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Ricordi di San Vincenzo - Comune di San Vincenzo

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Ricordi di San Vincenzo - Comune di San Vincenzo
Adamasco Giovani
Ricordi di San Vincenzo
Foto di copertina di Cippi Pitschen
Questa che sto scrivendo è la storia della mia vita.
La scrivo per me, mi piace raccontarla, quando la leggo è come se parlassi alla mia anima, ci sono
episodi belli ma anche drammatici.
È la storia del mio paese e dell’Italia.
Mi diverto a fare un’analisi degli ultimi anni del fascismo ad oggi, ottobre 2002,con molte osservazioni
e critiche viste da una mente di sinistra: ho militato nel P.c.i dal 1945, ho accettato, anche se con
molto rammarico, che al congresso della Bolognina il simbolo del partito comunista diventasse P.D.S.;
io avvertii subito un certo disagio, ma restai nel partito sempre come semplice militante fino al ‘99
quando rifiutai la tessera di adesione non perché fui io a cambiare opinione politica, ma perché la
nuova classe dirigente non aveva più a che fare con la sinistra Italiana. Io non mi sono mai sentito
dipendente da nessuno, sono sempre stato una mente libera, ho sempre detto in ogni occasione
quello che pensavo, di tutte le osservazioni e critiche che faccio non ho la presunzione di avere
sempre ragione, ma una cosa è certa: sono sincero e credo in quello che scrivo.
Sono in pensione e come tutti quelli che amano il mare passo la maggior parte del tempo al porticciolo.
Con il tempo bello io e i miei amici andiamo anche a pescare, da dilettanti, con il bolentino oppure
con i palamiti ed è un bellissimo svago; poi ci troviamo al circolo ARCI per fare una partita a tressette
o a briscola. La maggior parte di loro è formata da pensionati delle acciaierie di Piombino ed hanno
la fortuna di essere andati in pensione a solo cinquant’anni con un buon trattamento.
Una volta si interessavano molto di più alla politica, ora li trovo molto opportunisti; la cosa per molti
di loro più interessante è il calcio e della politica sono del tutto disinteressati: delle squadre di calcio
sanno tutto, a volte sono così presi da avere la presunzione di scegliere loro la formazione che deve
andare in campo. Con loro un dialogo sulla politica non lo puoi fare ad eccezione di qualcuno che
però essendo troppo dipendente dal partito si lascia influenzare dai discorsi dei politici. Sono i fatti
che contano e in questa realtà è difficile fare un dialogo perché raramente riescono a farsi autocritica
diventando dei telecomandati. Io invece riesco a farlo e mi piace il mio modo di pensare e criticare,
mi sfogo e mi diverto. Chiudo questa parentesi politica per riprenderla più avanti.
Voglio parlare di questo bellissimo paese dove sono nato e cresciuto, San Vincenzo. I miei ricordi più
chiari partono da quando avevo appena sei anni. San Vincenzo era un piccolo paese di circa mille
abitanti, compresi la vicina campagna e una frazione del comune di Campiglia Marittima: era una
comunità fatta di povera gente, molti lavoravano in campagna, molti altri facevano i pescatori e una
buona parte era costituita invece da barrocciai, categoria quest’ultima molto importante. Infatti con
i loro mezzi riuscivano a far fronte i bisogni di allora nell’ambito dei trasporti,visto che non c’erano
altri modi più pratici per viaggiare.
Era una comunità composta inoltre da due barbieri, due calzolai che ci facevano le scarpe su misura,
due fabbri i quali lavoravano in prevalenza per la campagna: essi assottigliavano con la forgia e il
martello i vomeri che venivano poi fissati con dei bulloni all’aratro tirato da una coppia di buoi
per arare i campi come oggi si fa con i trattori. C’era anche un maniscalco che ferrava i cavalli dei
barrocciai, tre botteghe di generi alimentari che vendevano dalla pasta al carburo per l’acetilene e
il petrolio che servivano per i nostri lumi di casa; c’erano anche due macellai ma non avevano molto
lavoro visto che la nostra era una comunità di povera gente e il consumo di carne era molto limitato:
gli alimenti base erano fagioli, patate, ceci, baccalà, stoccafisso, aringhe e tante sarde e acciughe
portate a terra dai pescatori.
Molte famiglie avevano un piccolo orto di una trentina di metri quadri; ai giorni d’oggi lo avrebbero
usato come giardino con fiori e prato all’inglese, invece quello spazio veniva utilizzato per coltivare
molte specie di verdure che erano un aiuto molto importante per una famiglia.
Inoltre c’erano una piccola banca, un ufficio postale, un telefono pubblico, due cinema che
proiettavano solo la domenica e un ufficio distaccato del comune di Campiglia Marittima con
funzioni amministrative al servizio dei cittadini.
San Vincenzo si estendeva a nord, fino al passaggio a livello della ferrovia e a sud fino al vecchio
campo sportivo; c’era anche un mulino che macinava per tutta la campagna e forniva la farina alle
nostre massaie ed era comune nella maggior parte delle famiglie fare il pane in casa e poi portarlo
dopo al forno a cuocere.
La comunità era molto povera, mancava anche lo stretto necessario per andare avanti ma quello che
non mancava era una forte dignità, una grande solidarietà e rispetto reciproco; pesava però su di noi
una miseria ingiusta perché tutti lavoravamo ma non venivamo mai retribuiti in modo da soddisfare
le poche necessità quotidiane. La povertà era tale che mia madre mi lavava i pantaloni di solito la
sera, quando andavamo a dormire, per farli asciugare al fuoco del camino in modo da poterli mettere
il giorno dopo visto che non avevo il cambio. Ero solo un ragazzino ma provavo un forte disagio.
