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Veronica Menelao - Sogno di Prigioniero - Padis
VERONICA MENELAO SOGNO DI PRIGIONIERO TRE SENTIERI TRA ARCHITETTURA E COMUNICAZIONE Tesi di Dottorato - XVII CICLO Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Dipartimento di Sociologia e Comunicazione Scuola di dottorato in “Scienze della Comunicazione, Ricerca Avanzata, Gestione delle Risorse e Processi Formativi” Direttore: Prof. Alberto Abruzzese XVII CICLO SOGNO DI PRIGIONIERO TRE SENTIERI TRA ARCHITETTURA E COMUNICAZIONE Tutor: Prof. Sergio Brancato Dottoranda: Dott.ssa Veronica Menelao Commissione giudicatrice: Prof. Alberto Abruzzese Prof. Luciano Benadusi Prof.ssa Antonietta Censi NOTE SUL METODO 4 INTRODUZIONE 7 1. IL CINEMA E L’IMMAGINARIO 26 1.1 “La Fonte Meravigliosa”: Frank Lloyd Wright 27 Il bisogno di comunicare la propria solitudine intellettuale 1.2 “Batman”: Shin Takamatsu 35 La trasfigurazione della realtà attraverso il Sogno 1.3 “Truman Show”: Léon Krier 42 L'utopia dell'Eterno Presente 2. LA LETTERATURA E IL TEMPO 46 2.1 “Le Città Invisibili”: Aldo Rossi 47 La sospensione del Tempo e dello Spazio 2.2 “L'Aleph”: Frank O. Gehry 50 Involuzione ed Entropia negli spazi della Cultura 2.3 “L'isola di cemento”: Richard Rogers 53 L'Architetto e la Farfalla: Leggerezza per uno sviluppo [in]sostenibile 3. IL FUMETTO E LO SPAZIO 56 3.1 “Appleseed”: Euralille [R. Koolhaas, J. Nouvel, C. De Portzamparc, K. Shinoara, C. Vasconi] 57 Architettura e comunicazione totale per un progetto di “Città Futura” 3.2 “Blame!”: Giovanni Battista Piranesi 60 La Prigione come metafora del Corpo e della Struttura 3.3 “ Ghost in the Shell”: Massimiliano Fuksas e Toyo Ito 64 Nuovi significati nella Metropoli moderna: Vertigine e Trasparenza POSTILLA 73 1 APPENDICI Indice delle Figure 74 Filmografia 75 Bibliografia 90 Licenza 96 Per una migliore comprensione del testo: i nomi degli edifici e dei progetti sono in MAIUSCOLETTO i titoli dei film, dei libri e dei fumetti sono in corsivo le citazioni da film e libri trattati nel testo sono tra “” i riferimenti bibliografici sono tra «» I crediti dell’immagine di copertina sono di Matteo Pericoli [www.matteopericoli.com] 2 ai desideranti di luce 3 NOTE SUL METODO Questo lavoro seguirà un percorso dettato da un dialogo a più voci tra media e architettura. Articolato in tre parti distinte, cinema, letteratura e fumetto, metterà a confronto le tecniche dei linguaggi della comunicazione architettonica con quelli della comunicazione audiovisiva, secondo il filo conduttore della Metropoli, intesa come spazio fisico e simbolico. Verranno presi in esame per ciascuna sezione tre architetti o modi di intendere/interpretare la realtà metropolitana, e tre oggetti comunicativi. La tesi portante è che questi oggetti nel momento in cui vengono progettati, scelti e costruiti, rispondono ad un’esigenza comunicativa da parte del pubblico. Contenitori di significato da un lato, veicoli essi stessi di una percezione del mondo dall’altro, diventano protagonisti di un nuovo modello di consumo culturale. È proprio nel collegamento tra l’immaginario del pubblico e il costruito che si rintracciano le relazioni ormai strette tra architettura e media. Media ispiratori da una parte e ispirati alla realtà circostante dall’altra, fattore dovuto anche alla capacità degli architetti di comunicare il proprio sapere. Questo spunto si offre ad una lunga serie di riflessioni sulla visibilità che alcuni progettisti hanno ottenuto grazie alla notevole esposizione mediatica dei loro lavori. Per citare qualche esempio è il caso dell’AUDITORIUM ad opera di Renzo Piano e del GUGGENHEIM di Bilbao, realizzato da Frank O. Ghery. Due lavori di entità e realizzazione formale diverse tra loro, accomunati dal fatto che la presenza sui giornali di Piano e Ghery è aumentata in modo esponenziale, generando in tal modo un interesse anche per i loro lavori successivi. Il passo di questa tesi è stato volutamente introdotto sul rapporto tra cinema e architettura, proprio per comprenderne le influenze storiche e di costruzione della rispettiva immagine. La chiave di lettura per la parte filmica può essere quella 4 dell’ Immaginario. La riproposizione in chiave nostalgica di temi ed estetiche del passato ha avuto forti ripercussioni sull’architettura reale. In quest’ottica possono essere letti progetti come Seaside, la cittadina in cui è ambientato The Truman Show [1998], luogo realmente esistente e costruito inseguendo un fine non dichiarato: quello proposto da film come La vita è meravigliosa [1946] dove con, peraltro finto, ottimismo il Sogno Americano viene realizzato perfino in forma immobiliare. La decodifica aberrante dei segni della Metropoli, provoca quel senso di spaesamento dovuto all’organizzazione ambigua del messaggio rispetto al codice. La cosa rappresentata viene osservata non solo in modo diverso, ma cambia anche il metodo di interpretazione dei mezzi di rappresentazione e dei codici. Se il fine dell’immagine non è di rendere più vicina alla nostra comprensione la significazione che veicola, ma di creare una percezione particolare dell’oggetto, questo proposito viene sicuramente raggiunto da autori come Mead e Furst o architetti come Shin Takamatsu, che hanno cercato di sviare consapevolmente, l’attenzione dalla struttura narrativa per concentrarsi sulle valenze estetiche della metropoli e degli oggetti che contiene. L’operazione è riuscita maggiormente a Takamatsu perché il suo progetto non ha mai aspirato ad essere totale/totalizzante, ma semplicemente a violare il ritmo del contesto urbano. La violazione della Los Angeles del 2019 e in misura maggiore di Gotham City, diventa invece regola, canone, perdendo tutta la sua forza trasgressiva. La lettura lineare del romanzo e ipertestuale del fumetto giapponese entrano in gioco insieme al concetto di Tempo e Spazio della Metropoli contemporanea, attraverso i continui rimandi con il cinema. Il Tempo, visto come dilatazione anche visuale, si intreccia con il ricordo e la memoria, come nelle architetture di Aldo Rossi, così legate alle Città Invisibili e immaginarie di Calvino. Quando la dilatazione temporale non è più traccia del 5 passato, ma eternità senza scampo, il pessimismo quasi cosmico della tradizione della sci-fi si scontra con l’insostenibilità dei luoghi che abita. James Ballard ha descritto più volte abilmente le perversioni architettoniche delle Metropoli, la brutalità del cemento direttamente connessa con la ruvidità dell’animo umano. Quando il Tempo si è contorto in una spirale, involuta e senza aperture, in cui dominano solo le leggi dei numeri, le biblioteche iperreali di Borges hanno trovato la loro effettiva realizzazione nei nuovi spazi museali come il GUGGENHEIM di Bilbao. La città si è popolata di edifici indecifrabili, di presenze ambigue che hanno ridisegnato lo spazio urbano secondo mappe misteriose e nuove città nella città. Il passaggio dalla biblioteca borgesiana alle carceri piranesiane è stato breve. L’atemporalità di Borges prende forma nella struttura priva di corpo, Spazio nudo, in Blame!, fumetto rivoluzionario dal punto di vista stilistico di Tsutomu Nihei, privo di trama e personaggi ben definiti, groviglio scuro di allucinazioni mentali e estensioni del corpo. Lo Spazio della Metropoli del futuro, diviso tra terrain vague e megastruttura, tra ibrido e moderno ha generato ulteriori visioni/realizzazioni: la digitalizzazione del mondo contemporaneo, riletta attraverso il corpo trasparente e cibernetico della protagonista di Ghost in the Shell, così come in molti edifici delle megalopoli orientali da un lato; dall’altro il compimento dell’utopia di Sant’Elia, attraverso la costruzione della Città Perfetta, Euralille, frutto di sinergie tra Architettura, Politica e Scienza, e rivista attraverso la sua forma disegnata, in Appleseed di Masamune Shirow. 6 INTRODUZIONE Il rapporto tra la città e la sua rappresentazione filmica coincide con la nascita dell'apparato cinematografico, e se ne può individuare un primario punto di snodo con l’uscita contemporanea di Metropolis e Aurora nel 1927. Da quel momento la Metropoli ha subìto tante modificazioni nella sua struttura e nel suo significato, quante nella sua raffigurazione. Dalla visione insana e teatrale della città in Il gabinetto del Dottor Caligari [1920], si è passati in pochi anni alla rappresentazione distopica del futuro urbano in Metropolis e nel suo epigono inglese Vita Futura [1936]. Le possibili relazioni tra cinema e architettura sono state discusse soprattutto durante l’epoca del muto nella Germania della Repubblica di Weimar. Le aspettative da parte degli urbanisti sulle possibilità del nuovo medium di rappresentare il futuro della Metropoli erano molto forti. Alcuni architetti credevano fermamente nella rinascita dell’architettura grazie all’esperienza filmica, che permetteva la realizzazione di quelle utopie disegnate nei primi due decenni del secolo da artisti d’avanguardia come Bruno Taut, Antonio Sant’Elia, Tony Garnier. Questi architetti proponevano delle visioni totalizzanti della Metropoli, progettata con una notevole ricchezza formale intorno al concetto di distribuzione dello spazio. Il ruolo dell'Immaginario nella costruzione di questi ambienti venne così discusso da architetti d’avanguardia e scenografi molti anni prima che il Movimento Moderno ne facesse il proprio paradigma. Si può senza dubbio affermare che se l’architettura metropolitana ha influenzato la sua rappresentazione filmica, è anche vero che certe visioni di città hanno anticipato i concetti fondamentali della moderna teoria architettonica. L’assenza di particolari restrizioni economiche o finanziarie, permise ai set designer degli anni Venti e 7 Trenta di realizzare dei mondi possibili, intere città costruite dal nulla, ma dotate di una propria storia o di un particolare retroterra filosofico. Si spiegano così le Metropoli cannibali dei film di Murnau come L’ultima risata [1924] o Aurora, o ancora le città visionarie ed ottimistiche dei primi musical come Just Imagine [1930]. Robert Mallet-Stevens, principale esponente francese dell’Art Déco ed autore di una ventina di scenografie tra il 1919 ed il 1929, scrisse in quegli anni che il set doveva avere una sua caratterizzazione forte e precisa, e riunire tutti quegli elementi individuali che rappresentano i concetti di gusto, stile di vita e posizione sociale, sotto un’unica immagine di spazio1. Collocare Metropolis [1926] come punto di partenza per spiegare l’evoluzione e l’intreccio della rappresentazione cinematografica della città è quasi d’obbligo, se non addirittura scontato. E’ pur sempre vero che non si può prescindere dal capolavoro di Lang per spiegare la storia del cinema dal punto di vista dell’architettura metropolitana. Lang è riuscito a mescolare abilmente l’Espressionismo di Mendelsohn e di Scharoun con il Costruttivismo russo di Mel’nikov. Lo stesso architetto russo si ispirerà nel 1934 alle architetture allucinate di Metropolis per il suo progetto per un QUARTIER GENERALE DEL COMMISSARIATO PER L’INDUSTRIA PESANTE; l’edificio-città riprende così gli archetipi dell’utopia russa e tedesca degli anni Venti. Il discorso di Lang, architetto nella sua formazione, è strettamente legato con la nascita del regime nazista. L’architettura si fa cinema in maniera definitiva quando incontra il discorso politico: le strade di Norimberga diventano scenografie per il kolossal di Leni Riefenstahl Il trionfo della volontà [1936], in un gioco di ruoli nel quale non si distingue più la finzione dalla rappresentazione dell’[ir]reale massa nazista. 1 R. Mallet-Stevens, 1925, “Architecture et Cinema”, Les Cahiers du Mois, n. 16-17, pp. 95-98. 8 La forma e visibilità della città moderna, caratterizzata dall’uso dell’automobile si rintraccia comunque nel capolavoro di Lang. Gli scenografi Hunte, Kettelhut e Vollbrecht, che avevano già lavorato per Fritz Lang in I Nibelunghi [1924] ricreando le atmosfere oniriche di Wagner, si trovarono alle prese con una città totalmente da inventare, operando tanto sull’immaginario espressionista quanto su quello futurista e realizzando così una sintesi singolare e inimitabile. La messa in scena di opere visibilmente diverse tra loro per forma, teoria e sostanza contribuì a creare quell’aura di futuribilità fino ad allora sconosciuta nel cinema mondiale. La genialità della scelta scenografica risiedeva soprattutto nel distinguo tra i diversi livelli della città. La città visibile, definita da una skyline ispirata in parte a New York, riprende i motivi della CITÉ INDUSTRIELLE [1917] di Tony Garnier2: le sopraelevate sono un filo conduttore che unisce le megastrutture tra loro, delle linee di demarcazione del territorio su cui il traffico automobilistico è un flusso continuo e veloce. La prima versione del downtown di Metropolis disegnata da Kettelhut era idilliaca: i flussi del traffico scorrevano a più livelli; era pieno di parcheggi per le automobili, i pedoni camminavano liberamente tra i grattacieli ed osservavano le vetrine dei negozi ai piani inferiori3. In una parte del disegno era raffigurata anche una cattedrale gotica modellata sul progetto della SAGRADA FAMILLA [1884-1903] di Anton Gaudì e sulla cattedrale di Colonia. Il riferimento al Gotico voleva essere anche una diretta citazione del romanzo di Thea Von Harbou, dal quale era stato tratto il film4. Nel libro, la parte antica 2 3 4 della città era presentata come l’ultimo baluardo che tentava Teorico dell’organizzazione spaziale della città, il suo Cité industrielle può essere collocato tra i grandi progetti utopistici di inizio secolo. Cfr. T. Garnier, 1917, Une cité industrielle. Étude pour la construction des villes, Paris. Cfr. D. Neumann [ed.], 1996, Film Architecture. From Metropolis to Blade Runner, Prestel-Verlag, Munich pp. 94-103. T. Von Harbou, 1926, Metropolis, Granillo, Torino 1973. 9 disperatamente di difendersi dall’assalto della modernità. Accanto alla cattedrale si trovava, infatti, un imponente edificio curvilineo realizzato sulla falsariga del GRATTACIELO IN VETRO di Mies van der Rohe [1922]. Lang si oppose fermamente a questa versione antimodernista, intervenendo direttamente sugli schizzi e suggerendo di sostituire la cattedrale con una moderna Torre di Babele. Riflettendo le idee degli architetti dell’epoca, Lang fece intendere agli scenografi che le città moderne dovevano essere dominate non dai picchi di una chiesa, ma dalle nuove architetture del lavoro, come i grattacieli. Nella seconda versione dei disegni preparatori, era stata eliminata la cattedrale e sostituita da un pilastro polifunzionale con una piattaforma di atterraggio per aeroplani; lo stile degli edifici circostanti era disadorno, un gusto derivato dalle avanguardie. Era evidente l’influsso, subìto da Kettelhut, dei progetti megastrutturali di Garnier5. I disegni definitivi riflettevano quello che probabilmente chiunque immaginava in una città tedesca del prossimo futuro. Lo splendido grattacielo di vetro della prima versione era scomparso in favore di una più rigida struttura a gradoni, che sembrava quasi anticipare le successive tendenze del Brutalismo. La versione finale della torre sullo sfondo della città era un grattacielo dalla punta a stella derivato dalle ALPINE ARCHITEKTUR di Bruno Taut e fu vista successivamente dai critici come un tentativo di riaffermazione dell’imperialismo tedesco6. Il mito della verticalizzazione e della struttura monumentale diventa subito popolare tra gli urbanisti negli anni successivi all’uscita del film: Ludwig Hilberseimer nel suo progetto per una CITTÀ DEL 5 6 FUTURO immagina le residenze ed il traffico pedonale nella parte alta, la città Cfr. nota 2. B. Taut, 1919, Alpine Architektur, Folkwang-Verlag, Hagen. 10 del commercio e degli affari con il traffico veicolare nella parte bassa, nel sottosuolo, ed infine le linee ferroviarie e metropolitane7. La rappresentazione della città era visibilmente utopistica, ingenua nell’inscenare una vita metropolitana auspicabile negli ideali, ma d’impossibile realizzazione. Lo spirito naïf di Lang era condiviso dalla maggioranza dei tedeschi, già affascinati da quell’icona della modernità che era la New York rappresentata in Preferisco l’ascensore [1923] con Harold Lloyd. Gli architetti, gli urbanisti ed i politici, invece, non erano altrettanto entusiasti ed in un acceso dibattito che proseguì per lungo tempo, venne fuori tutto lo spirito antiamericano e conservatore proprio degli opinion-makers dell’epoca. In numerose dichiarazioni i grattacieli furono accusati di togliere luce ed aria alle costruzioni vicine e di essere i simboli più volgari del capitalismo rampante8. Le intenzioni dei critici erano di stimolare una germanizzazione nella progettazione dei grattacieli, distaccandosi dall’esempio americano, per rivelare «il vero significato insito nel grattacielo»9. Gli architetti tedeschi proponevano una visione socialmente più responsabile della pianificazione cittadina, con un’unica torre che si doveva innalzare al di sopra della città, vista come un aggiornamento moderno del ruolo centralizzante della cattedrale medioevale. L’avanguardia architettonica rifiutava simili posizioni conservatrici: la vera realtà era il Funzionalismo che nasceva proprio in quegli anni; alla città che sale di matrice futurista si opposero le prime fortunate realizzazioni di Mies come il WEISSENHOF [1927], un’estensione orizzontale basata sulla serialità e sulla collettività, nella piena applicazione dei princìpi del Movimento Moderno. La parte visibile di Metropolis, oltre all’edificio centrale, è costituita dai grattacieli a metà strada tra lo STUDIO PER LA CITTÀ NUOVA di Sant’Elia [1914] ed i 7 8 9 Cfr. i progetti in L. Hilberseimer, 1927, Großtadt-Architektur, L’Architettura della Grande Città, Clean Edizioni, Napoli 1998. Cfr., ad esempio, le affermazioni di C. Gurlit, 1914, “Stadt der Zukunft”, Bauwelt 21, p. 21. Lo storico dell’arte definiva il grattacielo come «la peggiore invenzione del genere umano». M. Mächler, 1920, “Zum Problem des Wolkenkratzers”, Wasmuths Monatshefte für Baukunst 5, p. 260. 