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Ti Ricordi?... - Comune di San Secondo di Pinerolo

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Ti Ricordi?... - Comune di San Secondo di Pinerolo
70° ANNIVERSARIO
70° ANNIVERSARIO
DELLA LIBERAZIONE
DELLA LIBERAZIONE
1945 - 2015
1945
2015
“TI RICORDI?...”
Per non Dimenticare
“ Ti Ricordi?...”
raccolta di testimonianze
COMUNE DI SAN SECONDO DI PINEROLO
e
COMUNE DI PRAROSTINO
Per non dimenticare
Raccolta di testimonianze
Comuni di
San Secondo
di Pinerolo
Prarostino
1
2
70° ANNIVERSARIO
DELLA LIBERAZIONE
1945 - 2015
“ Ti Ricordi?...”
Per non dimenticare
Raccolta di testimonianze
Comuni di
San Secondo
di Pinerolo
Prarostino
3
Indice
Presentazione dei Sindaci................................................................................... 5
Il diritto alla memoria, il dovere del ricordo, di Paolo Cozzo................................... 6
La storia nelle storie, di Gian Vittorio Avondo....................................................... 9
Testimonianze di vita durante la guerra
La guerra vista con gli occhi e con il cuore, di Pierina Manavella.......................... 13
Un ricordo, di Livia Bertea................................................................................. 16
Incontro con Gina Saracco................................................................................ 17
Accadde 70 anni fa a San Secondo, di Mauro Gardiol.......................................... 20
Autunno 1943: Camilla Ravera ed Umberto Terracini
a San Secondo, di Gian Vittorio Avondo.............................................................. 21
Parlano... le mamme di allora, di Albertina Gay................................................. 22
Altri momenti di vita quotidiana, di Egidio Paschetto........................................... 23
Testimonianza di Aurelio Bertalot e Olga Griglio.................................................. 26
Testimonianza di Margherita Porcero ................................................................. 27
Testimonianze di Partigiani
In ricordo di Gran Papà..................................................................................... 29
Appuntamento con Valter Gardiol...................................................................... 30
Ricordi di Francesco Asvisio............................................................................... 33
Giovanni Iaia Partigiano ................................................................................... 35
Testimonianza di Mario Mauro........................................................................... 36
Arnaldo Genre, un pastore valdese tra i partigiani............................................... 39
Testimonianze di Internati
Testimonianza di Alberto Avaro.......................................................................... 41
Per Ricordare, di Giovanni Cogno.............................................................…....... 44
Testimonianza di Aldo Bouchard........................................................................ 50
Testimonianza di Hide Costantino...................................................................... 53
Una storia particolare
In ricordo di Zio Vittorio, di Giovanni Forestiero.................................................. 57
Martiri della Libertà, partigiani ed internati
Prarostino e San Secondo................................................................................. 59
4
“La guerra non si può umanizzare,
si può solo abolire”.
Albert Einstein
Questo volume è nato dal desiderio di far conoscere alle generazioni più giovani
gli avvenimenti, i dolori le fatiche della nostra gente, civile e militare, sopportate
durante la seconda guerra mondiale non solo con semplici racconti ma riportando
interamente alcune interviste fatte ai veri protagonisti della vicenda. Ci scuseranno
i familiari se non sono stati riportati tutti i nomi dei nostri concittadini che hanno
vissuto queste vicende, ma i riferimenti a documenti di storia ufficiali, recuperati
nell’archivio storico non sono modificabili e purtroppo di alcune persone non si hanno
più contatti neanche con i parenti.
L’occasione del 70° anniversario per la pubblicazione del volume è sembrata quella
giusta e la collaborazione tra il Comune di San Secondo, artefice dell’idea, ed il
Comune di Prarostino vuole rammentare che i due comuni sono stati a suo tempo
un’ unica amministrazione e oggi, sebbene divisi giuridicamente, vivono gli stessi
problemi, le stesse difficoltà, e come comuni confinanti condividono servizi e i cittadini
si amalgamano nella vita quotidiana nei negozi, a scuola, ai campi sportivi, in chiesa
come nel tempio valdese.
La speranza è che i giovani possano imparare da queste storie e soprattutto che non
dimentichino gli atroci sacrifici dei nostri avi per aver creduto in un ideale di libertà e
di giustizia al quale è giusto guardare non come punto di arrivo ma di partenza, senza
considerare in maniera superficiale tutto quello che oggi abbiamo ottenuto.
Fiorella Vaschetti
Sindaco del Comune
di Prarostino
Adriana Sadone
Sindaco del Comune
di San Secondo di Pinerolo
5
Il diritto alla memoria, il dovere del ricordo
«La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei
cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio
del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli
italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che,
anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a
rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati». È questo
il testo della legge con cui nel 2000 il Parlamento italiano ha istituito il “Giorno della
Memoria” 1.
Come previsto dalla stessa legge, «in occasione del “Giorno della Memoria” sono
organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di
riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto
al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da
conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia
nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere».
In ossequio alla legge, i comuni italiani (con modi e tempi determinati dalle sensibilità
delle singole amministrazioni) hanno iniziato a inserire il 27 gennaio nei calendari
delle ricorrenze civili, a fianco di date (il 25 aprile e il 4 novembre) che godevano di
una tradizione consolidata da decenni.
Il Comune di San Secondo è stato uno dei primi, nel Pinerolese, a cogliere lo spirito
della legge 211/2000, organizzando per il “Giorno della Memoria” celebrazioni
pubbliche, aperte a tutta la cittadinanza ma con una particolare attenzione alle scuole
e ai giovani, individuati come destinatari privilegiati di un messaggio che qui poteva
ancora essere portato da alcuni testimoni diretti (come i sansecondesi Alberto Avaro e
il compianto Giovanni Cogno) delle pagine più oscure della storia del Novecento. C’è
da interrogarsi, allora, sui motivi profondi che, una volta l’anno, spingono una piccola
comunità a riflettere sui drammi del passato, a chiedersi “come sia stato possibile”,
a rinnovare l’impegno perché ciò che un tempo è stato non possa avverarsi mai più.
Forse la risposta a questa domanda va trovata nella stessa storia di un paese che,
già all’indomani della sua liberazione, mostrava la volontà di ricordare e di esercitare
le memoria come strumento di elevazione collettiva. Sin dal giugno 1945, a poche
settimane dalla Liberazione, l’Amministrazione Comunale si impegnava a segnalare
alle autorità competenti coloro che, a sua conoscenza, erano stati i combattenti per la
libertà e, fra questi, coloro che erano caduti. Fra i primi atti del primo sindaco di San
Secondo nell’era postfascita, Giovanni Vicino (già componente del locale Comitato
di Liberazione Nazionale e nominato capo della ricostituita amministrazione con
provvedimento del CLN del 29 aprile 19452), vi fu infatti la segnalazione al Distretto
1 Legge n. 211 del 20 luglio 2000
2 Archivio del Comune di San Secondo (= ACSS), mazzo 786, Segnalazione della composizione dei CLN
e delle giunte comunali, 2 luglio 1945. La Giunta comunale di San Secondo, nominata da CLN ed entrata
in carica il 28 aprile 1945, era composta da: «Vicino Giovanni fu Giuseppe, agricoltore, appartenente
al partito liberale, sindaco; Griglio Giacomo fu Giovanni, agricoltore, appartenente al partito liberale,
vicesindaco; Borgio Eraldo, operario, comunista, Lignetto Giuseppe, operaio, democristiano; Rivoiro
Arturo, esercente, liberale; Bertea Albino, operaio, socialista; Godino Paolo, agricoltore, socialista;
6
militare dei «patrioti di questo Comune caduti per la liberazione nazionale dall’8
settembre 1940»3. L’elenco inviato era:
Godino Delio, di Paolo e di Costantino Dina Caterina, classe 1921, deceduto a San
Secondo di Pinerolo l’11 novembre 1944 in seguito a ferite d’arma da fuoco (ucciso
dalla brigata nera), appartenente al reparto 45° div. alpina “Sergio Toya”.
Odino Gustavo, di Giovanni e di Gardiol Anna Rachele, classe 1924, deceduto a San
Secondo di Pinerolo il 7 marzo 1945 in seguito a ferite d’arma da fuoco (ucciso dalle
brigate nere), appartenente al reparto 45° divisione alpina “Sergio Toya”;
Fossat Giuseppe Carlo, di Bartolomeo Carlo e di Picca Virginia Maria, classe 1926,
deceduto al Colle della Valletta, Rodoretto, Prali, l’11 agosto 1944 in seguito a ferite
d’arma da fuoco (ucciso in combattimento in seguito a rastrellamenti), appartenente
al reparto 44° div.;
Monnet Luigi Ernesto, di Giovanni Pietro e di Monnet Adelina, classe 1920, deceduto
a Pinerolo il 10 marzo 1945 in seguito a ferite d’arma da fuoco (fucilato dai tedeschi),
appartenente al reparto 5° div. Alp. Brigata Superga “Bruno Balbis”. Batt. Pino;
Sansone Tonino Vincenzo di Gaspare, classe 1920, stato fucilato dai tedeschi il 17
ottobre 1943 in questo comune, borgata San Bartolomeo. Il predetto non risulta fosse
già iscritto nelle formazioni partigiane ma si teneva però sempre a contatto con loro,
pur facendo armato vita da solo presso famiglie private;
Paget Cesare fu Cesare di Pagetto Maddalena, classe 1914, stato fucilato dai tedeschi
a San Secondo di Pinerolo il 17 novembre 1944”.
Sappiamo che di partigiani Sansecondesi morti a San Secondo ve ne furono anche
altri (come Lino Dagotto e Michele Fornero, ammazzati in cima alla Costa l’8 agosto
1944, Giovanni Cottura, freddato a San Bartolomeo il 27 settembre 1944 e, Stefano
Peraldo, ammazzato al Bric il 12 dicembre 1944, mentre Enrico Rivoira venne ucciso
a Bricherasio il 4 settmbre 1944, il ligure Giovanni Iaia, giustiziato in Via Valpellice
l’11 novembre 1944), per non parlare dell’eccidio di 9 persone (Giuseppe Barotto,
Arno Costantino, Michele Magnano, Ernesto Paschetto, Remo Paschetto, Cesare
Simondetto, Aldo Nidasio, Cesare Paget e Alberto Coisson), che il 17 novembre 1944
insanguinò il Bric, allora nel territorio di San Secondo. Quel che ci importa qui
sottolineare è lo zelo, la rapidità, verrebbe da dire l’ansia che il Comune mostrò nel
ricordare i morti (quelli caduti dalla parte giusta), nonché tutti coloro che avevano
combattuto per la causa della libertà. Accanto alla lista dei caduti, vi era infatti
l’elenco dei «partigiani combattenti»: Gallea Aldo, Benedetto Giov. Lorenzo di Isidoro,
Fornerone Walter di Ernesto, Asvisio Renato di Ernesto, Monnet Giacomo, Gaydou
Arturo di Giov. Giacomo, Stallè Claudio di Alfredo, Gardiol Walter Daniele di Attilio,
Barone-Giuvé Attilio di Giuseppe, Ferrero Ugo di Camillo, Bertin Renato Enrico di
Amico Enrico, Simond Eli di Luigi, Roman Ugo di Paolo Dionigi, Rostan Aldo di Orazio
Alessio, Mauro Mario di Luigi, Godino Guido Valdo di Giov. Michele». Vi erano poi i
morti in guerra, i dispersi, gli «irreperibili»: «Bruno Felice, caduto in Germania; Boeris
Felice, caduto nel Montenegro; Pagetto Mario, caduto in germania; Godino Dante,
caduto in Germania; Comba Aldo, caduto in Croazia; Caffaratti Giovanni, disperso in
Fornerone Aldo, agricoltore, liberale; Camusso Luigi, agricoltore, democristiano; Solera Giovanni,
agricoltore, liberale». Al Comitato locale di Liberazione Nazionale apparteneva anche il dott. Ros
Sebastiano Raoul, medico, appartenente al Partito d’Azione».
3 ACSS, mazzo 786, Nota del 22 maggio 1945.
7
Russia, Romano Alfredo, disperso in Russia, Rostagno Rinaldo, disperso in Russia,
Romano Cesare, disperso in Russia»4. In pochi mesi il Comune aveva realizzato una
sorta di anagrafe di coloro che, con le armi, avevano testimoniato la fedeltà alla patria
e, dopo l’8 settembre 1943, anche la scelta della libertà. Era il primo, indispensabile
passo, per costruire, in un paese devastato, ferito, offeso dalla guerra e dai suoi
drammi, una memoria intesa come linfa vitale di quel nuovo mondo che si era aperto
dopo la Liberazione. Lo possiamo percepire nelle parole, accorate ed emozionate,
di Vicino ai suoi concittadini, il 30 aprile 1945, due giorni dopo il suo insediamento.
«Nell’assumere la provvisoria amministrazione del Comune rivolge il suo reverente
pensiero a tutti i caduti, carcerati ed esuli politici e il suo affettuoso e riconoscente
saluto a tutti gli eserciti alleati e a tutte le associazioni partigiane che hanno col loro
coraggio e la loro tenacia liberato la Patria dai nemici interni e stranieri. Rivolge pure
il suo saluto cordiale a tutta la popolazione di San Secondo assicurando che farà del
suo meglio per risolvere nell’interesse comune i gravi problemi del momento e per
amministrare la cosa pubblica con rettitudine e equanimità. Invita tutti i cittadini a
mantenersi disciplinati nel loro stesso interesse e a rientrare nella normalità rispettando
la legge, il diritto e la giustizia. VIVA L’ITALIA»5.
Qualche anno dopo, in occasione delle festività natalizie del 1949, il nuovo sindaco
(Alessandro Gardiol) rivolge gli auguri ai suoi concittadini ricordando il valore della
libertà e della pace «che sono tornate nelle nostre famiglie dopo tanti anni di
schiavitù, di guerre, di odio, di dolore e pianto». Il sindaco chiedeva poi a se stesso (e
invitava ogni sansecondese a fare altrettanto): «ho lavorato realmente per ricostruire
moralmente e materialmente il mio paese? Ho dato tutto il mio appoggio a coloro che
realmente lavorano per il benessere comune?»6.
L’impegno per la rinascita del paese, resa possibile solo dall’unione delle forze e
dal rispetto reciproco, implicava un diritto alla memoria che si trasformava anche in
un dovere del ricordo. È con questa consapevolezza che le amministrazioni di San
Secondo hanno tentato nel corso degli anni di fissare nello spazio (fisico e mentale)
i segni di un tempo man mano più lontano, eppure sempre denso di significato. La
Resistenza è stata dapprima celebrata solennemente nel viale della Rimembranza e
nel monumento ai caduti insieme ai morti delle due guerre mondiali ( ma anche della
guerra, assai meno gloriosa, combattuta in Spagna dalla parte di Franco), nonché
nelle lapidi e nei cippi che ricordavano i luoghi delle esecuzioni dei partigiani. Essa è
poi entrata nella toponomastica del paese, attraverso la dedicazione di vie ad alcuni
dei martiri della guerra di liberazione (Godino, Odino, Fossat). Nel 1967 San Secondo
partecipò, insieme a molti altri comuni, all’edificazione di un monumento a ricordo
della Resistenza e della lotta partigiana nel Pinerolese: il Faro della Libertà a Prarostino,
paese che negli anni della Resistenza era parte del comune di San Secondo. Il legame
con Prarostino (e con Osasco, che il regime fascista accorpò pure a San Secondo) è
stato rievocato nel 2005, in occasione del 60° anniversario della Liberazione, quando
le tre amministrazioni comunali organizzarono una solenne celebrazione congiunta,
promuovendo anche la pubblicazione di un opuscolo documentario di cui in questa
sede sono state riprodotte diverse parti. Erano quelli anni di intensa riflessione sul
4 Ibid., Lettera 19 febbraio 1947 al comando distretto militare di Pinerolo.
5 Ibid., Comunicato del Sindaco, 30 aprile 1945.
6 Ibid., Bozza di messaggio del Sindaco Alessandro Gardiol in occasione delle festività natalizie 1949.
8
passato: da poco era stato istituito il “Giorno della memoria”, e anche l’amministrazione
comunale di San Secondo aveva voluto lasciare un segno concreto del suo omaggio
ai testimoni degli orrori dei campi di concentramento intitolando una via nel centro
del paese agli ex internati e deportati, nei pressi della quale venne posta una lapide
commemorativa. Al di là della forza evocativa di un monumento, della fredda perennità
della pietra, la memoria si alimenta di pensieri, di idee, di parole. Raccogliere
e tramandare quelle di chi è stato testimone diretto delle pagine più oscure del
Novecento, e insieme quelle di chi ha vissuto la quotidianità eroica degli anni tragici in
cui l’Italia seppe tuttavia ritrovare orgoglio e dignità, rappresenta il modo più efficace
di riannodare, nel segno del Ricordo, i vincoli ideali e morali di una comunità.
Paolo Cozzo
La Storia nelle storie….
Per quanto piccolo il Comune di S. Secondo rappresenta un evidente esempio di
come l’ultimo conflitto mondiale abbia avuto carattere di “universalità” e non abbia
saputo risparmiare nulla e nessuno: non solo le realtà locali per quanto minuscole e
decentrate, ma anche i singoli individui.
Nei centri principali del municipio, che al tempo della guerra di liberazione erano 3
(Prarostino ed Osasco, oltre il capoluogo), cui va sommato un congruo numero di
borgate, si verificarono innumerevoli eventi bellici e tra questi uno in particolare,
il massacro del Bric rappresenta, per numero di vittime, la seconda strage nazista
del Pinerolese, dopo quella di Cumiana, ove morirono 51 civili inermi. Non solo,
ma la stessa Prarostino e le sue frazioni, furono all’origine della Resistenza armata
pinerolese ed oggi, con il faro che ogni notte si illumina per ricordare le oltre 600
vittime di questa pagina gloriosa, ne costituiscono un vero nido di memorie.
Analogamente si può dire delle storie personali di molti abitanti del paese, a quel
tempo giovani o addirittura bambini. Tra di esse, infatti, sono rappresentate quasi
tutte le storie di vita vissute, a titolo diverso, dalle donne e dagli uomini di quel tempo:
quella del soldato travolto dai fatti dell’8 settembre, quella del partigiano, quella del
deportato e, più semplicemente, quella del civile, del contadino non più in età di
leva, costretto tutti i giorni a fare i conti con le restrizioni alimentari, i rastrellamenti,
le requisizioni di vettovaglie ed animali, operate indifferentemente da nazifascisti o
partigiani. Le prime, per così dire a…. “fondo perduto”, le seconde “rimborsate” da un
“buono”, un pezzo di carta scritto a mano (un po’ più elaborato: stampato a ciclostile e
con la stampigliatura della brigata, nei mesi conclusivi della Guerra di liberazione) che
poi nel dopoguerra produsse effettivamente un risarcimento. Cito proprio a questo
proposito un interessante documento conservato nell’Archivio Storico del Comune
(Faldone 786 – titolo “Pratiche danni partigiani”) su cui sono elencate, in 6 fittissime
pagine, un numero incalcolabile di requisizioni che vanno dal vino (mai meno di un
9
ettolitro) ai bovini, dai cavalli ai quintali di frumento o di altri cereali, dalla carne al
legname per la stufa, dalla radio alla bicicletta….. Se si pensa che queste requisizioni
furono unicamente causate dai partigiani (le sole di cui si può avere riscontro, come
detto), bisogna considerare che quelle degli avversari furono almeno altrettante e che
di conseguenza per i civili rimaneva ben poco per sopravvivere.
E’ proprio questo, in fondo, uno dei temi su cui si sviluppa la testimonianza di Egidio
Paschetto che, ormai troppo anziano per essere reclutato nell’esercito (classe 1909),
fu testimone diretto dell’occupazione tedesca e delle scorribande della Brigata Nera
pinerolese che aveva nel ben conosciuto Lamy Martinat (poi condannato all’ergastolo
in Assise nel 1946 e graziato l’anno successivo) uno dei suoi principali referenti.
La testimonianza di Paschetto, si rivela oltremodo suggestiva in quanto si colloca a
mezza strada tra la rievocazione di vicende storiche e la cronaca di vita quotidiana.
Tra gli episodi legati alla guerra il testimone ricorda…. E come non potrebbe?…. La
morte di Tonino Sansone, cui egli fu costretto ad assistere. E’ questa, certamente una
tra le testimonianze più crude e realistiche del fatto: il reperimento del carro su cui
caricare il cadavere, la coperta entro cui avvolgerlo….. il braccio del povero partigiano
che spenzolava dal carro perché era stato spezzato in più punti…
Il racconto di Gina Saracco (1926), pur avendo come sfondo l’esperienza partigiana
dell’allora giovane studentessa dell’Ist. Magistrale, punta molto a definire quali furono
le tappe fondamentali della sua presa di consapevolezza. Incapace, come tutti i giovani
della sua età di sviluppare una critica seria al fascismo, ella fece la scelta partigiana
dopo le drammatiche giornate del 25 luglio, quando fu disvelata la corruzione degli
uomini al potere, dell’8 settembre, quando si capì era stato abbandonato a se stesso
e del 17 ottobre ’43, giorno del primo rastrellamento a Prarostino, quando si capì
quanto fosse brutale il modus operandi nazista.
