Medicina al femminile: la salute della donna nei secoli *
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Medicina al femminile: la salute della donna nei secoli *
Medicina al femminile: la salute della donna nei secoli * VITTORIO A. SIRONI Donne senza storia e senza medicina Per secoli le donne non hanno avuto una storia e non hanno avuto una medicina. Votate al silenzio della riproduzione e allo svolgimento della funzione materna nell’intimità della casa, protagoniste nascoste di una realtà che non valeva la pena di essere considerata né raccontata, la storia le ha a lungo ignorate. Gli stessi censimenti della popolazione - con la sola rara eccezione delle regine, delle nobili di alto rango e delle ereditiere - hanno di fatto ignorato le donne. Solo nel III secolo dopo Cristo Diocleziano, per motivi fiscali, non per altro, ordinò anche il loro computo (1). Questa “mancanza di presenza nella storia” ammetteva solo due eccezioni: la mitologia e la religione. Nei grandi miti classici le divinità femminili incarnavano da protagoniste la generazione e la fecondità (Hera-Giunone), la sessualità e il piacere (Afrodite-Venere), la verginità e l’aggressività (Artemide-Diana) (2). Nell’ambito religioso, nella dimensione pagana le sacerdotesse erano autorevoli mediatrici tra l’uomo e la divinità e nella cultura cristiana due donne diverranno le “protagoniste”, in negativo e in positivo, del travagliato rapporto tra Dio e l’umanità: Eva, la prima peccatrice, e Maria, la Madonna, la “super-donna” a cui viene poi affidato il compito di rendere possibile il riscatto dell’umanità attraverso l’incarnazione del Salvatore. La donna-madre Anche la medicina, nonostante antiche testimonianze riguardanti le malattie femminili, per lungo tempo non si è mai occupata in modo adeguato della salute delle donne. Quando ha incominciato a farlo il suo interesse si è rivolto essenzialmente alle problematiche fisiologiche e patologiche legate alla * Relazione presentata al convegno Donna e salute: interesse pluridisciplinare e pensiero transculturale, Milano, 15 marzo 2003 La madre (scultura di Virginio Ciminaghi) gravidanza, al parto, all’allevamento. La sola caratteristica qualificante riconosciuta alla donna dalla società e dalla medicina era quella riproduttiva. In questa visione della donna come macchina per la riproduzione e l’allevamento prevaleva un ruolo di subalternità fisiologica, speculare a quella subalternità familiare e sociale che le riservava la comunità. Per secoli dominò l’antico concetto biologico di Aristotele secondo cui la causa motrice, cui appartengono l’essenza e la forma (il maschio), era 29 migliore e più divina per natura della materia (la femmina). In quest’ottica la riproduzione era vista come una necessità della vita in base alla quale l’essenza doveva farsi deteriore materializzandosi. Si comprende allora perché il parto, elemento fondamentale di questo deterioramento necessario, restava escluso dagli interessi della scienza astratta e quindi anche della medicina. Le pratiche legate alla riproduzione (gravidanza, parto, allevamento) e in genere quelle relative alla cura del corpo femminile erano delegate al sapere di altre donne (comari e mammane), figure sagge ed esperte, che - come suggerisce il significato letterale dei vocaboli (co-mare=come una madre e mamma-ana=pari a una mamma) - erano capaci di prendersi cura del corpo delle proprie simili, come una mamma si prende cura del suo bambino. Donne sagge ed esperte, provviste di una propria esperienza-sapienza alle quali era demandata la pratica dell’assistenza al parto. In ambito più teorico, pur confrontandosi nei secoli le ipotesi filosofiche e le osservazioni relative al corpo delle donne con le concezioni della medicina classica di Ippocrate e di Galeno, ancora in pieno Medioevo il dimorfismo sessuale restava un mistero sia per il biologo che per l’anatomista. Persisteva, estremamente accesa, la controversia fra i seguaci di Aristotele, che definivano la femmina come il ricettacolo passivo dell’embrione, e gli eredi di Ippocrate che la consideravano invece come un corpo doppiamente attivo, per il seme e per il nutrimento, che rendeva possibile la formazione dell’embrione. Gli studi anatomici erano considerati superflui perché, come affermava Galeno, la donna si riduceva in fondo a essere un’introversione del corpo maschile (3). Sulla donna si apre, in questo periodo, un dibattito ontologico - destinato a durare sino a Seicento inoltrato - che giunge a porsi questioni del tipo se la donna abbia un’anima, se debba essere considerata un essere umano o una via di mezzo tra l’animale e l’uomo. “Con l’aiuto di Dio - scrive nel 