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CERTEZZE, IPOTESI ED ENIGMI IN VENTI SECOLI DI STORIA

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CERTEZZE, IPOTESI ED ENIGMI IN VENTI SECOLI DI STORIA
CERTEZZE, IPOTESI ED
ENIGMI IN VENTI SECOLI
DI STORIA
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Un lenzuolo antico
La parola Sindone (dal greco Sindon, lenzuolo) indica il telo conservato da oltre quattro secoli nella Cattedrale di Torino e ritenuto, per
costante tradizione, il lenzuolo funebre in cui fu avvolto il corpo di
Gesù Cristo, quando fu deposto dalla croce. È un lino di colore giallino,
realizzato in epoca molto antica. Le tradizionali dimensioni erano riportate come 436 cm di lunghezza e 110 cm di larghezza fino a tempi
recenti. Dal 1998 nelle pubblicazioni ufficiali le dimensioni erano date
come 437 cm per 111 cm. Dopo l’intervento dell’estate 2002, le nuove
misure comunicate ufficialmente sono 442 cm per 113 cm.
Filato resistentissimo a tutte le alterazioni degli agenti atmosferici, il
lino si ricava dalla corteccia del Linum usitatissimum, pianta alta da 50
a 110 cm, il cui fusto è fatto macerare in acqua; lo stelo è poi frantumato
per liberare le filacce dai frammenti legnosi. I fasci di fibre vengono
puliti, stirati e disposti uno di seguito all’altro; segue la torcitura, che li
trasforma in filo, e la sbiancatura con cenere o saponaria, che contribuisce anche al mantenimento della stoffa.
Al microscopio la fibra di lino appare come un tubo trasparente, con
canale interno. Ogni filo del tessuto è composto di 70-80 (ma anche
100-120) fibrille. I fili usati per la realizzazione della Sindone sono filati
a mano: infatti, presentano un diametro variabile. A differenza dei filati
egizi, ritorti in senso antiorario (rotazione «S»), i fili della Sindone presentano l’opposta torcitura «Z». Questo elemento fa pensare ad una sua
origine siro-palestinese.
Irregolare anche l’intreccio del tessuto, realizzato su un telaio manuale a pedale molto rudimentale, che presenta salti di battuta ed errori;
ma, per l’epoca in cui fu confezionato, è da considerarsi una stoffa
raffinata. Infatti, la tessitura è a «spina di pesce» (3/1), che forma «strisce»
larghe circa 11 mm. Era questo un tessuto ricercato, destinato ad acqui11
renti ricchi. È da notare che la lavorazione a «spina di pesce» era già nota
nell’area mediorientale ai tempi di Gesù.
Pausinio (I secolo d.C.) precisa che il lino della Palestina è di un bel
colore giallo. Come tessuto, la Sindone può risalire benissimo al I secolo d.C., dato che in antiche tombe egizie (Beni Assan) si trovano raffigurati telai idonei a produrre tale tipo di stoffa. Nella necropoli di Antinoe
(Alto Egitto, inizio II sec. d.C.) sono stati trovati tagli di tela analoga a
quella della Sindone.
Nessuna traccia di fibre di origine animale è presente nel tessuto, per
il rispetto della legge mosaica che prescriveva di tenere separata la lana
dal lino (Deuteronomio 22,11).
La Sindone è formata da una grande banda di tessuto alla quale è
stata aggiunta una striscia larga circa 8 cm, presa dalla stessa balla di
stoffa. Tale striscia, però, è più corta della Sindone, da un lato di circa 16
cm e dall’altro di circa 36 cm; in queste zone è, perciò, visibile la tela di
supporto su cui è cucita tutta la Sindone.
Ai lati lunghi esterni del lenzuolo si trovano le cimose. Poiché sui lati
corti del telo, invece, non si notano né una «striscia iniziale» – che segnerebbe l’inizio del tessuto – né alla fine una «striscia finale», non si può
trattare di un tessuto realizzato proprio per una specifica destinazione.
Va contro di ciò anche il fatto che una striscia più stretta fu aggiunta per
raggiungere la misura della larghezza. Anche questo significa che il lenzuolo funebre non fu confezionato – come ci si potrebbe aspettare – da
un taglio di stoffa adatto nella larghezza desiderata, ma che è stato
tagliato proprio in vista di una precisa utilizzazione. Sia la larga banda di
stoffa sia la stretta striscia aggiunta hanno da un lato una cimosa e ad
ognuno degli altri lati un orlo del taglio. Questi orli del taglio di entrambe le strisce di stoffa sono uniti da una cucitura per tutta la lunghezza.