Mauro Gardiol, nella sua testimonianza ci permette invece di osservare la guerra con
gli occhi di un adolescente quale lui era durante l’occupazione nazista. La storia che
racconta, per quanto breve, getta una luce sinistra sugli uomini della Brigata Nera
pinerolese che, nel novembre 1944 uccisero i partigiani Francesco Iaia e Delio Godino
di S. Secondo e narra di un’angosciante (e dimenticata) trattativa per il rilascio di
alcuni civili presi in ostaggio dai fascisti, tra i quali c’era suo padre.
La triste esperienza di Enrico Monnet (1922), ci riconduce a quella che fu la storia degli
oltre 700.000 deportati in Germania dopo il crollo dell’8 settembre. La resa ai tedeschi
nei Balcani, i campi di lavoro in Westfalia, il ritorno a casa quasi in incognito…. Perché
le mutazioni fisiognomiche che aveva subito impedivano ai suoi amici e parenti di
riconoscerlo.
Altrettanto significativa e, se possibile, ancora più ricca e più drammatica, l’esperienza
che toccò in sorte a Giovanni Cogno. Anch’egli, infatti, si trovava nei Balcani (alle
Bocche di Cattaro) al momento dell’armistizio, ma anziché arrendersi, decise con due
compagni di trovare scampo tra i partigiani di Tito. La scelta partigiana, purtroppo
non lo salvò dalla deportazione perché, caduto in mano tedesca mentre svolgeva
un compito che gli era stato affidato dal suo comando, fu trasferito su una tradotta
blindata a Dachau, lager terribile ove furono detenuti oltre 9000 italiani. Il ricordo
che Giovanni Cogno conserva del campo bavarese è intriso di sofferenza, terrore,
speranza e si rivela particolarmente vivido nella rievocazione della liberazione del
campo, avvenuta nell’aprile 1945 con l’ingresso dei tank americani; quei carri che
10
il testimone ricorda “giganteschi” e “personalizzati” con le fotografie di Hitler e
Mussolini. Il ritorno a casa del deportato poi, rappresenta nel suo racconto, in qualche
modo una sorta di “quadratura”, destinata a chiudere questa sua tragica esperienza
di guerra; ritornando al punto ove tutto era cominciato…. Egli infatti, giunto a
Pinerolo a conclusione del lungo viaggio dalla Germania, si imbatté in Ettore Serafino,
indimenticato comandante partigiano, ma soprattutto ufficiale del suo reparto alpino
al tempo del conflitto con la Francia del 1940.
L’ultima testimonianza che vogliamo ricordare in questo breve escursus è quella di
Alberto Avaro (classe 1920), che proprio il giorno del suo venticinquesimo compleanno,
il 12 settembre 1945, fece ritorno a casa dopo aver trascorso quasi 2 anni nel campo
di Setrup, nei pressi di Düsseldorf. La tragica vicenda del deportato, inizia, come
quello di molti altri suoi compaesani nel giugno 1940 quando, con il III° Rgt Alpini,
btg. Pinerolo, fu dislocato in alta val Pellice ed inviato con i compagni ad occupare il
settore di Abries-La Monta.
Dopo le tribolazioni del conflitto con la Grecia, l’8 settembre lo colse in Albania e,
paradossalmente, la sua fortuna fu quella di non trovare posto su un battello carico
di soldati, in partenza per Ancona, affondato poco dopo il distacco dalla banchina
del porto. Il ricordo del viaggio verso il campo di prigionia, avvenuto dopo un
periodo di permanenza in campo di smistamento, si rivela nel racconto del testimone
estremamente lucido e non privo di dettagli significativi che ci fanno considerare come
anche in una situazione così estrema egli non avesse perso il senso dell’essere e non
avesse rinunciato a quei principi che distinguono l’uomo dagli altri esseri viventi. Alla
stazione di Düsseldorf, infatti, egli non mancò di osservare e compatire alcuni ebrei
deportati, nell’atto di essere caricato sui vagoni. In particolare non gli sfuggirono le
cure e le attenzioni che uno di essi prestava ad un bambino disperato.
Lucido anche il racconto della detenzione, dei soprusi, del lavoro e dei compagni.
Uno di questi in particolare: Pirin, morto sul suo pagliericcio una notte stringendo la
foto dei suoi famigliari. Come molti altri che condivisero la sua sorte, Alberto Avaro
tornò a S. Secondo senza essere riconosciuto dai più ed il ricordo della guerra e della
prigionia ha continuato a tormentarlo per tutta la vita.
Questa rapida carrellata di testimonianze non pretende certamente di essere esaustiva.
Esse, assieme ad altre per le quali qui non c’è stato spazio, per essere comprese,
vanno lette per intero, meditate e rielaborate… Di certo non sono un qualcosa di
statico, un trascorso da consegnare al passato e da collocare in una sorta di “museo”
ideale della memoria. Esse rappresentano un monito, un patrimonio di esperienza
di sofferenza e di valori da cui gli odierni abitanti di S. Secondo non possono che
imparare e di cui possono soltanto andare fieri.
Gian Vittorio Avondo
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TESTIMONIANZE DI VITA
DURANTE LA GUERRA
La guerra vista con gli occhi e con il cuore, di Pierina Manavella
“Pare strano
ma, fintanto che, non iniziarono a bombardare,
non sapevo cosa fosse la guerra.”
Sono Pierina Manavella, nata il 29.12.1935 agli Airali Superiori e ivi sempre vissuta.
Avevo circa cinque anni, ricordo di aver appreso delle stranezze che ci stavano
succedendo dai piccoli segnali ma soprattutto dalla paura.
Mio padre aveva fatto la prima guerra mondiale ma dalle sue parole non conobbi
nulla, non mi raccontò e spiegò mai nulla.. neppure quando venimmo a conoscenza di
eventi traumatici, quando avemmo contatti con estranei in divisa e che si rivolgevano
a noi con durezza e avanzando il dubbio, la sfiducia. Anche mia madre, non mi disse
mai nulla, nessuna raccomandazione diretta, nessun particolare e ancora oggi mi
domando il perché.. forse proprio perché ero una bambina e si sa, sotto pressione
e coinvolta emotivamente avrei potuto rivelare delle informazioni delicate o che
avrebbero potuto complicare la nostra vita famigliare.
Molte cose le venni a sapere anni dopo la fine della guerra, ricordo che si parlava poco,
pochissimo, talvolta ero a conoscenza di giovani che partivano o che si piangevano
nel silenzio della casa perché non sarebbero tornati.
I particolari che ho in mente sono molti, ma all’età di cinque anni erano per me
dati di fatto, constatazioni che però effettivamente non pensai mai di transigere o
disobbedire. Le finestre erano oscurate e prestavamo attenzione affinché dall’esterno
non s’intravedesse alcun barlume di luce.
Mio fratello indossava i pantaloni spesso corti, la mamma gl’impediva di vestire come
papà e pareva più piccolo. Noi sorelle invece avevamo una divisa, tutte l’indossavamo,
eravamo le Piccole Italiane! per cui mettevamo un grembiulino nero, con il colletto
bianco e la rosa blu legata al collo esattamente come la mia maestra.
Il piatto mai eccessivamente abbondante ma neppure completamente vuoto;
d’inverno mangiavamo a colazione il latte, a pranzo la polenta e a cena l’insalata di
patate, invece d’estate c’era più variabilità infatti mangiavamo le cose dell’orto: frutta
e verdura.
Eravamo una famiglia contadina, allevavamo qualche mucca che, per anni ho portato
al pascolo e coltivavamo il grano ma, non tutto era per noi, una parte la lasciavamo
al Fascio. Avevamo un ciabotin, poco distante dalla casa, che usavamo come deposito
per sistemare la frutta, le patate... non lo utilizzavamo come abitazione perché non
aveva la stufa e faceva molto freddo riposare lì.
Ospitammo però, per un periodo di tempo che non saprei quantificare, una sfollata
13
che arrivava da Torino con i suoi due figli ma, i due bambini, rimasero lì per pochi
giorni e poi sparirono, non li vidi più.. forse non potevano stare lì.. proprio perché
faceva troppo freddo in quel nostro ciabotin..
Le mie giornate trascorrevano tra la
scuola e il portare gli animali al pascolo
e proprio uno di quei giorni ricordo
perfettamente. Ero là, in pastura, con
due mucche a me legate e vidi nel cielo
passare un apparecchio. Questo aereo
militare roboante nel cielo si abbassò
e mitragliò il treno che viaggiava in
direzione di Torre Pellice e capii subito,
che l’aveva centrato. Lo spavento, colse
tutti: me e le mucche che iniziarono a
tirarmi e rischiammo di cadere più volte
..volevamo rientrare al più presto a casa
ma, la tensione e la paura, ci fecero
perdere tempo.
Rispetto alla scuola invece conservo
ancora un grande affetto per la mia
maestra. Una donna che proveniva da
Frossasco, raggiungeva la scuolina degli
A sinistra Pierina con i fratelli Giovanni, Maria
Airali Superiori in bicicletta. Intervennero
e Rita insieme alla sfollata di Torino
poi delle difficoltà, bombardarono ponti
e collegamenti e così lei si trasferì con
il suo bambino nelle aule. Mi piaceva molto andare a scuola, imparavamo ed io ero
l’unica femmina del gruppo dei miei coetanei. Era una signora accogliente ed era
tranquillizzante stare lì, sapevamo solo che, al suono della sirena saremmo usciti
tutti dalla scuola e ci saremmo dovuti dirigere velocemente a casa. Lei non ci parlò
mai della guerra, anzi una volta sì. Era, infatti, il giorno dopo la Prima Comunione
dei miei compagni e mia, i festeggiamenti furono molto contenuti e anche la maestra
partecipò facendoci gli auguri. Lei poi mi chiamò e indicò di andare dietro la lavagna
qui tirò fuori due gallette e me le donò dicendomi “è tempo di guerra, sai .. è tempo
di guerra!”.
Le sere e le notti erano i momenti della giornata più delicati, in cui il buio era il
complice della paura. Alcune di queste sono ancora molto vivide e per la vicenda e per
le voci, i rumori. Una notte, sentii una voce di donna gridare “Aiuto.. aiuto”, poi poco
dopo sentii degli spari e poi un silenzio vuoto. Questa signora alcuni giorni dopo morì
per lo spavento di quella notte infatti gli spari non la raggiunsero sul balcone dove si
era recata a chiedere aiuto quando alcuni Repubblichini forzarono l’entrata nella sua
casa. Quella stessa, o forse una notte analoga, anche da noi arrivarono tre o quattro
Repubblichini. Tutti noi eravamo già nel letto, dormivamo noi bambini .. i soldati
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bussarono alla porta in modo vigoroso e poi insistettero con mio padre per sapere chi
dormiva nella stalla, avevano notato della paglia smossa e calpestata. Lui rispose con
tono controllato “i miei figli giocano nella paglia..” ma non gli credettero e gli chiesero
di mostrar loro i pargoli e quindi salirono. Davanti ai miei occhi ricordo le quattro
divise che per fortuna vedendoci richiusero la porta della stanza e se ne andarono.
C’eravamo abituati a essere colti da visite rapide ed inaspettate da parte di
Repubblichini, tedeschi e partigiani; spesso poi, il sopraggiungere di questi militari
si seguiva a distanza di ore o giorni. Tutti passavano per lo più per prendere cibo o
ciò che potevamo avere di interessante, ma avevamo proprio poco per mangiare e
riducevano le nostre scorte. Sapevamo che conveniva non opporsi e mio padre cercò
sempre di accoglierli e accontentar tutti loro nelle richieste.
Una sera invece, vidi gli adulti più tesi e preoccupati infatti avevamo battuto per giorni
il grano, eravamo in molti ma una volta, serviva moltissima manodopera e stremati
ma felici d’aver concluso, stavamo festeggiando. Si unirono a noi alcuni partigiani che
arrivavano in cortile sempre con un sacco a spalle. Mia nonna s’affrettò a servirli, la
luce stava calando e nell’urgenza si avvicinò a loro per offrire della polenta ma con
il piede inciampò nel sacco. Seguì un prolungato attimo d’imbarazzo e terrore, venni
poi a sapere che proprio quel pacco di cotone grezzo, colpito dal piede di mia nonna,
era zeppo di bombe a mano.
Passarono anche i tedeschi, ma meno frequentemente e quella volta erano solo
molto affamati. Mio padre gli servì in cantina cibo e vino a volontà e loro uscendo ci
richiamarono e ci diedero quadretti di zucchero e di cioccolata. Non la mangiavo da
tempo, forse è per questo che ancora oggi ricordo quei tedeschi.
Ad un altro tramonto invece arrivarono dei Partigiani, quella volta capimmo che
bisognava fare molto in fretta, corsero in cantina e chiesero insistentemente del vino.
Speravamo sempre che consumato il vino, fosse resa la botte ma quella volta ne
trovammo solo più una e l’altra non fu né resa né ritrovata e ciò per noi era un danno
più grave.
Continuai a non sentir parlare della guerra anche dopo la sua fine. Nessuno si esponeva
o faceva commenti, nessuno menzionava la parola guerra invece tutti temevano la
vendetta, che qualcuno potesse dire o fare qualcosa che facesse ritenere il prossimo
una spia. Dopo il 25 aprile 1945, cambiò il fatto che le fucilazioni e le punizioni erano
più frequenti di giorno ed esibite, tutti dovevano sapere il finale di colpe presunte.
Seppi di un uomo, che a Pinerolo commerciava nel pollame, era anche lui padre di
bambine come me e lui fu accusato dai partigiani di essere stato una spia, di essere
il responsabile dell’incendio di una borgata poco distante da Pinerolo, di aver portato
alla morte numerosi giovani, bambini e donne. Quell’uomo fu ucciso a Pinerolo ma
a scopo, forse dimostrativo legato ad un carro e trascinato per le strade sterrate dei
paesi limitrofi sino alla borgata incendiata. La sua morte fu esemplare e di questa se
ne parlò.
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Gli eventi della guerra poi mi furono più chiari nei decenni a seguire, quando sentii
raccontare e vissi nel focolare domestico le conseguenze delle paure e dei traumi
della guerra. Sposai infatti Avaro Alberto, un uomo che tornò dai Campi di Lavoro
e attraverso i suoi incubi, i suoi dettagli e le sue citazioni partecipate e recitate in
tedesco compresi e continuo a comprendere il dolore seminato dalla guerra.
Testimonianza raccolta dalla nipote Martina Cambiano
Un ricordo, di Livia Bertea
Questa foto è del 1941, ultimo anno di scuola elementare.
Al sabato pomeriggio (si chiamava sabato fascista) , le maestre ci facevano andare in
piazza Tonello a fare esercitazione. Ci facevano provare gli esercizi di ginnastica per il
saggio di fine anno scolastico.
Eravamo vestite con scarpe nere, calze bianche corte, gonna nera pieghettata,
camicetta bianca con una “M” sul petto che voleva dire “Mussolini”; alcune avevano
persino i gradi da caporale perché dovevano portare in giro per il paese ognuna la
propria squadra.
Noi eravamo chiamate Piccole Italiane, quelle più grandi di età Giovani italiane (quelle
con la cravatta) e le più anziane, vestite con la salariana nera e camicetta bianca,
erano le Donne Fasciste.
Anche i bambini e i ragazzi facevano il saggio; i più piccoli erano chiamati Figli della
Lupa, i più grandi i Balilla (dalla seconda elementare ai 14 anni) erano vestiti con il
fetz con il fiocco, foulard celeste, camicia nera, pantaloni grigi e calze e scarpe nere.
Il saggio si svolgeva in piazza Tonello e sulla terrazza del ristorante “Levante” erano
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schierate le autorità fasciste, comunali e le insegnanti.
Le autorità consegnavano dei premi ai bambini e alle bambine più meritevoli: il premio
“Tonello” in denaro, due premi del Comune che erano dei libri, e un altro premio cioè
una “Menzione Onorevole”.
I nostri genitori ci dicevano di fare molta attenzione a non parlare male dei fascisti
altrimenti se qualcuno sentiva ci faceva andare alla casa del Fascio (che era in Via
Trieste n.2 chiamata il “dopo-lavoro”) e li bisognava per forza bere un bicchiere d’olio
di ricino.
Livia Bertea
Incontro con Gina Saracco
Gina Saracco è una bella signora con gli occhi chiari limpidissimi e vigili, uno sguardo
affettuoso e non indulgente, un fisico asciutto e sano, modi eleganti e raffinati, vestita
in modo giovanile ma nello stesso tempo ricercato.
Gina ha la capacità di metterti immediatamente a tuo agio e di permetterti di entrare
in sintonia con lei. Mi riceve nel suo luminoso appartamento di Luserna: tanti quadri,
tanti libri e mobili di una volta.
La casa non sa di “vecchio”: è colorata, molto personale e allegra. Io, avendo saputo
che aveva partecipato alla lotta di liberazione, le avevo chiesto se era disposta a
raccontarmi un pezzo della sua vita da inserire in una raccolta di testimonianze
partigiane che si intende raccoglie e pubblicare per lasciare quante più memorie
possibili alle future generazioni, in particolare ora che poco a poco, le persone che
effettivamente hanno fatto la storia ci stanno lasciando.
Gina è disponibile ed offre i suoi ricordi che sono lucidissimi e per nulla nostalgici;
le sue scelte di allora sono state l’inizio precocissimo di un percorso politico, civile e
sociale che continuerà per tutta la vita.
I suoi genitori abitavano una bella e grande casa a San Secondo in località “Pjarin”
Gina, per l’anagrafe Domenica, nasce a Torino il 4 ottobre 1926. A tre anni rimane
orfana del papà ma la sua infanzia è comunque serena, amata dalla mamma che era
severa ma affettuosa, educata dal nonno (insegnante all’inizio del ‘900) ad apprezzare
il bello e la cultura; e dalla nonna (donna di grande carattere). Vive in una condizione
economica solida, rispetto ai livelli economici del tempo e del territorio (i terreni dati
a mezzadria permettevano loro di vivere bene).
Gina ha frequentato le scuole elementari a San Secondo e le scuole medie e le
Magistrali a Pinerolo; come tutte le ragazze veste la divisa fascista delle “piccole
italiane” e partecipa alle manifestazioni pubbliche fasciste. Ricorda che non sapeva
perché ma lo faceva malvolentieri.
Alla data del 10 giugno 1940, giorno in cui l’Italia ufficialmente entra in guerra,
Gina ha 14 anni e riferisce testualmente “..dell’entrata in guerra dell’Italia si sapeva
pochissimo, non si parlava né in casa né fuori della guerra e di cosa stesse succedendo
a livello nazionale, il poco che si sapeva era quello che riportavano i giovani soldati
che tornavano in licenza ma erano notizie parziali e condite da impressioni personali.”
Si rende conto che qualcosa stride, “non va” quando vede partire “gli Alpini per
l’Africa”, i suoi pensieri non sono chiari, è giovanissima ma “sente” che la direzione
non è giusta. Sensazione che trova conferma quando ha modo di ascoltare i discorsi
degli ufficiali che da poco vivono nella sua casa che è stata REQUISITA per dare una
succursale più dignitosa alla sede del comando fascista alloggiato presso la vicina
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FABBRICA DELLA COLLA. Oltre alle camere per gli ufficiali era stata requisita anche
la stalla per sistemare i muli che malati dovevano stare in quarantena; muli governati
da soldati provenienti dalla Sardegna.
La mamma di Gina sovente integrava il rancio dei soldati con un piatto di minestra e
così si stabilì tra la famiglia e i soldati un clima di confidenza che permetteva, a volte,
la cauta esternazione di pensieri e considerazioni critiche rispetto alle scelte politiche
del governo. Gina è giovane ma in lei questi piccoli semi germogliano, si rende conto
che anche all’interno dell’istituzione c’è scontento, che la popolazione è stanca e
soffre soprusi e imposizioni e la chiamata alle armi delle giovani leve comporta dolore
nelle famiglie e miserie nelle case.
La presa di coscienza della perdita di tante giovani vite rende Gina “…agnostica e
antifascista..” e soprattutto pronta l’8 settembre 1943 a schierarsi dall’altra parte, il
suo carattere volitivo e deciso la porta non solo a schierarsi ma ad agire per aiutare i
partigiani della zona nel procurare alimenti e armi.
Il compito che si assume, estremamente pericoloso per la sua stessa vita, riesce a
svolgerlo anche grazie al fatto che ha libertà di movimento: con la bicicletta si sposta
quotidianamente da San secondo a Pinerolo per frequentare la scuola; la sua casa
è leggermente isolata e gode di una buona vista tutto intorno e pertanto eventuali
incursioni possono essere viste in anticipo; inoltre, avendo la casa dei grossi locali
di sgombero “ tinagi” sul retro possono essere depositati quantitativi di alimenti ed
armi senza essere visti.
Nella classe frequentata da Gina
ci sono due compagni che come
lei sono antifascisti: Giulio che
ancora oggi è un carissimo amico
e Giolitti (detto Gioli). Tutti gli
altri non si schierano: per paura
o per ignoranza rimangono tiepidi
e nascosti in attesa degli eventi.
La decisione della giovanissima
e splendida ragazza Gina di
affiancare i partigiani nella
loro azione non era vista
favorevolmente dalla mamma,
non tanto per la scelta di per
sé e non solo per la paura della
vita della figlia ma anche per
la reputazione della ragazza;
la società rurale e locale non
vedeva bene e soprattutto non
apprezzava la frequentazione
cameratesca con tanti giovanotti
ritenuti in alcuni casi eversivi. Si
trattava quindi per la mamma di rischiare che la propria unica figlia, educata dalle
Suore, ..”perdesse l’onore..”. Gina, determinata e convinta di doversi impegnare nella
lotta di liberazione, non recede e pone la seguente condizione: anzi, “….o mi lasci
farlo rimanendo a casa o io vado in montagna...”
