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Veronica Menelao - Sogno di Prigioniero - Padis

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Veronica Menelao - Sogno di Prigioniero - Padis
VERONICA MENELAO
SOGNO DI PRIGIONIERO
TRE SENTIERI TRA ARCHITETTURA E COMUNICAZIONE
Tesi di Dottorato - XVII CICLO
Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
Dipartimento di Sociologia e Comunicazione
Scuola di dottorato in “Scienze della Comunicazione,
Ricerca Avanzata, Gestione delle Risorse e Processi Formativi”
Direttore: Prof. Alberto Abruzzese
XVII CICLO
SOGNO DI PRIGIONIERO
TRE SENTIERI TRA ARCHITETTURA E COMUNICAZIONE
Tutor: Prof. Sergio Brancato
Dottoranda: Dott.ssa Veronica Menelao
Commissione giudicatrice:
Prof. Alberto Abruzzese
Prof. Luciano Benadusi
Prof.ssa Antonietta Censi
NOTE SUL METODO
4
INTRODUZIONE
7
1. IL CINEMA E L’IMMAGINARIO
26
1.1 “La Fonte Meravigliosa”: Frank Lloyd Wright
27
Il bisogno di comunicare la propria solitudine intellettuale
1.2 “Batman”: Shin Takamatsu
35
La trasfigurazione della realtà attraverso il Sogno
1.3 “Truman Show”: Léon Krier
42
L'utopia dell'Eterno Presente
2. LA LETTERATURA E IL TEMPO
46
2.1 “Le Città Invisibili”: Aldo Rossi
47
La sospensione del Tempo e dello Spazio
2.2 “L'Aleph”: Frank O. Gehry
50
Involuzione ed Entropia negli spazi della Cultura
2.3 “L'isola di cemento”: Richard Rogers
53
L'Architetto e la Farfalla: Leggerezza per uno sviluppo [in]sostenibile
3. IL FUMETTO E LO SPAZIO
56
3.1 “Appleseed”: Euralille [R. Koolhaas, J. Nouvel, C. De Portzamparc, K.
Shinoara, C. Vasconi]
57
Architettura e comunicazione totale per un progetto di “Città Futura”
3.2 “Blame!”: Giovanni Battista Piranesi
60
La Prigione come metafora del Corpo e della Struttura
3.3 “ Ghost in the Shell”: Massimiliano Fuksas e Toyo Ito
64
Nuovi significati nella Metropoli moderna: Vertigine e Trasparenza
POSTILLA
73
1
APPENDICI
Indice delle Figure
74
Filmografia
75
Bibliografia
90
Licenza
96
Per una migliore comprensione del testo:
ƒ
ƒ
ƒ
ƒ
i nomi degli edifici e dei progetti sono in MAIUSCOLETTO
i titoli dei film, dei libri e dei fumetti sono in corsivo
le citazioni da film e libri trattati nel testo sono tra “”
i riferimenti bibliografici sono tra «»
I crediti dell’immagine di copertina sono di Matteo Pericoli [www.matteopericoli.com]
2
ai desideranti di luce
3
NOTE SUL METODO
Questo lavoro seguirà un percorso dettato da un dialogo a più voci tra media e
architettura. Articolato in tre parti distinte, cinema, letteratura e fumetto,
metterà a confronto le tecniche dei linguaggi della comunicazione architettonica
con quelli della comunicazione audiovisiva, secondo il filo conduttore della
Metropoli, intesa come spazio fisico e simbolico. Verranno presi in esame per
ciascuna sezione tre architetti o modi di intendere/interpretare la realtà
metropolitana, e tre oggetti comunicativi.
La tesi portante è che questi oggetti nel momento in cui vengono progettati,
scelti e costruiti, rispondono ad un’esigenza comunicativa da parte del pubblico.
Contenitori di significato da un lato, veicoli essi stessi di una percezione del
mondo dall’altro, diventano protagonisti di un nuovo modello di consumo
culturale. È proprio nel collegamento tra l’immaginario del pubblico e il costruito
che si rintracciano le relazioni ormai strette tra architettura e media. Media
ispiratori da una parte e ispirati alla realtà circostante dall’altra, fattore dovuto
anche alla capacità degli architetti di comunicare il proprio sapere.
Questo spunto si offre ad una lunga serie di riflessioni sulla visibilità che alcuni
progettisti hanno ottenuto grazie alla notevole esposizione mediatica dei loro
lavori. Per citare qualche esempio è il caso dell’AUDITORIUM ad opera di Renzo
Piano e del GUGGENHEIM di Bilbao, realizzato da Frank O. Ghery. Due lavori di
entità e realizzazione formale diverse tra loro, accomunati dal fatto che la
presenza sui giornali di Piano e Ghery è aumentata in modo esponenziale,
generando in tal modo un interesse anche per i loro lavori successivi.
Il passo di questa tesi è stato volutamente introdotto sul rapporto tra cinema e
architettura, proprio per comprenderne le influenze storiche e di costruzione della
rispettiva immagine. La chiave di lettura per la parte filmica può essere quella
4
dell’ Immaginario. La riproposizione in chiave nostalgica di temi ed estetiche del
passato ha avuto forti ripercussioni sull’architettura reale. In quest’ottica possono
essere letti progetti come Seaside, la cittadina in cui è ambientato The Truman
Show [1998], luogo realmente esistente e costruito inseguendo un fine non
dichiarato: quello proposto da film come La vita è meravigliosa [1946] dove con,
peraltro finto, ottimismo il Sogno Americano viene realizzato perfino in forma
immobiliare.
La decodifica aberrante dei segni della Metropoli, provoca quel senso di
spaesamento dovuto all’organizzazione ambigua del messaggio rispetto al codice.
La cosa rappresentata viene osservata non solo in modo diverso, ma cambia
anche il metodo di interpretazione dei mezzi di rappresentazione e dei codici. Se
il fine dell’immagine non è di rendere più vicina alla nostra comprensione la
significazione che veicola, ma di creare una percezione particolare dell’oggetto,
questo proposito viene sicuramente raggiunto da autori come Mead e Furst o
architetti come Shin Takamatsu, che hanno cercato di sviare consapevolmente,
l’attenzione dalla struttura narrativa per concentrarsi sulle valenze estetiche della
metropoli e degli oggetti che contiene. L’operazione è riuscita maggiormente a
Takamatsu
perché
il
suo
progetto
non
ha
mai
aspirato
ad
essere
totale/totalizzante, ma semplicemente a violare il ritmo del contesto urbano. La
violazione della Los Angeles del 2019 e in misura maggiore di Gotham City,
diventa invece regola, canone, perdendo tutta la sua forza trasgressiva.
La lettura lineare del romanzo e ipertestuale del fumetto giapponese entrano
in gioco insieme al concetto di Tempo e Spazio della Metropoli contemporanea,
attraverso i continui rimandi con il cinema.
Il Tempo, visto come dilatazione anche visuale, si intreccia con il ricordo e la
memoria, come nelle architetture di Aldo Rossi, così legate alle Città Invisibili e
immaginarie di Calvino. Quando la dilatazione temporale non è più traccia del
5
passato, ma eternità senza scampo, il pessimismo quasi cosmico della tradizione
della sci-fi si scontra con l’insostenibilità dei luoghi che abita. James Ballard ha
descritto più volte abilmente le perversioni architettoniche delle Metropoli, la
brutalità del cemento direttamente connessa con la ruvidità dell’animo umano.
Quando il Tempo si è contorto in una spirale, involuta e senza aperture, in cui
dominano solo le leggi dei numeri, le biblioteche iperreali di Borges hanno
trovato la loro effettiva realizzazione nei nuovi spazi museali come il GUGGENHEIM
di Bilbao. La città si è popolata di edifici indecifrabili, di presenze ambigue che
hanno ridisegnato lo spazio urbano secondo mappe misteriose e nuove città nella
città.
Il passaggio dalla biblioteca borgesiana alle carceri piranesiane è stato breve.
L’atemporalità di Borges prende forma nella struttura priva di corpo, Spazio
nudo, in Blame!, fumetto rivoluzionario dal punto di vista stilistico di Tsutomu
Nihei, privo di trama e personaggi ben definiti, groviglio scuro di allucinazioni
mentali e estensioni del corpo. Lo Spazio della Metropoli del futuro, diviso tra
terrain vague e megastruttura, tra ibrido e moderno ha generato ulteriori
visioni/realizzazioni:
la
digitalizzazione
del
mondo
contemporaneo,
riletta
attraverso il corpo trasparente e cibernetico della protagonista di Ghost in the
Shell, così come in molti edifici delle megalopoli orientali da un lato; dall’altro il
compimento dell’utopia di Sant’Elia, attraverso la costruzione della Città Perfetta,
Euralille, frutto di sinergie tra Architettura, Politica e Scienza, e rivista attraverso
la sua forma disegnata, in Appleseed di Masamune Shirow.
6
INTRODUZIONE
Il rapporto tra la città e la sua rappresentazione filmica coincide con la nascita
dell'apparato cinematografico, e se ne può individuare un primario punto di
snodo con l’uscita contemporanea di Metropolis e Aurora nel 1927. Da quel
momento la Metropoli ha subìto tante modificazioni nella sua struttura e nel suo
significato, quante nella sua raffigurazione. Dalla visione insana e teatrale della
città in Il gabinetto del Dottor Caligari [1920], si è passati in pochi anni alla
rappresentazione distopica del futuro urbano in Metropolis e nel suo epigono
inglese Vita Futura [1936]. Le possibili relazioni tra cinema e architettura sono
state discusse soprattutto durante l’epoca del muto nella Germania della
Repubblica di Weimar.
Le aspettative da parte degli urbanisti sulle possibilità del nuovo medium di
rappresentare il futuro della Metropoli erano molto forti. Alcuni architetti
credevano fermamente nella rinascita dell’architettura grazie all’esperienza
filmica, che permetteva la realizzazione di quelle utopie disegnate nei primi due
decenni del secolo da artisti d’avanguardia come Bruno Taut, Antonio Sant’Elia,
Tony Garnier. Questi architetti proponevano delle visioni totalizzanti della
Metropoli, progettata con una notevole ricchezza formale intorno al concetto di
distribuzione dello spazio.
Il ruolo dell'Immaginario nella costruzione di questi ambienti venne così
discusso da architetti d’avanguardia e scenografi molti anni prima che il
Movimento Moderno ne facesse il proprio paradigma. Si può senza dubbio
affermare
che
se
l’architettura
metropolitana
ha
influenzato
la
sua
rappresentazione filmica, è anche vero che certe visioni di città hanno anticipato i
concetti fondamentali della moderna teoria architettonica. L’assenza di particolari
restrizioni economiche o finanziarie, permise ai set designer degli anni Venti e
7
Trenta di realizzare dei mondi possibili, intere città costruite dal nulla, ma dotate
di una propria storia o di un particolare retroterra filosofico. Si spiegano così le
Metropoli cannibali dei film di Murnau come L’ultima risata [1924] o Aurora, o
ancora le città visionarie ed ottimistiche dei primi musical come Just Imagine
[1930].
Robert Mallet-Stevens, principale esponente francese dell’Art Déco ed autore
di una ventina di scenografie tra il 1919 ed il 1929, scrisse in quegli anni che il
set doveva avere una sua caratterizzazione forte e precisa, e riunire tutti quegli
elementi individuali che rappresentano i concetti di gusto, stile di vita e posizione
sociale, sotto un’unica immagine di spazio1.
Collocare Metropolis [1926] come punto di partenza per spiegare l’evoluzione
e l’intreccio della rappresentazione cinematografica della città è quasi d’obbligo,
se non addirittura scontato. E’ pur sempre vero che non si può prescindere dal
capolavoro di Lang per spiegare la storia del cinema dal punto di vista
dell’architettura
metropolitana.
Lang
è
riuscito
a
mescolare
abilmente
l’Espressionismo di Mendelsohn e di Scharoun con il Costruttivismo russo di
Mel’nikov. Lo stesso architetto russo si ispirerà nel 1934 alle architetture
allucinate di Metropolis per il suo progetto per un QUARTIER GENERALE DEL
COMMISSARIATO PER L’INDUSTRIA PESANTE; l’edificio-città riprende così gli archetipi
dell’utopia russa e tedesca degli anni Venti.
Il discorso di Lang, architetto nella sua formazione, è strettamente legato con
la nascita del regime nazista. L’architettura si fa cinema in maniera definitiva
quando
incontra
il
discorso
politico:
le
strade
di
Norimberga
diventano
scenografie per il kolossal di Leni Riefenstahl Il trionfo della volontà [1936], in un
gioco di ruoli nel quale non si distingue più la finzione dalla rappresentazione
dell’[ir]reale massa nazista.
1
R. Mallet-Stevens, 1925, “Architecture et Cinema”, Les Cahiers du Mois, n. 16-17, pp. 95-98.
8
La forma e visibilità della città moderna, caratterizzata dall’uso dell’automobile
si rintraccia comunque nel capolavoro di Lang. Gli scenografi Hunte, Kettelhut e
Vollbrecht, che avevano già lavorato per Fritz Lang in I Nibelunghi [1924]
ricreando le atmosfere oniriche di Wagner, si trovarono alle prese con una città
totalmente da inventare, operando tanto sull’immaginario espressionista quanto
su quello futurista e realizzando così una sintesi singolare e inimitabile. La messa
in scena di opere visibilmente diverse tra loro per forma, teoria e sostanza
contribuì a creare quell’aura di futuribilità fino ad allora sconosciuta nel cinema
mondiale. La genialità della scelta scenografica risiedeva soprattutto nel
distinguo tra i diversi livelli della città.
La città visibile, definita da una skyline ispirata in parte a New York, riprende i
motivi della CITÉ INDUSTRIELLE [1917] di Tony Garnier2: le
sopraelevate sono un filo conduttore che unisce le
megastrutture tra loro, delle linee di demarcazione del
territorio su cui il traffico automobilistico è un flusso
continuo e veloce. La prima versione del downtown di
Metropolis disegnata da Kettelhut era idilliaca: i flussi del
traffico scorrevano a più livelli; era pieno di parcheggi per le automobili, i pedoni
camminavano liberamente tra i grattacieli ed osservavano le vetrine dei negozi ai
piani inferiori3.
In una parte del disegno era raffigurata anche una cattedrale gotica modellata
sul progetto della SAGRADA FAMILLA [1884-1903] di Anton Gaudì e sulla cattedrale
di Colonia. Il riferimento al Gotico voleva essere anche una diretta citazione del
romanzo di Thea Von Harbou, dal quale era stato tratto il film4. Nel libro, la parte
antica
2
3
4
della
città
era
presentata
come
l’ultimo
baluardo
che
tentava
Teorico dell’organizzazione spaziale della città, il suo Cité industrielle può essere collocato tra i grandi progetti
utopistici di inizio secolo. Cfr. T. Garnier, 1917, Une cité industrielle. Étude pour la construction des villes,
Paris.
Cfr. D. Neumann [ed.], 1996, Film Architecture. From Metropolis to Blade Runner, Prestel-Verlag, Munich pp.
94-103.
T. Von Harbou, 1926, Metropolis, Granillo, Torino 1973.
9
disperatamente di difendersi dall’assalto della modernità. Accanto alla cattedrale
si trovava, infatti, un imponente edificio curvilineo realizzato sulla falsariga del
GRATTACIELO IN VETRO di Mies van der Rohe [1922].
Lang si oppose fermamente a questa versione antimodernista, intervenendo
direttamente sugli schizzi e suggerendo di sostituire la cattedrale con una
moderna Torre di Babele. Riflettendo le idee degli architetti dell’epoca, Lang fece
intendere agli scenografi che le città moderne dovevano essere dominate non dai
picchi di una chiesa, ma dalle nuove architetture del lavoro, come i grattacieli.
Nella seconda versione dei disegni preparatori, era stata eliminata la cattedrale e
sostituita da un pilastro polifunzionale con una piattaforma di atterraggio per
aeroplani; lo stile degli edifici circostanti era disadorno, un gusto derivato dalle
avanguardie.
Era
evidente
l’influsso,
subìto
da
Kettelhut,
dei
progetti
megastrutturali di Garnier5.
I disegni definitivi riflettevano quello che probabilmente chiunque immaginava
in una città tedesca del prossimo futuro. Lo splendido grattacielo di vetro della
prima versione era scomparso in favore di una più rigida struttura a gradoni, che
sembrava
quasi
anticipare
le
successive
tendenze del Brutalismo. La versione finale
della torre sullo sfondo della città era un
grattacielo dalla punta a stella derivato dalle
ALPINE ARCHITEKTUR di Bruno Taut e fu vista
successivamente dai critici come un tentativo
di riaffermazione dell’imperialismo tedesco6. Il mito della verticalizzazione e della
struttura monumentale diventa subito popolare tra gli urbanisti negli anni
successivi all’uscita del film: Ludwig Hilberseimer nel suo progetto per una CITTÀ
DEL
5
6
FUTURO immagina le residenze ed il traffico pedonale nella parte alta, la città
Cfr. nota 2.
B. Taut, 1919, Alpine Architektur, Folkwang-Verlag, Hagen.
10
del commercio e degli affari con il traffico veicolare nella parte bassa, nel
sottosuolo, ed infine le linee ferroviarie e metropolitane7.
La
rappresentazione
della
città
era
visibilmente
utopistica,
ingenua
nell’inscenare una vita metropolitana auspicabile negli ideali, ma d’impossibile
realizzazione. Lo spirito naïf di Lang era condiviso dalla maggioranza dei
tedeschi, già affascinati da quell’icona della modernità che era la New York
rappresentata in Preferisco l’ascensore [1923] con Harold Lloyd. Gli architetti, gli
urbanisti ed i politici, invece, non erano altrettanto entusiasti ed in un acceso
dibattito che proseguì per lungo tempo, venne fuori tutto lo spirito antiamericano e conservatore proprio degli opinion-makers dell’epoca. In numerose
dichiarazioni i grattacieli furono accusati di togliere luce ed aria alle costruzioni
vicine e di essere i simboli più volgari del capitalismo rampante8. Le intenzioni dei
critici erano di stimolare una germanizzazione nella progettazione dei grattacieli,
distaccandosi dall’esempio americano, per rivelare «il vero significato insito nel
grattacielo»9. Gli architetti tedeschi proponevano una visione socialmente più
responsabile della pianificazione cittadina, con un’unica torre che si doveva
innalzare al di sopra della città, vista come un aggiornamento moderno del ruolo
centralizzante della cattedrale medioevale.
L’avanguardia architettonica rifiutava simili posizioni conservatrici: la vera
realtà era il Funzionalismo che nasceva proprio in quegli anni; alla città che sale
di matrice futurista si opposero le prime fortunate realizzazioni di Mies come il
WEISSENHOF [1927], un’estensione orizzontale basata sulla serialità e sulla
collettività, nella piena applicazione dei princìpi del Movimento Moderno.
La parte visibile di Metropolis, oltre all’edificio centrale, è costituita dai
grattacieli a metà strada tra lo STUDIO PER LA CITTÀ NUOVA di Sant’Elia [1914] ed i
7
8
9
Cfr. i progetti in L. Hilberseimer, 1927, Großtadt-Architektur, L’Architettura della Grande Città, Clean Edizioni,
Napoli 1998.