Il tessuto e la lavorazione del lenzuolo funebre di Torino non lasciano alcun dubbio sulla sua produzione professionale. Questo telo non è
stato né tessuto in un telaio domestico, né cucito da una mano non
qualificata. Abbiamo davanti a noi un telo di lino di grande valore, che,
con tutta probabilità, è nato come articolo a metraggio su un telaio
molto largo, come parte di un tessuto largo da due a tre volte tanto.
Potrebbe trattarsi di una costosa merce di importazione proveniente da
manifatture dell’Egitto e della Siria, le cui fabbriche di tessuti nell’anti12
chità erano superiori a quelle della Palestina. In ogni caso questo lenzuolo funebre fu cucito con cura da una mano professionale ricavandolo da un articolo a metraggio. Sia la cucitura longitudinale che l’orlatura
dei lati corti sono stati lavorati con uguale competenza, il che chiaramente depone a favore di una realizzazione del lenzuolo funebre in
un’unica fase di lavoro.
È documentata sia la presenza della struttura del tessuto spinato 3/1
attraverso il ritrovamento di tali tessuti a Krokodilô (Egitto, Mar Rosso)
risalenti al periodo 100-120 d.C., sia la speciale tipologia della struttura
della cimosa per il periodo intorno alla nascita di Cristo, nei ritrovamenti di tessuti a Masada. I ritrovamenti degli scavi di Masada in Israele
hanno fornito una grande quantità di frammenti di tessuto, che negli
anni Novanta sono stati esaminati approfonditamente. Le ricerche forniscono importanti informazioni sulle strutture dei tessuti e sulla loro lavorazione per capi di abbigliamento durante il periodo compreso tra il
40 a.C. e la caduta di Masada, nel 74 d.C.
La cucitura longitudinale del telo sindonico non è usuale. Fu scelto
un tipo di cucitura che aveva lo scopo di renderla il più possibile invisibile dal lato superiore; un ulteriore argomento a favore della professionalità con cui fu progettata ed effettuata la realizzazione del lenzuolo
funebre. La cucitura fu eseguita dal lato inferiore e i punti, apposti con
estrema cura, sono a stento visibili dal lato superiore: la cucitura qui
rimane piatta e invisibile, mentre sul lato inferiore c’è sulla stoffa come
un rigonfiamento.
Anche per questa particolare struttura della cucitura longitudinale si
trovano confronti con frammenti di tessuto dai citati ritrovamenti di
Masada. Dunque il tessuto di lino del lenzuolo funebre di Torino non
mostra, né dal punto di vista della tecnica del tessuto né dalla cucitura,
alcun segnale che possa testimoniare contro la sua originalità quale
prodotto di alto valore di una manifattura del I secolo d.C.
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Uno sguardo d’insieme
Osservando la Sindone vediamo un insieme di segni che occorre
analizzare e distinguere per approfondire la conoscenza della reliquia.
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A colpo d’occhio si notano due righe scure che la percorrono in tutta la
sua lunghezza: sono gli effetti di un incendio, divampato nella notte tra
il 3 e il 4 dicembre 1532, in cui la Sindone rischiò di andare distrutta. In
quell’epoca la Sindone veniva conservata ripiegata entro una teca di
argento nella Sainte Chapelle del Castello di Chambéry, allora capitale
del Ducato di Savoia.
L’incendio arroventò la parte più esposta della teca, che strinò le
pieghe più vicine. Si formarono così le due righe scure nel senso della
lunghezza. Una parte della teca fuse e si provocarono alcuni fori simmetrici che sono stati successivamente ricoperti da toppe triangolari, applicate dalle Clarisse di Chambéry nel 1534. Le suore, inoltre, fissarono la
Sindone su una tela d’Olanda di supporto. Nel 2002 tutti i rappezzi sono
stati asportati e i fori sono stati lasciati scoperti. Sul retro della Sindone
è stata cucita una nuova tela, che risale a una cinquantina d’anni fa.
Fra le due righe scure, e anche al loro esterno, ci sono alcune macchie a forma di losanga o semi-losanga, sfumate: sono aloni provocati
da acqua, formati dal materiale che l’acqua ha trasportato da zone bagnate precedentemente, fino al punto in cui si è fermata.
Quanto ai segni dello specifico messaggio della Sindone, questi sono
leggibili essenzialmente nella zona che sta fra le due righe scure lasciate
dall’incendio nel senso della lunghezza del telo: qui distinguiamo, per quanto
sfumata, la doppia impronta, frontale e dorsale, di un corpo umano.
La Sindone è un oggetto unico, accompagnato nel tempo da una
radicata tradizione che lo proclama telo funebre di Gesù Cristo; numerosissimi dati rilevati da esso sono compatibili con la sua autenticità.
