’armonia. Instant kitten recupera la fluidità del miglior
suono Caravan, con accenti jazz più marcati ; avvincenti anche la dedica jazz rock (nella migliore accezione
del termine) a Hopper di Dedicated to Hugh, but you weren’t listening, e il contorto impressionismo di Beer
as in braindeer. Il siderale, agghiacciante romanticismo fornito dal mellotron di Wyatt (Immediate curtain)
pare quasi voler trascinare lontano i ricordi meravigliosi di un tempo irripetibile.
Nell’estate del 1 972 Matching Mole ci riprova; non c’è più David Sinclair, impegnato
nell’atto costitutivo di Hatfield & the North, sostituito dal piano insistente e raffinato di
Dave McRae, e nel nuovo Little red record (prodotto da Robert Fripp) si registra la
partecipazione di Brian Eno ai sintetizzatori, presente sui brani Gloria Gloom e Flora
fidgit. Anche se di qualità elevatissima, Little red record non raggiunge nell’insieme il
valore dell’album precedente, scontando una pratica rivolta a soluzioni in genere più
complicate e di non facile fruibilità. Restano la monumentale Gloria Gloom, con la
bellissima melodia cantata nel consueto trasporto di Wyatt e gli echi allarmanti dei
sintetizzatori di Eno, la limpida trasparenza della melodica God song e ancora il
raffinato cromatismo timbrico di Smoke signal. Non è poco, ma per i Matching Mole
l’avventura si avvia rapidamente alla conclusione.
Wyatt pensa a una nuova edizione del complesso con Francis Monkman dei Curved
Air, ma nell’estate del 1973 è vittima di un grave incidente, cadendo da un balcone e
rimanendo paralizzato alle gambe ; il rock inglese perde così uno dei più validi
batteristi ma per fortuna Wyatt riesce a reagire alla sventura. Nick Mason dei Pink
Floyd si presta alla produzione del lavoro solistico che, a metà del ’74 dopo sei lunghi
mesi di ospedale, segna il ritorno sulle scene di Wyatt, il magnifico Rock bottom.
Con Wyatt sono un folto numero di amici, strumentisti di vaglia, da Richard Sinclair a
Hugh Hopper, dall’ormai celebre Mike Oldfield a Fred Frith (Henry Cow) e Laurie Allan
(Gong), fino ai fiatisti Gary Windo e Mongezi Feza.
ROBERT WYATT
-
ROCK BOTTOM
(Virgin - 1974)
Gran parte del materiale utilizzato per Rock bottom risale a prima dell’incidente e Wyatt rivede gli
arrangiamenti puntando sull’impatto emotivo, su una musica passionale e seducente. Il suono appare distante
dalle esperienze con i Soft Machine, con i Matching Mole, dal The end of an ear d’inizio decennio. Le
tastiere e la voce di Wyatt sono alla base della dolce e commovente Sea song, A last straw (con Hopper e
Allan) muove con discrezione il ritmo che s’intensifica nella coinvolgente Little red riding hood hit the road,
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dove fondamentale risulta il contributo di Mongezi Feza (di notevole effetto le trombe sovrapposte nel
finale). In Alifib Wyatt dialoga col vecchio compagno Hopper, in Alife si confronta con i gorgheggi free dei
fiati di Windo. Little red Robin Hood hit the road, con la lirica chitarra di Oldfield e la glaciale viola di Frith,
chiude degnamente un lavoro di struggente bellezza. Nulla della folta e qualitativa discografia successiva del
musicista raggiungerà risultati simili.
106
IL BUIO AI MARGINI DELLA CITTA’
eroi e dannati dell’Inghilterra sotterranea
Si potrebbe titolare, alla ricerca del suono perduto.
Una panoramica, veloce ma obbligatoria, sui gruppi minori (talvolta minimi) della
musica progressiva inglese, personaggi della cui esistenza le giovani generazioni non
sanno, neppure p er sentito dire, e sigle che nemmeno all’epoca furono in grado di
muovere le classifiche di vendita. Accanto a complessi e musicisti di notevole
popolarità, e spesso di grandi guadagni (non sempre giustificati dalla qualità della
musica proposta), è giusto e doveroso collocare, con pari dignità e onori, nomi
familiari solo agli appassionati incalliti, che meritano una sistemazione più equa nella
trattazione storica della musica rock per i propri (a volte sorprendenti) meriti musicali.
Molti di questi gruppi hanno trovato spazio nelle pagine precedenti, a diretto confronto
con illustri e fortunati esponenti del rock inglese ; tanti altri, la cui opera contribuisce
ad accrescere e dare sostanza a tutto il movimento rock di un’epoca, sono citati qui.
Le loro illusioni e le delusioni, i dischi invenduti senza possibilità di replica, le
promozioni inesistenti, i concerti mal pagati, la musica provata per il piacere e la
passione, senza compromessi.
Anonimi musicisti, gruppi durati pochi mesi, a volte giorni, stritolati insieme alle loro
aspettative da un’industria discografica illusoria e persecutrice. Le chitarre e le
batterie per lo più abbandonate, per diventare impiegati, operai, avvocati, disoccupati
e chissà cos’altro, lontano mille miglia dal mito e dal successo ; molti, purtroppo, non
sono più tra noi, scomparsi senza lasciare traccia nel ‘normale’ senso della vita. Ma
(per quanto esile) resta un filo da seguire, la loro musica che vive ancora, che si può
ascoltare grazie alla perversione di un music business che ciclicamente si adatta a
riscoprire qualsiasi avvenimento del passato, che merita di essere ascoltata e amata
almeno quanto quella dei fratelli favoriti dalla buona sorte.
Far finta di nulla, evitare di attribuire a questa gente il dovuto riconoscimento sarebbe
un errore imperdonabile. Per non dimenticare.
- 35 Tra i maggiori agitatori del panorama underground inglese, Mick Farren forma
nel 1966 la strana congrega dei Social Deviants, un nucleo aperto del quale
inizialmente fanno parte il chitarrista Sid Bishop, il bassista Cord Rees e il batterista
Russel Hunter.
DEVIANTS
-
PTOOFF !
(Underground Impresarios - 1967)
Abbreviato il nome in Deviants, il gruppo acquisisce un certo seguito esibendosi all’Ufo Club e negli altri
piccoli locali della Londra alternativa. Sorprendente è l’esito di vendite del primo album Ptooff !,
considerando che la distribuzione avviene esclusivamente attraverso le due riviste storiche dell’underground
inglese, International Times e Oz : il relativo successo del disco (circa 8.000 copie vendute) serve da stimolo
alla Decca per la pubblicazione su più larga scala.
Con certezza, si può affermare che il disco non risponde ai requisiti di ‘bello’, nel senso tradizionale del
termine. La musica appare aggressiva e trasandata, il suono è sporco e selvaggio ma in compenso non manca
il coraggio di gettarsi a testa bassa in ardite, anche se spesso inconcludenti, elaborazioni psychoblues. Il
blues rock tirato allo spasimo di I’m coming home sfodera un impatto a mezza via tra Animals e Hendrix,
107
puntando tutto sulla forza d’urto, vista la non eccelsa levatura tecnica degli strumentisti. Child of the sky
sorprende con una stanca melodia acustica dalle belle maniere, mentre Garbage fa il verso allo Zappa dei
primi passi, senza rinunciare ad un suono deciso, a Bo Diddley e al rock blues di base, in netto contrasto con
l’aggraziata Bun.
Deviation street è devastante nell’esplosivo intreccio che contempla Zappa, rumore ed effetti speciali, hard
rock ai massimi livelli di distorsione, Diddley, tracce di calypso, Hendrix e oriente, un’escursione viscerale
nei meandri di un rock liberato da ogni remora formale.
E’ chiaro che una proposta simile può solo aspirare ai vertici della scena alternativa ed
è ciò che puntualmente accade, dal momento che per una breve stagione i Deviants
sono il gruppo freak per eccellenza, a Londra. La conferma, ad elevato livello, viene
dai due album successivi. Disposable (nel 1968, per la piccola etichetta Stable e con
Duncan Sanderson al basso) appare tecnicamente più maturo. In particolare
impressionano la lucida, tirata strumentazione di Somewhere to go e l’asciutta poesia
di Jamies song (guidata dalle belle chitarre di Bishop) e di Guaranteed to bleed.
Il terzo ed ultimo LP, The Deviants, risulta più professionale per merito delle
prestazioni del nuovo chitarrista Paul Rudolph, con in scaletta l’ottimo rock dinamico di
Metamorphosis exploration.
Tornato a Londra, Farren si dedica alla realizzazione di Mona ; the carnivorous circus,
suo primo album come solista, che segna il ritorno ai ritmi basilari del rock’n’roll di Bo
Diddley (Mona, con il violoncello di Buckmaster) e di Eddie Cochran (Summertime
blues) spaziato da un pregevole rock dai toni tipicamente underground, libero
d’evolvere senza preoccupazioni d’ordine normativo (Carnivorous circus part 1 & 2 ).
Keith Hopkins (v.) e John Wood (bs.) si trovano insieme nei Four Plus One, prima di
approdare nell’agosto del ’65 in una formazione R & B, gli In Crowd. Con il nuovo
chitarrista Steve Howe e il batterista John Alder gli In Crowd registrano i nastri per un
album che non sarà mai pubblicato e nel marzo 1967 decidono di modificare sigla in
Tomorrow.
TOMORROW
-
TOMORROW
(EMI - 1968)
Hopkins diventa West, Wood si fa chiamare Junior e Alder da questo momento si propone come Twink,
personaggio tra i più carismatici di tutto l’underground inglese. Dal vivo i Tomorrow dispongono di un
impatto scenico inconsueto per i tempi. In aprile si esibiscono al 14th Hour Technicolour Dream e il 28 dello
stesso mese tengono una delle tante performance all’Ufo Club, con l’ausilio di un bassista d’eccezione, Jimi
Hendrix.
L’esordio discografico avviene nel maggio del ’67 con l’eccellente singolo di My white bicycle, una
stralunata canzoncina con chitarre imbevute d’oriente che diventa un piccolo classico della psichedelia
inglese. Nel settembre dello stesso anno il gruppo si ripete ad alto livello con il nuovo 45 giri Revolution, che
suona più duro e serrato, con la chitarra wah-wah e un’originale orchestrazione a completamento della
traccia base.
La pubblicazione nel 1968 dell’unico album omonimo (che comprende anche i due singoli già pubblicati)
conferma i Tomorrow padroni di uno stile che paga un evidente tributo ai Beatles, pur dimostrando una
solida originalità strumentale e creativa. In brani quali Colonel Brown, Shy boy, The incredible journey of
Timothy Chase, Auntie Mary’s dress shop, Now your time has come, Hallucinations, il gruppo costruisce
l’impianto della propria musica su belle melodie di derivazione Lennon / McCartney, mettendo in evidenza
un uso notevolmente personale degli strumenti, in particolare di chitarra e batteria. Non è casuale la presenza
di Strawberry fields forever, resa in una bellissima versione che acquista in peso strumentale, senza smarrire
l’afflato lisergico dell’originale.
108
Contemporanea alla creazione dei Tomorrow è la brevissima esperienza di Twink
con i Santa Barbara Machine Head, dove il batterista si trova a confronto con musicisti
del valore di Jon Lord, Ron Wood e Kim Gardner ; la formazione non riesce a decollare
e lascia a testimonianza tre sole canzoni incise. Nel 1968 (dopo lo scioglimento dei
Tomorrow) Twink entra a far parte dei Pretty Things, con i quali registra lo splendido
S.F. Sorrow, quindi viene in contatto con l’ambiente dei Deviants e nel novembre del
’69 contribuisce con Mick Farren alla fondazione degli Shagrat The Vagrant, nucleo dal
quale derivano i Pink Fairies.
TWINK
-
THINK PINK
(Polydor - 1970)
Con la pubblicazione di Think pink, Twink dimostra il proprio valore come compositore elaborando, con
l’aiuto dell’ultima formazione dei Deviants e con la produzione di Farren, un affascinante rock free form
venato da evidenti influssi orientali e condito con salsa lisergica. Se l’iniziale The coming of the other one
(con un pizzico di confusione di troppo) e il mantra di Dawn of majic si posizionano sul versante orientale, le
improbabili marcette baccanali di Mexican grass war e di Three little piggies danno ampia rassicurazione
dell’incurante atteggiamento dell’autore nei confronti del music business.
Fluid è un attimo di pura lisergia e Suicide apre lo sguardo su sognanti sospensioni, allacciate alla tensione di
implacabili chitarre acustiche. Ten thousand words in a cardboard box è un esaltante rock dal passo sicuro,
con l’affilata chitarra di Paul Rudolph impegnata su appassionanti tonalità medio - basse ; bellissima Tiptoe
on the highest hill, limpida e fresca ballata dalle sembianze floydiane, ancora con la sei corde in grado di
alzare il tiro.
Proprio con i tre membri dell’ultima formazione dei Deviants (presenti su Think
pink) nel 1970 Twink forma i Pink Fairies.
PINK FAIRIES
-
NEVERNEVERLAND
(Polydor - 1971)
Nella migliore tradizione underground il gruppo suona spesso gratis nei piccoli ritrovi londinesi e si mette in
luce partecipando, nell’agosto del ’70, ad un’esibizione alternativa tenuta fuori dei cancelli del festival di
Wight. All’inizio del 1971 viene pubblicato Neverneverland, disco che presenta un frequente alternarsi di
pezzi durissimi e ariose ballate con tonalità anche acustiche, la predominanza strumentale della chitarra di
Rudolph e un corposo sostegno ritmico. Do it è il manifesto programmatico dei Pink Fairies, un hard & roll
urlato e tirato allo spasimo, vero e proprio pezzo forte delle esibizioni dal vivo, sorta di rituale liberatorio
caratterizzato dall’aggressiva chitarra di Rudolph. Say you love me poggia su un riff assassino che si
ammorbidisce un poco nella parte lirica. Per contro, le ballate di Heavenly man (che paga un tributo ai Pink
Floyd più melodici), di War girl (segnata da un incedere latin - blues, quasi sul modello del Peter Green di
Albatross e dintorni) e di Neverneverland (con una bella chitarra hendrixiana) preferiscono climi pacati.