1586 il medico francese Arnault de Villeneuve nel suo testo Praxis medicinalis - mi occuperò qui di ciò che concerne le donne, e poiché il più delle volte le donne sono delle bestie cattive, tratterò in seguito del morso degli animali velenosi” (4). Preceduta dalla scoperta del corpo umano da parte 30 degli artisti (pittori e scultori come Leonardo da Vinci, Michelangelo, Brunelleschi, Raffaello), la “rivoluzione anatomica” operata da Andrea Vesalio con la pubblicazione, nel 1543, del suo De humani corporis fabrica, riccamente illustrato con disegni tratti dal vero di dissezioni anatomiche di un allievo di Tiziano, irrompe anche in ambito medico. La scoperta del corpo femminile da parte dell’anatomia Anche il corpo femminile, con le sue peculiarità anatomiche, viene “scoperto” dalla medicina. Il frontespizio dell’opera vesaliana, costituito dall’illustrazione di una lezione d’anatomia sul corpo di una donna, è una testimonianza significativa al riguardo. Ma le tavole dei capitoli inerenti agli organi della generazione sottolineano anche sino a che punto gli anatomisti continuano a essere influenzati dalla concezione galenica per cui la donna era l’introversione dell’uomo e il suo apparato riproduttivo era come quello maschile: quest’ultimo si sviluppava all’esterno quell’altro si sviluppava all’interno. Prigionieri di questa analogia, nelle tavole, l’utero e il collo dell’utero presentano una sorprendente similitudine con l’apparato uro-genitale dall’uomo. Anche il volume di Mercurio Scipione, La commare o riccoglitrice (Venezia, 1596), il primo testo pratico per le levatrici, riproduce un disegno con le stesse caratteristiche (5). La scoperta del corpo femminile da parte dell’anatomia, nonostante questi limiti, apre un dibattito in ambito medico sulla donna. Il medico non può accontentarsi di descrivere solo le caratteristiche anatomiche dello specifico femminile: ha bisogno di capire meglio questa “imperfezione” della natura. Lo fa, ovviamente, all’interno della teoria dei quattro umori (bile gialla, bile nera, sangue e flegma) destinata a restare sino al Seicento, il fondamento del pensiero medico. La donna, di umore freddo e umido, possiede organi spermatici più freddi e più molli di quelli dell’uomo e poiché il freddo ha proprietà di contrarre e restringere, tali organi restano interni. Ciò spiega non solo l’anatomia, ma anche una delle particolarità della fisiologia femminile: il non funzionamento. Il sintomo più significativo ne è il flusso mestruale, a cui viene attribuito un potere misterio- so e malefico. Il quadro umorale tipico della donna ne spiega anche le caratteristiche psicologiche (debole, collerica, gelosa, bugiarda) così differenti da quelle dell’uomo (coraggioso, giudizioso, ponderato, efficiente). Nello zoomorfismo del tempo la donna è una pantera o una pernice, l’uomo è il leone o l’aquila. La descrizione che la medicina fa del corpo femminile (imperfetto, impotente, debole) si adatta perfettamente alla visione gerarchica delle creature prima accennata per cui la donna si pone tra l’animale e l’uomo. La donna-utero È tuttavia una visione che, a un certo punto, non si può più accettare né giustificare. Nel dibattito tra i medici filosofi e i protodeontologi della medicina, tra gli anatomisti e i chirurghi, la donna trova una sua identità specifica: non è più esaminata e vista come copia difettosa del maschio, ma come detentrice di un corpo completo e singolare. Il modo migliore per salvaguardare, in ambito medico, la femminilità e proteggere la donna da una visione riduttiva della sua identità, consiste nello spiegare la specificità dell’organo che la definisce nella sua globalità. L’utero è il ricettacolo in cui si forma “una piccola creatura di Dio”: esso è in connessione con le altri parti del corpo, attraverso i nervi e il flusso sanguigno, esso è l’organo più necessario e nobile, l’organo detentore perciò di tutta la femminilità. L’importanza che medici e anatomisti gli attribuiscono condanna la donna a restare a lungo prigioniera dello strano organo che abita in lei. L’utero, la matrice nascosta, sede della fecondazione, della gestazione, ha il valore potente e misterioso di un simbolo. L’utero o matrice diventa così la vera potenza interna: la donna-madre è in realtà la donna-matrice. In proposito una significativa chiave di lettura semeiologica ed epistemologica ci viene fornita da Paracelso. Nel suo libro Buch Matricis l’utero è denominato die mutter - matrice - così come con lo stesso termine, die mutter - madre, - è chiamata la donna. “L’ambivalenza della terminologia - ha scritto al riguardo Evelyne Berriot-Salvadore - è in questo caso significante: il vaso che concepisce e protegge il feto è comunemente designato col nome di matrice o madre perché la donna è costruita per la necessità di quest’organo” (6). Annota ancora la storica francese: “Dal momento in cui chirurghi e anatomisti prestano al corpo della donna un’attenzione di cui la teoria del ‘maschio incompleto’ l’aveva privata, la differenza di fronte alle manifestazioni ancora incomprensibili della femminilità li spinge ad assumere atteggiamenti che, ancora una volta, rinchiudono la donna in una tipologia” (7). Dopo la donna-mozza, la donnaimperfetta, la donna-utero. Per la maggior parte dei medici quest’organo che definisce l’identità femminile permette di spiegare una fisiologia e una psicologia estremamente variabili e la predisposizione alla patologia. La donna è un essere che si ammala facilmente, che bisogna cercare di soccorrere perché riesca ad accettare la sua condizione d’inferiorità senza ribellarsi. Questa immagine dell’utero come elemento causa prima delle qualità e dei mali femminili è in realtà rielaborazione d’antica concezione: discende dalla interpretazione che nei secoli è stata data a un passaggio del Timeo di Platone: “L’organo genitale degli uomini, naturalmente indocile e imperioso, come animale sordo alla ragione, spinto da furiose passioni si sforza di dominare su tutti: e per questa stessa cagione nelle donne la cosiddetta matrice […] somiglia a un animale desideroso di far figli, che, quando non produce frutto per molto tempo dopo la stagione, si affligge e si duole, ed errando qua e là per tutto il corpo e chiudendo i passaggi dell’aria e non lasciando respirare, getta il corpo nelle più grandi angosce e genera altre malattie d’ogni specie, fino a che il desiderio e l’amore dell’uno e dell’altro sesso non li accoppiano insieme” (8). Alla luce di questa visione della fisiologia, della psicologia e della patologia femminili si comprende come di fatto, per molti secoli, la terapia delle malattie delle donne si basava sull’idea che la donna era succube del proprio sesso. La storia di una malattia come l’isteria è, da questo punto di vista, esemplare. Vantaggi e limiti della medicalizzazione della salute della donna Il dibattito medico introdotto, a partire dal Cinquecento, dalla scoperta dell’utero apre la strada anche alla medicalizzazione del parto e della salute della 31 donna: è insieme una vittoria e una sconfitta. Se da un lato si arriva a riconoscere il giusto ruolo della donna nel processo riproduttivo (grazie anche alle osservazioni dei microscopisti olandesi Leeuwenhoek e de Graaf) e si creano le condizioni per una riduzione della mortalità e della sofferenza da parto, inizia anche un processo di “espropriazione del corpo della donna” e uno “svuotamento delle sapienze femminili” che porterà poi a una subalternità di levatrici e ostetriche al “potere” medico. Alle abili mani femminili della Commare o riccoglitrice (come Scipione Mercurio la definisce nel suo libro che vuole essere il primo manuale in volgare rivolto a queste “raccoglitrici” dei frutti della gravidanza in una medicina che era “agricoltura d’uomini” al pari dello stesso orizzonte culturale a cui queste “operatrici della salute” appartenevano), alle loro delicate mani - le sole a cui era consentito l’accesso alle parti pudende -, subentrano quelle, più rudi e spesso, per lunghi secoli, ancora troppo poco abili, dei medici uomini. Mani che si riveleranno, in un futuro non lontano, talvolta addirittura letali, come quelle infette degli ostetrici viennesi che esplorando internamente le puerpere sono la causa della micidiale febbre puerperale, come dimostra nel 1847 Ignaz Philip Sommelweis. La medicalizzazione del parto porta con sé, se non l’eliminazione, almeno una iniziale riduzione del dolore e della morte di parto. La donna-lavoratrice Tra Settecento e Ottocento, tra i lumi della ragione e i fuochi della rivoluzione, mentre migliorano le conoscenze mediche relative anche alle patologie femminili, alla gravidanza e al parto, va emergendo il modello di uno Stato sempre più attento alla popolazione e alla natalità. In un Sistema completo di polizia medica come quello ipotizzato nel 1786 da Johan Peter Frank nella Lombardia austriaca, un controllo sanitario che spazia “dalla culla alla tomba” prevede anche la tutela sanitaria della gravidanza e della prima infanzia. Non è ancora la “liberazione” della donna, ma è una sua iniziale emancipazione. La donna diventa un “soggetto di salute”, anche se resta ancora un “oggetto della medicina”. Sul finire dell’Ottocento e all’inizio del Novecento 32 una tutela più radicale della salute e una maggiore consapevolezza nel rivendicare i