Cfr., ad esempio, le affermazioni di C. Gurlit, 1914, “Stadt der Zukunft”, Bauwelt 21, p. 21. Lo storico dell’arte
definiva il grattacielo come «la peggiore invenzione del genere umano».
M. Mächler, 1920, “Zum Problem des Wolkenkratzers”, Wasmuths Monatshefte für Baukunst 5, p. 260.
11
primi progetti razionalisti. Kettelhut voleva che gli edifici costituissero qualcosa in
più di uno sfondo: dovevano partecipare attivamente alla storia, sottolinearne le
contraddizioni e provocare un dibattito sul futuro dell’architettura. Probabilmente
l’unico difetto dei suoi disegni definitivi era che gli edifici erano troppo omogenei
tra loro: sembrava una città disegnata da una sola mano, contrariamente a
quanto accade in realtà, e perciò falsa.
La prima versione del 1925 era forse insuperabile, con il suo melting pot di
antico e moderno, con gli spazi più aperti e vivibili. Kettelhut aveva mantenuto i
suoi proponimenti nelle abitazioni dei ricchi che erano una chiara citazione del
Secessionismo viennese di Joseph M. Olbrich. Il teorico del Decorativismo
proponeva un controllo del processo costruttivo fin nei minimi particolari: dalle
strutture principali alle tappezzerie fino al più piccolo
oggetto
d’arredo.
La “Città dei Figli” derivava invece dalle opere di Poelzig, ed in particolare dalla
GROSSES SCHAUSPIELHAUS [1918-19], il Teatro dei Cinquemila a Berlino: le
strutture scomposte e sovrapposte fra loro e le linee
che
si
spezzano
all’improvviso,
sono
una
caratteristica dell’artista espressionista cui Kettelhut
ha voluto rendere omaggio.
Il doppio volto del film e della metropoli stessa si trova sottoterra, nelle
labirintiche catacombe di chiara ispirazione paleocristiana, e nel villaggio operaio,
vera chiave di volta del film. Le architetture sono ispirate ai quartieri popolari
progettati da J.J.P. Oud a Rotterdam negli anni Venti, basati sulla teoria
dell’existenzminimum, la concentrazione di spazi esterni e interni. Il centro della
piazza è costituito da una statua liberamente ispirata al monumento di Gropius
per i Caduti di Weimar. Nel ritorno serale degli operai verso casa, la statua
svolge il ruolo di idolo, intorno al quale girare in uno stato catatonico che ricorda
tanto
una
danse
macabre,
quanto
un
12
rituale
sacro.
La
sensazione
di
soffocamento derivata dalla mancanza di spazi, le anguste finestre/fessure incise
come ferite negli edifici, si trasformano in stati d’animo che si riflettono sui volti
degli operai, scavati ed ombrosi come le loro abitazioni.
La teoria del minimo necessario era allora agli albori: Adolf Loos aveva scritto
nel 1909 il saggio Ornamento e Delitto, ma le sue parole finirono in seguito
veramente nel vuoto, travisate dai funzionalisti come condanna non solo del
Decorativismo, ma di tutta l’architettura antecedente gli anni Venti. Loos era
invece favorevole ad un recupero della classicità, vista come paradigma
immutabile nel tempo10. La condanna della storia, perpetrata da Walter Gropius
nella scuola del Bauhaus, trovava valvola di sfogo proprio nelle irreali
architetture di Metropolis: oggetti inanimati e privi di riferimenti culturali, ma
tenacemente attaccati al realismo socialista dell’epoca. Negli anni precedenti il
film di Lang era stato tentato un altro esperimento di film come architettura
totale: Hans Poelzig aveva realizzato nel 1920 le scenografie medievali de Il
Golem, infondendovi tutta la sua visionarietà.
Le abitazioni come fusti d’albero, organiche come un quadro di Klimt ed al
tempo stesso imponenti e moderne come un’architettura espressionista, rivelano
quel distacco che Poelzig nutriva nei confronti delle correnti moderniste. I
chiaroscuri derivano direttamente dalla modulazione della linea, sempre protesa
verso una comunione intima con la terraferma. L’intenzione di Poelzig era di
creare delle case che respirassero come i loro abitanti, delle costruzioni vive. Il
ghetto ebreo di Praga diventa quindi un ideale, un sogno impastato della stessa
argilla del Golem, uscito anch’esso dalle mani del Rabbino. Poelzig rimane un
esempio di come un architetto prestato al cinema riesca a trasmettere la stessa
vitalità e lo stesso senso del fantastico provenienti dalle sue opere. Il suo lavoro
era espressionista quel tanto che bastava per associarlo con la moda della luce
10
Cfr. A. Loos, 1921, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 1972 pp. 217-228.
13
deformata/deformante, senza la brutalità delle forme ed i contorsionismi
scenografici de Il gabinetto del Dottor. Caligari.
Nel film di Robert Wiene, gli scenografi Reimann, Röhrig e Warm volevano una
rappresentazione onirica e non un’imitazione della realtà. Essi ribadirono più
volte le differenze tra l’architettura moderna ed i set dei film, sottolineando che il
termine film architecture doveva essere rimpiazzato dal termine film painting.
Secondo le parole di Reimann, «il film, l’arte delle illusioni ottiche, ha bisogno
dell’utopia. Ha bisogno di un set che sia uno spazio utopico, che simuli
l’atmosfera di uno spazio immaginato»11. Le prospettive impossibili e angoscianti,
i graffiti sui muri delle case, l’atmosfera claustrofobica che permea tutto il film,
ne fa un ritratto potente delle inquietudini che agitavano la Repubblica di
Weimar, appena nata, ma data già per morta, come i personaggi del film, ombre
simili a fantasmi, privi di un agire comune e sensato, insensibili agli accadimenti
esterni.
In un altro film di Robert Wiene, Genuine [1920], le atmosfere oltre che
oniriche rasentano quasi il fantastico. Lo scenografo Klein inventò appositamente
degli interni che, pur filmati in lucido bianco e nero, riuscivano a trasmettere la
sensazione dei colori. Il risultato fu che era impossibile distinguere i personaggi
dallo sfondo bidimensionale e si muovevano all’interno di esso come marionette
impazzite. Il film costituì la punta più alta dell’Espressionismo cinematografico,
proprio per la fusione totale degli attori nello spazio immateriale/mentale
circostante: un incubo cui era impossibile sottrarsi e che rifletteva l’angoscia
metropolitana di essere inghiottiti da un ambiente onnivoro.
L’ultimo film che si colloca a metà strada tra realismo e fantasia scenica è
forse King Kong [1933]. La New York imponente che era stata ispiratrice per la
Metropolis di Lang, diventa letteralmente cibo per la Grande Scimmia. Ultimo
11
W. Reimann, 1926, “Filmarchitektur – heute und morgen?”, Filmtechnik un Filmindustrie 4, pp. 64-65.
14
baluardo della vita selvaggia, King Kong s’impossessa dei due simboli della vita
metropolitana: Fay Wray, simbolo della lussuria, è la fonte della perdizione
mentre l’EMPIRE STATE BUILDING è l’icona del Nuovo Mondo. Impadronendosi del
suo edificio simbolico, King Kong diventa il re di una metropoli che può essere
vista come una giungla moderna, materia rigida nelle sue costrizioni sociali come
nella sua forma, esemplificata dal grattacielo.
Il fatto che l’architettura sia fatta della stessa materia della città, è fuori
discussione; che la città sia una singola architettura, un’idea avanzata da Leon
Battista Alberti, è un’affermazione più problematica. Per Alberti, uomo del
Rinascimento, la città era concepita come una grande architettura in cui ogni
singolo esempio al suo interno poteva essere inteso come una città in
miniatura12. Una simile concezione è strettamente connessa all’idea di città come
palcoscenico teatrale. Le facciate romane non erano sola architettura, ma
rappresentazione di un modo di vivere in cui si tendeva a mostrare l’esteriorità.
Gli architetti del tempo mettevano in scena, più che costruire. Una simile
concezione è stata ripresa nelle megastrutture disegnate da Paolo Soleri13: MESA
CITY [1961], per esempio, un cubo sospeso sorretto da pilotis alla Le Corbusier
che doveva ospitare due milioni di abitanti.
L’eliminazione progressiva dello spazio pubblico della Metropoli coinciderà con
la nascita dello star system, e quindi con lo spostamento dell’attenzione dal
contesto urbano alla figura del divo ed alla struttura narrativa, che si andava
proprio in quegli anni codificando nei generi classici. Il periodo d’oro di Hollywood
vede quindi il passaggio della Metropoli dal ruolo di protagonista a quello di
comprimario. Solo in un caso, con La fonte meravigliosa, biografia non
autorizzata di Frank Lloyd Wright, diretta da King Vidor nel 1949, la Metropoli
sembra recuperare quel ruolo primario, fungendo da pretesto per raccontare la
12
13
L. B. Alberti, 1485, L’architettura – De re aedificatoria, ed. a cura di G. Orlandi e P. Portoghesi, Milano 1966.
Cfr. E. Jones, 1990, Metropoli. Le più grandi città del mondo, Donzelli, Roma 1993, pag. 146 e segg.
15
storia di un maverick, un ribelle inserito nel sistema, nel quale si identificava lo
stesso regista.
La città diventa nuovamente un’icona nel momento in cui, verso la fine degli
anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, Hollywood non ha più storie nuove da
raccontare se non recuperando il passato in chiave nostalgica, come in
Chinatown [1974] di Roman Polanski, ed operando attraverso un rimescolamento
dei generi classici. Gli anni Sessanta hanno spesso dato origine, grazie alle
speranze in uno sviluppo tecnologico senza fine, a progetti megalomani/utopistici
come quelli del gruppo Archigram14, fautori di città impossibili, ma affascinanti,
come la PLUG-IN CITY [1963-64] di Peter Cook, strutture urbane accumulate su
sovrastrutture metalliche senza soluzione di continuità. Per gli Stati Uniti sono i
tempi
degli
ultimi
grandi
kolossal
a
caratterizzazione
fortemente
melodrammatica: Cleopatra, l’ultimo film “pensato in grande” è del 1963.
L’Esposizione
Universale
di
Montreal
del
1967,
vero
e
proprio
baraccone/archivio del pensiero infruttuoso e cumulativo di quel decennio,
rappresenta il canto del cigno dell’Utopia. Costruito quasi come un set
cinematografico,
sarà
intelligentemente
sfruttato
da
Robert
Altman
per
l’apocalittico Quintet [1978].
I gusti del pubblico cinematografico si evolvono più rapidamente delle
intenzioni di progettisti ed architetti, anche in fatto di abitazioni private. Verso la
seconda metà degli anni Sessanta comincia, infatti, il grande processo di
riconversione delle periferie urbane, ad opera il più delle volte dello stesso
Cittadino, vero e proprio bricoleur della domenica, che opera un montaggio sulla
propria abitazione con lo stesso metodo dei giovani cineasti francesi della
nouvelle vague: destrutturando e ricostruendo per associazioni di idee, più che
basandosi su di un canovaccio/progetto. Robert Venturi si accorge di questi
14
Cfr. Archigram, 1973, Archigram, International Thomson Publishing, New York, ed i progetti della PLUG-IN
CITY in P. Cook, 1970, Experimental Architecture, London.
16
cambiamenti
alla
fine
degli
anni
Sessanta,
analizzando
ferocemente
ed
ironicamente le proprie opere e quelle dei suoi colleghi razionalisti, nel
promemoria del pensiero postmoderno Learning from Las Vegas.
La sua tesi sul «brutto e ordinario», elemento tipico delle accumulazioni
suburbane, che sta prevaricando sul «bello ed eroico», elemento fondamentale
della teoria funzionalista, fatica a prendere piede nelle riviste specializzate, ma
spalanca le porte già aperte degli allarmisti15. La speculazione sugli orrori di
periferia era già iniziata da tempo, ed il cinema, in questo caso, calca la mano:
Terremoto, L’inferno di cristallo e Il mondo dei robot appartengono agli stessi
anni [1973-74], e mettono in mostra, da un lato la rivolta contro l’uomo della
tecnologia, e dall’altro lo sviluppo insostenibile delle città verticali, non più
sorretto dal progresso tecnologico. Passati gli anni dei film catastrofici, si arriva
agli anni Ottanta, con la frattura operata dalla fantascienza filosofica di Blade
Runner,
vero
spartiacque
del
cinema
decostruito
e
re-immaginato
dal
postmodernismo.
Tramite questa decostruzione ed ibridazione dei generi, la Metropoli recupera
la propria visibilità e centralità in film come Blade Runner [1982] appunto,
Batman [1989] e Dick Tracy [1990], i cui rispettivi ideatori delle scenografie, Syd
Mead, Anton Furst e Richard Sylbert, hanno non a caso una formazione da
architetti ancor prima che da scenografi. Questi tre autori hanno avuto la
capacità di fare delle loro scene dei veri e propri manifesti programmatici, che
riconducono idealmente alle dichiarazioni entusiastiche degli scenografi degli anni
Venti. L’idea centrale attorno a cui ruotano questi tre film è la presenza di un
luogo forte, un edificio, come la ziqqurat in Blade Runner, o un’intera città, come
la Gotham City di Batman, che si pone quale segno immediatamente riconoscibile
15
E’ rilevante il fatto che la bibliografia in fondo al testo sia composta quasi esclusivamente da articoli presenti
su quotidiani nazionali e regionali; cfr. R. Venturi, D. Scott Brown, S. Izenour, 1972, Imparando da Las
Vegas, Cluva, Venezia 1984.
17
ed identificabile, e che costringe lo spettatore a tener conto della sua presenza,
anche per una piena comprensione della struttura narrativa.
Blade Runner, oggetto di culto degli anni Ottanta, ha generato il grande
equivoco di cui stanno soffrendo attualmente le metropoli americane: la
rappresentazione dolente e pessimistica proposta dal film ha provocato il
sospetto che se fosse questa la prospettiva del Modello Abitativo Moderno,
nessun uomo ragionevole sarebbe disposto ad abitare in una città simile. Il film
di Ridley Scott [furbo nel concentrare l’attenzione su una location destinata a
rimanere impressa nella memoria, anziché sull’esile plot], non mette in scena il
futuro
dell’urbanizzazione,
ma
è,
al
contrario,
l’ultima
e
definitiva
rappresentazione della Metropoli Moderna così come l’avevano immaginata, con
le gotiche verticalizzazioni alla Sant’Elia, i suoi progettisti.
È quindi più il ritratto di New York che non di Los Angeles. La Città
Contemporanea non è mai esistita se non come ripetizione all’infinito del già
esistente: in quest’ottica può essere inquadrata Las Vegas, il non-luogo
postmoderno per eccellenza, un concentrato di locations cinematografiche e
metropolitane provenienti dall’intero pianeta, ad uso e consumo delle famiglie. Le
riproduzioni-cartolina di Manhattan, delle Piramidi di Giza e di Piazza San Marco16
permettono al turista medio americano di avere i luoghi per eccellenza in unico
luminescente agglomerato, senza soluzione di continuità. La prima realistica
rappresentazione del post-modernism è stata messa in scena da William Friedkin
nel migliore noir degli anni Ottanta.: Vivere e morire a Los Angeles [1985].
L’immagine della città è devastante, onnivora, fatta di snodi autostradali e
periferie degradate; non uno sguardo viene levato verso le dorate colline di Bel
Air e Beverly Hills. Tutto è offuscato da una patina di sporco, con un finale
segnato da un sole morente all’orizzonte.
16
Il suolo italiano è da sempre preda dell’immaginario collettivo statunitense; oltre ad una rappresentazione di
Venezia, è presente anche una riproduzione in scala delle località sul lago di Como.
18
Secondo i migliori archetipi del noir, gli abitanti sono quello che abitano,
corrotti, senza morale ma privi, in questo caso, dell’eroismo che caratterizzava
capolavori degli anni Quaranta come La città nuda [1948].
La banalizzazione della città si infiltra in questi personaggi, quasi anonimi e
senza forti caratterizzazioni. La Città dei Sogni si trasforma a partire da questo
film in un luogo privo di riferimenti culturali e di qualità estetiche, nella cui
rappresentazione diventano fondamentali i luoghi di ritrovo di passaggio, come
tavole calde o stazioni di servizio. In questa fase si collocano film come Thelma &
Louise
[1990]
e
Pulp
Fiction
[1994],
nei
quali
le
locations
sono
un
ovunque/nessun luogo, delle «eroiche pompe»17 uguali a tante altre, sia che si
trovino in mezzo al deserto dell’Arizona, sia che appartengano al nucleo urbano
di Los Angeles. Da qui prende forma l’idea che Los Angeles sia un agglomerato di
tante piccole città di provincia, slegate ideologicamente, ma strutturalmente
interconnesse da quell’unico esile fil rouge che è l’autostrada.
Il concetto di «metropoli di seconda generazione» definito da Guidicini18 non è
applicabile a Los Angeles: un nuovo progetto edilizio su larga scala, chiamato
PLAYAVISTA, contempla che residenza, ufficio e luoghi ricreativi si trovino
all’interno di un unico nucleo, isolato da ciò che lo circonda. La nuova cittadella
fortificata dovrebbe rifarsi esteticamente alle case sul Thaoe Lake, in Nevada, un
ritrovo chic in stile Tudor per i losangeleni altoborghesi, sito celebrato più volte
nel cinema [l’ultimo esempio è City of Angels, 1998]. Il progetto originale
prevede che una parte del centro residenziale, sia adibita ai nuovi studios di
Steven Spielberg e di James Cameron.
I luoghi della produzione cinematografica, tendono quindi ad assomigliare
all’iperreale
sogno
della
vita
di
provincia
americana,
rappresentata
cinematograficamente dai film con Doris Day ed iconograficamente ispirata dalle
17
18
Cfr. AA.VV., 1998, Gomorra 1, Costa & Nolan.
Nella quale, accanto alla popolazione notturna e diurna, compaiono i pendolari del consumo metropolitano.
Cfr. P. Guidicini, 1971, Sviluppo urbano e immagine della città, FrancoAngeli, Milano.
19
tavole domenicali di Norman Rockwell. La rappresentazione della città ne è
l’esatto contrario: il ritorno in auge del noir, genere pessimista e metropolitano
per eccellenza, ne è la chiara dimostrazione. Strange Days [1995], è il film
emblema di questa nuova realtà nata negli anni Novanta: lo sguardo dolente sul
futuro della Metropoli ne costituisce il presente più crudo.
Lo
scenario
italiano
negli
stessi
anni
presentava
un’involuzione.
Lo
spiazzamento dimostrato dagli architetti e la mancanza di collaborazione con
urbanisti ed ingegneri, fece sì che molti sbandierati progetti rimanessero solo
sulla carta. Il periodo della «architettura disegnata» durò quasi dieci anni. Un
decennio, tra gli anni Settanta e gli Ottanta, che farà perdere agli architetti
italiani il sottile filo rosso che li collega alla realtà, e che si concluderà con la
tardiva esposizione della Biennale del 1980, curata da Paolo Portoghesi, dal tema
LA VIA NOVISSIMA19. L’idea nuova di Portoghesi, era di portare il tema del
postmoderno in Italia, in un ambiente culturale dove si dibatteva ancora sul tema
del funzionalismo applicato in via definitiva solo a metà degli anni Ottanta. Quello
che è già passato di moda altrove, ad esempio in Francia, dove fu presto
sostituito dall’High Tech, nel Belpaese non riuscirà quasi a mettere radici,
nonostante le buone intenzioni dei curatori della mostra.