11 primi progetti razionalisti. Kettelhut voleva che gli edifici costituissero qualcosa in più di uno sfondo: dovevano partecipare attivamente alla storia, sottolinearne le contraddizioni e provocare un dibattito sul futuro dell’architettura. Probabilmente l’unico difetto dei suoi disegni definitivi era che gli edifici erano troppo omogenei tra loro: sembrava una città disegnata da una sola mano, contrariamente a quanto accade in realtà, e perciò falsa. La prima versione del 1925 era forse insuperabile, con il suo melting pot di antico e moderno, con gli spazi più aperti e vivibili. Kettelhut aveva mantenuto i suoi proponimenti nelle abitazioni dei ricchi che erano una chiara citazione del Secessionismo viennese di Joseph M. Olbrich. Il teorico del Decorativismo proponeva un controllo del processo costruttivo fin nei minimi particolari: dalle strutture principali alle tappezzerie fino al più piccolo oggetto d’arredo. La “Città dei Figli” derivava invece dalle opere di Poelzig, ed in particolare dalla GROSSES SCHAUSPIELHAUS [1918-19], il Teatro dei Cinquemila a Berlino: le strutture scomposte e sovrapposte fra loro e le linee che si spezzano all’improvviso, sono una caratteristica dell’artista espressionista cui Kettelhut ha voluto rendere omaggio. Il doppio volto del film e della metropoli stessa si trova sottoterra, nelle labirintiche catacombe di chiara ispirazione paleocristiana, e nel villaggio operaio, vera chiave di volta del film. Le architetture sono ispirate ai quartieri popolari progettati da J.J.P. Oud a Rotterdam negli anni Venti, basati sulla teoria dell’existenzminimum, la concentrazione di spazi esterni e interni. Il centro della piazza è costituito da una statua liberamente ispirata al monumento di Gropius per i Caduti di Weimar. Nel ritorno serale degli operai verso casa, la statua svolge il ruolo di idolo, intorno al quale girare in uno stato catatonico che ricorda tanto una danse macabre, quanto un 12 rituale sacro. La sensazione di soffocamento derivata dalla mancanza di spazi, le anguste finestre/fessure incise come ferite negli edifici, si trasformano in stati d’animo che si riflettono sui volti degli operai, scavati ed ombrosi come le loro abitazioni. La teoria del minimo necessario era allora agli albori: Adolf Loos aveva scritto nel 1909 il saggio Ornamento e Delitto, ma le sue parole finirono in seguito veramente nel vuoto, travisate dai funzionalisti come condanna non solo del Decorativismo, ma di tutta l’architettura antecedente gli anni Venti. Loos era invece favorevole ad un recupero della classicità, vista come paradigma immutabile nel tempo10. La condanna della storia, perpetrata da Walter Gropius nella scuola del Bauhaus, trovava valvola di sfogo proprio nelle irreali architetture di Metropolis: oggetti inanimati e privi di riferimenti culturali, ma tenacemente attaccati al realismo socialista dell’epoca. Negli anni precedenti il film di Lang era stato tentato un altro esperimento di film come architettura totale: Hans Poelzig aveva realizzato nel 1920 le scenografie medievali de Il Golem, infondendovi tutta la sua visionarietà. Le abitazioni come fusti d’albero, organiche come un quadro di Klimt ed al tempo stesso imponenti e moderne come un’architettura espressionista, rivelano quel distacco che Poelzig nutriva nei confronti delle correnti moderniste. I chiaroscuri derivano direttamente dalla modulazione della linea, sempre protesa verso una comunione intima con la terraferma. L’intenzione di Poelzig era di creare delle case che respirassero come i loro abitanti, delle costruzioni vive. Il ghetto ebreo di Praga diventa quindi un ideale, un sogno impastato della stessa argilla del Golem, uscito anch’esso dalle mani del Rabbino. Poelzig rimane un esempio di come un architetto prestato al cinema riesca a trasmettere la stessa vitalità e lo stesso senso del fantastico provenienti dalle sue opere. Il suo lavoro era espressionista quel tanto che bastava per associarlo con la moda della luce 10 Cfr. A. Loos, 1921, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 1972 pp. 217-228. 13 deformata/deformante, senza la brutalità delle forme ed i contorsionismi scenografici de Il gabinetto del Dottor. Caligari. Nel film di Robert Wiene, gli scenografi Reimann, Röhrig e Warm volevano una rappresentazione onirica e non un’imitazione della realtà. Essi ribadirono più volte le differenze tra l’architettura moderna ed i set dei film, sottolineando che il termine film architecture doveva essere rimpiazzato dal termine film painting. Secondo le parole di Reimann, «il film, l’arte delle illusioni ottiche, ha bisogno dell’utopia. Ha bisogno di un set che sia uno spazio utopico, che simuli l’atmosfera di uno spazio immaginato»11. Le prospettive impossibili e angoscianti, i graffiti sui muri delle case, l’atmosfera claustrofobica che permea tutto il film, ne fa un ritratto potente delle inquietudini che agitavano la Repubblica di Weimar, appena nata, ma data già per morta, come i personaggi del film, ombre simili a fantasmi, privi di un agire comune e sensato, insensibili agli accadimenti esterni. In un altro film di Robert Wiene, Genuine [1920], le atmosfere oltre che oniriche rasentano quasi il fantastico. Lo scenografo Klein inventò appositamente degli interni che, pur filmati in lucido bianco e nero, riuscivano a trasmettere la sensazione dei colori. Il risultato fu che era impossibile distinguere i personaggi dallo sfondo bidimensionale e si muovevano all’interno di esso come marionette impazzite. Il film costituì la punta più alta dell’Espressionismo cinematografico, proprio per la fusione totale degli attori nello spazio immateriale/mentale circostante: un incubo cui era impossibile sottrarsi e che rifletteva l’angoscia metropolitana di essere inghiottiti da un ambiente onnivoro. L’ultimo film che si colloca a metà strada tra realismo e fantasia scenica è forse King Kong [1933]. La New York imponente che era stata ispiratrice per la Metropolis di Lang, diventa letteralmente cibo per la Grande Scimmia. Ultimo 11 W. Reimann, 1926, “Filmarchitektur – heute und morgen?”, Filmtechnik un Filmindustrie 4, pp. 64-65. 14 baluardo della vita selvaggia, King Kong s’impossessa dei due simboli della vita metropolitana: Fay Wray, simbolo della lussuria, è la fonte della perdizione mentre l’EMPIRE STATE BUILDING è l’icona del Nuovo Mondo. Impadronendosi del suo edificio simbolico, King Kong diventa il re di una metropoli che può essere vista come una giungla moderna, materia rigida nelle sue costrizioni sociali come nella sua forma, esemplificata dal grattacielo. Il fatto che l’architettura sia fatta della stessa materia della città, è fuori discussione; che la città sia una singola architettura, un’idea avanzata da Leon Battista Alberti, è un’affermazione più problematica. Per Alberti, uomo del Rinascimento, la città era concepita come una grande architettura in cui ogni singolo esempio al suo interno poteva essere inteso come una città in miniatura12. Una simile concezione è strettamente connessa all’idea di città come palcoscenico teatrale. Le facciate romane non erano sola architettura, ma rappresentazione di un modo di vivere in cui si tendeva a mostrare l’esteriorità. Gli architetti del tempo mettevano in scena, più che costruire. Una simile concezione è stata ripresa nelle megastrutture disegnate da Paolo Soleri13: MESA CITY [1961], per esempio, un cubo sospeso sorretto da pilotis alla Le Corbusier che doveva ospitare due milioni di abitanti. L’eliminazione progressiva dello spazio pubblico della Metropoli coinciderà con la nascita dello star system, e quindi con lo spostamento dell’attenzione dal contesto urbano alla figura del divo ed alla struttura narrativa, che si andava proprio in quegli anni codificando nei generi classici. Il periodo d’oro di Hollywood vede quindi il passaggio della Metropoli dal ruolo di protagonista a quello di comprimario. Solo in un caso, con La fonte meravigliosa, biografia non autorizzata di Frank Lloyd Wright, diretta da King Vidor nel 1949, la Metropoli sembra recuperare quel ruolo primario, fungendo da pretesto per raccontare la 12 13 L. B. Alberti, 1485, L’architettura – De re aedificatoria, ed. a cura di G. Orlandi e P. Portoghesi, Milano 1966. Cfr. E. Jones, 1990, Metropoli. Le più grandi città del mondo, Donzelli, Roma 1993, pag. 146 e segg. 15 storia di un maverick, un ribelle inserito nel sistema, nel quale si identificava lo stesso regista. La città diventa nuovamente un’icona nel momento in cui, verso la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, Hollywood non ha più storie nuove da raccontare se non recuperando il passato in chiave nostalgica, come in Chinatown [1974] di Roman Polanski, ed operando attraverso un rimescolamento dei generi classici. Gli anni Sessanta hanno spesso dato origine, grazie alle speranze in uno sviluppo tecnologico senza fine, a progetti megalomani/utopistici come quelli del gruppo Archigram14, fautori di città impossibili, ma affascinanti, come la PLUG-IN CITY [1963-64] di Peter Cook, strutture urbane accumulate su sovrastrutture metalliche senza soluzione di continuità. Per gli Stati Uniti sono i tempi degli ultimi grandi kolossal a caratterizzazione fortemente melodrammatica: Cleopatra, l’ultimo film “pensato in grande” è del 1963. L’Esposizione Universale di Montreal del 1967, vero e proprio baraccone/archivio del pensiero infruttuoso e cumulativo di quel decennio, rappresenta il canto del cigno dell’Utopia. Costruito quasi come un set cinematografico, sarà intelligentemente sfruttato da Robert Altman per l’apocalittico Quintet [1978]. I gusti del pubblico cinematografico si evolvono più rapidamente delle intenzioni di progettisti ed architetti, anche in fatto di abitazioni private. Verso la seconda metà degli anni Sessanta comincia, infatti, il grande processo di riconversione delle periferie urbane, ad opera il più delle volte dello stesso Cittadino, vero e proprio bricoleur della domenica, che opera un montaggio sulla propria abitazione con lo stesso metodo dei giovani cineasti francesi della nouvelle vague: destrutturando e ricostruendo per associazioni di idee, più che basandosi su di un canovaccio/progetto. Robert Venturi si accorge di questi 14 Cfr. Archigram, 1973, Archigram, International Thomson Publishing, New York, ed i progetti della PLUG-IN CITY in P. Cook, 1970, Experimental Architecture, London. 16 cambiamenti alla fine degli anni Sessanta, analizzando ferocemente ed ironicamente le proprie opere e quelle dei suoi colleghi razionalisti, nel promemoria del pensiero postmoderno Learning from Las Vegas. La sua tesi sul «brutto e ordinario», elemento tipico delle accumulazioni suburbane, che sta prevaricando sul «bello ed eroico», elemento fondamentale della teoria funzionalista, fatica a prendere piede nelle riviste specializzate, ma spalanca le porte già aperte degli allarmisti15. La speculazione sugli orrori di periferia era già iniziata da tempo, ed il cinema, in questo caso, calca la mano: Terremoto, L’inferno di cristallo e Il mondo dei robot appartengono agli stessi anni [1973-74], e mettono in mostra, da un lato la rivolta contro l’uomo della tecnologia, e dall’altro lo sviluppo insostenibile delle città verticali, non più sorretto dal progresso tecnologico. Passati gli anni dei film catastrofici, si arriva agli anni Ottanta, con la frattura operata dalla fantascienza filosofica di Blade Runner, vero spartiacque del cinema decostruito e re-immaginato dal postmodernismo. Tramite questa decostruzione ed ibridazione dei generi, la Metropoli recupera la propria visibilità e centralità in film come Blade Runner [1982] appunto, Batman [1989] e Dick Tracy [1990], i cui rispettivi ideatori delle scenografie, Syd Mead, Anton Furst e Richard Sylbert, hanno non a caso una formazione da architetti ancor prima che da scenografi. Questi tre autori hanno avuto la capacità di fare delle loro scene dei veri e propri manifesti programmatici, che riconducono idealmente alle dichiarazioni entusiastiche degli scenografi degli anni Venti. L’idea centrale attorno a cui ruotano questi tre film è la presenza di un luogo forte, un edificio, come la ziqqurat in Blade Runner, o un’intera città, come la Gotham City di Batman, che si pone quale segno immediatamente riconoscibile 15 E’ rilevante il fatto che la bibliografia in fondo al testo sia composta quasi esclusivamente da articoli presenti su quotidiani nazionali e regionali; cfr. R. Venturi, D. Scott Brown, S. Izenour, 1972, Imparando da Las Vegas, Cluva, Venezia 1984. 17 ed identificabile, e che costringe lo spettatore a tener conto della sua presenza, anche per una piena comprensione della struttura narrativa. Blade Runner, oggetto di culto degli anni Ottanta, ha generato il grande equivoco di cui stanno soffrendo attualmente le metropoli americane: la rappresentazione dolente e pessimistica proposta dal film ha provocato il sospetto che se fosse questa la prospettiva del Modello Abitativo Moderno, nessun uomo ragionevole sarebbe disposto ad abitare in una città simile. Il film di Ridley Scott [furbo nel concentrare l’attenzione su una location destinata a rimanere impressa nella memoria, anziché sull’esile plot], non mette in scena il futuro dell’urbanizzazione, ma è, al contrario, l’ultima e definitiva rappresentazione della Metropoli Moderna così come l’avevano immaginata, con le gotiche verticalizzazioni alla Sant’Elia, i suoi progettisti. È quindi più il ritratto di New York che non di Los Angeles. La Città Contemporanea non è mai esistita se non come ripetizione all’infinito del già esistente: in quest’ottica può essere inquadrata Las Vegas, il non-luogo postmoderno per eccellenza, un concentrato di locations cinematografiche e metropolitane provenienti dall’intero pianeta, ad uso e consumo delle famiglie. Le riproduzioni-cartolina di Manhattan, delle Piramidi di Giza e di Piazza San Marco16 permettono al turista medio americano di avere i luoghi per eccellenza in unico luminescente agglomerato, senza soluzione di continuità. La prima realistica rappresentazione del post-modernism è stata messa in scena da William Friedkin nel migliore noir degli anni Ottanta.: Vivere e morire a Los Angeles [1985]. L’immagine della città è devastante, onnivora, fatta di snodi autostradali e periferie degradate; non uno sguardo viene levato verso le dorate colline di Bel Air e Beverly Hills. Tutto è offuscato da una patina di sporco, con un finale segnato da un sole morente all’orizzonte. 16 Il suolo italiano è da sempre preda dell’immaginario collettivo statunitense; oltre ad una rappresentazione di Venezia, è presente anche una riproduzione in scala delle località sul lago di Como. 18 Secondo i migliori archetipi del noir, gli abitanti sono quello che abitano, corrotti, senza morale ma privi, in questo caso, dell’eroismo che caratterizzava capolavori degli anni Quaranta come La città nuda [1948]. La banalizzazione della città si infiltra in questi personaggi, quasi anonimi e senza forti caratterizzazioni. La Città dei Sogni si trasforma a partire da questo film in un luogo privo di riferimenti culturali e di qualità estetiche, nella cui rappresentazione diventano fondamentali i luoghi di ritrovo di passaggio, come tavole calde o stazioni di servizio. In questa fase si collocano film come Thelma & Louise [1990] e Pulp Fiction [1994], nei quali le locations sono un ovunque/nessun luogo, delle «eroiche pompe»17 uguali a tante altre, sia che si trovino in mezzo al deserto dell’Arizona, sia che appartengano al nucleo urbano di Los Angeles. Da qui prende forma l’idea che Los Angeles sia un agglomerato di tante piccole città di provincia, slegate ideologicamente, ma strutturalmente interconnesse da quell’unico esile fil rouge che è l’autostrada. Il concetto di «metropoli di seconda generazione» definito da Guidicini18 non è applicabile a Los Angeles: un nuovo progetto edilizio su larga scala, chiamato PLAYAVISTA, contempla che residenza, ufficio e luoghi ricreativi si trovino all’interno di un unico nucleo, isolato da ciò che lo circonda. La nuova cittadella fortificata dovrebbe rifarsi esteticamente alle case sul Thaoe Lake, in Nevada, un ritrovo chic in stile Tudor per i losangeleni altoborghesi, sito celebrato più volte nel cinema [l’ultimo esempio è City of Angels, 1998]. Il progetto originale prevede che una parte del centro residenziale, sia adibita ai nuovi studios di Steven Spielberg e di James Cameron. I luoghi della produzione cinematografica, tendono quindi ad assomigliare all’iperreale sogno della vita di provincia americana, rappresentata cinematograficamente dai film con Doris Day ed iconograficamente ispirata dalle 17 18 Cfr. AA.VV., 1998, Gomorra 1, Costa & Nolan. Nella quale, accanto alla popolazione notturna e diurna, compaiono i pendolari del consumo metropolitano. Cfr. P. Guidicini, 1971, Sviluppo urbano e immagine della città, FrancoAngeli, Milano. 