Molto coinvolgente risulta la granitica Uncle Harry’s last freak out, che fa il paio con Do it per la devastante
energia profusa e per lo sfoggio di solide divagazioni alla chitarra, con Hendrix ben fissato in mente.
Il 23 giugno del 1971 i Pink Fairies partecipano al Glastonbury Fayre Festival, mitica
cinque giorni che raduna il popolo dell’underground, oramai in fase di crisi d’identità e
di avanzata decadenza creativa. Eppure il triplo album che testimonia
sull’avvenimento risulta fresco e vitale, nell’epoca del decadimento barocco della
musica rock ancora vi sono complessi che urlano la propria rabbia, forse per l’ultima
volta. E’ il caso dei Pink Fairies, che concedono ai compilatori della Revelation possenti
esecuzioni delle classiche Do it e Uncle Harry’s last freak out (in una versione lunga
quasi venti minuti). Si tratta dell’ultima apparizione di Twink con il gruppo.
I Pink Fairies proseguono in formazione triangolare e nel 1972 pubblicano il buon
What a bunch of sweeties ; il forte rock chitarristico resta alla base della proposta,
109
una sorta di hard di qualità, meno scontato e ripetitivo rispetto ai canoni del genere
ma pure lontano dagli eccessi e dalle stonature entusiaste dei tempi migliori. Gli
esempi più significativi sono le grintose Right on fight on, Marilyn (sia pure con la
presenza di un assolo di batteria un po’ troppo lungo), le ottime Portobello shuffle e
Walk don’t run, che si aprono in finali ricercati e melodici, senza voler dimenticare la
valida versione proto punk di I saw her standing there dei Beatles.
Nel panorama del rock alternativo più duro e sfrontato emerge il nome della Edgar
Broughton Band, attiva sin dal 1968 con i fratelli Edgar (ch.) e Steve (bt.)
Broughton e il bassista Art Grant.
EDGAR BROUGHTON BAND
-
WASA WASA
(Harvest - 1969)
L’esordio di Wasa wasa esprime un suono privo di compromessi, duro, spietato, alternativo per eccellenza.
Death of an electric citizen (qualcuno sostiene che il brano è dedicato a Brian Jones) sputa il blues
sull’insegnamento del Captain Beefheart d’oltreoceano, con una musica rabbiosa che si atteggia da subito ad
ostinato rituale liberatorio per il corpo e la mente. Se American boy soldier è una parodia dal gusto zappiano,
Why can’t somebody love me si sviluppa su pochi accordi, tesa e trascinante, essenziale e diretta come tutto il
materiale del disco. Evil è focosa, concisa, e ben s’intende che l’elettricità della chitarra deriva dal primo
Hendrix.
Il tormento di Crying, il respiro pesante di Love in the rain e la desolazione di Dawn crept away sigillano un
lavoro forse troppo monocorde, ma che proprio nella proposta povera e trasandata trova un fiero equilibrio
d’intenti.
I soliti concerti gratis, l’energia profusa senza mezzi termini, l’approccio anarchico alla
scena musicale elevano in breve il gruppo fra i più accreditati ed immacolati alfieri
dell’underground inglese. Nel secondo LP Sing brother sing la musica diventa più
complessa ed articolata, perde qualcosa in i mpatto fisico ma regala momenti di
notevole caratura come si può desumere dall’ascolto dell’iniziale There’s no vibrations
but wait ! e delle due mini suite The moth e soprattutto Psychopath, in bilico fra toni
drammatici, durezza espressiva e sogno meravi gliato.
Il 24 giugno del 1971 la Edgar Broughton Band chiude il festival di Glastonbury (e
forse un’epoca, un’intera concezione di fare musica), interpretando una lunga versione
di Out demons out, insistente rito collettivo che prende esempio dai Fugs di
Tenderness junction.
Rispetto a Edgar Broughton Band e Pink Fairies gli Hawkwind possono vantare un
piccolo assaggio delle classifiche di vendita che contano, ai tempi del fortunato singolo
di Silver machine. L’episodio nulla toglie al sincero atteggiamento sotterraneo del
quale il gruppo si è sempre avvalso con gran coerenza.
HAWKWIND
-
IN SEARCH OF SPACE
(United Artists - 1971)
Il caratteristico rock spaziale degli Hawkwind trova precisa e matura elaborazione su In search of space, il
loro miglior album di studio, che segna l’ingresso in organico di Del Dettmar (sn.) e di Dave Anderson (bs. reduce dagli Amon Duul II di Phallus Dei), accanto ai fondatori Dave Brock (v.ch.), Nik Turner (sf.), Terry
Ollis (bt.) e Dik Mik (se.).
La lunga You shouldn’t do that (e anche la seguente You know you’re only dreaming) evolve in ipnotiche
spirali concentriche, sostenuta dal ritmo pulsante del basso di Anderson e collegata idealmente ad analoghe
110
esperienze di formazioni tedesche quali Amon Duul II e Can. Master of the universe s’affida a decise
scansioni hard, diventando (nonostante l’assenza di gran fantasia) un piccolo classico del repertorio,
importante per lo sviluppo futuro della musica degli Hawkwind. Le buone ballate acustiche di We took the
wrong step years ago e di Children of the sun, inframmezzate dalla caotica psichedelia di Adjust me,
completano un lavoro più che dignitoso, anche se resta la sensazione complessiva di una tangibile confusione
forse determinata dall’impietoso missaggio dei suoni.
Dal vivo gli Hawkwind mettono in opera un ambizioso spettacolo, che contempla la
presenza della ballerina Stacia ; già nell’agosto del ’70 il gruppo prende parte al
contro festival gratuito dell’isola di Wight, quindi il 23 giugno del ’71 è presente nel
programma del Glastonbury Fayre Festival.
Doremi fasol latido (United Artists-1972) e il discreto resoconto live di Space ritual,
doppio LP ricavato da concerti tenuti a Londra e Liverpool, confermano il consueto
hard spaziale senza nulla aggiungere al suono del gruppo.
- 36 Ancora qualche tenue bagliore psichedelico a rischiarare il buio che nasconde
formazioni perse nella memoria degli ultimi anni sessanta e nel riflusso creativo dei
primi settanta. Come i Julian’s Treatment con il loro Time before this (Young Blood1971), doppio album concept composto ed arrangiato dal leader Julian J. Savarin,
imperniato su un accettabile space rock progressivo.
Come i discreti ma spesso sconclusionati Nirvana di Patrick Campbell-Lyons (Local
anaesthetic, Vertigo-1971). E, qualche anno prima, come gli altrettanto confusionari
Hapshash & the Coloured Coat, autori nel 1967 dell’album Featuring the human host
and the heavy metal kids (Minit), forzato e pretenzioso tentativo di mescolare
psichedelia, oriente, ritmo tribale, nenie, rumori.
Il 1967 è anche l’anno dei validi Kaleidoscope (nessuna parentela con il gruppo USA di
David Lindley) e del loro Tangerine dream (Fontana-1967), bissato due anni dopo da
Faintly blowing, sempre per la Fontana. Il gruppo evolve poi in Fairfield Parlour, autori
di un raffinato pop psichedelico di non poche qualità nell’album From home to home
(Vertigo-1970).
Soprattutto è l’anno dei sottovalutati, ma eccellenti, Blossom Toes che pubblicano il
bellissimo We are ever so clean per l’etichetta Marmalade di Giorgio Gomelsky. Brian
Godding (ch.ts.v.), Jim Cregan (ch.v.), Brian Belshaw (bs.) e Kevin Westlake (bt.)
danno corpo ad una musica colorata, elaborata, ricca di spunti interessanti, che
raccoglie l’insegnamento del Sgt. Pepper dei Beatles senza rinunciare a soluzioni
estreme, vicine ai primi Pink Floyd. Solo che, mentre nel gruppo di Syd Barrett tutto
esplode in un verticale panorama di ripide costruzioni senza appigli, dai Blossom Toes
viene istituito un rice rcato lavoro di montaggio orizzontale. Così le stupende melodie
di base delle varie Look at me I’m you, Telegram Tuesday, What on earth e delle altre
composizioni sono sottoposte a correzioni armoniche e ad arrangiamenti d’indubbia
efficacia, e da belle e limpide canzoni si trasformano in piccoli gioielli psichedelici.
Ancor meno conosciuti ed apprezzati sono gli Skip Bifferty, formati nel ’67 da
Mickey Gallagher (ts.) e dal cantante Graham Bell. Un primo singolo che comprende la
grintosa On love e l’altrettanto interessante Cover girl trova pubblicazione per la RCA,
permettendo al gruppo di ottenere una piccola notorietà.
111
Solo nel 1968 avviene la pubblicazione di un album omonimo interamente registrato
l’anno precedente, dalla sofferta gestazione ma di ottima qualità, nel quale il
complesso mostra minore coraggio rispetto ai Blossom Toes, fermandosi ad un livello
più superficiale nell’elaborazione del suono. Questo non pregiudica affatto il valore del
lavoro che si dimostra vario e piacevole, sostenuto da belle armonie vocali e da buone
prestazioni strumentali, in particolare delle tastiere di Gallagher. Di rilievo sono la
matura When she comes to stay (con una ficcante chitarra), la tribale Guru, la delicata
e sognante Orange lace, l’elaborata struttura di Clearway 51.
Altra discreta formazione della scena psichedelica underground, i July si formano
nel 1968 su impulso del chitarrista Tony Duhig e del batterista Jon Field. Con la
pubblicazione dell’album Dandelion seeds il gruppo si colloca a breve distanza stilistica
da Blossom Toes, Tomorrow e Skip Bifferty. Le influenze sono all’incirca le stesse, vale
a dire i Beatles e i primi Pink Floyd, con chitarre dalle tonalità ruvide, una buona
varietà di arrangiamenti e una maggiore propensione verso l’oriente.
Rock corposo e sfumature orientali sono alla base di belle composizioni quali My
clown, Dandelion seeds, The way ; altre canzoni (Jolly Mary, Move on sweet flower, To
be free) vengono sottoposte a trattamenti con acidi adeguati e brani come Crying is
for writers e You missed it all danno la misura dei risultati raggiunti, ma Duhig e Field
passano oltre, già hanno in mente il progetto Jade Warrior.
- 37 La Bonzo Dog Doo/Dah Band va annoverata tra le più strane congreghe
dell’I nghilterra sotterranea degli anni sessanta. La formazione di Vivian Stanshall e
Neil Innes, che in seguito accorcia la sigla in Bonzo Dog Band, inizia a muovere i primi
passi nella Londra del 1965 e, dopo la partecipazione al carrozzone del Magical
Mystery Tour dei Beatles, trova il modo d’incidere un primo long playing per l’etichetta
Liberty.
BONZO DOG DOO/DAH BAND
-
GORILLA
(Liberty - 1967)
Per associazione d'idee, il primo nome che viene in mente è quello delle Mothers Of Invention, ma si tratta di
un’impressione di comodo dovuta all’impatto disorientante della musica ; tanto la stesura e il messaggio
dello Zappa di Freak out ! e di Absolutely free sono crudi, geniali e provocatori, quanto la proposta dei
Bonzos appare bizzarra e legata alla cura esteriore del suono, all’aspetto dei brevi episodi che compongono il
disco. Pulite e spiritose canzoncine che pagano dazio ai Beatles (The equestrian statue), che rincorrono
datate ed improbabili partiture jazz (Jazz, delicious hot, disgusting cold) frammiste ad accenni rhythm &
blues e ad un diffuso gusto per lo sberleffo, per la ‘stupid song’. Cosa dire del canto a cappella inserito nella
pazzesca I’m bored, dello swing divertito di Look out, there’s a monster coming, del romantico pianoforte
della conclusiva The sound of music, se non che l’effetto suscitato è limitato ai due - tre minuti di transito
delle singole tracce, facendo ben attenzione a non valicare i confini delle buone maniere.
Poeta e musicista, esponente di spicco del movimento underground, Pete Brown
acquisisce notevole notorietà nella veste di paroliere per numerose canzoni di
successo dei Cream (basti pensare a classici come White room e Sunshine of your
love), costituendo con Jack Bruce un’affiatata coppia di compositori, capace di
esprimersi ad alto livello in svariate configurazioni stilistiche.
112
Nel 1968 Brown appronta una formazione con la quale esprimere direttamente le
proprie convinzioni creative. Coinvolti nel progetto sono l’ottimo chitarrista Chris
Spedding ed altri eccellenti strumentisti di scarsa notorietà quali Charlie Hart (or.),
‘George’ Khan (sax.), Roger Potter (bs.), Pete Bailey (pr.) e Rob Tait (bt.). I Battered
Ornaments esordiscono nel 1969 registrando il valido A meal you can shake hands
with in the dark, basato su un ingenuo, povero quanto coinvolgente incrocio di rock,
blues e jazz. Accanto a brani lunghi e un po’ monocordi (la percussiva Sandcastle, il
blues di Travelling blues) si slancia il potente R & B di Dark lady, pungolato dal
sassofono fre e di Nisar Ahmad Khan, e brillano le bellissime The old man (con
l’ondeggiante chitarra di Spedding) e Station song, che coniuga folk informale ad echi
d’oriente.
I Battered Ornaments vivono un attimo d'effimera gloria quando, nel luglio del 1969,
partecipano al concerto in memoria di Brian Jones, organizzato dai Rolling Stones a
Hyde Park, ma già alla pubblicazione del secondo Mantle piece il gruppo in pratica non
esiste più, con Brown assorbito da nuove avventure. Con un pizzico di coraggio in
meno (o forse di consuetudine aggiunta) Mantle piece è comunque un 33 giri di
notevole bellezza ; il rock pigro di Sunshades e soprattutto le stupende, intense
ballate di Then I must go (strepitosa la chitarra di Spedding) e di The crosswords and
the safety pins vanno oltre ogni precedente risultato. Sono le ultime prodezze del
complesso, perché Spedding si prepara al jazz rock dei Nucleus e Brown fonda i
Piblokto.
