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Delocalizzare non sempre conviene: il “reshoring” di Dolcetta

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Delocalizzare non sempre conviene: il “reshoring” di Dolcetta
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Delocalizzare non sempre conviene: il “reshoring” di
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Di Alessio Mannino il 10 lug 2014
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“reshoring” di Dolcetta
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Negli Stati Uniti, dove è un processo
avviato da tempo grazie al basso costo
dell’energia e agli incentivi statali, lo chiamano
“reshoring”: è il ritorno delle produzioni
delocalizzate all’estero. Ma anche in Italia
qualcosa si muove: sebbene sia ancora
«fenomeno contenuto, può essere il segnale di
un’inversione di tendenza», ha spiegato Marco
Stefano Dolcetta
Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison,
a Repubblica-Affari&Finanza. U n o s t u d i o
condotto da cinque università italiane, nell’abbracciare un periodo che va dal 2004 a
oggi, ha contato 79 aziende che aveva trasferito fabbriche nei Paesi emergenti e sono
tornate sul suolo italico o, in 12 casi, almeno in Europa (near-reshoring). Fra le prime
c’è anche la Fiamm di Montecchio Maggiore, presidente Stefano Dolcetta.
Il fenomeno è interessante, per quanto di nicchia. Anzitutto per le cause. La
prima è l’aumento vertiginoso delle spese di trasporto dovuto allo schizzare del prezzo
del petrolio, dai 20 dollari del Duemila ai 100 dollari al barile di oggi. La seconda è
l’incremento delle retribuzioni dei lavoratori stranieri, specialmente asiatici. La terza
riguarda la specificità industriale del nostro Paese, che nonostante politici da barzelletta
e corruzione da Terzo Mondo gode di grande fascino internazionale come patria della
manifattura d’eccellenza, di gusto “artigianale”. Ai nouveaux riches cinesi o russi piace
il made in Italy se è veramente made in Italy, fatto in Italia, e storcono il naso se
scoprono che invece è fatto dietro casa loro. Ecco perché il controesodo da noi è
limitato ai marchi del lusso e dell’alta moda.
Ma non del tutto. La multinazionale Fiamm, 600 milioni di fatturato e 12 impianti fra
America Europa e Asia, produce batterie per auto: ha chiuso lo stabilimento in
Repubblica Ceca e ha tenuto aperto il sito di Fucino in Abruzzo, dove ha assunto 110
nuovi dipendenti pagandoli il 20% in meno ma garantendo loro un’occupazione. «Pur
avendo un costo del lavoro nettamente inferiore rispetto all’Italia», ha detto Dolcetta al
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settimanale economico di Repubblica spiegando la decisione di abbandonare il Paese
centro-europeo, «avevamo forti inefficienze e un elevato turnover di personale che ci
creva difficoltà a fare formazione, col risultato di scarti elevati e produttività bassa». La
rivincita della qualità, col sacrificio salariale delle maestranze nostrane in cambio del
lavoro che prima mancava: un bilancio a segno positivo, nell’immediato. Che dovrebbe
indurre i nostri governanti a proteggere le nostre imprese se ri-localizzano, pensando
una buona volta in termini di interessi nazionali. I nostri interessi.
10-07-2014
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Tribunale, Ferrarin (M5S): ministro Orlando
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