Vediamo, allora, quali tracce ha lasciato di sé nella storia questo lenzuolo così inconsueto.
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Dalla Francia a Torino
Per quanto riguarda gli ultimi secoli, la documentazione della Sindone è ampia e continua. Nel 1356, infatti, lo stesso lenzuolo che oggi è a
Torino fu esposto a Lirey, nella Francia del Nord, per iniziativa di un
cavaliere, Geoffroy de Charny, che però non rivelò mai come ne fosse
venuto in possesso.
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Il 22 marzo 1453 Marguerite de Charny, che aveva ereditato la Sindone da suo nonno Geoffroy, consegnò la Sindone ad Anna di Lusignano,
moglie del duca Ludovico di Savoia. Il sacro lino rimase in possesso dei
Savoia fino alla morte del re Umberto II (1983), quando per sua volontà
testamentaria fu donato al Papa.
Tre avvenimenti principali di questo periodo sono l’approvazione
della Messa e dell’Ufficio proprio della Sindone da parte di Papa Giulio
II, che ne permise il culto pubblico (1506), l’incendio di Chambéry (1532)
e il trasferimento della Sindone a Torino, ad opera del duca Emanuele
Filiberto, in occasione del pellegrinaggio di san Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano (1578).
Il 1º giugno 1694 la Sindone fu sistemata definitivamente nella Cappella dell’architetto Guarino Guarini, annessa al Duomo di Torino. Un
altro momento rilevante è la prima fotografia che fu scattata alla reliquia. Il negativo rivelò l’inversione di chiaroscuro nell’impronta corporea, facendola apparire in tutti i suoi dettagli e dando inizio all’indagine
scientifica sulla Sindone.
Il 25 maggio 1898 cominciava a Torino, in occasione dell’Esposizione
di Arte Sacra, un’ostensione pubblica della Sindone che avrebbe richiamato, durante i suoi otto giorni di durata, quasi un milione di persone,
spinte da curiosità e da desiderio di venerazione.
Il salesiano Natale Noguier de Malijay, professore di fisica e chimica,
ebbe l’idea di fotografare la Sindone e la fece sottoporre al re Umberto
I. Il quale, dopo un primo parere negativo, acconsentì.
Venne incaricato dell’esecuzione l’avvocato e fotografo Secondo Pia;
l’impresa, con le attrezzature tecniche a disposizione a quei tempi, era
tutt’altro che semplice da portare a termine. Il primo tentativo, compiuto il 25 maggio stesso, fallì a causa dell’eccessivo calore delle lampade
di illuminazione, che spaccò gli schermi di vetro smerigliato.
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La rivelazione della fotografia
Al secondo tentativo, che ebbe luogo tre giorni dopo fra altre difficoltà, Pia riuscì ad eseguire due pose senza incidenti. Portò subito le lastre
nel laboratorio fotografico di casa sua, dove le collocò in una soluzione
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di ossalato di ferro. Poco dopo cominciarono a rivelarsi i primi contorni,
poi, a mano a mano, tutto il resto, sempre più nitido e ricco di particolari. Con sua grande sorpresa, Pia si accorse che l’immagine sulla lastra
era molto più nitida e comprensibile di quella presente sulla Sindone
stessa.
Così rievoca l’evento lo storico Ian Wilson: «Nella notte del 28 maggio,
Pia riuscì ad impressionare due lastre – i grandi negativi di vetro che
venivano usati allora per fotografare – quindi tornò in fretta nella sua
camera oscura per svilupparle.
Data l’immagine della Sindone, di per sé sfumata e spettrale, Pia si
aspettava che qualsiasi cosa egli avesse cercato di fissare sulla lastra
fotografica negativa, anch’essa necessariamente uno spettro dell’originale, sarebbe stata ancor più difficile da riconoscere. Nulla, perciò, lo
aveva preparato allo shock che lo aspettava quella notte. Man mano che
sotto lo sviluppo le caratteristiche della Sindone cominciarono ad apparire (il panno – ora nero – e i segni delle bruciature dell’incendio del
1532 – che apparivano bianchi), egli notò un cambiamento straordinario nella doppia impronta dell’immagine sindonica. Per la prima volta
era possibile vedere, in rilievo naturale, con chiari e scuri realistici, come
in una vera fotografia, che il corpo era ben proporzionato e di una
conformazione impressionante. Le macchie sanguinosimili, apparendo
bianche, assunsero anch’esse un aspetto di stupefacente realismo, come
di ferite alle mani, ai piedi, al torace e da una corona sulla testa. Invece
del volto da gufo, simile ad una maschera, il negativo fotografico rivelava un atteggiamento di impressionante maestà, con gli occhi chiusi per
la morte. Come Pia fu indotto a credere in quel momento e per il resto
della sua vita, l’immagine del negativo deve essere l’aspetto che il corpo
di Cristo aveva effettivamente, quando è stato deposto nella tomba. In
qualche modo la stessa Sindone era una specie di negativo fotografico,
che diventava positivo quando la macchina fotografica ne invertiva il
chiaroscuro.