PETE BROWN & PIBLOKTO - THINGS MAY COME AND THINGS MAY GO
BUT...THE ART SCHOOL DANCE GOES ON FOR EVER (Harvest - 1970)
Rispetto ai dischi dei Battered Ornaments la musica appare meglio curata e rifinita, elegante e moderna nella
veste estetica per merito delle precise tastiere di Dave Thompson, di un apporto strumentale generalmente
misurato e del migliorato stile vocale di Brown (High flying electric bird, Someone like you). Il rock torna
spedito e diretto in I walk for charity, run for money, che riserva un imprevisto finale a tinte jazz ; la ripresa
di Then I must go... non può raggiungere l’immacolata bellezza dell’originale, ma si distingue per un
arrangiamento aggressivo, mentre il recupero della rilassata My love’s gone far away mostra un aspetto
ricercato (entrambe le canzoni erano presenti su Mantle piece).
Una lirica Firesong (con tanto di citazione da ‘L’uccello di fuoco’ di Igor Stravinski) e la soffice, jazzata
Country morning suggellano mirabilmente un lavoro di non facile assimilazione, che quasi tende a
nascondere pudicamente le virtù che gli appartengono.
I Piblokto fanno in t empo a realizzare un secondo LP, Thousands on a raft (Harvest1970), e Brown prosegue la sua integerrima carriera con sporadiche pubblicazioni, tra
le quali va segnalato l’album Two heads are better than one, ideato ed inciso insieme
con Graham Bond.
Ospite fisso dell’Ufo Club nell’anno di grazia 1967, Arthur Brown è personaggio
dal carattere stravagante ed imprevedibile, capace per una breve stagione di imporsi
all’attenzione generale grazie ad una musica che mischia psichedelia, neoclassicismo,
hard rock, e ad esibizioni selvagge e fuori della norma. Il ricordo corre rapido al
nucleo del Crazy World, al quale partecipano l’organista Vincent Crane (suo braccio
destro) e il giovanissimo Carl Palmer (bt. - destinato ai fasti commerciali di E.L.&P.), e
al secondo 45 giri, quel Fire che balza inatteso in testa alle classifiche, nell’estate del
1968. Il brano (un ossessivo R & B arrangiato in modo originale, guidato dall’organo di
Crane ed interpretato da un esplosivo Brown) è il fulcro delle performance dal vivo,
spesso sconcertanti (come al Palermo Pop Festival, dove il cantante si esibisce nudo,
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finisce arrestato e rispedito in Inghilterra), e dell’album The Crazy World of Arthur
Brown.
Nella musica di Brown non vi sono novità sconvolgenti, né trovano posto
sperimentazioni di particolare rilievo. Ciò che colpisce è l’aggressività, la secchezza del
suono che s’atteggia ad embrionale forma hard senza irrigidirsi in schemi forzati, priva
com’è del supporto essenziale della chitarra elettrica. Alcuni brani possiedono aspetti
inquietanti (Nightmare, Time / Confusion) che, di fatto, anticipano soluzioni dark ;
l'ottima Come and buy contiene spunti che saranno preziosi agli Atomic Rooster e
buone sono le cover di I put a spell on you (Hawkins) e di I’ve got money (James
Brown).
I Bystanders sono una band gallese composta da Mick Jones (ch.), Clive John
(ch.ts.), Jeff Jones (bt.) e Ray Williams (bs.), alla quale nel 1968 s’unisce il chitarrista
Deke Leonard (proveniente dai Dream). La formazione si trasforma in Man e nel
marzo 1969 pubblica un primo album, Revelation (Pye), che si rivela
complessivamente discreto.
MAN
-
2 OZS OF PLASTIC (WITH A HOLE IN THE MIDDLE)
(Dawn - 1969)
2 ozs of plastic... è la splendida conferma dello stile privo di compromessi dei primi Man, sul piano di un
rock tirato ed essenziale.
Prelude - The storm propone scenari che si stagliano su un orizzonte cupo e minaccioso, per poi aprirsi ad
una distesa melodia dal sapore di California, mentre il coinvolgente rock blues di It is as it must be indurisce
i toni e le chitarre scaraventano furiose ondate di elettricità in una struttura dall’assetto variabile. Spunk box
rafforza la solidità del suono, facendo leva su un riff di sicura presa e su un trattamento estremo di strumenti
ed amplificazione. A tratti s’avvertono echi di Led Zeppelin ma è solo una lontana impressione, fugata
dall’originale rock’n’roll di My name is Jesus Smith. Dopo la delicata psichedelia del clavicembalo di
Parchment and candles, il ritmo torna frenetico nella conclusiva Brother Arnold’s red and white striped tent,
dove chitarre e organo ricordano da vicino l’impeto della Allman Brothers Band.
Con 2 ozs of plastic... termina la breve stagione dell’underground per i Man, che
iniziano la nuova decade incidendo il valido Man (Liberty-1971). Da segnalare l’ottimo
Be good to yourself at least once a day (1972) dove lo stile del complesso
(ampiamente variato nell’organico) muta a favore di un rock più levigato, fortemente
influenzato da inflessioni di m atrice West Coast. Le quattro lunghe composizioni
dell’album risultano ben congegnate e vantano esecuzioni di prim’ordine sul piano
della resa strumentale.
Formazione che presenta parecchie affinità di carattere stilistico con i Man, gli Help
Yourself nascono nel 1970 con un organico comprendente i chitarristi Malcolm Morley
e Richard Treece, Ken Whaley (bs.) e Dave Charles (bt.). Così sistemato il gruppo
incide nel 1971 il primo LP omonimo, nel quale propone un rock ben eseguito, con
chiare influenze americane (country e West Coast) e la propensione ad un timido
approccio progressivo. Pare quasi che dietro gli strumenti di Your eyes are looking
down e di Paper leaves si celi Neil Young, e che tra le note di Old man respiri l’anima
travagliata di David Crosby ; ovviamente si tratta di un fenomeno d’illusione sonora.
Per il resto, del buon rock senza troppe pretese (Street songs) e le delicate melodie
delle belle To Katherine they fell e Deborah.
114
Whaley abbandona per andare con i neonati Ducks Deluxe; al suo posto Paul Burton e
i due nuovi chitarristi Jo Jo Glemser e Ernie Graham (che portano a quattro il numero
totale delle sei corde presenti). Di spicco la presenza di Ernie Graham, proveniente
dagli Eire Apparent, una discreta formazione che tra i l ’68 e il ’69 gode di un breve
momento di notorietà, grazie ai numerosi concerti come spalla dell’Experience e
all’interessamento di Jimi Hendrix, presente nella doppia veste di musicista e
produttore nel loro LP Sun rise (Buddah-1969).
HELP YOURSELF
-
STRANGE AFFAIR
(Liberty - 1972)
Strange affair rappresenta un importante passo verso la produzione di una musica creativamente autonoma,
svincolata da scomodi paragoni stilistici, e nonostante la presenza di così tante chitarre (che potrebbero
indurre al pensiero di chissà quali sconquassi sonori) le canzoni restano rilassate, capaci di emozionare senza
la necessità di una forte spinta elettrica. Accanto a brani rock scorrevoli e piacevoli quali Strange affair e
Heaven road, trovano posto le ottime ballate di Brown lady, di Many ways of meeting, di Movie star, oltre
alla romantica e decadente Deanna call and Scotty.
The all electric fur trapper resta il progetto più ambizioso, teso a spaziare gli orizzonti creativi di Help
Yourself verso soluzioni strumentali complesse, che confermano la maturità raggiunta dal gruppo.
Sostenitori di un rock muscoloso venato di psichedelia, gli Andromeda del
chitarrista John DuCann legano il proprio nome ad un solo album (Andromeda),
registrato nel giugno del 1969 e pubblicato dalla RCA.
La carriera di DuCann inizia negli Attak, quindi partecipa ai Five Day Week Straw
People, complesso di matrice psichedelica dove incontra il bassista Mick Hawksworth
(il gruppo pubblica nel ’68 un album omonimo per l’etichetta Saga). DuCann e
Hawksworth si uniscono a Ian Maclane (bt.) e danno vita agli Andromeda. Il disco si
rivela di discreta caratura, anche se non privo di qualche ingenuità, proponendo un
hard rock con lievi accenni psichedelici e forti echi hendrixi ani. Tra i brani, da
segnalare la rocciosa The reason (in bello stile Experience), le tirate When to stop,
Turn to dust e l’estatica ballata di I can stop the sun. Certo all’epoca c’è di meglio.
L’avventura dura poco perché nel 1970 DuCann accetta l’invito di Vincent Crane ad
entrare nei lanciati Atomic Rooster ; da parte sua, Hawksworth nel 1970 fonda i Fuzzy
Duck, una discreta formazione di hard progressivo che realizza il buono e ignorato
Fuzzy Duck pubblicato nel 1971 dall’etichetta Mam.
Peter D unton è batterista nell’ultima versione dei Gun, un complesso di hard rock
capitanato dai fratelli Adrian (ch.) e Paul (bs.) Gurvitz che incide un paio di album per
la CBS, sul finire degli anni sessanta.
Dunton, all’inizio del 1970, si unisce al chitarrista / tastierista Keith Cross e al bassista
Bernard Jinks in un gruppo chiamato T 2.
T 2
-
IT’LL ALL WORK OUT IN BOOMLAND
(Decca - 1970)
L’unico album, pubblicato dalla Decca, arriva quasi subito, a conferma di un marcato interesse per il
complesso. Le contrazioni che introducono In circles esplodono in vortici di gran forza strumentale, in
continue mutazioni ritmico - armoniche. Le parti vocali, prevalentemente affidate a Dunton, non appaiono
troppo originali, ma ciò che importa è l’abilità dei musicisti nell’elaborare una musica che non permette
divagazioni e rilassamenti, che scorre senza pause e coinvolge intensamente.
115
Gli oltre venti minuti di Morning rappresentano il culmine del loro lavoro, fantasiosa escursione in un hard
concept dagli spiccati umori underground, con arrangiamenti semplici ed azzeccati, e con la sezione ritmica
che appare potente e malleabile.
Il diciassettenne Cross si dimostra musicista dotato e brillante, qualcuno trova il modo
(ingiustificato) di definirlo come ‘nuovo Clapton’ e il gruppo si monta la testa.
Apparizioni a TV e radio, concerti infuocati e partecipazioni ad importanti rassegne tra
cui, nell’agosto del ’70, quella dell’isola di Wight non bastano a salvare il complesso da
una rapida fine.
Il chitarrista incide un album con Peter Ross, intitolato Bored civilians, e poi scompare
dalla circolazione. Dunton tenta di mantenere in vita il gruppo con nuovi musicisti e
fino al 1972 tiene concerti e continua a sperare, ma i tempi stanno cambiando e il
destino dei T 2 è segnato, sin dal momento dell’abbandono di Cross. Una formazione
interessante, distrutta precocemente dalle troppe attenzioni e dalle eccessive pretese
nei suoi confronti.
In seguito alla pubblicazione di We are ever so clean i Blossom Toes si concedono
una breve pausa discografica, per poi tornare in studio con il nuovo batterista Barry
Reeves ed incidere un altro notevole ed ingiustamente sottovalutato album.
BLOSSOM TOES
-
IF ONLY FOR A MOMENT
(Marmalade - 1969)
If only for a moment è un lavoro composto, arrangiato ed eseguito con maestria. La lucida sovrapposizione di
svariate matrici stilistiche (hard, psichedelia, pop melodico) crea un insieme omogeneo e complesso al tempo
stesso, senza abbandonare mai la strada maestra di una gradevole esposizione strumentale. Il disco viene
aperto dalle intelligenti sferzate hard di Peace loving man e il primo lato è perfetto, con le ariose sequenze di
Kiss of confusion, di Listen to the silence (con una chitarra solista in odor di California) e di Love bomb,
brani dalla struttura articolata, capaci di stupire per la scelta d’imprevedibili soluzioni ricche di lirismo.
Il resto del lavoro, anche se d’elevata qualità, appare leggermente inferiore. Billy Boo the gunman è un
ironico brano dalle modalità ‘hard progressive’, belle risultano la ballata di Indian summer e la conclusiva
Wait a minute, che si riallaccia allo stile vario delle canzoni della prima facciata.
Il rapido fallimento dell’etichetta discografica di Gomelsky travolge anche i Blossom
Toes, che si sciolgono tra l’indifferenza generale.
Reggie King (v.), Pete Watson (ch.), Alan King (ch.), Mike Evans (bs.) e Roger
Powell (bt.) sono i membri degli Action, una formazione che tra il 1965 e la metà del
1967 pubblica cinque singoli che mettono in luce una musica improntata ad un beat
venato di soul e di psichedelia. Già alla fine del ’66 Watson viene sostituito dal
polistrumentista Ian Whiteman e nel 1968 arriva anche il chitarrista Martin Stone,
musicista d i notevole esperienza con alle spalle partecipazioni a Stone’s Masonry,
Junior Blues Band, Rockhouse, Savoy Brown, e il gruppo prima cambia nome in Azoth,
quindi sceglie in via definitiva la denominazione di Mighty Baby.
MIGHTY BABY
-
MIGHTY BABY
(Head - 1969)
C’è, nella musica dei Mighty Baby, un’innata predisposizione per la forma canzone che, abilmente spaziata
da eccellenti contributi strumentali e caratterizzata da una piacevole impressione di libertà espressiva, trova
nell’album d’esordio compiuta manifestazione. La proposta si rivela raffinata e ricca di originalità,
116
all’interno di soluzioni strutturali che prediligono scelte armoniche e melodiche d’indubbio fascino,
complesse elaborazioni che risultano di non difficile fruizione.
Le chitarre di Stone e King dominano il suono, sorrette da una sezione ritmica puntuale, con i fiati e le
tastiere di Whiteman e le belle parti vocali ad offrire un indispensabile contributo all’assetto definitivo delle
composizioni. Tra le canzoni migliori di un lavoro complessivamente impeccabile sono da segnalare le
stupende A friend you know but never see, I’ve been down so long, Same way from the sun, House without
windows, At a point between fate and destiny, brani che mutano continuamente con estrema disinvoltura da
ritmi sostenuti e chitarre focose a momenti di struggente lirismo.