LA VIA NOVISSIMA era una struttura effimera costituita da una serie di facciate,
che volevano essere rappresentative del nuovo corso architettonico mondiale. Al
progetto collaborarono molti volti nuovi, come Ghetti, Moore, ed alcune vecchie
glorie come Michael Graves. Tra tutti questi solo Charles Moore proseguirà il
cammino del vero postmoderno, rivelandosi il più “cinematografico” tra tutti.
Progetti come PIAZZA ITALIA a New Orleans costituiscono già sulla carta la
rappresentazione di un set di Tarantino, un accumulo di generi e scenografie, un
nulla/dappertutto denso di riferimenti culturali, ma totalmente slegato dalla
19
P. Portoghesi, V. Scully, C. Norberg-Schulz, C. Jenks, 1980, La presenza del passato, catalogo della mostra,
Biennale di Venezia 1980.
20
realtà.
Michael Graves, uno dei “Five Architets“, ritornerà alla costruzione delle sue
costose abitazioni private, adorate soprattutto dai losangeleni radical-chic, tutte
uguali sia tra loro che tra gli edifici dell’altro grande inganno degli anni Ottanta:
Richard Meier. La breve parentesi del post-modernism non sembra aver sfiorato
questi due grandi dell’architettura contemporanea. Fedeli al credo di Rudolf M.
Schindler20, i due “Bianchi” operano attraverso la purezza della piastrella bianca,
che rende i loro edifici simili a piscine immacolate [CHIESA PER IL GIUBILEO a Roma,
1996; GETTY CENTER di Los Angeles, 1994].
Nel
frattempo
in
Italia,
le
discussioni
sull’efficacia
di
un’architettura
funzionalista troveranno lungo sfogo nelle polemiche seguite alla costruzione
dello ZEN a Palermo, e di CORVIALE e TORBELLAMONACA a Roma. Il progetto di Mario
Fiorentino, in particolare, ha avuto una cassa di risonanza notevole anche per chi
non ne è stato direttamente responsabile o interessato. Visivamente perfetto dal
punto di vista progettuale, una volta costruito si è rivelato inadeguato ed
incoerente con l’ambiente circostante. All’incoerenza formale si è poi aggiunto il
rifiuto mentale del destinatario d’uso. La domanda di spazi abitativi si era
modificata notevolmente nel lasso di tempo intercorso tra il concorso per
l’assegnazione del progetto [1973], e la consegna del manufatto [1981]. Accanto
e dentro l’unité d’habitation nasceva così, ad opera degli stessi abitanti una
nuova corrente architettonica, che avrebbe sicuramente fatto inorridire Le
Corbusier, uomo tanto funzionalista quanto poco pratico della vita in un
condominio popolare di periferia.
Il costruire/sfondare dentro il costruito rese CORVIALE, simile ad un piccolo
borgo medievale, dove si andava per accumulo di abitazioni e non per
organizzazione
20
razionale.
Scomparvero
subito
i
negozi,
divorati
Il cui progetto - tipo assimilava tramite forme nette il cemento armato a vista e pilotis a pianta quadra.
21
dalla
microcriminalità, e sostituiti dalle cellule aggiunte degli abusivi21. Il Nuovo
Medioevo sorto tra le mura della perfezione era l’evoluzione naturale della crisi
del modello abitativo moderno. La difficoltà di controllo di un progetto troppo
grande aveva fatto perdere di vista ai progettisti il vero scopo del loro agire, in
pratica il benessere dell’assegnatario IACP, i cui bisogni si erano allargati tanto
quanto la sua famiglia. Fuori del palazzo-lungo-un-chilometro la situazione non
era diversa: l’installazione autogestita delle nuove periferie aveva trasformato
negli anni le baracche degli anni Sessanta in case allargate e rialzate
proporzionalmente al crescere del numero degli occupanti. Quando la famiglia
cessò di crescere, si pensò a come aumentare i comfort interni ed esterni: la
comparsa di verande, paraboliche, sale hobby scavate nel sottosuolo non
cambiarono comunque l’aspetto esteriore di abitazioni rimaste con il cemento
armato a vista ed i tetti di eternit22.
Al giorno d’oggi gli elementi costitutivi della vita urbana tendono ad esulare
completamente dall’opera professionale dell’architetto. La città va di là degli
edifici e delle architetture che la compongono. Gli strumenti tradizionali di analisi
del territorio raramente rispondono ai requisiti della vita della metropoli
contemporanea che necessita in particolare di reti di trasporto, di autostrade, di
spazi riservati alla logistica della distribuzione, di aree naturali protette e di spazi
virtuali
per
la
comunicazione
e
lo
svago.
L’attuale
condizione
urbana,
caratterizzata dalle megalopoli estese e ben collegate, di cui Jean Gottmann23
parlò già negli anni Sessanta, esige un nuovo approccio da parte del progettista.
Questo vale anche per i tentativi classici e modernisti di ripensare la relazione tra
l’architettura e la città.
La nuova natura della città è stata rilevata da Peter Hall, quando scrive che
21
22
23
Per una storia “sociale” e civica di Corviale, cfr. A.R. Montani, 1993, Le comunità locali urbane, Bulzoni,
Roma.
Cfr. P. Desideri, 1997, La città di latta, Costa & Nolan, Genova.
J. Gottmann, 1961, Megalopoli. Funzioni e relazioni di una pluricittà, Einaudi, Torino 1970.
22
l’esplosiva e vertiginosa crescita urbana riguarda non più solo i paesi sviluppati,
ma
che
si
sta
verificando
con
velocità
allarmante
anche
nei
paesi
sottosviluppati24. Gli elementi con cui ci si trova ad operare sono processi già
esistenti, privi di consapevolezza o di qualunque processo critico, ma sono
tuttavia consuetudini alla base dell’organizzazione della vita nelle città moderne.
Sono proprio gli esperti privi di qualunque formazione architettonica che hanno
preso controllo e possesso delle tecniche di progettazione urbana dei nostri
giorni.
Secondo
loro
un
architetto
dimostra
scarsa
comprensione
delle
autostrade, degli aeroporti, dei sistemi di trasporto, dei centri commerciali, delle
zone per il tempo libero, delle aree turistiche, delle zone residenziali spontanee,
delle case mobili e delle case per la nuova famiglia non–tradizionale. Le richieste
di un nuovo consumo di massa guidano il rinnovamento e la conservazione dei
patrimoni artistici, dei parchi e delle zone industriali abbandonate. I mass media
generano poi copie multiple e immaginarie di questo ambiente, creando e
ricreando realtà virtuali non meno vissute delle realtà fisiche della grande città.
In molti casi, questi sistemi e fenomeni sono estranei se non nemici delle
modalità consolidate di pensiero e azione condivise da molti progettisti.
Attraverso le mutazioni, indice di cambiamento generazionale delle città, è
possibile avvertire i nuovi strati, continuamente sovrapposti, tra vecchio e nuovo.
Nella città si vive sempre di più in un processo di mutazione improvvisa e
sconvolgente, dimostrata da tutta quella serie di film appartenenti al genere del
thriller metropolitano.
Tramite il cinema è stato possibile vedere il cambiamento epocale subìto dalla
metropoli: alla fissità delle scenografie negli anni Quaranta, si è passati, intorno
agli anni Ottanta, ad un cinema caratterizzato dal flusso continuo di macchine,
persone, un cinema fatto essenzialmente di movimento.
24
P. Hall, 1988, Cities of Tomorrow, Blackwell, Oxford.
23
Il potere del cinema di rendere reale solo ciò che è inquadrato velocemente
dalla mdp, ha permesso una visibilità, anche se il più delle volte in modo acritico,
al popolo sommerso degli immigrati e dei senzatetto. Le loro abitazioni sono
diventate un terreno fertile per la sperimentazione dell’architetto, impossibilitato
di lavorare per le grosse committenze pubbliche. Ne è prova visibile il nuovo
centro per i senzatetto creato nel Downtown di Los Angeles, una decina di
semicupole che “simulano” un’abitazione visibile agli abitanti, ma nascosta agli
occhi degli uomini d’affari. Un lavoro esemplare dal punto di vista sociale, ma
veramente scarso dal lato concettuale, e visibile in Verdetto Finale [1991].
La simulazione, in uno scambio continuo tra architettura e set, caratterizza
anche i moderni templi del consumo collettivo, nei quali assume sempre più
importanza il palcoscenico sul quale si tiene la rappresentazione del mercato25.
Questi involucri che dovrebbero essere pubblici, ma non sono per tutto il
pubblico, trasparenti, ma allo stesso tempo sono chiusi come gusci, sono i nuovi
luoghi di aggregazione.
Ma se lo spazio pubblico storico è un luogo grazie alla riconoscibilità della sua
identità, allora davvero lo spazio pubblico contemporaneo è l’esatto opposto di
un luogo. Nel non-luogo l’agire sociale è destinato a rimanere la somma di tante
insignificanti individualità, senza mai diventare espressione integrale di un agire
comune. Nei contenitori come gli shopping mall domina la legge dell’entropia: «il
grado di mescolanza, disordine, indifferenzazione, imprevedibilità e casualità
delle relazioni tra le componenti di un qualunque aggregato»26. Lo spazio è
sempre artificiale, trasparente e recintato; prodotto da mezzi effimeri, molteplici
e variabili, è avvolto dal rigido rivestimento del contenitore.
Il TEATRO DEL MONDO di Aldo Rossi per la Biennale del 1980 era una struttura
25
26
Per ulteriori confronti con il concetto di rappresentazione e di “vita come il palcoscenico”, cfr. J. Meyrowitz,
1985, Oltre il senso del luogo, Baskerville, Bologna 1995 e E. Goffman, 1959, La vita quotidiana come
rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969
G. Bateson, 1980, Mente e natura, Adelphi, Milano 1984, p. 300.
24
effimera che simulava una torre fortificata: un prodotto visibile a tutti ma che
tendeva più ad escludere che ad includere. Forse non siamo ancora pronti per
progetti come quello di Massimiliano Fuksas per il CENTRO CONGRESSI all’EUR: un
parallelepipedo trasparente che racchiude in uno scrigno come fossero oggetti
preziosi i visitatori/attori; visibilità ed artificio si mescolano mirabilmente in una
struttura in cui sono spettatori coloro che si trovano all’esterno.
Raro esempio di architettura slegata dalle correnti artistiche, impensabile in un
territorio come quello romano, in cui non si riesce mai a trovare una via di mezzo
tra la conservazione ad ogni costo ed il sensazionalismo facile, il parallelepipedo
di Fuksas è scenografia pura, ma senza la pretesa di violentare ideologicamente
il fruitore dello spazio. Non rimane quindi che adeguarsi, come ha fatto il cinema,
all’idea di appartenere ad un terrain vague, con i suoi vuoti disimpegni, e con la
sua incertezza formale. Un’indeterminatezza che sembra trovare nella memoria
del passato, la sua unica via di fuga: solo tramite il recupero si può alimentare il
nuovo.
Ecco quindi in architettura, il revival del razionalismo [Aldo Rossi] e del
neoclassicismo [Léon Krier]; al cinema, la metodica distruzione/ricostruzione di
tutti i generi, cominciata con Star Wars [1977] e culminata con lo stupefacente
Matrix [1999], l’ultimo e definitivo film di fine millennio.
25
1
IL CINEMA E L’IMMAGINARIO
26
1.1
“LA FONTE MERAVIGLIOSA”: FRANK LLOYD WRIGHT.
IL BISOGNO DI COMUNICARE LA PROPRIA SOLITUDINE INTELLETTUALE
Il processo di specializzazione frantuma la compiutezza che era
propria della prima fase progettuale e impoverisce il discorso
critico, lo impoverisce anche quando ne rende estremamente
complesse le articolazioni e le regole.
Alberto Abruzzese [1979]
Il romanzo di gran successo di Ayn Rand27 ed il meno fortunato film di King Vidor
[1949], servono da introduzione sulla filosofia oggettivistica di Frank Lloyd
Wright, la cui idea centrale è costituita dalla difesa della libertà personale
assoluta e dal suo inflessibile individualismo. Lo scontro ideologico è tutto giocato
sulle strutture neoclassiche elaborate dalla Maggioranza, e la Nuova Plasticità
modellata dal protagonista del film. La figura di Howard Roark è palesemente
ricalcata su quella del grande architetto americano, all’epoca tornato alla ribalta
grazie ad alcuni edifici largamente pubblicizzati come FALLINGWATER [1936] e la
JOHNSON & SON COMPANY [1936-39]. È rimarchevole il fatto che nel film venga
fatto un riassunto di tutta l’architettura americana moderna, incentrandola su di
una sola figura. Se nella prima parte del film vengono, infatti, ripresi
perfettamente i disegni di Wright nella parte centrale, alcuni bozzetti possono
essere associati all’International Style.
Il famoso concorso per la realizzazione della sede del CHICAGO TRIBUNE [1922]
sembra essere stato per lo scenografo del film, Edward Carrere, un’utile fonte
d’ispirazione. Il progetto che risultò vincitore, realizzato da Raymond Hood,
rispecchiava fedelmente quelle che nel film sono definite come architetture
27
A. Rand, 1943, La fonte meravigliosa, Corbaccio, Milano 1996.
27
tradizionali, “scopiazzate malamente da tutti gli stili del passato”. Il personaggio
di Peter Keating, “l’artista del compromesso”, prende le mosse da quella miriade
di architetti che fecero la loro fortuna grazie all’eclettismo americano. Uno dei
capolavori di questo stile, il WOOLWORTH BUILDING di New York [1913], progettato
da Cass Gilbert, è stato a lungo definito come l’ottava meraviglia del mondo. La
torre goticizzante unita alla struttura del grattacielo era un elemento comune tra
gli edifici dell’epoca. Come afferma un committente al rifiuto di Roark di adattare
il proprio lavoro al gusto delle masse, “l’originalità piace se non è eccessiva”.
Sigfried Giedion fu uno dei primi critici ad intravedere il pericolo dell’eclettismo:
a suo parere, il Neoclassicismo dello stile Beaux-Arts non rispondeva né al livello
della tecnologia né a criteri funzionali28.
L’origine di questo arretramento culturale, sempre secondo Giedeon, stava
nell’allestimento della WORLD FAIR di Chicago nel 1893, curata da Daniel H.
Burnham. Nel momento in cui la Scuola di Chicago «aveva raggiunto la
padronanza dei nuovi strumenti che essa stessa aveva creato»29, il classicismo
mercantile importato dagli architetti newyorchesi educati al Beaux-Arts di Parigi,
aveva sconvolto le nuove geometrie urbane che si andavano allora delineando.
New York era vista come la patria di questo stile, una sensazione resa
esplicitamente nel film, dove svettano in ogni angolo grattacieli di chiara matrice
neoclassica. Il puntiglio con il quale Giedion e gli altri critici proto-funzionalisti si
scagliarono contro le aberrazioni di questa vecchia/nuova corrente, riguardava
comunque più una questione dello stile e decorazione, piuttosto che il risultato
dell’insieme. La capacità di alcuni eclettici come Daniel H. Burnham, responsabile
tra
l’altro
del
CHICAGO PLAN,
di
avere
una
visione
più
urbanistica
che
architettonica, gli consentì di avere un meritato successo all’inizio del secolo.
Per gli scopi del film, la pomposa architettura storicistica ed eclettica,
28
29
Cit. in W. R. Taylor, 1992, New York. Le origini di un mito, Marsilio, Venezia 1994, p. 91.
Cfr. S. Giedion, 1941, Spazio, tempo e architettura, Hoepli, Milano 1954, pp. 393-95.
28
rappresentava l’impotenza artistica e la debolezza di carattere dell’architettura
americana, mentre le semplici e rigorose forme del Modernismo europeo erano il
simbolo di un individualismo senza compromessi. La realtà, e il romanzo della
Rand, erano però molto più complessi. Nel romanzo la lotta dell’eroe per la
propria integrità è un simbolo della battaglia di Wright per un’architettura
americana più genuina e onesta. La Rand aveva chiaramente posto delle
differenze tra lo stile di Roark – modellato sui lavori più tardi di Wright – ed il
severo Modernismo.
Un chiaro esempio di questa tendenza fu il progetto dell’olandese Bernard
Bijvoet, sempre per il concorso del Tribune, che
doveva avere evidentemente influenzato Carrere nel
disegnare l’edificio Enright. Questo grattacielo si
presenta come un assemblaggio di due stili diversi.
Da
un
lato
la
purezza
delle
linee
orizzontali
dell’edificio principale rivelano la struttura a scheletro
interna in un sottile gioco di trasparenze, dall’altro
l’ala specchiata ricorda il PALAZZO DEL SEGRETARIATO DELL’ONU a New York, i cui
lavori erano iniziati proprio nel 1949.
Il primo è un chiaro segnale di indipendenza di pensiero e di individualismo
formale, mentre il secondo un chiaro omaggio all’International Style ed ai
monoliti in vetro di Mies. Gli architetti europei come Bijvoet, si sarebbero
probabilmente trovati a proprio agio con alcune forme di collettivismo di cui si
parla nel film30 e verso le quali era rivolta la polemica di Wright. Nel film, la
critica di Roark era invece diretta verso il collettivismo eclettico dei newyorchesi
provenuti dal Beaux-Arts. All’interno del film i confini tra uno stile e l’altro sono
più sfumati. In certi momenti sembra addirittura che Carrere si sia ispirato più
30
Non a caso il PALAZZO ONU era il risultato di un lavoro di gruppo cui parteciparono dieci grandi nomi
dell’architettura internazionale, tra cui Le Corbusier e Oscar Niemeyer.
29
alle opere californiane di Schindler, Neutra e dei loro seguaci, che a Wright
stesso.
Nella parte centrale del film vengono inquadrate alcune opere che Roark
realizza nel suo periodo di crisi professionale. Wright, durante lo stesso periodo
realizzò a Los Angeles alcune delle sue opere più controverse ed audacemente
dettagliate, come la ENNIS HOUSE [1923-24] di chiara ispirazione messicana.
Quelli che Carrere realizzò per Roark, furono invece delle felici anticipazioni
dell’architettura losangelena postmoderna. Il primo bozzetto, un negozio con un
tetto aggettante ed un profilo convesso verso l’interno, ricorda molto le miriadi di
caffè e ristoranti che si trovano lungo le aree più commerciali della metropoli
californiana. La struttura rientrante del palazzo per uffici, chiaro riferimento al
CBS HEADQUARTERS31 [1936], è stata recentemente ripresa per gli HARVARD
APARTMENTS [1992], in chiave postmoderna: associando un colore, invece di una
forma, ad ogni funzione presente nell’edificio. Un altro
progetto raffigurante una residenza privata è forse l’unico
che ricorda
Wright nel periodo in cui esasperò le linee
orizzontali come nella LOWELL HOUSE [1948] in Iowa. Le
grandi sorprese del film sono costituite comunque, più
che dai lavori di Roark, dai progetti che Carrere disegnò per Henry Cameron. Il
personaggio di Cameron è, almeno in teoria, un omaggio a Louis Sullivan,
esponente di punta della Scuola di Chicago, e maestro di Wright prima del
volgere del secolo.