Quale che sia la validità di questa interpretazione, è fuor di dubbio
che la scoperta di Pia non era lo scherzo del diciannovesimo secolo o il
ghiribizzo di tutta una generazione. Il fotografo professionista italiano
Giuseppe Enrie nel 1931 riprese una nuova e più determinante serie di
fotografie, che comprendeva particolari del volto e fotografie ravvicinate
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delle macchie di sangue. Nel 1969 e nel 1973 furono scattate parecchie
fotografie e nel 1978 milioni di visitatori – alla lettera – nell’ostensione
di quell’anno, poterono usare liberamente i loro apparecchi fotografici.
Ogni perfezionamento tecnico della fotografia in bianco e nero ha rivelato con chiarezza sempre maggiore le caratteristiche del negativo».
Un altro scrittore, John Walsh, così descrive quel momento emozionante: «Quel che vide gli fece tremare le mani e la lastra bagnata scivolò,
rischiando di cadere a terra. Il volto con gli occhi chiusi aveva acquistato una realtà stupefacente».
Pia stesso affermerà: «Rinserrato nella mia camera oscura e assorto
nel mio lavoro, provai un’emozione fortissima allorché, durante lo sviluppo, vidi apparire per la prima volta, sulla lastra, il Santo Viso, con
tale chiarezza che ne rimasi stordito». Nel ricordare quegli istanti, nel
rivivere la trepidazione che l’aveva preso, facendolo tremare, gli occhi
del fotografo torinese si inumidivano di commozione.
«L’immagine maculata – scrive ancora Walsh – che sulla reliquia era
diffusa e piatta, risaltava ora come il ritratto di un corpo reale, i cui
contorni erano indicati da minime gradazioni di sfumatura. Il volto,
che sul telo appariva bizzarro, era divenuto il ritratto armonioso e riconoscibile di un uomo con la barba e con lunghi capelli. Dai lineamenti
trasparivano le emozioni fissate dalla morte; era una fisionomia che
parlava di un’immensa pazienza, di una nobile rassegnazione. Anche
a occhi chiusi, il volto era soffuso di un’espressione che era impossibile
analizzare. E tutto ciò sulla lastra negativa! Il Pia ben sapeva che sulla
negativa si sarebbe dovuta trovare soltanto una ridistribuzione delle luci
e delle ombre in posizione inversa. Le zone chiare dovevano risultare
scure e viceversa, la destra doveva essere a sinistra e questa a destra.
Come risultato si sarebbe dovuta avere la solita grottesca caricatura dell’originale, destinata ad assumere un senso solo una volta stampata in
positivo. Invece qui, sulla negativa, c’era un’immagine positiva, reale
quant’altre mai il Pia avesse vedute».
L’avvocato torinese fece varie ipotesi su questo fenomeno, ma dovette «respingere ogni spiegazione diversa dalla più evidente: ciò che appariva sul negativo era esattamente quello che il suo apparecchio aveva
visto sul tessuto». A riprova di questo, fece una copia in positivo del
negativo e le confrontò: «Non c’erano più dubbi», conclude Walsh. «Quel17
l’incredibile ritratto esisteva nell’immagine a macchie. Benché le macchie brunastre presentassero sulla reliquia soltanto dei contorni casuali, esse dovevano formare in realtà un negativo o almeno possedere in
modo misterioso le qualità di un negativo».
«La scoperta fotografica della Sindone – affermava lo scrittore Paul
Claudel – è così grande, così importante, che non esito a paragonarla ad
una seconda risurrezione. Più che un’immagine, è una presenza. È un
negativo, come dire, una testimonianza nascosta, oserei dire un po’ come
la Sacra Scrittura, in grado di rivelare un’evidenza».
