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Diario – Ricordi di Tripoli

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Diario – Ricordi di Tripoli
PREFAZIONE
Per conoscere meglio questa Storia a noi vicina, ma
soprattutto per vivere la storia con gli occhi di chi l’ha
vissuta e di chi l’ha fatta, oggi vi proponiamo un
importante selezione di brani scritti e curati dal nostro
socio e concittadino Emilio Luigi Parlato.
Attraverso queste pagine prende vita la “sua” storia; una
storia che insinuandosi tra Storia e microstoria percorre
un lasso temporale che va dai primi del Novecento sino
agli anni Settanta e percorre distanze geografiche che
vanno dall’allora Libia Italiana alla nostra Castrofilippo,
offrendoci uno spaccato di vita vissuta, i ricordi, le
sensazioni e le emozioni proprie di chi la storia non solo
la studia… ma la vive e l’ha vissuta giorno per giorno,
l’ha visto scorrere davanti a se ed è stato egli stesso
artefice della storia che oggi leggiamo sui libri di scuola.
Il nostro grazie a quanti come il signor Parlato sono stati
“artefici” del nostro presente e della nostra contemporaneità, consegnandoci un’Italia Libera e Democratica, ed un grande invito alla lettura a tutti voi… Grazie!.
Giovanni Rizzo
Presidente Pro Loco Castrofilippo
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INTRODUZIONE
Questi
brevi
racconti sono le
pagine della mia
vita di bambino,
giovane e uomo
maturo.
Sono passati tanti anni, la memoria e l’oblio possono aver trasformato qualche dettaglio
ma l’essenziale è nella sua autenticità.
Un ringraziamento particolare lo devo a mia figlia, Lina,
senza la quale questo libro non avrebbe avuto modo di
esistere.
In queste pagine mi accompagna sempre la cara
presenza della mia Concettina, che rivedo come la
visione di un film, fedele compagna di tutte le mie
vicissitudini.
Se fosse ancora presente, il mio racconto sarebbe stato
più ricco, grazie ai suoi suggerimenti, ma Lei, purtroppo,
non c’è più.
Per questo Le dedico queste pagine in perenne ricordo.
Emilio Luigi Parlato
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EMILIO LUIGI PARLATO
DIARIO
Ricordi di Tripoli
La mia vita in un racconto
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CAPITOLO I
Ricordi di Libia e
della Centrale di Gharian
Il bisonte di Gharian
Mi chiamo Emilio Luigi Parlato, sono nato a Tripoli il 14
maggio 1923 e al momento di lasciarla abitavo in Via
Raffaello 31.
Vi accenno ad una piccola parte della mia vita a Tripoli e
parte della mia infanzia.
Dal settembre del 1929 ho frequentato la prima
elementare dai Fratelli Cristiani, in via Roma, scuola che
prima di me avevano frequentato i miei fratelli Carmelo,
nato il 1920 e che poi ha vissuto a Latina, e Vincenzo,
nato il 1914, che ora vive vispo e arzillo a Grosseto,
assistito dalla figlia. Poi sono passato alla scuola Roma
in Via Lazio, lì ho avuto dei bravi insegnanti, il maestro
Mario Villani e Piazza. Finite le elementari, sono passato
all’istituto magistrale G. Pascoli, di cui ricordo il prof.
Contino di Italiano, Latino, Storia e Geografia. Intanto
mio padre Antonio andava avanti con la vita lavorativa,
aprendo al porto un bar che andava a gonfie vele, ma
dal 10 Giugno 1940 con l’entrata in guerra dell’Italia,
tutto è peggiorato.
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Il 21 Aprile 1941 il bombardamento aereo-navale colpì la
città e il porto, loro obiettivo prelibato, e dopo
pochi
giorni le navi BIRMANIA e CITTA’ di BARI, ancorate al
pontile “24 gennaio”, cariche di armi e bombe, furono
colpite in pieno giorno dagli aerei inglesi. Il BIRMANIA,
con lo scoppio delle bombe che conteneva, si spezzò in
due e parti di esso volarono anche sulla banchina,
distruggendo tutto ciò che vi era intorno, schiacciando
persino la gente che cercava rifugio. Quel mattino di
inferno
mio padre, mio cognato
Poma Giuseppe,
Gennarino, il cameriere ed io eravamo al lavoro al bar,
come al solito e ci siamo salvati per miracolo. Ma questo
è stato l’ultimo giorno, poiché il nostro bar era stato
distrutto, e noi quattro, che eravamo lì presenti, osservammo quelle distruzioni, increduli, ancora tremanti,
ma vivi grazie a Dio, con solo qualche superficiale ferita.
Alla fine della guerra, in Africa, gli Inglesi governavano a
Tripoli, ho trovato lavoro al P.W.D. che aveva le sue
officine in Sciara El Seidi e ci sono stato per più di dieci
anni. Noi avevamo il compito e la responsabilità di far
funzionare
bene
tutte
le
centrali
elettriche
della
Tripolitania, come quelle di Zuara, Gharian, Iefren,
Giado, Nalut, Beni Ualid, Misurata ecc.
A capo del P.W.D. vi era un maggiore inglese che aveva
il suo ufficio al palazzo del Governo, al principio di Corso
Sicilia. Mentre osservatore sempre vicino a noi c’era il
sergente Staff Watson. Il capo officina era Vittorio
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Malinconico, una persona veramente esperta del ramo.
Lo Staff Watson si limitava al controllo di tutto, era
Malinconico che dirigeva i lavori e, con il passare del
tempo, mi affidava lavori di grande responsabilità. Un
giorno mi affidò un lavoro da eseguire nella centrale
elettrica di Gharian, si trattava di fare il ripasso generale
ad un grosso motore, il LANGHEN WOLF, da noi
conosciuto come “ Il Bisonte” per le sue grandi
dimensioni. Dato che questo era un lavoro molto lungo,
io e il collaboratore che avevo scelto, Trovato Isidoro,
abbiamo avuto il permesso di portare anche le famiglie,
più il mio fedele aiutante
Baschir, nativo di Socna
(HON). Per lui indossare il camice di meccanico era un
vanto, una conquista. (Faccio i nomi, sperando che
qualcuno di loro possa riconoscersi ed avere il piacere di
risentirci). Mi erano state concesse per la prima volta
cose che ad altri non lo erano state, non avevo più nulla
da chiedere. Nel giorno della partenza, con due macchine, lasciammo Tripoli uscendo da porta EL Azizia,
passando per Azizia superandola, e dopo avere affrontato il ciglione arrivammo a Gharian ad un’altezza di
settecento metri. Siamo stati accolti con molta gentilezza
,anche per rispetto delle nostre famiglie, sia da Rotolo, il
capo centrale, che dal personale, tre italiani e tre libici.
Non sto a descrivere i sacrifici che abbiamo dovuto
affrontare, io, Trovato e Baschir per arrivare al completamento dell’opera, per la rimessa a nuovo del motore
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LANGHEN WOLF, e fare un lavoro con attenzione e
onestà, anche verso Rotolo e i suoi operai. Il lavoro a
Gharian era durato cinquanta giorni, ma ora doveva
essere collaudato dal superiore di Tripoli.
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Il collaudo
L’indomani sono arrivate due macchine, in quella da
carico vi erano due bombole di aria di riserva, in caso
fallisse
il
primo
avviamento.
Nella
jeep
vi
erano
Malinconico, il sergente Staff Watson e il Maggiore in
persona. Appena li ho visti ho detto fra me: “Oh
Madonna mia, fa’ che tutto vada bene!”
L’ora X stava per scoccare, ma ormai non era più
compito mio. L’ operatore di turno fa girare il motore con
una grossa leva, portandolo al punto giusto di partenza,
si mette ai volantini delle bombole d’aria, io ero accanto
a lui, mi fece un sorriso di incoraggiamento e aprì le
valvole dell’aria. Il motore cominciò a roteare, la grande
e pesante ruota del volano girava e i tre pistoni, uno alla
volta, ricevevano a turno lo sbuffo d’aria che faceva
vincere il punto morto agli altri due. L’operatore,
muovendo delle apposite leve, fece partire il motore, la
sua grossa marmitta sistemata fuori, riprese il suo
rumore abituale, che da un po’ di tempo non si sentiva
più.
Io e Malinconico non siamo rimasti solo ad osservare,
ma dopo la messa in moto, eravamo attorno al motore,
toccandolo in tutte le sue parti per sentirne il calore,
come si fa con un malato che si alza dopo una lunga
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degenza in ospedale; eravamo pronti, lì, ad assisterlo nei
suoi primi passi o giri di motore.
Dopo che ci tranquillizzammo, Malinconico sparì e tornò
con
una
bottiglia
di
spumante,
che
svuotammo,
brindando tutti insieme, comprese le nostre famiglie.
Ricevetti una stretta di mano dal Maggiore e dallo Staff
Watson, da Malinconico, invece, soltanto una pacca
sulle spalle che valeva molto di più.
Non ho avuto premi speciali in denaro, ma il rispetto e la
richiesta della mia opera per altri guasti successivi e per
altri lavori importanti.
La sera facemmo la prova di carico, fornendo corrente a
tutta Gharian con il motore LANGHEN WOLF che seppe
sopportare il peso. L’indomani abbiamo caricato persone
e bagagli per tornare, non senza rimpianti, a Tripoli
salutati dai dipendenti e dalle loro famiglie; con noi,
erano stati gentili.
Mi scuso se non ho citato i nomi dei tre operatori italiani
e dei tre libici, non è stato per negligenza, ma questi
nomi li ho proprio dimenticati. Di questo ne ha colpa
oggi solo la mia memoria. Se loro o chi per loro
leggeranno quanto da me narrato, spero si ricorderanno
di me. Ho diverse foto che ci ritraggono insieme durante
la permanenza a Gharian, dove eravamo tutti ancora
giovani e forti.
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CAPITOLO II
Da Tripoli a Hon
orizzontarsi nel deserto
Bashir
Anche questo è un mio ricordo, si tratta di un altro
viaggio di lavoro, quando ero ancora al P.V.D., ma
questa volta si trattava di arrivare ad Hon, distante dalla
capitale 650 chilometri, di cui 450 in pieno deserto, per
recuperare dei motori che ad Hon non servivano.
Avremmo dovuto partire con tre macchine, capeggiate,
la prima da due responsabili inglesi con l’autista arabo,
nella seconda dovevo esserci io con il secondo autista
arabo e nella terza il collega di lavoro, Del Cuoco, con il
terzo autista arabo. Il mio aiutante Bashir, nativo di
Socna, località a pochissimi chilometri da Hon, non era
stato messo in lista per poter venire, ci è rimasto molto
male e mi ha pregato affinchè venisse con noi. Io ne ho
parlato con il solito caro Malinconico, sempre pronto ad
ascoltarci, dicendo che Bashir, essendo del luogo,
poteva esserci utile. Per mezzo suo Bashir è entrato
nella lista. Saggia decisione, perché poi ci è tornato
utile. Dietro suo consiglio, abbiamo portato della roba,
che lì non avremmo potuto trovare, come pasta e pane
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in abbondanza, il primus per la cottura dei cibi e alcune
pentole. Dovevamo stare circa 15 giorni.