Per farla breve, uno dei grandi, trascurati capolavori della musica progressiva inglese.
Il 25 giugno 1971 il complesso s’esibisce al Glastonbury Fayre Festival ed offre un
contributo all’album celebrativo con la lunga A blanket in my muesli ; dello stesso
anno sono le registrazioni del secondo long playing A jug of love, anch’esso molto
bello ma ugualmente poco fortunato a livello commerciale. Il suono appare omogeneo,
le coraggiose escursioni d’umore del disco precedente sono più contenute ma non è
difficile recuperare nei brani, pervasi da inflessioni romantiche e decadenti, la magia e
la poesia della musica dei Mighty Baby, tra le pieghe delle belle Jug of love e Virgin
spring.
Subito dopo il gruppo si scioglie, a causa dell’insuccesso persistente. Stone suona
negli Uncle Dog di Carol Grimes (un LP nel 1972), quindi forma i Chilli Willi and the
Red Hot Peppers (due gli album incisi) assieme a Phil Lithman, che negli anni ottanta
si agita nella scena di San Francisco con il nome d’arte di Snakefinger.
Alan King, dopo la parentesi con i B.B. Blunder, collabora con l’ex Action Reggie King
ai Clat Thyger, poi s’unisce a due membri dei Warm Dust (una buona band che tra il
1970 e il 1972 incide tre album, dei quali merita una segnalazione il primo And it
came to pass), il bassista Tex Comer e il tastierista Paul Carrack, formando gli Ace
Flash & the Dynamos, che in seguito abbreviano la sigla in Ace (tre LP all’attivo).
- 38 Gli East Of Eden sono una singolare formazione che prende forma nel 1968 su
impulso del violinista / fiatista Dave Arbus, un dottore in filosofia flippato ai piedi della
Mecca. Con lui, a dar vita ad un’originale miscela di rock, jazz, oriente, elementi di
musica classica ed etnica, sono il sassofonista Ron Caines, il chitarrista e cantante
Geoff Nicholson, il bassista Steve York e il batterista Dave Dufont.
Il gruppo esprime il massimo della creatività tra il ’69 e il ’70, quando è sotto
contratto con la Deram. L’esordio avviene nel 1969 con l’ottimo Mercator projected,
che vanta connotati stilistici originali e composizioni di notevole bellezza, anche se
alcune parti della complessa struttura musicale non sono ancora perfettamente
amalgamate. Northern hemisphere fornisce un’introduzione al limite dell’hard rock, la
seguente Isadora è una danza per flauto e sax soprano, il violino di Arbus conduce la
poetica e suggestiva Bathers ; tra i brani di maggior impegno spiccano Waterways,
Communion (ispirata alla musica per quartetto d’archi di Béla Bartok) e la conclusiva
In the stable of the sphinx.
EAST OF EDEN
-
SNAFU
(Deram - 1970)
Alla fine del 1969, con una nuova sezione ritmica composta da Andy Sneddon (bs. - al posto di York che va
a suonare con Graham Bond, Manfred Mann Chapter Three, Vinegar Joe) e da Geoff Britton (bt.), gli East
Of Eden registrano il secondo album Snafu, ottenendo i migliori risultati artistici dell'intera carriera.
117
Le varie componenti dello stile del gruppo sono assemblate in modo organico, con audaci accostamenti che
evitano di generare confusione, grazie alla maturità e alla risoluzione con cui vengono posti in opera.
Leaping beauties for Rudy, ad esempio, è un breve frammento free ad introduzione della bella melodia di
Marcus junior (a mezza via tra Spagna e oriente), che s’avvale delle prestazioni di Caines al soprano e di
Arbus al tenore. La stupenda sequenza successiva inizia con i nastri rovesciati di Xhorkom, si apre su una
libera interpretazione di un tema di John Coltrane (Ramadhan, con il sax di Caines), per concludersi con le
evoluzioni di In the snow for a blow, sentito omaggio alla basilare influenza di Charlie Mingus.
Con Gum arabic - Confucius si torna alle tipiche ambientazioni East Of Eden (pregevole soprattutto
l’introduzione del brano, con il flauto e le percussioni di Arbus) ; Nymphenburger è una bella canzone che
compendia echi classici, rock e jazz, con Arbus e Nicholson impegnati a sovraincidere rispettivamente ben
sei violini e quattro chitarre. L’ennesima sequenza con Habibi baby (quasi tutti gli strumenti riprodotti alla
rovescia), Boehm constrictor e Beast of Sweden (in primo piano il violino di Arbus), conferma l’eccellente
qualità del disco.
Pare persino superfluo rilevare che i primi due album degli East Of Eden restano in
gran parte invenduti negli scaffali. Il gruppo cerca d’invertire la tendenza realizzando
nel 1971 il singolo Jig a jig, una canzone basata su un motivo tradizionale irlandese
che improvvisamente li proietta nella Top Ten. Ciò non basta agli East Of Eden per
evitare un precoce scioglimento, e poco importa che Dave Arbus rifondi rapidamente il
complesso: i due album del 1971 (su etichetta Harvest), East Of Eden e New leaf,
suonano deludenti rispetto alla prece dente produzione.
Giant Sun Trolley, nel 1967, è uno dei tanti gruppetti attivi sulla scena dell’Ufo
Club e nei piccoli locali della Londra alternativa. Dapprima la formazione cambia nome
in Hydrogen Jukebox, quindi si trasforma in Third Ear Band. Con questa definitiva
sigla Glen Sweeney (pr.), Richard Coff (vi.vl.), Paul Minns (ob.) e Mel Davis (vc.)
registrano l’album Alchemy, pubblicato nel 1969.
Impossibile definire rock, almeno in senso stretto, la proposta della Third Ear Band ; il
gruppo esprime una musica acustica dallo svolgimento ipnotico, fortemente
caratterizzata da influenze orientaleggianti ed impregnata di una profonda convinzione
poetica. Particolarmente godibili sono le notevoli Ghetto raga, Stone circle, Dragon
lines e Lark rise.
THIRD EAR BAND
-
THIRD EAR BAND
(Harvest - 1970)
Sostituito il violoncellista Mel Davis con Ursula Smith, la Third Ear Band si ripropone con un album che
conserva intatto il fascino (e lo scarso potenziale commerciale) di Alchemy. Nel tentativo di garantire una
maggiore omogeneità alla delicata struttura della musica, Sweeney e compagni si orientano sull’elaborazione
di quattro lunghe composizioni (bellissima Earth), che effettivamente possono essere, nell’insieme,
considerate la versione definitiva del concetto puro di espressione sonora perseguita dal gruppo.
Le vendite inconsistenti mettono in guardia la Harvest che lascia alla Third Ear Band
giusto il tempo di realizzare un ultimo lavoro, il discreto Macbeth (Harvest-1972),
colonna sonora dell’omonimo film di Roman Polansky. Ora Sweeney siede anche dietro
la batteria, c’è ancora l’oboe di Minns e si sono aggiunti il violoncello (e il basso) di
Paul Buckmaster, il violino (ma pure i sintetizzatori) di Simon House - reduce da High
Tide - e perfino la chitarra di Denim Bridges. Ovviamente, non è più la stessa filosofia
ad animare le esecuzioni della Third Ear Band, e l’esigenza di adattare la musica alle
immagini cinematografiche rende l’insieme inevitabilmente frammentario. Si tratta, in
ogni caso, di un lavoro dignitoso, con alcune parti che riportano agli antichi splendori,
e dispiace veder scomparire per lungo tempo il nome del complesso.
118
Stilisticamente distanti da East Of Eden e Third Ear Band, formazioni quali Jade
Warrior e Quintessence possono vantare una comune predisposizione all’utilizzo di
atmosfere a forti tinte orientali, inserite in contesti musicali di una certa originalità.
In seguito allo scioglimento dei July, Tony Duhig e Jon Field formano i Jade Warrior
e il vecchio compagno Patrick Campbell-Lyons, divenuto produttore alla Vertigo, offre
al gruppo la possibilità d’incidere tre album per l’etichetta della spirale. Il secondo
Released (1972) (gli altri sono Jade Warrior - 1971 - e Last autumn’s dream - 1972, e
ancora vari successivi lavori per la Island) può essere portato ad esempio della
singolare proposta musicale, che contempla la fusione tra soluzioni vicine all’hard rock
ed influenze a carattere orientale (Three-horned dragon king, dura ed aggressiva,
sostenuta da un incessante tappeto percussivo ; Minnamoto’s dream, con
fiammeggianti frasi chitarristiche), senza tralasciare lunghe, a tratti un po’ tediose,
scorribande strumentali imparentate con il jazz rock in voga all’epoca. Molto belle le
delicate, poetiche, Yellow eyes e Bride of summer, che mostrano uno degli aspetti più
convincenti della loro musica.
Più che un vero e proprio complesso rock i Quintessence sono l’espressione
musicale di una piccola comunità della zona di Notting Hill Gate, infatuata di religione,
misticismo e filosofie orientali.
La formazione trova il modo d’incidere tre buoni album per la Island (In blissfull
company - 1969, Quintessence - 1970, e il maturo Dive deep - 1970), evidenziando
una musica dai toni contenuti, sognante e raffinata, tesa alla ricerca di viaggi nello
spazio interiore senza bisogno di stupire con l’utilizzo d’effetti speciali, onesta e
intima. I risultati sono particolarmente convincenti nelle lunghe Epitaph for tomorrow
e Dance for the one.
Il chitarrista Mick Hutchinson esordisce in occasione del 14 th Hour Technicolour
Dream, nell’aprile 1967 ; nell’ambito di quella festa il musicista si esibisce con il
percussionista Sam Gopal. Poco dopo Gopal costituisce una propria formazione, Sam
Gopal’s Dream, che riesce a registrare (verso la fine del ’68) l’album Escalator,
pubblicato dall’etichetta Stable.
Nel frattempo Hutchinson finisce nei Vamp dove incontra il polistrumentista Andy
Clark. L’anno successivo nascono i Clark Hutchinson, che in due brevi sessioni di
registrazione realizzano per l’etichetta Deram Nova l’album A=MH2, vero e proprio
disco di culto imperniato su una musica dall’approccio originale, lontana dai classici
parametri del rock. Hutchinson e Clark sovraincidono una moltitudine di strumenti
all’interno di lunghe costruzioni iterative, interessanti anche se di fruizione piuttosto
ostica (Improvisation on a modal scale, Impromptu in E minor, Textures in ¾,
Improvisation on a indian scale) ; unica eccezione alla regola è il virtuoso assolo alla
chitarra di Hutchinson in Acapulco gold, che mischia (in presa diretta) influenze
classiche e flamenco.
CLARK HUTCHINSON
-
RETRIBUTION
(Nova - 1970)
Alla ricerca di un suono più duro, diretto e tipicamente rock, Clark e Hutchinson decidono di allargare
l’organico, introducendo una sezione ritmica, e progettano la realizzazione di un ambizioso album doppio.
Alla fine Retribution esce accorciato ma ugualmente non manca di lanciare intorno, in modo efficace, i suoi
strali infuocati.
L’hard informale di Free to be stoned, introdotto e sviluppato dalla devastante chitarra di Hutchinson, mostra
senza mezzi termini quanto sono lontani i tempi del primo LP. Le soluzioni jazzate di After hours, con il
119
piano di Clark e il bell’assolo di Hutchinson, mantengono alta la tensione ; ad ammorbidire i toni ci pensa In
another way che sceglie la via della ballata elettrica, trasandata e carica di coinvolgente lirismo. Un po’ il
senso di Best suit, che nella lunga esposizione finisce però col risultare piuttosto prolissa. Non è casuale che
la chiusura del disco sia affidata alla caotica e durissima Death, the lover, ennesima prova di forza di una
proposta che abiura ogni compromesso commerciale.
La breve avventura di Clark Hutchinson si chiude nel 1972, a poca distanza dalla
pubblicazione dell’ultimo Gestalt (Deram-1971) dove il gruppo, ridotto a trio, si
disimpegna con discreti risultati.
Tra le più singolari del panorama alternativo, la proposta dei Comus prende forma
nel tardo 1970 quando i sei membri di quella strana congrega si recano agli studi della
Pye per registrare il loro primo 33 giri.
COMUS
-
FIRST UTTERANCE
(Dawn - 1971)
L’approccio alla musica dei Comus è impegnativo, l’impatto risulta coinvolgente e non permette fredde
considerazioni di comodo ; seguire le inconsuete linee del suono che varia repentinamente (con momenti
melodici ed eterei sottoposti a forsennate, isteriche accelerazioni) significa calarsi senza condizioni nelle
avventurose creazioni degli strumenti e delle voci. Non è certo il primo gruppo ad associare orientamenti
folk con influenze orientali e classiche, ma Comus possiede un’intima originalità di stile, un fervore
espressivo proprio ai vari elementi sonori liberi di interagire senza vincoli formali. La proposta è
completamente acustica, con largo dispiego di chitarre, violini, flauti, tribali percussioni a mano, con le voci
imprevedibili ed inarrivabili di Roger Wootton e di Bobbie Watson.
Già l’iniziale Diana (pubblicata anche su singolo !) mette a dura prova con cadenze ondeggianti ed
insinuanti, e ancora estreme sono The Herald, suddivisa in tre parti ricche di fascinose atmosfere per chitarra,
violino ed oboe, e la stupenda Drip drip, con un folgorante esordio di chitarra slide, che sa di sole e terra
bruciata, per poi acquisire ritmo in una stupefacente, continua evoluzione di modi e toni.
La spiritata danza dall’aspetto folk di Song to Comus, il rapido sviluppo della melodia di The bite sono
notevoli conferme delle possibilità del gruppo. L’inquietante violino della strumentale Bitten introduce alla
conclusiva The prisoner che, a tratti, è la canzone maggiormente vicina a soluzioni rock, senza
compromettere l’assetto stilistico complessivo del lavoro.