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Il ventesimo secolo
Durante la seconda guerra mondiale, la Sindone fu nascosta nell’Abbazia di Montevergine (Avellino) dal 25 settembre 1939 al 28 ottobre
1946. L’idea di collocare la reliquia in tale luogo fu del cardinale Luigi
Maglione, Segretario di Stato di Pio XII. Il cardinale Maglione era nativo
di Casoria (Napoli) e ben conosceva quel Santuario. Durante il trasferimento, la Sindone rimase a Roma per diciotto giorni a partire dall’8
settembre 1939 e fu custodita nella cappella del Palazzo Reale al Quirinale. Un’automobile della Questura (che, però, non era al corrente di
quale carico si trattasse) trasportò poi la reliquia da Roma alla Badia di
Loreto, ai piedi del monte sul quale si erge il Santuario. La Sindone fu
qui presa in consegna dall’Abate e dal Priore, che erano i soli dei frati a
parte del segreto. Furono loro a collocarla nel Coro di Notte, che era
dotato di un contraltare ribaltabile. Fu posta sotto l’altare, in una nicchia
nel muro maestro nascosta da un paliotto di legno. Solo al termine della
guerra, quando la reliquia fu estratta dal suo nascondiglio per riconsegnarla all’arcivescovo di Torino, fu solennemente mostrata ai frati, che
la baciarono devotamente.
Dal 16 al 18 giugno 1969 fu effettuata una ricognizione della reliquia
da parte di una commissione di studio nominata dal cardinale Michele
Pellegrino, Arcivescovo di Torino. La Sindone fu fotografata per la prima volta a colori da Giovanni Battista Judica Cordiglia.
La Sindone comincia ad essere conosciuta dal grande pubblico durante la prima ostensione televisiva in diretta, il 23 novembre 1973. In
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quell’occasione si procede ad una nuova ricognizione della reliquia e
vengono effettuati prelievi di polveri da parte del botanico svizzero Max
Frei. Viene anche prelevato un frammento di stoffa, che sarà poi studiato dall’esperto tessile belga Gilbert Raes.
Quasi quattro milioni di pellegrini giunsero a Torino nel 1978 per la
celebrazione del IV centenario del trasferimento della Sindone da Chambéry a Torino, solennizzato con un’ostensione pubblica dal 26 agosto
all’8 ottobre e un congresso internazionale di studio. Al termine dell’ostensione, dall’8 al 14 ottobre una cinquantina di scienziati e ricercatori di diverse nazioni, prevalentemente statunitensi appartenenti allo
STURP (Shroud of Turin Research Project), hanno allestito un attrezzato
laboratorio di ricerca fisico-chimica nel Palazzo Reale di Torino e hanno
condotto una serie sistematica di investigazioni sulla reliquia, cosa che
non era mai accaduta in passato. Effettuarono misure e analisi sulla
Sindone per centoventi ore consecutive, al fine di compiere un’indagine
scientifica multidisciplinare. I risultati di tale indagine fornirono ampie
conferme all’autenticità della Sindone.
Il successivo test, invece, suscitò molte perplessità. Il 21 aprile
1988 dalla Sindone fu prelevato un campione di tessuto per sottoporlo alla datazione con il metodo del radiocarbonio. In base a questa analisi, la Sindone risalirebbe al Medioevo, ad un periodo compreso tra il 1260 e il 1390 d.C. Le modalità dell’operazione di prelievo e l’attendibilità del metodo per tessuti che hanno subito vicissitudini come quelle della Sindone sono però ritenute insoddisfacenti da
un numero rilevante di studiosi. Infatti, l’incendio del 1532 può aver
modificato la quantità di carbonio radioattivo presente nella Sindone, alterandone così la datazione. Inoltre il microbiologo statunitense Leoncio Garza Valdés ha verificato la presenza di un complesso
biologico, composto da funghi e batteri, che ricopre i fili sindonici
della zona del prelievo come una patina e che non è eliminabile con
i normali sistemi di pulizia. Interessanti osservazioni sono state condotte anche dal chimico statunitense Raymond N. Rogers, il quale ha
riscontrato incrostazioni di coloranti e fibrille di cotone nel lino proveniente dalla zona del prelievo per l’analisi radiocarbonica, indizio
di un rammendo invisibile. Tutto ciò permette di ricondurre la datazione della Sindone al I secolo d.C.
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Il 24 febbraio 1993 il reliquiario contenente la Sindone venne temporaneamente trasferito dietro l’altare maggiore del Duomo di Torino per
consentire i necessari lavori di restauro della cappella guariniana. Il
reliquiario fu posto in una teca di cristallo con le pareti spesse 39 mm.
Nella notte tra l’11 e il 12 aprile 1997 un incendio provocò gravissimi
danni alla Cappella della Sindone. I Vigili del Fuoco furono, però, in
grado di avvicinarsi alla speciale teca di cristallo per romperla e salvare
la Sindone. Il 14 aprile una commissione di esperti, composta anche dal
cardinale Giovanni Saldarini, all’epoca Arcivescovo di Torino e Custode
della Sindone, esaminò lo stato del lenzuolo, constatando che non si era
verificato alcun danno.