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Viaggio a Hon
Le macchine sono state caricate, oltre agli attrezzi di
lavoro e la nostra roba, anche di due fusti di 200 litri di
acqua per bere e per i radiatori delle macchine e bidoni
di benzina di scorta; legate ai laterali le lamiere bucate
da usare in caso di insabbiamento insieme alle pale per
spalare la sabbia.
Hon è una località della Tripolitania , che confina con il
Fezzan; la sua oasi, ricca d’acqua e di 40.000 palme da
dattero, contava 3.500 abitanti.
Siamo partiti, capi colonna gli inglesi, in seconda
posizione io e in terza Del Cuoco. Questo era l’ordine di
marcia, non erano permessi prove di velocità o sorpassi,
e questo è rimasto fino ad un certo punto.
Consci del percorso e delle difficoltà che ci attendevano,
perché avevamo studiato tutto a tavolino, abbiamo
percorso la litoranea che va verso la Cirenaica e
sorpassati Homs, Leptis Magna, Zliten e Misurata,
lasciamo la litoranea e prendiamo la strada che va verso
sud, all’interno, superando el Gheddahia; in serata e
prima che facesse buio, siamo arrivati a Bu Ngem, dove
abbiamo pernottato, passando la nostra prima notte in
pieno deserto. Gli inglesi avevano fissato l’ora della
partenza per la tarda mattinata, ma i libici, che di
deserto ne capivano sicuramente più di noi, hanno
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consigliato di partire appena faceva giorno; infine
gli
inglesi si sono arresi, avevano capito che bisognava
viaggiare nelle ore più fresche e anche perché tra Bu
Ngem e Hon non c’ era nessuna altra località, ma solo
sabbia e bisognava arrivare prima di sera, per non
restare isolati di notte. I tendoni di copertura delle
macchine sono stati arrotolati in alto, in modo da
lasciare circolare l’ aria in tutta la macchina, mentre il
sole faceva il suo lavoro in quella zona desertica,
portando la temperatura in alto.
Abbiamo dovuto ricorrere più volte ai fusti d’ acqua, sia
per noi che per i radiatori che bollivano e mettere stracci
bagnati sulle pompe ACI della benzina, che con il calore
si bloccavano, facendo fermare il motore.
Noi approfittavamo di queste continue fermate per
mettere qualcosa sotto i denti e rinfrescarci il viso. Ma
sono arrivate anche le dune di sabbia, che con i loro
spostamenti avevano invaso quel poco di pista carrabile
che si poteva vedere.
Alt! La macchina di testa si è fermata e subito dopo
anche noi . L’inglese, con la bussola in mano ci indicava
quale, secondo lui, era la direzione da seguire, ma
questa era sbarrata dalla sabbia, che vi si era stabilita.
Uno degli autisti, e precisamente il mio, non era
d’accordo
a
un’altra,
ma
seguire
quella
avremmo
direzione, ne
dovuto
superare
indicava
qualche
montagnola di sabbia e lui era sicuro che subito dopo,
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avremmo trovato nuovamente la pista che avevamo
perso. Continuava a spiegare che era pratico del deserto,
prendeva manate di sabbia e le buttava in aria e ci
faceva vedere il vento dove le portava, per far capire che,
se avessimo continuato per la direzione della bussola, ci
saremmo insabbiati, e indicava l’ altra direzione.
L’ inglese cominciò ad innervosirsi e a dire parolacce
nella sua lingua, una di queste era “fuck you”. L’ arabo,
che aveva ricevuto quelle parole anche a Tripoli e ci era
abituato, lì, in pieno deserto dove si sentiva a casa, non
le tollerò affatto e prendendo l’ inglese per il bavero, gli
ricambiò la parolaccia. Noi, preoccupati per la piega che
aveva preso l’ accesa discussione, cercavamo di dividerli.
I due inglesi, si sono guardati e, forse perché si sono
visti
in
minoranza,
hanno
aderito,
anche
se
a
malincuore, a quello che diceva l’ autista e tutti insieme
abbiamo seguito le sue indicazioni.
Si è molto lavorato, spostando una avanti all’ altra le
lamiere
che
ci
permettevano
di
fare
avanzare
le
macchine poco alla volta; tutti abbiamo lavorato, anche
gli inglesi, non erano superiori, si guardava solo alla
sopravvivenza. Abbiamo superato la parte più morbida
della sabbia che si era spostata col vento e abbiamo
trovato quella più dura, più solida, che ci ha permesso
di arrivare alla pista, senza più l’aiuto delle lamiere, che
abbiamo sistemato dentro le macchine. Qui, fermi ormai
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sul duro, vedevamo la soddisfazione dell’autista arabo, e
la mortificazione dell’ inglese.
Quest’ ultimo, ha fatto un gesto veramente nobile, che
non ci aspettavamo; è andato verso l’arabo e gli ha
stretto la mano, ammettendo la sua superiorità in tema
di deserto; abbiamo applaudito. Non contento di questo,
l’ inglese disse: “OK, ora il capo colonna sei tu, vai
avanti”. Così abbiamo proseguito il viaggio, con la mia
macchina in testa, senza più intoppi e senza difficoltà,
sotto il sole cocente. All’imbrunire siamo arrivati ad
Hon, esausti, ma trovando degli alloggi abbastanza
decenti. Ci siamo divisi in settori di nazionalità, in uno
gli inglesi, in un altro gli italiani e nell’altro gli arabi.
Bashir, il mio aiutante, non ha fatto parte del gruppo
degli arabi perché la stessa sera è andato a Socna,
distante
qualche
chilometro,
dove
abitava
la
sua
famiglia; andava la sera e tornava la mattina per il
lavoro.
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Permanenza a Hon
A causa del forte caldo, il primo giorno di lavoro è
andato male, per i giorni successivi ci siamo organizzati,
cominciando prestissimo e sospendendo nelle ore più
calde. Ero abituato al caldo di Tripoli, ma quello di Hon
era terribile. Anche gli stessi arabi del luogo, sparivano
ad un certo orario e poi ricomparivano. Le serate le
passavamo scambiandoci le visite, è capitato che una
volta gli inglesi sono arrivati mentre stavamo cucinando,
forse spinti dal profumino che si sentiva e sono rimasti a
mangiare da noi. Abbiamo fatto una spaghettata, l’
abbiamo condita con un sughetto che era la fine del
mondo, roba da leccarsi i baffi. Gli inglesi l’ hanno ben
gradita e ci hanno invitato per la sera seguente. Anche
da loro si è mangiato bene, non ho gradito solo l’
abitudine di bere latte a tavola. Bashir non ha voluto
essere da meno e ci ha invitati a mangiare il cuscus a
casa sua, a Socna, dove siamo stati accolti molto bene.
Io non so cosa Bashir avesse raccontato di me alla sua
famiglia, un fatto era certo, suo padre si era messo al
mio fianco, e non finiva più di domandarmi di suo figlio,
chiedendomi
come
si
comportava,
cosa
faceva,
orgoglioso di quel figlio, che indossava il camice da
meccanico.
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Arrivato il momento del pranzo, siamo stati invitati,
dopo aver tolto le scarpe, ad entrare in una stanza dove
c’era una grande stuoia, sulla quale ci siamo seduti
incrociando le gambe. Al mio fianco c’era sempre il
padre di Bashir, che mi invitava a mangiare, quasi
volesse imboccarmi. Eravamo tre razze, seduti allo
stesso desco e questa fratellanza era molto bella. Ad un
tratto alle nostre narici è arrivato un odore meraviglioso,
che si sprigionava dalle pietanze. Noi europei siamo stati
serviti nei piatti, gli arabi hanno mangiato tutti insieme,
prendendo il cibo con le mani da una grande conca di
legno, da dove ognuno seguiva la sua direzione,
andando verso il centro, senza sconfinare nella parte
dell’ altro. La mamma di Bashir è comparsa per servirci
il pranzo, ma non si è seduta con noi. Il cibo era
piccantissimo
e
ogni
tanto
dovevo
fermarmi
per
respirare e bere sorsi d’acqua. Poi è arrivato il rito del
thè,
preparato
usando
foglie
essiccate
con
una
operazione molto lunga, inframmezzata da chiacchiere e
racconti.
Si usano diverse caffettiere, dalla prima esce il primo
thè, che ha un gusto aspro e fortissimo. Nella seconda
caffettiera si mettono a bollire le foglie già sfruttate
ottenendo un thè meno forte e più leggero. Poi si passa
alla terza caffettiera dalla quale fuoriesce un thè
leggerissimo al quale si aggiungono un po’ di noccioline.
Questo era il thè che preferivo a Tripoli; quando in
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officina interrompevamo il lavoro per fare il thè, anche
se pagavo la mia parte per intero, prendevo sempre il
terzo bicchierino con le noccioline. Nel pomeriggio
Bashir ci ha fatto visitare Socna, un centro più
importante
di
Hon,
che
contava
1.500
abitanti,
appartenenti all’oasi di Giofra che era stata il capoluogo
prima di Hon. Era situata su una piccola altura, in una
conca ricca d’acqua e di palmeti con numerosi pozzi,
molto caratteristici, costruiti con uno scivolo del terreno
in pendenza che facilitava e rendeva meno faticoso il
lavoro dell’animale addetto al sollevamento.
Nei giorni successivi abbiamo lavorato alacremente,
anche perché i nostri viveri si assottigliavano sempre più
ed eravamo arrivati a cibarci di pane duro ammollato
con l’acqua e uova che si trovavano in abbondanza,
anche se nell’aprirli, dovevamo stare attenti alla loro
freschezza, molto in forse, dato il caldo.
Quando il
lavoro fu terminato, abbiamo caricato la nostra roba, per
partire la mattina dopo all’alba, pregustando la gioia del
ritorno.
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Ritorno a casa
Questa volta, durante il viaggio, non ci sono state
difficoltà, la pista era quasi sgombra e siamo arrivati la
sera, per il pernottamento a Bu Ngem, dove avevamo
fatto la prima tappa all’andata e dove c‘era una piccola
oasi e i resti di un vecchio fortino dei Romani. La
mattina dopo siamo ripartiti, e dopo un centinaio di
chilometri, superando el Gheddahia, abbiamo puntato
su Misurata, distante altri 130 chilometri; ormai si
sentiva già l’odore del mare. Finalmente ecco Misurata,
città di circa 5.000 abitanti, con una fiorente industria
di tappeti e un popolato quartiere di italiani. Ormai,
arrivare a Tripoli era una passeggiata, la litoranea era
tutta asfaltata e si poteva viaggiare senza sbalzi. Passati
Zliten e Homs, nel pomeriggio siamo arrivati, facendoci
annunciare da colpi di clacson nei cortili del P.V.D.,
accolti con grande entusiasmo. Finalmente ero sulla
strada di casa, avviandomi, pensavo che mia moglie e
mia figlia avrebbero stentato a riconoscermi, tanto ero
diventato nero. Invece, dopo un attimo di smarrimento,
all’apertura della porta, sono stato accolto da entrambe
come un eroe, il reduce che ritorna a casa dopo la
guerra. Ritrovando gli affetti familiari, la nostra cucina e
una comoda vasca da bagno colma d’acqua calda,
le
mie stanchezze sono passate e di quei giorni è rimasto
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solo un bel ricordo, che permane ancora indelebile nella
mia mente.