Così Gina, contattata dal capo partigiano ERMINIO della zona di Pramollo comincia
a prendere ordini che le vengono trasmessi dal proprietario dell’osteria sita sulla
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piazza di San Secondo “Arturo del Levant” e con la bicicletta percorre le strade della
pianura, di volta in volta verso Vigone, Cercenasco, Macello, andando nelle cascine
dove precedentemente un altro partigiano che operava presso il Tribunale aveva
concordato un prelievo di sacchi di alimenti (grano, farina, mais, orzo) e rilasciando
la ricevuta utile al contadino per giustificare la non consegna all’ammasso dei propri
prodotti, e con biroccio attaccato al mulo o cavallo li portava a casa propria a San
Secondo. Anche le armi che l’esercito americano lanciava nottetempo dagli aerei
in spazi aperti nelle vicinanze venivano raccolte e depositate a casa di Gina per poi
essere consegnate ai ragazzi partigiani che operavano in zona. Gina ricorda che
quando l’esercito ha emesso il bando per l’arruolamento dei ragazzi nati nel 1926,
le bande partigiane si sono infoltite tantissimo poiché invece di partire per il fronte i
giovani si davano alla macchia.
Gina cercava di tenere segreto il suo impegno perché ne andava della propria vita,
della vita della sua mamma e di chi l’aiutava sul territorio ma nonostante ciò più
volte ha rischiato e racconta alcuni episodi in cui la fortuna l’ha aiutata in situazioni
veramente pericolose.
Una volta arriva in una cascina della pianura dove era stato stabilito dovesse esserci
un prelievo di granaglie e la “trova piena di fascisti”; si spaventa ma la contadina la
presenta come una parente che è venuta a trovarla, le prepara un letto e la fa dormire
li. Ripartirà il giorno seguente senza grano ma salva.
Gina, nei suoi racconti cita sovente il Comandante delle Brigate nere MARTINAT,
che forse aveva intuito la sua collaborazione con i partigiani e la osservava da
lontano “attraverso i suoi scagnozzi” e non solo, più volte organizzò dei sopralluoghi
notturni a casa sua per verificare se fosse presente oppure no. Una notte le milizie
fanno irruzione direttamente nella camera che divideva con la mamma con grande
spavento per entrambe. Gina però il giorno seguente, accompagnata da un’amica che
conosceva personalmente Martinat, si fa ricevere a Pinerolo dal Comandante stesso
per protestare contro l’irruzione. Seppur giovanissima e senza esperienza ritenne
tatticamente utile protestare piuttosto che subire, in quanto il silenzio poteva essere
interpretato come un’ammissione di colpa.
Si rende conto che l’attività è
pericolosa, per questo chiede e
pretende di rimanere all’oscuro di
nomi, posti e situazioni in cui operano
i partigiani e in tutto il periodo della
lotta lei conosce e prende accordi
solo e sempre con il capo che in quel
momento risponde della zona di San
Secondo; ricorda i nomi di Bosio (ex
militare) e Coucourde (medico).
Racconta che è stato molto faticoso e
doloroso dover far i conti con la morte
e le uccisioni, questo la spinge ad
La cascina in cui Gina viveva all’epoca
essere prudente ma non a cambiare
idea, a desistere dall’impegno anzi
sempre di più è convinta che “…bisogna farlo…”.
Finalmente arriva il giorno della liberazione; Gina è contenta ma ritiene di aver solo
fatto il proprio dovere di cittadina, non si sente eroe e il suo impegno civile continuerà
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tutta la vita. Farà l’insegnate molti anni e militando nel partito socialista partecipa
attivamente alla vita politica del Comune di Nichelino dove sarà assessore per il tempo
di una legislatura. Riferisce che l’impegno antifascista e il “partigianato” hanno creato
anticorpi in lei per cui ha affrontato la propria vita e le prove stesse della vita con una
marcia in più.
Riferisce di essere stata oltre che apprezzata
molto amata dagli altri partigiani, purtroppo
oggi rimasti pochissimi in vita. Ci parla di
Giulio che abita a Torre Pellice al quale lei è
ancora legata da amicizia profonda e fraterna.
Raccogliere qualche suo ricordo è stato
per me arricchente poiché mi aspettavo
l’elencazione di una cronologia di eventi
invece è stato raccogliere delle memorie “di
cuore” oltre che di storia. Mi ha insegnato
ad apprezzare ancora di più il significato di
libertà e di democrazia e la consapevolezza
che alcuni doveri (esempio il voto) sono
grandi diritti conquistati con la vita di persone
normali che hanno visto più chiaro di altri e
che coraggiosamente hanno lottato per il
bene di tutti.
Gina ha avuto ed ha una vita piena di interessi,
affetti, amori e impegni per questo è rimasta
ed è così giovane, decisa, sicura, bella come
nel 43.
Testimonianza raccolta da Franca Avaro e Anna Forestiero
Accadde 70 anni fa a San Secondo
Ogni angolo delle nostre strade ricorda i numerosi morti civili e partigiani uccisi dai
tedeschi e dai repubblichini di Salò, loro servi, in quel fatidico 1944. Più difficile è
raccontare lo stato d’animo della gente in quel periodo, le ansie, le paure, la presenza
dei tedeschi nel castello di Miradolo e a S.Secondo nella villa vicino alle scuole medie,
i partigiani che circolavano a Prarostino e i repubblichini che arrivavano nelle nostre
case ad ogni ora del giorno e della notte per farsi dare da mangiare e da bere. Chi,
poi, aveva dei familiari tenuti in ostaggio dai tedeschi viveva ancora più nell’ansia
e nel terrore che qualche partigiano rispondesse al fuoco uccidendo un tedesco, in
questo caso per gli ostaggi sarebbe stata la fine. Chi scrive ha avuto il padre tenuto
in ostaggio per 21 giorni nelle scuole elementari vicino al vecchio municipio insieme
ad altre cinque o sei persone. In quei giorni di novembre del 1944 successe di tutto;
furono ammazzati dai repubblichini i partigiani Giovanni Iaia e Delio Godino e uccisi
dai tedeschi dieci civili al Bric di Prarostino (allora comune di S.Secondo). Nonostante
questi fatti nessun partigiano sparò un colpo per non mettere a repentaglio la vita
degli ostaggi.
Il fatto che voglio raccontare e che mi terrorizzò per anni non potendo dimenticare
quelle scene, accadde la sera dell’ 11 novembre. Mi trovavo insieme a mia mamma e a
una cugina in visita a mio padre e agli altri ostaggi quando sentimmo dei colpi di fucile
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provenienti dal cortile. Al grido “ammazziamo gli amici dei partigiani” e con un calcio
alla porta entrarono alcuni fascisti con in mano la Carta d’Identità di Delio Godino che
avevano ammazzato un’ora prima. Misero al muro gli ostaggi e io, che all’epoca avevo
sei anni, misi in pratica la mia unica strategia consistente nel mettermi a strillare;
questo valse a me e mia madre il permesso di avviarci verso casa. Fortuna volle che,
mentre questi repubblichini di Salò ubriachi picchiavano gli ostaggi e sparavano in
giro, venne il cambio della guardia. Le nuove guardie si misero ad urlare dicendo che
quando sarebbe stata l’ora di uccidere l’avrebbero deciso loro, li cacciarono salvando
così la vita agli ostaggi. Per i fascisti tutti quelli che non erano con loro erano dei
partigiani e gli ostaggi erano dei giovani in età di leva. Mio padre aveva 33 anni, quello
che non poté spiegare loro era che a causa delle manie espansionistiche del fascismo
lui aveva passato due anni (1935 -’36) in Africa orientale e uno in Albania per poi
essere congedato per malattia nel febbraio del 1942.
Perché racconto queste cose dopo tanti anni? Ritengo che non le dobbiamo
dimenticare, a maggior ragione in questi tempi in cui una certa parte politica vuole
farci dimenticare, vuole farci credere che i repubblichini di Salò fossero uguali ai
partigiani mentre gli uni combattevano a fianco della dittatura e gli altri per la libertà.
Quando chiedevo a mio padre chi erano i fascisti lui rispondeva “sono quelli forti con i
deboli e deboli con i forti”, l’aveva capito a sue spese in Africa, in Albania e qui da noi.
Mauro Gardiol
Autunno 1943: Camilla Ravera ed Umberto Terracini a San Secondo
Negli ultimi giorni dell’estate 1943, mentre sulle colline pinerolesi si stavano formando
le prime bande partigiane, giunse a S.
Secondo Camilla Ravera7, esponente del
P.C.d’I. clandestino, in quel momento
in rotta con il suo partito perché, con
Umberto Terracini, aveva duramente
condannato il patto Ribbentrop-Molotov.
L’esponente comunista, malgrado la sua
breve premanenza nel luogo, avrà un
ruolo nella formazione di alcuni giovani
antifascisti locali, risiedette prima al Bric
di S.Secondo, nella casa di Walter Gardiol,
futuro partigiano nella formazione di Gino
Ceccarini, quindi al Rocco di Prarostino,
da un’altra famiglia Gardiol. Oltre la
Ravera, lo stesso Terracini, frequentò
per qualche giorno la casa del Bric,
ma molto presto dovette lasciarla per
cercare rifugio in Svizzera. Ricorda Vanda
7 Recita a questo proposito la biografia della Senatrice Camilla Ravera (1889 – 1988) reperibile sul sito in-ternet
dell’A.N.P.I. (http://www.anpi.it/contact.htm ): “….. Riacquistata la libertà (dal carcere di Ventotene, ove era
stata condannata a 15 anni di reclusione n.d.r.), Camilla Ravera riuscì a raggiungere dopo molte peripezie i suoi
famigliari, che erano sfollati a San Secondo di Pinerolo. Dopo l’8 settembre 1943, sapendo di essere di nuovo
ricercata, la Ravera riparò in un casolare sulle colline, che diventò presto luogo di incontri politici clandestini.
Dovette abbandonarlo quando i fascisti cominciarono a dare alle fiamme tutti i casolari della zona….”
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Gardiol, del Rocco, che li ospitò: “….di giorno mi ricordo
che rimaneva in casa; cuciva, leggeva, in prigione
aveva fatto un tappeto tutto annodato e lo aveva con
se. Ricordo che raccontava che la prigione era umida,
colava dappertutto e c’erano solo 5 metri (sic!) per
passeggiare. Era venuta da noi probabilmente prima
dell’8 settembre. Di sera la portavamo a passeggiare,
ma solo di sera…. Ricordo che era venuta a Prarostino
per i 25 anni del faro e io ero andata a trovarla a Roma.
Mi aveva scritto…” 8
Della permanenza della futura senatrice a vita
(ottenne il laticlavio da Sandro Pertini, suo compagno
di militanza clandestina) a S. Secondo, esiste poi
un’altra testimonianza, più suggestiva, perché
raccontata da una donna che a quei tempi era poco
più di una bambina e che molto presto fu chiamata
a partecipare alla lotta di liberazione come staffetta: “….Un giorno vedo arrivare alla
cascina dove abitavo, la cascina Biglia che si trovava vicino alla stazione ferroviaria
di S. Secondo, una vecchia signora con un bastone ed una bambina per mano. Era
Camilla Ravera; voleva del latte perché alla casa di Walter, ove era nascosta, la mucca
aveva il vitellino e non c’era più latte. Di lì è cominciata a venire da noi quasi tutti i
giorni. Inizialmente non ci ha detto chi era ma poi, quando ha saputo che io giravo già
un po’ con i partigiani, ha poi cominciato a parlare di politica…. Ne parlava lei, perché
io non sapevo niente. Poi ho cominciato a studiare inglese con lei… Lì, da Walter c’è
poi stato anche Terracini, ma soltanto 2 o 3 giorni…”
In sostanza Terracini e Camilla Ravera avevano trovato quel rifugio così defilato e
lontano da quelli che erano i loro percorsi abituali perché a S.Secondo viveva Arturo
Gardiol, discendente di una famiglia di antiche tradizioni socialiste. Quest’ultimo era
fratello della mamma di Walter, il partigiano già più volte menzionato e fu evidentemente
proprio lui a sistemare i due fuggiaschi ed i familiari della Ravera dal nipote, dopo
essere stato contattato da alcuni esponenti del socialismo torinese. Non va infatti
dimenticato che i due profughi erano stati espulsi dal P.C.I. che, evidentemente, non
stava dando segno di interessarsi alla loro sorte.
Gian Vittorio Avondo
Parlano... Le mamme di allora
Nel 1943 abitavo ai Grigli con mia mamma, mia sorella Olimpia e mio fratello Mario;
mio papà non l’ ho conosciuto, è morto quando ero ancora piccola.
Lavoravamo in campagna, Mario andava a fare il carbone su verso i Topi: veniva della
gente da Pomaretto a fare le “carbonere”. Eh... una volta il carbone si usava per tutto!
Da mangiare non ce n’era tanto, ma noi non abbiamo mai fatto la fame.
Ho tanti brutti ricordi della guerra... Una volta, era una domenica mattina, eravamo di
partenza per andare per funghi, quando sono arrivati i tedeschi e ci hanno raggruppati
tutti dietro la casa di Adolfo; il mio vicino Rino era coricato, quando li ha sentiti arrivare
è scappato giù davanti alla borgata, gli hanno sparato, ma non l’hanno preso. Erano
convinti che fosse mio fratello, infatti hanno interrogato a lungo mia mamma; Mario,
per fortuna, era già per i boschi, lo e Tina siamo poi riuscite a scappare su verso la
8 Vanda Gardiol (1927), intervista a cura di Gian Vittorio Avondo, del 13 febbraio 2009.
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Cappella, lì era tutto circondato: avevano catturato uno. Quanti tedeschi e quanti
spari quel mattino! Abbiamo proseguito verso la “Gialà”, poi su alla casa di Arsiccio,
dove probabilmente alloggiavano i partigiani, i quali stavano scappando dalla parte
del Collaretto, ci sono passati accanto di corsa con i tedeschi che sparavano loro alle
spalle. E’ stata una fortuna che non ci abbiano colpite. Impaurite abbiamo proseguito
fino a “Pra la mort” dove abbiamo incontrato mio fratello, Naldo e qualche altro;
pensare che Naldo era andato a caccia, quindi aveva anche il fucile, se l’avessero
visto per lui era finita. Li abbiamo avvertiti di rimanere nascosti, anch’io e Tina siamo
rimaste ancora un po’ per i boschi, poi abbiamo ripreso la via di casa, c’erano fuochi
dappertutto.
Un’altra volta, quando avevano bruciato le Molere e la Rocchetta, hanno preso mio
fratello e l’hanno portato alle Porte, per sua fortuna ha evitato la Germania. L’avevano
preso anche un’altra volta e portato nel vecchio Municipio di S. Secondo dove tenevano
la gente d’ostaggio per una settimana. Io ero andata giù a portargli da mangiare, mi
ricordo che con lui c’era anche Federic, il nonno di Giulio Tarin. Eh... mio fratello
doveva sempre scappare!!!
In quel periodo ho conosciuto il mio futuro marito, ma non avevo modo di vederlo
spesso perchè veniva sempre richiamato: è andato in Africa, Francia, Grecia; ha
risparmiato la Russia solo perchè si era preso la malaria. Mi sono sposata nel febbraio
del ‘44 e sono venuta ad abitare alle Fontanette”. Qua la famiglia era molto numerosa:
io, mio marito, mia cognata Ines, i miei suoceri e le due nonne di mio marito. A quel
tempo dovevamo tenere, sulla porta di casa, l’elenco dei componenti della famiglia,
ma mio marito non lo perseguitavano più in quanto era del 1913, aveva quindi
superato l’età militare.
Nell’autunno del ‘44 avevo appena avuto la mia primogenita quando sono arrivati
i tedeschi ed hanno perquisito la casa, ma per fortuna nella mia stanza non sono
entrati, perchè mia suocera era riuscita a far loro capire che in quella camera non
c’era nient’altro che una donna che aveva da pochi giorni partorito. Quante volte sono
venuti i tedeschi!!! Avevamo anche paura dei partigiani, a volte, pur conoscendoli,
perchè poi poteva succedere che i tedeschi, grazie alle innumerevoli spie, venendo a
conoscenza del loro passaggio, venissero a bruciare la casa e ad uccidere persone.
Una volta se ne è arrivato uno da solo che ci chiedeva dell’ospitalità per riposarsi un
po’, non sapevamo bene cosa ci convenisse fare, ma alla fine gli abbiamo detto di
andarsi a coricare nel “cas” [magazzino]. Quella notte avrà dormito più lui di noi, ma
per fortuna non è successo niente. Qui, alle Fontanette, in confronto ai Grigli siamo
sempre stati più tranquilli.
Albertina Gay (1920 - 2010)
Altri momenti di vita quotidiana
Nel 1943 avevo 34 anni, ero sposato dall’ottobre del 1937 e avevo due figli piccoli.
Abitavo alla Ruata e facevo il contadino, più per forza che per scelta; già prima della
guerra per trovare lavoro in fabbrica o altrove bisognava essere iscritti al partito
fascista e io non lo ero. Così ho continuato a lavorare la terra, con zappa e falcetto, tra
grandi difficoltà e molti sacrifici. Penso proprio di aver avuto qualche santo in Paradiso
che mi ha protetto perché mi è sempre andata bene, tutte le volte che mi sono
scontrato con la realtà del tempo: le SS ed i fascisti. Mi ricordo bene del 17 ottobre del
1943: c’è stato un rastrellamento incredibile, con uno spiegamento di forze pazzesco,
saranno stati... non so, penso 1.500 soldati armati fino ai denti. Mano a mano che
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salivano verso S.Bartolomeo raccoglievano le persone che trovavano per strada; io mi
sono buttato giù per scappare, ma mi hanno preso lo stesso e mi hanno portato nella
scuola con tutti gli altri; c’erano molte persone, vestite con abiti belli, che stavano
andando al culto quando li hanno presi. Eravamo tutti stipati nella scuola, ad un certo
punto mi hanno chiamato fuori con altri due uomini, uno era Secondo Arsiccio e l’altro
era un fratello di Mario Benech, che in seguito era entrato a far parte dei partigiani e
si faceva chiamare Arturo, ma non so quale fosse il suo vero nome. Hanno chiamato
noi tre perché c’era da andare a seppellire un morto, era Tonino Sansone, quello della
lapide che c’è ora al Comune. E’ poi arrivato anche il Parroco, quindi abbiamo cercato
un carretto per trasportare Tonino fino al cimitero, poi volevo anche qualcosa per
avvolgerlo e ho trovato solo un telo militare, quindi abbiamo usato quello. L’abbiamo
caricato sul carretto e ci siamo incamminati, quando ad un tratto, un tedesco ha
incominciato a farci dei segni e noi abbiamo avuto paura di aver fatto chissà che
cosa, il tedesco voleva invece solo farci vedere che il cadavere aveva un braccio che
penzolava fuori e strisciava sul terreno: per forza, l’avevano così malmenato che era
tutto rotto, ma noi non ce n’eravamo nemmeno accorti. Si era così rimbambiti a quei
tempi che non si capiva più niente, si pensava solo a scappare. Siamo dunque arrivati
al cimitero, qui gli altri due che erano con me sono scappati ed io sono rimasto solo
col Parroco, ho fatto la fossa e poi, in qualche modo, sono riuscito a buttarci dentro il
corpo di quel poveretto, ho ricoperto tutto e poi dovevo decidere se tornare indietro o
scappare anch’io. Alla fine ho deciso di tornare alla scuola, dove mi hanno ordinato di
prendere un carro e delle bestie per andare alla Brusà a prendere ciò che i partigiani
avevano abbandonato: c’erano munizioni, armi, farina, ecc.. In giro non c’era nessuno
e, a quel tempo, trovare qualcosa era quasi impossibile, comunque sono andato dal
padre di Oreste Tariti dove ho trovato un paio di mucche ed un carro, ho preso in
prestito tutto, senza trovare nessuno a cui chiedere il permesso.
Siamo andati alla Brusà, abbiamo caricato tutto quello che c’era e l’abbiamo
trasportato, per i tedeschi, fino a S.Secondo. Ricordo che ci hanno lasciato un sacco
di farina perché era rotto da una parte e perdeva il suo contenuto. Quel giorno,
a S.Bartolomeo, nella piazza più grande, hanno bruciato il caseggiato di Bruno di
“Mandina”, non ho mai capito bene il perché, ma comunque succedevano spesso
queste cose. La sera che hanno bombardato la Riv, ero con le mie mucche più o meno
dove adesso c’è la caserma Berardi o il negozio di Griva e stavo tornando a casa.
Quando eravamo sul ponte di Miradolo ho visto che dal cielo cadevano delle cose
indefinite, come grossi barconi, ma quando toccavano terra non scoppiavano. Più
tardi ho capito di cosa si era trattato: erano dei recipienti di carburante supplementare
ormai vuoti e quindi inutili che venivano buttati via; anche quella volta mi è andata
bene perché le mie mucche non si sono spaventate e ho potuto riportarle a casa
tutte. A quel tempo non si andava dal dottore per ogni sciocchezza, ce n’era uno solo
per una vasta zona, era il signor Ros, che si occupava di ogni genere di malattia; era
in funzione anche l’ospedale ma ci si andava solo per casi molto gravi. Per esempio
le donne, quando dovevano partorire, venivano assistite dalle levatrici, o dal medico
quando riusciva arrivare, ma a qualcuna sarà successo anche di dover partorire da
sola.