Nel suo capolavoro, i magazzini CARSON, PIRIE & SCOTT [1904], seppe coniugare
lo sperimentalismo delle linee orizzontali intersecate con le verticali, con un
decorativismo leggero e mai banale. In realtà, i progetti di Cameron surclassano
quelli di Roark per audacia delle forme ed una forte comunicazione visiva,
31
Realizzato da William Lescaze, è l’edificio che si vuole sia il capostipite dell’International Style in California.
Cfr. R. Banham, 1971, Los Angeles, l’architettura di quattro ecologie, Costa & Nolan, Genova 1983, pp. 16667.
30
sconosciute al vero Sullivan.
I volumi pesantemente concreti anticipano di qualche anno la tendenza
brutalista dell’architettura moderna da un lato, mentre svelano la struttura a
scheletro dei grattacieli dall’altro. L’edificio che Cameron mostra a Roark, mentre
si dirigono verso l’ospedale, sembra un’anticipazione di quel CRAWFORD MANOR di
Paul Rudolph, che Venturi definisce «pure architecture»32. L’edificio in questione,
costruito nel 1962, era la punta più avanzata della tendenza verso la
megastruttura, in cui si cercava di «elevare il sistema di valori/budget del
committente grazie ad un riferimento alle Arti ed alla Metafisica»33.
Come dice Cameron a Roark, “la forma di un edificio deve avere una sua
funzione” e curiosamente il testamento morale di Cameron si rispecchia nella
pianta sagomata ed elegante del CRAWFORD MANOR. Paul Rudolph rimane un
personaggio importante per l’architettura americana per aver avviato una
corrente parallela al Brutalismo britannico, grazie all’uso aggressivo del cemento
armato.
Quando il film uscì, la risposta dei critici fu unanimemente negativa. La stampa
specializzata fece notare, anzitutto, i grandi problemi strutturali causati dagli
enormi cantieri che si vedono nel film34. Oltre a denigrare l’interpretazione rigida
ed inadeguata di Gary Cooper, ed alcune debolezze nell’intreccio della trama, la
critica si accese in un dibattito infuocato sulla nozione di Genio e sulla questione
del diritto assoluto di un artista sul suo lavoro. Nonostante il ritratto della Rand di
un architetto visto come un genio infallibile fosse esagerato, non era in ogni caso
troppo lontano dalla verità. Ci sono giunte molte immagini di architetti
contemporanei nella posa di orgogliosi creatori, che possono aver influenzato
Carrere e tanto Wright, quanto Gropius, si trovano tra questi.
Ellsworth
32
33
34
Toohey,
il
critico
artistico
del
“The
Banner”,
R. Venturi, D. Scott Brown, S. Izenour, 1972, op. cit., pag. 102.
Ivi.
Cfr. G. Nelson, 1949, “Mr. Roark goes to Hollywood”, Interiors 108, pp. 106-11.
31
è
la
figura
rappresentativa del gusto dominante ed il vero nemico dell’indipendenza di
pensiero nella creazione. Il personaggio è stato probabilmente ricalcato sulla
figura di Montgomery Schuyler, il maggiore critico di
architettura del tempo, che a proposito della World Fair
di Chicago aveva detto che «il successo è prima di tutto
un
successo
dell’unità,
un
trionfo
dell’ensemble»35.
Schuyler esaltava la superiorità del lavoro collettivo
rispetto all’esperienza individuale; Ellsworth Toohey, dal
canto suo, sopporta ben poco gli architetti di genio come
Roark, “perché un uomo superiore è un insulto a quelli comuni”. La sua è
soprattutto una critica all’individualismo di Roark, raffigurato come un uomo
concentrato solo sul suo valore personale.
F.L. Wright, in realtà, non lavorava da solo, ma nella sua comunità, Taliesin,
aveva instaurato più un rapporto tra maestro e discepoli che tra colleghi paritari.
Walter Gropius, invece, credeva fermamente nella fecondità del lavoro collettivo
e firmò molte delle sue ultime opere con il The Architects Collaborative, lo studio
da lui fondato su di un rapporto paritetico con gli altri.
Alberto Abruzzese fa presente riguardo il discorso della critica, che la
progressiva settorializzazione dell’attività intellettuale ha ovvie ripercussioni
anche su quella artistica36. E proprio nel passaggio tra l’astrazione del lavoro
intellettuale e la concretizzazione voluta dall’industria culturale si rintracciano le
evidenti analogie con i meccanismi che regolavano la vita di artisti solitari come
Wright. Nei suoi scritti l’architetto ha più volte fatto notare quanto fosse
fondamentale la sua differenza culturale dalla massa:
35
36
Cit. in W. R. Taylor, 1992, op. cit., p. 84.
A. Abruzzese, 1976, Verso una sociologia del lavoro intellettuale, Liguori, Napoli, pp. 131-161.
32
dapprima il grattacielo non era che una pila di edifici a cornicione in stile, a cavalcioni l’uo
sull’altro. Poi, un grande architetto lo sentì come un’unità e come bella architettura [1930, p.
169]
Differenza che si fa diffidenza nei confronti del prossimo e della massa. Wright
pur essendo anche uno scultore di opere pubbliche, come il GUGGENHEIM, rimase
legato soprattutto alla relazione con il singolo. Nei primi edifici insisteva spesso
per il progetto totale, rimanendo deluso quando i suoi committenti non
accettavano anche le sue soluzioni interne. Un buon esempio di architettura
d’interni è ripreso proprio nel film, dove la sistemazione dell’appartamento di
Enright è la proiezione del progetto a spirale del SOLOMON GUGGENHEIM di New
York [1955-59]. Gli affacci rientranti dei piani superiori sul salone principale, la
scala che si erge sinuosamente verso il primo piano, sono tutti elementi che
ricorrevano già in opere precedenti di Wright, come le balconate nell’edificio della
LARKIN COMPANY [1903-05].
La leggera scala è stata invece ripresa nel recente Gattaca [1997]. Le
ambientazioni gelide di Wright ben si adattano a questo atipico film di
fantascienza, dove sono riprese in chiave di alienazione e di distacco. Il MARIN
COUNTY CIVIC CENTER [1957-66], una delle ultime realizzazioni di Wright in
California, è il nucleo centrale del misterioso mondo di Gattaca, dove i vasti spazi
interni vogliono essere una rappresentazione simbolica della solitudine interiore
dei personaggi. Nella realtà, quando Wright costruì questo edificio pubblico, il suo
intento era esattamente l’opposto: egli voleva porre il cittadino in un ambiente
luminoso, piacevole, immerso nella natura. Aveva ideato una disposizione interna
che avrebbe permesso agli uffici di essere disposti in maniera differente secondo
le esigenze dei lavoratori e dei differenti periodi lavorativi.
Contrariamente alla monumentalità della maggior parte delle costruzioni
ufficiali, il centro civico si estende in tutta la sua lunghezza tra le colline ed è
costituito da una bassa cupola circolare, seguita da un lungo edificio a pianta
rettangolare. Probabilmente è stata la purezza delle geometrie degli archi che
33
attraversano tutta la costruzione, ad attirare il regista Andrew Niccol, che ha
lavorato in stretta collaborazione con lo scenografo Jan Roelfs per ricreare le
atmosfere wrightiane, tanto negli esterni quanto negli interni. La scala, cui si
faceva cenno precedentemente, si trova all’interno dell’appartamento del
protagonista ed assume un significato ancora più simbolico se si pensa che
rappresenta la barriera [quasi] insormontabile per l’amico immobilizzato del
protagonista.
Le geometrie ricorrenti del cerchio e della spirale ritornano periodicamente sia
nella disposizione degli uffici, sia nell’evoluzione della trama. Gli affacci dei
corridoi sui piani inferiori sono nuovamente quelli del GUGGENHEIM, mentre la
disposizione delle scrivanie nella sala principale richiama la JOHNSON & SON
COMPANY. La storia del film è costituita da un cerchio che si chiude intorno ai
protagonisti, con la rinascita per uno e la morte per l’altro. Lo stesso Wright,
nelle ultime opere, era ossessionato dal cerchio, quasi volesse chiudere la sua
carriera artistica con la figura che più considerava perfetta.
34
1.2
“BATMAN”: SHIN TAKAMATSU
LA TRASFIGURAZIONE DELLA REALTÀ ATTRAVERSO IL SOGNO
La Metropoli è folla di piaceri, di vizi, di virtù […] E’
negazione della forma organica, distruzione dell’
”animo” della Gemeinschaft, è folla.
Massimo Cacciari [1973]
Il film di Tim Burton ha richiesto una lunga gestazione per quanto riguarda le
scelte scenografiche. Il desiderio del regista era di creare una città che non fosse
identificabile né geograficamente, né storicamente, ma che riuscisse a restituire
l’idea di una metropoli occidentale. Priva di riferimenti temporali, ma con una
sensazione da anni Quaranta, Gotham City è il risultato di un duro lavoro
iconografico da parte dello scenografo Anton Furst. Andando contro ogni più
semplice regola urbanistica, Furst ha costruito37 una città che sembra fuoriuscita
direttamente dalla pavimentazione stradale.
Scura e fumosa, Gotham City rifiuta la logica che vorrebbe, come nelle città
normali, un limite all’altezza dei grattacieli, per permettere il passaggio della
luce, un piano regolatore che rappresenti un filo conduttore tra una zona e
l’altra. Dopo un’attenta lettura di Metropolis, Furst decise che voleva creare una
città diversa da tutte le altre:
Metropolis ha l’aria di una città progettata da una sola persona. New York o qualunque altra
metropoli ha, invece, l’aria di essere state progettata da migliaia di architetti, attraverso
centinaia di anni. […] Ho tradotto immagini di Architettura, non l’architettura stessa, in
scenografia38.
L’idea nuova di Anton Furst è proprio nell’aver voluto realizzare un concetto
diverso di metropoli. Sprovvista dei riferimenti tradizionali all’eclettismo, Gotham
37
38
Realizzato negli studi Pinewood [Londra], il set di Batman è stata la più grossa struttura scenografica
realizzata fuori da Hollywood, dai tempi di Cleopatra.
Cit. in J. D. Shannon, 1990, “A Dark and Stormy Knight”, Cinefex 41, pp. 4-33.
35
City è un abile melting pot di Brutalismo britannico, Futurismo italiano,
Costruttivismo russo, Decorativismo austriaco e Modernismo spagnolo. In
Gotham City ogni struttura ha, non solo un significato particolare, ma
rappresenta idealmente una parte della storia dell’architettura appartenente a
questo secolo.
Si possono notare i segni lasciati da Otto Wagner nella Vienna d’inizio
Novecento, così come le strutture forti di Mel’nikov; il nuovo espressionismo
strutturale di Norman Foster, ma anche certo razionalismo italiano, come quello
originale del gruppo BBPR nella TORRE VELASCA [1958] di Milano, oppure il
sentimento gotico di Antoni Gaudì nella sua SAGRADA FAMILLA. Gotham City è tutto
questo, con in più un notevole senso del concetto di architettura industriale
postmoderna. Il riassunto di un secolo di modernismo, non ha, infatti, impedito a
Furst di richiamare l’attenzione sulle nuove tendenze.
Nel progettare l’edificio che accoglie il Fulgenheim Museum, il luogo dove si
svolge il ballet mécanique di Joker, lo scenografo si è dichiaratamente ispirato ad
un architetto di Kyoto, Shin Takamatsu. Erede di una tradizione che ha fatto
della sperimentazione sui modelli precostituiti la propria bandiera, Takamatsu ha
sempre saputo infondere alle sue architetture un senso di spaesamento,
centrando l’obiettivo di suggerire sempre un giudizio,
positivo e negativo, che fosse. È impossibile rimanere
indifferenti di fronte all’edificio che ha ispirato Furst, la
clinica odontoiatrica ARK .
Ponendosi più come un oggetto autoreferente che un
aggiornamento delle tematiche meccanicistiche, la clinica
ARK rappresenta un approccio nuovo al rapporto tra
architettura e spazio. Costruita semplicemente in cemento armato e acciaio, ARK
ha l’aspetto di una locomotiva a vapore immobilizzata nel tempo. Secondo le
36
parole dello stesso Takamatsu, la struttura non va interpretata come un’allusione
al passato, ma piuttosto come una proiezione nel futuro. L’architetto fa
riferimento alla nozione di scala, dicendo che nel posizionamento strutturale di
un edificio, bisogna sempre tenere d’occhio in che modo si rapporta all’ambiente
circostante: «Se un edificio è nuovo o no, dipende da certe relazioni di scala»39.
Nel caso di Gotham City, il Flugenheim Museum si correla perfettamente con il
resto delle architetture. Anton Furst ha avuto l’abilità di creare una sorta di
accumulo di edifici, tanto disadorni di applicazioni, quanto pieni di tutti quegli
elementi che sono presenti in una fabbrica dell’Ottocento. Pinnacoli che sbuffano
vapore, grandi finestre offuscate dalla fuliggine, serpentine di tubi lasciate a
vista: gli edifici di Gotham City sono coperti da strutture espressionistiche che si
rifanno all’immaginario industriale.
L’impressione, ad un occhio non allenato, potrebbe essere quella di una
ridondanza di segni. Forse il fascino di Gotham City, però, consisteva proprio nel
poter seguire il dipanarsi dello scenario, esattamente come il fluire dell’azione.
Anton Furst, uomo colto e abilissimo nella gestione di un così vasto progetto40,
non riuscì più ad esprimere un così alto concetto di total design41.
Il cammino del suo ispiratore, è proseguito invece notevolmente dal 1982,
anno di costruzione di ARK, fino a farne uno degli architetti più importanti del
Giappone contemporaneo. Staccatosi progressivamente dalla tendenza verso la
megastruttura spoglia del Metabolismo, Takamatsu ha ripreso molto delle idee
del Futurismo italiano e dell’Espressionismo tedesco. Della corrente dei padri, il
Metabolismo, appunto, ha recuperato il concetto di città vista come un organismo
soggetto a cicli di crescite e ricadute, ma ha eliminato il concetto fondamentale
della megastruttura vista come unico progetto, capace di resistere nel lungo
39
40
41
Cit. in M. Vitta [ed.], 1996, Shin Takamatsu. Architecture and nothingness, L’Arca Edizioni, Milano, p. 39.
Il set di Batman richiese una lunga gestazione formale, ma solo cinque mesi per la realizzazione effettiva.
Lo scenografo è morto suicida nel 1991, dopo la sua prima commissione da vero architetto: la progettazione
dell’HOLLYWOOD PLANET di New York.
37
periodo.
Riprendendo le idee di Sant’Elia, che vedeva la sua CITTÀ NUOVA come uno
spazio complesso dove ha luogo il processo produttivo, Takamatsu ha realizzato
delle strutture che rivelano la propria tensione verso il futuro, mostrando questo
progresso sia nella struttura [forma], che nella distribuzione dell’edificio
[funzione], che ancora nelle relazioni con il tessuto urbano [contesto]. L’interesse
di Sant'Elia era rivolto soprattutto verso «la capacità di programmare e utilizzare
plasticamente movimenti ordinati e precisi»42; la mancanza di planimetrie
presupponeva il primato dell’immagine nei confronti della fredda analisi della
pianta. Negli edifici di Takamatsu non solo nulla viene lasciato al caso, ma la
visione di una pianta non ne rivela tutta la ricchezza formale.
Come in un quadro di Giacomo Balla [ad esempio Compenetrazione iridescente
radiale, 1914], nei suoi edifici, gli elementi vengono scomposti e riassemblati
secondo modalità di derivazione industriale, seguendo una logica meccanicistica.
Attraverso l’andamento contratto della comunicazione di inizio secolo, la
macchina si affermò come oggetto centrale nel rituale della metropoli moderna,
grazie alla propria mobilità.
Allo stesso modo le macchine da lavoro di Takamatsu non sono solo oggetti
fermi nell’incanto del momento, ma la loro percezione cambia secondo la mobilità
dello sguardo. Nel momento in cui i futuristi tendevano ad immobilizzare il tempo
nei limiti del quadro, così l’architettura di Takamatsu rimane un oggetto, solo
apparentemente scoordinato dall’ambiente, e fissato nello spazio urbano grazie a
degli ancoraggi invisibili. La sospensione temporale di questi oggetti architettonici
li situa in un mondo parallelo, in cui l’utilizzo di materiale industriale funge da
pretesto per una parziale relazione con la realtà.
Il concetto di Killing Moon, che torna spesso negli edifici di Takamatsu, è di
42
P. Portoghesi, 1998, I grandi architetti del Novecento, Newton & Compton, Roma, p. 259.
38
chiara matrice futurista: lo stesso Marinetti lo citava spesso. Ultimamente la
rappresentazione della Luna è tornata in un progetto per un albergo situato nella
prefettura di Osaka. Strutturalmente simile ad un grattacielo, la MOON TOWER è
dotata di un’espressività formale notevole, grazie all’inserimento di un’enorme
luna luminosa, che ne spacca verticalmente la composizione.
Considerata
dallo
stesso
architetto
come
una
«transizione
verso
l’irreversibilità»43, la luna assume il significato specifico di collegamento con lo
spazio dell’immaginario. I sentimenti che suscita sono quelli di un senso di
astrazione dalla realtà, e di un precipitare in un mondo parallelo. Questa visione
onirica era stata esplorata da Lewis Hine, il grande fotografo statunitense, verso
gli anni Venti.
Dotato di una forte sensibilità nello stabilire rapporti insoliti, tra figura umana
e ambiente, sapeva isolare con il suo obiettivo l’astrattezza della città moderna e
del macchinario industriale. Nelle sue fotografie, gli uomini venivano ridotti a
figure lillipuziane, quasi ingoiate dalle macchine. In Steamfitter44 [1921], si
riconosce tutta l’astrattezza che caratterizzò le ultime opere del famoso
fotografo: dal realismo sociale degli anni Dieci era passato ad una dimensione
onirica del lavoro e dei suoi referenti meccanici. Allo stesso modo si possono
leggere i mutamenti di significato insiti in un’opera di Takamatsu. Nel desiderio di
esplorare il lato oscuro della psiche umana, i suoi oggetti d’architettura si
presentano in maniera sinistra. Il KIRIN PLAZA di Osaka [1987], ad esempio, si
presta ad una decodifica aberrante. Niente, in questo edificio, è ciò che sembra
essere. Costruito in cemento armato, ed inframmezzato da inserti in acciaio ed
alluminio, il KIRIN PLAZA presenta sulla cima quattro torri traslucide, realizzate in
vetro e carta di riso, che alla luce notturna simulano gli andon, le tradizionali
lampade giapponesi. Le torri non rappresentano un elemento casuale nel
43
44
Cit. in M. Vitta, 1996, op. cit., p. 187.
L’opera raffigura un uomo intento ad avvitare dei bulloni ad una macchina a vapore che presenta la stessa
struttura frontale di ARK.
39
contesto generale, ma fungono da riferimento per i pedoni che affollano lo strip
commerciale di Shinsaibashisuji.
L’immaginario meccanico è sempre stato una fonte di ispirazione, anche prima
che Le Corbusier affermasse che la casa è una macchina per abitare. In edifici
come il KIRIN PLAZA, lo spiazzamento determinato dalla [presunta] ignoranza sulla
destinazione d’uso, prevale sull’ammirazione che si può provare nel vedere un
oggetto cesellato con precisione. Gli oggetti di Takamatsu dimostrano la continua
capacità della macchina, di eccitare i nostri sensi. Queste costruzioni sono meglio
definibili degli oggetti d’architettura, in quanto mancano allo sguardo gli elementi
costitutivi di un edificio.