I Comus hanno la possibilità di apparire a Radio One e di effettuare concerti, anche
apprezzati ; l’interesse per il gruppo da parte di critica e pubblico è però modesto,
sicuramente a causa di una difficile collocazione commerciale del disco. Wootton e la
Watson tentano di mantenere in vita il complesso e resistono fino al 1974, quando
pubblicano il secondo ed ultimo To keep from crying (Virgin), aiutati da diversi
musicisti tra i quali Lindsay Cooper (Henry Cow) e Didier Malherbe (Gong). Un attimo
dopo Comus non esiste più.
- 39 “...c’è parecchia buona musica in questo disco ; ricorda Velvett Fogg, ne
sentirai ancora parlare”.
Così il noto D.J. e produttore John Peel concludeva la redazione delle note di copertina
dell’unico album inciso dai Velvett Fogg. Se si può concordare pienamente sulla prima
parte dell’affermazione, il riferimento ad un futuro ricco di soddisfazioni resta
purtroppo lettera morta e a posteriori suona (per quanto in buona fede) come
ingloriosa beffa.
120
VELVETT FOGG
-
VELVETT FOGG
(Pye - 1969)
Gruppo avvolto in una fitta nebbia di mistero, dei Velvett Fogg si conoscono la provenienza (Birmingham) e
l’elenco della scarna discografia che comprende, oltre all’album, il 45 giri Telstar ’69 / Owed to the dip,
pubblicato nel gennaio del 1969. Certa, inoltre, la presenza del cantante e chitarrista Paul Eastment,
animatore ed elemento di maggior spicco del complesso. Del resto, le amorevoli note di copertina non
forniscono ulteriori chiarimenti e si sforzano di convincere della bontà del materiale presentato. Tentativo
nobile ma vano : Velvett Fogg rimane oggetto di culto, senza riuscire a suscitare il benché minimo interesse
nel pubblico inglese, grazie anche ad un vero e proprio ostracismo da parte della critica musicale.
Eppure, in quell’unico LP c’è veramente tanta buona musica. Ad iniziare da Yellow cave woman, che
presenta una rigida struttura seriale resa corposa dalle evoluzioni dell’ottima chitarra di Eastment e
dall’organo, fluido ed essenziale, per continuare con la splendida ballata di Once among the trees (una delle
più belle di tutto l’underground inglese), che si svolge su un’esile trama d’origine folk percorsa da efficaci
linee d’organo e valorizzata dalla prestazione di un Eastment particolarmente ispirato. E ancora la notevole
versione della Come away Melinda di Tim Rose (nettamente superiore a quella degli Uriah Heep) che
sviluppa un suono moderno ed innovativo, allo stesso tempo decadente e poetico, ricco d'insoliti effetti
elettronici.
Potrebbe bastare, ma come dimenticarsi del brillante strumentale di Owed to the dip e della buona cover di
New York mining disaster 1941 dei Bee Gees, entrambi con l’organo in primo piano ; né si possono
trascurare le originali Wizard of gobsolod e Lady Caroline, le belle soluzioni ritmiche di Within the night e
Plastic man.
E’ davvero incredibile che una formazione come Velvett Fogg, dotata d’idee originali e
di buone doti strumentali, sia potuta passare inosservata (se non per i negativi
commenti alla foto di copertina) e ancora oggi resti dimenticata nell’ambito di un
recupero generalizzato di complessi e musicisti frequentemente di qualità inferiore.
Paul Eastment è l’unico a proseguire, senza peraltro riuscire a guadagnare maggiore
notorietà. Anche la sua successiva creatura, i Ghost, naufraga in seguito alla
realizzazione di un singolo e di un long playing dal titolo emblematico, For one second.
La storia e le epiche gesta dei Misunderstood sono già note. Nel 1969 Tony Hill,
che di quella formazione è chitarrista nel periodo di maggior fulgore creativo, si unisce
al violinista Simon House, al bassista Peter Pavli e al batterista Roger Hadden per dar
vita agli High Tide, uno dei migliori complessi del rock progressivo inglese.
Gli High Tide esordiscono come gruppo d'accompagnamento in occasione delle
registrazioni per l’unico album pubblicato da Danny Gerrard (Sinister morning, Deram
Nova-1970), un musicista emerso per un attimo dagli angoli bui della metropolitana
londinese. Gerrard ricambia il favore curando la produzione del primo album del
gruppo, Sea shanties, pubblicato dalla Liberty nel 1969 con una bellissima ed
apocalittica copertina di Paul Whitehead.
La proposta degli High Tide risulta da subito ricca di fascino e di soluzioni originali ; il
suono pesante, gravido, implacabile delle chitarre di Hill (derivato in linea retta dalle
nobili matrici Misunderstood di Children of the sun e I can take you to the sun) si
fonde con il virtuosismo del violino di House, in un drammatico, impenetrabile incubo
tridimensionale (sostenuto da una compatta sezione ritmica) che non ha eguali nella
storia del rock inglese. Molti li confondono con gli adepti del cosiddetto ‘dark sound’, a
quei tempi in forte fase d’espansione, ma la musica del gruppo non si presta a facili e
furbi accomodamenti stilistici , all’utilizzo di frasi fatte di sicuro effetto. Se Futilist’s
lament è un informe, incandescente magma hard che travolge ogni ostacolo, Pushed
but not forgotten mette in opera delicati equilibri tra irruenza espressiva e dolci
melodie bagnate di folk e cl assicismo, improbabile connubio tra Hendrix e King
Crimson, e nel lirico finale fa le prove per il futuro capolavoro di The joke. Nel bel
mezzo fungono da raccordo le vorticose spire dello stupendo strumentale Death
121
warmed up, sorta di giga pirotecnica supportata da chitarre al limite dell’hard più
focoso e creativo. Meno sconvolgenti i brani del secondo lato che, in ogni caso,
possiedono il pregio di confermare l’elevata qualità media di Sea shanties (con una
nota di merito per la conclusiva Nowhere).
HIGH TIDE
-
HIGH TIDE
(Liberty - 1970)
Purtroppo una musica simile non vende e quando esce il secondo High Tide critica e pubblico, occupati ad
incensare ben altre prodezze, nemmeno s’accorgono di quel capolavoro. L’opera si compone di tre sole,
lunghe composizioni che riassumono con maturità e grande splendore creativo le caratteristiche dello stile
del gruppo.
Apre Blankman cries again, brano strutturato su una monolitica stratificazione per chitarre e violino dalla
quale si sviluppa una corposa jam, con gli strumenti solisti che disegnano belle linee melodiche
contorcendosi sotto l'azione dell’implacabile sezione ritmica. L’incedere epico, teso e drammatico di The
joke è l’intuizione più folgorante, con la chitarra di Hill capace di escursioni mozzafiato, prima che il violino
liberi la tensione nella melodica frase conclusiva, in un rincorrersi d’indimenticabili emozioni.
L’intera seconda facciata del disco è occupata da Saneonymous, brano dalla singolare struttura circolare
composto da due parti sostanzialmente identiche che, per l’approccio strumentale, ricordano vagamente le
acide improvvisazioni dei Grateful Dead.
Gli High Tide confermano la rigorosa natura della musica, rinunciando a tentazioni
commerciali e, di fatto, firmano la propria condanna all’oblio ; la Liberty non concede
ulteriori chance e per il gruppo, che ha già iniziato le registrazioni del terzo LP, è la
fine. Alcune incisioni sono recuperate dall’italiana Cobra Records e costituiscono la
base del 33 giri di Precious cargo (1989).
Dei quattro musicisti l’unico ad affrontare una regolare carriera è Simon House, che
mette il violino a disposizione dell’ultima Third Ear Band, degli Hawkwind (quattro
album tra il ’74 e il ’77), della band di David Bowie (per il tour mondiale del ’78 dal
quale è tratto il doppio Stage). Hill dà vita alla Ronnie Paisley Band (con il bassista
Pavli), pubblicando un disco nel 1979.
L’organista Vincent Crane è il principale collaboratore di Arthur Brown, anche a
livello compositivo, ai tempi del Crazy World (’67-’68) ; dopo la realizzazione
dell’unico album della formazione e il raggiungimento del gran successo con Fire,
Crane decide di mettersi in proprio costituendo nel giugno del 1969 gli Atomic
Rooster. Nell’avventura sono coinvolti il giovane, promettente batterista del Crazy
World, Carl Palmer, e il bassista Nick Graham, a stretta somiglianza con il classico
triangolo in stile Nice.
L’esordio discografico (Atomic Rooster, B&C-1970) appare sicuramente confortante ;
la struttura dinamica della musica del gruppo si evidenzia sin dalle prime note di
Friday the thirteenth, con le evoluzioni del fluido organo di Crane supportate da un
robusto tappeto ritmico, nel quale spicca il preciso e potente contributo percussivo di
Carl Palmer. Sulla s tessa falsariga s’accodano le buone And so to bed, S.L.Y. e Decline
& fall. Tra gli spunti migliori vanno segnalati l’interessante arrangiamento di Broken
wings (un brano di John Mayall, con misurati interventi fiatistici), il focoso strumentale
di Before tomorrow, le linee classiche di Banstead (dalla quale attingono a piene mani
i celebri E.L.&P.) e la melodica Winter (con il flauto di Graham), che recupera un’idea
del Crazy World di Arthur Brown.
Nel 1970 il nucleo originario degli Atomic Rooster si dissolve a causa delle dimissioni
di Palmer che, all’inizio dell’anno, si unisce a Keith Emerson e Greg Lake; poco dopo è
la volta di Nick Graham, che lascia per entrare negli interessanti Skin Alley.
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ATOMIC ROOSTER
-
DEATH WALKS BEHIND YOU
(B & C - 1970)
Crane riorganizza il complesso assumendo il valido Paul Hammond (bt.) ed associando il chitarrista e
cantante John DuCann, reduce da Andromeda. L’inserimento di un chitarrista duro e spigoloso come Cann
rende la musica degli Atomic Rooster ancora più serrata e graffiante, con chiari accenti hard ; inoltre,
l’atmosfera generale del lavoro risente di una forte componente oscura, che dona alle canzoni un aspetto
gotico e a tratti denso d’inquietudine.
Le note spettrali del piano di Crane introducono la cupa Death walks behind you, che è solo la prima di
alcune eccellenti composizioni caratterizzate da evidenti tratti dark. Di elevato impatto sono le soluzioni
chitarristiche delle grintose Streets (che passa con estrema disinvoltura da un hard rock variegato ad
atmosfere di stampo classico) e Sleeping for years. Anche l’ottima Tomorrow night (discreto successo a 45
giri) è strutturata su una nitida e piacevole cadenza rock, mentre le strumentali Vug e Gershatzer recuperano
lo stile disinvolto e dinamico del primo album, con in aggiunta la solida chitarra di Cann.
E’ l’attimo di maggior notorietà e successo per gli Atomic Rooster, che nel 1971
ampliano l’organico con l’ingresso del bravo cantante Pete French, già con Leaf Hound.
Questa edizione del complesso incide il valido In hearing of (B&C-1971), che non
presenta grosse novità ma pure comprende brillanti e tipiche composizioni come
Breakthrough, Break the ice, Decision / Indecision e The price.
Alla fine del 1971 gli Atomic Rooster si disintegrano e Crane si vede costretto a
ricostruire il complesso. Lo aiuta il prestigioso cantante Chris Farlowe, reduce dai
disciolti Colosseum, ma i discreti Made in England (Dawn-1972) e Nice’n’greasy
(Dawn-1973) non vanno oltre una dignitosa routine insufficient e a rilanciare le
quotazioni in netto ribasso.
I Black Widow nascono nel 1970 a Leicester, in un momento particolarmente
propizio allo sviluppo di tematiche dark nell’ambito del rock inglese. Per via di una
spiccata predisposizione al culto dell’oscuro, o forse solo a causa del nome scelto, il
gruppo è immediatamente (prima di essere ascoltato) collegato ai Black Sabbath, ma i
connotati musicali sono evidentemente molto diversi.
Nel primo LP Sacrifice, pubblicato dalla CBS nel 1970, la proposta del gruppo appare
un po’ troppo carica d’effetto (l’ossessiva Come to the sabbat, piccolo successo a 45
giri), anche se non mancano attimi di sincera tensione, come l’agghiacciante
introduzione d’organo che inaugura il disco (In ancient days), e interessanti
arrangiamenti (Conjuration, dal passo di Bolero, la melodica Seduction). Per il resto,
la musica si presta ad un approccio rock semplice e diretto (Sacrifice), impreziosito dai
fiati di Clive Jones.
Purtroppo le discrete intuizioni affiorate sull’album d’esordio non vengono
adeguatamente sviluppate nei lavori successivi. Black Widow (1971) è disco di minor
interesse, che trova qualche spunto discreto nelle linee ‘hard progressive’ di Tears and
wine, di Wait until tomorrow e di altri occasionali episodi, ma il risultato complessivo
appare modesto. L’ultimo Black Widow III (1972) segna un ulteriore scadimento del
livello qualitativo.
Autori di un unico album omonimo, edito dalla Vertigo all’inizio del 1971, gli Still
Life sono una misteriosa formazione co n un’impostazione strumentale basata sulle
tastiere. Il suono è contrassegnato da una forte componente melodica e decadente,
senza che manchino espliciti riferimenti ad atmosfere dark (sin dalla lugubre
immagine della copertina). I risultati sono accettabili, a tratti discreti, in canzoni che
sviluppano una buona tensione emotiva (People in black, October witches, Love song
no. 6), in ogni caso superiori a quelli ottenuti da analoghe formazioni di scarsa
123
popolarità come (ad esempio) i tremanti, ingenui, ma pure intriganti Raw Material di
Time and illusion (dal primo LP omonimo del 1970), o come i modesti Dr. Z di Three
parts to my soul (Vertigo-1971).
Di buon interesse la vicenda degli Skin Alley, quartetto nato nel 1969 che esordisce con un discreto
album omonimo (CBS-1969) capace di mettere in luce i vari aspetti rock, jazz e blues di uno stile non ancora
perfettamente definito. Con l’innesto di Nick Graham (bs.v.fl.pn.), proveniente dal nucleo originale degli
Atomic Rooster, gli Skin Alley registrano To pagham & beyond (1970), lavoro maturo e di elevata qualità,
imperniato su un jazz rock vario e scorrevole.