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Tripoli - Arco di Marco Aurelio
Tripoli - Cattedrale
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Tripoli – Fiera Internazionale
Tripoli - Moschea Sidi Beliman
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Tripoli - Palazzo del Governatore
Tripoli - Piazza Cattedrale
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Tripoli – Piazza Italia
Sciara Adriano Pelt – Lungomare
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Sciara Omar El Muktar (ex corso sicilia)
Tripoli veduta dal mare
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CAPITOLO III
Ricordi e Peripezie di
un Tripolino
Fuga da Tripoli
Il presente racconto va inserito subito dopo lo scoppio
delle navi Birmania e Città di Bari, che hanno distrutto,
al porto, nel 1941 il bar di proprietà della mia famiglia.
Io allora ero diciottenne; mio padre, già grande, a causa
di quel bombardamento, è rimasto senza lavoro. Noi,
stanchi di tutto quello che avevamo passato, volevamo
allontanarci dalla guerra, che specialmente al porto era
stata particolarmente dura. Dato che i miei genitori
erano siciliani, scegliemmo la Sicilia come luogo tranquillo, in cui la guerra non sarebbe arrivata, così
credevamo. Lasciavamo Tripoli con dolore, anche perché
una mia sorella si era sposata e voleva restare; due miei
fratelli, uno del 14 e uno del 20, erano sotto le armi e
combattevano sui fronti libici. Prefettura e Questura ci
fornirono tutti i documenti necessari e il 15 ottobre del
1941 fummo pronti a partire. I nostri familiari, restanti,
ci accompagnarono fino alla casa Littoria, nei pressi del
31
lungomare, e lì con dei pullman già pronti, siamo partiti
per l’aeroporto di Castel Benito.
L’unico mezzo di trasporto disponibile era un aereo
militare, un trimotore, Bianchi SM79, in nostra attesa,
da poco arrivato portando dall’Italia soldati e rifornimenti. Salimmo con un gruppo formato tutto da donne e
bambini; gli unici uomini eravamo mio padre, poco più
che cinquantenne ed io diciottenne. L’equipaggio era
formato dal pilota e da un aviere che fungeva da
mitragliere. Le mitraglie erano tre, una al centro, che
fuoriusciva dalla torretta ed era azionata dall’aviere che,
seduto su un sediolo rotante, poteva sparare in tutte le
direzioni; le altre due erano posizionate nei due fianchi.
Quando l’aviere capì che l’unico uomo disponibile a
sparare ero io, cominciò in fretta e furia ad istruirmi sul
funzionamento
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dell’arma
in
caso
di
necessità,
raccomandandomi
di
non
sparare
verso
la
coda
dell’aereo, né verso l’ala, ma solo in linea diritta, al resto
avrebbe pensato lui. Il mio battesimo di volo è avvenuto
così, in una situazione drammatica.
Lasciando la terra ferma, avevamo davanti solo mare e
cielo; all’altezza di Malta, base inglese, il pilota fece
segno all’aviere di stare all’erta, e lui si piazzò alla
mitraglia centrale, assegnandomi quella di destra.
Eravamo tutti paralizzati dal terrore, le donne pregavano
e io, con l’arma in mano, cercavo di bucare le nuvole con
gli occhi alla ricerca del nemico. Per fortuna, quel
momento interminabile passò senza incidenti e guardando giù ecco improvvisamente la Sicilia, che vedevo
per la prima volta, non piatta come l’Africa, ma con le
sue montagne, che io vedevo storte, dato che l’aereo
stava virando per atterrare. Prima di toccare terra
l’aviere rientrò le mitraglie, chiudendo gli sportelli;
eravamo
a
Castelvetrano,
ma
prima
di
scendere,
ringraziammo il pilota per la sua bravura ed io abbracciai l’aviere, di cui mi consideravo un collega. Quei bravi
ragazzi non li ho più visti, chissà che fine avranno fatto.
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Arrivo in Sicilia
Era il 15 ottobre 1941. Scesi, ci siamo inginocchiati ed
io ho baciato per la prima volta il suolo italiano, terra
che osservavo con grande meraviglia, nel vederne il
colore diverso da quello di Tripoli e nel toccarne la
solidità diversa dalla sabbia. Negli uffici municipali di
Castelvetrano, ci hanno registrato come profughi e
accompagnati alla stazione sul treno per Agrigento.
Anche questa esperienza è stata una novità, per il mezzo
sul quale non avevo mai viaggiato e per il paesaggio che
continuava a sorprendermi. Arrivati a Castrofilippo,
siamo stati accolti dalla famiglia di mia mamma, che ci
ha messo a disposizione una casa.
Prima che finisse il 1941, mi impiegai al Comune, come
responsabile
dell’ufficio
Anagrafe
bestiame,
in
cui
venivano registrati tutti gli animali da lavoro del paese e
forniti di carta d’identità, che doveva essere mostrata, in
un eventuale controllo da parte dei carabinieri, anche
per strada. La mia competenza comprendeva anche la
leva militare per i muli, che, quando occorreva, potevano
essere requisiti dall’esercito. Quando era necessario,
arrivava una commissione di ufficiali veterinari, per
visitare i muli, che, se venivano dichiarati abili, potevano essere requisiti e utilizzati in guerra .
La popolazione veniva avvisata dell’arrivo della commissione, alcuni giorni prima, da un banditore con un
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tamburo. Questa requisizione era obbligatoria, nessuno
poteva esimersi; anche se veniva pagata a prezzi stabiliti
dal governo, il contadino veniva privato del suo mezzo di
lavoro a cui era molto affezionato. A causa della guerra e
quindi della mancanza di personale maschile, facevano
parte del numero degli impiegati anche le donne. Una di
queste faceva la dattilografa, si chiamava Concettina, e
dato che esisteva una sola macchina da scrivere, tutti ci
rivolgevamo a lei ed io in modo particolare.
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Chiamata alle armi
Il sabato pomeriggio, detto
sabato fascista, era destinato alle esercitazioni militari, che avvenivano in un
grande piazzale, dove noi
giovani,
chiamata
in
attesa
alle
della
armi,
ci
addestravamo. Un giorno
fui chiamato dal Federale,
che mi propose di partecipare ad un corso a Roma
per l’attestato di “Primo Cadetto”, che sarebbe durato un
mese. Accettai con entusiasmo, desideroso di conoscere
la Capitale e partii con altri “fortunati”. Alla stazione di
Roma ci accolse un gerarca, che prima di accompagnarci al campo di Monte Mario, ci avvertì che lì dentro
si faceva sul serio e che, se qualcuno voleva ritirarsi, era
meglio lo facesse subito. Quel mese è stato sfiancante
per la severità della disciplina e della ginnastica, ma
anche per la mancanza di una adeguata alimentazione.
Alla fine sono venuti alcuni osservatori dalla Germania,
Giappone e Spagna ad ammirare la nostra sfilata a
passo romano di parata.
Tornato a casa, con l’attestato di “Primo Cadetto”, sono
stato nominato istruttore premilitare e con me i giovani
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hanno provato la vera ginnastica. A gennaio del 1943,
fui chiamato alle armi e assegnato al 6° reggimento di
fanteria della divisione Aosta, posta fra Palermo e
Trapani, in difesa della costa nord-occidentale; in vista
di un eventuale sbarco nemico, ci esercitavamo alle armi
e ai combattimenti. Tutto ciò durò fino al 10 luglio 1943,
data del vero sbarco, che avvenne invece nelle coste a
sud dell’isola, lontano dalla nostra posizione. Quindi io
non mi trovai subito ad affrontare il nemico appena
sbarcato, ma la mia divisione si scontrò dopo pochi
giorni con le truppe americane, che risalivano dal sud,
mentre noi dai dintorni di Palermo andavamo verso il
centro della Sicilia, a Nicosia, in provincia di Enna, dove
ho avuto il battesimo del fuoco, per tentare di fermarli.
Ma questa era pura illusione, perché nelle grandi
battaglie che abbiamo sostenuto nei pressi di Troina,
parte dei nostri reparti furono sconfitti o presi prigionieri
o riuscirono a risalire lo stretto di Messina.
Io mi trovai nel mezzo di una grande ritirata disordinata,
che ci portò fino a Troina, tenendo questa nuova posizione per cinque giorni. Sembrava che gli americani avessero premura, agguerriti sempre più, facevano ripetuti
attacchi terrestri e aerei; in uno di questi, alcuni gruppi
caddero prigionieri, tra quei soldati, c’ero io. Era il 5
agosto 1943.
Leggendo oggi i libri di storia a questo proposito, il
generale Bradley, comandante del 2° corpo di Armata
37
americano, ebbe a dire che a Troina fu combattuta la
più
impegnativa
e
sanguinosa
battaglia
che
gli
Americani sostennero durante l’intera campagna di
Sicilia. La mia prigionia durò pochi giorni, perché gli
Americani,
che
provenienza
di
esaminavano
ogni
la
prigioniero,
situazione
si
accorsero
e
la
che
provenivo da una zona già da loro conquistata e, senza
perdere tempo, per non dover portare appresso il peso di
questi
prigionieri,
firmarono
un
documento
dove
risultavo prigioniero sulla parola e in cui mi impegnavo
sul mio onore, a non prendere più le armi contro gli
anglo-americani; con esso dovevo presentarmi, giunto in
paese, al Comando che ormai era nelle loro mani. Aperti
i cancelli del campo solo per i fortunati come me, che
abitavano a sud, mi avviai verso casa, che distava da lì
circa 200 chilometri, che percorsi un po’ a piedi e un po’
su carretti di passaggio, guidati da carrettieri mossi a
compassione del mio aspetto estenuato, ma che mi
davano un po’ di respiro.
38
Ritorno a Tripoli
Arrivato a casa e dopo un periodo di riposo, tornai a
lavorare all’ufficio Anagrafe bestiame, dove incontrai i
vecchi colleghi e quella dattilografa, che mi aveva colpito
in precedenza, tanto che ci fidanzammo e poi ci
sposammo, in un giorno particolare, il 29 aprile 1945.
Quel giorno, era domenica, suonarono le campane a
festa, credevamo che fossero per noi, invece sapemmo
che era finita la guerra e che l’Italia era libera, ma nel
nostro piccolo paese, questa grande notizia era arrivata
con quattro giorni di ritardo. Nei giorni che seguirono il
matrimonio, la mia mente e quella dei miei genitori era
rivolta di nuovo verso quella Tripoli, che eravamo stati
costretti a lasciare, anche perché vi abitavano un
fratello, ormai tornato dalla prigionia e una sorella
sposata. Ma questa volta Tripoli non era più italiana e
ancora non c’erano servizi di linea. Data la voglia di
rientrare della mia famiglia, alla quale si era unita anche
la mia giovane sposa, cercammo un traghettatore o
come si direbbe oggi, uno scafista. Lo trovammo a
Siracusa, al porto. Lui prendeva tempo, perché non si
fidava, ma poi acconsentì e raccolse settanta persone
che dovevano attraversare il Mediterraneo in motopeschereccio, ma questa volta partendo dalla Sicilia.
Il viaggio fu un’altra avventura, prima per raggiungere a
gruppetti con piccole barche il natante che aspettava al
39
largo e poi per affrontare due notti e due giorni di
navigazione. Tutti i movimenti dell’imbarco sono avvenuti di sera tardi, per evitare i controlli; il motore era un’
Isotta Fraschini, aveva un bel rombo e questo mi dava
fiducia; presto ci siamo trovati in alto mare. Per fortuna
era estate e il mare era calmo, ma attorno a noi c’era
solo mare, sole e il buio della notte. Dovevamo avere
pazienza e pregare.