Nel KIRIN, ad esempio, non si distingue la separazione tra un piano e l’altro;
mancando anche le finestre, la sensazione istintiva è di trovarsi di fronte ad un
oggetto ermetico ed ostile. Questa sensazione deriva dalla mancata sincronia tra
un ambiente in continua evoluzione, ed il linguaggio formale dell’architettura.
Volendo applicare le classificazioni formali redatte da Paolo Castelnovi,
riguardo alla percezione della struttura urbana45, si potrebbe affermare che il
cittadino formula i propri giudizi sull’ambiente circostante, attraverso un
vocabolario
semantico
ormai
datato.
Il
dover
procedere
per
sintesi
approssimative di questo linguaggio, in modo da permettere una definizione
dell’oggetto, non ne aiuta la comprensione formale. L’architettura di Takamatsu
va oltre questo alfabeto architettonico, non è riconducibile a nessun paradigma,
ma si pone esplicitamente come oggetto che riferisce soltanto a sé stesso.
Trovandosi a lavorare in un ambiente urbanistico saturo, Takamatsu ha dovuto
stabilire dei rapporti nuovi tra architettura e natura, tra testo e contesto. Si
spiega così il posizionamento semantico di ARK: influenzata dalla vicina stazione
ferroviaria,
45
la
clinica
determina
un’ulteriore
ridefinizione
dell’ambiente
Cfr. P. Castelnovi, 1980, La città: istruzioni per l’uso. Semiotica della comunicazione nel progetto e nello
spazio urbano, Einaudi, Torino, pp. 126-130.
40
circostante, determinando il passaggio da una sostanza meccanicistica, data dalla
sua struttura, ad un’essenza onirica, data dal suo essere “destabilizzante”.
L’architettura può così spiegarsi come una macchina produttrice di senso, inteso
come senso individuale, sollecitato in modi differenti secondo il proprio
vocabolario semantico.
La mobilità dello sguardo, provocata dal continuo sovrapporsi di rimandi
ipertestuali, costituiti dal citazionismo industriale degli oggetti di Takamatsu,
provoca quella Steigerung des Nervenlebens di cui aveva parlato Georg Simmel
con riferimento alla Metropoli Moderna46.
L’osservazione di questo tipo di oggetti va nella direzione opposta rispetto
all’atrofizzazione intellettuale provocata da certo razionalismo spinto all’eccesso.
L’architettura di Takamatsu si impone come luogo, perché riconcilia le sensazioni
destate, in un unico flusso di coscienza, distogliendo l’impressione individuale
dalla propria tenacia osservativa, ed elevandola a natura spirituale. Il luogo ARK
o il luogo KIRIN PLAZA, appartengono di diritto alla Metropoli, in quanto evocativi
del ciclo di produzione:
Finché il valore della città è semplicemente sintesi di forma e funzione nella appercezione
originaria della sua totalità, la dimensione temporale rimane assente. […] Anche il tempo va
conciliato. Anche nel tempo deve esserci forma47.
Takamatsu va oltre questa appercezione: la forma del nostro tempo potrebbe
essere quella di questa architettura, così provocatoria da spingere al dibattito,
così evocativa da riportare alla mente le mille citazioni, filmiche e architettoniche,
presenti nella nostra coscienza.
46
47
Cfr. M. Cacciari, 1973, Metropolis, Officina, Roma, p. 10.
Ibid., p. 82.
41
1.3
“TRUMAN SHOW”: LÉON KRIER.
L'UTOPIA DELL'ETERNO PRESENTE
Broadacre è la nostra città libera per la Sovranità
dell’Individuo! Quando la democrazia edifica, questa è
la naturale città della libertà nello spazio, del riflesso
umano.
Frank Ll. Wright [1958]
Quando nel 1998 Andrew Niccol firma la sceneggiatura di The Truman Show,
l'autore di Gattaca mette nuovamente in piedi una struttura basata sull’effetto
della nostalgia, come fu nel 1982 per Blade Runner. Partendo dallo stesso spunto
[la città immaginata come reale] The Truman Show opera in maniera diversa sul
terreno della fantascienza. Se Blade Runner voleva essere una sintesi tra lo stile
architettonico del 2020 e lo stile narrativo del 1940, fondando quindi la propria
tesi sugli archetipi narrativi del noir, The Truman Show mostra «uno scenario del
futuro basato su una sorta di conto alla rovescia»48. La visione apocalittica di
Ridley Scott ha lasciato il posto ad un piccolo mondo antico tanto puro, quanto
inquietante. L’inquietudine deriva soprattutto dal fatto che la città dove vive il
protagonista Truman Burbank, Seahaven, esiste veramente: si tratta di una
località turistica situata in Florida.
Costruita negli anni Ottanta, SEASIDE, questo il suo vero nome, è un’unica
architettura congelata nel tempo, una sfida aperta al concetto fortemente
americano di individualismo. Dall’unicità dell’opera di Wright [un progetto per un
solo utente], si giunge qui al pluralismo [non] intellettuale, all’architettura diffusa
[perché democratica] e condivisa [tanti progettisti per altrettanti utenti]. Il
Sogno Americano è dunque realizzato: siamo dalle parti del politicamente
48
D. M. Steiner, 1999, “The Truman Show”, Domus 816, p. 8.
42
corretto in versione immobiliare, «una terra promessa per i ceti medi urbani di
tutto il mondo»49.
La forza del film risiede proprio nel fatto che la finzione, in questo caso
fantascientifica, opera su di un substrato reale, che amplifica il dramma della
solitudine di Truman Burbank. Il protagonista, uomo più moderno di Rick
Deckard, è un integrato: si trova perfettamente a suo agio in quello che lui
considera un habitat naturale, ed assume quell’atteggiamento di buona creanza
così frequente nei film ambientati nei sobborghi. Rick Dekard è invece in una
situazione di distopia: completamente slacciato da una città che lo rifiuta, si
considera incapace, forse perché deluso, di stringere dei rapporti interpersonali
con chiunque, tipico rigurgito della vita nella grande ed inospitale metropoli. Che
la vita vera [perché più accessibile dal punto di vista personale, ma non per
questo meno terrificante], risieda a Seaside/Seahaven piuttosto che nella Los
Angeles del 2019, è un dato di fatto.
Al drammatico conflitto tra inferno fantascientifico ed inferno realizzato,
sembra rispondere il lavoro di Léon Krier, architetto lussemburghese, il cui lavoro
è caratterizzato dalla stessa immobilità atemporale di The Truman Show. Se la
sua prima realizzazione tridimensionale è costituita da una delle facciate della VIA
NOVISSIMA50, la sua prima costruzione effettiva è un’abitazione realizzata per sé
proprio a Seaside. Il regolamento edilizio della cittadina prescriveva il linguaggio
classico come fattore unificante e prendeva spunto
dal pensiero di Krier. Il suo classicismo non ha mai
avuto nulla a che vedere con la retorica della École
des
Beaux-Arts.
Fuori
del
raggio
d’azione
dell’eclettismo, Krier ha dunque realizzato un accomodamento tra «antichità e
Rinascimento, […] filtrato da una parte da uno spirito di razionalità e di
49
50
Ibid., p. 9.
Cfr. P. Portoghesi, V. Scully, C. Norberg-Schulz, C. Jenks, 1980, op. cit.
43
semplicità, e dall’altra dal rispetto per le tradizioni locali e l‘interesse per il
vernacolo»51. Ovviamente
nessuno all’inizio degli anni Ottanta avrebbe mai
previsto un tale revival dell’urbanesimo di fine Ottocento. Aiutato dalla passione
del principe di Galles per l’architettura, il movimento New Urbanism ha preso
lentamente piede ottenendo una piena legittimazione. Le città giardino hanno
cominciato a fiorire in Inghilterra, Stati Uniti, India, Giappone. Negli Stati Uniti, in
particolare, si è sviluppato attraverso il connubio con la crescente preoccupazione
da parte dei cittadini per la propria incolumità. Il principio originario, la vivibilità
sostenibile, si è così modificato escludendo a priori dai regolamenti cittadini tutto
ciò che non fosse conforme alla Regola dell’Ordine.
Celebration, Modesto, Liberty Harbor, Seaside, e molte città della Florida e
della California sono state costruite secondo i dettami della rigidità dell’accesso.
Ogni pretendente alla cittadinanza deve superare dei rigidi esami da parte della
comunità,
e
osservare
le
regole
contenute
nel
contratto
di
acquisto
dell’abitazione. Come un mondo a parte, all’interno di queste cittadine vigono
regole inusitate per qualunque altra città. Il più delle volte non possono essere
apportate modifiche all’aspetto esterno della propria abitazione, previo consenso
della comunità, per non turbare l’ordine formale dell’intero quartiere52. Il sogno
usoniano
di
Wright
sembra
quindi
completarsi:
i
principi
fondativi
di
luoghi/nonluoghi come Celebration sono basati esclusivamente e rigidamente su
sei stili architettonici di base.
La
nuova
tendenza
è
dunque
quella
del
«progetto
sempre
uguale»?
L’affermazione è di Bruno Minardi, architetto italiano legato ai volumi classici.
Minardi così descrive il suo fare architettura:
il progetto sempre uguale e sempre diverso, assume nella inclinazione di un tetto, nella
dimensione di una finestra, nei materiali della costruzione, una propria indissolubile
localizzazione che non si esprime con il capriccio o l’artificio dell’uomo, ma attraverso le
51
52
P. Portoghesi, 1998, op. cit., p. 660.
Una dissacrante visione di quest tipologia di vita è stata recentemente portata sugli schermi con La donna
perfetta.
44
grandi regole della natura53.
Quest’ipotesi
di
lavoro
sull’artificio/natura,
descrive
la
tendenza
al
neoconservatorismo, ad un recupero degli archetipi classici. Il riciclaggio degli
stili è sostenibile attraverso due percorsi differenti: decontestualizzando in forma
ironica l’elemento classico, come nell’opera di Robert Venturi, oppure ripreso
rigidamente
per
un’immersione
totalizzante
nell’antichità,
come
nel
caso
dell’architetto greco Demetri Porphyrios54. L’uguaglianza di questi luoghi è
favorita dalla volontà precisa di esporne pubblicamente le facciate. La casa
privata assume così valore di vita pubblica, pubblicizzata e controllata dai propri
vicini. Scrive Denise Scott Brown:
se gran parte degli edifici privati hanno una facciata pubblica, qual è la natura dell’interesse
pubblico nei confronti di quesa facciata? Gli edifici privati dovrebbero essere edifici sfondo al
settore pubblico? […] il settore pubblico è interessato agli edifici privati nella misura in cui
questi coinvolgono il pubblico interesse e si rapportano all’ambito pubblico [1990 p. 30].
L’apertura verso l’esterno , la piazza, del privato se da un lato rafforza la
coesione ed i rapporti interpersonali, perduti nell’anonimato della metropoli,
dall’altro incide irrimediabilmente sulle dinamiche familiari, esposte come in
vetrina. L’agorà diventa luogo per l’occhio panottico del cittadino, strumento di
controllo sociale e coercizione dei propri gesti. Le abitudini devono farsi uguali: la
tendenza alla democratizzazione influenza quindi non tanto la forma, quanto la
funzione stessa dell’essere. Il corpo nostalgico di Truman, vestito come negli anni
Cinquanta, rappresenta l’uomo dei reality show e delle fortezze impenetrabili di
città come Los Angeles. Represso in uno spazio caramelloso ed edulcorato da
ogni possibile violenza, Truman vive il suo Eterno Presente senza domande,
finché non entra in gioco un elemento di disturbo. Il New Urbanism di Krier e dei
teorici non contempla evasioni dalla prigione o deviazioni da quella sostanza che
è la Forma anzitutto: «non esiste un’architettura rivoluzionaria o reazionaria.
Esiste solo un’architettura o la sua assenza, cioè la sua astrazione».
53
54
Ibid., p. 669.
Autore, tra l’altro, di un piccolo padiglione nel quartiere ultramoderno di Battery Park [New York], dalla
struttura di un tempio greco.
45
2
La Letteratura e il Tempo
46
2.1
“LE CITTÀ INVISIBILI”: ALDO ROSSI
LA SOSPENSIONE DEL TEMPO E DELLO SPAZIO
Nel 1980 si inaugura la prima Biennale di Architettura a Venezia. Il tema è LA VIA
NOVISSIMA, percorso attraverso lo sguardo degli architetti su un’ipotetica strada
cittadina. Quella mostra segnerà l’epoca dell’architettura disegnata, periodo nel
quale la Forma immaginaria della città prenderà il sopravvento sul costruito
effettivo. Partendo dallo spunto di Anastasia, descritta da Calvino ne Le Città
Invisibili, si può tentare di comprendere meglio il significato che ha avuto
l’architettura effimera nella nostra cultura:
mentre la descrizione di Anastasia non fa che risvegliare i desideri uno per volta per
obbligarti a soffocarli, a chi si trova un mattino in mezzo ad Anastasia i desideri si risvegliano
tutti insieme e ti circondano. La città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va
perduto e di cui tu fai parte, e poiché essa gode tutto quello che tu non godi, a te non resta
che abitare questo desiderio ed esserne contento [1972, p. 12]
Il desiderio entra prepotentemente nell’immaginario dell’architettura, un
desiderio nostalgico, come nel caso successivo ma ben più gelido del New
Urbanism. Calvino descrive Anastasia, solo una delle tante forme della sua idea
di città, come «ingannatrice», e Aldo Rossi ha a lungo giocato con l’inganno della
memoria nello spettatore.
47
Il TEATRO DEL MONDO costruito in occasione della Biennale era una struttura
effimera perché nata e morta solo per quel momento storico. Rappresentazione
del suo modo di fare architettura negli ultimi anni di lavoro, il teatro voleva
mettere in scena un sogno leggero e spensierato. Un mondo intero, racchiuso in
un ottagono, ancorato alla realtà terrena tramite delle funi: «l’uomo si incontra
ad Anastasia, città bagnata da canali concentrici e sorvolata da aquiloni»55.
L’immaterialità dell’effimero diviene plasma nelle mani di un autore conosciuto
precedentemente per la pesantezza del costruire [come nel caso del quartiere
gallaratese]. La questione oggettiva del movimento moderno stava per essere
messa da parte in favore di una nuova soggettività, di un percorso più personale
nel proprio pensiero. La lievità di questo ragionamento può esere rintracciata in
uno degli scritti di Antonio Sant’Elia che sosteneva: «che ciascuna generazione
possa costruire la città secondo le proprie necessità».
Il bisogno di un progetto più personale e vicino al cittadino, è forse il
sentimento che ha guidato Rossi verso delle strutture più capaci di comprendere
l’anima di chi le abitava. Ma anche nel TEATRO si nota la questione del
razionalismo. Forma classica e priva di funzione [e quindi
antirazionalista], rivela una evidente chiusura verso il
mondo esterno. Come nel caso di Ghery e delle strutture
decostruttiviste, in questi edifici si realizza il Sogno del
Prigioniero. Quello di un uomo costretto dalla gabbia di una
città che lo respinge e di cubi vuoti di sentimento che lo
respingono. Il Teatro di Rossi è come la summa delle tante
città di Calvino, una architettura femmina perché attraente al primo istinto e
respingente come un’onda anomala. I luoghi calviniani della Memoria del
passato, del Desiderio si completano nelle città dei Morti. Tuguri senza sbocco,
55
Ivi.
48
privi di luce e speranza, sono quegli artifici in cui il cittadino moderno si è trovato
più volte senza alternativa. Una moltitudine di strade senza sbocco, che
conducevano unicamente ad un’idea razionalista di Ordine. La lievità del Teatro
non ne esemplifica la formalità. Il razionalismo spinto all’eccesso di Rossi è come
Marozia, la citta che «quando meno te l’aspetti vedi aprirsi uno spriraglio e
apparire una città diversa, che dopo un istante è già sparita»56. Un guscio vuoto
la cui facciata è costituita dal Desiderio, dall’aspirazione alla Libertà che animava
gli spiriti del Movimento Moderno, ma che al momento stesso precludeva ogni
possibile deviazione dal percorso originario. Un’eterna illusione fattasi scena.
56
Ibid. p. 155.
49
2.2 “L'ALEPH”: FRANK O. GEHRY
INVOLUZIONE ED ENTROPIA NEGLI SPAZI DELLA CULTURA
Quando J. L. Borges descrisse ne L’immortale [1947] il palazzo del protagonista,
un luogo impossibile come una figura di Escher, non poteva immaginare che la
costruzione formale di quel racconto sarebbe stata realizzata in forma di titanio
più di 50 anni dopo. Così descrive l’autore argentino la Città degli Immortali:
Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura ricca di
simmetrie è subordinata a tal fine. Nel palazzo che imperfettamente esplorai l’architettura
mancava d’ogni fine. Abbondavano il corridoio senza sboco, l’alta finestra irraggiungibile, la
fastosa porta che s’apriva su una cella o su un pozzo, le incredibili scale rovesciate, coi
gradini e la balaustra all’ingiù [1949, p. 17].
La ricchezza letteraria di Borges si dipana lungo questo racconto attraverso la
metafora del labirinto e del palazzo, come espressioni del tempo che [non]
passa. Un’involuzione della curva temporale che attraversa la vita/non vita di
Omero, l’immortale del titolo. L’ordine costituito della letteratura contemporanea
è per Borges un puro strumento di esplorazione del suo scheletro e di
rivoluzionamento attraverso il linguaggio. Partire quindi da una funzione statica
per rielaborarla attraverso più Forme.
Nel 1997 viene completato il GUGGENHEIM MUSEUM a Bilbao, dopo circa dieci
anni di progettazione. Osannato, criticato, ha comunque raggiunto il suo scopo
facendo parlare di sé, del suo autore e riportando alla ribalta il discorso sul futuro
e la funzione dell’architettura.
50
Il GHERY MUSEUM, è più giusto chiamarlo così, riassume in un unico concetto di
metallo fuso venti anni di lavoro dell’architetto americano intorno alla struttura e
alla funzione dell’architettura contemporanea. Frank O. Ghery, californiano di
nascita, inizia a farsi conoscere esattamente come Robert Venturi, tramite la
progettazione della propria casa, primo esempio del decostruzionismo. La
tendenza alla destrutturazione formale della metropoli è visibile fin da questo
progeto,
espanso,
in
continuo
rivoluzionamento.
Una
forma
instabile
continuamente soggetta a cambiamenti e aggiunte, come stralci di un romanzo
mai completato. Ghery lavora per accumulo di informazioni, da un certo punto di
vista, come Borges. Limando continuamente, sino a rasentare il perfezionismo il
proprio costruito, seguendo il filo del labirinto. Entrare in un suo edificio vuol dire
non sapere cosa trovare dietro una voluta o una curva. I volumi sono pesanti e
allo stesso tempo lievi, come leggendo tra le righe dello scrittore argentino e
riuscire a trovare nelle sue infinite citazioni un discorso ormai perduto. Il tema è
quello dell’Entropia. Di uno spazio talmente espanso da potersi ridurre in
pulviscolo nel palmo di una mano. Le volute del GUGGENHEIM attirano il visitatore
facendogli perdere il senso originario del suo vedere.