L’insuccesso è totale, la CBS scarica il gruppo e il disco dopo pochi mesi è già fuori catalogo. Il complesso
comunque non molla, nel giugno del ’71 prende parte al Glastonbury Fayre Festival e pubblica il
sottovalutato Two quid deal (Transatlantic -1972) che ancora dimostra di possedere qualche spunto
pregevole. Dispiace veder finire Skin Alley nel rock’n’roll facile e leggero dell’ultimo Skin tight.
Originari di Manchester, i Gravy Train si formano nel marzo del 1969 attorno alla
figura del chitarrista Norman Barrett ; con lui sono coinvolti il fiatista J.D. Hughes, il
bassista Les Williams e il batterista Barry Davenport.
Registrato quasi interamente in presa diretta, il primo Gravy Train (Vertigo - fine
1970) evidenzia l’assenza di uno stile ben definito e lascia trasparire qualche
ingenuità, ma allo stesso tempo convince per il suono assestato su un hard rock
abbastanza vario, dominato d alla chitarra e dalla voce di Barrett e caratterizzato da un
marcato utilizzo del flauto da parte di Hughes. Più che discrete sono l’elaborata The
new one, le aspre cadenze rock blues di Coast road, le dure frasi chitarristiche di
Think of life e alcune parti della lunga jam strumentale di Earl of pocket nook.
GRAVY TRAIN
-
(A BALLAD OF) A PEACEFUL MAN
(Vertigo - 1971)
Il secondo album (A ballad of) a peaceful man rappresenta un notevole salto di qualità sotto l’aspetto
creativo e in fatto di definizione ed eleganza dei suoni, sicuramente meno crudi e spigolosi rispetto al disco
precedente. La sequenza iniziale è di alto livello, con belle ed armoniose ballate quali Alone in Georgia, (A
ballad of) a peaceful man (eccellente il lavoro alle chitarre e di gran fascino la melodia), Jule’s delight (con
il flauto di Hughes in risalto), tutte condotte dalla sicura voce di Barrett e valorizzate da azzeccati
arrangiamenti orchestrali. Can anybody hear me e Won’t talk about it recuperano i ritmi decisi del primo LP,
presentando una migliore cura del suono e una scrittura matura.
L’intrinseca bellezza del lavoro non basta ai Gravy Train per evitare la risoluzione del
contratto discografico con la Vertigo ; le scarse vendite mettono a rischio l’esistenza
stessa del complesso, che trova asilo presso la Dawn. Second birth nel 1973 conferma
il gruppo su livelli dignitosi, senza esaltare ma neppure deludendo, con un hard
melodico di discreta fattura. Ancora un album nel 1974 (Staircase to the day) e Gravy
Train cessa d’esistere.
I Titus Groan iniziano a far circolare il proprio nome in occasione dell’Hollywood
Festival, tenuto nel maggio del 1970 nei pressi di Newcastle Under Lyme (in
programma formazioni quali Airforce, Family e Grateful Dead, al loro debutto inglese).
Nello stesso anno il gruppo, sotto contratto per la Dawn, esordisce con un maxi singolo contenente tre brani, tra i quali spicca il dinamico e moderno R & B di
Liverpool.
124
Pochi giorni più tardi è la volta dell’album Titus Groan, che sviluppa
considerevolmente gli aspetti della musica del gruppo mediante l’elaborazione di un
rock solido e raffinato, nel quale il lavoro alla chitarra e alle tastiere di Stuart Cowell si
combina abilmente con gli strumenti a fiato di Tony Priestland, il tutto sostenuto in
modo adeguato dal basso di John Lee e dalla batteria di Jim Toomey. La lunga Hall of
bright carvings è la composizione più ambiziosa ; articolata in quattro sezioni, offre
ampio sfoggio di una brillante vena strumentale che dona unità alle varie influenze
stilistiche (rock, folk e in misura meno evidente blues e jazz), senza oltrepassare mai i
confini di una godibile semplicità espositiva.
L’album riceve recensioni confortanti e la Dawn cerca di risolvere il problema
promozionale delle pubblicazioni del proprio recente catalogo con l’organizzazione, nel
novembre del ’70, di un singolare tour denominato ‘A Penny Concert’, al quale
aderiscono piccole formazioni come Heron, Comus, Demon Fuzz e, ovviamente, Titus
Groan, che s’esibiscono per la favolosa somma di...un penny. L’iniziativa termina nel
gennaio del 1971 senza riuscire ad affermare le potenzialità dei complessi
partecipanti.
Il nome dei Second Hand resta legato agli anfratti più remoti dell’underground
inglese e a quell’oscuro lavoro (Death may be your Santa Claus) pubblicato nel 1972
dalla Mushroom, esemplare etichetta alternativa che fallisce dopo un breve periodo di
autogestione.
Rob Elliott (v.), Ken Elliott (ts.v.), George Hart (bs.vi.v.) e Kieran O’Connor (bt.pr.v.)
realizzano l’album avvalendosi di ottime idee di base, condite con una buona dose di
coraggio. Sfortunatamente, tanto impegno è tradito da una produzione insufficiente
che rende l’aspetto delle composizioni parzialmente indefinito e confuso. Questo non
esclude la presenza di alcuni eccellenti brani, come il R & B orchestrato di Funeral e
quello conciso e depravato di Somethin’ you got ; la notevole Lucifer and the egg
rispolvera echi di Arthur Brown e spazza via con decisione tanti finti cultori di dark
music, regalando brividi e sospensioni allucinate. Il secondo lato presenta soluzioni a
tratti vagamente avvicinabili a sperimentazioni floydiane, contrapposte ad attimi di
forte lirismo e ad ambientazioni romantico - sinfoniche tutt’altro che rassicuranti.
E’ proprio la forte tensione che s’incrocia in ogni angolo di Death may be your Santa
Claus, l’inquietudine che permea l’intero lavoro a rendere il suono intenso e
meritevole d’attenzione. Solo da parte di pochissimi, però, e ai Second Hand nessuno
offre una nuova opportunità.
125
ALLA FINE DEL GIOCO
le ultime propaggini del pop progressivo
- 40 Dal 1972 l'azione progressiva del rock inglese inizia sensibilmente ad
affievolirsi. Si assiste così al consolidamento di una fase d’evidente stasi creativa,
determinata dall’involuzione stilistica propria alla maggior parte dei gruppi storici,
senza che avvenga il necessario ricambio generazionale di qualità.
In quegli anni poco esaltanti non tutto, però, è da dimenticare. Tra i nuovi nati si
mettono in luce gli interessanti Roxy Music del cantante Bryan Ferry ; con lui sono il
chitarrista Phil Manzanera, Brian Eno (sn.), Graham Simpson (bs.), Andy Mackay (sf.)
e Paul Thompson (bt.).
ROXY MUSIC
-
ROXY MUSIC
(Island - 1972)
Nel marzo del 1972 i Roxy Music si recano in studio per registrare il primo LP omonimo, sotto la
produzione dell’ex paroliere dei King Crimson, Pete Sinfield. L’attacco aggressivo di Re-make/Re-model
stordisce, nell’illustrazione dettagliata della proposta musicale del gruppo che contempla dure strutture
iterative (con la chitarra quasi hard, lanciata in un assolo perenne), il sax insolente di Mackay, una sezione
ritmica incessante e metronomica, i sintetizzatori del ‘non musicista’ Eno che deformano le nitide linee
strumentali, la voce di Ferry sicura e sfrontata, lontana dai tipici connotati dei grandi urlatori rock, in
anticipo di dieci anni (o quasi) sulle modalità del cantante new wave. La ballata di Ladytron presenta trovate
originali, belle soluzioni timbriche e una chitarra che echeggia Hendrix ; If there is something fa ancora
meglio con una cadenza spensierata che all’improvviso diventa tesa e decadente, nobilitata da una notevole
prestazione di Ferry. Tra i brani più ricercati ed elaborati convincono l’interessante 2 H.B. dove il piano di
Ferry pare allacciarsi all’esperienza di Terry Riley, fondendosi ai sassofoni di Mackay in una soffusa
girandola strumentale, il viaggio allucinante di The Bob, introdotto dall’irreale atmosfera dei sintetizzatori di
Eno e spezzato in continuazione da impulsi hard, inquietanti rumori di battaglie elettroniche, sax, oboe,
rock’n’roll, aperture e citazioni classiche, e ancora l’estatica Chance meeting. L’ottima Sea breezes si divide
tra atmosfere cameristiche (con l’oboe di Mackay) e un’atipica parte centrale con gli strumenti sfigurati dagli
interventi di Eno. Brano trainante sotto l’aspetto commerciale è la bella Virginia plain, uno spedito e
suadente rock’n’roll trascritto nella particolare ottica futurista del gruppo.
Simpson esce di scena e per il secondo album For your pleasure, inciso nel febbraio
del ’73, le parti di basso sono affidate a John Porter, considerato solo come ospite. For
your pleasure, che si presenta con l’avvenente Amanda Lear in copertina e all’interno
propone i cinque Roxy Music in un improbabile look (si noti Brian Eno, della
serie...come si cambia...), non possiede la portata innovativa del disco d’esordio. Il
lavoro vanta però una coesione ammirevole, l’elaborata combinazione strutturale della
musica del gruppo appare intensa e solida, al massimo delle possibilità espressive dei
musicisti. C’è spazio per belle e tipiche ballate melodiche, con grande attenzione per il
timbro e le sfumature (Beauty queen, For your pleasure e la sua fantastica coda
finale), per lo stupendo rock’n’roll evoluto di Grey lagoons, per le supersoniche danze
di Do the strand e di Editions of you.
L’oboe di Mackay guida la melodia della raffinata Strictly confidential, che alterna un
clima rarefatto a ficcanti frasi chitarristiche, la chitarra ubriaca di phasing dell’ottima
In every dream home a heartache non costituisce proprio una novità (Hendrix, su Bold
as love, gioca in netto anticipo), ma scatena lo stesso un bell’effetto. L’iterazione
126
insistita della lunga The bogus man conquista vertici assoluti nell’ambito di un disco
dai toni moderni, che precorre i modi a venire delle nuove ondate del rock.
In seguito all’uscita di Eno, i Roxy Music nel settembre 1973 registrano Stranded
(Island) che, pur essendo un buon disco, non ripete i notevoli risultati dei precedenti
lavori. La musica è ora legata agli elementi più diretti e decadenti (Amazona, Just like
you, la bella A song for Europe), con Street life prosegue la tradizione dei gradevoli
scioglilingua di Ferry, ma si tratta quasi sempre degli aspetti esteriori di uno stile
consolidato e svuotato dei contenuti sperimentali.
Gli album successivi si muovono spediti in questa direzione, con un livello qualitativo
decrescente.
Proprio nei Roxy Music, Brian Peter George St. John Le Baptiste De La Salle Eno
inizia ad esplicitare la teoria del ‘non musicista’, di colui che non crea in prima persona
il suono in modo virtuosistico ma piuttosto interviene sul lavoro degli altri musicisti,
stravolgendone la forma e spesso il significato tramite l’utilizzo di artifizi elettronici.
ENO
-
HERE COME THE WARM JETS
(Island - 1973)
Il gioco dura per i primi due eccellenti 33 giri del complesso, fino all’estate del ’73 quando Eno lascia i
compagni, in contrasto con la linea musicale più morbida e romantica di Brian Ferry. In novembre (aiutato
da un imponente stuolo d’illustri musicisti) registra il primo album come solista, Here come the warm jets. Il
lavoro è basato su canzoni piuttosto orecchiabili, di concezione (in apparenza) semplice, sulle quali Eno
inserisce le parti vocali ed effettua un profondo trattamento del suono. Ne consegue una musica futuribile,
moderna e ricca di originalità, capace di coinvolgere per le belle melodie e per l’accesa struttura ritmica, che
servirà da esempio ai paladini della new wave ‘intelligente’ (Talking Heads, Devo).
Tra i brani spiccano l’eccezionale Baby’s on fire, lanciata in orbita da una memorabile prestazione alle
chitarre di Robert Fripp, la cadenza decadente dell’agghiacciante Driving me backwards, la compatta massa
chitarristica (Manzanera e Spedding) e la ritmica serrata della bella Needles in the camel’s eye, il rock
stravolto di Blank Frank (un geniale mix tra Bo Diddley e i King Crimson della seconda generazione).
Il primo giugno 1974 Eno appare tra i principali animatori del concerto al Rainbow con
Kevin Ayers, John Cale e Nico. In settembre vengono effettuate le registrazioni per il
secondo LP Taking tiger mountain (by strategy) (Island-1974), ottimo disco che in
sostanza consolida le posizioni acquisite dal precedente lavoro (da segnalare la
notevole Third uncle).
Dalla metà dei settanta e fino ai giorni nostri la produzione discografica di Brian Eno
prosegue incessante in svariate direzioni musicali, passando da una marcata impronta
pop rock alla musica elettronica e a quella ‘ambientale’.
Divenuto oramai a tutti gli effetti un musicista, sia pure un po’ particolare, teorizza la
‘musica per non musicisti’ e le ‘strategie oblique’ in due libri, organizza un’etichetta
dedita a progetti d’avanguardia (la Obscure) e s’impone come produttore dalle ampie
vedute (e fortune) con complessi quali Talking Heads, Devo, Ultravox e i planetari U2.
La prima metà degli anni settanta porta buoni risultati artistici anche al gallese
John Cale, membro fondatore dei leggendari Velvet Underground. Cale si forma a
Londra su studi classici e ben presto inizia ad interessarsi alla musica elettronica e
d’avanguardia. Stabilitosi negli Stati Uniti, nel ’64 conosce Lou Reed e con lui dà vita
ai Velvet Underground, risultando decisivo (con l’apporto di tastiere e viola) nella
messa a punto dell’originale proposta musicale del gruppo contenuta nei primi due LP.
127
Al 1970 risale la pubblicazione del suo esordio a 33 giri come solista, il non eccelso
Vintage violence, seguito a distanza di due anni dal più convincente The academy in
peril (Reprise), lavoro denso di forti e diretti riferimenti alla cultura classica.