Fattosi giorno, i marinai ci invitarono a fare silenzio e
restare chini e coricati sul fondo, perché eravamo nei
pressi di Malta ed era prudente non farsi vedere. Dopo
un altro giorno di navigazione, venuta la sera, i marinai
ci avvisarono che non mancava molto, infatti dopo un
paio d’ore vedemmo delle luci e finalmente la terra. Il
motore venne messo al minimo, ora la barca si muoveva
appena. Il capo dei tre marinai col binocolo osservava la
terra vicina a quelle luci, era quello il punto dello
sbarco; eravamo davanti ad una spiaggia, il lido di
Tripoli, come dire, davanti casa. In precedenza avevamo
osservato un passeggero che parlottava con il capo
barca, all’arrivo capimmo che era un familiare dei
proprietari del lido, dove in quel momento si stava
svolgendo una serata danzante. Aspettammo in silenzio
la fine della festa e poi fu messa in acqua una piccola
barca, dove presero posto il nostro compagno con un
marinaio. Dopo circa mezz’ora ecco arrivare due grosse
barche, i cui rematori erano arabi, i quali, nella gioia di
40
vedere il loro padrone, si prodigarono, con parecchi
viaggi, a portarci a terra. I marinai rimasti a bordo, nel
salutarci ci chiesero di non buttare il cibo che ci era
avanzato, perché poteva servire a loro nel viaggio di
ritorno.
L’ Isotta Fraschini si rimise in moto e prima che noi
toccassimo terra, era scomparsa. Ci siamo calati scalzi
sul bagnasciuga, toccando terra. Gli Albanesi nel 2000 e
poi gli Africani hanno copiato da noi. La famiglia del
nostro compagno di viaggio è stata gentile, nel suggerirci
come non farci trovare dalla polizia, altrimenti c’era
l’arresto e il rimpatrio. Come Dio volle raggiungemmo la
nostra casa, riabbracciando i nostri familiari increduli.
41
Permanenza a Tripoli
Così ritrovammo le nostre abitudini, amicizie, luoghi che
avevamo lasciato ma non dimenticato, mentre per mia
moglie tutto era nuovo e veniva conquistata dalle
bellezze della città, di cui le avevamo tanto parlato e che
lei stava provando e assaporando. Non persi tempo per
cercarmi
un
lavoro;
anche
se,
essendo
arrivato
clandestinamente, ero sprovvisto di documenti, mi
presentai agli uffici delle officine P.W.D. e trovai due
persone che discutevano, poi seppi che erano lo staff
Watson , seduto alla scrivania , e Vittorio Malinconico, il
capo officina. Alla mia richiesta di lavoro, lo staff rispose
affermativamente,
chiedendo
il
mio
nome
e
un
documento. Gli dissi il nome, facendo finta di cercare il
documento, che sapevo di non avere; nello stesso tempo,
contando su quell’altro signore, Malinconico, che mi
ispirava
un’istintiva
fiducia,
senza
essere
visto
dall’inglese, gli feci un gesto significativo con la mano e
lui, capendo al volo, assicurò lo staff che si sarebbe
occupato della questione.
Lo staff si allontanò, raccomandandomi di tornare
l’indomani, puntuale al lavoro con i documenti. Rimasti
soli, il mio salvatore mi chiese se ero arrivato con le
barche, e capita la situazione, mi assicurò che lì mi sarei
trovato in buone mani e potevo stare tranquillo. Per
42
merito suo ho fatto la mia carriera di operaio meccanico,
anzi posso dire che diventai il suo beniamino, perché
per qualunque problema si rivolgeva a me. Un’ altra
persona che mi stimava molto, era il maggiore inglese,
che comandava tutte le officine collegate ed aveva il suo
ufficio in corso Sicilia, al Palazzo del Governo. Ogni
tanto veniva ad ispezionare i reparti con la sua macchina privata, una Hillmann. Mentre si fermava per le
ispezioni, voleva che gli controllassi la macchina, ed io
cercavo di farlo contento. Una volta, invece, telefonò a
Malinconico, chiedendo che lo raggiungessi al suo
ufficio. Arrivato lì, tutto emozionato e non sapendo cosa
voleva il maggiore da me, mi vidi consegnare le chiavi
della sua macchina, che doveva servire per portare in
giro la moglie, ma ad una condizione, che non la facessi
assolutamente guidare. A casa, trovai già pronta la
signora che, uscendo, si avviò verso il posto di guida. Io
fui più svelto di lei, le aprii lo sportello di dietro e mi
infilai al posto di guida. Volle essere portata ai magazzini
generali inglesi, e, all’uscita, risalendo in macchina,
cominciò a fare conversazione, mentre io la osservavo
dallo specchietto retrovisore. Poi sorridendo mi chiese di
guidare ed io, altrettanto sorridendo le risposi di nò. Al
che, lei domandò se era suo marito che me lo aveva
raccomandato e alla mia risposta affermativa, smise di
insistere. Questa fu la prima delle tante uscite in
macchina che facemmo insieme.
43
Ormai
i
soldati
inglesi,
di
turno
all’entrata,
mi
conoscevano e mi facevano entrare senza problemi. Nelle
successive uscite, ogni tanto tornava a chiedere di
guidare,
ed
io
alla
fine,
persi
la
mia
fermezza,
concedendole il posto di guida e sedendole accanto.
Capii subito il motivo dei divieti del maggiore, la signora
era una spericolata ed io temevo per tutti e due. Le
chiesi cosa sarebbe successo se il marito fosse venuto a
saperlo e candidamente mi rispose che non sarebbe
stata certo lei a dirglielo. Da quella volta ha guidato
sempre lei.
Ad agosto del 1948, la mia famiglia aumentò, nacque
una bambina, in via Raffaello n. 31. Tutto era andato
bene, ma dopo una settimana mia moglie ebbe delle
complicazioni; chiamai il primario del reparto chirurgia,
professor Regoli, che la fece immediatamente ricoverare.
Ora dovevo
tutti
i giorni recarmi
in ospedale e
rispuntava quel problema, che ancora non avevo risolto,
la mancanza di documenti. Anche se avevo “amici”
inglesi,
non
avevo
osato
ancora
sollevare
questo
argomento, forse sbagliando, temendo di perdere il
lavoro. Avevo un grande amico francescano, padre
Illuminato
Colombo,
che
proteggeva
ed
aiutava
chiunque avesse bisogno. Mi rivolsi a lui, raccontandogli
le mie vicissitudini e quali conoscenze avessi sul lavoro.
Lui contattò il maggiore inglese, che comandava in
polizia e, dopo una settimana, fui convocato. Seppi,
44
dopo, che erano state chieste informazioni su di me al
capo del P.W.D., proprio quel maggiore, che si fidava di
me, affidandomi la macchina con la moglie. Il capo della
polizia, infatti, mi confermò che la mia situazione si era
sbloccata proprio grazie a lui, che aveva garantito per
me. Con il tanto sospirato documento, mi recai al lavoro
e venni a sapere da Malinconico che il maggiore mi
voleva al Palazzo del Governo; quando arrivai, mi chiese
se avevo sistemato tutto ed io sorridendo, gli mostrai il
documento,
che
dovevo
a
lui.
Per
ringraziarlo,
nell’andarmene scattai sull’attenti, battendo i tacchi,
riconoscendo la sua superiorità e magnanimità.
Ho già raccontato tutto quello che ho vissuto in guerra e
nella Tripoli degli anni del dopoguerra, quando ormai la
città non era più italiana ed erano entrati gli inglesi;
tanto che io lavoravo, come ho già detto, per loro al
P.W.D. Proprio in quel luogo ho conosciuto per caso, il
signor Tullio Mantovani, che aveva la sua officina in
sciara Bu Harida. E’ venuto in visita al P.W.D. e assieme
al capo Malinconico ha fatto il giro tra i reparti. Quel
giorno io ero intento ad un lavoro di alta precisione,
collocare il bareno in un basamento di motore per la
barenatura e l’adattamento delle bronzine di banco di
un motore a sei cilindri, che stavo mettendo a nuovo.
L’ospite, che era un esperto nel campo, rimase colpito
da quello che stavo facendo, tanto che, nell’andarsene,
mi invitò a visitare la sua officina; poi, quando lo feci, mi
45
propose di fare dello straordinario da lui, fuori dalle mie
ore di lavoro. Accettai, anche per arrotondare le entrate.
La sua officina aveva reparti di torneria, di motori
industriali, saldature elettriche e autogene con forno di
raffreddamento. Fuori, un vasto cortile conteneva rottami ferrosi di qualsiasi tipo e forma, che venivano recuperati da varie zone e servivano a creare pezzi nuovi, dato
che non arrivavano più i pezzi originali di ricambio dalle
fabbriche italiane. Nella sua officina era iniziata anche la
costruzione di grosse presse, che dovevano servire ad
eliminare laminati leggeri, filo spinato, residuati di guerra di tutte le battaglie che si erano svolte in Libia.
Questo lavoro gli era stato commissionato dalla ditta
Citexco. Nello straordinario che facevo da lui, imparai il
loro funzionamento nei minimi particolari.
I primi anni cinquanta videro la partenza degli inglesi da
Tripoli e anche la mia uscita dal P.W.D. Un altro lavoro
già l’avevo, però il P.W.D. mi aveva formato come
operaio,
avevo
conosciuto
persone
degne
di
ogni
rispetto, dallo staff Watson , al maggiore a cui dovevo i
miei sudati documenti e che mi aveva onorato della sua
amicizia e soprattutto Vittorio Malinconico, che non
potrò mai dimenticare per la stima vicendevole che
avevamo l’uno per l’altro. Con la fine di questo lavoro,
fui assunto dall’officina meccanica Mantovani, arrivando
proprio nel momento della istallazione delle presse della
Citexco, dove lui mi mandò. Ora si apriva un altro
46
capitolo della mia vita, salivo di grado, perché alla
Citexco avevo i diritti dovuti a tutti i lavoratori regolari,
compresa l’assistenza per me e la mia famiglia. Fui
assegnato al funzionamento delle presse. La mano
d’opera era tutta araba, io solo ero italiano. In un
quadrato di raccolta, infisso nel terreno, venivano gettati
e sistemati dagli arabi, vari pezzi di ferro e altro
materiale ferroso; quando il quadrato si riempiva, veniva
chiuso con uno sportello rinforzato da grosse barre di
ferro. Io avevo il compito di azionare dei sollevatori, che,
con una pressione di 200 atmosfere, spingevano una
grossa piastra all’interno della pressa e tutto quel
materiale diventava una balla quadrata, che all’apertura
dello sportello con grosse mazze, veniva sollevata a
mano da un arabo, dall’aspetto di un ercole, di nome
Slim.