Il museo diventa luogo di esposizione del sé, in cui non si va tanto ad
ammirare una collezione di opere d’arte, ma è la stessa sovrastruttura a farsi
capolavoro. Facendo rientrare anche in questo caso il desiderio e le forme che
l’immaginario possono ricreare, si può affermare che le spire avvolgenti del
GUGGENHEIM possono essere paragonate alle biblioteche infinite di Borges. Quei
luoghi privi di dimensioni [o le cui misure sono totalmente fuori scala] che
costringono lo sguardo verso l’alto e verso la propria struttura più che su ciò che
si sta effettivamente cercando. Il museo diventa un nuovo luogo di culto per farsi
avvolgere appieno dallo spirito dell’Arte, in tutti i sensi. La tendenza ad escludere
l’esterno è simile a quanto già visto per l’architettura razionalista di Rossi. La
51
maggior parte dei lavori di Gehry sono caratterizzati da un «look da stato
d’assedio»57, come lo ha definito Mike Davis, intendendo far notare quanto
queste fortificazioni fossero in contrasto con il loro dovere di essere edifici per un
pubblico più vasto possibile.
Le sue costruzioni a Los Angeles ne sono un
classico esempio. Metropoli in perenne conflitto
con il proprio subsrato sociale e l’inarrestabile
espansione urbana, Los Angeles vive del rituale
della rappresentazione del consumo, attraverso
gli shopping mall ed i quartieri simulanti la realtà
come Citywalk, agorà pulite e fortificate, dalle quali sono esclusi gli inhumaines.
Fuori dal pulito e l’ordine c’è il caos, sembrano dire i nuovi grattacieli costruiti
durante il riassestamento del Downtown losangeleno. Un caos denso di conflitti
sociali e determinanto unicamente dal possesso e dalla capacità di consumo.
All’interno di questa logica, gli spazi museali e le biblioteche, luoghi di
arricchimento personale e non solo materiale, procedono nella stessa strada. Le
dolci curve dei musei di Gehry possono quindi trasformarsi in guglie acuminate
per chi non ha la conoscenza adatta a superarle. Nuvole non suadenti come
quelle di Fuksas, ma bocche pronte ad ingerire il passante incauto, come un
Minotauro borgesiano, affamato di visione.
57
M. Davis, 1990, La città di quarzo. Indagine sul futuro di Los Angeles, Manifestolibri, Roma 1993, p. 121.
52
2.3 “L'ISOLA DI CEMENTO”: RICHARD ROGERS
L'ARCHITETTO E LA FARFALLA: LEGGEREZZA PER UNO SVILUPPO
[IN]SOSTENIBILE
In L’isola di cemento [1974], romanzo di James G. Ballard, il protagonista si
trova dopo una curva sbagliata su una tangenziale ad affrontare un incubo che
ne
mina
l’identità
di
cittadino
e
di
uomo.
Scaraventato
sotto
i
piloni
dell’autostrada dopo un incidente e impossibilitato dall’uscire da quella che lui
definirà appunto isola, Maitland, un architetto di successo, deve azzerare le
proprie conoscenze sulle strutture che ha intorno e adattarsi ad una vita da
Crusoe in mezzo al cemento.
Maitland perde la cittadinanza di Londra, luogo invisibile nel romanzo se non
per le luci che riverberano la notte, perché nel momento in cui scompare,
ingoiato dalla scarpata, termina di esistere. Nessuno si accorge di lui, gli
automobilisti lo evitano, considerandolo un barbone o un pazzo. L’architetto, allo
stesso modo, pur essendo un uomo controllato, perde il proprio status di
umanità, riducendosi a belva. La sua incapacità di adattamento a dei luoghi che
dovrebbe comunque conoscere e capirne la sostanza di cemento che lo circonda,
rende il personaggio di Ballard una vittima della modernizzazione della città e
53
dell’anonimato che permea le architetture autostradali.
Schermandosi dal sole, Maitland vide che si era arrestato in una piccola isola spartitraffico
triangolare, lunga meno di duecento metri, che si stendeva in una zona incolta fra tre
autostrade convergenti. […] La vista delle sei corsie di traffico era preclusa da schermi
paraspruzzi di metalo ondulato, installati per proteggere i veicoli sotto [1974, p. 12].
Il mondo da patinato e lineare, come la sua Jaguar distrutta, si fa pieno di
segni incomprensibili e brutale, come l’architettura inglese degli anni Cinquanta e
Sessanta, denominata proprio brutalista, dalla
pesantezza plastica del cemento armato. A
questa rigidità e grevità di segni si sono opposte
le
utopistiche
megastrutture
del
gruppo
Archigram.
Questo
gruppo
di
architetti,
operanti
in
Inghilterra a partire dagli anni Sessanta, sono da sempre considerati come
l’ultima avanguardia di fine secolo. Ispirato da una fede smisurata nel progresso
tecnologico, e nell’illimitatezza delle risorse disponibili, il gruppo Archigram ha
concepito una visione di città costruita come monolito, abitate da centinaia di
migliaia di persone58. Da sempre fautori di un’architettura in continuo movimento
e mutazione, il gruppo ha avuto una grossa influenza sulla tendenza High Tech,
che a partire dal 1977, si è affermata come nuova corrente di pensiero. Il merito
dell’Archigram è di aver saputo dare leggerezza nel tocco ad un’utopia fondata
sulla cultura pop e sull’ibridazione tra massa, cultura e architettura. I passi
successivi ai sogni di Cook e del suo gruppo hanno denotato l’affaticamento di
questa visione, e la perdita dell’utopistico volo di farfalla.
Il 1977 è l’anno dell’inaugurazione del CENTRE GEORGES POMPIDOU a Parigi,
progettato da Renzo Piano e Richard Rogers, ed è l’anno spartiacque tra la
concezione razionalista ed il nuovo concetto ingegneristico del fare architettura59.
58
59
Cfr. Archigram, 1973, op. cit.
«Non sono preparato a considerare architetti gente come Renzo Piano o Nouvel o altri ingegneri del genere»:
dichiarazione di Ettore Sottsass in F. Irace, 1998, “2000 & fine secolo. Risposte di grandi architetti.”, Abitare
379, p. 59.
54
La tendenza High Tech mette in risalto non solo la struttura dell’edificio, ma
anche tutte quelle infrastrutture che fin ad ora erano tenute nascoste dal
cemento armato. Questa nuova estetica della tecnologia ha preso poi due
direzioni diverse. Da un lato la realizzazione di forme appartenenti al mondo
naturale, tramite l’utilizzo della tecnologia, strada intrapresa da Renzo Piano;
dall’altro
il
revisionismo
macchinistico
dell’ingegneria industriale dell’Ottocento, come nel
lavoro di Richard Rogers, Jean Nouvel, Norman
Foster.
Nello stupefacente LLOYD’S BUILDING [1978-86],
Richard Rogers ha dato una nuova forma al concetto di architettura flessibile: il
suo sembrare un work in progress ne ha fatto non solo un edificio destabilizzante
dal punto di vista visivo, ma anche una vera macchina per lavorare, dal punto di
vista strutturale. Come nell’architettura High Tech, Blade Runner, il film più
simile ai libri di Ballard e alle architetture di Rogers, mostra non l’indispensabile,
ma il complementare: è necessario, nel film, integrare la visione con la
rievocazione del passato. L’officina meccanica del LLOYD’S BUILDING si colloca a
metà tra corpo e macchina senziente. Levare lo sguardo verso il verticalismo
spinto all’eccesso delle architetture di Rogers è come il tentativo di scalata
impossibile di Maitland. L’essere farfalla vuol forse dire che con il LLOYD’S, corpo
di metallo e cemento, si è in parte realizzato quello sfioramento dell’utopia del
gruppo Archigram. Sfiorare, esattamente come un librarsi in volo verso l’alto,
arrampicandosi sulle strutture nude e a vista, come avrebbe fatto Maitland.
55
3
Il Fumetto e lo Spazio
56
3.1 “APPLESEED”: EURALILLE [R. KOOLHAAS, J. NOUVEL, C. DE PORTZAMPARC, K.
SHINOARA, C. VASCONI]
ARCHITETTURA E COMUNICAZIONE TOTALE PER UN PROGETTO DI “CITTÀ
FUTURA”
Nel 1985 Masamune Shirow pubblica i primi due volumi di Appleseed, un manga
fantascientifico destinato a rivoluzionare il concetto di sci-fi. La serie, incentrata
su una coppia di cyborg, si svolge in un ipotetico futuro post-apocalittico, in una
metropoli di nuova generazione, Olympia, costruita completamente ex-novo.
Olympia è caratterizzata dalla monumentalità mostruosa di alcune strutture,
destinate ad accogliere migliaia di abitanti, secondo un progetto di grandiosità,
insita nei suoi progettisti. La bigness architecture, termine coniato da Rem
Koolhaas, è il termine di paragone più vicino ai mostri urbani di Appleseed, edifici
non più solo grandi, ma significativi nella loro espansione gigantica.
Lo sprawl urbano è il concetto intorno al quale e’ nato il nuovo centro
urbanistico di Euralille. Concepito nel master plan da Rem Koolhaas e realizzato
alla fine degli anni Novanta, Euralille nasce principalmente come snodo per il TGV
e come collegamento, vista la posizione geografica, tra la Francia e il Belgio.
L’innesto di nuovi edifici, come il terminal del TGV e tutto lo spazio dedicato agli
uffici progettato da un team guidato dallo stesso Koolhaas, toglie la definizione
57
dei confini alla antica Lille, città storica, e la riconfigura come diffusione ed
estensione.
Un terrain vague che si potrebbe rinominare
secondo l’accezione di Calvino, città continua,
bisognosa
comunque
di
un
centro
forte,
facilmente riconoscibile. Dato, appunto dalla
torre di Portzamparc del CREDIT LYONNAIS. Secondo le stesse parole di Koolhaas,
Euralille eludes traditional analysis […] this is why it is generating confusion, conflict and
contradiction”. […] the discovery of a newtype of urbanism which opposes the concept of the
city as an ordered series of objects; we should be promoting forms which are rarely
expressed and which havo no architectural relation whatsoever with one another [Espace
Croisé, 1996, p. 9].
È chiaro l’intento messianico di Koolhaas, il cui aim è certamente quello di
creare forme nuove non riconoscibili nell’urbanistica tradizionale. Ma la difficoltà
nel cittadino è proprio nel riconoscere la stabilità di questi luoghi. Euralille è una
città costruita secondo la logica della velocità, data dal treno e dall’automobile,
una dispersione di senso civico che ritrova il proprio centro negli elementi forti
del centro direzionale.
Così simile a questo concetto è stato recentemente assegnato al gruppo
Citylife, con progetto di Libeskind-Hadid-Isozaki-Maggiora, la gara per il nuovo
POLO FIERA DI MILANO. La possibilità di erigere un
corpo uniforme che non devastasse la già difforme
area lombarda, è stata eliminata a favore della nuova
cultura dell’imposizione di un luogo. Secondo questa
nuova forma di progetto, il creare forme così evidenti
da risultare volgari, è l’unico sistema per rendere il terrain vague visibile, infinito
in quanto indimenticabile. Nel 1917 Tony Garnier progettava un ideale di Città
Industriale fondata sull’equilibrio tra il razionalismo della macchina e il
sentimento della natura. Un luogo in cui il transito tra vecchio e nuovo poteva
definirsi attraverso un passaggio dolce tra vernacolo e modernismo:
58
créer une cité de type nouveau, qui apporte le bien-être, l’hygiène, les avantages des
services publics et même la verdure, au profit d’une société industrielle, la société socialisée
de l’ère industrielle [1917, p. 40].
La funzionalità di questi luoghi è invece quella non di elemento stanziale e
sicuro,
ma
di
passaggio
attraverso
una
città
ed
un’altra,
determinato
dall’estremismo visivo di alcune sculture. Gli elementi costitutivi di queste città
devono, in virtù della velocità dell’automobile o del treno, imprimersi nella
memoria come opere d’arte, e quindi stupire, meravigliare.
La caratterizzazione di metropoli continue come Los Angeles e Las Vegas,
diffuse attraverso infiniti quartieri residenziali, si sta diffondendo anche in
Europa, attraverso un gusto irrazionale per la discontinuità. Entrando ad Olympia
o Euralille si interrompe il flusso della campagna e della piccola urbanizzazione.
Significa trovarsi in un contenitore vuoto di signficati culturali e umani, ma denso
di contenuti validi per chi ha la capacità di comprenderne la complessità.
59
3.2
“BLAME!”: GIOVANNI BATTISTA PIRANESI
LA PRIGIONE COME METAFORA DEL CORPO E DELLA STRUTTURA
La rovina ha contribuito alla nascita del paesaggio come genere
pittorico poiché ha contribuito a inquadrare la natura e a creare un
gusto alla moda
Franco Speroni [2002]
La
scena
tragica,
palcoscenico
nato
nel
furore
estetico
del
barocco,
e
organizzatosi semanticamente nel settecento, rappresentò per Giovanni Battista
Piranesi un punto di partenza da cui sviluppare i suoi caprices. Architetture
fantastiche che si dispiegarono secondo una logica unica nel suo genere, capace
di passare dal concetto di immaginazione a quello di immaginario. Secondo
Abruzzese l’immaginario è legato in modo imprescindibile a quello di costruzione
di senso della metropoli60, e le carceri piranesiane possono essere lette seguendo
un percorso nel corpo sotterraneo della città.
Le Carceri [1749] non esistono se non
nella loro rappresentazione, rovina tragica ed
eccessiva di un’idea di città dissolta. La
scarnificazione degli antri umidi, residui di
un’epoca non appartenente a questa realtà,
diventano corpi deprivati di luce, vita e
colore. Il gusto ecessivo di Piranesi per la costruzione formale e il dettaglio del
costruito ha influenzato più di una visione successiva.
60
A. Abruzzese, 1973, Forme estetiche e società di massa, Marsilio, Venezia.
60
Nel nero e [poco] bianco di un futuro fantascientifico, Tsutomu Nihei sceglie di
ambientare il suo fumetto Blame! [1998-2004] tra false prospettive e scale senza
approdo. L’influenza delle Carceri nel disegno dell’autore giapponese è notevole e
richiama altri significati, nascosti nei disegni originari. Se in Piranesi i corpi dei
carcerati erano minuscoli e senza forma tra gigantesche macchine di pietra, in
Nihei diventano scheletri impazziti, circondati da un buio che ingoia. Sangue,
lacerazioni, umori corporali sono gli unici segnali di vita della piccola gente che
affolla questo fumetto, in una storia il cui senso è legato unicamente al
passaggio, come in un videogame, al livello superiore e più complesso.
Parafrasando
Robert
Venturi
e
le
sue complessità
e
contraddizioni
in
architettura61, il nodo di Blame! non si scioglie fino all’ultimo, costringendo il
lettore ad una dinamica visiva sempre più indecifrabile. Le normali linee di lettura
seguono il filo della china di Nihei, un groviglio inestrcabile di tubi, lacci,
prospettive cieche.
La densità di segno di Piranesi era finalizzata alla [non] visione di una città
infinita. Come scrive Rullani «in essa il massimo dell’entropia possibile ha
distrutto le vecchie forme, ma ha creato spazio per i flussi, per i movimenti, per il
distacco che rende mobili»62. Questa visione di un passato che non esiste ma che
è comunque nostalgia, dispega i propri rami secchi nella città panico descritta da
Virilio. Il filosofo parla di carcerazione del progresso63, riferendosi alla gabbia
della globalizzazione. Una simile visione può essere associata ai corpi decostruiti
e postumani del manga, figure esili e scarne come una scultura di Giacometti,
avvolte da un Carcere infinito chiamato Mondo. Quando la sensibilità si fa
perturbante irrompe sulla scena di questo teatro disegnato la geografia del corpo
61
62
63
R. Venturi, 1966, Complessità e contraddizione in architettura, Dedalo, Bari 1980.
E. Rullani, 2004, “La città infinita: spazio e trama della modernità riflessiva”, in A. Abruzzese, A. Bonomi
[ed.], La città infinita, Bruno Mondadori, Milano, p. 71.
P. Virilio, 2004, Città panico, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, p. 61.
61
di Perniola64.
Anti-mimetici per eccellenza, i corpi di Blame! si configurano come svuotati di
umanità, carni putride ed esibite la cui funzione si esplica solo attraverso una
violenza fuori controllo. La pretesa di Nihei, come di Piranesi, non è quella di
imitare la realtà, ma di sviluppare un discorso sull’organcità dei luoghi. Le Carceri
e la Città di Blame! sono vive del sangue dei morti e del respiro dei muri umidi. Il
concetto di transito65 di Perniola è in questo caso il passaggio dal corporeo al
fuori da sé, dal naturale al triviale, ai limiti dell’eccesso. Il sovraccarico visivo è
ancora denso della cultura barocca, che concentrava lo sguardo su un punto di
fuga. Le prospettive dall’alto [Blame!] e dal basso [Carceri], tendono ad
ingigantire le architetture schiacciando i corpi, mortificandoli. Le volte, gli archi
ed i ponti sono veri e propri passages benjaminiani tra la vita della città e la
morte degli inumani, dei tramiti per l’espansione virale ed ipertrofica della
Metropoli.
Una città che somiglia sempre più ad una prigione pregna delle sofferenze dei
propri cittadini/carcerati.
In pochi decenni il corpo suppliziato, squartato, amputato, simbolicamente marchiato sul viso
o sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo, è scomparso. È scomparso il corpo
come bersaglio della repressione penale [Foucault, 1975, p. 4].
E dallo spettacolo della morte descritto da Foucault si è avuto il transito verso
l’esibizione della mortalità nel costruito, intendo con questo termine identificare
una tipologia architettonica repressiva dell’iniziale spirito di bellezza e gusto.
I mostri piranesiani furono ripresi ad esempio in Italia da Armando Brasini, con
progetti e costruzioni che non si riappellavano ad una sognante megalomania ma
ad una concezione malata dell’esplosione della metropoli. Brasini disegnò mostri
soverchianti ogni possibile figura umana, quasi sculture fuori scala rispetto allo
spettatore. Nel progetto del 1956 per il PONTE SULLO STRETTO, il naturale
64
65
Cfr. M. Perniola, 1994, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino.
M. Perniola, 1998, Transiti. Filosofia e perversione, Castelvecchi, Roma.
62
passaggio dalla terra alla sospensione sull’acqua è stravolto da una pesante
struttura simile ad una torre, vera e propria rimembranza delle pietre
piranesiane.
Simili architetture, da Piranesi a Brasini, passando per i costruttivisti russi fino
ad arrivare alla città di Blame! sono accomunate dall’allargamento dei volumi,
invasivi ed invadenti, che divorano letteralmente gli spazi vuoti. Gli attori di
questa scena recitano su un palcoscenico in cui si ritrovano vittime delle strutture
carnefici, schiacciati dal gelo di una città che li respinge. Queste prigioni, vere e
proprie macchine desideranti66, secondo l’accezione di Deleuze e Guattarì, sono
pietre eterne concentrano su di sé lo sguardo, nutrendosi dello spirito di chi le
osserva e non può viverle se non subendole.
66
Cfr. G. Deleuze, F. Guattarì, 1971, Macchine desideranti. Su capitalismo e schizofrenia, Ombre Corte, Milano
2004.