Noi in campagna avevamo sempre qualcosa da mangiare, magari sempre le stesse
cose Per lunghi periodi: avevamo patate, castagne, grano, segale, ci facevamo il
pane; a volte compravamo un quarto o mezzo maiale e ci facevamo i salami.
Ricordo che una volta, era il mese di settembre del 1944, stavamo togliendo le patate,
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tutto con la zappa era massacrante, quando se ne sono arrivati dei partigiani, di quelli
non tanto bravi, volevano a tutti i costi dei salami ed in cambio ci avrebbero dato
un po’ di sale che era così raro a quei tempi. Purtroppo non ne avevamo ma hanno
continuato ad insistere, accusandoci perfino di averli nascosti apposta, il che non era
vero; così prima di andarsene, ci hanno portato via delle galline senza darci niente.
Ogni famiglia aveva un vigna, più o meno grande, ci si faceva un po’ di vino e a volte
se ne vendeva anche. Noi andavamo qualche volta al mercato a Pinerolo per vendere
dei nostri prodotti agricoli, quello per fortuna non era vietato.
Cercavamo di aggiustarci per sopravvivere, per esempio tostavamo l’orzo o i grani
dell’uva per ottenere una specie di caffè, quello vero era scomparso con lo zucchero,
il sale e l’olio; come surrogato di questo usavamo l’olio ricavato dalle noci, si usava
perfino per l’illuminazione; noi alla Ruata avevamo già la corrente elettrica, a
S.Bartolomeo era arrivata nel 1928 grazie ad un ingegnere che la comprava dal P.C.E.
In casa il mobilio era ridotto al necessario: tavolo, cassapanca, noi avevamo delle
sedie chiamate “cadreghè’, poi si usavano molto gli armadi a muro perché i muri erano
molto spessi. Noi avevamo un armadio di legno che i miei suoceri avevano regalato
a mia moglie quando ci siamo sposati: aveva due ante, da una parte si potevano
appendere gli abiti, dall’altra c’erano i ripiani; sotto aveva ancora due cassetti ed era
abbastanza facile da trasferire da una camera all’altra in caso di necessità, perché si
toglievano le ante e poi si divideva a metà in senso orizzontale, era già smontabile. Per
riscaldarsi si usava la legna, avevamo una stufa di ghisa, in molte case c’erano anche
dei caminetti, non tanto ben rifiniti, ma servivano anche per cuocervi la polenta, con
una pietra davanti che si appoggiava al paiolo perché non si muovesse.
Si viveva sempre con la paura addosso e calcolavi che potessero bruciarti la casa o
portarti via tutto, quindi si cercava il modo di nascondere quello che si aveva di più
bello. Ricordo che avevo nascosto delle cose in un cassone e poi ci avevo costruito un
muro davanti, in pietra, quindi l’avevo bagnato con la pompa irroratrice a mano e poi
spruzzato della cenere sopra, cosicchè sembrasse antico; era venuto proprio bene,
non hanno mai trovato niente. Avevo poi nascosto in una tinozza della biancheria
bella, ci avevo messo sopra delle pietre e poi l’avevo coperta con delle lastre inclinate,
quindi avevo fatto lì il mucchio del letame, non dava nell’occhio e dopo il 25 aprile,
quando l’abbiamo tirato fuori, non si era rovinato niente.
Per lavare la biancheria si procedeva in un modo un po’ complicato, ma si faceva
solo qualche volta nel corso dell’anno: in una tinozza si mettevano delle fascine sul
fondo per uno spessore di qualche centimetro, poi si prendeva un lenzuolo brutto e si
ricoprivano il fondo e le pareti interne, quindi si mettevano lenzuola e altra biancheria
sporca, si ricopriva con un altro lenzuolo e ci si buttava sopra della cenere e dell’acqua
bollente, quindi si apriva di sotto e si lasciava scolar via l’acqua sporca. Tutto questo
procedimento noi lo chiamavamo il “Ieisias” [bucato]; poi si metteva ancora a bollire
per qualche ora, quindi si sciacquava tutto o ad una fontana o dove c’era dell’acqua
corrente, poi si tiravano dei fili tra due piante, ogni tanto si piazzava un paletto
biforcuto e si stendeva lì la biancheria pulita. Quando si aveva da lavare qualche capo
piccolo; lo si faceva a mano ed in mancanza di sapone fatto con il grasso di maiale,
si facevano bollire galline o gatti e si ricavava il sapone così. Eh! Sì, sono stati tempi
molto duri e molto brutti, spero che nessuno più debba vedere le cose che ho visto io!
Egidio Paschetto (1909 - 2005)
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Testimonianza di Aurelio Bertalot (1912 - 1997) e Olga Griglio (1913 - 2005)
All’epoca della guerra (1945) avevamo 32-33
anni. Avevamo 3 figli, uno di 8 anni, l’altra di
5 e uno piccolo di 2. Vivevamo a S.Bartolomeo
con i miei genitori. lo ero stato richiamato come
militare per un periodo, poi mi hanno lasciato a
casa. lo per un po’ sono andato a dormire nei
boschi per paura dei nazi-fascisti.
Una volta i partigiani mi hanno fatto prendere il
carro con le mucche per andare a caricare del
fieno. Li aiutavamo, anche se avevamo paura. Ci
sono stati anche partigiani che si sono comportati
male, facendo prepotenze alla popolazione, si
sono comportati da fascisti.
La vita di tutti i giorni era dura, ma in campagna
si viveva ancora. A coltivare la terra erano
rimaste le donne, con i bambini e i vecchi. Si
coltivava la segale, andavamo al mulino di Porte
per farla macinare. Una volta mentre stavo
facendo il pane sono arrivati i nazi-fascisti e mi
hanno detto che ne volevano. lo avevo appena
infornato e ho cercato di spiegare loro che ci
sarebbe voluto ancora un bel po’ di tempo, ma avevano fretta, così mi hanno fatto
aprire il forno a metà cottura e si sono presi quello che volevano: il resto del pane è
rimasto duro, non cotto.
Ci si aggiustava come si poteva. C’era la tessera, ma era dura! Mi ricordo che un
giorno abbiamo mandato nostro figlio a prendere il pane della tessera. E’ stato quasi
tutto il giorno a fare la fila e poi quel pane faceva schifo ...
Mi ricordo un episodio che si ricollega alle perquisizioni. In un rastrellamento mi è
sparito l’unico taglio di stoffa e una bottiglia che mi avevano regalato per la nascita di
mio figlio. Allora non esistevano vestiti preconfezionati, quindi un taglio di stoffa era
molto importante. C’era chi ne approfittava.
A S.Bartolomeo eravamo al centro. Non potevamo tenere niente: portavano via tutto.
Avevamo qualche bestia piccola (galline), ma è tutto. Se avevi una bestia grossa o te
la portavano via o dovevi portarla al macello. I fascisti venivano sempre a chiedere
qualcosa da mangiare. Si viveva nella paura continua dei rastrellamenti. Mi ricordo il
rastrellamento in cui è morto Tonino Sansone; sono arrivati la mattina presto e hanno
iniziato a raccogliere prima gli uomini, poi anche donne e bambini. Così si tirava
avanti tra la paura; si cercava di aiutare chi era in difficoltà, ma non ci si fidava più di
nessuno: non potevi stare tranquillo perchè c’era chi riferiva ai fascisti tutto sulla tua
famiglia e su cosa avevi in casa ... Non parlavi più di cosa pensavi realmente perchè
per un niente potevi essere denunciato.
A casa mia i fascisti venivano sempre a chiedere da mangiare. lo sapevo da chi erano
mandati e ho detto loro che riferissero a quel tizio di presentarsi di persona se voleva
ancora roba.
Niente era più normale. A scuola prima della guerra si andava in divisa, erano tutti
balilla, inquadrati. Sembravano dei piccoli soldati: facevano anche delle dimostrazioni
ginniche, parate, a Pinerolo. Nella vita della chiesa, come in tutto, erano rimaste solo
più donne. La corale era tutta al femminile.
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Testimonianza di Margherita Porcero (1910 - 2002)
Nell’autunno del ‘43 ci eravamo già trasferiti da Ponte Palestro qui a “Furnlà” perchè
i miei suoceri non potevano continuare a stare da soli, in tempo di guerra, in questa
casa isolata, in mezzo ai boschi, erano già avanti negli anni e non più in buona salute.
lo lavoravo, come mio marito, alla Riv di Villar Perosa, perciò dovetti licenziarmi perchè
non potevo contemporaneamente occuparmi di mio figlio, della casa, dei suoceri, del
marito e recarmi da qui al lavoro a Villar. Ma licenziarmi non fu certo facile! Vennero
persino i carabinieri a controllare se i fatti corrispondevano, se cioè non mi fossi
licenziata per collaborare con i partigiani. Mio marito invece continuò a lavorare in
fabbrica, faceva tutti i giorni la strada, logicamente a piedi, fino a Ponte Palestro dove
poi prendeva il tranvai. Era molto faticoso anche perchè si doveva pure occupare
della campagna. Quando i rastrellamenti erano più frequenti però rimaneva a casa.
Il giorno in cui ci fu il bombardamento della fabbrica, era partito da poco, si trovava
appena sotto ai “Pagnun” quando iniziarono a cadere le bombe, perciò tornò indietro:
quando lo vidi rientrare provai un grande sollievo. Noi abbiamo subito più volte la
perquisizione della casa forse perchè, essendo situata qui, in mezzo ai boschi ma
con un’ottima visuale su S. Bartolomeo, i nazi-fascisti sospettavano che offrissimo
ospitalità ai partigiani. Qualche tempo dopo il fatto del Bric una pattuglia di fascisti
venne a farci visita; riconobbi subito un mio ex compagno di lavoro del Villar, un certo
Simionati, un filibustiere e, senza pensare alle conseguenze, gli dissi: “Mi ricordo
quella volta che prese per il collo il caporeparto e lo malmenò.” “Ah, sì, se se ne
ricorda?! Ne sono proprio contento!”. Tutto soddisfatto, cambiò subito atteggiamento
nei nostri confronti: s’informò sulla sorte di mio nipote che aveva perso il papà al
Bric, gli offrì persino del pane e, pur avendo perquisito la casa, non lasciò portare
via niente. Il giorno in cui hanno incendiato la casa della nonna di mio nipote, a
S.Bartolomeo, io ero andata a prendere il latte alla Lia - allora si andava tutti dall’uno
e dall’altro a prendere il latte, dove se ne trovava; era lalba e stavo per partire quando
sentii rumoreggiare su alla Cappella di qui si sentiva bene perchè era proprio là di
fronte - ma mio marito mi rassicurò: “Sarà qualcuno che s’è già alzato”, perciò io presi
il mio secchio e me ne andai abbastanza tranquilla. Lui tanto continuava a sentire
quei rumori alquanto sospetti e, sebbene il bambino, ancora addormentato, sarebbe
rimasto solo in casa, decise di allontanarsi per nascondersi, sperando di incontrarmi
al più presto mentre ritornavo. Quando ci incontrammo mi spiegò che a S.Bartolomeo
c’erano i tedeschi perciò lui se ne andò su a “Roca Bianca”; passava prima alla Colletta
ad avvisare il cognato che sicuramente l’avrebbe seguito perchè, di solito, condividevano
il nascondiglio. Rimasero lassù tutto il giorno: da lassù videro alzarsi il fumo delle case
bruciate e pensarono che era stata fatta una strage, invece, per fortuna, le molte persone,
che durante il rastrellamento erano state prelevate e poi rinchiuse nella scuola, erano
state liberate; solo il tenente Sansone era, purtroppo, stato barbaramente trucidato.
Quando, la sera, mio marito, molto provato, rincasò, per prima cosa mi chiese:”Siete
tutti vivi?” “Sì, sì, noi siamo vivi, ma là... non so.’ “ “E Franco? “ “Franco, quand o sono
tornata stamattina, l’ho trovato nascosto in un cespuglio, abbracciato al suo cane che
aveva slegato per portare con sè ! “. Un’altra volta, l’abbiamo scampata! Sapevamo
che i nazi-fascisti erano stati a S.Bartolomeo, ma non riuscivamo a capire se se n’erano
già andati; mio marito ed alcuni amici, scappati dalle loro case, stavano discutendo lì
dietro nella strada, riparati dal caseggiato, indecisi se restare, rientrare o allontanarsi.
Mio figlio ad un certo punto intervenne deciso: “Vado io fin là a vedere, poi vi dico!” e
se ne andò di corsa - aveva 9 anni - a fare il giro della borgata. Ma non ebbe da riferirci
nulla: tornando, non era ancora entrato nel cortile quando alcune raffiche di mitra si
abbatterono sul muro della casa ... c’è ancora il segno, se volete vedere!
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TESTIMONIANZE
DI PARTIGIANI
Partigiani e Patrioti di San Secondo in corso Torino a Pinerolo, nei giorni successivi alla liberazione.
Seduti sui parafanghi: Walter Gardiol (Brik) Eraldo Paschetto (Tabaccaio); sul camion partendo dall’alto
a sinistra: Bruno Balmas, Michele Bertea, Giovanni Gay, ; Renato Prina, Roberto Lantelme, Michele
Molineris (il Prof), Gina Saracco (staffetta G.L.), Michele Avondetto, Ignazio Perlo, Dante Romano (il
Macellaio).
In ricordo di Gran Papà
Albino Martinat è nato a Roccapiatta il 14/09/1926 e morì
il 28/12/2008. Nel maggio del 44’ non ancora diciottenne
temendo la chiamata alle armi, partì per la montagna
aggregandosi alla 5° divisione G.L. Brigata Val Pellice,
diventando capo squadra fino al 08/06/1945. Il nonno non
ha mai parlato moltissimo della sua esperienza da partigiano,
però mi ricordo di un aneddoto che si racconta in famiglia,
di quando un soldato tedesco in fase di ricognizione lo trovò
nascosto in un fosso sotto a delle fascine di legno e portandosi
l’indice alla bocca gli fece segno di star zitto e se ne andò,
graziandolo. Solo dopo la sua morte, abbiamo trovato dei
documenti che attestano l’effettiva partecipazione alla guerra
di liberazione a firma del Comandante Favout, la Croce al
Merito di Guerra e il Diploma d’Onore firmato dal Presidente
della Repubblica Sandro Pertini.
Erica Martinat
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Appuntamento con Valter Gardiol
Appuntamento importante quello
di sabato 30 agosto. Incontriamo
a casa sua Valter Gardiol per
raccogliere
le
sue
preziose
testimonianze partigiane. Valter
ci accoglie con gioia, superando
l’amarezza per il dolore alle gambe,
la perdita quasi totale della vista
e la mancanza di Delia moglie e
compagna per più di 50 anni.
Nelle fotografie e disegni che
addobbano la sua cucina si legge
l’affetto che lo circonda e in un
attimo ci porta indietro nel tempo
con lucido trasporto.
Valter nasce il 29 marzo 1926;
cresce, lavora e vive tutt’ora al Bric
frazione di San Secondo. Frequenta
la scuola che lascia verso i 12 anni
con il suo fedele amico e vicino di
casa Ugo Ferrero. Insieme decidono
di cercare lavoro, che trovano da
“Miclin” a tagliare legna. Alla fontana
dove andavano a prendere l’acqua
incontrano spesso ex compagni di
scuola che frequentavano anche la
scuola fascista e relativi allenamenti
Walter Gardiol e Gina Saracco. Quest’ultima era la staffetta che si svolgevano il sabato a San
che teneva i collegamenti fra il comando GL ed i reparti Secondo, ai quali loro si rifiutavano
di partecipare. Pur giovanissimi
Bosio e Ceccarini.
avevano già ben chiaro da che
parte stare e, alla vista della scritta “VINCERE” attaccata sulle giacche dalla allora
famosa maestra Bertea, dopo aver chiesto il motivo per il quale la portavano, i due
ragazzi spiegarono che serviva a sostenere la guerra d’Africa.
Molto ironicamente Valter e Ugo indicarono dove, secondo loro andava attaccata
quella scritta incuranti delle conseguenze di quel gesto.
Pochi giorni dopo però, vennero convocati alla Casa del Fascio, dove per oltre un’ora
gli fu fatta una predica minacciosa con un bicchiere di olio di ricino sotto il naso per
intimorirli. Come se non bastasse, i loro genitori furono costretti a pagare una multa
di ben 500 lire, valore di un vitello. Questa esperienza non fece che rafforzare la loro
antipatia per il Fascio e, quando arrivò la lettera di arruolamento non ebbero il minimo
dubbio, sarebbero andati con i Partigiani!
Angrogna fu la loro prima meta, dove però non poterono fermarsi perché la squadra
era già al completo e venne loro consigliato di proseguire verso la Conca del Pra.
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Qui trovarono la loro squadra, arrivarono che erano i primi di giugno del ‘44. Facevano
parte della Quinta divisione G.L.; periodicamente scendevano verso Bobbio per andare
a fare rifornimento di cibo. Al Pra passavano le loro giornate ad allenarsi a sparare,
ma di armi ne avevano ben poche. Ci racconta, con una certa enfasi, che una notte
nessuno di loro aveva il permesso di stare fuori dal rifugio e ci precisa che il rifugio
non era quello che c’è adesso, questo lo hanno costruito in onore di Willy Jervis
primo partigiano che venne ucciso alla Conca del Pra. Dopo questa breve parentesi
il suo racconto continua incalzante, ritorna a ricordarci che loro non potevano uscire
dal rifugio, solo i capitani avevano il permesso di stare fuori. Quella sera fu speciale
perché gli inglesi avevano paracadutato dei container. Alcuni contenevano cibo altri
armi, in un secondo tempo scoprirono che quella notte furono paracadutate anche
due persone ma non seppero mai chi fossero.
Dopo due mesi passati al Pra scesero verso la
Sea di Villar Pellice e qui la sua voce cambia
improvvisamente tono. Si ricorda la paura che
provò quella volta che nessuno si era accorto
dell’avvicinarsi dei fascisti. Lo racconta come
se anche noi lo potessimo vedere e sentire. La
fuga obbligata verso i boschi e, meno male che
c’erano i boschi di pini, perché proprio questi
con il loro ampio tronco hanno loro permesso di
nascondersi ogni volta che i fascisti sparavano
e in questo modo non vennero colpiti. La fuga
durò dei giorni e le uniche cose che avevano da
mangiare gliele offrivano i “bërge”.
In quel periodo lui non era con Ugo perché la
squadra si era divisa e Ugo era andato nel
gruppo “sabotatori”. Si ricorda che nella loro fuga
una famiglia gli aveva dato da mangiare della 1946 - Dipinto raffigurante Walter Gardiol
minestra ma gliela portava una donna nei boschi realizzato da Maria Rol (Sorella di Gustavo Rol)
perché nessuno rischiava di farli entrare in casa.
Dietro loro indicazioni arrivarono alle Sonagliette e quindi poi ai Piani, qui si respirava
di nuovo aria di casa! In breve tempo giunsero a San Secondo dove, ad aspettarlo
c’era Ugo che era stato avvisato del rastrellamento dei fascisti ed era quindi rientrato.
Il racconto di Valter non perde mai di lucidità, magari non si ricorda più tutti i nomi
dei suoi compagni ma la sua esposizione è chiara come se ci stesse raccontando un
film appena visto. Passarono pochi giorni e la squadra si riformò, questa volta salirono
a Prarostino così potevano tenere ben sotto controllo la vallata che era ai loro piedi
e l’ avanzata dei soldati. Ma è proprio qui che succede una cosa che lo colpisce, che
lo amareggia e che lo porta di nuovo a cambiare il tono di voce. Scoprirono, a loro
spese, che una famiglia di Prarostino era alleata con il nemico. Quando uno di loro,
Delio, viene ucciso a tradimento decidono allora di spostarsi verso Bricherasio lungo
il Pellice, alle Giaire. Qui rimasero fino a novembre del 1944. A novembre la squadra
decise di spostarsi verso Asti, ma lui non partirà rimarrà a San Secondo con una nuova
squadra di Prarostino. Ugo invece decise di andare ad Asti. Il suo racconto è preciso,
ricorda bene che in quel periodo le notizie erano poche e le poche che potevano avere
erano grazie alla radio, così ogni tanto si incontravano a casa dei suoi genitori, dove
c’era la radio, e ascoltavano Radio Londra. Alcuni giorni prima del 25 aprile ricorda la
notizia che li rallegrò tutti, questa diceva: zero + zero. Questo codice voleva dire che
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era iniziata l’ insurrezione e che finalmente i fascisti iniziavano la ritirata.
Dopo il 25 aprile lui e i suoi compagni vennero spostati nella caserma della Cavalleria
a controllare i soldati catturati. Qui il suo racconto scende nei particolari, gli affiora
alla mente quella sera, una sera che sembrava essere una come tutte le altre ma lui
sapeva che sarebbe successo qualcosa di triste e allora chiese il permesso di tornare
a casa.
Quella sera venne giustiziato un traditore. Valter ci ha raccontato che aveva già
assistito ad una fucilazione, quella che era avvenuta tempo prima in Vicolo delle
Carceri a Pinerolo, qui aveva visto alcuni suoi compagni sparare al traditore senza
essere però loro gli addetti alla fucilazione e questa cosa lo aveva fatto soffrire.