Questo lavoro durò circa un anno e mezzo e alla fine
tornai
alle
officine
Mantovani,
addetto
ai
motori
industriali. Slim mi si era molto affezionato e mi pregò di
trovargli qualcosa da fare. Mantovani, nella sua officina,
aveva bisogno di un guardiano notturno ed io gli
raccomandai lui, che riuscì subito gradito al principale
per il suo fisico. Gli fu assegnata una baracca; Slim mi
pregò di chiedere se poteva portare anche la moglie, ma
Mantovani era restio. Io lo convinsi, che, se ci fosse stata
la moglie, sarebbe stato più legato a quel posto, anche
durante il giorno, e così fu, perché Slim, per la gratitu-
47
dine, anche se non aveva un compito preciso, si rendeva
utile in ogni modo, e Mantovani capì di aver fatto un
buon affare. Tullio non lavorava, ma dirigeva con la sua
costante presenza tutti i reparti dell’officina. Aveva preso
l’abitudine di cominciare il suo giro dal mio reparto e
con il tempo prese a parlare con sempre maggior
confidenza. A volte questi colloqui venivano sospesi,
perché usciva con la sua Austin, restando fuori un po’ di
tempo e al suo ritorno, ripassava da me e riprendeva,
come se continuasse il discorso interrotto, dicendo:
“Allora, hai capito?” - La prima volta non riuscii a
seguirlo, poi capii e alla sempre stessa domanda, lo
precedevo, continuando, come se non ci fossimo mai
interrotti. Aveva la passione per le moto, che venivano
messe
a
punto,
partecipava,
come
per
le
gare,
capitano
nella
dei
sua
Diavoli
officina;
neri,
allo
speedway motociclistico, che si svolgeva sotto l’albergo
dei Mehari e che richiamava un folto pubblico di tifosi.
Io, insieme a mia moglie e mia figlia, non mi perdevo
una gara e in queste occasioni, incontravo la moglie e il
figlio di Mantovani, che lo seguivano.
Con il tempo mi confidò che aveva in mente di lasciare
Tripoli, perché la vita cominciava a farsi difficile; la
giovane generazione libica mal ci sopportava, inutili
erano i ripetuti appelli di re Idris, rivolti a loro per il
rispetto verso di noi. Molto diverso era invece l’atteg-
48
giamento dei più anziani, specialmente quelli che avevano condiviso con noi il lavoro.
Mantovani era originario del Veneto e lì pensava di
tornare, impiantando un’officina, anzi mi aveva proposto
di seguirlo e lavorare ancora con lui. A me il discorso
piacque, tanto che ne parlai in famiglia. Anche mia
moglie aveva notato il diverso comportamento, a volte
irrispettoso del libici, dato che lei era in contatto con la
gente in strada, forse più di me. Per questo motivo
cominciammo a valutare la situazione, anche perché le
comunicazioni aereo-navali con l’Italia si erano riaperte;
la Tirrenia aveva destinato il piroscafo Argentina, che da
Napoli, toccando Siracusa e Malta, raggiungeva Tripoli e
viceversa. Fui informato dal mio principale; che doveva
mancare per un po’ di tempo per recarsi in Italia e in
quel periodo io dovevo sostituirlo, facendo un po’ da
sorvegliante lavoratore. Ci riuscii abbastanza bene,
tanto che al suo ritorno, Mantovani trovò tutto tranquillo e ritornò alla carica nell’invitarmi a seguirlo, dato
che ormai la sua idea si stava concretizzando.
Essendo arrivato il momento della decisione finale anche
per me, mia moglie mi suggerì di andare in Sicilia, al
suo paese, per vedere come si viveva e se c’erano
possibilità di lavoro. L’idea non era proprio da scartare,
valeva la pena fare questa prova; perciò chiesi un
permesso al principale, che me lo accordò, di mancare
49
un mese per recarmi in Italia. In realtà il passaporto era
valido tre mesi, ma io non ne parlai.
50
Ritorno in Sicilia
Era il mese di giugno 1955. Arrivati in Sicilia, mia
moglie ritrovò i suoi genitori, fratelli e sorelle, mentre io
pensavo al da farsi. Castrofilippo era ed è ancora, un
paese agricolo, i suoi abitanti coltivavano la terra
manualmente
e,
raramente,
con
mezzi
meccanici.
Proprio in uno di questi mi imbattei un giorno; in un
garage c’era un operaio che stava montando un motore
in un trattore, mentre il padrone dell’officina, che ho
conosciuto dopo, era seduto al fresco. Chiesi il permesso
di entrare e mi informai sul lavoro che si stava
svolgendo, facendo delle domande pertinenti, dalle quali
si capiva che ero del mestiere. Quel motore era stato
revisionato a Caltanissetta, alle officine O.M.; a quella
notizia le mie orecchie si drizzarono e chiesi informazioni
all’operaio che, senza parlare, mi indicò il signore seduto
fuori, al quale chiesi se avevano bisogno di un operaio,
ma lui, non conoscendomi, titubava e mi pose molte
domande sulla professione. Io oltre a nominare motori e
macchine su cui avevo lavorato, spiegai anche la mia
situazione di profugo precario ed il breve tempo, che
avevo, di prendere una decisione, che doveva essere
definitiva, data l’importanza del passo che mi apprestavo
a fare.
51
Fui
invitato
ad
una
prova
pratica
in
sede,
a
Caltanissetta. Arrivato a casa, raccontai la notizia che
mi sembrava importante e risolutiva per il nostro futuro
a mia moglie, che ne fu felice. All’inizio della settimana,
mi recai sul posto del nuovo lavoro e diedi prova delle
mie capacità, dato che fui cambiato continuamente,
proprio per tastarmi, nei vari settori.
Data la distanza dal mio paese, abitavo in una locanda
per tornare il sabato sera; ma già quel primo sabato il
principale, pagandomi la prima settimana di lavoro con
una cifra che giudicai superiore a quella che prendevo a
Tripoli, mi informò che potevo ritornarvi per sistemare la
mia posizione e per prendere definitivamente posto
all’O.M. Dissi che avevo altri giorni di permesso e volevo
essere ancora messo alla prova, andò a finire che quei
giorni superarono il mese che avevo chiesto al principale
di Tripoli. Nel frattempo, arrivò una lettera da parte di
mio fratello, che aveva incontrato Mantovani adirato per
la mia assenza ingiustificata e mi informava che,
persistendo così le cose, avrei potuto non trovare più il
mio posto. Questo mi fece decidere e ripartii con la mia
famiglia alla volta di Tripoli. Dato che mio fratello aveva
accennato sommariamente la mia situazione, trovai ad
accogliermi un Mantovani inaspettatamente sorridente e
curioso di sapere tutte le novità del mio nuovo lavoro in
Italia. Io lo accontentai, gli dissi come stavano ormai le
cose e che sarei partito per sempre. Lui, con grande
52
magnanimità volle che tornassi, per quei giorni che
restavano, al lavoro, prendendo ore di permesso per
sbrigare le pratiche per la partenza. Mi mise a
disposizione persino la sua macchina, per eventuali
spostamenti, dato che dovevo vendere la mia balilla.
Lasciare Tripoli definitivamente non era così facile come
poteva sembrare, era stato difficile entrarvi clandestinamente, ma era pure difficile uscirne. Si doveva
dimostrare di non avere pendenze con la polizia, cause,
contravvenzioni, una dichiarazione liberatoria del padrone di casa, bollette pagate di acqua, luce, gas.
Quando tutte queste pratiche furono espletate e fu
fissato il giorno della partenza, conclusi il lavoro da
Mantovani salutando tutti, i compagni di lavoro, Slim,
53
ma soprattutto lui, Tullio che, avvicinandosi a me per
stringermi la mano, mi disse: “non hai avuto fiducia in
me! ciao e buona fortuna” - Non ho potuto e saputo
rispondere.
Sarà
stato
un
rimprovero
o
un
complimento? Se avessi ascoltato lui, oggi, invece del
siculo avrei parlato il veneto.
54
Addio a Tripoli
Comunque auguro a lui, se mi leggerà, e alla sua
famiglia tanta fortuna che, sicuramente, avrà avuto
nella sua terra natia.
Arrivato il giorno della partenza, tutta la famiglia venne
a salutarci in via Raffaello, la strada che ci aveva visti
crescere, quanti ricordi, quando sul marciapiede mia
figlia pedalava sul triciclo, fatto da me. Sulla strada per
il porto, cercavo di imprimermi bene nella memoria tutto
ciò che vedevo, la scuola delle suore bianche, con suor
Erminolda, la maestra di mia figlia, per tre anni, la
chiesa della Madonna della Guardia, dove andavamo a
messa la domenica, corso Sicilia, piazza Italia, piazza
Castello e poi tutto il lungomare Bastioni fino al porto,
dove ci attendeva la nostra nave “Argentina”.
Questa volta non era un viaggio di piacere, era una
partenza definitiva; mettendo i piedi sulla scaletta della
nave ci trovammo già in suolo italiano. Dal molo dov’era
ancorata la nave, si vedeva la cupola e il campanile della
Cattedrale, le due torri del palazzo della previdenza
sociale, la torre del banco di Roma, la torre del palazzo
del Governo, il maestoso e splendido lungomare alberato
di palme con le due alte colonne, le guglie e i merletti del
Grand Hotel, tutto il palazzo della cassa di risparmio, il
Castello e tanti tetti di case bianche, caratteristiche
55
della città. Questo era quello che i nostri occhi avevano
potuto fotografare prima che calassero le ombre della
sera del 5 Settembre 1955, lasciando in noi come una
negativa, che restava custodita nella memoria e nel
ricordo.
Al suono della sirena, la nave cominciò a staccarsi dalla
banchina e sembrava che dicesse definitivamente:
Addio, mia bella e cara Tripoli! - Lasciavamo questa
città, insieme ad un lungo periodo della nostra vita,
trascorsa in quella terra che era stata la quarta sponda
dell’Italia e che poi si era rivelata come l’odissea
dell’Italia in Africa. Oggi a distanza di tanti anni mi è
rimasta la nostalgia delle sue bellezze create dalla
intelligenza, maestria, bravura di architetti, ingegneri,
tecnici e operai specializzati italiani, che hanno saputo
costruire
strade,
ferrovie,
viadotti,
allontanando
il
deserto dalla città e al suo posto costruito palazzi degni
di fare invidia a tutte le nazione del mondo.
A Siracusa, la mattina del 7 settembre, eravamo attesi
dai funzionari della Prefettura, che, dopo aver controllato il foglio di via, rilasciato dal consolato italiano di
Tripoli, mi fornirono un attestato da portare al comune
di Castrofilippo, in cui si comunicava il mio stato di
profugo,
assegnandoci
il
“generoso“
sussidio,
una
tantum, di dodicimila lire per me, capo famiglia, e
cinquemila cadauno per mia moglie e mia figlia.
56
La mia vita lavorativa in Sicilia si è svolta tra l’O.M. di
Caltanissetta e, in seguito, l’apertura di una officina in
proprio
l’officina
nel
fu
paese
che
affiancata,
mi
in
ospitava,
seguito,
Castrofilippo;
anche
da
un
distributore di benzina, per cui la mia vita divenne
sempre più intensa, ma per fortuna piena di soddisfazioni da parte di clienti del paese e del circondario.
Ho continuato a seguire le vicende di Tripoli, che
considero ancora oggi la mia città, anche perché i miei
fratelli e sorelle erano rimasti lì.
Li ho seguiti nei tragici avvenimenti del 1970, il loro
forzato rimpatrio, la difficile ricerca di una località dove
stabilirsi, fino agli ultimi fatti di questi mesi, a Tripoli,
che mi hanno colpito nel profondo, nel vedere le macerie
dei luoghi tanto amati. Oggi ho la fortuna di avere
raggiunto gli ottantanove anni, di avere una discreta
salute, una buona memoria e la possibilità di scrivere,
soprattutto con l’aiuto dei miei cari, senza i quali
sarebbe stato impossibile il mio accesso a Internet.