63
3.3 “GHOST IN THE SHELL”: M. FUKSAS E TOYO ITO
NUOVI SIGNIFICATI NELLA METROPOLI MODERNA: VERTIGINE E
TRASPARENZA
Delle noti di luce che l’architettura di vetro ci
procurerà non possiamo tuttavia dire nient’altro se
non che esse saranno davvero «indescrivibili»
Paul Scheerbart [1914]
Paul Scheerbart pubblica nel 1914 Architettura di vetro, un saggio visionario
destinato a cambiare la visione dell’architettura moderna. Influenzato dalle teorie
di Bruno Taut e dalla sua Alpine Arkitektur67, Scheerbart si fa promotore di un
nuovo modo di intendere la modernità della metropoli. Il gusto per il ferro e il
vetro di luoghi come il padiglione inglese dell’Esposizione Universale di Londra,
che l’architetto-scrittore vede come simbolo di progresso, ne rivelano la grande
preveggenza in fatto di utilizzo di materiali.
Le descrizioni di queste architetture di luce sono state fonte di ispirazione ad
esempio, per il GRATTACIELO DI VETRO di Mies, progetto mai portato a termine, ma
divenuto nel frattempo uno standard per le costruzioni americane degli anni
Trenta. L’evoluzione tecnologica dei nuovi materiali diventa il fulcro delle teorie
miesiane, il ferro sostituito dal cemento, fino all’arrivo della deriva brutalista
degli anni Cinquanta. Nella sua forma più pura, il ferro può essere associato
all’età dell’ingranaggio industriale, abbinato al vetro che cominciava a comparire
per le strade, con le prime illuminazioni notturne per le vie di Parigi e di Londra.
67
B. Taut, 1917, op. cit.
64
Contrariamente all’ottica dadaista il valore e la funzione dell’architettura
convivono in uno scambio reciproco di ruoli e la forma assume le sembianze
ibride
della
virtualità.
Non
astrazione
pura,
architettura
disegnata
nelle
multiformi apparenze del C.A.D., ma immersione suggestiva nei meandri della
mente dell’architetto, libero di costruire volumi e volute senza le costrizioni delle
infrastrutture. Il vissuto della metropoli contemporanea americana si identifica in
questa simbiosi di forma e funzione: la cultura digitale entra a far parte della vita
di ogni giorno e l’evanescenza, l’incorporeità del bit è il punto di partenza per
questo nuovo modo di intendere un’architettura evocatrice di altre realtà anziché
pura astrazione formale.
La simulazione, termine ereditato dall’estetica postmoderna, diventa il nuovo
credo per tutta una schiera di giovani architetti: partendo dagli assunti
dell’architettura di vetro dei padri del Movimento Moderno, come Walter Gropius
e Mies Van Der Rohe, questi artisti del traslucido creano una nuova commistione
tra la struttura razionale del chip informatico ed una superficie vitrea,
trasparente ma allo stesso tempo priva di contorni pienamente definiti.
La simulazione ed il flusso [di byte] sono quindi caratteristiche appartenenti
alla scienza informatica, che architetti contemporanei come Toyo Ito, Rem
Koolhaas, Massimiliano Fuksas interpretano in modo differente, inserendoli nei
contesti più vari. Rem Koolhaas opera nel contesto olandese seguendo la strada
del riassemblaggio dei volumi secondo una precisa logica del caos: l’instabilità
apparente delle sue strutture nasce con l’intento di creare un movimento
continuo di corpi e di cose, come in un loop informatico si ha quel circolo infinito
di informazioni, creando complessità e non disgregazione. Una complessità solo
apparentemente superficiale: i vuoti interni a queste scatole trasparenti riescono
a creare una densità di significato ed un’interazione tra le parti ormai raramente
riscontrabile nella metropoli vissuta all’esterno. Il flusso di energia osservabile in
65
molti dei progetti di Ito è anch’esso di chiara derivazione informatica. Inserendo
delle variabili che influenzano l’apparenza dell’edificio a seconda dell’ora o del
tempo atmosferico, Ito sceglie la strada della trasparenza totale: le persone, gli
oggetti contenuti nei suoi progetti sono sempre osservabili dall’esterno, secondo
una precisa scelta di smaterializzazione della superficie. Ecco che quindi tanto i
musei quanto le abitazioni diventano dei nuovi piccoli mondi aggreganti che
permettono all’individuo di interagire con l’ambiente circostante.
Se la casa […], dev’essere soffice e flessibile e non rigida e densa, sarà, allora, concepita
come un vestito elettronico, indossando il quale le persone potranno abitare la natura
virtuale della metropoli diventando «come Tarzan nella foresta dei media». Affascinato dalla
natura, Ito considera l’elettronica come l’energia in grado di reintegrare l’uomo
nell’ambiente, nel fluire della vita [Prestinenza Puglisi 1998, p.23].
La percezione assume il valore di senso ottuso: la forma e l’essenza
dell’oggetto architettonico varia secondo il
momento nel quale viene recepito dallo
spettatore/attore. Così è anche per Fuksas
che nel suo progetto per il CENTRO CONGRESSI
ITALIA EUR metabolizza il sogno attraverso
nuvole
interne
a
teche
trasparenti:
la
compenetrazione
tra
ambiente
metropolitano ed edificio eccezionale si realizza grazie alla sua abilità nel saper
cogliere la rapida evoluzione dell’informazione.
L’involucro diviene così un vetro attraverso il quale osservare i mutamenti
interni del corpo centrale, che sia una nuvola sospesa nell’aria di un museo o
delle onde che solcano i soffitti di uno shopping mall, secondo gli insegnamenti
cari a Scheerbart. Il lavoro di questi architetti è quello di sottrarre gli elementi
base di un edificio [l’opacità della superficie esterna, le articolazioni interne alla
struttura] per favorire un completamento della visione da parte dell’astante.
Non comunque un’architettura-spettacolo, destinata allo stupore, ma un nuovo
modo di favorire l’integrazione ormai difficile di un edificio con la metropoli che lo
ospita. Sempre più spesso infatti si è assistito ad edificazioni perturbanti in
66
quanto provocatrici di uno scollamento tra la realtà quotidiana e l’eccezionalità
dell’evento. Proprio questa necessità di fuga dalla banalizzazione del reale ha
provocato negli anni precedenti l’epoca postmoderna una ricerca forzata nella
grandiosità, ovvero in quelle forme architettoniche definite nel contesto italiano
come megastrutture, eredi delle teorie funzionaliste di Le Corbusier spinte
all’estremo.
Con il già citato progetto per il CENTRO CONGRESSI ITALIA EUR, Fuksas si è posto
in una posizione decisamente alternativa alla concezione di spazio pubblico
chiuso. Raro esempio di architettura slegata dalle correnti artistiche, impensabile
in un territorio come quello romano, in cui si riesce raramente a trovare una via
di mezzo tra la conservazione ad ogni costo ed il facile sensazionalismo, il
parallelepipedo immaginato dall’architetto romano è scenografia pura, ma senza
la pretesa di violentare ideologicamente il fruitore dello spazio. Non rimane
quindi che adeguarsi, come ha fatto il cinema, all’idea di appartenere ad un
terrain vague, con i suoi vuoti disimpegni, e con la sua incertezza formale.
Un’indeterminatezza che sembra trovare nella memoria del passato, la sua unica
via di fuga: solo tramite il recupero si può alimentare il nuovo. Un recupero non
fine a se stesso [di impronta postmoderna], ma basato sul fascino del passato
più che sul suo aspetto formale, ed aperto alle nuove istanze tecnologiche, di
chiara derivazione informatica, della metropoli.
Fuksas pone di continuo l’accento sulla distinzione tra metropoli e megalopoli,
il cui punto principale è nella differenza nella crescita urbana e tecnologica. La
megalopoli contemporanea è più afflitta da problemi di nomadismo culturale di
quanto non lo sia una metropoli moderna, che trova comunque il suo nodo
nell’essere policentrica. Il concetto di urban sprawl, in questo caso viene
giustamente affidato alle distese di Los Angeles, così simili, quindi, come fasci di
luci intermittenti ai circuiti di un apparecchio elettronico. La sostanziale differenza
67
tra città elettronica e città elettrica è data dal tempo. Tempo moderno che
definisce l’appartenenza dell’elettricità ai primi del Novecento, confinandola ai
boulevard
parigini
illuminati e
Abruzzese del postumano,
Tempo
della
contemporaneità,
o
secondo
che definisce i labili confini della città elettronica e
informatica.
Il modello di visione più simile a quello descritto dalle parole di Fuksas e Ito
proviene dalla sci-fi spinta di Ghost in the Shell [1991], manga di Masamune
Shirow. Il fumetto rappresenta per vie affatto narrative la diffusione dello spirito
della protagonista in una megalopoli orientale dopo la morte del suo corpo
artificiale. Diffusione, proprio perché alimentata dalla corrente informatica e
destinata a defluire come liquido attraverso le reti. La protagonista Motoko è il
vero corpo nomade descritto da Pierre Lévy ne L’intelligenza collettiva: «Lo
spazio del nuovo nomadismo non è né il territorio geografico né quello delle
istituzioni e degli stati, ma uno spazio invisibile delle conoscenze, dei saperi,
delle potenzialità di pensiero in seno alle quali si dischiudono e mutano le qualità
d’essere, le maniere di fare la società»68. Il filosofo francese interpreta pur
sempre il nomadismo come legame tra corpo e natura, territorio [seppur solo
conoscitivo]. Motoko è invece trasparente per la società, così come traslucida è la
pelle della protagonista.
Il suo corpo cibernetico è la rappresentazione del caos sublime cui fa cenno
Fuksas nei suoi scritti, struttura anarchica perché priva di padroni, leggi,
referenti umani, e struttura trasparente deprivata delle sovrastrutture corporee.
Il suo corpo è lo scheletro ideale di Scheerbart, ferro e vetro sostituiti da acciaio
e fibre ottiche. La capacità di questi cyborg di adattarsi all’ambiente e alle
circostanze li rende simili alla mutevole TORRE DEI VENTI di Ito e alle nuvole create
da Fuksas in questi ultimi anni. Toyo Ito ha voluto, con il suo progetto dimostrare
68
P. Levy, 1994, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 1996, p. 18.
68
l’evanescenza e la immaterialità del contesto ambientale. Fuksas, partendo dal
planare
delle
nuvole
di
Utzon69
è
arrivato
a
plasmare
l’inconsistenza della metropoli in movimento.
Questi passaggi, tra realtà immaginate e immagini di realtà
impossibili sono state portate al cinema dalla trilogia di Matrix
[1999-2003].
La
verità
nascosta
del
Matrix
[viviamo
veramente, oppure è un’illusione creata per controllarci?] si
trova nella sua essenza: ha una consistenza nulla, sfuggente, come quando i
personaggi del film trovano l’uscita e si dissolvono. Più approfonditamente il film
può essere studiato lungo due differenti percorsi.
Da un lato, tramite una riflessione sulle direzioni del nuovo cinema di
fantascienza e su come stia progressivamente sparendo uno dei suoi topoi, la
Metropoli del Futuro, in favore di una più ampia e instabile architettura mentale.
Dall’altro analizzando le corrispondenze tra la sua struttura a scatole cinesi,
mettendolo in relazione con l’inesistenza urbana di Las Vegas, che presenta lo
stesso gioco citazionista.
Come
in
Alice
nel
paese
delle
meravigle70,
in
Matrix
si
seguono
le
peregrinazioni di una persona in un mondo fittizio, assurdo, nel quale le immagini
si riformulano continuamente secondo il percorso che si segue.
Il protagonista Neo, esattamente alla maniera di un videogioco, è guidato da
una voce [il giocatore] verso le uscite possibili, attraverso un sentiero di guerra
che sembra tratto dal videogioco Metal Gear Solid71. Nel mondo di Matrix, come
in quello di Ghost in the Shell, il “luogo” non esiste: è un’immagine mentale,
come la stanza d’allenamento di Morpheus e Neo, un “nessun posto” dove si
ritrova Neo all’inizio del suo viaggio [una stanza bianca]. La presenza di un
69
70
71
J. Utzon, 1962, Platforms and Plateau, Sidney.
Non a caso il film viene citato direttamente nel momento in cui si vuole attirare il protagonista nell’altra
dimensione/vita.
Oggetto videoludico di culto grazie ad un intreccio complesso (trama spionistica, storia che cambia secondo le
scelte effettuate, notevole approfondimento psicologico dei protagonisti) e ad un meccanismo di gioco, che
ribalta lo schema classico dei passaggi obbligati tra i vari livelli di gioco.
69
vecchio televisore indica che la realtà la costruiamo noi con il nostro sguardo, ma
non è detto che sia tutto vero: come in The Truman Show, siamo noi ora in
ostaggio dei nostri occhi. Il luogo dove viveva Truman Burbank aveva però
un’importanza fondamentale per il corretto svolgimento della storia, mentre nel
loro film, i fratelli Wachowski hanno scelto un’anonima metropoli in cerca di
caratterizzazione
come
Sydney72.
Nonostante
i
suoi
sforzi,
la
metropoli
australiana rimane un perfetto esempio di città incompiuta e banale e
sicuramente è stata preferita alla più familiare New York per rappresentare il
paradigma della città contemporanea.
L’interesse vero degli autori non risiede, infatti, nella rappresentazione della
metropoli del futuro, ma nelle architetture mentali che si dispiegano velocemente
durante il film. La stanza bianca, l’interfaccia di Matrix, è la vera location: un
posto che possa modificarsi seguendo le linee di pensiero delle persone che vi si
muovono. Una sorta di bolla che si adatta al flusso mentale, e che respinge i
corpi che ne colpiscono le pareti come una stanza imbottita.
Non è più importante in una dimensione simile lo spostamento lineare, da una
stanza ad un’altra, da un luogo ad un altro ancora: le strade servono unicamente
da nastri trasportatori che conducono verso una nuova uscita. I personaggi si
muovono dalla cabina telefonica alla nave come in un ipertesto, e se devono
spostarsi da un palazzo ad un altro preferiscono volare, quasi che il camminare
sia diventato la negazione del movimento. Una derivazione tipicamente da
videogioco, quindi, di cui si ritrova la struttura nel continuo entrare ed uscire, da
un livello ad un altro: la stanza dove inizialmente si rifugia Trinity, è la stessa
dalla quale dovrebbe uscire Neo alla fine del film.
72
Ovviamente l’OPERA HOUSE di Jørn Utzon, l’unico edificio che conferisca a Sydney il titolo di “luogo” non è mai
inquadrata.
70
Come in Metal Gear Solid la verticalizzazione dei livelli di gioco [facile/difficile,
inferiore/superiore] viene eliminata in favore della circolarità dei passaggi, così in
Matrix i passaggi di livello sono codificati da luoghi precisi, come le cabine
telefoniche. La singolarità di una simile scelta è da rintracciare nell’essenza
stessa del film: la comunicazione è alla base dell’intreccio, ma non si risolve nella
banalizzazione di The Net [1995], dove la vita della protagonista veniva
sconvolta dalla presenza invasiva/invadente della Rete che ne annullava
inverosimilmente l’identità. È la comunicazione cellulare che mette in luce la
necessità [a volte indesiderata] di essere sempre rintracciabili. Il lato oscuro è
dato proprio dall’onnipresenza ed onniscienza della rete telefonica, ancora più
che dalla Rete, che permette il passaggio tanto al paradiso, se si riesce a fuggire,
quanto all’inferno, se si è rintracciati.
La città digitale di Nicholas Negroponte diventa in questo caso soprattutto una
città avvolta dalle spire invisibili della rete cellulare, e si rivela digitale al
momento della Rivelazione per Neo: quando, in pratica, comincia a vedere la
struttura originaria del Matrix, una serilità cadente di numeri, invece della
copertura dell’interfaccia. Nel mettere in scena la digitalizzazione del mondo
contemporaneo, i fratelli Wachowski hanno trovato un sicuro punto di riferimento
nel film tratto dal manga Ghost in the Shell, l’unico ad aver messo in scena, in
maniera adulta e non ingenua, il problema della comunicazione interpersonale
avanzata: non più attraverso telefoni, computer e trasmettitori, ma tramite un
flusso continuato del pensiero. L’omaggio degli autori di Matrix è palese fin dai
titoli di testa, una cascata di numeri verde acido in una schermata di computer, e
continua nella [ri]nascita di Neo, ambientata nello stesso liquido amniotico del
Maggiore Kusanagi, la protagonista di Ghost in the Shell. La verità, sembrano
voler dire i registi, è fittizia, come l’ambiente che ci circonda, e solo le macchine
senzienti, come già in Ghost in the Shell, hanno il potere di ridurre la realtà ad
71
un’astratta banalizzazione.
L’idea che un cervello cibernetico possa autonomamente generare uno spirito
– ossia un’anima senziente – mette in discussione non solo la necessità, ma
addirittura l’esistenza del genere umano. L’uomo, nella prospettiva di Shirow,
diventa un accessorio che funge unicamente da veicolo; nella mente dei
Wachowski serve addirittura da cibo agli Esseri Superiori.
Il Maggiore Kusanagi, uno spirito dotato di memoria in un guscio di titanio,
avverte la necessità di espandersi, si sente prigioneria nei limiti del proprio
corpo. “E ora dove andrà questo essere appena nato? … La Rete è vasta e
infinita”, dice il Maggiore, non appena rinata sotto nuove e più libere spoglie,
svincolata da ogni legame terreno. La trasparenza del suo corpo diventa effettiva
nell’espansione nello sprawl urbano, e acquista significato proprio nella sua
diversità e mutabilità. Gli elementi progettati da Fuksas e Ito, in quanto corpi
mobili allo sguardo, sono quanto di più simile si possa trovare nel cinema e
fumetto di fantascienza.
72
POSTILLA
L’Immaginario di chi ha scritto questo lavoro è frutto non solo della visione di tanti film e
letture in solitario, ma anche del confronto dialettico con chi, in questi anni ha condiviso
con me la passione e lo studio. La passione per lo studio. Se quello che noi siamo è
anche - e soprattutto - una costruzione sociale definita dal nostro rapporto con l’esterno,
in un certo senso si potrebbe determinare una piccola civitas, costituita da menti tanto
diverse quanto affini. Evgenij Vládimirovic Irikovskij, Kabiria Kotero, Man-Ah-Tek,
Calogero Mascelloni, Ivano Merz,
Jorge Santiago du Rinassimiento, Klaus Maria
Shaubenburg e Axel fanno parte di una sezione di questa comunità poliedrica e
stimolante.
Zia rrose, la orsa, il cupo, lysandra, lo psikiatra, lefty e gloucester, insieme ad altre entità
virtuose e traslucide hanno bucato i miei sche[r]mi con le loro visioni iperreali, pulsanti e
vive. Desideranti.
I giovani del Gotham, gli Adini e soprattutto i Maestri - Sergio e Albert, Gino e Stefano –
per sempre nel mio cuore.