propri diritti sanitari e la propria libertà le donne le chiedono attraverso la militanza sindacale e politica nei movimenti dei lavoratori. Sono i barlumi di quella “rivoluzione femminista” che troverà il suo compimento a Novecento inoltrato. Nel Novecento questa “consapevolezza sanitaria” della donne diventa diritto, che si aggiunge - nel corso del secolo - all’acquisizione graduale di altri diritti civili e politici (basti pensare a quello del voto). La donna-individuo L’evoluzione e la crescita della dimensione tecnologica della medicina portano da un lato al completamento del processo di medicalizzazione non più solo della sfera riproduttiva ma di tutte le situazioni patologiche della donna. Questo processo conduce alla realizzazione di strumenti che consentono, per la prima volta alla donna, di essere l’artefice di una parte del proprio destino sanitario: la pillola (metà degli anni ‘50) porta alla possibilità di separare sessualità e riproduzione; le tecniche di fecondazione assistita in vivo o in vitro (anni ‘70-‘80) consentono di superare la sterilità e rendono la donna autonoma - o quasi - nel processo riproduttivo; l’uso di farmaci sostitutivi (anni ‘80) consente di modificare e prolungare i ritmi fisiologici della menopausa; screening semplici, sicuri e precoci permettono oggi di diagnosticare precocemente e di guarire in alta percentuale i tumori tipici delle donne (utero, ovaio e mammella). Paradossalmente questa eccessiva tecnologia della medicina (che inizia nel primo Ottocento e che prosegue la sua corsa, a velocità crescente, sino a oggi), così efficace nel migliorare la salute - anche quella della donna -, ha determinato un impoverimento della componente antropologica che da sempre ha caratterizzato la prassi medica. Mentre è andata crescendo e perfezionandosi l’attenzione alla malattia (come entità nosografica astratta), parallelamente è andata diminuendo l’attenzione al malato (alla malata). In questo contesto la medicina può essere tentata a un uso strumentale delle donne, offrendo prestazioni o farmaci rispondenti a bisogni “sanitari” più indotti che reali (uso estremo ed eccessivo della chirurgia e della medicina estetica, mirante a una esclusiva valorizzazione dell’aspetto fisico della donna; impiego esasperante dei mezzi farmacologici di controllo dei ritmi fisiologici, come la nuova pillola in grado di ridurre a soli 4 cicli/anno le mestruazioni). Ciò induce talvolta smarrimento e più titubanze e timori che certezze. Questo fatto produce due effetti: da un lato la riscoperta, da parte femminile, del “prendere cura” (ed ecco allora il rifiorire dell’impegno e delle opere di volontariato in ambito sanitario); dall’altro la riscoperta del “prendersi cura” (ed ecco allora la tendenza della donna ad affidarsi, sempre più sovente, per il proprio benessere e per la propria salute, a medicine diverse, alternative a quella convenzionale, più vicine a quella attenzione umana da sempre ricercata). In conclusione, la salute della donna in funzione di modelli socio-culturali prevalenti vede inizialmente emergere il modello di “donna-madre” e poi di “donna-utero” per i quali è la medicina a usare la donna. Negli ultimi due secoli emergono i modelli di “donna-lavoratrice” e di “donna-individuo” dove invece è la donna che usa la medicina, diventando dapprima consapevole del proprio diritto alla salute e poi artefice ella stessa di gran parte del proprio destino sanitario. Ben attenta a “usare” e non a “farsi usare”. Note 1 - G. Duby, M. Perrot, Per una storia delle donne, in G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne in Occidente. L’Antichità, a cura di P. Schmitt Pantel, pp. V-XVII, Laterza, Roma-Bari 2000. 2 - G. Cosmacini, Storia dell’ostetricia. Stato dell’arte dal Cinquecento all’Ottocento, Intramed Communications 1989, pp. 9-11. 3 - C. Thomasset, La natura della donna, in G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne in Occidente. Il Medioevo, a cura di C. Klapisch-Zuber, pp. 56-87, Laterza, Roma-Bari 2000. 4 - E. Berriot-Salvadore, Il discorso delle medicina e della scienza, in G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne in Occidente. Dal Rinascimento all’età moderna, a cura di N. Zemon Davis e A. Farge, p. 353, Laterza, Roma-Bari 2000. 5 - M. L. Altieri Biagi, C. Mazzotta, A. Chiantera, P. Altieri (a cura di), Medicina per le donne nel Cinquecento, Utet, Torino 1992. 6 - E. Berriot-Salvadore, op. cit , p. 362. 7- Ivi, pp. 362-363. 8 - La citazione di Platone, Timeo (Opere, vol. II), Laterza, Bari 1967, nella traduzione di C. Giarratano, è riportata in T. M. Caffarato, La ginecologia nei secoli, Minerva Medica, Torino 1985, p. 2. 33