Gli aveva fatto male vedere come persone che
conosceva da sempre si stavano modificando a
causa della rabbia, della paura e probabilmente
anche della stanchezza. Questa cosa gli faceva
molto male, come gli aveva fatto molto male
quella volta che si era dovuto nascondere nel
fienile di casa per un lungo tempo perché erano
arrivati dei soldati a controllare se c’era qualche
partigiano in quella casa e mentre era nascosto
aveva sentito la madre dire ai soldati che lei era
parente di Martinat, il loro capitano.
Con un po’ di orgoglio ci racconta di aver fatto
due “azioni” importanti, tutte e due a Osasco.
Nella prima lui, Remo Pastre e Godino Delio
avevano catturato due soldati austriaci che
erano poi serviti in seguito alla Divisione per
poter fare degli scambi. Nella seconda avevano
Walter Gardiol, Gina Saracco, Erminio sparato a due camion fascisti così che questi
erano dovuti fuggire.
Comba (Arch. Saracco - Torre Pellice)
Con tono fiero ci dice di non aver mai ucciso nessuno e con un velo di tristezza non
può negare di aver visto azioni che si potevano evitare.
Lasciamo Valter a malincuore dopo due ore passate in un lampo, deve camminare,
cercare di tenere attive le sue gambe, proprio quelle che molto tempo fa erano state
valide alleate.
Il dubbio ora è di riuscire a trasmettere le emozioni vissute da Valter e da chi come
lui ha cercato di difendere e ottenere quella libertà che nel tempo forse non abbiamo
saputo rispettare appieno.
Testimonianza raccolta da Bruna Destefanis e Franca Avaro
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Ricordi di Francesco Asvisio
Francesco Asvisio aveva solo 17 anni
quando nel dicembre del 1944 iniziò a
fare da staffetta per le squadre partigiane.
« Abitavo proprio in centro a San Secondo
nella zona del pozzo; mi ricordo che i primi
tempi partivo a cavallo con un piccolo
barroccio a portare messaggi, viveri e
armi, che nascondevo con cura, nella
zona tra la Val Pellice e la val Chisone.
In seguito mi spostarono verso Babano,
le notti ci rifugiavamo nelle cascine della
zona, fu proprio nella notte che subimmo
un’imboscata, io insieme ai miei compagni
partimmo immediatamente con i cavalli
e i carretti al seguito, ma i tedeschi
ci inseguivano sempre più da vicino e
fummo costretti ad abbandonare i cavalli
e a rifugiarsi in altre cascine della zona,
quella volta riuscii a scamparla.
Nei giorni seguenti la mia squadra ricevette l’ordine di andare alla stazione di Airasca
dove prendemmo dei prigionieri, erano dei partigiani austriaci, ci sarebbero serviti
per fare uno scambio con i nostri partigiani presi dalle Brigate Nere, ma invece della
liberazione vennero fucilati.
Era il marzo del ‘45 quando venni trasferito nella zona di Piobesi Torinese, in borgata
Castelletto.
Il 24 marzo appena dopo la colazione, io uscii fuori dalla cascina per medicarmi la
gamba con la scabbia, in quell’istante mi accorsi di un camion delle brigate nere che si
dirigeva spedito nella nostra direzione, non riuscii a dare l’allarme, non feci in tempo,
alcuni scapparono nei prati, io non potei far altro che rimanere immobile con una
mitragliatrice puntata addosso.
Ci fu una sparatoria e uno di noi venne ucciso, si chiamava Dovio Giuseppe, subito
dopo ci fecero caricare il suo corpo esanime su di un furgone.
Insieme ad altri feriti partimmo con quel furgone, ci portarono vicino al cimitero di
Piobesi, ci fecero scendere e in quel momento pensai che fosse arrivata la fine invece
per fortuna eravamo fermi per una foratura.
Dopo aver sostituito la gomma ci portarono a Torino alle prigioni “le nuove”.
Ricordo che era la domenica delle palme, e mi ritrovai in prigione con altri 2 partigiani
della val d’Ossola.
La domenica era l’unico giorno in cui ci permettevano di uscire tutti in fila nel cortile
interno, e fu lì che nelle file davanti alla mia vidi mio zio, riuscii a malapena a salutarlo.
Nei giorni seguenti riuscii a parlargli tramite un passaparola tra una cella e l’altra, e
rimediai una coscia di tacchino con un po’ di pane che mia madre gli aveva mandato e
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così tramite l’aiuto delle altre celle riuscii a mangiare qualcosa di meglio del solito brodo
di girasole che ci propinavano, insieme alle botte che quotidianamente ricevevamo in
cella.
Mi fecero una sorta di processo nella settimana di Pasqua, mi chiesero chi conoscevo
delle squadre partigiane, ed io risposi di esser stato preso dai partigiani, e che le armi
che avevo non erano le mie.
Dopo 3 giorni dal processo, entrarono in cella e dissero “Asvisio fuori!”, gli altri
mi guardavano come se non fosse un buon segno, come se la mia fine si stesse
avvicinando.
Uscii dalla prigione, fui liberato insieme al proprietario della cascina dove venni
catturato, mi ritrovai in centro a Torino, una città che non conoscevo, grazie al suo
aiuto riuscii a tornare a Piobesi e da lì partii verso casa.
Lungo la strada incontrai un mio vecchio compagno di squadra a cavallo che mi portò
al comando dei partigiani di Vigone, da lì proseguii la strada a piedi sino a casa.
Incominciai di nuovo il mio lavoro di staffetta, ed un giorno nella zona degli Airali
vicino alla ferrovia, venni fermato da una squadra fascista che mi perquisì, per fortuna
non a fondo e non trovarono i buoni che avevo per il prelevamento di alcuni cavalli,
venni comunque malmenato e minacciato.
Ci fecero capire che non potevamo più stare nei dintorni, così il mattino seguente partii
insieme a un mio compagno verso le zone dell’astigiano, nel comune di Valfenera.
Lì rimasi fino al 25 aprile, giorno della liberazione, in cui andammo tutti a Torino e li ci
fermammo per alcuni giorni ospiti in un bel palazzo residenziale del centro.
Tornai a Pinerolo nei primi giorni di maggio, ci radunarono tutti in quel che restava
della caserma Berardi bombardata, da lì poco per volta ci fecero tornare a casa.
Ci aspettavano dei tempi duri, il lavoro non c’era, e con quello anche il cibo scarseggiava
ma perlomeno eravamo liberi, la guerra era finita! »
Testimonianza raccolta da Matteo Bertea in occasione
della “Giornata della Memoria” del 27/01/2014
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Giovanni Iaia Partigiano
(dedicato a Elisa Iaia)
Giovanni nasce a Finale Ligure il 13 Giugno 1924,
ultimo dopo i fratelli Pietro ed Elisa da Giuseppe e
Anna Clorinda Maccagno.
Insieme alla sorella Elisa frequenta l’Asilo Infantile di
Finalmarina retto dalle Suore della Misericordia.
E’ un ragazzo vivace ed esuberante, pratica ogni tipo
di sport e allena una squadra di basket.
Terminati da poco gli studi, Giovanni, diventa un
appassionato fotografo, ma sarà un’altra la passione
che darà un senso più profondo alla sua vita...partirà
come volontario in Aviazione.
Dalla documentazione risulta che entra a far parte
del reparto Aerosiluranti Buscaglia col grado di Aviere
scelto armiere di stanza nella caserma di Venegono
fino al febbraio 1944. Ma è a pochi giorni dal suo
ventesimo compleanno, il 10 Giugno 1944, che
prenderà la più eroica delle sue scelte di vita, quella
che lo porterà a lasciare la sua amata Areonautica per
unirsi alle formazioni partigiane di Giustizia e Libertà.
Sceglie la Val Pellice ed entra a far parte della formazione G.L.Val Pellice dove
rimarrà fino al 10 Novembre 1944. Con il nome di Lampo, parteciperà a sabotaggi e
mitragliamenti a colonne nazi-fasciste.
È l’11 Novembre del 1944...il suo ultimo giorno...
Una pubblicazione curata dal Comune di San Secondo riferisce i suoi ultimi istanti di
vita: “Di pattuglia nella zona delle Cantine Airali di San Secondo di Pinerolo, cadde nel
tentativo di sfuggire alla cattura freddato da una raffica di mitra.”
La sorella Elisa, informata della sua
morte, impiegò una settimana per
andarselo a riprendere a bordo di
un camion scortato dai Partigiani di
Finalmarina: questa tragica vicenda
segnò la sua vita in modo indelebile.
I funerali di Giovanni furono celebrati
a San Secondo di Pinerolo e una folla
immensa lo seguì...i compagni dissero
che tutto il paese lo aveva idealmente
adottato.
L’amministrazione di San Secondo fece erigere un cippo in ricordo di quella tragica
vicenda che poi fu ricostruito dalla famiglia in tempi più recenti.
Alcuni anni fa il Comune di San Secondo ha promosso l’iniziativa “Sentieri della
Resistenza”e ne ha dedicato uno a Giovanni...credo che sia questo il miglior modo di
ricordarlo a tutti noi che lo abbiamo così tanto amato.
Patrizia Robutti
35
Testimonianza di Mario Mauro (1926 - 2012)
La Resistenza armata
è stata la continuità
di
una
resistenza
clandestina al regime,
per cui le forze politiche
che erano state messe
al bando da esso hanno
proseguito la loro
opera in quel modo,
dall’inizio del fascismo
fino all’8 settembre del
‘43.
lo ricordo molto bene
quella sera, ero con i
miei amici a S.Secondo
In alto a sinistra Mario insieme ad un gruppo di partigiani
e ascoltavamo la radio
del parrucchiere che era lì con noi sulla piazza. Abbiamo sentito che il capo del
Governo, Badoglio, annunciava l’armistizio; abbiamo tutti esultato: “La guerra è
finita, la guerra è finita!” Già in giornata c’era sentore di questa notizia, i militari non
sapevano cosa fare per cui c’è stato lo sbando totale.
Proprio quella sera sono arrivati in piazza dei militari dalle Prese, dalla fabbrica
della Còlla, nella quale c’era un deposito-magazzino di armi, moto, camion... del
reggimento dei bersaglieri. Tra questi militari c’era un ufficiale che, vedendo un
gruppo di giovani, ci ha chiesto degli abiti civili ed un aiuto per andare a recuperare il
materiale dal deposito. Ricordo che quel tenente mi ha dato la sua pistola dicendomi:
“Tu sei un ragazzo, se ci fermano non corri pericoli!” Abbiamo cosi caricato i camion
che sono poi stati portati a Prarostino (S.
Bartolomeo) dove sono saliti altri militari e
cosi si è formata la prima raccolta di forze
che ha dato il via alla Resistenza armata.
Io, Walter Tumic, Walter del Bric e Aldo
Gallea ci siamo aggregati ad un gruppo
nel mese di marzo, andando a Pradeltorno,
anche se il grosso del reclutamento è poi
avvenuto tra l’aprile e il maggio del ‘44;
nonostante la mia giovane età avevo capito
che rimanere a casa sarebbe stato ancor
più pericoloso. Siamo stati accettati da una
squadra della Val Pellice, che poi è diventata
la 5° Divisione Alpina di Sergio Toya G.L....
ispirata dal partito d’azione, che si è poi
sciolta definitivamente dopo la Liberazione.
Ogni zona era legata ad un’ideologia politica,
per esempio la Val Pellice era legata al
vecchio partito socialista o al nuovo partito
36
A destra Mario insieme
ad un compagno partigiano
d’azione, nelle Valli Cuneesi fino
a Luserna e Montoso prevaleva il
partito comunista con formazioni
di gruppi garibaldini; infine in
Val Chisone si sono avute delle
formazioni autonome che non
amavano avere un cappello politico,
ma che combattevano all’insegna
di un’esigenza di ribellione contro
fascisti e tedeschi.
Non c’erano solo motivi politici
che giustificavano la nostra scelta,
ma a volte influivano altri motivi
come la maggior vicinanza a
casa o l’aggregazione a persone
conosciute; per questo, quasi
tutti quelli di S. Secondo sono
confluiti in Val Pellice, mentre
quelli di Prarostino in Val Chisone.
Fra i vari raggruppamenti, pur
combattendo per lo stesso ideale,
esistevano delle rivalità, alimentate
dalle discriminazioni degli alleati
che lanciavano degli aiuti in
armi e viveri più facilmente alle
formazioni autonome, poi a noi di
G.L. e mai ai garibaldini, solo per
le loro idee politiche. Ricordo che
i garibaldini sono riusciti, a volte,
ad ottenere dei lanci destinati
il 20/02/1945 Mario viene autorizzato a portare il distintivo a noi, accendendo dei fuochi di
di capo squadra
segnalazione e ingannando così
gli americani: quelle volte noi ci
consideravamo derubati. Nel periodo in cui i partigiani occuparono la Val Pellice io
e il mio gruppo eravamo a Bobbio, alla Villa Principe; siamo riusciti a tener duro per
2 mesi, poi i nazi-fascisti hanno liberato la vallata anche perchè noi non potevamo
fare una vera e propria guerra, la nostra era una resistenza... sì! ma alla fame, alla
sete, alla morte sicura. In quei 2 mesi dovevamo occuparci dei viveri anche per la
popolazione; da Torre Pellice non potevamo far entrar niente, per cui, tutti i giorni, più
volte al giorno, con i muli andavamo a Montoso a rifornirci dai camion che salivano
da Barge.
Una volta siamo riusciti a mangiare della carne perchè era morto un mulo, ma
purtroppo più lo facevamo cuocere e più si induriva; data la stagione facevamo grandi
scorpacciate di ciliege tanto che abbiamo avuto gravi disturbi intestinali, non siamo
morti disidratati, per fortuna, perchè delle ragazze, che imparavano da mia mamma a
fare le sarte, ci avevano portato dei limoni. Mia mamma, in quel periodo, viveva sola
con mia nonna e cuciva abiti per vivere, una volta sono arrivati i tedeschi e le hanno
portato via le tessere annonarie, la seconda volta le hanno requisito la macchina da
cucire, il suo unico strumento di lavoro e di sostentamento.
37
Quando i nazi-fascisti sono entrati in Val Pellice noi ci siamo sbandati, io sono andato
a finire a Montoso con i garibaldini fino ai primi rastrellamenti del mese di agosto,
dopo di che si è venuta a creare una squadra, comandata da Remo, formata da molti
componenti di S.Secondo e qualcuno di Prarostino e Porte. Questa formazione si è
dapprima stabilita alla Rina, dopo alle Ramate dove si sono aggiunte altre persone,
tra cui Gino Ceccarini che ha poi preso il comando.
In quel periodo, a Prarostino, c’erano diverse squadre di partigiani tra loro. Verso
la metà di ottobre, una notte, la squadra di Adriano dei Castelletti aveva catturato
un pattuglione di S.S. italiane, 13 o 14 uomini, e li aveva portati su a S.Bartolomeo.
All’alba un uomo della formazione di Adriano è venuto alle Ramate a chiedere rinforzi,
per portare i prigionieri partigiani di Pralarossa, comandati da Erminio. Io e altri 2
siamo partiti e, passando alle Molere, abbiamo salutato i nostri compagni Cottura,
Salvai e Giai che stavano terminando il loro turno di pattuglia. Arrivati a S.Bartolomeo
abbiamo sentito dei rumori strani, sembrava una motoretta a 2 tempi, invece era una
mitragliatrice dei tedeschi che erano saliti a cercare i loro uomini.
Noi allora siamo corsi ai Castelletti, abbiamo preso i prigionieri, siamo andati nei boschi
vicini e li abbiamo tenuti sotto tiro fin nel primo pomeriggio, perchè non fiatassero.
Erano circa le 15 quando i tedeschi se ne sono andati e noi abbiamo potuto riprendere
il cammino per Pralarossa.
Strada facendo vediamo arrivare 2 uomini, trafelati, della mia squadra che ci hanno
detto: “Tornate indietro immediatamente con 3 prigionieri, perchè hanno ucciso
Giovanni e Gino vuole vendicarlo”. Abbiamo ripreso la strada del ritorno e abbiamo
condotto i 3 alla casa delle Molere dove Gino ha fatto fare loro il buco e li ha fucilati;
io non ho voluto partecipare al momento poiché, data forse la mia giovinezza, pativo
queste cose. La sera stessa tutto il mio gruppo si è trasferito nei boschi del Pellice,
nelle “Giaire”, dove siamo rimasti tutto l’inverno ‘44-’45.
Nel mese di febbraio ci siamo spostati nell’Astigiano perchè si preparava la liberazione
di Torino, per cui era necessario che ci fossero delle forze maggiori intorno alla cintura
della città. In quel periodo siamo stati abbastanza bene, anche perchè le uniche
azioni che abbiamo fatto sono state requisire un camion di zucchero e uno di uova:
finalmente lì non abbiamo più patito la fame.
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Arnaldo Genre, un pastore valdese tra i partigiani (1911 - 2003)
Mio nonno paterno, deceduto alcuni anni fa, si
chiamava Arnaldo Genre.
Dal ‘59 al ‘74 è stato pastore a San Secondo, nel
‘74 andò in pensione e visse a San Secondo fino
al ‘97 per poi trasferirsi a Torre Pellice.
Lui ha vissuto in prima persona la Resistenza,
precisamente nel gruppo partigiano della Val
Germanasca. Tante volte ci ha raccontato un
episodio di cui è stato protagonista.
Mio nonno faceva il pastore valdese e non
aveva mai avuto simpatia per il fascismo, e non
aveva mai nascosto le sue idee antifasciste; il
suo ruolo di pastore lo portava a parlare con
molte persone e i suoi discorsi influenzavano
e spingevano i giovani a scegliere la strada
delle montagne e delle bande partigiane. Tutto
questo lo fece considerare un nemico pericoloso
Arnaldo Genre con la moglie Lilliana Grill
e divenne un ricercato speciale per le SS. In quel
tempo svolgeva il suo ministero a Prali e una volta si salvò dall’arrivo improvviso delle
SS gettandosi nel torrente e rimanendovi a lungo nascosto. Ma l’episodio più tragico
risale al settembre 43 quando una pattuglia delle SS perquisì il presbiterio, dove
non trovò il pastore che era scappato sulle montagne, ma nel quale fece un preciso
inventario degli oggetti che erano presenti. In un secondo successivo sopralluogo,
i tedeschi si accorsero che erano sparite la macchina fotografica ed una cassettina
con del denaro. Accusarono quindi la popolazione di collaborare con il ricercato e
allinearono sulla piazza di Prali tutti gli uomini del paese, con l’intenzione di fucilarli
se entro la sera il pastore non si fosse consegnato.
Immediatamente qualcuno corse ad avvisare mio nonno (i pralini conoscevano
benissimo i luoghi dove si nascondeva) che, naturalmente, si avviò verso Prali
ben consapevole che non poteva provocare la morte di quelle persone. Era ormai
abbastanza vicino al centro abitato, fece una preghiera e poi si avviò.
Nel frattempo però, quella che sarebbe diventata sua moglie (e mia nonna) già
innamorata di lui, non potendo sopportare di rimanere passiva, ebbe un’idea: chiese
alla cugina, di padre tedesco e che parlava perfettamente il tedesco, di tentare
un’impresa disperata, andare dal maggiore delle SS e dirgli che aveva visto con i
suoi occhi il pastore andare in casa a prendere gli oggetti mancanti, dunque non
c’erano responsabilità della popolazione. Sorprendentemente, forse impressionato dal
perfetto tedesco parlato dalla ragazza, il maggiore credette alle sue parole e lasciò
liberi i pralini prigionieri. Ma mio nonno era ormai vicinissimo, per fortuna un signore
del paese, partito di corsa, riuscì a raggiungerlo; non gli spiegò nulla, non c’era il
tempo, gli disse solo una frase in dialetto che mio nonno mi ha ripetuto tante volte e
che per lui significava la salvezza :”PUO’ SCAPPARE! SONO LIBERI!”.
Mio nonno raggiunse, come possiamo immaginare molto in fretta, i suoi nascondigli
sulle montagne.
Testimonianza raccolta dal nipote William Genre
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TESTIMONIANZE
DI INTERNATI
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Testimonianza di Alberto Avaro
Avevo quasi vent’anni quando, durante la Seconda guerra Mondiale, fui inviato col
mio battaglione, il Terzo Alpini di Pinerolo sul fronte francese: Les Alpès - Colle Della
Croce alla conquista di Brie. Nel 1940 la resa della Francia era, però ormai prossima e
ben presto fummo riportati a Pinerolo in attesa di nuova destinazione.
Il fronte greco fu il prescelto, durante il
viaggio, quando ci trovavamo in Albania, il
conflitto ellenico cessò con la vittoria del
Reich; ci preparavamo perciò a passare
l’inverno in Albania, diretti sul fronte
jugoslavo. Il freddo era uno dei nostri
acerrimi nemici, alcuni, se non molti miei
compagni, hanno subito la perdita di dita
di piedi e mani. Intanto il tempo passava e
la Guerra che doveva cessare in un lampo
si protraeva nel tempo; ci trovavamo
a Monstar, nel Montenegro, quando l’8
settembre 1943 il generale Badoglio
dichiarava l’armistizio tra l’Italia e gli
Alleati. Un grido di gioia ci partì dal fondo
del cuore: la Guerra è finita!
Ben presto però il maggiore Raunish,
ufficiale del mio presidio, ci riportò sulla
terra e dentro il conflitto. Ci spiegò che il
Reich considerava gli italiani dei traditori e
dunque che i vecchi alleati erano i nuovi
nemici. O con Tito o con Hitler questa la
scelta che avevamo. La mia storia fu lambita
da una terza possibilità un battello era in
partenza per Ancona. Arrivato all’imbarco,
i posti erano esauriti ed io rimasi sulla
banchina col cuore pieno di rimpianto. Quel ritardo si rivelò però benevolo, il battello
finì presto la sua corsa, lo vidi affondare davanti ai miei occhi.