73
INDICE FIGURE
Pag. 9 - Tony Garnier, Cité industrielle, 1917
Pag. 10 - E. Kettelhut, Città vista dall’alto con Torre, Metropolis, 1927
Pag. 12 – Hans Poelzig, Grosses Shauspielhaus, 1919
Pag. 27 - Howard Roark [Gary Cooper] in La fonte meravigliosa, 1949
Pag. 29 – “Enright Building” in La fonte meravigliosa, 1949
Pag. 30 – Edward Carrere, bozzetto di residenza privata, La fonte meravigliosa, 1949
Pag. 32 - Ellsworth Toohey mostra i progetti di Peter Keating, La fonte meravigliosa,
1949
Pag. 35 – Anton Furst, bozzetto per Batman, 1989
Pag. 36 – Shin Takamatsu, The ARK, 1981
Pag. 42 - Seahaven, The Truman Show, 1998
Pag. 43 – Casa Krier, Seaside, Florida, 1987
Pag. 47 – Aldo Rossi, bozzetto per il Teatro del Mondo, 1980
Pag. 48 - Aldo Rossi, il Teatro del Mondo, 1980
Pag. 50 – Frank O. Ghery, Guggenheim Museum, 1997
Pag. 53 - Frank O. Ghery, Berlin Bank, 2001
Pag. 53 – Richard Roger, Lloyd’s Building, 1986
Pag. 54 – Peter Cook, Plug-in City, 1964
Pag. 55 – Rogers, Piano, Franchini, Centre George Pompidou, 1977
Pag. 57 – Masamune Shirow, Appleseed, 1985
Pag. 58 – Business Center, Euralille, 1994
Pag. 58 – Libeskind, Hadid, Isozaki, Maggiora, progetto per il Polo Fiera di Milano, 2005
Pag. 60 – Tsutomu Nihei, Blame!, 2004
Pag. 60 – Giovanni B. Piranesi, Le carceri, 1749
Pag. 64 – Msamune Shirow, Ghost in the Shell, 1991
Pag. 66 – Massimiliano Fuksas, progetto per il Centro Congressi Italia Eur, 1999
pag. 69 – Toyo Ito, Torre dei Venti, 1986
74
FILMOGRAFIA
1920 GENUINE
Regia: Robert Wiene
Fotografia: Willy Hameister
Scenografia: César Klein
1920 DER GOLEM [Il Golem]
Regia: Paul Wegener
Fotografia: Karl Freund
Scenografia: Hans Poelzig
1920 DAS KABINETT DES DR. CALIGARI [Il gabinetto del dottor Caligari]
Regia: Robert Wiene
Fotografia: Willy Hameister
Scenografia: Walter Reinmann, Walter Röhrig, Hermann Warm
1923 SAFETY LAST [Preferisco l’ascensore]
Regia: Fred Newmeyer, Sam Taylor
Fotografia: Walter Lundin
Scenografia: Fred Guiol
1924 DIE NIBELUNGEN [I Nibelunghi]
Regia: Fritz Lang
Fotografia: Carl Hoffman, Günther Rittau
Scenografia: Otto Hunte, Erich Kettelhut, Karl Vollbrecht
1926 METROPOLIS
Regia: Fritz Lang
Fotografia: Karl Freund, Günther Rittau
Scenografia: Otto Hunte, Erich Kettelhut, Karl Vollbrecht
1927 UNDERWORLD [Le notti di Chicago]
Regia: Josef von Sternberg
Fotografia: Bert Glennon
Scenografia: Hans Dreier
1928 THE CROWD [La folla]
75
Regia: King Vidor
Fotografia: Henry Sharp
1930 JUST IMAGINE
Regia: David Butler
Scenografia: Stephen Gossom
1930 SCARFACE, SHAME OF A NATION [Scarface]
Regia: Howard Hawks
Fotografia: Lee Garmes, L.William O’Connell
Scenografia: Harry Olivier
1931 CITY STREETS [Le vie della città]
Regia: Rouben Mamoulian
Fotografia: Lee Garmes
1931 STREET SCENE [Scena di strada]
Regia: King Vidor
Fotografia: Walter Barnes
1933 KING KONG
Regia: Ernest B. Schoedsack
Fotografia: Edward Linden
Scenografia: Byron L. Crabbe, Mario Larrinaga
1936 THINGS TO COME [La vita futura – Nel 2000 guerra o pace]
Regia: William Cameron Diaz
Fotografia: George Périnal
Scenografia: Vincent Korda
1937 DEAD END [Strada sbarrata]
Regia: William Wyler
Fotografia: Gregg Toland
1941 THE MALTESE FALCON [Il mistero del falco]
Regia: John Huston
Fotografia: Arthur Edeson
Scenografia: Robert Haas
76
1946 IT’S A WONDERFUL LIFE [La vita è meravigliosa]
Regia: Frank Capra
Fotografia: Joseph Biroc, Joseph Walker
Scenografia: Jack Okey
1946 MY DARLING CLEMENTINE [Sfida infernale]
Regia: John Ford
Fotografia: Joseph McDonald
Scenografia: Lyle R. Wheeler
1948 NAKED CITY [La città nuda]
Regia: Jules Dassin
Fotografia: William H.Daniels
Scenografia: Oliver Emert, Russell A. Gausman
1949 ACT OF VIOLENCE [Atto di violenza]
Regia: Fred Zinnemann
Fotografia: Robert Surtees
Scenografia: Cedric Gibbons, Hans Peters
1949 THE FOUNTAINHEAD [La fonte meravigliosa]
Regia: King Vidor
Fotografia: Robert Burks
Scenografia: Edward Carrere
1950 THE ASPHALT JUNGLE [Giungla d’asfalto]
Regia: John Huston
Fotografia: Harold Rosson
Scenografia: Randall Duell, Cedric Gibbons
1950 THE NIGHT AND THE CITY [I trafficanti della notte]
Regia: Jules Dassin
Fotografia: Max Greene
1950 SUNSET BOULEVARD [Viale del tramonto]
Regia: Billy Wilder
Fotografia: John Seitz
Scenografia: Hans Dreier, John Meehan
77
1951 CRY DANGER [Nei bassifondi di Los Angeles]
Regia: Robert Parrish
Fotografia: Joseph Biroc
Scenografia: Richard Day
1954 ON THE WATERFRONT [Fronte del porto]
Regia: Elia Kazan
Fotografia: Boris Kaufman
Scenografia: Richard Day
1955 KILLER’S KISS [Il bacio dell’assassino]
Regia: Stanley Kubrick
Fotografia: Stanley Kubrick
1956 BUS STOP [Fermata d’autobus]
Regia: Joshua Logan
Fotografia: Milton Krasner
1956 THE KILLING [Rapina a mano armata]
Regia: Stanley Kubrick
Fotografia: Lucien Ballard
Scenografia: Ruth Sobotka Kubrick
1956 PICNIC
Regia: Joshua Logan
Fotografia: James Wong Howe
1958 MON ONCLE [Mio zio]
Regia: Jacques Tati
Fotografia: Jean Bourgoin
Scenografia: Jacques Lagrange
1960 ROCCO E I SUOI FRATELLI
Regia: Luchino Visconti
Fotografia: Giuseppe Rotunno
Scenografia: M.Garbuglia
1961 BREAKFAST AT TIFFANY’S [Colazione da Tiffany]
Regia: Blake Edwards
Fotografia: Franz Planer
78
Scenografia: Ronald Anderson, Hal Pereira
1963 CLEOPATRA
Regia: Joseph L.Mankiewicz
Fotografia: Leon Shamroy
Scenografia: Paul S.Fox, Ray Mayer
1964 EMPIRE
Regia: Andy Wharol
Fotografia: Jonas Mekas
1967 BONNIE AND CLYDE [Gangster Story]
Regia: Arthur Penn
Fotografia: Burnett Guffrey
Scenografia: Dean Tavoularis
1967 PLAYTIME
Regia: Jaques Tati
Fotografia: Jean Badal, Andréas Winding
Scenografia: Jacques Lagrange
1969 MIDNIGHT COWBOY [Un uomo da marciapiede]
Regia: John Schlesinger
Fotografia: Adam Holender
Scenografia: John R.Lloyd
1970 ZABRISKIE POINT
Regia: Michelangelo Antonioni
Fotografia: Alfio Contini
Scenografia: Dean Tavoularis
1971 THE FRENCH CONNECTION [Il braccio violento della legge]
Regia: William Friedkin
Fotografia: Owen Roizman
Scenografia: Ben Kazaskov
1973 WESTWORLD [Il mondo dei robot]
Regia: Michael Crichton
Fotografia: Gene Polito
79
1974 CHINATOWN
Regia: Roman Polanski
Fotografia: John A.Alonzo
Scenografia: Richard Sylbert
1974 EARTHQUAKE [Terremoto]
Regia: Mark Robson
Fotografia: Philip H. Lathrop
1974 THE TOWERING INFERNO [L’inferno di cristallo]
Regia: John Guillermin
Fotografia: Joseph Biroc, Fred M.Koenekamp
1975 PROFONDO ROSSO
Regia: Dario Argento
Fotografia: Luigi Kuveiller
1976 ASSAULT ON PRECINT 13 [Distretto 13 – Le brigate della morte
Regia: John Carpenter
Fotografia: Douglas Knapp
1976 TAXI DRIVER
Regia: Martin Scorsese
Fotografia: Michael Chapman
Scenografia: Charles Rosen
1977 ANGEL CITY
Regia: Jon Jost
1977 ANNIE HALL [Io e Annie]
Regia: Woody Allen
Fotografia: Gordon Willis
Scenografia: Mel Bourne
1977 NEW YORK, NEW YORK
Regia: Martin Scorsese
Fotografia: Laszlo Kovacs
Scenografia: Boris Leven
80
1978 QUINTET
Regia: Robert Altman
Fotografia: Jean Boffety
1979 MANHATTAN
Regia: Woody Allen
Fotografia: Gordon Willis
Scenografia: Mel Bourne
1979 THE WARRIORS [I guerrieri della notte]
Regia: Walter Hill
Fotografia: Andrew Laszlo
Scenografia: Fred Weiler
1980 WINDOWS
Regia: Gordon Willis
1981 ESCAPE FROM NEW YORK [1997 - Fuga da New York]
Regia: John Carpenter
Fotografia: Dean Cundey
Scenografia: Don Sutton
1982 BLADE RUNNER
Regia: Ridley Scott
Fotografia: Jordan Cronenweth
Scenografia: Lawrence G.Paull [prod.design.], Syd Mead [visual futurist]
1982 KOYAANISQATSI
Regia: Godfrey Reggio
Fotografia: Ron Fricke
1982 ONE FROM THE HEART [Un sogno lungo un giorno]
Regia: Francis F. Coppola
Fotografia: Vittorio Storaro
Scenografia: Dean Tavoularis
1983 RUMBLE FISH [Rusty il selvaggio]
Regia: Francis F. Coppola
Fotografia: Stephen H. Burum
Scenografia: Dean Tavoularis
81
1985 AFTER HOURS [Fuori Orario]
Regia: Martin Scorsese
Fotografia: Michael Ballhaus
Scenografia: Jeffrey Townsend
1985 BACK TO THE FUTURE [Ritorno al futuro]
Regia: Robert Zemeckis
Fotografia: Dean Cundey
Scenografia: Todd Hallowell, Lawrence G.Paull
1985 BRAZIL
Regia: Terry Gilliam
Fotografia: Roger Pratt
Scenografia: Maggie Gray, Norman Garwood
1985 INTO THE NIGHT [Tutto in una notte]
Regia: John Landis
Fotografia: Robert Paynter
1985 SUBWAY
Regia: Luc Besson
Fotografia: Carlo Varini
Scenografia: Alexander Trauner
1985 TO LIVE AND DIE IN L.A. [Vivere e morire a Los Angeles]
Regia: William Friedkin
Fotografia: Robby Müller
Scenografia: Lilly Kilvert
1985 YEAR OF THE DRAGON [L’anno del dragone]
Regia: Michael Cimino
Fotografia: Alex Thomson
1986 SOMETHING WILD [Qualcosa di travolgente]
Regia: Jonathan Demme
Fotografia: Tak Fujimoto
1986 TOKYO-GA
Regia: Wim Wenders
82
Fotografia: Edward Lachman
1986 TRUE STORIES
Regia: David Byrne
Fotografia: Edward Lachman
Scenografia: Barbara Ling
1987 BARFLY
Regia: Barbet Schroeder
Fotografia: Robby Müller
1987 THE UNTOUCHABLES [Gli Intoccabili]
Regia: Brian De Palma
Fotofrafia: Stephen H.Burum
Scenografia: Barbara Lifsher
1988 BEETLE JUICE
Regia: Tim Burton
Fotografia: Thomas Ackerman
Scenografia: Bo Welch
1988 COLORS [Colors - Colori di guerra]
Regia: Dennis Hopper
Fotografia: Haskell Wexler
1988 DIE HARD [Die hard - Trappola di cristallo]
Regia: John McTiernan
Fotografia: Jan De Bont
Scenografia: Jackson DeGovia
1988 THEY LIVE! [Essi vivono]
Regia: John Carpenter
Fotografia: Gary B.Kibbe
1989 AKIRA
Regia: Katsushiro Otomo
Fotografia: Katsuji Misawa
Scenografia: Toshimaru Mizutami
83
1989 BATMAN
Regia: Tim Burton
Fotografia: Roger Pratt
Scenografia: Anton Furst
1989 BLACK RAIN [Black Rain - Pioggia sporca]
Regia: Ridley Scott
Fotografia: Jan De Bont
1990 DICK TRACY
Regia: Warren Beatty
Fotografia: Vittorio Storaro
Scenografia: Richard Sylbert
1990 END OF THE NIGHT [Aspettando la notte]
Regia: Keith McNally
Fotografia: Tom DiCillo
1990 THELMA & LOUISE
Regia: Ridley Scott
Fotografia: Adrian Biddle, David B.Nowell
Scenografia: Norris Spencer
1991 BOYZ’N THE HOOD
Regia: John Singleton
Fotografia: Charles Mills
1991 BUGSY
Regia: Barry Levinson
Fotografia: Allen Daviau
Scenografia: Jeannine Oppewall
1991 THE FISHER KING [La leggenda del Re Pescatore]
Regia: Terry Gilliam
Fotografia: Roger Pratt
Scenografia: Mel Bourne
1991 JUNGLE FEVER
Regia: Spike Lee
Fotografia: Ernest Dickerson
84
Scenografia: Wynn Thomas
1991 RICOCHET [Verdetto finale]
Regia: Russel Mulcahy
Fotografia: Peter Levy
1993 FALLING DOWN [Un giorno di ordinaria follia]
Regia: Joel Schumacher
Fotografia: Andrzej Bartkowiak
Scenografia: Barbara Ling
1993 SHORT CUTS [America oggi]
Regia: Robert Altman
Fotografia: Walt Lloyd
Scenografia: Stephen Altman
1993 SLEEPERS IN SEATTLE [Insonnia d’amore]
Regia: Nora Ephron
Fotografia: Sven Nykvist
Scenografia: Jeffrey Townsend
1994 THE HUDSUCKER PROXY [Mr. Hula Hoop]
Regia: Joel Coen
Fotografia: Roger Deakins
Scenografia: Dennis Gassner
1994 PULP FICTION
Regia: Quentin Tarantino
Fotografia: Andrzej Sekula
Scenografia: David Vasco
1995 CLOCKERS
Regia: Spike Lee
Fotografia: Malik Hassan Sayeed
Scenografia: Ina Mayhew
1995 GHOST IN THE SHELL
Regia: Mamoru Oshii
Fotografia: Hiromasa Ogura
Scenografia: Takashi Watabe
85
1995 LA HAINE [L’odio]
Regia: Mathieu Kassovitz
Fotografia: Pierre Aïm
1995 JOHNNY MNEMONIC
Regia: Robert Longo
Fotografia: François Protat
1995 THE NET [The Net – Intrappolata nella rete]
Regia: Irwin Winkler
Fotografia: Jack N. Green
1995 NICK OF TIME [Minuti contati]
Regia: John Badham
Fotografia: Roy H. Wagner
1995 SE7EN [Seven]
Regia: David Fincher
Fotografia: Darius Kondhji
Scenografia: Arthur Max
1995 SMOKE
Regia: Wayne Wang
Fotografia: Adam Holender
Scenografia: Kalina Ivanov
1995 STRANGE DAYS
Regia: Kathryn Bigelow
Fotografia: Matthew F.Leonetti
Scenografia: Lilly Kilvert
1996 CHACUN CHERCHE SON CHAT [Ciascuno cerca il suo gatto]
Regia: Cédric Klapisch
Fotografia: Benoit Delhomme
Scenografia: François Emmanuel
1996 CONTACT
Regia: Robert Zemeckis
Fotografia: Don Burgess
86
Scenografia: Ed Verraux
1996 THE SUNCHASER [Verso il sole]
Regia: Michael Cimino
Fotografia: Doug Milsome
Scenografia: Victoria Paul
1996 TREES LOUNGE [Mosche da bar]
Regia: Steve Buscemi
1996 WILLIAM SHAKESPEARE’S ROMEO + JULIET [Romeo + Giulietta di William Shakespeare]
Regia: Baz Luhrmann
Fotografia: Donald McAlpine
Scenografia: Brigitte Broch, Catherine Martin
1997 THE BIG LEBOWSKI
Regia: Joel Coen
Fotografia: Roger Deakins
Scenografia: Rich Heinrichs
1997 BREAKDOWN [Breakdown - La trappola]
Regia: John Mostow
Fotografia: Douglas Milsome
Scenografia: Victoria Paul
1997 LE CINQUIÈME ELÉMENT [Il Quinto Elemento]
Regia: Luc Besson
Fotografia: Thierry Arbogast
1997 GREAT EXPECTATIONS [Paradiso perduto]
Regia: Alfonso Cuàron
Fotografia: Emmanuel Lubezki
Scenografia: Tony Burrough
1997 HANA-BI
Regia: Takeshi Kitano
Fotografia: H. Yamamoto
1997 JACKIE BROWN
Regia: Quentin Tarantino
87
Fotografia: Guillermo Navarro
Scenografia: David Wasco
1997 JOHN CARPENTER’S ESCAPE FROM L.A. [Fuga da Los Angeles]
Regia: John Carpenter
Fotografia: Gary B. Kibbe
1997 KEEP COOL
Regia: Zhang Yimou
Fotografia: Lu Yue
Scenografia: Cao Jiuping
1997 L.A. CONFIDENTIAL
Regia: Curtis Hanson
Fotografia: Dante Spinotti
Scenografia: Jeannine Oppewall
1997 U-TURN [U Turn – Inversione di marcia]
Regia: Oliver Stone
Fotografia: Robert Richardson
Scenografia: Victor Kempster
1998 CITY OF ANGELS
Regia: Brian Silberling
Fotografia: John Seale
Scenografia: Lilly Kilvert
1998 FEAR AND LOATHING IN LAS VEGAS [Paura e delirio a Las Vegas]
Regia: Terry Gilliam
1998 THE GAME [The Game - Nessuna regola]
Regia: David Fincher
Fotografia: Harris Savides
Scenografia: Jeffrey Beecroft
1998 GATTACA
Regia: Andrew Niccols
Fotografia: Slawomir Idziak
Scenografia: Jan Roelfs
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1998 PRIMARY COLORS [I colori della vittoria]
Regia: Mike Nichols
Fotografia: Michael Ballhaus
Scenografia: Bo Welch
1998 THE TRUMAN SHOW
Regia: Peter Weir
Fotografia: Peter Biziou
Scenografia: Dennis Gassner
1999 MATRIX
Regia: Andy e Larry Wachowski
Fotografia: Bill Pope
Scenografia: Owen Paterson
2002 25TH HOUR [La 25a ora]
Regia: Spike Lee
Fotografia: Rodrigo Prieto
Scenografia: James Chinlund
89
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