I risultati migliori del periodo sono colti nel 1973 con la realizzazione di Paris 1919
che, sia pur inciso a Los Angeles, è disco dagli espliciti umori europei, composto da
gradevoli canzoni permeate da un afflato decadente ed intimista. Il suono è tranquillo,
con arrangiamenti complessi, curati e di grand'equilibrio, dai quali traspare (anche se
con connotati ben diversi rispetto all’album precedente) la formazione classica di Cale
(Child’s Christmas in Wales). Bellissima appare The endless plain of fortune, una
soffice aria decadente sfiorata da sfumature orchestrali da brivido, che nascondono
l’essenza intima della canzone in un’atmosfera nebbiosa e quasi irreale. Di rilievo
anche la cameristica Paris 1919, la sognante Half past France e l’originale rock’n’roll di
Macbeth.
- 41 La seconda generazione dei King Crimson si evolve nell’arco di un paio
d’anni, a partire dal 1973, quando Robert Fripp rifonda per l’ennesima volta il
complesso con l’apporto del violinista David Cross, del bassista John Wetton (ex
Family), del percussionista Jamie Muir (proveniente dagli Assagai) e del batterista Bill
Bruford (che preferisce Fripp ai facili guadagni con gli Yes).
KING CRIMSON
-
LARKS’ TONGUES IN ASPIC
(Island - 1973)
Registrato all’inizio del 1973, Larks’ tongues in aspic è, senza mezzi termini, uno dei grandi capolavori della
musica progressiva inglese.
Le percussioni policrome di Muir introducono la prima parte di Larks’ tongues in aspic, che si apre con il
serrato fraseggio del violino sorvolato dalla tesa chitarra di Fripp ; reminiscenze classiche ed impronte
d’avanguardia travolte da un’intermittente esplosione hard, che evolve in una spigolosa, moderna cadenza
jazz rock in continua mutazione genetica. Una musica che deriva forze e virtù dalla sua stessa essenza,
capace di calarsi nelle impervie voragini del ritmo e d’aprirsi in melodiche frasi di sconcertante consistenza
emotiva. Se le eccellenti Book of Saturday e Exiles riportano a dolci e romantiche atmosfere già conosciute
ed apprezzate nei primi momenti del complesso, il fraseggio spezzato di Easy money e la dinamica
progressione di The talking drum s’inventano inedite prospettive di sviluppo e mostrano il compiuto aspetto
strumentale dei nuovi King Crimson. La conclusiva seconda parte di Larks’ tongues in aspic, annunciata dal
selvaggio stridere degli strumenti, trova il modo di accarezzare la materia per poi sbranarla e vivisezionarla
senza ritegno, in una danza che stordisce e lascia senza fiato.
Jamie Muir esce dal gruppo e sparisce senza lasciare tracce ma, al contrario del solito,
i King Crimson dimostrano di poter contare su un organico stabile. I restanti quattro
musicisti tornano in studio, nel gennaio del ’74, per registrare le composizioni che
vanno a sommarsi sull’ottimo Starless and Bible Black. Le folate dell’ossessiva e
(volutamente) frammentaria The great deceiver (quasi una suite in miniatura)
mostrano il gruppo in piena forma, sicuro e compatto anche nelle parti esecutive più
intricate. Il sintomo è confermato dalla nervosa Lament, dall’aggraziata e
commovente The night watch (con un grande Fripp alla chitarra), dal pacato
classicismo di Trio. Sul secondo lato trovano posto le pregevoli Starless and Bible
Black (di non semplice fruizione) e Fracture (che in parte anticipa le soluzioni tese e
violente del successivo LP Red).
All’inizio del ’74, poco dopo l’incisione di Starless and Bible Black, lascia anche David
Cross ma i King Crimson resistono e, ridotti a trio, nell’estate dello stesso anno
128
realizzano un altro notevole album. In realtà, alla lavorazione di Red partecipano
alcuni ospiti esterni, tra i quali spiccano i nomi delle vecchie conoscenze Mel Collins e
Ian McDonald (ai sax soprano e alto) e dello stesso David Cross.
La musica dei King Crimson è giunta ad un nuovo capolinea, splendida
nell’esasperante potenza di un suono distorto e sovraccarico d’energia. Red, con le
sue masse chitarristiche contrapposte, è una perfetta introduzione al disco e la
successiva Fallen angel unisce la bella melodia (guidata dall’oboe di Robin Miller) alle
energiche spirali senza fine di One more red nightmare. Providence si lancia in una
difficile improvvisazione ai limiti del rumore e la stupenda Starless rappresenta la fine
di un ciclo, significa ritrovare il romantico sinfonismo della Corte del Re Cremisi sotto
una veste riveduta ed aggiornata.
I King Crimson cessano d’esistere nell’ottobre del 1974 (al tempo della pubblicazione
di Red) ; non si tratta però di una decisione definitiva perché Fripp, all’inizio degli
ottanta, recupera la vecchia sigla per pubblicare una serie di d ischi di buon pregio.
Mi piace ricordarli così, seduti attorno ad uno spoglio tavolo di una festa dell’ultra
sinistra, a mangiare pane e poco altro, accanto alle persone che poco più tardi
avrebbero costituito il loro sparuto pubblico. Voglio terminare con gli Henry Cow,
fiera unione di uomini e donne a sostegno di un approccio alla vita della musica
completamente estraneo all’equazione concerti : successo = dischi : soldi, una scelta
che comporta necessariamente la povertà.
I polistrumentisti Fred Frith e Tim Hodgkinson progettano Henry Cow già alla fine del
1968 e il gruppo assume un’identità precisa nel 1971 quando si associano il fiatista
Geoff Leigh, il bassista John Greaves e il batterista Chris Cutler. Gli Henry Cow
iniziano a farsi conoscere suonando gratis o a prezzo politico un po’ ovunque,
abbracciando la causa di una musica e di un’ideologia radicali.
HENRY COW
-
THE HENRY COW LEGEND
(Virgin - 1973)
Della primavera del ’73 sono le registrazioni dell’album d’esordio The Henry Cow Legend, disco di gran
bellezza che materializza l’originale formula stilistica del complesso, in equilibrio tra rock e rumore, free
jazz e avanguardia, umori classici e bandismo zappiano. Concepito come una complessa suite a carattere
prevalentemente strumentale, Legend propone un suono leggero ed inafferrabile nel continuo mutare di toni e
sfumature, ora contorto ed intricato, subito dopo lirico e disteso. I musicisti dimostrano notevoli capacità
tecniche e una ancor maggiore personalità esecutiva, rendendo la musica raffinata ed immediatamente
riconoscibile.
Il disco piace alla critica musicale ma il seguito di pubblico non può che essere
modesto, visto il carattere impegnativo della proposta.
Lindsay Cooper (fagotto e oboe) subentra a Geoff Leigh e all’inizio del 1974 gli Henry
Cow registrano Unrest, disco che presenta parti piuttosto ostiche rispetto alle raffinate
atmosfere di Legend. Tra le composizioni di più ‘facile’ fruibilità vanno segnalate le
ottime Bittern storm over Ulm e Half asleep ;half awake, che sfodera un
personalissimo jazz rock. Di maggior impegno, ma imprescindibile, il confronto con le
impietose scansioni ritmiche della stupenda Ruins (ricettacolo delle influenze e delle
esperienze di Henry Cow), con il feroce free jazz di Upon entering the Hotel Adlon, con
le desolate distese armoniche di Deluge.
Del ’75 è la collaborazione con gli Slapp Happy (Anthony Moore - ts. - Peter Blegvad ch. - Dagmar Krause - v.) : assieme i due organici realizzano Desperate straight
(Virgin-1975) e In praise of learning (Virgin-1975), discreti ma non essenziali.
129
Gli Henry Cow svolgono costantemente un’intensa attività live e sempre nel 1975
effettuano alcune esibizioni con la formazione allargata a Dagmar e con la presenza di
Robert Wyatt. Su tre lati del doppio Concerts trovano spazio le registrazioni ricavate
da concerti tenuti tra maggio e novembre, con particolare interesse per le belle
versioni di Little red riding Hood hits the road (con Wyatt) e di Ruins (registrata a
Udine). La prima facciata del disco è occupata da uno stupefacente medley che illustra
adeguatamente gli eccellenti risultati e l’equilibrio formale raggiunti dalla formazione
(tra le altre Beautiful as the moon, Nirvana for mice e una struggente versione di
Gloria Gloom dei Matching Mole, il tutto messo su nastro in agosto per la BBC).
Prima di disperdere le forze in mille direzioni (carriere soliste, Art Bears, Aqsak
Maboul, Work...) Henry Cow resiste fino al 1978, in tempo per la pubblicazione
dell’ultimo, e ancora rilevante, Western culture (Broadcast), registrato senza l’apporto
di John Greaves (impegnato con i National Health), che chiude degnamente la storia di
questo mai sufficientemente considerato gruppo.
“Il futuro degli Henry Cow è molto semplice. Abbiamo questo concerto stasera, poi ne avremo due
consecutivamente nei prossimi giorni, quindi andremo in studio per registrare un nuovo disco e poi
ci scioglieremo.”
Tim Hodgkinson (23.7.78)
130
SOMMARIO.....per una discografia progressiva
A NEW DAY RISING...dal beat alla musica progressiva
Beatles, Revolver, Parlophone, 1966
Rolling Stones, Aftermath, Decca, 1966
Rolling Stones, Big hits (high tide and green grass), Decca, 1966, ant. ‘63 - ‘66
Animals, House of the rising sun, Emi, 1970, ant. ‘64 - ‘65
Them , The collection / featuring Van Morrison, 2 LP Castle Comm., 1986, ant. ‘64 - ‘66
Yardbirds, On air, 2 LP Band of Joy, 1991, reg. BBC ‘65 - ‘68
John Mayall and the Bluesbreakers, A hard road, Decca, 1967
Graham Bond Organization, The sound of 65, Columbia, 1965
Spencer Davis Group, The best of ... featuring Stevie Winwood, Island, 1967, ant. ‘65 - ‘67
Kinks, Golden hour of the Kinks, Pye, 1977, ant. ‘64 - ‘69
Who, My generation, Brunswick, 1965
Pretty Things, The vintage years, 2 LP Sire, 1976, ant. ‘64 - ‘66
Small Faces, The autumn stone, 2 LP Immediate, 1969, ant. ‘66 - ‘68 in parte dal vivo
Creation, How does it feel to feel, CD Edsel, 1990, ant. ‘66 - ‘68
Misunderstood, Before the dream faded, Cherry Red, 1982, ant. ‘66
THE TURNING POINT...diario fantastico dell’esperienza interstellare
di Pepper il sergente
Jimi Hendrix Experience, Are you experienced ?, Track, 1967
Jimi Hendrix Experience, Jimi plays Monterey, Polydor, 1986, dal vivo 18.6.67
Jimi Hendrix Experience, Smash hits, Track, 1968, ant. ‘66 - ’67
Jimi Hendrix Experience, Axis : bold as love, Track, 1967
Jimi Hendrix Experience, Radio one, 2 LP Rykodisc, 1988, reg. BBC ‘67
Beatles, Sgt. Pepper’s lonely hearts club band, Parlophone, 1967
Beatles, Magical mystery tour, Capitol, 1967, ant. ’67
Beatles, The Beatles, 2 LP Apple, 1968
Beatles, Past masters, vol. one & two, 2 LP Parlophone, 1988, ant. ‘62 - ‘70
Pink Floyd, The piper at the gates of dawn, Columbia, 1967
Pink Floyd, Masters of rock, Harvest, 1974, ant. ’67
Pink Floyd, A saucerful of secrets, Columbia, 1968
Traffic, Mr. Fantasy, Island, 1967
Traffic, Traffic, Island, 1968
IL FUOCO E L’ACQUA...un ricordo di British blues
Cream, Fresh Cream, Reaction, 1966
Cream, Disraeli gears, Reaction, 1967
Cream, Wheels of fire, 2 LP Polydor, 1968, in parte dal vivo
Blind Faith, Blind Faith, Polydor, 1969
Jimi Hendrix Experience, Electric ladyland, 2 LP Track, 1968
Jimi Hendrix Experience, Live at Winterland, 2 LP Polydor, 1987, dal vivo ottobre 1968
John Mayall’s Bluesbreakers, Bare wires, Decca, 1968
John Mayall, Blues from Laurel Canyon, Decca, 1969
Fleetwood Mac, Then play on, Reprise, 1969
Chicken Shack, 40 blue fingers freshly packed & ready to serve, Blue Horizon, 1968
Peter Green, The end of the game, Reprise, 1970
131
Aynsley Dunbar Retaliation, To mum, from Ainsley and the boys, Liberty, 1969
Keef Hartley Band, Halfbreed, Deram, 1969
Mark Almond, Mark Almond, Harvest, 1971
Jeff Beck, Truth, Columbia, 1968
Jeff Beck Group, Beck Ola, Columbia, 1969
Free, Tons of sobs, Island, 1968
Free, Free, Island, 1969
Free, Fire and water, Island, 1970