La fortuna durò poco poiché una mattina, all’alba, tedeschi e fascisti prima ci
accerchiarono e poi ci fecero prigionieri di Guerra. Era l’inizio di novembre del 1943
quando dopo una sonora scarica di botte varie ci portarono a Belgrado; prima via
camion, come fossimo merci, poi a piedi come fossimo bestiame. Il Danubio diventò
la nostra strada verso l’inverno che incombeva come la nostra malasorte. Arrivati
a Mapen - campo di smistamento - fu chiaro che non saremo stati trattati con i
guanti. In quanto traditori di guerra la destinazione fu il campo di punizione di Iltrup,
in Germania. La vita era dura, passavamo i nostri giorni nel costruire baracche e
ripari destinati a civili tedeschi rimasti orfani di casa durante i furiosi bombardamenti
statunitensi. Dopo sei mesi un trasferimento, passando per la stazione di Dussendorf.
Proprio lì vidi una colonna di ebrei; oramai anche noi li riconoscevamo come tali.
Divisi tra uomini e ragazzi e tra donne e bambini con quello sguardo consapevole
e rassegnato. Mentre bambini e donne piangevano all’interno del vagone, vidi un
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uomo consolare un ragazzo che,
consapevole del destino a lui
assegnato si disperava. Quando
il treno partì, la sua destinazione
era Mauthausen, sapevamo che
nessuno ne avrebbe fatto ritorno.
Io, con altri circa centocinquanta
sfortunati fui portato proprio in
un piccolo campo nei pressi di
Dussendorf.
Dovevamo
aggiustare,
con
piccozze e palanchini, le ferrovie
divelte dai bombardamenti alleati.
Alberto Avaro insieme ad alcuni commilitoni in Albania
Se la vita a Iltrup era dura, qui
era anche peggio. SS e Gestapo alla nostra guardia ci violentavano sia fisicamente
sia psicologicamente. Botte giornaliere al primo malcapitato; per punirci ci legavano
spesso a un palo posto al centro del cortile a morire dal caldo l’estate e dal gelo
l’inverno. La pausa del mezzo dì serviva a loro per mangiare, a noi per vederli
mangiare. Giunti a sera una brodaglia ci veniva data senza che potesse né saziare la
fame né risollevare l’umore.
Dormivamo in letti a castello, in tre, uno sopra l’altro. Io dormivo al terzo piano e
sotto di me dormiva un uomo, un padre di famiglia: tale Pirin, toscano, carabiniere
classe 1908. Tutte le sere mentre con gli altri compagni, cattolici, valdesi, ortodossi
o musulmani che fossero, si pregava un unico Dio Pirin stringeva le foto della sua
famiglia, una moglie e due figlie lo aspettavano. Una sera con un filo di voce mi
disse: “Avaro ho paura di non farcela, mi sento mancare.” Il mattino scendendo per
affrontare un nuovo giorno di fatica, fame e soprusi, lo trovai nel letto; era morto
con le foto dei suoi cari strette alla bocca come per dare un ultimo bacio agli affetti
lontani. Soffrii molto per la morte di Pirin.
Una mattina di un giorno come tanti sentimmo suonare l’allarme antiaereo: una
formazione alleata si stava preparando a bombardare. In un lampo una delle guardie
ci ordinò di sdraiarci pancia
all’aria e di guardare gli aerei
che sganciavano le bombe.
Rimanemmo tutti pietrificati
in quella posizione fino
a quando, un paio di
esplosioni distrussero alcuni
capannoni della Fer Group
non molto distanti. Il caos fu
immediato, nel trambusto io
trovai riparo in una trincea.
Fu da lì che vidi Guido, un
mio amico, un ragazzo di
Asti, che si sbracciava. Mi
gridava di non star lì, di
scappare con lui. Dopo
Foto inviata ai genitori nell’inverno del ‘42, scattata durante un alcuni secondi un ordigno
esplose proprio ai suoi
rastrellamento sulle montagne della ex Jugoslavia.
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piedi... lo vidi saltare in aria. Una coltre di terra mi
ricoprì lasciandomi però totalmente illeso. La morte
di Guido Belluzzi, questo era il suo cognome, era
ancora scolpita nei miei occhi quando una guardia
attaccò col suo discorso. Prima una violenta serie
di accuse nei confronti degli alleati che, a suo dire,
erano l’unica causa delle nostre pene; in seguito
iniziò a magnificare il Reich e il Fhurer, a spiegare
come avrebbero vinto la guerra e di come avrebbero
dominato l’Europa. Ricordo ancora le sue parole:
“Quando la Germania avrà trionfato, voi traditori,
dopo aver ricostruito tutto l’impero, sarete mandati
a Mauthausen in Polonia, e lì avrete la vostra fine”.
Temevamo che avesse ragione.
Era il febbraio del 1945 quando qualcosa iniziò a
cambiare... il vociare dei civili tedeschi parlava di
un avanzamento inarrestabile degli Alleati su tutti
i fronti, il nervosismo crescente dei nostri aguzzini
rendeva le chiacchiere più vere. Arrivò infine il giorno in cui vedemmo una carovana
di mezzi militari U.S.A su un’autostrada non distante dalla nostra cella. Uno di questi
si fermò e si diresse verso di noi; con una furia cieca abbatté il cancello... dopo alcuni
minuti eravamo Uomini Liberi. Liberi sì ma sicuramente troppo stanchi e denutriti per
tornare subito in Italia. Furono organizzati, tramite la Croce Rossa americana, dei
centri di raccolta, dove potevamo ristabilirci almeno un po’. Io sono alto circa 1,70
e al mio arrivo al centro pesavo quasi 43 Kg... pressoché dopo sei mesi potemmo
tornare a casa. Un treno da Dussendorf a Torino, questa volta di spazio ne trovo, un
altro fino a Pinerolo sempre in compagnia di Sacchino e di Longo di Luserna. Giunti
a Pinerolo due signore, mai viste prima, anche loro in attesa di qualche caro lontano,
ci prestarono le loro biciclette per tornare più svelti a casa. Biciclette che la mattina
seguente, sempre in compagnia di Sacchino e di Longo, non mancammo di riportare
alle legittime proprietarie.
Purtroppo anche a casa le torture e le violenze subite continuavano a farsi sentire.
Soprattutto la notte, incubi da scappare dal letto... e poi anche di giorno il ricordo
non mi permetteva di trovare pace. Ci sono voluti più di dieci anni per cominciare a
vivere davvero; mi sono sposato con Pierina, poi son diventato papà, due volte, poi
nonno; oggi mentre sono qui in mezzo a voi, a novantatre anni, sono ormai diventato
bisnonno e questa è la più bella risposta a tutte le violenze subite. Mi chiamo Avaro
Alberto e questa è parte della mia storia. E noi, che siamo i figli e i nipoti, non
possiamo far altro che esprimere una profonda gratitudine nei confronti di mio nonno
e dei suoi compagni. Lo spirito che ha permesso loro di tornare dall’incubo, di uscirne,
di trovare la forza di formare una famiglia è ciò che ci permette di essere oggi qui.
In quei giorni non hanno salvato solo la loro vita ma anche la mia e anche la vostra.
Per questo vorrei che nessuno dimenticasse ciò che è successo, poiché testimonia
sia la più spregevole forma dell’essere umano, con tutti i crimini e le nefandezze; sia
l’espressione più nobile dell’uomo che messo al tappeto riesce a trovare la forza di
rialzarsi.
Testimonianza raccolta dal nipote Davide Rosano
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Per Ricordare, di Giovanni Cogno (1921 - 2013)
La mia guerra iniziò ufficialmente il 21 settembre del 1941. Presi la tradotta militare
senza sapere dove saremmo andati e soprattutto quando e se saremmo tornati.
L’Italia era entrata in guerra ormai da un anno a fianco dei tedeschi; io come tanti
altri fui arruolato nel III reggimento Alpini nella compagnia 26, battaglione Pinerolo.
Quella tradotta ci portò sino a Rimini ma il giorno seguente verso le 16 eravamo ormai
alle Bocche di Cattaro nell’attuale Montenegro.
Era una zona caratterizzata da ampi valloni che si estendevano nell’entroterra e da
una serie di piccoli bacini naturali che culminavano nel mare.
In questa zona trascorsi due anni sino all’8 settembre 1943, data in cui il generale
Pietro Badoglio annunciò l’armistizio. Io e i miei compagni commilitoni ci trovammo in
una situazione di sbandamento: i tedeschi che prima erano alleati ora erano diventati
il nemico. I nostri comandanti ci dissero di scappare, di trovare dei rifugi di fortuna e
di cercare i partigiani di Tito anche loro contro l’esercito tedesco.
Io insieme a due mie compagni, Aldo Stringat (anche lui di Torre Pellice come me) e
Giuseppe Balangero (di Bricherasio), decidemmo di fuggire verso le montagne.
I tedeschi ormai avevano iniziato i rastrellamenti per trovare gli italiani che erano
scappati; durante la risalita, sentendoci ormai braccati, trovammo una grande roccia
interamente ricoperta da rovi e così decidemmo di nasconderci lì sotto; una squadra
che ci dava la caccia passò proprio davanti a noi e non ci vide, altrimenti ci avrebbe
sicuramente uccisi.
Il giorno seguente le truppe tedesche si erano ritirate nella collina opposta a dove
eravamo e così uscimmo dal nostro nascondiglio di fortuna e risalimmo verso la nostra
sinistra dove sapevamo di trovare i Partigiani di Tito. Così raggiungemmo l’altipiano
di Uolo in Ex-Jugoslavia dove i partigiani ci accolsero, ci diedero da mangiare e ci
disarmarono.
Disarmati e con la divisa da Alpini rimanemmo insieme a loro con il compito dei porta
ordini.
I miei due compagni Aldo e Giuseppe furono presi quasi subito, io invece continuai il
mio compito.
All’incirca un mese dopo l’armistizio il comandante dei partigiani mi chiamò dicendomi
che c’era da attraversare tre vallate per portare un ordine ad una squadra; presi
subito questo foglio e lo infilai sul petto, sotto la camicia, e con una mappa del
sentiero disegnata a matita iniziai il mio cammino.
Era trascorsa più di un’ora e mezza ed avevo raggiunto la seconda vallata. Lì vidi
una bella fontana con a fianco un ragazzino con 4 o 5 capre al pascolo, i ragazzini
del posto erano spesso al nostro comando per cercare dei viveri quindi parlavano
già abbastanza bene l’italiano e così mi avvicinai; lui subito mi chiese dov’ero diretto
e io ovviamente non potevo dirgli che stavo portando un ordine, così gli risposi che
cercavo di tornare in Italia.
Il ragazzino in prima risposta mi disse: “guarda che ci son i tedeschi”; io allora gli
chiesi se li aveva visti; lui rispose: “no ma ci sono”.
Bevvi alla fontana, salutai il ragazzino e ripartii verso il sentiero, feci all’incirca cento
metri verso il fondo del vallone, pronto a risalire e in un attimo mi investì una tremenda
raffica di colpi da fuoco: mi gettai immediatamente a terra fra due rocce e rimasi
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immobile, gli spari cessarono probabilmente perché erano convinti di avermi colpito
ma per fortuna ero rimasto illeso.
Sentii le due squadre scendere verso di me e ormai non avevo più vie di scampo.
Arrivarono e mi tirarono su, uno di loro parlava italiano e mi chiese “dove vai?”, gli
risposi che cercavo di arrivare in Italia ma lui subito mi disse che non stavo andando
nella direzione giusta, gli spiegai che cercavo di arrivare al bordo del mare per poi
risalire ed arrivare a Venezia, mi disse che ero molto lontano e infine mi chiese
dov’erano i miei compagni, ma io gli dissi di esser scappato da solo.
Mi presero e mi dissero di seguirli verso il loro comando dove avrei trovato un interprete
che mi avrebbe fatto parlare.
Arrivato al loro comando c’era un ufficiale delle SS e diversi sottoufficiali: volevano
sapere da me i nomi dei miei compagni, dov’erano, chi erano i miei comandanti; io
continuai a ripetere loro che non sapevo nulla.
L’interrogatorio continuò per un’ora e infine l’ufficiale mi chiese cosa stessi facendo
prima di esser catturato. Allora gli dissi che cercavo di tornare a casa; lui si mise a
ridere e mi chiese come potevo sperare di tornare a casa con il mare e le loro truppe
dall’altra parte.
Mi misero all’interno di una recinzione dove c’erano all’incirca altri 20 alpini e lì passai
la notte con loro.
Nella notte era arrivato un altro ufficiale e al mattino seguente mi presero e mi misero
in piedi davanti ad un muro; di fronte a me, ad una quindicina di metri erano in tre
con il mitra puntato; nel mentre il nuovo ufficiale cercava di farmi parlare.
Mi ricorderò sempre le prime parole che mi disse: “Adesso l’Italia te la do io!”. Anche
lui mi chiese dei miei compagni e come non potessi sapere dov’erano; cercai allora
di spiegarli che dopo l’armistizio erano scappati tutti e io ero fuggito con due miei
compagni che però erano stati presi e da lì non avevo saputo più nulla.
29 aprile 1945: la gioia e l’esultanza dei prigionieri sopravvissuti dopo la liberazione del campo di Dachau,
fotografati da una delle torri di guardia.
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L’ufficiale mi diede un ultimatum: o gli dicevo dov’erano i miei compagni o per me ci
sarebbe stata la fucilazione (e quindi la morte), oppure il campo di sterminio.
Non sapendo com’erano questi campi e non volendo essere ucciso scelsi la seconda
opzione.
Mi presero e mi portarono in un’altra zona recintata, nella quale c’era già una
quarantina di persone.
Rimasi lì per una decina di giorni e più il tempo passava più uomini arrivavano,
dopodiché ci caricarono su un treno.
Viaggiammo per ben 12 giorni all’interno di vagoni bestiame, chiusi a chiave, 40
soldati per scompartimento e in un angolo un pugno di paglia dove ognuno faceva i
propri bisogni fisiologici.
Arrivammo a Dachau dove i tedeschi ci chiamavano “traditori Badogliani”. Come
dei greggi informi fummo assiepati dentro a delle baracche di legno, lì ci fecero
spogliare completamente; esperti delle S.S. ci ispezionarono, e a colpi di nervo di bue
e pestandoci i piedi col calcio del fucile, uno alla volta passammo sotto una doccia
gelata.
Ci diedero degli stracci di altri deportati morti dicendoci che i nostri vestiti e le nostre
scarpe dovevano essere sterilizzati; non rividi mai più i miei indumenti e i miei effetti
personali.
L’ufficiale delle SS ci diede le prime regole: “Il campo è recintato da fili spinati, e il
cavo centrale è collegato alla corrente di 3000 volt”, “ogni soldato che scappa sono 10
morti nel campo”, “se qualcuno tenta di scavare o di tagliare i fili sono 5 soldati uccisi”.
Il nostro campo era diviso in due parti distinte, da una parte noi che eravamo
considerati solo internati, senza diritti e dall’altra parte della recinzione i francesi
considerati prigionieri militari, ai quali una volta al mese arrivava un pacco di viveri
dalla croce rossa internazionale.
Internati al lavoro nel campo di Dachau sorvegliati dalle SS naziste
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Le camerate erano degli stanzoni in cui c’era un centinaio di persone, i pagliericci
erano dei sacchi di iuta con all’interno rami di betulla procurati dai prigionieri francesi
e pestati con un grande rullo, a metà degli stanzoni due grossi lavandini e in due
angoli i gabinetti.
Ricordo la prima sera: alle 18 ci chiamarono e fummo messi in fila per mangiare, ma
non avevamo nessun contenitore, una ciotola o qualcosa che potesse contenere il
cibo, così vidi davanti a me i miei compagni che iniziavano a togliersi uno scarpone
e feci anche io lo stesso, lo usammo come scodella, misi dentro quella che era una
brodaglia con cavoli e patate, iniziai a mangiarla con le mani e dopo aver bevuto il
brodo asciugai lo scarpone e lo rimisi al piede.
Tre volte per notte venivamo svegliati dalle S.S. e i loro cani doberman addestrati,
entravano nelle baracche gridando “raus”e noi tutti in piedi, ci contavano e poi
ripartivano.
Ricordo che, dopo il mio arrivo, per 3 o 4 volte a notte continuavano ad arrivare i treni
a scaricare altri uomini e nell’arco di 5 giorni il campo era ormai al completo.
Molte volte l’ufficiale delle SS, il più accanito, ci prendeva e ci picchiava con il nervo
di bue, ci ustionava con dei fili della corrente sulle braccia e infine venivamo vestiti
con la divisa tedesca, volevano che ci unissimo a loro: io rifiutai sempre nonostante
le torture e le promesse di tornare in Italia al loro fianco.
Alle sei del mattino ci si svegliava e alle sette sotto scorta armata andavamo al
lavoro, spesso a gruppi di venti venivamo condotti sulle ferrovie dove gli americani
bombardavano e il più delle volte erano bombe ritardatarie che magari dopo 2 o 3 ore
scoppiavano o in altri casi non sarebbero mai più esplose.
Tutto attorno al nostro gruppo i tedeschi con i fucili puntati, ovviamente a debita
distanza in caso di un’esplosione e noi lì a scavare con i picconi per trovare le bombe
che sarebbero poi state fatte brillare in seguito dagli artificieri.
Quando non c’era lavoro sulle ferrovie ci portavano in una fabbrica chiamata Freiman,
dove un’enorme quantità di prigionieri aveva il compito di demolire i vagoni bombardati,
oppure in altri reparti si costruivano nuovi vagoni e macchine.
Questa era una fabbrica di grandi dimensioni, paragonabile alla Fiat: lì trovai (eccetto
ovviamente i capi tedeschi) polacchi, russi, francesi, jugoslavi, tutti deportati.
Il lavoro in fabbrica consisteva in parecchie ore con un intervallo di pochi minuti, che
ci concedevano per consumare una misera razione di brodaglia; poi trascorrevamo
quei minuti rimasti in piedi, prossimi a un recipiente dove gli operai civili gettavano
gli avanzi dei loro pasti, uno alla volta porgevamo le nostre gavette per raccogliere i
rimasugli destinati ai maiali.
Ho ancora ben impresso nella mia mente il ricordo di un giorno in cui il caporeparto
delle S.S. andò a buttare gli avanzi del suo pranzo, avvolti dentro un pezzo di carta.
Io, vedendolo, cercai subito dopo di recuperare quegli avanzi furtivamente, chinai la
mia testa all’interno di questo contenitore per recuperare quel che era rimasto del suo
pranzo, ma nel momento in cui mi rialzai lo vidi di fronte a me con la pistola puntata
sulla mia testa. Gettai subito a terra ciò che avevo preso e cominciai a guardare
quell’arma come si trattasse di un’immagine sacra alla quale ci si rivolge per chiedere
una grazia; nello stesso tempo prevedevo la mia fine ma anche la fine del mio calvario.
Un istante dopo, grazie al pentimento dell’ufficiale, mi venne concessa la vita.
Era un lavoro molto faticoso, i giorni sembravano mesi e i mesi sembravano anni, non
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avevamo più nulla, senza scarpe e con la sola possibilità di attorcigliarci degli stracci
ai piedi, le mani sanguinavo e non avevamo la possibilità di lavarle o disinfettarle in
qualche modo, così spesso l’unica soluzione era urinare sopra alle ferite.
Tre dei miei compagni di camerata vennero fustigati a sangue per aver strappato delle
coperte nel tentativo di coprirsi meglio e a tutto il resto dei prigionieri venne negato
il cibo per 3 giorni; uno di loro dopo qualche giorno morì cedendo per la rottura della
spina dorsale.
Un altro episodio brutale ci fu quando un treno merci carico di mele verdi da sidro si
fermò proprio davanti a noi che eravamo a lavorare per un ripristino delle rotaie. Uno
di noi, preso dalla fame, non ce la fece a resistere e corse verso il treno; ebbe il tempo
di arrivare al vagone ma non riuscì a prendere nessuna mela: venne trafitto da una
scarica di colpi e si accasciò al suolo.
I pensieri erano rivolti ai nostri cari, ai miei genitori, con la speranza che un giorno
li avrei rivisti ma in ogni momento vedevo 4 o 5 compagni morire di stenti e fatica.
Non avevamo né una parola di conforto di un prete né un supporto dalla Croce Rossa
Internazionale, non avevamo neanche più un nome ma solo un numero di matricola.
Nel luglio del ’44 il campo venne preso di mira e bombardato più volte, ci furono
molti morti. Il treno che arrivava per portarci al lavoro non poté più entrare, e per
noi furono giorni di duro lavoro per sistemare le rotaie e le baracche andate distrutte.
Ricordo quelli che sarebbero stati i miei ultimi giorni in quell’inferno, quando si parlava
della fine della guerra e ci chiusero nel campo perché si diceva che fosse minato e
che l’avrebbero fatto saltare, ci chiesero se volevamo impugnare le armi contro gli
americani ma tutti risposero di no
Un giorno, dopo pranzo, verso le 14 suonò l’allarme e dopo 5 minuti iniziarono a
bombardare; lì, a 50 metri dal campo, si trovava un rifugio sotterraneo coperto con
un lastrone di cemento armato. Le bombe caddero proprio in quel punto ma ci fecero
entrare lì dentro lo stesso; dopo un momento di fuoco infernale le bombe ostruirono
il rifugio da entrambi i lati: eravamo in 150 e rimanemmo chiusi lì dentro per più di
24 ore finché le squadre di soccorso arrivarono.