Dal 18 aprile al 14 giugno 1998 si è tenuta un’ostensione pubblica
della Sindone per celebrare il centenario della prima fotografia scattata
dall’avvocato Secondo Pia tra il 25 e il 28 maggio 1898. Il 1998 si collocava, inoltre, a 1600 anni dal Concilio provinciale dei Vescovi della
Gallia ospitato a Torino da san Massimo, a 400 anni dall’istituzione della
Confraternita del Santissimo Sudario ed a 20 anni dalla precedente ostensione. Il Santo Padre Giovanni Paolo II si recava a Torino il 24 maggio,
sostando in preghiera davanti alla preziosa reliquia.
■
Ai giorni nostri
In occasione del Grande Giubileo del 2000, dal 12 agosto al 22 ottobre si è tenuta un’ostensione pubblica della Sindone. Una nuova teca è
stata realizzata per la conservazione del prezioso lino, che viene tenuto
disteso in presenza di un gas inerte.
Fra il 20 giugno e il 23 luglio 2002 la Sindone è stata sottoposta ad un
notevole intervento, che ha comportato la rimozione del restauro operato dalle suore Clarisse di Chambéry nel 1534. All’epoca, come già
detto, per riparare i gravi danni di due anni prima furono apposti trenta
rappezzi sui fori provocati dall’incendio e una tela d’Olanda sul retro
della Sindone come fodera di sostegno. Nel 2002 tutti i rappezzi sono
stati asportati e tutti i bordi carbonizzati dei fori sono stati raschiati via.
I fori sono quindi divenuti più grandi e sono stati lasciati scoperti. Sul
retro della Sindone è stata cucita, con aghi ricurvi e filo di seta, una
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nuova tela che risale a una cinquantina d’anni fa. Inoltre, è stata effettuata la scansione digitale completa sia sulla superficie, dov’è visibile
l’immagine dell’Uomo della Sindone, sia sul retro, che è tornato poi ad
essere nascosto dalla nuova fodera.
Infine, è stata realizzata una documentazione fotografica completa e
sono stati operati alcuni prelievi di materiale. Le motivazioni addotte dalla
commissione che ha operato riguardano la riduzione del problema delle
pieghe esistenti sul telo, la tensione irregolare e incontrollata provocata
dai punti di cucitura e la limitazione dei danni dovuti alla presenza di
residui carboniosi. Inoltre, le condizioni di pulizia della fodera erano ritenute assai preoccupanti e sotto le toppe si erano accumulati per quasi
cinque secoli polvere e detriti, oltre ai frammenti di tessuto carbonizzato.
Tutto il materiale raccolto è stato conservato in appositi contenitori.
L’intervento ha suscitato notevoli perplessità fra molti studiosi della
Sindone: infatti, non appariva necessario e urgente un intervento così
drastico. La decisione di compiere tale operazione è stata presa da un
gruppo molto ristretto di persone, senza una più ampia consultazione fra
gli scienziati e gli storici che da diversi anni si interessano di questa reliquia. La delicatezza e la perizia professionale delle operatrici, la dottoressa Mechthild Flury-Lemberg e la dottoressa Irene Tomedi, è indiscussa;
questo non vuol dire, però, che non si siano probabilmente perse diverse
possibili informazioni sull’oggetto. Si è raggiunta una pulizia impeccabile,
ma bisogna chiedersi se questo era l’obiettivo prioritario.
In merito alle tensioni delle cuciture, queste dovevano essere prima
misurate «cucendo» nel tessuto fibre ottiche con un particolare reticolo
(reticolo di Bragg). È legittima la preoccupazione per l’ulteriore indebolimento dell’antico telo bruciacchiato, privato della tela d’Olanda e delle
toppe, che lo sostenevano evitando la possibilità di qualsiasi lacerazione. È preoccupante pure la variazione di misure del lenzuolo: uno dei
lati lunghi è cresciuto di circa quattro centimetri e l’altro di circa otto.
Per distendere le pieghe sono stati applicati pesi di piombo e fra gli
strumenti usati è elencato un vaporizzatore a ultrasuoni. Lo stress della
manipolazione, fatta oltretutto a mani nude, è stato aggravato da più di
un mese di esposizione alla luce.
Nel filmato che documenta le operazioni si vede anche una lampada
a incandescenza convogliare luce sul telo senza nessuno all’opera. Chi
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ha visto la Sindone in altre occasioni la trova ora più inscurita. La rimozione del materiale carbonizzato e delle polveri ha comportato la perdita dell’opportunità di studiarli in situ; inoltre, la mescolanza del materiale carbonizzato con le altre particelle ha fatto perdere la possibilità di
uno studio separato. Sotto il profilo storico si teme pure la perdita delle
pieghe che potevano testimoniare il modo di conservazione della Sindone nelle epoche più antiche. Lo stesso restauro cinquecentesco che è
stato distrutto era una testimonianza storica, ora irrimediabilmente andata perduta.