19 tavole domenicali di Norman Rockwell. La rappresentazione della città ne è l’esatto contrario: il ritorno in auge del noir, genere pessimista e metropolitano per eccellenza, ne è la chiara dimostrazione. Strange Days [1995], è il film emblema di questa nuova realtà nata negli anni Novanta: lo sguardo dolente sul futuro della Metropoli ne costituisce il presente più crudo. Lo scenario italiano negli stessi anni presentava un’involuzione. Lo spiazzamento dimostrato dagli architetti e la mancanza di collaborazione con urbanisti ed ingegneri, fece sì che molti sbandierati progetti rimanessero solo sulla carta. Il periodo della «architettura disegnata» durò quasi dieci anni. Un decennio, tra gli anni Settanta e gli Ottanta, che farà perdere agli architetti italiani il sottile filo rosso che li collega alla realtà, e che si concluderà con la tardiva esposizione della Biennale del 1980, curata da Paolo Portoghesi, dal tema LA VIA NOVISSIMA19. L’idea nuova di Portoghesi, era di portare il tema del postmoderno in Italia, in un ambiente culturale dove si dibatteva ancora sul tema del funzionalismo applicato in via definitiva solo a metà degli anni Ottanta. Quello che è già passato di moda altrove, ad esempio in Francia, dove fu presto sostituito dall’High Tech, nel Belpaese non riuscirà quasi a mettere radici, nonostante le buone intenzioni dei curatori della mostra. LA VIA NOVISSIMA era una struttura effimera costituita da una serie di facciate, che volevano essere rappresentative del nuovo corso architettonico mondiale. Al progetto collaborarono molti volti nuovi, come Ghetti, Moore, ed alcune vecchie glorie come Michael Graves. Tra tutti questi solo Charles Moore proseguirà il cammino del vero postmoderno, rivelandosi il più “cinematografico” tra tutti. Progetti come PIAZZA ITALIA a New Orleans costituiscono già sulla carta la rappresentazione di un set di Tarantino, un accumulo di generi e scenografie, un nulla/dappertutto denso di riferimenti culturali, ma totalmente slegato dalla 19 P. Portoghesi, V. Scully, C. Norberg-Schulz, C. Jenks, 1980, La presenza del passato, catalogo della mostra, Biennale di Venezia 1980. 20 realtà. Michael Graves, uno dei “Five Architets“, ritornerà alla costruzione delle sue costose abitazioni private, adorate soprattutto dai losangeleni radical-chic, tutte uguali sia tra loro che tra gli edifici dell’altro grande inganno degli anni Ottanta: Richard Meier. La breve parentesi del post-modernism non sembra aver sfiorato questi due grandi dell’architettura contemporanea. Fedeli al credo di Rudolf M. Schindler20, i due “Bianchi” operano attraverso la purezza della piastrella bianca, che rende i loro edifici simili a piscine immacolate [CHIESA PER IL GIUBILEO a Roma, 1996; GETTY CENTER di Los Angeles, 1994]. Nel frattempo in Italia, le discussioni sull’efficacia di un’architettura funzionalista troveranno lungo sfogo nelle polemiche seguite alla costruzione dello ZEN a Palermo, e di CORVIALE e TORBELLAMONACA a Roma. Il progetto di Mario Fiorentino, in particolare, ha avuto una cassa di risonanza notevole anche per chi non ne è stato direttamente responsabile o interessato. Visivamente perfetto dal punto di vista progettuale, una volta costruito si è rivelato inadeguato ed incoerente con l’ambiente circostante. All’incoerenza formale si è poi aggiunto il rifiuto mentale del destinatario d’uso. La domanda di spazi abitativi si era modificata notevolmente nel lasso di tempo intercorso tra il concorso per l’assegnazione del progetto [1973], e la consegna del manufatto [1981]. Accanto e dentro l’unité d’habitation nasceva così, ad opera degli stessi abitanti una nuova corrente architettonica, che avrebbe sicuramente fatto inorridire Le Corbusier, uomo tanto funzionalista quanto poco pratico della vita in un condominio popolare di periferia. Il costruire/sfondare dentro il costruito rese CORVIALE, simile ad un piccolo borgo medievale, dove si andava per accumulo di abitazioni e non per organizzazione 20 razionale. Scomparvero subito i negozi, divorati Il cui progetto - tipo assimilava tramite forme nette il cemento armato a vista e pilotis a pianta quadra. 21 dalla microcriminalità, e sostituiti dalle cellule aggiunte degli abusivi21. Il Nuovo Medioevo sorto tra le mura della perfezione era l’evoluzione naturale della crisi del modello abitativo moderno. La difficoltà di controllo di un progetto troppo grande aveva fatto perdere di vista ai progettisti il vero scopo del loro agire, in pratica il benessere dell’assegnatario IACP, i cui bisogni si erano allargati tanto quanto la sua famiglia. Fuori del palazzo-lungo-un-chilometro la situazione non era diversa: l’installazione autogestita delle nuove periferie aveva trasformato negli anni le baracche degli anni Sessanta in case allargate e rialzate proporzionalmente al crescere del numero degli occupanti. Quando la famiglia cessò di crescere, si pensò a come aumentare i comfort interni ed esterni: la comparsa di verande, paraboliche, sale hobby scavate nel sottosuolo non cambiarono comunque l’aspetto esteriore di abitazioni rimaste con il cemento armato a vista ed i tetti di eternit22. Al giorno d’oggi gli elementi costitutivi della vita urbana tendono ad esulare completamente dall’opera professionale dell’architetto. La città va di là degli edifici e delle architetture che la compongono. Gli strumenti tradizionali di analisi del territorio raramente rispondono ai requisiti della vita della metropoli contemporanea che necessita in particolare di reti di trasporto, di autostrade, di spazi riservati alla logistica della distribuzione, di aree naturali protette e di spazi virtuali per la comunicazione e lo svago. L’attuale condizione urbana, caratterizzata dalle megalopoli estese e ben collegate, di cui Jean Gottmann23 parlò già negli anni Sessanta, esige un nuovo approccio da parte del progettista. Questo vale anche per i tentativi classici e modernisti di ripensare la relazione tra l’architettura e la città. La nuova natura della città è stata rilevata da Peter Hall, quando scrive che 21 22 23 Per una storia “sociale” e civica di Corviale, cfr. A.R. Montani, 1993, Le comunità locali urbane, Bulzoni, Roma. Cfr. P. Desideri, 1997, La città di latta, Costa & Nolan, Genova. J. Gottmann, 1961, Megalopoli. Funzioni e relazioni di una pluricittà, Einaudi, Torino 1970. 22 l’esplosiva e vertiginosa crescita urbana riguarda non più solo i paesi sviluppati, ma che si sta verificando con velocità allarmante anche nei paesi sottosviluppati24. Gli elementi con cui ci si trova ad operare sono processi già esistenti, privi di consapevolezza o di qualunque processo critico, ma sono tuttavia consuetudini alla base dell’organizzazione della vita nelle città moderne. Sono proprio gli esperti privi di qualunque formazione architettonica che hanno preso controllo e possesso delle tecniche di progettazione urbana dei nostri giorni. Secondo loro un architetto dimostra scarsa comprensione delle autostrade, degli aeroporti, dei sistemi di trasporto, dei centri commerciali, delle zone per il tempo libero, delle aree turistiche, delle zone residenziali spontanee, delle case mobili e delle case per la nuova famiglia non–tradizionale. Le richieste di un nuovo consumo di massa guidano il rinnovamento e la conservazione dei patrimoni artistici, dei parchi e delle zone industriali abbandonate. I mass media generano poi copie multiple e immaginarie di questo ambiente, creando e ricreando realtà virtuali non meno vissute delle realtà fisiche della grande città. In molti casi, questi sistemi e fenomeni sono estranei se non nemici delle modalità consolidate di pensiero e azione condivise da molti progettisti. Attraverso le mutazioni, indice di cambiamento generazionale delle città, è possibile avvertire i nuovi strati, continuamente sovrapposti, tra vecchio e nuovo. Nella città si vive sempre di più in un processo di mutazione improvvisa e sconvolgente, dimostrata da tutta quella serie di film appartenenti al genere del thriller metropolitano. Tramite il cinema è stato possibile vedere il cambiamento epocale subìto dalla metropoli: alla fissità delle scenografie negli anni Quaranta, si è passati, intorno agli anni Ottanta, ad un cinema caratterizzato dal flusso continuo di macchine, persone, un cinema fatto essenzialmente di movimento. 24 P. Hall, 1988, Cities of Tomorrow, Blackwell, Oxford. 23 Il potere del cinema di rendere reale solo ciò che è inquadrato velocemente dalla mdp, ha permesso una visibilità, anche se il più delle volte in modo acritico, al popolo sommerso degli immigrati e dei senzatetto. Le loro abitazioni sono diventate un terreno fertile per la sperimentazione dell’architetto, impossibilitato di lavorare per le grosse committenze pubbliche. Ne è prova visibile il nuovo centro per i senzatetto creato nel Downtown di Los Angeles, una decina di semicupole che “simulano” un’abitazione visibile agli abitanti, ma nascosta agli occhi degli uomini d’affari. Un lavoro esemplare dal punto di vista sociale, ma veramente scarso dal lato concettuale, e visibile in Verdetto Finale [1991]. La simulazione, in uno scambio continuo tra architettura e set, caratterizza anche i moderni templi del consumo collettivo, nei quali assume sempre più importanza il palcoscenico sul quale si tiene la rappresentazione del mercato25. Questi involucri che dovrebbero essere pubblici, ma non sono per tutto il pubblico, trasparenti, ma allo stesso tempo sono chiusi come gusci, sono i nuovi luoghi di aggregazione. Ma se lo spazio pubblico storico è un luogo grazie alla riconoscibilità della sua identità, allora davvero lo spazio pubblico contemporaneo è l’esatto opposto di un luogo. Nel non-luogo l’agire sociale è destinato a rimanere la somma di tante insignificanti individualità, senza mai diventare espressione integrale di un agire comune. Nei contenitori come gli shopping mall domina la legge dell’entropia: «il grado di mescolanza, disordine, indifferenzazione, imprevedibilità e casualità delle relazioni tra le componenti di un qualunque aggregato»26. Lo spazio è sempre artificiale, trasparente e recintato; prodotto da mezzi effimeri, molteplici e variabili, è avvolto dal rigido rivestimento del contenitore. Il TEATRO DEL MONDO di Aldo Rossi per la Biennale del 1980 era una struttura 25 26 Per ulteriori confronti con il concetto di rappresentazione e di “vita come il palcoscenico”, cfr. J. Meyrowitz, 1985, Oltre il senso del luogo, Baskerville, Bologna 1995 e E. Goffman, 1959, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969 G. Bateson, 1980, Mente e natura, Adelphi, Milano 1984, p. 300. 24 effimera che simulava una torre fortificata: un prodotto visibile a tutti ma che tendeva più ad escludere che ad includere. Forse non siamo ancora pronti per progetti come quello di Massimiliano Fuksas per il CENTRO CONGRESSI all’EUR: un parallelepipedo trasparente che racchiude in uno scrigno come fossero oggetti preziosi i visitatori/attori; visibilità ed artificio si mescolano mirabilmente in una struttura in cui sono spettatori coloro che si trovano all’esterno. Raro esempio di architettura slegata dalle correnti artistiche, impensabile in un territorio come quello romano, in cui non si riesce mai a trovare una via di mezzo tra la conservazione ad ogni costo ed il sensazionalismo facile, il parallelepipedo di Fuksas è scenografia pura, ma senza la pretesa di violentare ideologicamente il fruitore dello spazio. Non rimane quindi che adeguarsi, come ha fatto il cinema, all’idea di appartenere ad un terrain vague, con i suoi vuoti disimpegni, e con la sua incertezza formale. Un’indeterminatezza che sembra trovare nella memoria del passato, la sua unica via di fuga: solo tramite il recupero si può alimentare il nuovo. Ecco quindi in architettura, il revival del razionalismo [Aldo Rossi] e del neoclassicismo [Léon Krier]; al cinema, la metodica distruzione/ricostruzione di tutti i generi, cominciata con Star Wars [1977] e culminata con lo stupefacente Matrix [1999], l’ultimo e definitivo film di fine millennio. 25 1 IL CINEMA E L’IMMAGINARIO 26 1.1 “LA FONTE MERAVIGLIOSA”: FRANK LLOYD WRIGHT. IL BISOGNO DI COMUNICARE LA PROPRIA SOLITUDINE INTELLETTUALE Il processo di specializzazione frantuma la compiutezza che era propria della prima fase progettuale e impoverisce il discorso critico, lo impoverisce anche quando ne rende estremamente complesse le articolazioni e le regole. Alberto Abruzzese [1979] Il romanzo di gran successo di Ayn Rand27 ed il meno fortunato film di King Vidor [1949], servono da introduzione sulla filosofia oggettivistica di Frank Lloyd Wright, la cui idea centrale è costituita dalla difesa della libertà personale assoluta e dal suo inflessibile individualismo. Lo scontro ideologico è tutto giocato sulle strutture neoclassiche elaborate dalla Maggioranza, e la Nuova Plasticità modellata dal protagonista del film. La figura di Howard Roark è palesemente ricalcata su quella del grande architetto americano, all’epoca tornato alla ribalta grazie ad alcuni edifici largamente pubblicizzati come FALLINGWATER [1936] e la JOHNSON & SON COMPANY [1936-39]. È rimarchevole il fatto che nel film venga fatto un riassunto di tutta l’architettura americana moderna, incentrandola su di una sola figura. Se nella prima parte del film vengono, infatti, ripresi perfettamente i disegni di Wright nella parte centrale, alcuni bozzetti possono essere associati all’International Style. Il famoso concorso per la realizzazione della sede del CHICAGO TRIBUNE [1922] sembra essere stato per lo scenografo del film, Edward Carrere, un’utile fonte d’ispirazione. Il progetto che risultò vincitore, realizzato da Raymond Hood, rispecchiava fedelmente quelle che nel film sono definite come architetture 27 A. Rand, 1943, La fonte meravigliosa, Corbaccio, Milano 1996. 27 tradizionali, “scopiazzate malamente da tutti gli stili del passato”. Il personaggio di Peter Keating, “l’artista del compromesso”, prende le mosse da quella miriade di architetti che fecero la loro fortuna grazie all’eclettismo americano. Uno dei capolavori di questo stile, il WOOLWORTH BUILDING di New York [1913], progettato da Cass Gilbert, è stato a lungo definito come l’ottava meraviglia del mondo. La torre goticizzante unita alla struttura del grattacielo era un elemento comune tra gli edifici dell’epoca. Come afferma un committente al rifiuto di Roark di adattare il proprio lavoro al gusto delle masse, “l’originalità piace se non è eccessiva”. Sigfried Giedion fu uno dei primi critici ad intravedere il pericolo dell’eclettismo: a suo parere, il Neoclassicismo dello stile Beaux-Arts non rispondeva né al livello della tecnologia né a criteri funzionali28. L’origine di questo arretramento culturale, sempre secondo Giedeon, stava nell’allestimento della WORLD FAIR di Chicago nel 1893, curata da Daniel H. Burnham. Nel momento in cui la Scuola di Chicago «aveva raggiunto la padronanza dei nuovi strumenti che essa stessa aveva creato»29, il classicismo mercantile importato dagli architetti newyorchesi educati al Beaux-Arts di Parigi, aveva sconvolto le nuove geometrie urbane che si andavano allora delineando. New York era vista come la patria di questo stile, una sensazione resa esplicitamente nel film, dove svettano in ogni angolo grattacieli di chiara matrice neoclassica. Il puntiglio con il quale Giedion e gli altri critici proto-funzionalisti si scagliarono contro le aberrazioni di questa vecchia/nuova corrente, riguardava comunque più una questione dello stile e decorazione, piuttosto che il risultato dell’insieme. La capacità di alcuni eclettici come Daniel H. Burnham, responsabile tra l’altro del CHICAGO PLAN, di avere una visione più urbanistica che architettonica, gli consentì di avere un meritato successo all’inizio del secolo. Per gli scopi del film, la pomposa architettura storicistica ed eclettica, 28 29 Cit. in W. R. Taylor, 1992, New York. Le origini di un mito, Marsilio, Venezia 1994, p. 91. Cfr. S. Giedion, 1941, Spazio, tempo e architettura, Hoepli, Milano 1954, pp. 393-95. 28 rappresentava l’impotenza artistica e la debolezza di carattere dell’architettura americana, mentre le semplici e rigorose forme del Modernismo europeo erano il simbolo di un individualismo senza compromessi. La realtà, e il romanzo della Rand, erano però molto più complessi. Nel romanzo la lotta dell’eroe per la propria integrità è un simbolo della battaglia di Wright per un’architettura americana più genuina e onesta. La Rand aveva chiaramente posto delle differenze tra lo stile di Roark – modellato sui lavori più tardi di Wright – ed il severo Modernismo. Un chiaro esempio di questa tendenza fu il progetto dell’olandese Bernard Bijvoet, sempre per il concorso del Tribune, che doveva avere evidentemente influenzato Carrere nel disegnare l’edificio Enright. Questo grattacielo si presenta come un assemblaggio di due stili diversi. Da un lato la purezza delle linee orizzontali dell’edificio principale rivelano la struttura a scheletro interna in un sottile gioco di trasparenze, dall’altro l’ala specchiata ricorda il PALAZZO DEL SEGRETARIATO DELL’ONU a New York, i cui lavori erano iniziati proprio nel 1949. Il primo è un chiaro segnale di indipendenza di pensiero e di individualismo formale, mentre il secondo un chiaro omaggio all’International Style ed ai monoliti in vetro di Mies. Gli architetti europei come Bijvoet, si sarebbero probabilmente trovati a proprio agio con alcune forme di collettivismo di cui si parla nel film30 e verso le quali era rivolta la polemica di Wright. Nel film, la critica di Roark era invece diretta verso il collettivismo eclettico dei newyorchesi provenuti dal Beaux-Arts. All’interno del film i confini tra uno stile e l’altro sono più sfumati. In certi momenti sembra addirittura che Carrere si sia ispirato più 30 Non a caso il PALAZZO ONU era il risultato di un lavoro di gruppo cui parteciparono dieci grandi nomi dell’architettura internazionale, tra cui Le Corbusier e Oscar Niemeyer. 