Led Zeppelin, Led Zeppelin, Atlantic, 1969
Ten Years After, Ten Years After, Deram, 1967
Ten Years After, Undead, Deram, 1968, dal vivo
Ten Years After, Stonedhenge, Deram, 1969
Groundhogs, Blues obituary, Liberty, 1969
Groundhogs, Thank Christ for the bomb, Liberty, 1970
Groundhogs, Split, Liberty, 1971
Patto, Patto, Vertigo, 1970
Patto, Hold your fire, Vertigo, 1971
Taste, Pop history vol. 7, 2 LP Polydor, 1972, ant. ‘69 - ‘70 in parte dal vivo
Savoy Brown, Blue matter, Decca, 1969, in parte dal vivo
Joe Cocker, With a little help from my friends, Regal Zonophone, 1969
AA.VV., Woodstock, 3 LP Cotillon, 1970, dal vivo
Blodwyn Pig, Ahead rings out, Island, 1969
Steamhammer, MK II, CBS, 1969
Steamhammer, Mountains, Brain, 1970, in parte dal vivo
Bakerloo, Bakerloo, Harvest, 1969
Black Cat Bones, Barbed wire sandwich, Nova, 1969
Killing Floor, Killing Floor, Spark, 1970
N.S.U., Turn on, or turn me down, Stable, 1969
May Blitz, May Blitz, Vertigo, 1970
May Blitz, The 2nd of May, Vertigo, 1971
A ROCK’N’ROLL DAMNATION...ovvero il diavolo, probabilmente
Rolling Stones, Beggar’s banquet, Decca, 1968
Rolling Stones, Through the past darkly, Decca, 1969, ant. ‘66 - ‘69
Eric Burdon & the Animals, Winds of change, Mgm, 1967
Eric Burdon & the Animals, The twain shall meet, Mgm, 1968
Eric Burdon Band, Sun secrets, Capitol, 1974
Small Faces, Ogdens’ nut gone flake, Immediate, 1968
Pretty Things, S.F. Sorrow, Columbia, 1968
Pretty Things, Parachute, Harvest, 1970
Kinks, Arthur or the decline and fall of the British empire, Pye, 1969
Who, The Who sell out, Track, 1967
Who, Tommy, 2 LP Track, 1969
Who, Live at Leeds, Track, 1970, dal vivo
Who, Who’s next, Track, 1971
Who, Quadrophenia, 2 LP Track, 1973
Terry Reid, Bang, bang you’re Terry Reid, Epic, 1968
Spooky Tooth, Spooky two, Island, 1969
Thunderclap Newman, Hollywood dream, Track, 1969
David Bowie, The man who sold the world, Mercury, 1970
132
PIU’ DURO DI TUO MARITO...i miti e le illusioni dell’hard rock inglese
Led Zeppelin, Led Zeppelin II, Atlantic, 1969
Led Zeppelin, Led Zeppelin III, Atlantic, 1970
Led Zeppelin, Physical graffiti, 2 LP Swan Song, 1975
Deep Purple, In rock, Harvest, 1970
Deep Purple, Made in Japan, 2 LP Purple, 1972, dal vivo
Black Sabbath, Black Sabbath, Vertigo, 1970
Black Sabbath, Paranoid, Vertigo, 1970
Black Sabbath, Vol. IV, Vertigo, 1972
Wishbone Ash, Pilgrimage, Mca, 1971, un brano dal vivo
Wishbone Ash, Argus, Mca, 1972
Wishbone Ash, Live dates, 2 LP Mca, 1973, dal vivo
Clear Blue Sky, Clear Blue Sky, Vertigo, 1970
Leaf Hound, Growers of mushroom, Decca, 1971
Third World War, Third World War, Fly, 1971
SEASONS THEY CHANGE...le contaminazioni del folk inglese
Fairport Convention, Unhalfbricking, Island, 1969
Fairport Convention, Liege & lief, Island, 1969
Fairport Convention, Full house, Island, 1970
Pentangle, Sweet child, 2 LP Transatla ntic, 1968, in parte dal vivo
Pentangle, Cruel sister, Transatlantic, 1970
Incredible String Band, The hangman’s beautiful daughter, Elektra, 1968
Incredible String Band, Seasons they change, 2 LP Island, 1976, ant. ‘66 - ‘74
Strawbs, From the witchwood, A & M, 1971
Strawbs, Grave new world, A & M, 1972
Fotheringay, Fotheringay, Island, 1970
Sandy Denny, The north star grassman and the ravens, Island, 1971
Steeleye Span, Ten man mop or Mr. Reservoir Butler rides again, Pegasus, 1971
Steeleye Span, Below the salt, Chrysalis, 1972
Horslips, Happy to meet sorry to part, Oats, 1973
Forest, Forest, Harvest, 1969
Forest, Full circle, Harvest, 1970
Trees, The garden of Jane Delawney, Cbs, 1970
Trees, On the shore, Cbs, 1970
Mellow Candle, Swaddling songs, Deram, 1972
Gryphon, Red queen to Gryphon three, Transatlantic, 1974
LE SETTIMANE ASTRALI E I GIORNI DELLA LUNA ROSA
Van Morrison, Astral weeks, Warner Bros., 1968
Donovan, Sunshine superman, Pye, 1967
Donovan, A gift from a flower to a garden, 2 LP Pye, 1968
Donovan, Donovan in concert, Pye, 1968, dal vivo
Cat Stevens, Mona bone jakon, Island, 1970
Syd Barrett, The madcap laughs, Harvest, 1970
Syd Barrett, Barrett, Harvest, 1970
Jack Bruce, Harmony row, Polydor, 1971
Roy Harper, Stormcock, Harvest, 1971
Roy Harper, Lifemask, Harvest, 1973
Michael Chapman, Lived here, Cube, 1977, ant. ‘68 - ‘71
Shawn Phillips, Second contribution, A & M, 1971
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Kevin Coyne, Marjory razor blade, 2 LP Virgin, 1973
John Martyn, Solid air, Island, 1973
John Martyn, Inside out, Island, 1973
Nick Drake, Five leaves left, Island, 1969
Nick Drake, Bryter layter, Island, 1970
Nick Drake, Pink moon, Island, 1972
ARS LONGA VITA BREVIS...la musica della casa delle bambole
Traffic, John Barleycorn must die, Island, 1971
Traffic, The low spark of high heeled boys, Island, 1971
Family, Music in a doll’s house, Reprise, 1968
Family, Family entertainment, Reprise, 1969
Family, A song for me, Reprise, 1970
Family, Anyway..., Reprise, 1970, in parte dal vivo
Family, Fearless, Reprise, 1971
Jethro Tull, This was, Island, 1968
Jethro Tull, Stand up, Island, 1969
Jethro Tull, Benefit, Island, 1970
Jethro Tull, Aqualung, Chrysalis, 1971
Jethro Tull, Living in the past, 2 LP Island, 1972, ant. ‘68 - ‘71 in parte dal vivo
Jethro Tull, Thick as a brick, Chrysalis, 1972
Nice, The thoughts of emerlist davjack, Immediate, 1968
Nice, Ars longa vita brevis, Immediate, 1968
Nice, Nice, Immediate, 1969, in parte dal vivo
Procol Harum, Procol Harum, Regal Zonophone, 1968
Julie Driscoll, Brian Auger & the Trinity, Streetnoise, 2 LP Marmalade, 1969
Colosseum, Those who are about to die salute you, Fontana, 1969
Colosseum, Valentyne suite, Vertigo, 1969
Colosseum, Colosseum live, 2 LP Bronze, 1971, dal vivo
Tempest, Tempest, Bronze, 1973
Pink Floyd, Ummagumma, 2 LP Harvest, 1969, in parte dal vivo
Pink Floyd, Atom heart mother, Harvest, 1970
Pink Floyd, Meddle, Harvest, 1971
King Crimson, In the court of the Crimson King, Island, 1969
King Crimson, Islands, Island, 1971
Emerson, Lake & Palmer, Emerson, Lake & Palmer, Island, 1970
Emerson, Lake & Palmer, Tarkus, Island, 1971
Quatermass, Quatermass, Harvest, 1970
Rare Bird, Rare Bird, Charisma, 1969
Renaissance, Renaissance, Island, 1969
Renaissance, Live at Carnegie Hall, 2 LP Btm, 1976, dal vivo giugno ‘75
Yes, The Yes album, Atlantic, 1971, un brano dal vivo
Yes, Fragile, Atlantic, 1971
Yes, Close to the edge, Atlantic, 1972
Gentle Giant, Gentle Giant, Vertigo,1970
Gentle Giant, Acquiring the taste, Vertigo, 1971
Gentle Giant, Three friends, Vertigo, 1972
Genesis, Nursery cryme, Charisma, 1971
Genesis, Foxtrot, Charisma, 1972
Beggar’s Opera, Pathfinder, Vertigo, 1972
Curved Air, Air conditioning, Warner Bros., 1970
Cressida, Asylum, Vertigo, 1971
Gracious, Gracious !, Vertigo, 1970
Czar, Czar, Fontana, 1970
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Spring, Spring, Neon, 1971
Van Der Graaf Generator, The least we can do is wave to each other, Charisma, 1970
Van Der Graaf Generator, H to he, who am the only one, Charisma, 1970
Van Der Graaf Generator, Pawn hearts, Charisma, 1971
Peter Hammill, Chameleon in the shadow of the night, Charisma, 1973
Audience, The house on the hill, Charisma, 1971
Argent, Ring of hands, Cbs, 1971
Hardin & York, Tomorrow today, Bell, 1969
Camel, Camel, Mca, 1973
Camel, Mirage, Deram, 1974
AA.VV., Live at Dingwall’s Dance Hall, 2 LP Greasy Truckers, 1973, dal vivo
Nucleus, We’ll talk about it later, Vertigo, 1971
Mahavishnu Orchestra, Birds of fire, Cbs, 1973
If, If 2, Island, 1970
LA LUNA IN GIUGNO...nella terra del grigio e del rosa
Soft Machine, Soft Machine, Probe, 1968
Soft Machine, Soft Machine volume two, Probe, 1969
Soft Machine, Third, 2 LP Cbs, 1970, in parte dal vivo
Soft Machine, Fourth, Cbs, 1971
Caravan, If I could do it all over again, I’d do it all over you, Decca, 1970
Caravan, In the land of grey and pink, Deram, 1971
Caravan, Waterloo Lily, Deram, 1972
Egg, Egg, Deram, 1970
Egg, The polite force, Deram, 1970
Khan, Space shanty, Deram, 1972
Steve Hillage, Fish rising, Virgin, 1975
Hatfield and the North, Hatfield and the North, Virgin, 1973
Hatfield and the North, The rotter’s club, Virgin, 1975
Kevin Ayers, Joy of a toy, Harvest, 1969
Kevin Ayers and the Whole World, Shooting at the moon, Harvest, 1970
Kevin Ayers, Whatevershebringswesing, Harvest, 1972
Daevid Allen, Banana moon, Byg, 1971
Gong, Camembert electrique, Byg, 1971
Gong, Radio Gnome invisible part 1 : Flying teapot, Virgin, 1973
Gong, Angel’s egg, Virgin, 1973
Robert Wyatt, The end of an ear, Cbs, 1970
Robert Wyatt, Rock Bottom, Virgin, 1974
Matching Mole, Matching Mole, Cbs, 1972
Matching Mole, Little red record, Cbs, 1972
IL BUIO AI MARGINI DELLA CITTA’...eroi e dannati dell’Inghilterra
sotterranea
Deviants, Ptooff !, Underground Impresarios, 1967
Deviants, Disposable, Stable, 1968
Deviants, The Deviants, Transatlantic, 1969
Mick Farren, Mona ; the carnivorous circus, Transatlantic, 1970
Tomorrow, Tomorrow, Emi, 1968
Twink, Think pink, Polydor, 1970
Pink Fairies, Neverneverland, Polydor, 1971
Pink Fairies, What a bunch of sweeties, Polydor, 1972
AA.VV., Glastonbury Fayre Festival, 3 LP Revelation, 1972, in parte dal vivo
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Edgar Broughton Band, Wasa wasa, Harvest, 1969
Edgar Broughton Band, Sing brother sing, Harvest, 1970
Hawkwind, In search of space, United Artists, 1971
Blossom Toes, We are ever so clean, Marmalade, 1967
Skip Bifferty, Skip Bifferty, RCA, 1968
July, Dandelion seeds, Major Minor, 1968
Bonzo Dog Doo/Dah Band, Gorilla, Liberty, 1967
Pete Brown & his Battered Ornaments, A meal you can shake hands with in the dark, Harvest, 1969
Battered Ornaments, Mantle piece, Harvest, 1969
Pete Brown & Piblokto, Things may come and things may go but...the art school dance goes on for ever,
Harvest,
1970
Arthur Brown, The Crazy World of Arthur Brown, Track, 1968
Man, 2 ozs of plastic (with a hole in the middle), Dawn, 1969
Man, Be good to yourself at least once a day, United Artists, 1972
Help Yourself, Strange affair, Liberty, 1972
Andromeda, Andromeda, RCA, 1969
T2, It’ll all work out in boomland, Decca, 1970
Blossom Toes, If only for a moment, Marmalade, 1969
Mighty Baby, Mighty Baby, Head, 1969
Mighty Baby, A jug of love, Blue Horizon, 1971
East of Eden, Mercator projected, Deram, 1969
East of Eden, Snafu, Deram, 1970
Third Ear Band, Alchemy, Harvest, 1969
Third Ear Band, Third Ear Band, Harvest, 1970
Jade Warrior, Released, Vertigo, 1972
Quintessence, Dive deep, Island, 1970
Clark Hutchinson, A=MH2, Nova, 1969
Clark Hutchinson, Retribution, Nova, 1970
Comus, First utterance, Dawn, 1971
Velvett Fogg, Velvett Fogg, Pye, 1969
High Tide, Sea shanties, Liberty, 1969
High Tide, High Tide, Liberty, 1970
Atomic Rooster, Atomic Rooster, B & C, 1970
Atomic Rooster, Death walks behind you, B & C, 1970
Black Widow, Sacrifice, Cbs, 1970
Skin Alley, To pagham & beyond, Cbs, 1970
Gravy Train, (A ballad of) a peaceful man, Vertigo, 1971
Titus Groan, Titus Groan, Dawn, 1970
Second Hand, Death may be your Santa Claus, Mushroom, 1972
ALLA FINE DEL GIOCO...le ultime propaggini del pop progressivo
Roxy Music, Roxy Music, Island, 1972
Roxy Music, For your pleasure, Island, 1973
Eno, Here come the warm jets, Island, 1973
John Cale, Paris 1919, Reprise, 1973
King Crimson, Larks’ tongues in aspic, Island, 1973
King Crimson, Starless and Bible Black, Island, 1974
King Crimson, Red, Island, 1974
Henry Cow, The Henry Cow Legend, Virgin, 1973
Henry Cow, Unrest, Virgin, 1974
Henry Cow, Concerts, 2 LP Compendium, 1976, dal vivo e reg. BBC ‘75
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