■
La Sindone a Costantinopoli
Per i secoli precedenti, bisogna risalire al 1204: ci sarebbe, quindi, un
vuoto di quasi un secolo e mezzo prima dell’apparizione in Francia.
Occorre però precisare che in questo notevole lasso di tempo i segni di
conoscenza della Sindone ci sono, anche se non si sa dove si trovasse.
Se esaminiamo il punto di riferimento certo e documentato dal quale
partiamo, cioè Costantinopoli nel 1204, anche questo vuoto di centocinquant’anni sembra abbastanza spiegabile. Nel 1204 un cavaliere francese, Robert de Clary, è a Costantinopoli durante la IV crociata. Clary
stende un resoconto della spedizione, La conquête de Constantinople, e
fra le meraviglie di Costantinopoli prima della caduta in mano ai crociati
occidentali (14 aprile 1204), enumera anche la chiesa di S. Maria delle
Blacherne dove «si trova la Sydoine nella quale Nostro Signore fu avvolto
e ogni venerdì si innalza in tutta la sua altezza sicché ognuno può vedere la figura di Nostro Signore».
La testimonianza è chiara e inequivocabile. In più conclude: «Nessuno, né greco, né francese, ha mai saputo che ne fu di questa Sindone
quando la città fu presa».
Infatti, i crociati conquistarono e saccheggiarono Costantinopoli, mettendola a ferro e fuoco; quindi la Sindone, con tutto ciò che nella città vi
era di asportabile, passò dalle mani dei Bizantini a quelle dei Franchi.
Eppure i Franchi – tutti meno uno – avrebbero giurato con buona
ragione che loro la Sindone non l’avevano. Quell’uno, infatti, aveva
rubato la Sindone due volte in una sola occasione: ai Bizantini con il
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saccheggio della città e agli stessi Franchi non consegnando l’augusta
reliquia all’ammasso del bottino.
Il comando della spedizione, infatti, aveva stabilito che tutto venisse
conferito ad un deposito generale affidato al vescovo Garnier de Trainel, per andare poi ripartito equamente secondo certi criteri. Grande fu
il bottino ammassato: basti citare i cavalli di bronzo di S. Marco a Venezia; ma la Sindone non comparve né lì né altrove per centocinquant’anni.
Poiché erano stati derubati di questa reliquia sia l’Impero Bizantino
sia il Regno di Francia, al possessore due volte illegittimo non restava
altra soluzione che tenerla nascosta. Forse il mistero dei centocinquant’anni di silenzio è tutto qui.
Molti indizi fanno anche pensare che fu portata in Europa e conservata per un secolo e mezzo dai Templari, un ordine cavalleresco crociato.
Nel 1314 i Templari furono condannati al rogo come eretici, accusati
anche di un culto segreto ad un Volto che pare riprodotto dalla Sindone.
Uno di loro si chiamava Geoffroy de Charny ed era zio ed omonimo del
primo possessore della Sindone in Europa.
In un interessante documento del 1205, Teodoro Angelo-Comneno,
fratello di Michele I, Despota d’Epiro e nipote di Isacco II, Imperatore di
Bisanzio quando la città venne saccheggiata dai crociati, afferma che la
Sindone in quel momento si trova ad Atene e si appella a papa Innocenzo III per il recupero. Tre anni dopo Pons de la Roche dona ad Amadeus de Tramelay, Arcivescovo di Besançon, la Sindone che suo figlio
Othon de la Roche, Duca Latino di Atene, gli aveva inviato da Costantinopoli. Il 6 marzo 1349 durante l’incendio della cattedrale di Besançon
la reliquia scompare. Pochi anni dopo la Sindone appare a Lirey nelle
mani di Geoffroy de Charny. Sua moglie, Jeanne de Vergy, è una pronipote di Othon de la Roche.
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Il misterioso Mandylion
La Sindone è stata, dunque, a Costantinopoli fino al 1204. Ma in che
epoca vi era arrivata? Secondo molti studiosi, la Sindone arrivò a Costantinopoli sotto mentite spoglie. Nel 944 gli eserciti bizantini, nel cor23
so di una campagna contro il sultanato arabo di Edessa (oggi Urfa, in
Turchia), erano entrati in possesso del famoso Mandylion o immagine
edessena, detta più chiaramente Acheropita, cioè l’immagine-non-damani-fatta.