29 alle opere californiane di Schindler, Neutra e dei loro seguaci, che a Wright stesso. Nella parte centrale del film vengono inquadrate alcune opere che Roark realizza nel suo periodo di crisi professionale. Wright, durante lo stesso periodo realizzò a Los Angeles alcune delle sue opere più controverse ed audacemente dettagliate, come la ENNIS HOUSE [1923-24] di chiara ispirazione messicana. Quelli che Carrere realizzò per Roark, furono invece delle felici anticipazioni dell’architettura losangelena postmoderna. Il primo bozzetto, un negozio con un tetto aggettante ed un profilo convesso verso l’interno, ricorda molto le miriadi di caffè e ristoranti che si trovano lungo le aree più commerciali della metropoli californiana. La struttura rientrante del palazzo per uffici, chiaro riferimento al CBS HEADQUARTERS31 [1936], è stata recentemente ripresa per gli HARVARD APARTMENTS [1992], in chiave postmoderna: associando un colore, invece di una forma, ad ogni funzione presente nell’edificio. Un altro progetto raffigurante una residenza privata è forse l’unico che ricorda Wright nel periodo in cui esasperò le linee orizzontali come nella LOWELL HOUSE [1948] in Iowa. Le grandi sorprese del film sono costituite comunque, più che dai lavori di Roark, dai progetti che Carrere disegnò per Henry Cameron. Il personaggio di Cameron è, almeno in teoria, un omaggio a Louis Sullivan, esponente di punta della Scuola di Chicago, e maestro di Wright prima del volgere del secolo. Nel suo capolavoro, i magazzini CARSON, PIRIE & SCOTT [1904], seppe coniugare lo sperimentalismo delle linee orizzontali intersecate con le verticali, con un decorativismo leggero e mai banale. In realtà, i progetti di Cameron surclassano quelli di Roark per audacia delle forme ed una forte comunicazione visiva, 31 Realizzato da William Lescaze, è l’edificio che si vuole sia il capostipite dell’International Style in California. Cfr. R. Banham, 1971, Los Angeles, l’architettura di quattro ecologie, Costa & Nolan, Genova 1983, pp. 16667. 30 sconosciute al vero Sullivan. I volumi pesantemente concreti anticipano di qualche anno la tendenza brutalista dell’architettura moderna da un lato, mentre svelano la struttura a scheletro dei grattacieli dall’altro. L’edificio che Cameron mostra a Roark, mentre si dirigono verso l’ospedale, sembra un’anticipazione di quel CRAWFORD MANOR di Paul Rudolph, che Venturi definisce «pure architecture»32. L’edificio in questione, costruito nel 1962, era la punta più avanzata della tendenza verso la megastruttura, in cui si cercava di «elevare il sistema di valori/budget del committente grazie ad un riferimento alle Arti ed alla Metafisica»33. Come dice Cameron a Roark, “la forma di un edificio deve avere una sua funzione” e curiosamente il testamento morale di Cameron si rispecchia nella pianta sagomata ed elegante del CRAWFORD MANOR. Paul Rudolph rimane un personaggio importante per l’architettura americana per aver avviato una corrente parallela al Brutalismo britannico, grazie all’uso aggressivo del cemento armato. Quando il film uscì, la risposta dei critici fu unanimemente negativa. La stampa specializzata fece notare, anzitutto, i grandi problemi strutturali causati dagli enormi cantieri che si vedono nel film34. Oltre a denigrare l’interpretazione rigida ed inadeguata di Gary Cooper, ed alcune debolezze nell’intreccio della trama, la critica si accese in un dibattito infuocato sulla nozione di Genio e sulla questione del diritto assoluto di un artista sul suo lavoro. Nonostante il ritratto della Rand di un architetto visto come un genio infallibile fosse esagerato, non era in ogni caso troppo lontano dalla verità. Ci sono giunte molte immagini di architetti contemporanei nella posa di orgogliosi creatori, che possono aver influenzato Carrere e tanto Wright, quanto Gropius, si trovano tra questi. Ellsworth 32 33 34 Toohey, il critico artistico del “The Banner”, R. Venturi, D. Scott Brown, S. Izenour, 1972, op. cit., pag. 102. Ivi. Cfr. G. Nelson, 1949, “Mr. Roark goes to Hollywood”, Interiors 108, pp. 106-11. 31 è la figura rappresentativa del gusto dominante ed il vero nemico dell’indipendenza di pensiero nella creazione. Il personaggio è stato probabilmente ricalcato sulla figura di Montgomery Schuyler, il maggiore critico di architettura del tempo, che a proposito della World Fair di Chicago aveva detto che «il successo è prima di tutto un successo dell’unità, un trionfo dell’ensemble»35. Schuyler esaltava la superiorità del lavoro collettivo rispetto all’esperienza individuale; Ellsworth Toohey, dal canto suo, sopporta ben poco gli architetti di genio come Roark, “perché un uomo superiore è un insulto a quelli comuni”. La sua è soprattutto una critica all’individualismo di Roark, raffigurato come un uomo concentrato solo sul suo valore personale. F.L. Wright, in realtà, non lavorava da solo, ma nella sua comunità, Taliesin, aveva instaurato più un rapporto tra maestro e discepoli che tra colleghi paritari. Walter Gropius, invece, credeva fermamente nella fecondità del lavoro collettivo e firmò molte delle sue ultime opere con il The Architects Collaborative, lo studio da lui fondato su di un rapporto paritetico con gli altri. Alberto Abruzzese fa presente riguardo il discorso della critica, che la progressiva settorializzazione dell’attività intellettuale ha ovvie ripercussioni anche su quella artistica36. E proprio nel passaggio tra l’astrazione del lavoro intellettuale e la concretizzazione voluta dall’industria culturale si rintracciano le evidenti analogie con i meccanismi che regolavano la vita di artisti solitari come Wright. Nei suoi scritti l’architetto ha più volte fatto notare quanto fosse fondamentale la sua differenza culturale dalla massa: 35 36 Cit. in W. R. Taylor, 1992, op. cit., p. 84. A. Abruzzese, 1976, Verso una sociologia del lavoro intellettuale, Liguori, Napoli, pp. 131-161. 32 dapprima il grattacielo non era che una pila di edifici a cornicione in stile, a cavalcioni l’uo sull’altro. Poi, un grande architetto lo sentì come un’unità e come bella architettura [1930, p. 169] Differenza che si fa diffidenza nei confronti del prossimo e della massa. Wright pur essendo anche uno scultore di opere pubbliche, come il GUGGENHEIM, rimase legato soprattutto alla relazione con il singolo. Nei primi edifici insisteva spesso per il progetto totale, rimanendo deluso quando i suoi committenti non accettavano anche le sue soluzioni interne. Un buon esempio di architettura d’interni è ripreso proprio nel film, dove la sistemazione dell’appartamento di Enright è la proiezione del progetto a spirale del SOLOMON GUGGENHEIM di New York [1955-59]. Gli affacci rientranti dei piani superiori sul salone principale, la scala che si erge sinuosamente verso il primo piano, sono tutti elementi che ricorrevano già in opere precedenti di Wright, come le balconate nell’edificio della LARKIN COMPANY [1903-05]. La leggera scala è stata invece ripresa nel recente Gattaca [1997]. Le ambientazioni gelide di Wright ben si adattano a questo atipico film di fantascienza, dove sono riprese in chiave di alienazione e di distacco. Il MARIN COUNTY CIVIC CENTER [1957-66], una delle ultime realizzazioni di Wright in California, è il nucleo centrale del misterioso mondo di Gattaca, dove i vasti spazi interni vogliono essere una rappresentazione simbolica della solitudine interiore dei personaggi. Nella realtà, quando Wright costruì questo edificio pubblico, il suo intento era esattamente l’opposto: egli voleva porre il cittadino in un ambiente luminoso, piacevole, immerso nella natura. Aveva ideato una disposizione interna che avrebbe permesso agli uffici di essere disposti in maniera differente secondo le esigenze dei lavoratori e dei differenti periodi lavorativi. Contrariamente alla monumentalità della maggior parte delle costruzioni ufficiali, il centro civico si estende in tutta la sua lunghezza tra le colline ed è costituito da una bassa cupola circolare, seguita da un lungo edificio a pianta rettangolare. Probabilmente è stata la purezza delle geometrie degli archi che 33 attraversano tutta la costruzione, ad attirare il regista Andrew Niccol, che ha lavorato in stretta collaborazione con lo scenografo Jan Roelfs per ricreare le atmosfere wrightiane, tanto negli esterni quanto negli interni. La scala, cui si faceva cenno precedentemente, si trova all’interno dell’appartamento del protagonista ed assume un significato ancora più simbolico se si pensa che rappresenta la barriera [quasi] insormontabile per l’amico immobilizzato del protagonista. Le geometrie ricorrenti del cerchio e della spirale ritornano periodicamente sia nella disposizione degli uffici, sia nell’evoluzione della trama. Gli affacci dei corridoi sui piani inferiori sono nuovamente quelli del GUGGENHEIM, mentre la disposizione delle scrivanie nella sala principale richiama la JOHNSON & SON COMPANY. La storia del film è costituita da un cerchio che si chiude intorno ai protagonisti, con la rinascita per uno e la morte per l’altro. Lo stesso Wright, nelle ultime opere, era ossessionato dal cerchio, quasi volesse chiudere la sua carriera artistica con la figura che più considerava perfetta. 34 1.2 “BATMAN”: SHIN TAKAMATSU LA TRASFIGURAZIONE DELLA REALTÀ ATTRAVERSO IL SOGNO La Metropoli è folla di piaceri, di vizi, di virtù […] E’ negazione della forma organica, distruzione dell’ ”animo” della Gemeinschaft, è folla. Massimo Cacciari [1973] Il film di Tim Burton ha richiesto una lunga gestazione per quanto riguarda le scelte scenografiche. Il desiderio del regista era di creare una città che non fosse identificabile né geograficamente, né storicamente, ma che riuscisse a restituire l’idea di una metropoli occidentale. Priva di riferimenti temporali, ma con una sensazione da anni Quaranta, Gotham City è il risultato di un duro lavoro iconografico da parte dello scenografo Anton Furst. Andando contro ogni più semplice regola urbanistica, Furst ha costruito37 una città che sembra fuoriuscita direttamente dalla pavimentazione stradale. Scura e fumosa, Gotham City rifiuta la logica che vorrebbe, come nelle città normali, un limite all’altezza dei grattacieli, per permettere il passaggio della luce, un piano regolatore che rappresenti un filo conduttore tra una zona e l’altra. Dopo un’attenta lettura di Metropolis, Furst decise che voleva creare una città diversa da tutte le altre: Metropolis ha l’aria di una città progettata da una sola persona. New York o qualunque altra metropoli ha, invece, l’aria di essere state progettata da migliaia di architetti, attraverso centinaia di anni. […] Ho tradotto immagini di Architettura, non l’architettura stessa, in scenografia38. L’idea nuova di Anton Furst è proprio nell’aver voluto realizzare un concetto diverso di metropoli. Sprovvista dei riferimenti tradizionali all’eclettismo, Gotham 37 38 Realizzato negli studi Pinewood [Londra], il set di Batman è stata la più grossa struttura scenografica realizzata fuori da Hollywood, dai tempi di Cleopatra. Cit. in J. D. Shannon, 1990, “A Dark and Stormy Knight”, Cinefex 41, pp. 4-33. 35 City è un abile melting pot di Brutalismo britannico, Futurismo italiano, Costruttivismo russo, Decorativismo austriaco e Modernismo spagnolo. In Gotham City ogni struttura ha, non solo un significato particolare, ma rappresenta idealmente una parte della storia dell’architettura appartenente a questo secolo. Si possono notare i segni lasciati da Otto Wagner nella Vienna d’inizio Novecento, così come le strutture forti di Mel’nikov; il nuovo espressionismo strutturale di Norman Foster, ma anche certo razionalismo italiano, come quello originale del gruppo BBPR nella TORRE VELASCA [1958] di Milano, oppure il sentimento gotico di Antoni Gaudì nella sua SAGRADA FAMILLA. Gotham City è tutto questo, con in più un notevole senso del concetto di architettura industriale postmoderna. Il riassunto di un secolo di modernismo, non ha, infatti, impedito a Furst di richiamare l’attenzione sulle nuove tendenze. Nel progettare l’edificio che accoglie il Fulgenheim Museum, il luogo dove si svolge il ballet mécanique di Joker, lo scenografo si è dichiaratamente ispirato ad un architetto di Kyoto, Shin Takamatsu. Erede di una tradizione che ha fatto della sperimentazione sui modelli precostituiti la propria bandiera, Takamatsu ha sempre saputo infondere alle sue architetture un senso di spaesamento, centrando l’obiettivo di suggerire sempre un giudizio, positivo e negativo, che fosse. È impossibile rimanere indifferenti di fronte all’edificio che ha ispirato Furst, la clinica odontoiatrica ARK . Ponendosi più come un oggetto autoreferente che un aggiornamento delle tematiche meccanicistiche, la clinica ARK rappresenta un approccio nuovo al rapporto tra architettura e spazio. Costruita semplicemente in cemento armato e acciaio, ARK ha l’aspetto di una locomotiva a vapore immobilizzata nel tempo. Secondo le 36 parole dello stesso Takamatsu, la struttura non va interpretata come un’allusione al passato, ma piuttosto come una proiezione nel futuro. L’architetto fa riferimento alla nozione di scala, dicendo che nel posizionamento strutturale di un edificio, bisogna sempre tenere d’occhio in che modo si rapporta all’ambiente circostante: «Se un edificio è nuovo o no, dipende da certe relazioni di scala»39. Nel caso di Gotham City, il Flugenheim Museum si correla perfettamente con il resto delle architetture. Anton Furst ha avuto l’abilità di creare una sorta di accumulo di edifici, tanto disadorni di applicazioni, quanto pieni di tutti quegli elementi che sono presenti in una fabbrica dell’Ottocento. Pinnacoli che sbuffano vapore, grandi finestre offuscate dalla fuliggine, serpentine di tubi lasciate a vista: gli edifici di Gotham City sono coperti da strutture espressionistiche che si rifanno all’immaginario industriale. L’impressione, ad un occhio non allenato, potrebbe essere quella di una ridondanza di segni. Forse il fascino di Gotham City, però, consisteva proprio nel poter seguire il dipanarsi dello scenario, esattamente come il fluire dell’azione. Anton Furst, uomo colto e abilissimo nella gestione di un così vasto progetto40, non riuscì più ad esprimere un così alto concetto di total design41. Il cammino del suo ispiratore, è proseguito invece notevolmente dal 1982, anno di costruzione di ARK, fino a farne uno degli architetti più importanti del Giappone contemporaneo. Staccatosi progressivamente dalla tendenza verso la megastruttura spoglia del Metabolismo, Takamatsu ha ripreso molto delle idee del Futurismo italiano e dell’Espressionismo tedesco. Della corrente dei padri, il Metabolismo, appunto, ha recuperato il concetto di città vista come un organismo soggetto a cicli di crescite e ricadute, ma ha eliminato il concetto fondamentale della megastruttura vista come unico progetto, capace di resistere nel lungo 39 40 41 Cit. in M. Vitta [ed.], 1996, Shin Takamatsu. Architecture and nothingness, L’Arca Edizioni, Milano, p. 39. Il set di Batman richiese una lunga gestazione formale, ma solo cinque mesi per la realizzazione effettiva. Lo scenografo è morto suicida nel 1991, dopo la sua prima commissione da vero architetto: la progettazione dell’HOLLYWOOD PLANET di New York. 37 periodo. Riprendendo le idee di Sant’Elia, che vedeva la sua CITTÀ NUOVA come uno spazio complesso dove ha luogo il processo produttivo, Takamatsu ha realizzato delle strutture che rivelano la propria tensione verso il futuro, mostrando questo progresso sia nella struttura [forma], che nella distribuzione dell’edificio [funzione], che ancora nelle relazioni con il tessuto urbano [contesto]. L’interesse di Sant'Elia era rivolto soprattutto verso «la capacità di programmare e utilizzare plasticamente movimenti ordinati e precisi»42; la mancanza di planimetrie presupponeva il primato dell’immagine nei confronti della fredda analisi della pianta. Negli edifici di Takamatsu non solo nulla viene lasciato al caso, ma la visione di una pianta non ne rivela tutta la ricchezza formale. Come in un quadro di Giacomo Balla [ad esempio Compenetrazione iridescente radiale, 1914], nei suoi edifici, gli elementi vengono scomposti e riassemblati secondo modalità di derivazione industriale, seguendo una logica meccanicistica. Attraverso l’andamento contratto della comunicazione di inizio secolo, la macchina si affermò come oggetto centrale nel rituale della metropoli moderna, grazie alla propria mobilità. Allo stesso modo le macchine da lavoro di Takamatsu non sono solo oggetti fermi nell’incanto del momento, ma la loro percezione cambia secondo la mobilità dello sguardo. Nel momento in cui i futuristi tendevano ad immobilizzare il tempo nei limiti del quadro, così l’architettura di Takamatsu rimane un oggetto, solo apparentemente scoordinato dall’ambiente, e fissato nello spazio urbano grazie a degli ancoraggi invisibili. La sospensione temporale di questi oggetti architettonici li situa in un mondo parallelo, in cui l’utilizzo di materiale industriale funge da pretesto per una parziale relazione con la realtà. Il concetto di Killing Moon, che torna spesso negli edifici di Takamatsu, è di 42 P. Portoghesi, 1998, I grandi architetti del Novecento, Newton & Compton, Roma, p. 259. 