Nella stessa notte i tedeschi rimasti a sorvegliare sparirono tutti; al mattino seguente
si sentì un gran rumore e alle 7 arrivarono i carri armati americani: erano dei colossi
grandissimi, me li ricordo come fosse ieri. Il primo aveva appeso davanti una grande
foto di Hitler e il secondo una di Mussolini, sfondarono i cancelli dicendoci che eravamo
liberi e ci diedero da mangiare.
In
seguito
ci
fecero
un
lasciapassare e ci dissero di
arrangiarci per arrivare fino ad
Innsbruck dove mi curarono
perché ormai da tempo avevo
male alle ginocchia, che erano
gonfie e piene d’acqua.
Rimanemmo lì per una ventina di
giorni, poi una colonna di camion
guidata dagli americani di colore
Scorcio del campo di Dachau nei primi giorni della Liberazione (che per noi all’epoca erano una
novità), ci portò sino a Verona.
(Foto del 3 maggio 1945)
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In Italia ad accoglierci c’era Susanna Agnelli che ci spiegò come fare con i treni per
tornare a casa e diede 500 lire a testa.
Con il treno riuscii ad arrivare fino a Pinerolo, di lì a Torre Pellice non era possibile
arrivare in treno perché il ponte sul torrente Chisone era saltato durante la guerra.
A Pinerolo incontrai il mio vecchio comandante degli Alpini, Serafino, che mi procurò
un passaggio; trovò il formaggiere che stava per andare su in vallata ma era ormai
a pieno carico, aveva già una trentina di persone a bordo, così mi sedetti sopra il
parafango del camioncino e mi tenni al fanale ed arrivai fino a Torre Pellice.
Scesi ed entrai nel negozio di alimentari che frequentava la mia famiglia: erano tutti
contenti di rivedermi e mi dissero che mia madre era passata da non più di 30 minuti
e che se mi sbrigavo l’avrei magari incontrata per strada.
Presi e partii subito in direzione di casa, iniziai quella vecchia strada di montagna e
dopo un po’ di cammino intravidi una donna, era mia madre, la chiamai forte “mamà”;
lei si girò, mi guardò e poi ricominciò a camminare, non mi aveva riconosciuto. Mi
avvicinai meglio e allora mi riconobbe: fu sia per me che per lei un colpo al cuore, un
momento che non dimenticherò mai nella mia vita.
Tornato a casa con lei vidi mio padre che spaccava legna, anche lui non mi riconobbe
subito.
Ritrovai casa non come l’avevo lasciata. Una parte (quella che era destinata a me) era
stata bruciata: i tedeschi avevano visto che dei partigiani dormivano all’interno e così
le diedero fuoco. A mio padre, per fortuna, non fecero del male ma lo caricarono di
munizioni e si fecero seguire sino a Montoso.
Tutte le mucche, le pecore, i maiali erano stati presi un po’ dai tedeschi e un po’ dai
partigiani. Ormai avevamo solo qualche mucca e nulla più, ma l’importante era esser
tornato ad abbracciare ancora i miei genitori.
Feci ritorno a casa dopo 2 anni passati da militare in Jugoslavia e 2 nel campo di
concentramento.
Furono circa seicento mila i militari italiani internati in Germania, tutti chi più e chi
meno subirono pene di ogni genere. I nostri morti si contavano a migliaia: oltre
45 mila secondo le fonti ufficiali. Per tutto questo forse si può perdonare, ma non
dimenticare!
Dopo esser stato in questi anni Vice Presidente degli Ex Internati Val Pellice e residente
a San Secondo di Pinerolo, ebbi il piacere in comune accordo con il Signor Sindaco
Martinat di poter avere una strada intitolata agli “Ex Internati e Deportati” con una
lapide alla memoria; è stata per me una grande soddisfazione, così come ricevere la
medaglia d’onore dal Presidente della Repubblica.
Testimonianza raccolta da Matteo Bertea
in occasione della “Giornata della Memoria” del 27/01/2013
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Testimonianza di Aldo Bouchard (1918 - 2013)
Aldo Bouchard: è nato ai Frie di Pramollo il 27 giugno 1918. All’età di tre anni si è
trasferito con la famiglia al Collaretto di Prarostino. Dall’età di nove anni fino al periodo
in cui andò militare (Aprile del ‘39) ha fatto il garzone nelle cascine di S.Secondo e di
Luserna San Giovanni: si occupava sia degli animali sia dei lavori di campagna.
Presso la famiglia Rivoiro di Prarostino ha conosciuto sua moglie Florina che ha
sposato dopo la guerra, il 4 novembre 1946. Sono poi nati Giuliana e Franco. Aldo è
morto l’8 agosto 2013 all’età di 81 anni.
Nel 1998 ha lasciato questa testimonianza al genero Tullio Long:
“Dopo l’arrivo in Germania, un mattino ci dissero di metterci su tre file: nella fila
accanto alla mia c’era Franco Don di San Secondo e un uomo di Villar Perosa: dissi
loro di spostarsi sulla mia fila in modo che ci mandassero tutti nello stesso posto:
subito non volevano e mi risposero che ci avrebbero comunque mandati tutti nello
stesso posto.
Io risposi: forse è così, ma è comunque meglio che siamo nella stessa fila.
si lasciarono convincere e si spostarono. Dei componenti delle altre file non sapemmo
più nulla.
Ad un certo momento contarono 180 persone della nostra fila (noi eravamo il n.
176, 177 e 178) e ci caricarono su tre camion e incominciò un lungo viaggio. Quel
giorno non ci diedero nulla da mangiare e a sera ci fermarono vicino a una casa dove
c’era un orto in cui si intravedevano solo più i gambi e le radici dei cavoli. Molti si
buttarono su queste “crape” e le mangiarono dopo averle sommariamente pulite.
Io mi appoggiai ad un muro e guardandomi attorno per vedere se avessero trovavo
qualcos’altro di più sostanzioso, si è avvicinò una donna che, senza farsi vedere dalle
guardie, mi diede un bel cavolo che nascosi sotto la mantella. Più tardi lo mangiai con
Franco. Al mattino ci diedero una tazza di tè e poi partimmo nuovamente in viaggio
tutto il giorno senza mangiare. Arrivammo verso sera a Aussig in Cecoslovacchia, una
località a 90 Km da Praga.
Lì c’erano delle prigioniere russe che ci stavano preparando i pagliericci, ma quando
ci avvistarono scapparono via come il vento!
Il lavoro si svolgeva in un grandissimo complesso di fabbriche dove si fabbricava un
po’ di tutto: dalle bombe alla margarina, marmellata, vino di mele che poi facevano
cuocere (era buono ma non ce ne davano!) fino al sapone e i detersivi.
Eravamo 8.000 prigionieri: italiani, slavi, russi. Solo i capi erano tedeschi ma erano
tutti molto vecchi. (il più giovane avrà avuto 80 anni!).
Inizialmente mi avevano messo nel reparto detersivi ma in quell’ambiente malsano
non avrei fatto vita lunga per cui appena seppi che cercavano gente per andare a far
legna nei boschi mi offrii.
Subito non volevano prendermi perché non ero 50 chili ma poi non trovavano altri e
mi fecero, provare ed il mio nuovo capo mi accettò.
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Questo capo aveva fatto la guerra del 15/18 contro l’Italia ed era stato prigioniero a
Torre Pellice a San Ciò.
Comunque mi prese a benvolere e la domenica portava me e un abruzzese a casa sua
dove segavamo e spaccavamo legna per lui e mangiavamo in abbondanza.
In un inverno abbiamo fatto 600 metri cubi di legna. In primavera lo abbiamo poi
trasportato in città con dei camion che andavano a legna e che ogni 200 metri ci
costringeva a fermarci per aggiungere legna e spingerla nella caldaia. Difatti avevamo
solo 12 Km da fare e riuscivamo a fare due soli carichi al giorno.
Nel bosco noi segavamo i tronchi (il legno era tutto di carpino) a pezzi di 100 cm.
esatti e facevamo piccole cataste di 1 metro cubo esatto. In fabbrica, poi, i pezzi
venivano tagliati a pezzi lunghi 10 cm. e venivano usati come carburante per le
macchine perché benzina e gasolio non ne avevano più.
Quando pioveva stavamo in fabbrica a segare questi pezzi: venivano deposti su un
nastro trasportatore fino alla seghe che tagliavano contemporaneamente i 10 pezzi
da 10 cm. Dopo la sega c’erano due prigionieri che con un’accetta spaccavano i pezzi
in quattro.
In quel periodo siamo stati abbastanza bene perché nel bosco venivano delle donne
che con il permesso del capo che ci voleva robusti, ci portavano patate , margarina e
altri cibi. Siamo perfino aumentati di peso !
L’ex padrone della fabbrica era un ebreo che aveva dovuto fuggire in Inghilterra,
fino alla fine della guerra questa fabbrica non è mai stata bombardata: i nostri capi
dicevano che questo ex padrone aveva sufficienti amicizie altolocate da far sì che la
fabbrica potesse essere risparmiata dagli alleati in modo da trovarsela integra alla fine
de conflitto.
Come facevate a comunicare con i vostri famigliari a casa durante la prigionia?
Ci davano una cartolina doppia: su una parte scrivevamo noi e i nostri parenti potevano
risponderci sulla seconda parte che conteneva già i dati per il recapito nei campi di
prigionia. Dall’Italia non potevano scriverci di loro iniziativa in quanto non ci veniva
recapitato nulla che non fosse scritto su queste cartoline.
Alla fine del conflitto siamo stati liberati dall’esercito russo: venne un maggiore russo
che conosceva tutte le lingue e ci disse di metterci un bracciale con i colori della
nostra nazionalità: cosi cercammo degli stracci bianchi rossi e verdi e ce li mettemmo.
Ci disse anche che la strade erano libere e che quindi potevamo cercare di tornare a
casa..
Le strade erano libere però tutte rotte e così con una cartina che avevamo trovato
siamo partiti e ci siamo fatti 385 Km a piedi per arrivare nella zona controllata dagli
americani.
In effetti noi avevamo molta paura che i russi ci portassero in Russia (cosa che in
alcuni casi è avvenuta) per cui non abbiamo perso tempo a partire quando ci hanno
dato il via libera.
Tuttavia quando siamo arrivati al confine fra la zona russa e quella americana, i
russi ci hanno fermati messi in un prato a passare la notte. Temevamo fortemente
che al mattino ci avrebbero presi e spediti in Russia, per cui nella notte dissi ai miei
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compagni (eravamo in venticinque): ragazzi è ora di andarcene. C’era un fiumiciattolo
che separava le due zone ma l’acqua arrivava solo al ginocchio: ci siamo rimboccati
i pantaloni ed abbiamo traversato. Anche gli altri che erano nel prato, (forse 700 o
800), vedendo noi, ci hanno seguiti.
Dopo un po’ si e alzata la luna e siamo riusciti a capire che direzione prendere.
Abbiamo camminato tutta la notte in un bosco e solo al mattino abbiamo visto un
paesino ma avevamo un grosso dubbio, era già in zona americana o in zona russa?
Abbiamo visto arrivare una ragazza e le abbiamo chiesto se il paese era occupato
dagli americani,
ci rispose che era zona americana, anche se in quel paese americani non ce n’erano
perché erano passati ma non si erano fermati, così rinfrancati abbiamo proseguito.
Dopo un po’ abbiamo trovato una colonna di camion americani che furono disponibili
a caricare Audenino del Villar che proprio non ce la faceva più ma nessun altro; c’era
però il problema di dove portarlo in modo da potersi ritrovare. (La zona non era molto
abitata, si facevano magari 20 Km senza trovare un paese).
Franco Don fece vedere loro la cartina e ci mettemmo d’ accordo: difatti verso sera
lo trovammo seduto su di un paracarro con la pancia ben piena mentre noi avevamo
mangiato ben poco.
Dovemmo ancora fare parecchi Km prima di arrivare al campo degli americani.
Arrivati al campo trovammo un maggiore dei carabinieri, anche lui ex prigioniero e un
maggiore americano che ci chiesero da dove arrivavamo. Indicammo il nostro campo
di prigionia sulla carta e, ci chiesero allora con che mezzi eravamo arrivati. Abbiamo
indicato le nostre scarpe distrutte e i nostri piedi doloranti al che ci rivelarono che
avevamo fatto 385 Km.
Abbiamo allora detto che, se le strade erano libere, desideravamo proseguire al più
presto per l’Italia. “Ma lo sapete che ci sono altri 300 Km e oltre?”
Il maggiore dei carabinieri ci disse: c’è un campo qui dove ci sono già altri 2 o 3000
italiani: andate lì.
Eravamo stanchi, denutriti, sporchi (in 35 giorni non avevamo mai potuto lavarci, non
trovavamo neanche acqua per bere). Così accettammo di buon grado.
Ci lavammo e ci preparammo per la cena ma quale non fu la nostra sorpresa ed il
nostro disappunto quando vedemmo che le nostre razioni erano una miseria rispetto
a quelle, abbondantissime, che davano agli altri. Poi il maggiore dei carabinieri ci
spiegò che se ci avessero dato da mangiare a volontà probabilmente saremmo morti
di indigestione disabituati come eravamo a mangiare in abbondanza.
In effetti , nei pasti seguenti le razioni aumentarono gradualmente fino a raggiungere
un’abbondanza mai vista. Bistecche da mezzo kg come mai avevamo visto in vita
nostra, della purea che aveva più uova che patate, cioccolato, caffè, liquori...
“Certo che potete vincerne di guerre voi !” riflettevo io
Rimanemmo lì 28 giorni.
Ogni tanto arrivavano delle colonne a dare il cambio alle divisioni e 20/30 di noi
andavano ad aiutare a scaricare le camionette. Si faceva a gara per essere prescelti
perché si mangiava con gli americani (ancora meglio) si tornava carichi di cioccolato.
Noi al campo si mangiava bene, ma i soldati (fino al grado di capitano) mangiavano
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ad un a mensa self-service dove ognuno prendeva quel che voleva a volontà
Era incredibile quanta roba avessero: cioccolato e sigarette erano distribuiti a volontà.
La sera i soldati ballavano: venivano delle ragazze tedesche
Una sera arriva il maggiore dei carabinieri che ci dice: preparate la vostra roba perché
domani mattina arrivano i camion che a gruppi di 28 vi porta alla stazione per tornare
in Italia.
Al mattino ci hanno caricati e portati alla stazione
dove hanno accostato i camion fin vicino ai vagoni
sui quali siamo saliti senza neanche scendere
dal camion. Pensare che il campo distava dalla
stazione appena 2 Km circa !!!
Il treno ci ha portato fino a Verona ma lì nacque
un nuovo problema perché la ferrovia per Milano
era interrotta.
Il maggiore ci ha detto di aspettare che doveva
arrivare una colonna di camion che difatti arrivò
verso mezzanotte, ci caricò 28 per camion e ci
portò fino a Milano.
Arrivati lì dissero ai piemontesi che all’una esatta
dopo mezzanotte partiva il treno per Torino.
Mancavano pochi minuti ma con una corsa
riuscimmo a salire mentre il treno già si muoveva.
Siamo arrivati a Pinerolo verso il 24 giugno e di lì
sono andato a casa a piedi fino al Collaretto.”
Aldo con alcuni commilitoni
Testimonianza di Hide Costantino (1921 - 2009)
7 gennaio 1942 - Divisione Alpina Taurinense - Destinazione Balcania!? Sulla tradotta
da Pinerolo partiamo - uomini, muli e... magazzini! - per Bari ove troviamo una
temperatura di 15°-20° rispetto ai -15° di Pragelato. Lì veniamo caricati su vecchie
navi mercantili che il Genio italiano ha requisito, per l’occasione, a diversi armatori.
Si parte verso mezzanotte – un gruppo di 5 navi - stipati, come acciughe, su 3
piani, seduti sullo zaino; alle 2 di notte suona l’allarme: sottomarini inglesi in vista! I
cacciatorpedinieri di scorta gli avranno dato fastidio... ma tutto va liscio! Sbarchiamo
la notte seguente a Ragusa. Montenegro e poi, su barconi, imbocchiamo il fiume
Narenta sul quale navighiamo fino a Mostar-Erzegovina.
Qui incominciamo a capire qualcosa della nostra situazione: siamo alleati dei tedeschi
e dobbiamo tenere occupata tutta la Penisola Balcanica. L’esercito croato si sfascia in
due giorni! Si formano le Bande Partigiane comandate da Tito; esse sono agevolate
nel tenerci a bada perchè conoscono molto bene la zona, con le sue asperità. Più
favorevoli nei nostri confronti sono i Cennici, reparti di sbandati slavi legati in particolar
modo alla corona del Re del Montenegro.
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Io vengo inserito nella compagnia sciatori, che è aggregata al Battalione Fenestrelle, in
località Nevysinie; il comandante, maggiore Clarei, originario della Valle d’Aosta, deve
andare a parlamentare con un comandante di Cennici che dista da noi 5-6 chilometri;
si prendono tutte le precauzioni possibili, si puntano pezzi di una batteria sulla zona
e noi sciatori partiamo, 15 uomini si fermano a 100 metri dalla casa ma io vengo
scelto per andare col maggiore e un altro ufficiale!...l’incontro con quegli uomini mi
fa un po’ di paura... gente più alta di noi, con la barba e bandogliere di cartucce che
gli ornano le spalle ... la paura mi passa quando faccio la loro conoscenza, parlano
francese e quindi li capisco; ci offrono un bicchierino di Rachia - liquore fatto da loro
con le prugneTerminato il colloquio, ci allontaniamo con una piccola esperienza in
più e, forse, con qualche amico in piti! Anche se siamo considerati degli invasori... ed
è vero! Il nostro detto può essere: oggi con voi, domani contro di voi.
Intanto passano i mesi. Verso la metà di luglio (1942), in un’operazione da Ploce
a Spalato, sulle alture rocciose della costa, perdiamo due amici: Canale Oreste di
S.Secondo e Pons Riccardo di Roccapiatta. Durante i 20 mesi di guerriglia in Jugoslavia
ben 4 altri nostri compagni vengono feriti, più o meno gravemente: Godino Aldo,
Godino Ugo, Gardiol Emidio di Prarostino e Martinat Eli di Roccapiatta.
Ed eccoci all’8 settembre 1943. Il generale Badoglio, a nome del Re Vittorio Emanuele
III, firma l’armistizio con gli Alleati – America, Inghilterra, Francia, Russia - e di
conseguenza noi - Regio esercito italiano - diventiamo nemici dei tedeschi e dei
fascisti. Brutto affare! Un esercito sparso per mezza Europa ed in Africa, senza una
direttiva! Comandanti che abbandonano i loro reparti; magazzini dei viveri sabotati
da tutti, svaligiati! Quando riusciamo a riorganizzarci, ci ritroviamo senza viveri e con
scarsi armamenti. Dall’Italia intanto arriva un apparecchio e butta un messaggio:
“RESISTERE”!!
Io mi trovo in Montenegro, tra Niksic e Pec, presso il confine dell’Albania, con un gruppo
di Cennici di guardia alla ferrovia. Giunge nella notte telegrafo l’ordine di rientrare al
reparto che sta muovendosi vi verso le Bocche di Cattaro; qui giunti troviamo tutti
i magazzini abbandonati e veniamo mitragliati dagli Stucas tedeschi. Un vero caos!
Senza precisi ordini si verso la montagna e ci si rifugia tra le rocce; riorganizzati alla
bell’e meglio cerchiamo posizioni discrete per difenderci dagli attacchi dei tedeschi
che, nel frattempo, ci avevano ordinato di arrenderci. Si passa così alla lotta vera e
propria, sempre con pochi viveri e pochi armamenti; durante i combattimenti perde
la vita il nostro Cappellano valdese Rostaing.
Verso il 10 ottobre siamo circondati dai tedeschi e si batte la resa. Veniamo inviati in
Germania! Dopo 16 giorni di tradotta arriviamo in Vestfalia, a 60 chilometri dall’Olanda,
attraversando Ungheria, Austria e Germania. Molto mal ridotti per la fame e perchè
divorati dai pidocchi, ci mettono tra i reticolati del Campo di smistamento VI F di
Bochum. Qui ci invitano a firmare per passare nella Repubblica di Salò, chi accetta
riceverà doppia razione di brodaglia; molti si lasciano convincere perchè non ce la
fanno più... per la fame che li distrugge.
Io ed il grosso degli sfortunati compagni, dopo le procedure di immatricolazione - a
me è assegnato il n.93109 -, impronte digitali, ecc... siamo inviati ai campi di lavoro: il
mio è il 1325 di Glabek, a 5 chilometri da Essen, zona industriale delle acciaierie Ruhr
e delle miniere di carbone a non finire. troviamo altri compagni di sventura - francesi,
russi, olandesi, polacchi - ; noi siamo destinati a tutto fare: sgombero delle macerie
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provocate dai bombardamenti, scarico di materiale in stazione, tutti lavori massacranti,
al freddo e sotto la pioggia e i bombardamenti e con tanta, tanta fame.