Si tratta di una strana immagine: è un volto umano senza sfondo né
altre figure di contorno, non è fatta con colori materiali, è sfumata, dà
nel complesso un’impressione piuttosto confusa e vi sono macchie di
sangue. Queste informazioni, contemporanee alla traslazione, vengono
da un personaggio che sapeva dipingere e quindi osservava l’immagine
con occhio esercitato: lo stesso imperatore Costantino VII Porfirogenito.
L’immagine gode già di una fama portentosa ed è il baluardo di Edessa contro i nemici; numerosi pellegrini, venendo dai territori di Bisanzio, si recano a venerarla nella chiesa che la ospita in terra musulmana.
Ma se l’immagine edessena è un ritratto, come può essere la Sindone, e
cioè un telo che misura oltre quattro metri?
In realtà questa immagine è la Sindone che Robert de Clary vedrà e
venererà a S. Maria delle Blacherne; solo che essa è tetradiplon e cioè
piegata quattro volte a formare otto strati, perciò si vede solo il volto. In
una certa epoca ciò viene notato e capito: spiegato il telo, ecco la Sindone come è conosciuta attualmente. Prova ne sia il fatto che oltre a varie
testimonianze, quale quella dello Pseudo-Costantino (il sermone composto per ordine di Costantino VII Porfirogenito) e un’altra di Nicola
Mesarites (un sermone in cui l’immagine edessena viene descritta con le
caratteristiche sopra indicate), da un certo momento in poi, nelle scene
di sepoltura, Gesù non viene più raffigurato avvolto in fasce come si
usava per le mummie, ma appare nudo, sopra un lungo lenzuolo, con
particolari anatomici apparentemente anomali come nella Sindone (pollici non visibili, indice e medio di pari lunghezza ecc.). Sono le scene
cosiddette di lamentazione o di unzione.
Non è una variante casuale: anche la storia dell’arte, indipendentemente da ogni interesse per la Sindone, rileva questa significativa variazione nelle rappresentazioni artistiche della Passione, soprattutto in Oriente. Contemporaneamente assistiamo ad un rifacimento di certe antiche
ed enigmatiche tradizioni in Occidente; un esempio valga per tutti.
Gervasio di Tilbury compone verso il 1212 gli Otia imperialia per
l’imperatore Ottone IV, richiamandosi agli «archivi di un’antica autori24
tà». Niente di più vero, perché negli Otia imperialia troviamo il riassunto di un intervento di papa Stefano III in un sinodo a favore della
legittimità dell’uso delle immagini sacre. Però l’intervento di Stefano
III è del 769 e parla del volto del Signore; nel 1212 Gervasio di Tilbury
parla della «figura del volto e di tutto il corpo». Evidentemente papa
Stefano III ai suoi tempi parlava della Sindone come era nota a Edessa
(Mandylion), mentre Gervasio di Tilbury manifesta di conoscere bene
la situazione che si aveva a Costantinopoli; ma poiché non sono che
due momenti di una sola vicenda, Gervasio di Tilbury aggiorna il testo
antecedente.
Altro esempio: verso il 1140 il monaco Orderico Vitalis scrive nella
sua Historia Ecclesiastica qualcosa riguardo al dominio dei crociati occidentali su Edessa. Fra gli antichi sovrani della città, Orderico nomina il
toparca Abgar, «al quale il Signore Gesù mandò una lettera santa e un
telo prezioso con il quale si era asciugato il sudore del volto e nel quale
brilla l’immagine dello stesso Salvatore dipinta in modo meraviglioso,
che presenta agli sguardi l’aspetto e la statura del corpo del Signore».
Quindi documenti storici e iconografia presentano nello stesso tempo la stessa radicale innovazione. Ed è per questo che un dato corrobora l’altro in favore della tesi: Mandylion = Sindone.
Frattanto la Sindone aveva segnato la pietà cristiana con la diffusione
degli epitaphioi, riproduzioni su tela dell’immagine frontale sindonica,
che nel Venerdì Santo venivano esposte nelle chiese allo scopo di celebrare la morte del Signore, come il presepio ne celebra la nascita.
Riguardo all’immagine edessena, è noto quando è arrivata solennemente a Costantinopoli (la chiesa ortodossa ancora festeggia con apposita liturgia l’anniversario di quel 16 agosto 944), ma non si sa cosa ne
sia avvenuto in seguito. Invece della Sindone sappiamo quando è stata
asportata dalla stessa città, ma si ignora quando vi sia arrivata; le due
immagini hanno in comune talune caratteristiche che fanno pensare
subito ad un unico oggetto: la Sindone. Considerato tutto questo, l’identificazione del Mandylion con la Sindone piegata quattro volte non sembra davvero azzardata.
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