Ho anche un fratello maggiore, che ha raggiunto la
veneranda età di 98 anni, vive a Grosseto, accudito dalla
figlia e con il quale mi sento spesso. Vivo perciò di
ricordi, di lettere, di scambi di opinioni, da parte di tanti
amici sconosciuti sparsi in tutta Italia. Questo è stato
possibile solo grazie a Paolo Cason, che con la sua
straordinaria pazienza raccoglie e mette insieme le voci
di noi esuli. Grazie Paolo, grazie anche a quelli che mi
57
hanno letto e contattato e a quelli che mi leggeranno e
mi contatteranno; con sempre Tripoli nel cuore, saluto
tutti.
58
59
60
CAPITOLO IV
Ricordi Tripolini di
Gioventù
La mia infanzia
Finora ho raccontato episodi della mia vita, avvenuti
quando ero già in età matura, questa volta vorrei
soffermarmi su avvenimenti accaduti prima del 1943,
sconosciuti ai giovani nati dopo quella data, stuzzicando
i ricordi di quelli della mia età, ma continuando sempre
a parlare di Tripoli, nome caro a tanti di noi, che vi
hanno vissuto.
Sono nato in questa bella città da genitori siciliani, che
si chiamavano Carmela Sferrazza e Antonio Parlato.
Carmela era nata a Castrofilippo il 2 Dicembre 1892,
aveva altri fratelli più grandi, di cui uno, Salvatore,
stabilito da alcuni anni in America. Nel 1908, i fratelli
più grandi decisero di raggiungerlo negli Stati Uniti, per
cercare fortuna, portando con loro anche la sedicenne
Carmela, che con una sorella cominciò a lavorare in
laboratori tessili, mentre i maschi si dedicarono alla
manutenzione bituminosa della strade, incontrando
61
tanti altri siciliani, che come loro si adattavano ai lavori
più umili e pesanti.
62
63
Mio padre era nato a Favara il 19 Marzo 1888. Anche lui
era emigrato in America e aveva intrapreso la strada di
molti come lui, incontrando nel luogo di lavoro dei
castrofilippesi. Quando si vive lontano dalla patria,
conoscere persone che abitavano vicino al tuo paese
d’origine, sembra di respirare la stessa aria, per cui il
giovane Antonio, lavorando con i maschi della famiglia
Sferrazza, si era talmente sentito parte di loro, da
conoscere e frequentare anche il resto della famiglia, il
ramo femminile, per cui presto Carmela e Antonio,
attraverso vari inviti, simpatizzarono, tanto che, quando
al principio del 1911, i fratelli Sferrazza decisero di
ritornare al paesello, Antonio, pur non facendo parte
della famiglia, decise di fare altrettanto. Naturalmente
anche tra Favara e Castrofilippo ci si scambiava qualche
visita e l’amicizia continuava. Proprio quell’anno l’Italia
aveva intrapreso una guerra con la Turchia per il
possesso della Libia.
La vinse e molti avventurosi giovani vi si recarono, per
trovare una sistemazione migliore. Tra questi intrepidi
garibaldini c’era Antonio, mai stanco di provare altre
emozioni, che, prima della partenza, andò a salutare la
famiglia Sferrazza, promettendo alla giovane Carmela
che sarebbe ritornato.
Erano i primi anni del 1912. In quella terra deserta,
tutto si doveva costruire e creare dal nulla e lui cominciò
con quello che sapeva fare: il falegname.
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Aprì una bottega, costruendo con le proprie mani mobili
e suppellettili, che servivano ai nuovi abitanti di Tripoli.
Il suo pensiero però era rivolto a Castrofilippo, a quella
giovane, a quella promessa.
Infatti nei primi mesi del 1913 ritornò, si presentò alla
famiglia Sferrazza, accompagnato dai suoi genitori e il 4
Maggio 1913 Antonio e Carmela, uniti in matrimonio,
compirono il viaggio di nozze alla volta di Tripoli, sulla
motonave “Arborea”. Le cose andarono bene per il
giovane Antonio, che, con l’aumento della famiglia, ebbe
il coraggio di iniziare una nuova attività, aprendo, in
una
via
molto
centrale
di
Tripoli,
corso
Vittorio
Emanuele, un bar, che intitolò Concordia. Si trovava di
fronte al Palazzo di Giustizia, perciò era frequentato da
tanta gente e funzionari del palazzo e per essi mio padre
produceva tante specialità come la granita di puro
limone in estate e i “pupi” di zucchero nel periodo dei
morti.
Era il 14 Maggio 1923, quando ho visto la luce, in
Zenghet Hassuna Pascià n.12. Sebbene fosse una
piccola strada, si trovava al centro della città ed univa
due grosse arterie importanti, corso Vittorio Emanuele e
via Lombardia, poi diventata via Costanzo Ciano. Il mio
arrivo è stato accolto con grande festa da mamma, papà,
mio fratello Vincenzo, di 9 anni, Angela di 8 e Carmelo,
che anni ne aveva 3. Nel 1929 è nata l’ultima, Maria,
quando io avevo già 6 anni e frequentavo la scuola dei
65
Fratelli Cristiani, in via Roma. Conservo di quell’anno,
una foto di gruppo con i due Fratelli, insegnanti e noi,
39 alunni, con il tricolore al centro. Poi sono passato
alla scuola Roma per completare le elementari. Nella
scuola cattolica era stato possibile iscrivermi senza
presentare documenti; passando alla scuola Roma,
pubblica, che richiedeva un documento di identità, mia
madre, al Comune, si trovò di fronte ad una grande
sorpresa. Il figlio, che per sette anni aveva conosciuto e
chiamato Luigi, aveva un primo nome Emilio. Il mistero
si svelò a casa, quando mio padre, messo alle strette,
confessò che, dato che ero il terzo figlio maschio e padre
e suocero erano stati accontentati nel nome, recandosi
all’ufficio anagrafe con l’accordo, tra marito e moglie di
chiamarmi Luigi, in un impeto di ribellione e di novità,
pensò ad un nome nuovo per la famiglia, chiamandomi
Emilio Luigi. Ma, molto coraggiosamente, di questa
decisione, non fece parola con nessuno, tanto che tutti,
e anche lui, mi chiamavano solo Luigi. Dopo, con il
passare degli anni, essendo tutti abituati a chiamarmi
così, sono rimasto Luigi o Luigino; anche per i
Castrofilippesi sono ancora “zi Luigì” e per i miei nipoti
nonno Gigi. Uso Emilio per le firme ufficiali e per il
codice fiscale.
Alla scuola pubblica avevo un bravo maestro Mario
Villani, che era molto severo e pretendeva il massimo
dell’attenzione, usando, qualche volta, la bacchetta sulle
66
nostre mani. Anche di questa scuola ho le pagelle,
quella del ‘33 e quella del ‘36 con scritte un po’ in
grassetto Opera Balilla e fasci Littori, infatti eravamo
inquadrati alla G.I.L. “Gioventù Italiana del Littorio”, che
un po’ nelle ore di educazione fisica e un po’ il sabato
pomeriggio, chiamato sabato fascista, ci teneva in forma,
nelle palestre e negli stadi dove avveniva pure il saggio
ginnico “il 24 maggio”, anniversario dell’entrata dell’Italia
nella prima guerra mondiale.
Si partecipava con grande entusiasmo prima come
Balilla, poi come avanguardista, quindi come giovane
Fascista,
secondo
l’età.
La
nostra
divisa
ginnica
consisteva in un paio di pantaloncini neri, una maglietta
bianca a maniche corte, orlata da una fettuccia nera alle
maniche e al collo, al centro del petto un fascio con
fronde ai lati e scarpette da ginnastica. Le giovani
Italiane
portavano
scarpette
da
ginnastica,
calzini
bianchi, gonna nera a pieghe, camicetta aderente al
corpo, con una grande M, che simboleggiava il nome del
Duce. Oltre la scuola frequentavo pure la chiesa e mi
rivedo in Cattedrale ad ascoltare la messa domenicale e
al catechismo del pomeriggio, e dopo la benedizione,
tutti di corsa, passando dalla sacrestia e dal cortile
attorno al campanile, a prendere i posti migliori per
assistere alle proiezioni del cinema parrocchiale. Mi
ricordo di aver visto un film con Amedeo Nazzari, era
Luciano Serra pilota, che impersonava uno dei nostri
67
eroi nella guerra in Abissinia. Ricordo il vescovo
Vittorino
Facchinetti,
padre
Umile
Oldani,
padre
Illuminato Colombo, quest’ultimo molto amico della mia
famiglia. Aveva l’abitudine di andare in bicicletta e
passando per Collina verde, dove abitavano ormai i miei
genitori, si fermava per riposare, prima di raggiungere la
chiesetta
di
quella
zona,
accettava
una
bibita,
chiacchierando cordialmente, sotto un bell’albero di
limone lunario.
Durante il periodo scolastico, mio fratello Carmelo ed io
abbiamo
avuto
l’idea
di
allevare
bachi
da
seta,
naturalmente per hobby, non per commercio, anche se
ciò ci portava via molto tempo che doveva essere
dedicato allo studio. Alcuni coetanei ci hanno fornito
delle uova di bachi, attaccati su un grande foglio di
carta bianca, per come erano state deposte dalla farfalla;
erano grandi come una testa di spillo, di colore giallo e
diventavano scuri man mano che il baco incominciava la
sua vita, poi dopo circa tre mesi di incubazione, nasceva
un vermetto dalla grandezza di tre millimetri, che forava
l’uovo.
Noi
sempre
attenti
a
questi
eventi
che
aspettavamo con ansia, eravamo già pronti con le più
piccole e tenere foglie di gelso, di cui loro si cibavano
voracemente.
I primi tempi della nascita erano i più faticosi, ci voleva
tanta attenzione e cura, perché i bachi erano così piccoli
che quasi non si vedevano, ma mangiavano continua-
68
mente. Quando diventavano grandi come una sigaretta e
prendevano un bel colorito giallo dorato salivano su dei
rametti a croce, che noi ci eravamo procurati negli alberi
di gelso, cominciavano a tessere la seta, chiudendosi nel
bozzolo, dove restavano chiusi, trasformandosi in crisalide. Quando questa rompeva il bozzolo e ne usciva,
divenuta farfalla, il nostro gioco-lavoro era terminato.
Andando ancora un po’ indietro nel tempo, chi si ricorda
di Busadiya? Era un vecchietto smilzo e magro, aveva
appesi al corpo dalla testa ai piedi molte cose, lattine,
specchietti e ossa che producevano strani suoni, facendoli dondolare con i suoi movimenti.
Aveva anche il tamburo, che annunziava il suo arrivo, e
quando qualche spettatore gli buttava una monetina,
con
una
finta
battaglia,
la
faceva
scomparire,
catturandola, e così viveva con poco, divertendo noi
ragazzi.
Continuando a parlare di vecchie usanze, non si
possono
dimenticare
i
forni
arabi.