38 chiara matrice futurista: lo stesso Marinetti lo citava spesso. Ultimamente la rappresentazione della Luna è tornata in un progetto per un albergo situato nella prefettura di Osaka. Strutturalmente simile ad un grattacielo, la MOON TOWER è dotata di un’espressività formale notevole, grazie all’inserimento di un’enorme luna luminosa, che ne spacca verticalmente la composizione. Considerata dallo stesso architetto come una «transizione verso l’irreversibilità»43, la luna assume il significato specifico di collegamento con lo spazio dell’immaginario. I sentimenti che suscita sono quelli di un senso di astrazione dalla realtà, e di un precipitare in un mondo parallelo. Questa visione onirica era stata esplorata da Lewis Hine, il grande fotografo statunitense, verso gli anni Venti. Dotato di una forte sensibilità nello stabilire rapporti insoliti, tra figura umana e ambiente, sapeva isolare con il suo obiettivo l’astrattezza della città moderna e del macchinario industriale. Nelle sue fotografie, gli uomini venivano ridotti a figure lillipuziane, quasi ingoiate dalle macchine. In Steamfitter44 [1921], si riconosce tutta l’astrattezza che caratterizzò le ultime opere del famoso fotografo: dal realismo sociale degli anni Dieci era passato ad una dimensione onirica del lavoro e dei suoi referenti meccanici. Allo stesso modo si possono leggere i mutamenti di significato insiti in un’opera di Takamatsu. Nel desiderio di esplorare il lato oscuro della psiche umana, i suoi oggetti d’architettura si presentano in maniera sinistra. Il KIRIN PLAZA di Osaka [1987], ad esempio, si presta ad una decodifica aberrante. Niente, in questo edificio, è ciò che sembra essere. Costruito in cemento armato, ed inframmezzato da inserti in acciaio ed alluminio, il KIRIN PLAZA presenta sulla cima quattro torri traslucide, realizzate in vetro e carta di riso, che alla luce notturna simulano gli andon, le tradizionali lampade giapponesi. Le torri non rappresentano un elemento casuale nel 43 44 Cit. in M. Vitta, 1996, op. cit., p. 187. L’opera raffigura un uomo intento ad avvitare dei bulloni ad una macchina a vapore che presenta la stessa struttura frontale di ARK. 39 contesto generale, ma fungono da riferimento per i pedoni che affollano lo strip commerciale di Shinsaibashisuji. L’immaginario meccanico è sempre stato una fonte di ispirazione, anche prima che Le Corbusier affermasse che la casa è una macchina per abitare. In edifici come il KIRIN PLAZA, lo spiazzamento determinato dalla [presunta] ignoranza sulla destinazione d’uso, prevale sull’ammirazione che si può provare nel vedere un oggetto cesellato con precisione. Gli oggetti di Takamatsu dimostrano la continua capacità della macchina, di eccitare i nostri sensi. Queste costruzioni sono meglio definibili degli oggetti d’architettura, in quanto mancano allo sguardo gli elementi costitutivi di un edificio. Nel KIRIN, ad esempio, non si distingue la separazione tra un piano e l’altro; mancando anche le finestre, la sensazione istintiva è di trovarsi di fronte ad un oggetto ermetico ed ostile. Questa sensazione deriva dalla mancata sincronia tra un ambiente in continua evoluzione, ed il linguaggio formale dell’architettura. Volendo applicare le classificazioni formali redatte da Paolo Castelnovi, riguardo alla percezione della struttura urbana45, si potrebbe affermare che il cittadino formula i propri giudizi sull’ambiente circostante, attraverso un vocabolario semantico ormai datato. Il dover procedere per sintesi approssimative di questo linguaggio, in modo da permettere una definizione dell’oggetto, non ne aiuta la comprensione formale. L’architettura di Takamatsu va oltre questo alfabeto architettonico, non è riconducibile a nessun paradigma, ma si pone esplicitamente come oggetto che riferisce soltanto a sé stesso. Trovandosi a lavorare in un ambiente urbanistico saturo, Takamatsu ha dovuto stabilire dei rapporti nuovi tra architettura e natura, tra testo e contesto. Si spiega così il posizionamento semantico di ARK: influenzata dalla vicina stazione ferroviaria, 45 la clinica determina un’ulteriore ridefinizione dell’ambiente Cfr. P. Castelnovi, 1980, La città: istruzioni per l’uso. Semiotica della comunicazione nel progetto e nello spazio urbano, Einaudi, Torino, pp. 126-130. 40 circostante, determinando il passaggio da una sostanza meccanicistica, data dalla sua struttura, ad un’essenza onirica, data dal suo essere “destabilizzante”. L’architettura può così spiegarsi come una macchina produttrice di senso, inteso come senso individuale, sollecitato in modi differenti secondo il proprio vocabolario semantico. La mobilità dello sguardo, provocata dal continuo sovrapporsi di rimandi ipertestuali, costituiti dal citazionismo industriale degli oggetti di Takamatsu, provoca quella Steigerung des Nervenlebens di cui aveva parlato Georg Simmel con riferimento alla Metropoli Moderna46. L’osservazione di questo tipo di oggetti va nella direzione opposta rispetto all’atrofizzazione intellettuale provocata da certo razionalismo spinto all’eccesso. L’architettura di Takamatsu si impone come luogo, perché riconcilia le sensazioni destate, in un unico flusso di coscienza, distogliendo l’impressione individuale dalla propria tenacia osservativa, ed elevandola a natura spirituale. Il luogo ARK o il luogo KIRIN PLAZA, appartengono di diritto alla Metropoli, in quanto evocativi del ciclo di produzione: Finché il valore della città è semplicemente sintesi di forma e funzione nella appercezione originaria della sua totalità, la dimensione temporale rimane assente. […] Anche il tempo va conciliato. Anche nel tempo deve esserci forma47. Takamatsu va oltre questa appercezione: la forma del nostro tempo potrebbe essere quella di questa architettura, così provocatoria da spingere al dibattito, così evocativa da riportare alla mente le mille citazioni, filmiche e architettoniche, presenti nella nostra coscienza. 46 47 Cfr. M. Cacciari, 1973, Metropolis, Officina, Roma, p. 10. Ibid., p. 82. 41 1.3 “TRUMAN SHOW”: LÉON KRIER. L'UTOPIA DELL'ETERNO PRESENTE Broadacre è la nostra città libera per la Sovranità dell’Individuo! Quando la democrazia edifica, questa è la naturale città della libertà nello spazio, del riflesso umano. Frank Ll. Wright [1958] Quando nel 1998 Andrew Niccol firma la sceneggiatura di The Truman Show, l'autore di Gattaca mette nuovamente in piedi una struttura basata sull’effetto della nostalgia, come fu nel 1982 per Blade Runner. Partendo dallo stesso spunto [la città immaginata come reale] The Truman Show opera in maniera diversa sul terreno della fantascienza. Se Blade Runner voleva essere una sintesi tra lo stile architettonico del 2020 e lo stile narrativo del 1940, fondando quindi la propria tesi sugli archetipi narrativi del noir, The Truman Show mostra «uno scenario del futuro basato su una sorta di conto alla rovescia»48. La visione apocalittica di Ridley Scott ha lasciato il posto ad un piccolo mondo antico tanto puro, quanto inquietante. L’inquietudine deriva soprattutto dal fatto che la città dove vive il protagonista Truman Burbank, Seahaven, esiste veramente: si tratta di una località turistica situata in Florida. Costruita negli anni Ottanta, SEASIDE, questo il suo vero nome, è un’unica architettura congelata nel tempo, una sfida aperta al concetto fortemente americano di individualismo. Dall’unicità dell’opera di Wright [un progetto per un solo utente], si giunge qui al pluralismo [non] intellettuale, all’architettura diffusa [perché democratica] e condivisa [tanti progettisti per altrettanti utenti]. Il Sogno Americano è dunque realizzato: siamo dalle parti del politicamente 48 D. M. Steiner, 1999, “The Truman Show”, Domus 816, p. 8. 42 corretto in versione immobiliare, «una terra promessa per i ceti medi urbani di tutto il mondo»49. La forza del film risiede proprio nel fatto che la finzione, in questo caso fantascientifica, opera su di un substrato reale, che amplifica il dramma della solitudine di Truman Burbank. Il protagonista, uomo più moderno di Rick Deckard, è un integrato: si trova perfettamente a suo agio in quello che lui considera un habitat naturale, ed assume quell’atteggiamento di buona creanza così frequente nei film ambientati nei sobborghi. Rick Dekard è invece in una situazione di distopia: completamente slacciato da una città che lo rifiuta, si considera incapace, forse perché deluso, di stringere dei rapporti interpersonali con chiunque, tipico rigurgito della vita nella grande ed inospitale metropoli. Che la vita vera [perché più accessibile dal punto di vista personale, ma non per questo meno terrificante], risieda a Seaside/Seahaven piuttosto che nella Los Angeles del 2019, è un dato di fatto. Al drammatico conflitto tra inferno fantascientifico ed inferno realizzato, sembra rispondere il lavoro di Léon Krier, architetto lussemburghese, il cui lavoro è caratterizzato dalla stessa immobilità atemporale di The Truman Show. Se la sua prima realizzazione tridimensionale è costituita da una delle facciate della VIA NOVISSIMA50, la sua prima costruzione effettiva è un’abitazione realizzata per sé proprio a Seaside. Il regolamento edilizio della cittadina prescriveva il linguaggio classico come fattore unificante e prendeva spunto dal pensiero di Krier. Il suo classicismo non ha mai avuto nulla a che vedere con la retorica della École des Beaux-Arts. Fuori del raggio d’azione dell’eclettismo, Krier ha dunque realizzato un accomodamento tra «antichità e Rinascimento, […] filtrato da una parte da uno spirito di razionalità e di 49 50 Ibid., p. 9. Cfr. P. Portoghesi, V. Scully, C. Norberg-Schulz, C. Jenks, 1980, op. cit. 43 semplicità, e dall’altra dal rispetto per le tradizioni locali e l‘interesse per il vernacolo»51. Ovviamente nessuno all’inizio degli anni Ottanta avrebbe mai previsto un tale revival dell’urbanesimo di fine Ottocento. Aiutato dalla passione del principe di Galles per l’architettura, il movimento New Urbanism ha preso lentamente piede ottenendo una piena legittimazione. Le città giardino hanno cominciato a fiorire in Inghilterra, Stati Uniti, India, Giappone. Negli Stati Uniti, in particolare, si è sviluppato attraverso il connubio con la crescente preoccupazione da parte dei cittadini per la propria incolumità. Il principio originario, la vivibilità sostenibile, si è così modificato escludendo a priori dai regolamenti cittadini tutto ciò che non fosse conforme alla Regola dell’Ordine. Celebration, Modesto, Liberty Harbor, Seaside, e molte città della Florida e della California sono state costruite secondo i dettami della rigidità dell’accesso. Ogni pretendente alla cittadinanza deve superare dei rigidi esami da parte della comunità, e osservare le regole contenute nel contratto di acquisto dell’abitazione. Come un mondo a parte, all’interno di queste cittadine vigono regole inusitate per qualunque altra città. Il più delle volte non possono essere apportate modifiche all’aspetto esterno della propria abitazione, previo consenso della comunità, per non turbare l’ordine formale dell’intero quartiere52. Il sogno usoniano di Wright sembra quindi completarsi: i principi fondativi di luoghi/nonluoghi come Celebration sono basati esclusivamente e rigidamente su sei stili architettonici di base. La nuova tendenza è dunque quella del «progetto sempre uguale»? L’affermazione è di Bruno Minardi, architetto italiano legato ai volumi classici. Minardi così descrive il suo fare architettura: il progetto sempre uguale e sempre diverso, assume nella inclinazione di un tetto, nella dimensione di una finestra, nei materiali della costruzione, una propria indissolubile localizzazione che non si esprime con il capriccio o l’artificio dell’uomo, ma attraverso le 51 52 P. Portoghesi, 1998, op. cit., p. 660. Una dissacrante visione di quest tipologia di vita è stata recentemente portata sugli schermi con La donna perfetta. 44 grandi regole della natura53. Quest’ipotesi di lavoro sull’artificio/natura, descrive la tendenza al neoconservatorismo, ad un recupero degli archetipi classici. Il riciclaggio degli stili è sostenibile attraverso due percorsi differenti: decontestualizzando in forma ironica l’elemento classico, come nell’opera di Robert Venturi, oppure ripreso rigidamente per un’immersione totalizzante nell’antichità, come nel caso dell’architetto greco Demetri Porphyrios54. L’uguaglianza di questi luoghi è favorita dalla volontà precisa di esporne pubblicamente le facciate. La casa privata assume così valore di vita pubblica, pubblicizzata e controllata dai propri vicini. Scrive Denise Scott Brown: se gran parte degli edifici privati hanno una facciata pubblica, qual è la natura dell’interesse pubblico nei confronti di quesa facciata? Gli edifici privati dovrebbero essere edifici sfondo al settore pubblico? […] il settore pubblico è interessato agli edifici privati nella misura in cui questi coinvolgono il pubblico interesse e si rapportano all’ambito pubblico [1990 p. 30]. L’apertura verso l’esterno , la piazza, del privato se da un lato rafforza la coesione ed i rapporti interpersonali, perduti nell’anonimato della metropoli, dall’altro incide irrimediabilmente sulle dinamiche familiari, esposte come in vetrina. L’agorà diventa luogo per l’occhio panottico del cittadino, strumento di controllo sociale e coercizione dei propri gesti. Le abitudini devono farsi uguali: la tendenza alla democratizzazione influenza quindi non tanto la forma, quanto la funzione stessa dell’essere. Il corpo nostalgico di Truman, vestito come negli anni Cinquanta, rappresenta l’uomo dei reality show e delle fortezze impenetrabili di città come Los Angeles. Represso in uno spazio caramelloso ed edulcorato da ogni possibile violenza, Truman vive il suo Eterno Presente senza domande, finché non entra in gioco un elemento di disturbo. Il New Urbanism di Krier e dei teorici non contempla evasioni dalla prigione o deviazioni da quella sostanza che è la Forma anzitutto: «non esiste un’architettura rivoluzionaria o reazionaria. Esiste solo un’architettura o la sua assenza, cioè la sua astrazione». 53 54 Ibid., p. 669. Autore, tra l’altro, di un piccolo padiglione nel quartiere ultramoderno di Battery Park [New York], dalla struttura di un tempio greco. 45 2 La Letteratura e il Tempo 46 2.1 “LE CITTÀ INVISIBILI”: ALDO ROSSI LA SOSPENSIONE DEL TEMPO E DELLO SPAZIO Nel 1980 si inaugura la prima Biennale di Architettura a Venezia. Il tema è LA VIA NOVISSIMA, percorso attraverso lo sguardo degli architetti su un’ipotetica strada cittadina. Quella mostra segnerà l’epoca dell’architettura disegnata, periodo nel quale la Forma immaginaria della città prenderà il sopravvento sul costruito effettivo. Partendo dallo spunto di Anastasia, descritta da Calvino ne Le Città Invisibili, si può tentare di comprendere meglio il significato che ha avuto l’architettura effimera nella nostra cultura: mentre la descrizione di Anastasia non fa che risvegliare i desideri uno per volta per obbligarti a soffocarli, a chi si trova un mattino in mezzo ad Anastasia i desideri si risvegliano tutti insieme e ti circondano. La città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte, e poiché essa gode tutto quello che tu non godi, a te non resta che abitare questo desiderio ed esserne contento [1972, p. 12] Il desiderio entra prepotentemente nell’immaginario dell’architettura, un desiderio nostalgico, come nel caso successivo ma ben più gelido del New Urbanism. Calvino descrive Anastasia, solo una delle tante forme della sua idea di città, come «ingannatrice», e Aldo Rossi ha a lungo giocato con l’inganno della memoria nello spettatore. 47 Il TEATRO DEL MONDO costruito in occasione della Biennale era una struttura effimera perché nata e morta solo per quel momento storico. Rappresentazione del suo modo di fare architettura negli ultimi anni di lavoro, il teatro voleva mettere in scena un sogno leggero e spensierato. Un mondo intero, racchiuso in un ottagono, ancorato alla realtà terrena tramite delle funi: «l’uomo si incontra ad Anastasia, città bagnata da canali concentrici e sorvolata da aquiloni»55. L’immaterialità dell’effimero diviene plasma nelle mani di un autore conosciuto precedentemente per la pesantezza del costruire [come nel caso del quartiere gallaratese]. La questione oggettiva del movimento moderno stava per essere messa da parte in favore di una nuova soggettività, di un percorso più personale nel proprio pensiero. La lievità di questo ragionamento può esere rintracciata in uno degli scritti di Antonio Sant’Elia che sosteneva: «che ciascuna generazione possa costruire la città secondo le proprie necessità». Il bisogno di un progetto più personale e vicino al cittadino, è forse il sentimento che ha guidato Rossi verso delle strutture più capaci di comprendere l’anima di chi le abitava. Ma anche nel TEATRO si nota la questione del razionalismo. Forma classica e priva di funzione [e quindi antirazionalista], rivela una evidente chiusura verso il mondo esterno. Come nel caso di Ghery e delle strutture decostruttiviste, in questi edifici si realizza il Sogno del Prigioniero. Quello di un uomo costretto dalla gabbia di una città che lo respinge e di cubi vuoti di sentimento che lo respingono. Il Teatro di Rossi è come la summa delle tante città di Calvino, una architettura femmina perché attraente al primo istinto e respingente come un’onda anomala. I luoghi calviniani della Memoria del passato, del Desiderio si completano nelle città dei Morti. Tuguri senza sbocco, 55 Ivi. 48 privi di luce e speranza, sono quegli artifici in cui il cittadino moderno si è trovato più volte senza alternativa. Una moltitudine di strade senza sbocco, che conducevano unicamente ad un’idea razionalista di Ordine. La lievità del Teatro non ne esemplifica la formalità. Il razionalismo spinto all’eccesso di Rossi è come Marozia, la citta che «quando meno te l’aspetti vedi aprirsi uno spriraglio e apparire una città diversa, che dopo un istante è già sparita»56. Un guscio vuoto la cui facciata è costituita dal Desiderio, dall’aspirazione alla Libertà che animava gli spiriti del Movimento Moderno, ma che al momento stesso precludeva ogni possibile deviazione dal percorso originario. Un’eterna illusione fattasi scena. 56 Ibid. p. 155. 