La vigilia del Natale ‘43, tornando dal lavoro al campo con un compagno, troviamo
lungo la strada una barbabietola di quelle che davano alle bestie; quando entriamo
nella baracca le guardie non si accorgono di ciò che ho sotto la giacca così facciamo
arrostire, tutti contenti, la nostra barbabietola sulla misera stufa a carbone ma... più
cuoce e più è dura! non è stato un buon affare! Verso la metà di gennaio ‘44 chiedono
4 uomini per lavori di falegnameria, ci vado anch’io pur di levarmi un po’ dal freddo
dalle intemperie; lì sto un po’ meglio; vi lavorano pure dei francesi, così di tanto in tanto
mi passano qualcosetta da mettere sotto i denti: brutta cosa non potersi sfamare a 23
anni! Mi mandano anche fuori ad acquistare porte e finestre divelte dai bombardamenti
e li tutti i giorni o quasi mi ricevo, per beffa, il titolo di Badoglio che, per i tedeschi,
era un traditore. Noi italiani siamo facilmente individuati perchè sulla nostra giacca,
ben visibile sulla schiena, fatta con vernice rossa, portiamo la scritta IMI, che significa
Militare Italiano Internato.
Il 26 giugno, sul lavoro, ho un incidente alla mano destra; vengo mandato al vicino
ospedale Santa Barbara dove mi opera un dottore, un prigioniero russo, in una stanza
con gente di diverse nazionalità, ma mi trattano veramente bene. Finita la degenza
in ospedale mi tengono m baracca a fare pulizia, è lì che una mattina vedo Avondet
Michele, scampato ad un bombardamento del treno che lo portava al lavoro: mi ci vuole
un momento a riconoscerlo, anche lui non è tanto ben messo!
Dalla metà del ‘44’in poi i bombardamenti sono sempre più frequenti volte a tappeto, così
molti campi di concentramento vengono colpiti perchè sono senza luci di segnalazione.
La mia baracca è presa di mira in pieno giorno, verso la metà di ottobre, quando quasi
tutti sono fuori al lavoro; io, un francese, due olandesi, un turco e il cappellano italiano
abbiamo appena il tempo di arrivare nel rifugio... così, anche questa volta ci è andata
bene: al posto della baracca è rimasta una buca di 4-5 metri!!
L’inverno ‘44-’45 è molto duro per l’intensificarsi, ancora, dei bombardamenti; i tedeschi
smettono di fare la nebbia artificiale e tolgono i palloni frenati che erano a 5-6 mila
metri di altezza, visto che il tutto non serviva ad ostacolare l’aviazione alleata.
Verso la fine di gennaio del 1945 sperimentiamo una notte di fuoco mai vista prima,
sapremo poi in seguito che l’esercito alleato aveva fatto un lancio di paracadutisti al
di qua del fiume Reno, ma purtroppo erano stati annientati. Si tira avanti così, tra un
bombardamento e l’altro, e si arriva ad aprile... gli alleati si stanno avvicinando e... il
venerdì santo siamo liberati dall’esercito americano!
Ma seguono ancora giorni di caos! Molti tedeschi si danno alla fuga; altri trattengono
dei prigionieri con lo scopo di usarli come ostaggi e di presentarli agli americani per
ottenere qualche vantaggio; l’interprete della nostra baracca ci accompagna - siamo in
7 o 8 - a casa sua e ci ospita nel rifugio che ha ricavato nella cantina. Ci presentiamo,
in seguito, ai soldati americani che ci radunano nuovamente nel nostro campo per
poter ristabilire un minimo di ordine. Io, per farmi riconoscere come italiano, tiro fuori
l’unico biglietto da 100 lire che ho in tasca: mi viene sequestrato, perdo così gli ultimi
soldi che possiedo. Ad ognuno di noi viene consegnato un “not a pass”, un taccuino
numerato, con il nostro nome, che dobbiamo firmare ed utilizzare come documento di
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identificazione. Vengono attribuiti degli incarichi un po’ a tutti per evitare che restiamo
inoperosi; io vengo assegnato alla cucina ed ho così l’opportunità di mettermi in sesto
perchè in cucina arriva un po’ di tutto: in parte sono viveri americani e in parte si tratta
di cibarie requisite ai tedeschi che già stanno tirando la cinghia.
Dopo una quindicina di giorni di gran confusione, prende in mano la situazione la Militar
Police che, per prima cosa, ci raggruppa per nazione e poi ci organizza; io per fortuna
rimango addetto alla cucina con in più il compito del trasporto dei viveri ai vari campi di
prigionieri, anche perchè conosco un po’ di francese.
Passano, così, ancora i mesi... di rimpatrio neanche a parlarne! Mancano sia i mezzi
che le vie di comunicazione, i bombardamenti hanno distrutto quasi tutto. Ed inoltre...
i prigionieri non sono certo il principale problema che gli alleati debbono affrontare e
risolvere!
Ma poi, finalmente, il gran giorno arriva e... si parte! Via Brennero si giunge a Pescantina,
al campo di smistamento e qualcuno lì deve trascorrere qualche giorno in attesa di un
mezzo che lo porti a destinazione. Io sono fortunato, riparto già l’indomani su di un
camion perchè la ferrovia, su quel tratto, non è ancora praticabile. A Milano dovrei
salire, con molti altri, su un treno già stracolmo o aspettare ancora perchè di treni
ne parte uno solo ogni giorno. Siccome siamo già piuttosto esasperati, ci mettiamo
sui binari davanti alla locomotiva e a nulla vale l’intervento della polizia ... Vengono
aggiunti due vagoni e... arriviamo a Torino. Qui trovo Attilio Godino e Adolfo Malan che
sono rimpatriati attraverso la Svizzera ed insieme prendiamo il treno per Pinerolo: è il
19 agosto 1945! Scendo e... vedo venirmi incontro mia sorella Vanda che da un po’ di
tempo, sapendo che stavano tornando degli internati, veniva alla stazione ad aspettare,
sempre sperando che fosse la volta buona.
L’emozione è grande! Io, per tutto il tempo che ero stato lontano, non avevo mai avuto
notizie di quanto qui succedeva; ad esempio non avevo mai immaginato che qui si
fosse organizzato un movimento partigiano. Posta da tempo non ne avevo più ricevuta
e prima, nelle poche lettere che mi arrivavano, ovviamente non mi si poteva dire ciò
che realmente capitava. Avevo solo realizzato che gli americani erano sbarcati nel sud
perchè in una lettera mia madre aveva scritto “Abbiamo notizie del cugino Remo in
Sicilia’’ ed io sapevo che lui era nella Marina Militare Americana. A causa della censura
cercavamo di cammuffare le notizie e non era sempre facile; potevamo scrivere solo
su carta predisposta, utilizzata esclusivamente per la corrispondenza dei prigionieri di
guerra, su cui dovevamo indicare sia il numero di matricola sia quello del campo; era
costituita da due parti, la prima la usavamo noi dalla Germania e con la seconda, e solo
se avevano quella, i nostri familiari poptevano comunicare con noi; in compenso era
franco di porto! Ma ... concludiamo...
Per tornare a casa, prendiamo il tranvai fino a Ponte S.Martino e poi saliamo su per
la strada della Baravaiera, superiamo la Barina, Pocapaglia e, intanto, mia sorella mi
racconta ciò che è accaduto... vengo così a sapere di aver perso mio fratello su al Bric.
Che brutta cosa la guerra ma... alle Buffe l’uva è già matura! Lo considero un segno
di speranza!
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UNA STORIA PARTICOLARE
In ricordo di Zio Vittorio
Le guerre, quelle passate come
le tante ora in corso, oltre a
coinvolgere i soldati e la loro stessa
vita coinvolgono le famiglie e intere
popolazioni; condizionano i destini, i
ricordi e le vite di chi rimane anche
quando sono terminate. Così è
successo nella mia famiglia; da
sempre ho sentito raccontare di
questo mio zio Vittorio, fratello di
mio papà, che era un giovanotto
estroverso, sempre allegro e cordiale, abile nel lavoro, simpatico e disponibile ad
aiutare tutti coloro ne avessero necessità.
Era nato nel 1911 e ancora giovane partì a combattere la guerra in Etiopia e poi a
seguire, salvo brevissimi periodi di congedo, tutta la seconda Guerra Mondiale in
Grecia, Albania, Jugoslavia, finchè, dopo l’armistizio del ‘43, catturato, fu portato nel
campo di concentramento di Neuengamme , nel nord della Germania.
In quel campo di concentramento si producevano mattoni ma soprattutto imperversava
il dottore delle SS Kurt Heibmeyer che effettuava esperimenti sui deportati con il
bacillo della tubercolosi.
E li mio zio morì di stenti e patologie polmonari il 28 aprile del 1944.
La famiglia ricevette comunicazione della morte e al tempo nulla si seppe di come
fosse successo e dove fosse sepolto. Venne messa una targa nel cimitero di Macello,
vicino a altre di famiglie che avevano avuto lo stesso destino.
A quel tempo una famiglia semplice non aveva possibilità di fare ricerche e ci
rassegnava facilmente al destino, con la sola voglia di lasciarsi dietro i brutti ricordi e
preparare quel riscatto dell’Italia che portò al boom economico.
Ma ricordo di lui rimase vivo nei famigliari e nelle persone che lo conobbero
direttamente. Ora è rimasta solo mia mamma, 88 enne ( 15 anni più giovane di lui),
a parlarne, a dirci “mi ricordo che ...” , descrivendo fatti di 80 anni fa, vivi e chiari,
come fossero accaduti ieri.
Il destino mi portato a lavorare anche in Germania, per un paio di anni e già mi ero
ripromesso di cercare se ci fosse una tomba, un nome, una traccia.
Incredibilmente presso il comune di Macello abbiamo travato l’atto di morte, scritto
dalla Croce Rossa, in francese e poi trascritto all’anagrafe italiana nell’aprile del ’45 .
La lettura di questo documento, che palesemente unisce triste verità a falsità atte
ad edulcorare la condizione dei prigionieri (se mai il documento fosse pervenuto
ai parenti) è un atto straziante, nel suo freddo linguaggio burocratico che vale più
di qualsiasi memoria, e che solo una fotografia, se mai ci fosse, potrebbe, forse,
superare in drammaticità.
57
Dall’atto di morte si scopre che il corpo venne inumato nel cimitero di Gross Fussen,
sotto ad una croce di legno.
Da internet, si scopre che, nel 1955 i corpi di oltre 5mila italiani morti nel nord della
Germania, sono stati riuniti nel cimitero di Öjendorf, in Amburgo. Da un sito che
del Ministero della Difesa, che permette di interrogare per nominativo (http://www.
difesa.it/Il_Ministro/ONORCADUTI/Pagine/CenniStorici.aspx) scopriamo che i resti si
trovano realmente lì.
Il cimitero è immenso e la parte che riguarda i soldati italiani impressionante, oltre
5mila cippi tutti uguali, divisi in 5 settori. Non vi è alcun ordine e la ricerca del nome
è questione di fortuna. Molti si chiamavano Vittorio, molti più di oggi, probabilmente
in onore del re di quei temi.
Ma alla fine lo abbiamo trovato: Soldato Forestiero Vittorio !
Con grande emozione ho posato la rosa che avevo portato nella valigia, recisa a Stella
nell’orto di mia madre , come a riunire qualcosa che era ingiustamente separato da
70 anni.
E’ come avessi compiuto un dovere, perché è giusto guardare avanti nel futuro, ma
con i piedi ben piantati nel passato.
Giovanni Forestiero
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Martiri della Liberta’,
partigiani ed internati
di Prarostino e San Secondo
SANSONE Tonino
Nato a Marsala (Trapani) il 20 marzo
1920, tenente dei bersglieri. Divenne uno
dei capi del gruppo partigiano di Prarostino.
Sorpreso durante un rastrellamento
tedesco (il primo nel Pinerolese), venne
torturato e fucilato il 17 ottobre 1943 a
San Secondo di Pinerolo. Lapide a
Pinerolo e Prarostino.
DAGOTTO Giacomo Fedele (detto Lino)
Nato a Campiglione l’11 gennaio 1923.
Lapide a San Secondo di Pinerolo e
Campiglione Fenile.
FORNERO Michele (di Angelo)
Nato a Bricherasio il 31 maggio 1915,
residente a Bricherasio. Lapide a San
Secondo di Pinerolo e Bricherasio.
Partigiani appartenenti alla 5’ Divisione
Alpina GL. “Sergio Toja”.
Incaricati di proteggere il viaggio
di un automezzo che doveva portare
rifornimenti ai loro compagni in montagna,
morirono in un incidente a San
Secondo di Pinerolo il 25 agosto 1944.
N.B.: L’atto di morte risulta redatto dal
comune di Campiglione Fenile e reca:
“deceduti a Campiglione Fenile il 25
agosto 1944”.
COTTURA Giovanni Battista
Nato a Bricherasio il 16 novembre 1915,
residente a Pinerolo, coniugato, operaio.
Partigiano appartenente alla 5’ Divisione
Alpina GL. “Sergio Toja”, Brigata
Val Germanasca. Capo pattuglia, cadde
il 27 settembre 1944 a San Secondo di
Pinerolo, colpito da una raffica di mitra
durante uno scontro con le forze avversarie.
Lapide a Prarostino, Bricherasio e Pinerolo.
GODINO Delio
Nato a San Secondo di Pinerolo il 17
novembre 1921. Partigiano appartenente
alla 5’ Divisione Alpina GL.“Sergio Toja”,
cadde a San Secondo di Pinerolo l’ 11
novembre 1944. Lapide a San Secondo di
Pinerolo e Prarostino
IAIA Giovanni
Nato a Finale Ligure (Savona) il 13
giugno 1924. Partigiano appartenente
alla 5’ Divisione Alpina GL.
“Sergio Toja”. Di pattuglia nei pressi di
zona Cantine - Airali di San Secondo di
Pinerolo, cadde nel tentativo di sfuggire
alla cattura freddato da una raffica di
mitra l’11 novembre 1944. Lapide a San
Secondo di Pinerolo.
BAROTTO Giuseppe
Nato a Cavour il 20 luglio 1890, residente
a Cavour; commerciante. Civile, venne
catturato, con altre otto persone, il 16
novembre 1944 in San Secondo di
Pinerolo dove si era recato per contrattare
del legname. Fucilato per rappresaglia il
17 novembre 1944 a Prarostino località
Bric Molere. Lapide a Prarostino e
Cavour.
COJSSON Alberto
Nato a S. Secondo di Pinerolo il 10 giugno
1920. Lapide a Prarostino e San Secondo
di Pinerolo.
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COSTANTINO Arnaud
Nato a Prarostino il 15 maggio 1928.
Lapide a Prarostino e San Secondo di
Pinerolo.
NIDASIO Aldo
Nato a Milano il 14 novembre 1907.
Lapide a Prarostino e Pinerolo.
PAGET Cesare
Nato a Prarostino il 30 dicembre 1914.
Lapide a Prarostino e San Secondo di
Pinerolo.
Partigiani appartenenti alla V Divisione
Alpina G.L. “Sergio Toja”, caddero a San
Bartolomeno di Prarostiono il 17 novembre 1944.
MAGNANO Michele
Nato il 23 agosto 1882. Civile, fu ucciso
dai tedeschi in San Secondo di Pinerolo
ill 7 novembre 1944. Lapide a Prarostino.
PASCHETTO Ernesto
Nato a San Secondo di Pinerolo il 14
gennaio 1889. Lapide a Prarostino e San
Secondo di Pinerolo.
PASCHETTO Remo
Nato a San Secondo di Pinerolo il 13
luglio 1927. Lapide a Prarostino e San
Secondo di Pinerolo.
SIMONDETTO Cesare
Nato a San Secondo di Pinerolo il 5
novembre 1894.
Lapide a Prarostino e San Secondo di
Pinerolo. Collaboratori della 5’ Divisione
Alpina G.L. “Sergio Toja”, caddero a San
Bartolomeo di Prarostino il 17 novembre
1944.
PERALDO Stefano
Nato a San Secondo di Pinerolo il 23
ottobre 1893. Collaboratore della 5’
60
Divisione
Alpina
G.L.
“Sergio
Toja”, cadde a San Secondo di Pinerolo
località Bric delle Mulere il 12 dicembre
1944. Lapide a San Secondo di Pinerolo
e Prarostino.
ODINO Gustavo
Nato a San Secondo di Pinerolo il 14
novembre 1924. Partigiano appartenente
alla 5’ Divisione Alpina G.L. “Sergio Toja”,
cadde il 7 marzo 1945 a San Secondo
Pinerolo località Crotta Superiore. Lapide
a San Secondo di Pinerolo.
ROMAN Ugo
Partigiano di Prarostino
MASSELLO Florindo
Partigiano di Prarostino
RIVOIR Giacomo
Partigiano di Prarostino
GODINO Guido Valdo
Partigiano di Prarostino
AVONDETTO Giulio
Partigiano di Prarostino
AVONDET Davide Edmondo
Partigiano di Prarostino
GODINO Guido
Partigiano di Prarostino
BOUCHARD Gustavo
Partigiano di Prarostino
COSTANTINO Giorgio
Partigiano di Prarostino
FORNERON Valter
Partigiano di Prarostino
GODINO Adelmo
Partigiano di Prarostino
GODINO Attilio
Partigiano e internato di Prarostino
COSTANTINO Daniele
Internato di Prarostino
CARDON Vittorio
Internato di Prarostino
ROSTAN Aldo
Partigiano di San Secondo
MALAN Adolfo
Internato di Prarostino
RIBET Ernesto
Partigiano di San Secondo
GODINO Emanuele
Internato di Prarostino
BENECH Enrico
Partigiano di San Secondo
MALAN Aldo
Internato di Prarostino
USSEGLIO Alessandro
Partigiano di San Secondo
PASCHETTO Ide
Internato di Prarostino
PASTRE Remo
Partigiano di San Secondo
PONS Enrico
Internato di Prarostino
GAIDO Arturo
Partigiano di San Secondo
GARDIOL Erminio
Internato di Prarostino
PEYRONEL Enrico
Partigiano di San Secondo
PAGET Emanuele
Internato di Prarostino
GARDIOL Remo
Partigiano di San Secondo
CARDON Remo
Internato di Prarostino
MARTINAT Albino
Partigiano di Prarostino
GAY Delio
Internato di Prarostino
COSTANTINO Renato
Partigiano di Prarostino
GRIGLIO Aldo
Internato di Prarostino
PASCHETTO Enrico
Partigiano di Prarostino
GARDIOL Olinto
Internato di Prarostino
PASCHETTO Vittorio
Partigiano di Prarostino
GRIGLIO Mario
Internato di Prarostino
CARDON Cesare
Partigiano di Prarostino
RIVOIRO Giulio
Internato di Prarostino
GARDIOL Gastone
Partigiano di Prarostino
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COSTANTINO Ide
Internato di Prarostino
ZULIAN Ivonne
Partigiano di San Secondo
AVONDET Michele
Internato di Prarostino
AVARO Alberto
Internato di San Secondo
ROBERT Alberto
Internato di Prarostino
BOAGLIO Andrea
Internato di San Secondo
BOUCHARD Aldo
Internato di Prarostino
COGNO Giovanni
Internato di San Secondo
GIORS Luciano
Internato di Prarostino
FALCO Ernesto
Internato di San Secondo
GONNET Giovanni
Internato di Prarostino
LISDERO Aldolfo
Internato di San Secondo
GARDIOL Walter
Partigiano di San Secondo
REVELLO Tommaso
Internato di San Secondo
ASVISIO Renato
Partigiano di San Secondo
ASVISIO Francesco
Partigiano di San Secondo
GARDIOL Gastone
Partigiano di San Secondo
FERRERO Ugo
Partigiano di San Secondo
MAURO Mario
Partigiano di San Secondo
BERTEA Michele
Partigiano di San Secondo
GALLEA Aldo
Partigiano di San Secondo
PEYRONEL Franco
Partigiano di San Secondo
62
Ringraziamenti:
La stampa di questa pubblicazione è stata possibile anche grazie a tutte le persone
che disinteressatamente hanno collaborato insieme alle amministrazioni comunali di
San Secondo di Pinerolo e Prarostino.
In particolare si ringraziano: Franca AVARO, Gian Vittorio AVONDO, Paolo COZZO,
Bruna DESTEFANIS, Anna FORESTIERO .
Fonti e Bibliografia
Testimonianze di Albertina Gay, Aurelio Bertalot, Olga Griglio, Hide Costantino e
Margherita Porcero tratte dal libro “Un faro per la Libertà”, a cura del gruppo storico
di Prarostino, Editore Centro Culturale Valdese, 1995.
Testimonianze di Mauro Gardiol, Egidio Paschetto e Mario Mauro tratte dal libro
“60° Anniversario della Liberazione 1945 – 2005”, comuni di Osasco, Prarostino e
San Secondo di Pinerolo, Globals Editore, 2005. - Sui sentieri dei partigiani (W. F.
Cavoretto, V. Faure, E.Sesia), ed. C.D.A., Torino 1995 - La Resistenza nell’Alta Valle
Chisone e Val Troncea; ed. Alzani, Pinerolo, 2005 - Bibiana, terra di confine: la guerra
partigiana tra montagna e pianura; ed. Neos, Rivoli 2007 - Prarostino, una comunità
ribelle; Ed. Comune Prarostino, Prarostino 2009 - Storie di Resistenza in Piemonte,
ed. del Capricorno, Torino 2013 - Sentieri di guerra in pianura: il basso Pinerolese
dal settembre 1943 all’aprile 1945, Neos Edizioni, Rivoli 2013 - Piemonte 1944 L’anno più lungo, ed. del Capricorno, Torino 2014 - Piemonte 8 settembre, ed. del
Capricorno, Torino 2014
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