Erano
proprio
caratteristici, si indovinava la loro presenza dal buon
odore che sprigionavano. Si entrava da un portoncino
abbastanza largo e al piano terra si trovava un assito in
tavole che serviva ad appoggiare ciò che ognuno portava
da infornare. Dopo queste tavole c’era una buca larga
circa sessanta centimetri, dove stava il fornaio, che si
vedeva solo dalla cintola in su e che aveva alle spalle il
forno, dove veniva cotto tutto ciò che la gente portava,
69
dietro pagamento di pochi soldi, che lui faceva scivolare
in una fessura fatta apposta sull’assito. Anche io sono
stato assiduo frequentatore di quei forni, infatti mia
mamma, con l’aiuto di mia sorella Angela preparava a
volte
pane,
pietanze,
biscotti,
battezzati
da
noi
“tripolini”, e incaricava me o mio fratello di portarli al
forno arabo più vicino, che si trovava in via Liguria,
strada che andando in su e girando a sinistra sboccava
in via Vittorio Veneto, conosciuta dai vecchi tripolini
come Sciara Macchìna. Avevamo preso l’abitudine di
consumare queste delizie, anche quando andavamo tutti
al bosco Littorio, che si trovava tra porta Benito e porta
Azizia, all’ombra degli eucaliptus, per festeggiare la
Pasquetta.
Il bosco Littorio, all’origine era un’ampia area sabbiosa;
negli ultimi anni venti, durante il governatorato di
Badoglio, fu trasformata in parco pubblico, ombreggiato
da gigantesche piante di eucaliptus , dove le famiglie
passavano intere giornate. Un’altra opera memorabile
per la realizzazione dovuta alla volontà ed intelligenza
italiana, fu nei primi anni trenta, la via Balbia, che
univa la Tripolitania alla Cirenaica, mentre prima le due
provincie erano di fatto materialmente separate. Prima
della litoranea, le poche agevoli piste del gran deserto
sirtico potevano essere difficilmente attraversate a causa
delle sabbie invadenti. La nuova strada di circa 2000
chilometri lungo tutto il litorale libico, con i suoi ponti,
70
le case cantoniere disseminate ogni 50 chilometri, per la
sua continua manutenzione, rese rapido ed agevole il
percorso. E’ stata sfruttatissima la barzelletta secondo la
quale Balbo dice orgogliosamente a dei capi tribù in un
ricevimento a palazzo:- Vedete? Prima con le vostre
carovane impiegavate tre settimane per andare da
Tripoli a Bengasi, ora ci potete arrivare in una sola
giornata!- -E’ vero, risponde il capo tribù, ma cosa
faremo negli altri venti giorni?Nel periodo estivo, ogni anno mio papà prendeva in
affitto sulla spiaggia, nella zona chiamata tomba dei
Caramanli, sul lungomare Badoglio, un pezzetto di terra,
con l’obbligo di sistemarvi una cabina in legno. Essendo
mio papà falegname, ne ha costruito una con la
collaborazione di tutti noi, quella era una abitazione che
usavamo per tre mesi e qualche volta qualcuno di noi
restava a dormire, potendo ammirare il mare di sera e ai
primi albori. Proprio di mattina presto, prima che la
spiaggia si popolasse, mio fratello Carmelo ed io
praticavamo un tipo personale di pesca subacquea.
Prendevamo due pentole grosse e profonde, attaccavamo
al loro fondo un impasto di mollica di pane e formaggio
grattugiato e le coprivamo con un panno bianco,
lasciando un foro di circa tre centimetri al centro. Con le
pentole, andavamo in mare, fino a che l’acqua non ci
arrivava al mento, piano piano, facevamo riempire le
pentole dal buco, e le depositavamo sul fondo, ritornan-
71
do a riva. Dopo un po’ di tempo ritornavamo al largo,
correndo quando l’acqua ci arrivava ai ginocchi e allo
stomaco, rallentando quando ci arrivava al collo.
Tenevamo gli occhi aperti anche sott’acqua e potevamo
vedere un’infinità di pesci che gironzolavano attorno al
buco della tela per entrarvi, fino a riempire la pentola.
Rapidamente a testa in giù, la afferravamo con una
mano, chiudendo con l’altra il buco, avviandoci verso
riva, portando in trionfo il nostro bottino. Questa
operazione veniva ripetuta, fino ad ottenere un pasto
abbondante per tutta la famiglia. Da ragazzo, dopo le ore
scolastiche, ho lavorato presso una parrucchiera per
signora, al pian terreno del palazzo Gadzischi, in via
Vittorio Veneto, prima d’arrivare alla Cattedrale. La
proprietaria era triestina, la signorina Ines Kavalla. Ho
cominciato come ragazzo di bottega, poi ho preso a
rispondere al telefono, prendere appuntamenti e fare
qualche shampoo. Quando la Ines faceva le ondulazioni,
io riscaldavo e le porgevo i ferri adatti, che dovevano
essere ben caldi, ma non bruciare i capelli. Per sentirne
il calore, avvicinavo il ferro alla guancia, se era troppo
caldo, lo facevo roteare velocemente, per raffreddarlo e
poi glielo porgevo; con essi Ines creava delle belle
pettinature. Con me lavoravano altre due ragazze, ma la
più brava era la Ines. Una volta si è assentata per una
ventina di giorni, per andare in Italia, ci ha affidato il
suo salone, alle ragazze il lavoro di parrucchiera, a me le
72
chiavi del negozio, la cassa, il libro delle entrate e uscite,
compito che io ho svolto con gran serietà e precisione. Al
suo ritorno, Ines ha trovato tutto a posto e mi ha
elogiato. Ma quel viaggio era servito per tastare il terreno
nella sua città e ben presto vi è ritornata, cantando
“Trieste mia”.
73
L’Officina
Mentre ero ancora a scuola, l’Italia si preparava alla
guerra in Africa orientale, era il 1935. I nostri soldati
guidati da due grandi generali, Badoglio dal fronte
eritreo e Graziani dal fronte somalo, con travolgenti
manovre, dopo aver occupato Adua, Amba Alagi e altri
punti nevralgici, ben presto presero Adis Abeba e tutto il
resto del territorio, sconvolgendo l’esercito etiope. Con
questa conquista il nostro re poteva fregiarsi del titolo di
Imperatore d’Etiopia. Io da casa mia seguivo con molta
attenzione e amor patrio tutti i commenti dati per radio,
in
una
parete
tenevo
appesa
una
grande
carta
dell’Abissinia, dove c’erano segnate tutte le località e ad
ogni conquista, vi spillavo una bandierina. Ho sempre
avuto la passione per la meccanica, che poi è diventato
il mio mestiere.
Nel 1935 sono entrato come apprendista nelle officine
Santagati e Covato e ho avuto la fortuna di essere
assegnato ad un bravo maestro. Questa
officina si
trovava in corso Sicilia, quasi di fronte al palazzo
Tascone, era autorizzata ed ha vinto la gara di appalto
con le forze armate italiane, per la riparazione di tutti i
mezzi fuori uso. Al principale venivano assegnate dalle
autorità 15 macchine da rimettere a nuovo, per lo più
camionette 615, camion 38 SPA , lancia3RO. Venivano
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portate al nostro deposito ed ogni reparto faceva il suo
lavoro, chi in carrozzeria, chi in verniciatura, chi
all’impianto elettrico, chi di frenatura e noi al motore,
cambio e differenziale. Il mio maestro ed io prendevamo
in consegna un motore, che veniva sistematicamente
smontato e pulito, si portavano al comando militare i
pezzi fuori uso che venivano sostituiti con quelli nuovi.
Io, con del cartoncino, facevo tutte le guarnizioni
occorrenti e pronte per il montaggio. Porgevo al maestro
i pezzi, bulloni dadi, tutti puliti ed allineati per
grandezza e misura, il motore veniva montato e si faceva
rullare nel banco prova. Con il tempo, il maestro ha
cominciato a farmi montare qualche pezzo, controllando
tutto, ma dandomi sempre più fiducia. Quando il mezzo
era pronto in tutte le sue parti e rimesso a nuovo, veniva
caricato con delle zavorre, tali, da raggiungere la sua
portata e passava al controllo e revisione dell’esercito.
Passata la revisione, si consegnavano i mezzi rimessi a
nuovo, se ne prendevano altri dal deposito dell’esercito e
si ricominciava da capo.
Durante la corsa automobilistica dei Milioni, abbinata
alla Lotteria di tutta Italia, arrivavano a Tripoli, le
macchine da corsa con le loro scuderie, che venivano
ospitate in varie officine o autorimesse, nei giorni
antecedenti la corsa. Una di queste officine era quella
dove lavoravo io in corso Sicilia. Per noi quei giorni
erano una festa, specialmente per quelli della mia età. I
75
loro meccanici ci permettevano di curiosare e di toccare
le grosse ruote e qualche volta anche dare una mano a
spingere le macchine, a metterle in moto e posteggiarle
nei box, di cui la nostra officina era dotata, mentre fuori,
al cancello, la gente si affollava curiosa, e tanti miei
coetanei mi pregavano di farli avvicinare e io mi sentivo
invidiato e pieno di gioia. Poi quando si disputava la
corsa, mio fratello ed io avevamo il permesso dei miei
genitori di allontanarci fino al circuito della Mellaha.
Arrivavano i più forti assi internazionali di allora, Achille
Varzi, Tazio Nuvolari, Brilli Peri, Taruffi, Borzacchini, vi
erano anche piloti stranieri come Langh ed altri, che con
le loro Mercedes ed Autounion, davano del filo da torcere
alle nostre Alfa Romeo, Maserati, ecc. Allo stadio di
Tripoli venivano pure i più famosi ciclisti, Bartali, Magni,
nella pista, attorno al campo da gioco facevano le loro
competizioni di velocità, di americana a coppie e qui, io,
attaccato alla rete di protezione, sistemata tra le tribune
e la pista, ho avuto la fortuna di parlare e toccare
Bartali, che si era fermato proprio davanti a me, per
aspettare il compagno che faceva il suo turno di corsa.
Che
grande
emozione!
Queste
sono
continuate
assistendo alle gare dei corridori tripolini, con il trio più
in vista degli assi del pedale Cason, Berti, Vella. Tripoli
si è distinta anche nel pugilato, con il bravo e forte
Santino De Leo, peso massimo, che aveva il mulino in
sciara Macchìna e noi assistendo ai suoi incontri ed ai
76
suoi poderosi uppercut e pesanti diretti, lo incitavamo
gridando
“dai
sciara
Macchìna”.
E’
arrivato
a
conquistare il titolo di campione europeo. Un altro bravo
campione è stato Vincenzo Anastasi, che conquistò il
titolo europeo dei pesi mosca. Era molto dinamico,
sembrava danzasse sul ring, mentre combatteva e
metteva a segno i suoi veloci diretti e i suoi ripetuti unodue. Con lui ho avuto più vicinanza, perché, dopo
sposato, sono andato ad abitare in via Raffaello, 31.
Questa strada cominciava da Corso Sicilia e finiva in via
Ponchielli. Tra queste due grosse vie, ve ne erano altre
trasversali, come via Bellini, via Verdi, via Vignola, via
Canova, in una di queste vi era lui, Vincenzino, che
aveva il panificio dove io ogni mattina compravo il pane.
Era bello rivedersi dopo un suo incontro e discutere e
complimentarsi della sua vittoria sul ring.