49 2.2 “L'ALEPH”: FRANK O. GEHRY INVOLUZIONE ED ENTROPIA NEGLI SPAZI DELLA CULTURA Quando J. L. Borges descrisse ne L’immortale [1947] il palazzo del protagonista, un luogo impossibile come una figura di Escher, non poteva immaginare che la costruzione formale di quel racconto sarebbe stata realizzata in forma di titanio più di 50 anni dopo. Così descrive l’autore argentino la Città degli Immortali: Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura ricca di simmetrie è subordinata a tal fine. Nel palazzo che imperfettamente esplorai l’architettura mancava d’ogni fine. Abbondavano il corridoio senza sboco, l’alta finestra irraggiungibile, la fastosa porta che s’apriva su una cella o su un pozzo, le incredibili scale rovesciate, coi gradini e la balaustra all’ingiù [1949, p. 17]. La ricchezza letteraria di Borges si dipana lungo questo racconto attraverso la metafora del labirinto e del palazzo, come espressioni del tempo che [non] passa. Un’involuzione della curva temporale che attraversa la vita/non vita di Omero, l’immortale del titolo. L’ordine costituito della letteratura contemporanea è per Borges un puro strumento di esplorazione del suo scheletro e di rivoluzionamento attraverso il linguaggio. Partire quindi da una funzione statica per rielaborarla attraverso più Forme. Nel 1997 viene completato il GUGGENHEIM MUSEUM a Bilbao, dopo circa dieci anni di progettazione. Osannato, criticato, ha comunque raggiunto il suo scopo facendo parlare di sé, del suo autore e riportando alla ribalta il discorso sul futuro e la funzione dell’architettura. 50 Il GHERY MUSEUM, è più giusto chiamarlo così, riassume in un unico concetto di metallo fuso venti anni di lavoro dell’architetto americano intorno alla struttura e alla funzione dell’architettura contemporanea. Frank O. Ghery, californiano di nascita, inizia a farsi conoscere esattamente come Robert Venturi, tramite la progettazione della propria casa, primo esempio del decostruzionismo. La tendenza alla destrutturazione formale della metropoli è visibile fin da questo progeto, espanso, in continuo rivoluzionamento. Una forma instabile continuamente soggetta a cambiamenti e aggiunte, come stralci di un romanzo mai completato. Ghery lavora per accumulo di informazioni, da un certo punto di vista, come Borges. Limando continuamente, sino a rasentare il perfezionismo il proprio costruito, seguendo il filo del labirinto. Entrare in un suo edificio vuol dire non sapere cosa trovare dietro una voluta o una curva. I volumi sono pesanti e allo stesso tempo lievi, come leggendo tra le righe dello scrittore argentino e riuscire a trovare nelle sue infinite citazioni un discorso ormai perduto. Il tema è quello dell’Entropia. Di uno spazio talmente espanso da potersi ridurre in pulviscolo nel palmo di una mano. Le volute del GUGGENHEIM attirano il visitatore facendogli perdere il senso originario del suo vedere. Il museo diventa luogo di esposizione del sé, in cui non si va tanto ad ammirare una collezione di opere d’arte, ma è la stessa sovrastruttura a farsi capolavoro. Facendo rientrare anche in questo caso il desiderio e le forme che l’immaginario possono ricreare, si può affermare che le spire avvolgenti del GUGGENHEIM possono essere paragonate alle biblioteche infinite di Borges. Quei luoghi privi di dimensioni [o le cui misure sono totalmente fuori scala] che costringono lo sguardo verso l’alto e verso la propria struttura più che su ciò che si sta effettivamente cercando. Il museo diventa un nuovo luogo di culto per farsi avvolgere appieno dallo spirito dell’Arte, in tutti i sensi. La tendenza ad escludere l’esterno è simile a quanto già visto per l’architettura razionalista di Rossi. La 51 maggior parte dei lavori di Gehry sono caratterizzati da un «look da stato d’assedio»57, come lo ha definito Mike Davis, intendendo far notare quanto queste fortificazioni fossero in contrasto con il loro dovere di essere edifici per un pubblico più vasto possibile. Le sue costruzioni a Los Angeles ne sono un classico esempio. Metropoli in perenne conflitto con il proprio subsrato sociale e l’inarrestabile espansione urbana, Los Angeles vive del rituale della rappresentazione del consumo, attraverso gli shopping mall ed i quartieri simulanti la realtà come Citywalk, agorà pulite e fortificate, dalle quali sono esclusi gli inhumaines. Fuori dal pulito e l’ordine c’è il caos, sembrano dire i nuovi grattacieli costruiti durante il riassestamento del Downtown losangeleno. Un caos denso di conflitti sociali e determinanto unicamente dal possesso e dalla capacità di consumo. All’interno di questa logica, gli spazi museali e le biblioteche, luoghi di arricchimento personale e non solo materiale, procedono nella stessa strada. Le dolci curve dei musei di Gehry possono quindi trasformarsi in guglie acuminate per chi non ha la conoscenza adatta a superarle. Nuvole non suadenti come quelle di Fuksas, ma bocche pronte ad ingerire il passante incauto, come un Minotauro borgesiano, affamato di visione. 57 M. Davis, 1990, La città di quarzo. Indagine sul futuro di Los Angeles, Manifestolibri, Roma 1993, p. 121. 52 2.3 “L'ISOLA DI CEMENTO”: RICHARD ROGERS L'ARCHITETTO E LA FARFALLA: LEGGEREZZA PER UNO SVILUPPO [IN]SOSTENIBILE In L’isola di cemento [1974], romanzo di James G. Ballard, il protagonista si trova dopo una curva sbagliata su una tangenziale ad affrontare un incubo che ne mina l’identità di cittadino e di uomo. Scaraventato sotto i piloni dell’autostrada dopo un incidente e impossibilitato dall’uscire da quella che lui definirà appunto isola, Maitland, un architetto di successo, deve azzerare le proprie conoscenze sulle strutture che ha intorno e adattarsi ad una vita da Crusoe in mezzo al cemento. Maitland perde la cittadinanza di Londra, luogo invisibile nel romanzo se non per le luci che riverberano la notte, perché nel momento in cui scompare, ingoiato dalla scarpata, termina di esistere. Nessuno si accorge di lui, gli automobilisti lo evitano, considerandolo un barbone o un pazzo. L’architetto, allo stesso modo, pur essendo un uomo controllato, perde il proprio status di umanità, riducendosi a belva. La sua incapacità di adattamento a dei luoghi che dovrebbe comunque conoscere e capirne la sostanza di cemento che lo circonda, rende il personaggio di Ballard una vittima della modernizzazione della città e 53 dell’anonimato che permea le architetture autostradali. Schermandosi dal sole, Maitland vide che si era arrestato in una piccola isola spartitraffico triangolare, lunga meno di duecento metri, che si stendeva in una zona incolta fra tre autostrade convergenti. […] La vista delle sei corsie di traffico era preclusa da schermi paraspruzzi di metalo ondulato, installati per proteggere i veicoli sotto [1974, p. 12]. Il mondo da patinato e lineare, come la sua Jaguar distrutta, si fa pieno di segni incomprensibili e brutale, come l’architettura inglese degli anni Cinquanta e Sessanta, denominata proprio brutalista, dalla pesantezza plastica del cemento armato. A questa rigidità e grevità di segni si sono opposte le utopistiche megastrutture del gruppo Archigram. Questo gruppo di architetti, operanti in Inghilterra a partire dagli anni Sessanta, sono da sempre considerati come l’ultima avanguardia di fine secolo. Ispirato da una fede smisurata nel progresso tecnologico, e nell’illimitatezza delle risorse disponibili, il gruppo Archigram ha concepito una visione di città costruita come monolito, abitate da centinaia di migliaia di persone58. Da sempre fautori di un’architettura in continuo movimento e mutazione, il gruppo ha avuto una grossa influenza sulla tendenza High Tech, che a partire dal 1977, si è affermata come nuova corrente di pensiero. Il merito dell’Archigram è di aver saputo dare leggerezza nel tocco ad un’utopia fondata sulla cultura pop e sull’ibridazione tra massa, cultura e architettura. I passi successivi ai sogni di Cook e del suo gruppo hanno denotato l’affaticamento di questa visione, e la perdita dell’utopistico volo di farfalla. Il 1977 è l’anno dell’inaugurazione del CENTRE GEORGES POMPIDOU a Parigi, progettato da Renzo Piano e Richard Rogers, ed è l’anno spartiacque tra la concezione razionalista ed il nuovo concetto ingegneristico del fare architettura59. 58 59 Cfr. Archigram, 1973, op. cit. «Non sono preparato a considerare architetti gente come Renzo Piano o Nouvel o altri ingegneri del genere»: dichiarazione di Ettore Sottsass in F. Irace, 1998, “2000 & fine secolo. Risposte di grandi architetti.”, Abitare 379, p. 59. 54 La tendenza High Tech mette in risalto non solo la struttura dell’edificio, ma anche tutte quelle infrastrutture che fin ad ora erano tenute nascoste dal cemento armato. Questa nuova estetica della tecnologia ha preso poi due direzioni diverse. Da un lato la realizzazione di forme appartenenti al mondo naturale, tramite l’utilizzo della tecnologia, strada intrapresa da Renzo Piano; dall’altro il revisionismo macchinistico dell’ingegneria industriale dell’Ottocento, come nel lavoro di Richard Rogers, Jean Nouvel, Norman Foster. Nello stupefacente LLOYD’S BUILDING [1978-86], Richard Rogers ha dato una nuova forma al concetto di architettura flessibile: il suo sembrare un work in progress ne ha fatto non solo un edificio destabilizzante dal punto di vista visivo, ma anche una vera macchina per lavorare, dal punto di vista strutturale. Come nell’architettura High Tech, Blade Runner, il film più simile ai libri di Ballard e alle architetture di Rogers, mostra non l’indispensabile, ma il complementare: è necessario, nel film, integrare la visione con la rievocazione del passato. L’officina meccanica del LLOYD’S BUILDING si colloca a metà tra corpo e macchina senziente. Levare lo sguardo verso il verticalismo spinto all’eccesso delle architetture di Rogers è come il tentativo di scalata impossibile di Maitland. L’essere farfalla vuol forse dire che con il LLOYD’S, corpo di metallo e cemento, si è in parte realizzato quello sfioramento dell’utopia del gruppo Archigram. Sfiorare, esattamente come un librarsi in volo verso l’alto, arrampicandosi sulle strutture nude e a vista, come avrebbe fatto Maitland. 55 3 Il Fumetto e lo Spazio 56 3.1 “APPLESEED”: EURALILLE [R. KOOLHAAS, J. NOUVEL, C. DE PORTZAMPARC, K. SHINOARA, C. VASCONI] ARCHITETTURA E COMUNICAZIONE TOTALE PER UN PROGETTO DI “CITTÀ FUTURA” Nel 1985 Masamune Shirow pubblica i primi due volumi di Appleseed, un manga fantascientifico destinato a rivoluzionare il concetto di sci-fi. La serie, incentrata su una coppia di cyborg, si svolge in un ipotetico futuro post-apocalittico, in una metropoli di nuova generazione, Olympia, costruita completamente ex-novo. Olympia è caratterizzata dalla monumentalità mostruosa di alcune strutture, destinate ad accogliere migliaia di abitanti, secondo un progetto di grandiosità, insita nei suoi progettisti. La bigness architecture, termine coniato da Rem Koolhaas, è il termine di paragone più vicino ai mostri urbani di Appleseed, edifici non più solo grandi, ma significativi nella loro espansione gigantica. Lo sprawl urbano è il concetto intorno al quale e’ nato il nuovo centro urbanistico di Euralille. Concepito nel master plan da Rem Koolhaas e realizzato alla fine degli anni Novanta, Euralille nasce principalmente come snodo per il TGV e come collegamento, vista la posizione geografica, tra la Francia e il Belgio. L’innesto di nuovi edifici, come il terminal del TGV e tutto lo spazio dedicato agli uffici progettato da un team guidato dallo stesso Koolhaas, toglie la definizione 57 dei confini alla antica Lille, città storica, e la riconfigura come diffusione ed estensione. Un terrain vague che si potrebbe rinominare secondo l’accezione di Calvino, città continua, bisognosa comunque di un centro forte, facilmente riconoscibile. Dato, appunto dalla torre di Portzamparc del CREDIT LYONNAIS. Secondo le stesse parole di Koolhaas, Euralille eludes traditional analysis […] this is why it is generating confusion, conflict and contradiction”. […] the discovery of a newtype of urbanism which opposes the concept of the city as an ordered series of objects; we should be promoting forms which are rarely expressed and which havo no architectural relation whatsoever with one another [Espace Croisé, 1996, p. 9]. È chiaro l’intento messianico di Koolhaas, il cui aim è certamente quello di creare forme nuove non riconoscibili nell’urbanistica tradizionale. Ma la difficoltà nel cittadino è proprio nel riconoscere la stabilità di questi luoghi. Euralille è una città costruita secondo la logica della velocità, data dal treno e dall’automobile, una dispersione di senso civico che ritrova il proprio centro negli elementi forti del centro direzionale. Così simile a questo concetto è stato recentemente assegnato al gruppo Citylife, con progetto di Libeskind-Hadid-Isozaki-Maggiora, la gara per il nuovo POLO FIERA DI MILANO. La possibilità di erigere un corpo uniforme che non devastasse la già difforme area lombarda, è stata eliminata a favore della nuova cultura dell’imposizione di un luogo. Secondo questa nuova forma di progetto, il creare forme così evidenti da risultare volgari, è l’unico sistema per rendere il terrain vague visibile, infinito in quanto indimenticabile. Nel 1917 Tony Garnier progettava un ideale di Città Industriale fondata sull’equilibrio tra il razionalismo della macchina e il sentimento della natura. Un luogo in cui il transito tra vecchio e nuovo poteva definirsi attraverso un passaggio dolce tra vernacolo e modernismo: 58 créer une cité de type nouveau, qui apporte le bien-être, l’hygiène, les avantages des services publics et même la verdure, au profit d’une société industrielle, la société socialisée de l’ère industrielle [1917, p. 40]. La funzionalità di questi luoghi è invece quella non di elemento stanziale e sicuro, ma di passaggio attraverso una città ed un’altra, determinato dall’estremismo visivo di alcune sculture. Gli elementi costitutivi di queste città devono, in virtù della velocità dell’automobile o del treno, imprimersi nella memoria come opere d’arte, e quindi stupire, meravigliare. La caratterizzazione di metropoli continue come Los Angeles e Las Vegas, diffuse attraverso infiniti quartieri residenziali, si sta diffondendo anche in Europa, attraverso un gusto irrazionale per la discontinuità. Entrando ad Olympia o Euralille si interrompe il flusso della campagna e della piccola urbanizzazione. Significa trovarsi in un contenitore vuoto di signficati culturali e umani, ma denso di contenuti validi per chi ha la capacità di comprenderne la complessità. 59 3.2 “BLAME!”: GIOVANNI BATTISTA PIRANESI LA PRIGIONE COME METAFORA DEL CORPO E DELLA STRUTTURA La rovina ha contribuito alla nascita del paesaggio come genere pittorico poiché ha contribuito a inquadrare la natura e a creare un gusto alla moda Franco Speroni [2002] La scena tragica, palcoscenico nato nel furore estetico del barocco, e organizzatosi semanticamente nel settecento, rappresentò per Giovanni Battista Piranesi un punto di partenza da cui sviluppare i suoi caprices. Architetture fantastiche che si dispiegarono secondo una logica unica nel suo genere, capace di passare dal concetto di immaginazione a quello di immaginario. Secondo Abruzzese l’immaginario è legato in modo imprescindibile a quello di costruzione di senso della metropoli60, e le carceri piranesiane possono essere lette seguendo un percorso nel corpo sotterraneo della città. Le Carceri [1749] non esistono se non nella loro rappresentazione, rovina tragica ed eccessiva di un’idea di città dissolta. La scarnificazione degli antri umidi, residui di un’epoca non appartenente a questa realtà, diventano corpi deprivati di luce, vita e colore. Il gusto ecessivo di Piranesi per la costruzione formale e il dettaglio del costruito ha influenzato più di una visione successiva. 60 A. Abruzzese, 1973, Forme estetiche e società di massa, Marsilio, Venezia. 60 Nel nero e [poco] bianco di un futuro fantascientifico, Tsutomu Nihei sceglie di ambientare il suo fumetto Blame! [1998-2004] tra false prospettive e scale senza approdo. L’influenza delle Carceri nel disegno dell’autore giapponese è notevole e richiama altri significati, nascosti nei disegni originari. Se in Piranesi i corpi dei carcerati erano minuscoli e senza forma tra gigantesche macchine di pietra, in Nihei diventano scheletri impazziti, circondati da un buio che ingoia. Sangue, lacerazioni, umori corporali sono gli unici segnali di vita della piccola gente che affolla questo fumetto, in una storia il cui senso è legato unicamente al passaggio, come in un videogame, al livello superiore e più complesso. Parafrasando Robert Venturi e le sue complessità e contraddizioni in architettura61, il nodo di Blame! non si scioglie fino all’ultimo, costringendo il lettore ad una dinamica visiva sempre più indecifrabile. Le normali linee di lettura seguono il filo della china di Nihei, un groviglio inestrcabile di tubi, lacci, prospettive cieche. La densità di segno di Piranesi era finalizzata alla [non] visione di una città infinita. Come scrive Rullani «in essa il massimo dell’entropia possibile ha distrutto le vecchie forme, ma ha creato spazio per i flussi, per i movimenti, per il distacco che rende mobili»62. Questa visione di un passato che non esiste ma che è comunque nostalgia, dispega i propri rami secchi nella città panico descritta da Virilio. Il filosofo parla di carcerazione del progresso63, riferendosi alla gabbia della globalizzazione. Una simile visione può essere associata ai corpi decostruiti e postumani del manga, figure esili e scarne come una scultura di Giacometti, avvolte da un Carcere infinito chiamato Mondo. Quando la sensibilità si fa perturbante irrompe sulla scena di questo teatro disegnato la geografia del corpo 61 62 63 R. Venturi, 1966, Complessità e contraddizione in architettura, Dedalo, Bari 1980. E. Rullani, 2004, “La città infinita: spazio e trama della modernità riflessiva”, in A. Abruzzese, A. Bonomi [ed.], La città infinita, Bruno Mondadori, Milano, p. 71. P. Virilio, 2004, Città panico, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, p. 61. 