Anche il nuoto aveva la sua importanza e si concludeva
con la gara regina annuale della traversata del porto,
dove si cimentavano i più forti nuotatori fondisti. Non
dimentichiamoci del calcio. A Tripoli vi erano diverse
squadre
dilettanti,
che
facevano
furore
e
si
distinguevano, come l’Ittiad, con l’attaccante Zentuti,
bravissimo a realizzare bei gol. Un avvenimento che
merita
essere
ricordato
e
al
quale
ho
assistito
personalmente è stato l’arrivo di Mussolini a Tripoli. Era
il 18 Marzo 1937. Da qualche settimana prima del suo
arrivo, ogni sera, perché doveva arrivare di sera, si
77
provavano l’illuminazione, le sfilate dei meharisti, con i
loro cammelli, che procedevano a passo ondeggiante, e,
al suono delle trombe, i reparti di cavalleria al galoppo.
Io partecipavo pure per quello che mi competeva,
inquadrato nei reparti della gioventù. Dopo le prove, la
grande notte è arrivata, con l’entusiasmo di tanti, mai si
era vista Tripoli così illuminata a giorno, imbandierata e
festosa. Il Duce arrivava da Bengasi, percorrendo la via
Balbia, opera grandiosa, che univa la Cirenaica alla
Tripolitania, da poco costruita e che portava il nome del
governatore. Arrivato a Tripoli, Mussolini percorse a
cavallo tutto il lungomare Volpi, poi si è immesso in
piazza Castello, dove, sempre a cavallo, ha tenuto un
discorso. Ha proseguito per corso Vittorio, passando
davanti la Cattedrale, e ancora fino al palazzo del
governatore, anche questo inondato di luce. Mi sentivo,
e
sicuramente
appartenere
ad
anche
un
tanti
popolo
altri,
così
orgoglioso
glorioso.
Poi
di
gli
avvenimenti sono precipitati, ma nessuno quella notte
avrebbe immaginato come.
Quando gli Italiani erano arrivati a Tripoli, nel lontano
1911, (tra essi c’era mio padre), avevano trovato solo
deserto; la loro industriosità rese quel deserto un
giardino. La colonizzazione agricola fu una delle cose più
belle creata, poi, nel periodo fascista. Nacquero dal
nulla, nel deserto, popolati dai coloni, interi villaggi,
78
come Oliveti , Bianchi, Giordani, Breviglieri, Crispi,
Garibaldi, Micca, Marconi ed altri.
La mattina del 3 novembre 1938 fu una giornata
veramente storica per la Libia. Più di una decina fra i
più grandi piroscafi italiani, tra i quali anche qualche
transatlantico, tutti imbandierati e inalberati con il
“gran Pavese”, arrivarono nel porto di Tripoli, con un
carico di ventimila italiani, venuti ad arricchire con il
loro
lavoro
la
“Quarta
sponda”.
Da
quelle
navi
sbarcarono tutti i ventimila, uomini, donne, bambini e
con un lungo corteo, ordinato, a piedi, dal porto
arrivarono fino a piazza Castello. Era una fiumana di
gente, che silenziosa, camminava in mezzo ad ali di folla
plaudente. Assistevo commosso a questo grandioso
spettacolo, pensando che anche la mia famiglia ed io,
avevamo contribuito, con il lavoro, a rendere più bella
Tripoli. Dalla piazza Castello, dopo il discorso del
governatore e la benedizione del vescovo Facchinetti, i
ventimila partirono alla volta dei loro villaggi, a bordo di
centinaia di automezzi militari. Al loro arrivo, ogni
famiglia trovò una bella casetta arredata, la mucca, il
pollaio, un pezzo di terreno da coltivare e tutti gli
attrezzi agricoli. Quei villaggi, con il lavoro dei coloni
italiani, poi sono diventati centri abitati, dove gli arabi
del luogo hanno visto che anche dalla sabbia, potevano
nascere alberi, ulivi, viti, aranceti.
79
La guerra a Tripoli
Nel 1939 l’Europa entrò in guerra, e noi a Tripoli
incominciammo a sentire le prime privazioni di beni, di
cui fino a quel momento avevamo beneficiato. Nel
pomeriggio del 10 giugno 1940 il popolo di Tripoli sentì
alla radio e nelle piazze il discorso del Duce, che aveva
dichiarato guerra alla Francia e alla Gran Bretagna;
anche io ero lì, illudendomi, come tanti altri che sarebbe
stata una passeggiata. Ma la stessa sera, subimmo il
primo bombardamento da aerei francesi, partiti dalla
Tunisia.
Questo
fu
il
primo
shock,
giunto
così
rapidamente e inaspettato. Ma un altro ne doveva
ancora arrivare, la morte improvvisa di Italo Balbo, che,
nel recarsi ad ispezionare le truppe al confine con
l’Egitto, a bordo di un SM79, era stato abbattuto dalla
nostra stessa contraerea, che si trovava sulla nave San
Giorgio, ancorata nel porto di Tobruk.
La notizia fu accolta con grande sbalordimento, ma
anche col dispiacere di aver perso, così banalmente, per
un errore, si disse, di identificazione, un personag-gio
tanto rispettato anche dai nemici ed avversari.
80
All’imponente funerale, formato da otto bare, il 29
giugno 1940, partecipammo tutti, nessuno escluso. Al
suo posto fu nominato il generale Rodolfo Graziani,
perché generale dell’esercito e protagonista in Etiopia,
mentre Balbo era stato un triunviro della marcia su
Roma.
(Funerali di Italo Balbo)
A
Tripoli
cominciò
la
vera
guerra,
continui
bombardamenti di aerei inglesi provenienti da Malta, ci
costringevano a correre dentro i rifugi e nelle campagne
fuori città. Noi abitavamo a Collina verde, distante tre
chilometri da Tripoli, e lì, chi dentro casa, chi attendato
nel giardino adiacente, passavamo le notti. Nella notte
del 21 Aprile 1941, dopo un’ora di bombardamenti,
abbiamo visto, come d’incanto, tutto illuminato. Gli
aerei inglesi avevano sganciato dei razzi illuminanti, a
81
cui erano agganciati dei piccoli paracadute; quelle luci
erano i segnali dei luoghi da colpire. Mentre noi
guardavamo quelle luci, si scatenò il finimondo. Per
quarantacinque minuti si sentirono passare proiettili,
non più sopra le nostre teste, ma striscianti, perché
erano proiettili da 305 sparati dalle navi della flotta
inglese. L’indomani, scendendo in città, trovammo un
disastro, Tripoli era irriconoscibile, ovunque macerie di
fabbricati che erano stati distrutti, senza incontrare la
più piccola resistenza da parte nostra. Al porto oltre alla
distruzione di navi, sul piazzale davanti al nostro bar,
trovammo un proiettile da 305 inesploso, che aveva
centrato in pieno il faro ed era venuto a cadere davanti
al bar. Dopo che i genieri lo resero innocuo, con
l’incoscienza della gioventù, mi feci scattare una foto,
con un piede sopra, come se fosse stato preda di guerra.
Il rifugio della Banca d’Italia, invece, era stato centrato
in pieno da uno di quei proiettili, che esplodendo, aveva
provocato tanti morti; esso era stato costruito per le
bombe aeree, ma non ha resistito a quelle navali, che
provenivano orizzontalmente.
La guerra negli anni 40-41 in Africa settentrionale si
svolse aspra da tutti e due i fronti, Graziani avanzò con
le truppe italiane oltre il confine con l’Egitto fino ad
occupare Sidi Barrani e Massa Matruk, ma non andò
oltre. I miei due fratelli più grandi erano sui fronti di
combattimento. Gli inglesi e gli italo-tedeschi, comandati
82
dal
generale
Rommel,
la
volpe
del
deserto,
si
fronteggiavano, finchè l’esercito inglese, travolgendo
quello tedesco, entrò a Tripoli, era il 23 gennaio 1943.
Questa volta, non ho potuto seguire questa guerra,
segnando le vittorie con le bandierine, come avevo fatto
con quella d’Etiopia, sia perché non ci furono vittorie,
sia perché l’ho vissuta sulla mia pelle e c’era poco da
stare
allegri.
Arrivato
a
questo
punto
delle
mie
narrazioni e dalle date, mi accorgo che anche la mia
gioventù è passata, ma mi restano, intatti, tutti i ricordi.
Termino, salutando tutti i lettori, ma in particolare il
caro Paolo Cason, che con la sua tenacia, continua a
tenere vivo il suo sito e a tenerci uniti, a lui va un
indimenticato ricordo e un grazie di cuore.
83
84
Perché questo libro
Leggendo i racconti del Sig. Emilio Luigi Parlato, non
nascondo di avere provato una forte emozione e ho
voluto raccogliere le pagine scritte e pubblicate sul sito
di Paolo Cason, nella sezione “Caro diario…”
http://www.paolocason.it/Libia/Pagine/Caro%20diario.html
previa autorizzazione del Sig. Emilio.
Questi racconti, sono uno spaccato, oltre che della vita
del Sig. Emilio, anche di una Sicilia che ha vissuto
momenti duri, in cui riconosciamo i sacrifici dei nostri
padri, in una terra flagellata dalla povertà e dall’emigrazione.
Questo libro, già e-book, nasce per la volontà di non
perdere questo patrimonio culturale, che investe in
pieno il nostro piccolo centro, Castrofilippo, che altrimenti potrebbe andare perso per il mancato rinnovo di
uno spazio web ed essere cancellato per sempre dalla
memoria degli uomini.
Grazie, pertanto, al Sig. Emilio per avere autorizzato
questa raccolta e grazie ancora per avermi emozionato
con la speranza che emozioni anche altri lettori.
Calogero Cinquemani
85
86
Ringraziamenti
A tutti i miei familiari che mi hanno supportato,
sopportato, seguito e aiutato.
A Giovanni Rizzo Presidente della Pro Loco Castrofilippo,
che ha fatto da padrino alla mia storia e ai suoi
collaboratori.
Per ultimo, non certo per importanza, a Lillo
Cinquemani, paziente e intelligente coordinatore di
queste pagine, il cui incitamento e aiuto hanno reso
possibile la realizzazione di un sogno che mi ha riempito di orgoglio.
Emilio Luigi Parlato
87
88
INDICE
PREFAZIONE...................................................................3
INTRODUZIONE ..............................................................5
CAPITOLO I .....................................................................9
Ricordi di Libia e .............................................................9
della Centrale di Gharian.................................................9
Il bisonte di Gharian ....................................................9
Il collaudo ..................................................................13
CAPITOLO II ..................................................................15
Da Tripoli a Hon ............................................................15
orizzontarsi nel deserto..................................................15
Bashir ........................................................................15
Viaggio a Hon.............................................................17
Permanenza a Hon .....................................................21
Ritorno a casa ............................................................24
CAPITOLO III .................................................................31
Ricordi e Peripezie di un Tripolino .................................31
Fuga da Tripoli...........................................................31
Arrivo in Sicilia ..........................................................34
Chiamata alle armi.....................................................36
Ritorno a Tripoli .........................................................39
Permanenza a Tripoli .................................................42
Ritorno in Sicilia ........................................................51
Addio a Tripoli............................................................55
CAPITOLO IV.................................................................61
Ricordi Tripolini di Gioventù..........................................61
La mia infanzia ..........................................................61
L’Officina....................................................................74
La guerra a Tripoli .....................................................80
Perché questo libro ........................................................85
Ringraziamenti ..............................................................87
89
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