61 di Perniola64. Anti-mimetici per eccellenza, i corpi di Blame! si configurano come svuotati di umanità, carni putride ed esibite la cui funzione si esplica solo attraverso una violenza fuori controllo. La pretesa di Nihei, come di Piranesi, non è quella di imitare la realtà, ma di sviluppare un discorso sull’organcità dei luoghi. Le Carceri e la Città di Blame! sono vive del sangue dei morti e del respiro dei muri umidi. Il concetto di transito65 di Perniola è in questo caso il passaggio dal corporeo al fuori da sé, dal naturale al triviale, ai limiti dell’eccesso. Il sovraccarico visivo è ancora denso della cultura barocca, che concentrava lo sguardo su un punto di fuga. Le prospettive dall’alto [Blame!] e dal basso [Carceri], tendono ad ingigantire le architetture schiacciando i corpi, mortificandoli. Le volte, gli archi ed i ponti sono veri e propri passages benjaminiani tra la vita della città e la morte degli inumani, dei tramiti per l’espansione virale ed ipertrofica della Metropoli. Una città che somiglia sempre più ad una prigione pregna delle sofferenze dei propri cittadini/carcerati. In pochi decenni il corpo suppliziato, squartato, amputato, simbolicamente marchiato sul viso o sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo, è scomparso. È scomparso il corpo come bersaglio della repressione penale [Foucault, 1975, p. 4]. E dallo spettacolo della morte descritto da Foucault si è avuto il transito verso l’esibizione della mortalità nel costruito, intendo con questo termine identificare una tipologia architettonica repressiva dell’iniziale spirito di bellezza e gusto. I mostri piranesiani furono ripresi ad esempio in Italia da Armando Brasini, con progetti e costruzioni che non si riappellavano ad una sognante megalomania ma ad una concezione malata dell’esplosione della metropoli. Brasini disegnò mostri soverchianti ogni possibile figura umana, quasi sculture fuori scala rispetto allo spettatore. Nel progetto del 1956 per il PONTE SULLO STRETTO, il naturale 64 65 Cfr. M. Perniola, 1994, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino. M. Perniola, 1998, Transiti. Filosofia e perversione, Castelvecchi, Roma. 62 passaggio dalla terra alla sospensione sull’acqua è stravolto da una pesante struttura simile ad una torre, vera e propria rimembranza delle pietre piranesiane. Simili architetture, da Piranesi a Brasini, passando per i costruttivisti russi fino ad arrivare alla città di Blame! sono accomunate dall’allargamento dei volumi, invasivi ed invadenti, che divorano letteralmente gli spazi vuoti. Gli attori di questa scena recitano su un palcoscenico in cui si ritrovano vittime delle strutture carnefici, schiacciati dal gelo di una città che li respinge. Queste prigioni, vere e proprie macchine desideranti66, secondo l’accezione di Deleuze e Guattarì, sono pietre eterne concentrano su di sé lo sguardo, nutrendosi dello spirito di chi le osserva e non può viverle se non subendole. 66 Cfr. G. Deleuze, F. Guattarì, 1971, Macchine desideranti. Su capitalismo e schizofrenia, Ombre Corte, Milano 2004. 63 3.3 “GHOST IN THE SHELL”: M. FUKSAS E TOYO ITO NUOVI SIGNIFICATI NELLA METROPOLI MODERNA: VERTIGINE E TRASPARENZA Delle noti di luce che l’architettura di vetro ci procurerà non possiamo tuttavia dire nient’altro se non che esse saranno davvero «indescrivibili» Paul Scheerbart [1914] Paul Scheerbart pubblica nel 1914 Architettura di vetro, un saggio visionario destinato a cambiare la visione dell’architettura moderna. Influenzato dalle teorie di Bruno Taut e dalla sua Alpine Arkitektur67, Scheerbart si fa promotore di un nuovo modo di intendere la modernità della metropoli. Il gusto per il ferro e il vetro di luoghi come il padiglione inglese dell’Esposizione Universale di Londra, che l’architetto-scrittore vede come simbolo di progresso, ne rivelano la grande preveggenza in fatto di utilizzo di materiali. Le descrizioni di queste architetture di luce sono state fonte di ispirazione ad esempio, per il GRATTACIELO DI VETRO di Mies, progetto mai portato a termine, ma divenuto nel frattempo uno standard per le costruzioni americane degli anni Trenta. L’evoluzione tecnologica dei nuovi materiali diventa il fulcro delle teorie miesiane, il ferro sostituito dal cemento, fino all’arrivo della deriva brutalista degli anni Cinquanta. Nella sua forma più pura, il ferro può essere associato all’età dell’ingranaggio industriale, abbinato al vetro che cominciava a comparire per le strade, con le prime illuminazioni notturne per le vie di Parigi e di Londra. 67 B. Taut, 1917, op. cit. 64 Contrariamente all’ottica dadaista il valore e la funzione dell’architettura convivono in uno scambio reciproco di ruoli e la forma assume le sembianze ibride della virtualità. Non astrazione pura, architettura disegnata nelle multiformi apparenze del C.A.D., ma immersione suggestiva nei meandri della mente dell’architetto, libero di costruire volumi e volute senza le costrizioni delle infrastrutture. Il vissuto della metropoli contemporanea americana si identifica in questa simbiosi di forma e funzione: la cultura digitale entra a far parte della vita di ogni giorno e l’evanescenza, l’incorporeità del bit è il punto di partenza per questo nuovo modo di intendere un’architettura evocatrice di altre realtà anziché pura astrazione formale. La simulazione, termine ereditato dall’estetica postmoderna, diventa il nuovo credo per tutta una schiera di giovani architetti: partendo dagli assunti dell’architettura di vetro dei padri del Movimento Moderno, come Walter Gropius e Mies Van Der Rohe, questi artisti del traslucido creano una nuova commistione tra la struttura razionale del chip informatico ed una superficie vitrea, trasparente ma allo stesso tempo priva di contorni pienamente definiti. La simulazione ed il flusso [di byte] sono quindi caratteristiche appartenenti alla scienza informatica, che architetti contemporanei come Toyo Ito, Rem Koolhaas, Massimiliano Fuksas interpretano in modo differente, inserendoli nei contesti più vari. Rem Koolhaas opera nel contesto olandese seguendo la strada del riassemblaggio dei volumi secondo una precisa logica del caos: l’instabilità apparente delle sue strutture nasce con l’intento di creare un movimento continuo di corpi e di cose, come in un loop informatico si ha quel circolo infinito di informazioni, creando complessità e non disgregazione. Una complessità solo apparentemente superficiale: i vuoti interni a queste scatole trasparenti riescono a creare una densità di significato ed un’interazione tra le parti ormai raramente riscontrabile nella metropoli vissuta all’esterno. Il flusso di energia osservabile in 65 molti dei progetti di Ito è anch’esso di chiara derivazione informatica. Inserendo delle variabili che influenzano l’apparenza dell’edificio a seconda dell’ora o del tempo atmosferico, Ito sceglie la strada della trasparenza totale: le persone, gli oggetti contenuti nei suoi progetti sono sempre osservabili dall’esterno, secondo una precisa scelta di smaterializzazione della superficie. Ecco che quindi tanto i musei quanto le abitazioni diventano dei nuovi piccoli mondi aggreganti che permettono all’individuo di interagire con l’ambiente circostante. Se la casa […], dev’essere soffice e flessibile e non rigida e densa, sarà, allora, concepita come un vestito elettronico, indossando il quale le persone potranno abitare la natura virtuale della metropoli diventando «come Tarzan nella foresta dei media». Affascinato dalla natura, Ito considera l’elettronica come l’energia in grado di reintegrare l’uomo nell’ambiente, nel fluire della vita [Prestinenza Puglisi 1998, p.23]. La percezione assume il valore di senso ottuso: la forma e l’essenza dell’oggetto architettonico varia secondo il momento nel quale viene recepito dallo spettatore/attore. Così è anche per Fuksas che nel suo progetto per il CENTRO CONGRESSI ITALIA EUR metabolizza il sogno attraverso nuvole interne a teche trasparenti: la compenetrazione tra ambiente metropolitano ed edificio eccezionale si realizza grazie alla sua abilità nel saper cogliere la rapida evoluzione dell’informazione. L’involucro diviene così un vetro attraverso il quale osservare i mutamenti interni del corpo centrale, che sia una nuvola sospesa nell’aria di un museo o delle onde che solcano i soffitti di uno shopping mall, secondo gli insegnamenti cari a Scheerbart. Il lavoro di questi architetti è quello di sottrarre gli elementi base di un edificio [l’opacità della superficie esterna, le articolazioni interne alla struttura] per favorire un completamento della visione da parte dell’astante. Non comunque un’architettura-spettacolo, destinata allo stupore, ma un nuovo modo di favorire l’integrazione ormai difficile di un edificio con la metropoli che lo ospita. Sempre più spesso infatti si è assistito ad edificazioni perturbanti in 66 quanto provocatrici di uno scollamento tra la realtà quotidiana e l’eccezionalità dell’evento. Proprio questa necessità di fuga dalla banalizzazione del reale ha provocato negli anni precedenti l’epoca postmoderna una ricerca forzata nella grandiosità, ovvero in quelle forme architettoniche definite nel contesto italiano come megastrutture, eredi delle teorie funzionaliste di Le Corbusier spinte all’estremo. Con il già citato progetto per il CENTRO CONGRESSI ITALIA EUR, Fuksas si è posto in una posizione decisamente alternativa alla concezione di spazio pubblico chiuso. Raro esempio di architettura slegata dalle correnti artistiche, impensabile in un territorio come quello romano, in cui si riesce raramente a trovare una via di mezzo tra la conservazione ad ogni costo ed il facile sensazionalismo, il parallelepipedo immaginato dall’architetto romano è scenografia pura, ma senza la pretesa di violentare ideologicamente il fruitore dello spazio. Non rimane quindi che adeguarsi, come ha fatto il cinema, all’idea di appartenere ad un terrain vague, con i suoi vuoti disimpegni, e con la sua incertezza formale. Un’indeterminatezza che sembra trovare nella memoria del passato, la sua unica via di fuga: solo tramite il recupero si può alimentare il nuovo. Un recupero non fine a se stesso [di impronta postmoderna], ma basato sul fascino del passato più che sul suo aspetto formale, ed aperto alle nuove istanze tecnologiche, di chiara derivazione informatica, della metropoli. Fuksas pone di continuo l’accento sulla distinzione tra metropoli e megalopoli, il cui punto principale è nella differenza nella crescita urbana e tecnologica. La megalopoli contemporanea è più afflitta da problemi di nomadismo culturale di quanto non lo sia una metropoli moderna, che trova comunque il suo nodo nell’essere policentrica. Il concetto di urban sprawl, in questo caso viene giustamente affidato alle distese di Los Angeles, così simili, quindi, come fasci di luci intermittenti ai circuiti di un apparecchio elettronico. La sostanziale differenza 67 tra città elettronica e città elettrica è data dal tempo. Tempo moderno che definisce l’appartenenza dell’elettricità ai primi del Novecento, confinandola ai boulevard parigini illuminati e Abruzzese del postumano, Tempo della contemporaneità, o secondo che definisce i labili confini della città elettronica e informatica. Il modello di visione più simile a quello descritto dalle parole di Fuksas e Ito proviene dalla sci-fi spinta di Ghost in the Shell [1991], manga di Masamune Shirow. Il fumetto rappresenta per vie affatto narrative la diffusione dello spirito della protagonista in una megalopoli orientale dopo la morte del suo corpo artificiale. Diffusione, proprio perché alimentata dalla corrente informatica e destinata a defluire come liquido attraverso le reti. La protagonista Motoko è il vero corpo nomade descritto da Pierre Lévy ne L’intelligenza collettiva: «Lo spazio del nuovo nomadismo non è né il territorio geografico né quello delle istituzioni e degli stati, ma uno spazio invisibile delle conoscenze, dei saperi, delle potenzialità di pensiero in seno alle quali si dischiudono e mutano le qualità d’essere, le maniere di fare la società»68. Il filosofo francese interpreta pur sempre il nomadismo come legame tra corpo e natura, territorio [seppur solo conoscitivo]. Motoko è invece trasparente per la società, così come traslucida è la pelle della protagonista. Il suo corpo cibernetico è la rappresentazione del caos sublime cui fa cenno Fuksas nei suoi scritti, struttura anarchica perché priva di padroni, leggi, referenti umani, e struttura trasparente deprivata delle sovrastrutture corporee. Il suo corpo è lo scheletro ideale di Scheerbart, ferro e vetro sostituiti da acciaio e fibre ottiche. La capacità di questi cyborg di adattarsi all’ambiente e alle circostanze li rende simili alla mutevole TORRE DEI VENTI di Ito e alle nuvole create da Fuksas in questi ultimi anni. Toyo Ito ha voluto, con il suo progetto dimostrare 68 P. Levy, 1994, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 1996, p. 18. 68 l’evanescenza e la immaterialità del contesto ambientale. Fuksas, partendo dal planare delle nuvole di Utzon69 è arrivato a plasmare l’inconsistenza della metropoli in movimento. Questi passaggi, tra realtà immaginate e immagini di realtà impossibili sono state portate al cinema dalla trilogia di Matrix [1999-2003]. La verità nascosta del Matrix [viviamo veramente, oppure è un’illusione creata per controllarci?] si trova nella sua essenza: ha una consistenza nulla, sfuggente, come quando i personaggi del film trovano l’uscita e si dissolvono. Più approfonditamente il film può essere studiato lungo due differenti percorsi. Da un lato, tramite una riflessione sulle direzioni del nuovo cinema di fantascienza e su come stia progressivamente sparendo uno dei suoi topoi, la Metropoli del Futuro, in favore di una più ampia e instabile architettura mentale. Dall’altro analizzando le corrispondenze tra la sua struttura a scatole cinesi, mettendolo in relazione con l’inesistenza urbana di Las Vegas, che presenta lo stesso gioco citazionista. Come in Alice nel paese delle meravigle70, in Matrix si seguono le peregrinazioni di una persona in un mondo fittizio, assurdo, nel quale le immagini si riformulano continuamente secondo il percorso che si segue. Il protagonista Neo, esattamente alla maniera di un videogioco, è guidato da una voce [il giocatore] verso le uscite possibili, attraverso un sentiero di guerra che sembra tratto dal videogioco Metal Gear Solid71. Nel mondo di Matrix, come in quello di Ghost in the Shell, il “luogo” non esiste: è un’immagine mentale, come la stanza d’allenamento di Morpheus e Neo, un “nessun posto” dove si ritrova Neo all’inizio del suo viaggio [una stanza bianca]. La presenza di un 69 70 71 J. Utzon, 1962, Platforms and Plateau, Sidney. Non a caso il film viene citato direttamente nel momento in cui si vuole attirare il protagonista nell’altra dimensione/vita. Oggetto videoludico di culto grazie ad un intreccio complesso (trama spionistica, storia che cambia secondo le scelte effettuate, notevole approfondimento psicologico dei protagonisti) e ad un meccanismo di gioco, che ribalta lo schema classico dei passaggi obbligati tra i vari livelli di gioco. 69 vecchio televisore indica che la realtà la costruiamo noi con il nostro sguardo, ma non è detto che sia tutto vero: come in The Truman Show, siamo noi ora in ostaggio dei nostri occhi. Il luogo dove viveva Truman Burbank aveva però un’importanza fondamentale per il corretto svolgimento della storia, mentre nel loro film, i fratelli Wachowski hanno scelto un’anonima metropoli in cerca di caratterizzazione come Sydney72. Nonostante i suoi sforzi, la metropoli australiana rimane un perfetto esempio di città incompiuta e banale e sicuramente è stata preferita alla più familiare New York per rappresentare il paradigma della città contemporanea. L’interesse vero degli autori non risiede, infatti, nella rappresentazione della metropoli del futuro, ma nelle architetture mentali che si dispiegano velocemente durante il film. La stanza bianca, l’interfaccia di Matrix, è la vera location: un posto che possa modificarsi seguendo le linee di pensiero delle persone che vi si muovono. Una sorta di bolla che si adatta al flusso mentale, e che respinge i corpi che ne colpiscono le pareti come una stanza imbottita. Non è più importante in una dimensione simile lo spostamento lineare, da una stanza ad un’altra, da un luogo ad un altro ancora: le strade servono unicamente da nastri trasportatori che conducono verso una nuova uscita. I personaggi si muovono dalla cabina telefonica alla nave come in un ipertesto, e se devono spostarsi da un palazzo ad un altro preferiscono volare, quasi che il camminare sia diventato la negazione del movimento. Una derivazione tipicamente da videogioco, quindi, di cui si ritrova la struttura nel continuo entrare ed uscire, da un livello ad un altro: la stanza dove inizialmente si rifugia Trinity, è la stessa dalla quale dovrebbe uscire Neo alla fine del film. 72 Ovviamente l’OPERA HOUSE di Jørn Utzon, l’unico edificio che conferisca a Sydney il titolo di “luogo” non è mai inquadrata. 70 Come in Metal Gear Solid la verticalizzazione dei livelli di gioco [facile/difficile, inferiore/superiore] viene eliminata in favore della circolarità dei passaggi, così in Matrix i passaggi di livello sono codificati da luoghi precisi, come le cabine telefoniche. La singolarità di una simile scelta è da rintracciare nell’essenza stessa del film: la comunicazione è alla base dell’intreccio, ma non si risolve nella banalizzazione di The Net [1995], dove la vita della protagonista veniva sconvolta dalla presenza invasiva/invadente della Rete che ne annullava inverosimilmente l’identità. È la comunicazione cellulare che mette in luce la necessità [a volte indesiderata] di essere sempre rintracciabili. Il lato oscuro è dato proprio dall’onnipresenza ed onniscienza della rete telefonica, ancora più che dalla Rete, che permette il passaggio tanto al paradiso, se si riesce a fuggire, quanto all’inferno, se si è rintracciati. La città digitale di Nicholas Negroponte diventa in questo caso soprattutto una città avvolta dalle spire invisibili della rete cellulare, e si rivela digitale al momento della Rivelazione per Neo: quando, in pratica, comincia a vedere la struttura originaria del Matrix, una serilità cadente di numeri, invece della copertura dell’interfaccia. Nel mettere in scena la digitalizzazione del mondo contemporaneo, i fratelli Wachowski hanno trovato un sicuro punto di riferimento nel film tratto dal manga Ghost in the Shell, l’unico ad aver messo in scena, in maniera adulta e non ingenua, il problema della comunicazione interpersonale avanzata: non più attraverso telefoni, computer e trasmettitori, ma tramite un flusso continuato del pensiero. L’omaggio degli autori di Matrix è palese fin dai titoli di testa, una cascata di numeri verde acido in una schermata di computer, e continua nella [ri]nascita di Neo, ambientata nello stesso liquido amniotico del Maggiore Kusanagi, la protagonista di Ghost in the Shell. La verità, sembrano voler dire i registi, è fittizia, come l’ambiente che ci circonda, e solo le macchine senzienti, come già in Ghost in the Shell, hanno il potere di ridurre la realtà ad 71 un’astratta banalizzazione. L’idea che un cervello cibernetico possa autonomamente generare uno spirito – ossia un’anima senziente – mette in discussione non solo la necessità, ma addirittura l’esistenza del genere umano. L’uomo, nella prospettiva di Shirow, diventa un accessorio che funge unicamente da veicolo; nella mente dei Wachowski serve addirittura da cibo agli Esseri Superiori. Il Maggiore Kusanagi, uno spirito dotato di memoria in un guscio di titanio, avverte la necessità di espandersi, si sente prigioneria nei limiti del proprio corpo. “E ora dove andrà questo essere appena nato? … La Rete è vasta e infinita”, dice il Maggiore, non appena rinata sotto nuove e più libere spoglie, svincolata da ogni legame terreno. La trasparenza del suo corpo diventa effettiva nell’espansione nello sprawl urbano, e acquista significato proprio nella sua diversità e mutabilità. Gli elementi progettati da Fuksas e Ito, in quanto corpi mobili allo sguardo, sono quanto di più simile si possa trovare nel cinema e fumetto di fantascienza. 72 POSTILLA L’Immaginario di chi ha scritto questo lavoro è frutto non solo della visione di tanti film e letture in solitario, ma anche del confronto dialettico con chi, in questi anni ha condiviso con me la passione e lo studio. La passione per lo studio. Se quello che noi siamo è anche - e soprattutto - una costruzione sociale definita dal nostro rapporto con l’esterno, in un certo senso si potrebbe determinare una piccola civitas, costituita da menti tanto diverse quanto affini. Evgenij Vládimirovic Irikovskij, Kabiria Kotero, Man-Ah-Tek, Calogero Mascelloni, Ivano Merz, Jorge Santiago du Rinassimiento, Klaus Maria Shaubenburg e Axel fanno parte di una sezione di questa comunità poliedrica e stimolante. Zia rrose, la orsa, il cupo, lysandra, lo psikiatra, lefty e gloucester, insieme ad altre entità virtuose e traslucide hanno bucato i miei sche[r]mi con le loro visioni iperreali, pulsanti e vive. Desideranti. I giovani del Gotham, gli Adini e soprattutto i Maestri - Sergio e Albert, Gino e Stefano – per sempre nel mio cuore. 73 INDICE FIGURE Pag. 9 - Tony Garnier, Cité industrielle, 1917 Pag. 10 - E. Kettelhut, Città vista dall’alto con Torre, Metropolis, 1927 Pag. 12 – Hans Poelzig, Grosses Shauspielhaus, 1919 Pag. 27 - Howard Roark [Gary Cooper] in La fonte meravigliosa, 1949 Pag. 29 – “Enright Building” in La fonte meravigliosa, 1949 Pag. 30 – Edward Carrere, bozzetto di residenza privata, La fonte meravigliosa, 1949 Pag. 32 - Ellsworth Toohey mostra i progetti di Peter Keating, La fonte meravigliosa, 1949 Pag. 35 – Anton Furst, bozzetto per Batman, 1989 Pag. 36 – Shin Takamatsu, The ARK, 1981 Pag. 42 - Seahaven, The Truman Show, 1998 Pag. 43 – Casa Krier, Seaside, Florida, 1987 Pag. 47 – Aldo Rossi, bozzetto per il Teatro del Mondo, 1980 Pag. 48 - Aldo Rossi, il Teatro del Mondo, 1980 Pag. 50 – Frank O. Ghery, Guggenheim Museum, 1997 Pag. 53 - Frank O. Ghery, Berlin Bank, 2001 Pag. 53 – Richard Roger, Lloyd’s Building, 1986 Pag. 54 – Peter Cook, Plug-in City, 1964 Pag. 55 – Rogers, Piano, Franchini, Centre George Pompidou, 1977 Pag. 57 – Masamune Shirow, Appleseed, 1985 Pag. 58 – Business Center, Euralille, 1994 Pag. 58 – Libeskind, Hadid, Isozaki, Maggiora, progetto per il Polo Fiera di Milano, 2005 Pag. 60 – Tsutomu Nihei, Blame!, 2004 Pag. 60 – Giovanni B. Piranesi, Le carceri, 1749 Pag. 64 – Msamune Shirow, Ghost in the Shell, 1991 Pag. 66 – Massimiliano Fuksas, progetto per il Centro Congressi Italia Eur, 1999 pag. 69 – Toyo Ito, Torre dei Venti, 1986 74 FILMOGRAFIA 1920 GENUINE Regia: Robert Wiene Fotografia: Willy Hameister Scenografia: César Klein 1920 DER GOLEM [Il Golem] Regia: Paul Wegener Fotografia: Karl Freund Scenografia: Hans Poelzig 1920 DAS KABINETT DES DR. CALIGARI [Il gabinetto del dottor Caligari] Regia: Robert Wiene Fotografia: Willy Hameister Scenografia: Walter Reinmann, Walter Röhrig, Hermann Warm 1923 SAFETY LAST [Preferisco l’ascensore] Regia: Fred Newmeyer, Sam Taylor Fotografia: Walter Lundin Scenografia: Fred Guiol 1924 DIE NIBELUNGEN [I Nibelunghi] Regia: Fritz Lang Fotografia: Carl Hoffman, Günther Rittau Scenografia: Otto Hunte, Erich Kettelhut, Karl Vollbrecht 1926 METROPOLIS Regia: Fritz Lang Fotografia: Karl Freund, Günther Rittau Scenografia: Otto Hunte, Erich Kettelhut, Karl Vollbrecht 1927 UNDERWORLD [Le notti di Chicago] Regia: Josef von Sternberg Fotografia: Bert Glennon Scenografia: Hans Dreier 1928 THE CROWD [La folla] 75 Regia: King Vidor Fotografia: Henry Sharp 1930 JUST IMAGINE Regia: David Butler Scenografia: Stephen Gossom 1930 SCARFACE, SHAME OF A NATION [Scarface] Regia: Howard Hawks Fotografia: Lee Garmes, L.William O’Connell Scenografia: Harry Olivier 1931 CITY STREETS [Le vie della città] Regia: Rouben Mamoulian Fotografia: Lee Garmes 1931 STREET SCENE [Scena di strada] Regia: King Vidor Fotografia: Walter Barnes 1933 KING KONG Regia: Ernest B. Schoedsack Fotografia: Edward Linden Scenografia: Byron L. Crabbe, Mario Larrinaga 1936 THINGS TO COME [La vita futura – Nel 2000 guerra o pace] Regia: William Cameron Diaz Fotografia: George Périnal Scenografia: Vincent Korda 1937 DEAD END [Strada sbarrata] Regia: William Wyler Fotografia: Gregg Toland 1941 THE MALTESE FALCON [Il mistero del falco] Regia: John Huston Fotografia: Arthur Edeson Scenografia: Robert Haas 76 1946 IT’S A WONDERFUL LIFE [La vita è meravigliosa] Regia: Frank Capra Fotografia: Joseph Biroc, Joseph Walker Scenografia: Jack Okey 1946 MY DARLING CLEMENTINE [Sfida infernale] Regia: John Ford Fotografia: Joseph McDonald Scenografia: Lyle R. Wheeler 1948 NAKED CITY [La città nuda] Regia: Jules Dassin Fotografia: William H.Daniels Scenografia: Oliver Emert, Russell A. Gausman 1949 ACT OF VIOLENCE [Atto di violenza] Regia: Fred Zinnemann Fotografia: Robert Surtees Scenografia: Cedric Gibbons, Hans Peters 1949 THE FOUNTAINHEAD [La fonte meravigliosa] Regia: King Vidor Fotografia: Robert Burks Scenografia: Edward Carrere 1950 THE ASPHALT JUNGLE [Giungla d’asfalto] Regia: John Huston Fotografia: Harold Rosson Scenografia: Randall Duell, Cedric Gibbons 1950 THE NIGHT AND THE CITY [I trafficanti della notte] Regia: Jules Dassin Fotografia: Max Greene 1950 SUNSET BOULEVARD [Viale del tramonto] Regia: Billy Wilder Fotografia: John Seitz Scenografia: Hans Dreier, John Meehan 77 1951 CRY DANGER [Nei bassifondi di Los Angeles] Regia: Robert Parrish Fotografia: Joseph Biroc Scenografia: Richard Day 1954 ON THE WATERFRONT [Fronte del porto] Regia: Elia Kazan Fotografia: Boris Kaufman Scenografia: Richard Day 1955 KILLER’S KISS [Il bacio dell’assassino] Regia: Stanley Kubrick Fotografia: Stanley Kubrick 1956 BUS STOP [Fermata d’autobus] Regia: Joshua Logan Fotografia: Milton Krasner 1956 THE KILLING [Rapina a mano armata] Regia: Stanley Kubrick Fotografia: Lucien Ballard Scenografia: Ruth Sobotka Kubrick 1956 PICNIC Regia: Joshua Logan Fotografia: James Wong Howe 1958 MON ONCLE [Mio zio] Regia: Jacques Tati Fotografia: Jean Bourgoin Scenografia: Jacques Lagrange 1960 ROCCO E I SUOI FRATELLI Regia: Luchino Visconti Fotografia: Giuseppe Rotunno Scenografia: M.Garbuglia 1961 BREAKFAST AT TIFFANY’S [Colazione da Tiffany] Regia: Blake Edwards Fotografia: Franz Planer 78 Scenografia: Ronald Anderson, Hal Pereira 1963 CLEOPATRA Regia: Joseph L.Mankiewicz Fotografia: Leon Shamroy Scenografia: Paul S.Fox, Ray Mayer 1964 EMPIRE Regia: Andy Wharol Fotografia: Jonas Mekas 1967 BONNIE AND CLYDE [Gangster Story] Regia: Arthur Penn Fotografia: Burnett Guffrey Scenografia: Dean Tavoularis 1967 PLAYTIME Regia: Jaques Tati Fotografia: Jean Badal, Andréas Winding Scenografia: Jacques Lagrange 1969 MIDNIGHT COWBOY [Un uomo da marciapiede] Regia: John Schlesinger Fotografia: Adam Holender Scenografia: John R.Lloyd 1970 ZABRISKIE POINT Regia: Michelangelo Antonioni Fotografia: Alfio Contini Scenografia: Dean Tavoularis 1971 THE FRENCH CONNECTION [Il braccio violento della legge] Regia: William Friedkin Fotografia: Owen Roizman Scenografia: Ben Kazaskov 1973 WESTWORLD [Il mondo dei robot] Regia: Michael Crichton Fotografia: Gene Polito 79 1974 CHINATOWN Regia: Roman Polanski Fotografia: John A.Alonzo Scenografia: Richard Sylbert 1974 EARTHQUAKE [Terremoto] Regia: Mark Robson Fotografia: Philip H. Lathrop 1974 THE TOWERING INFERNO [L’inferno di cristallo] Regia: John Guillermin Fotografia: Joseph Biroc, Fred M.Koenekamp 1975 PROFONDO ROSSO Regia: Dario Argento Fotografia: Luigi Kuveiller 1976 ASSAULT ON PRECINT 13 [Distretto 13 – Le brigate della morte Regia: John Carpenter Fotografia: Douglas Knapp 1976 TAXI DRIVER Regia: Martin Scorsese Fotografia: Michael Chapman Scenografia: Charles Rosen 1977 ANGEL CITY Regia: Jon Jost 1977 ANNIE HALL [Io e Annie] Regia: Woody Allen Fotografia: Gordon Willis Scenografia: Mel Bourne 1977 NEW YORK, NEW YORK Regia: Martin Scorsese Fotografia: Laszlo Kovacs Scenografia: Boris Leven 80 1978 QUINTET Regia: Robert Altman Fotografia: Jean Boffety 1979 MANHATTAN Regia: Woody Allen Fotografia: Gordon Willis Scenografia: Mel Bourne 1979 THE WARRIORS [I guerrieri della notte] Regia: Walter Hill Fotografia: Andrew Laszlo Scenografia: Fred Weiler 1980 WINDOWS Regia: Gordon Willis 1981 ESCAPE FROM NEW YORK [1997 - Fuga da New York] Regia: John Carpenter Fotografia: Dean Cundey Scenografia: Don Sutton 1982 BLADE RUNNER Regia: Ridley Scott Fotografia: Jordan Cronenweth Scenografia: Lawrence G.Paull [prod.design.], Syd Mead [visual futurist] 1982 KOYAANISQATSI Regia: Godfrey Reggio Fotografia: Ron Fricke 1982 ONE FROM THE HEART [Un sogno lungo un giorno] Regia: Francis F. Coppola Fotografia: Vittorio Storaro Scenografia: Dean Tavoularis 1983 RUMBLE FISH [Rusty il selvaggio] Regia: Francis F. Coppola Fotografia: Stephen H. Burum Scenografia: Dean Tavoularis 81 1985 AFTER HOURS [Fuori Orario] Regia: Martin Scorsese Fotografia: Michael Ballhaus Scenografia: Jeffrey Townsend 1985 BACK TO THE FUTURE [Ritorno al futuro] Regia: Robert Zemeckis Fotografia: Dean Cundey Scenografia: Todd Hallowell, Lawrence G.Paull 1985 BRAZIL Regia: Terry Gilliam Fotografia: Roger Pratt Scenografia: Maggie Gray, Norman Garwood 1985 INTO THE NIGHT [Tutto in una notte] Regia: John Landis Fotografia: Robert Paynter 1985 SUBWAY Regia: Luc Besson Fotografia: Carlo Varini Scenografia: Alexander Trauner 1985 TO LIVE AND DIE IN L.A. [Vivere e morire a Los Angeles] Regia: William Friedkin Fotografia: Robby Müller Scenografia: Lilly Kilvert 1985 YEAR OF THE DRAGON [L’anno del dragone] Regia: Michael Cimino Fotografia: Alex Thomson 1986 SOMETHING WILD [Qualcosa di travolgente] Regia: Jonathan Demme Fotografia: Tak Fujimoto 1986 TOKYO-GA Regia: Wim Wenders 82 Fotografia: Edward Lachman 1986 TRUE STORIES Regia: David Byrne Fotografia: Edward Lachman Scenografia: Barbara Ling 1987 BARFLY Regia: Barbet Schroeder Fotografia: Robby Müller 1987 THE UNTOUCHABLES [Gli Intoccabili] Regia: Brian De Palma Fotofrafia: Stephen H.Burum Scenografia: Barbara Lifsher 1988 BEETLE JUICE Regia: Tim Burton Fotografia: Thomas Ackerman Scenografia: Bo Welch 1988 COLORS [Colors - Colori di guerra] Regia: Dennis Hopper Fotografia: Haskell Wexler 1988 DIE HARD [Die hard - Trappola di cristallo] Regia: John McTiernan Fotografia: Jan De Bont Scenografia: Jackson DeGovia 1988 THEY LIVE! [Essi vivono] Regia: John Carpenter Fotografia: Gary B.Kibbe 1989 AKIRA Regia: Katsushiro Otomo Fotografia: Katsuji Misawa Scenografia: Toshimaru Mizutami 83 1989 BATMAN Regia: Tim Burton Fotografia: Roger Pratt Scenografia: Anton Furst 1989 BLACK RAIN [Black Rain - Pioggia sporca] Regia: Ridley Scott Fotografia: Jan De Bont 1990 DICK TRACY Regia: Warren Beatty Fotografia: Vittorio Storaro Scenografia: Richard Sylbert 1990 END OF THE NIGHT [Aspettando la notte] Regia: Keith McNally Fotografia: Tom DiCillo 1990 THELMA & LOUISE Regia: Ridley Scott Fotografia: Adrian Biddle, David B.Nowell Scenografia: Norris Spencer 1991 BOYZ’N THE HOOD Regia: John Singleton Fotografia: Charles Mills 1991 BUGSY Regia: Barry Levinson Fotografia: Allen Daviau Scenografia: Jeannine Oppewall 1991 THE FISHER KING [La leggenda del Re Pescatore] Regia: Terry Gilliam Fotografia: Roger Pratt Scenografia: Mel Bourne 1991 JUNGLE FEVER Regia: Spike Lee Fotografia: Ernest Dickerson 84 Scenografia: Wynn Thomas 1991 RICOCHET [Verdetto finale] Regia: Russel Mulcahy Fotografia: Peter Levy 1993 FALLING DOWN [Un giorno di ordinaria follia] Regia: Joel Schumacher Fotografia: Andrzej Bartkowiak Scenografia: Barbara Ling 1993 SHORT CUTS [America oggi] Regia: Robert Altman Fotografia: Walt Lloyd Scenografia: Stephen Altman 1993 SLEEPERS IN SEATTLE [Insonnia d’amore] Regia: Nora Ephron Fotografia: Sven Nykvist Scenografia: Jeffrey Townsend 1994 THE HUDSUCKER PROXY [Mr. Hula Hoop] Regia: Joel Coen Fotografia: Roger Deakins Scenografia: Dennis Gassner 1994 PULP FICTION Regia: Quentin Tarantino Fotografia: Andrzej Sekula Scenografia: David Vasco 1995 CLOCKERS Regia: Spike Lee Fotografia: Malik Hassan Sayeed Scenografia: Ina Mayhew 1995 GHOST IN THE SHELL Regia: Mamoru Oshii Fotografia: Hiromasa Ogura Scenografia: Takashi Watabe 85 1995 LA HAINE [L’odio] Regia: Mathieu Kassovitz Fotografia: Pierre Aïm 1995 JOHNNY MNEMONIC Regia: Robert Longo Fotografia: François Protat 1995 THE NET [The Net – Intrappolata nella rete] Regia: Irwin Winkler Fotografia: Jack N. Green 1995 NICK OF TIME [Minuti contati] Regia: John Badham Fotografia: Roy H. Wagner 1995 SE7EN [Seven] Regia: David Fincher Fotografia: Darius Kondhji Scenografia: Arthur Max 1995 SMOKE Regia: Wayne Wang Fotografia: Adam Holender Scenografia: Kalina Ivanov 1995 STRANGE DAYS Regia: Kathryn Bigelow Fotografia: Matthew F.Leonetti Scenografia: Lilly Kilvert 1996 CHACUN CHERCHE SON CHAT [Ciascuno cerca il suo gatto] Regia: Cédric Klapisch Fotografia: Benoit Delhomme Scenografia: François Emmanuel 1996 CONTACT Regia: Robert Zemeckis Fotografia: Don Burgess 86 Scenografia: Ed Verraux 1996 THE SUNCHASER [Verso il sole] Regia: Michael Cimino Fotografia: Doug Milsome Scenografia: Victoria Paul 1996 TREES LOUNGE [Mosche da bar] Regia: Steve Buscemi 1996 WILLIAM SHAKESPEARE’S ROMEO + JULIET [Romeo + Giulietta di William Shakespeare] Regia: Baz Luhrmann Fotografia: Donald McAlpine Scenografia: Brigitte Broch, Catherine Martin 1997 THE BIG LEBOWSKI Regia: Joel Coen Fotografia: Roger Deakins Scenografia: Rich Heinrichs 1997 BREAKDOWN [Breakdown - La trappola] Regia: John Mostow Fotografia: Douglas Milsome Scenografia: Victoria Paul 1997 LE CINQUIÈME ELÉMENT [Il Quinto Elemento] Regia: Luc Besson Fotografia: Thierry Arbogast 1997 GREAT EXPECTATIONS [Paradiso perduto] Regia: Alfonso Cuàron Fotografia: Emmanuel Lubezki Scenografia: Tony Burrough 1997 HANA-BI Regia: Takeshi Kitano Fotografia: H. Yamamoto 1997 JACKIE BROWN Regia: Quentin Tarantino 87 Fotografia: Guillermo Navarro Scenografia: David Wasco 1997 JOHN CARPENTER’S ESCAPE FROM L.A. [Fuga da Los Angeles] Regia: John Carpenter Fotografia: Gary B. Kibbe 1997 KEEP COOL Regia: Zhang Yimou Fotografia: Lu Yue Scenografia: Cao Jiuping 1997 L.A. CONFIDENTIAL Regia: Curtis Hanson Fotografia: Dante Spinotti Scenografia: Jeannine Oppewall 1997 U-TURN [U Turn – Inversione di marcia] Regia: Oliver Stone Fotografia: Robert Richardson Scenografia: Victor Kempster 1998 CITY OF ANGELS Regia: Brian Silberling Fotografia: John Seale Scenografia: Lilly Kilvert 1998 FEAR AND LOATHING IN LAS VEGAS [Paura e delirio a Las Vegas] Regia: Terry Gilliam 1998 THE GAME [The Game - Nessuna regola] Regia: David Fincher Fotografia: Harris Savides Scenografia: Jeffrey Beecroft 1998 GATTACA Regia: Andrew Niccols Fotografia: Slawomir Idziak Scenografia: Jan Roelfs 88 1998 PRIMARY COLORS [I colori della vittoria] Regia: Mike Nichols Fotografia: Michael Ballhaus Scenografia: Bo Welch 1998 THE TRUMAN SHOW Regia: Peter Weir Fotografia: Peter Biziou Scenografia: Dennis Gassner 1999 MATRIX Regia: Andy e Larry Wachowski Fotografia: Bill Pope Scenografia: Owen Paterson 2002 25TH HOUR [La 25a ora] Regia: Spike Lee Fotografia: Rodrigo Prieto Scenografia: James Chinlund 89 BIBLIOGRAFIA AA.VV., 1982, Paesaggio metropolitano, Feltrinelli, Milano. 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