Ricordo un particolare che risale a quando avevo nove o dieci anni: di fronte a dove risiedevo io, al
di là della strada, abitava un certo Damini, anziano pensionato delle ferrovie,il quale aveva una casa
indipendente, molto bellina.
Questo Damini viveva con la moglie, non aveva figli, aveva parenti che abitavano a Milano e tutti
gli anni un suo nipotino per le feste di Natale veniva a San Vincenzo con i suoi genitori. Questo
ragazzino aveva la mia età e fu molto facile creare un rapporto di amicizia con lui così tutti i giorni
eravamo a giocare insieme; si chiamava Piero ed era sempre vestito molto bene. Quello che mi colpì
fu un cappottino scuro che indossava, perché a Natale faceva freddo anche da noi. Io un cappotto
non lo avevo mai avuto e il freddo lo sentivo più di lui.
A mia madre chiesi perché lui avesse il cappotto e io no e mia madre, che era una donna analfabeta
ma molto intelligente, mi prese per mano e mi disse: “Vedi, Piero deve portare il cappotto perché
se non lo avesse, con questo freddo, gli verrebbe la febbre e sarebbe costretto a stare a letto e non
potrebbe venire a giocare con te, invece te sei un bel bimbo sano e il cappotto non ti serve”.
Rimasi convinto al punto che mi dispiaceva per lui perché non si toglieva il cappotto nemmeno
durante il gioco. Più tardi col passare degli anni capii il significato di quella risposta: non mi volle dire
che eravamo poveri e il cappotto non poteva comprarlo perché mi avrebbe fatto sentire in uno stato
di inferiorità; con quella risposta, nella sua ignoranza, riuscì a farmi sentire più fortunato di lui.
Parlando dei grossi disagi con cui eravamo costretti a vivere, succedeva di arrivare alla fine del mese
e non avere più una lira prima di riscuotere e quando mancava in casa l’olio e lo zucchero, non era
una vergogna andare dalla vicina a chiedere in prestito una boccettina di olio e una tazza di zucchero;
nessuno si scandalizzava, era una cosa reciproca che permetteva a tutti di arrivare in fondo al mese
con meno disagi.
Un poco meglio se la passava chi aveva meno figlioli; noi eravamo quattro ragazzi, ma nonostante
avessimo due stanze nostre e non pagassimo l’affitto, i soldi non bastavano mai ed eravamo costretti
a tante privazioni, anche dal punto di vista alimentare.
In quella precaria situazione eravamo un po’ tutti, ma c’era una grande solidarietà e fiducia: quando
mia madre usciva di casa, se la vicina era nell’ingresso, non toglieva la chiave dalla porta.
Oggi quella miseria in generale non esiste più ed è bello che sia così ma abbiamo perso tanti valori,
come la solidarietà, l’onestà, la tolleranza, il rispetto per la famiglia, ma una cosa è certa: la miseria la
puoi sempre riprendere, ma tutti gli altri valori sono persi per sempre.
Ho un punto preciso da dove cominciare a ricordare la mia infanzia, ovvero il mio primo giorno
di scuola: indossavo un grembiule bianco molto lungo che mi arrivava sotto le ginocchia e mi dava
fastidio e una borsa con una cinghia talmente lunga che mi arrivava ai piedi. Mia madre dovette
farci un nodo a metà per farla su misura. Ricordo come un peso insopportabile la prima elementare
specialmente: tutto l’anno scolastico a fare quadratini, lineette, puntini… un anno di noia.
In seconda cominciarono a farci scrivere e prendere confidenza con i numeri e il terzo anno fu quello
più difficile poiché cominciammo a fare dettati, problemi, pensierini, divisioni, moltiplicazioni: per
me era molto dura e facevo sempre un sacco di errori. Io vivevo in una famiglia in cui mio padre e
mia madre erano analfabeti, soltanto mia madre sapeva leggere un po’ meglio ma non bastava per
potermi aiutare nei compiti a casa. Quando riportavo i compiti a scuola erano pieni di errori; questi
risultati si ripetevano anche a scuola nonostante tutti i miei sforzi. Spesso il maestro mi chiamava
alla lavagna a svolgere qualche problema ma io mi trovavo sempre in grosse difficoltà, scrivevo, poi
cancellavo, non mi sentivo sicuro e facevo dei pasticci.
A quel punto il maestro chiamava alla lavagna un altro alunno per correggere tutto quello che io
avevo sbagliato, chiamava sempre il più bravo, un compagno di scuola che si chiamava Piero Corti e
risolveva tutto con molta facilità. Il maestro mi diceva: “Hai visto come si fa? Impara!”.
Quando il compagno andava a posto, mi dava un’occhiata come se si sentisse superiore. In quel
momento mi sentivo molto offeso ma questo non avveniva perché lui era più intelligente di me, la
differenza era fra la mia famiglia e la sua: lui era figlio del direttore della banca e fin dall’inizio della
scuola i genitori gli aveva dato un grosso aiuto. Anche nei compiti a casa aveva sempre qualcuno che
lo poteva correggere dove sbagliava, ma io con tutti e due i genitori analfabeti mi dovevo arrangiare
sempre da solo fin dall’inizio della scuola. Quando il maestro mi diceva: “Visto come si fa? E impara!”,
mi faceva violenza morale.
Il maestro non riusciva a capire che la mia situazione familiare era culturalmente molto diversa da
quella di Piero. Pur essendo un ragazzino di otto anni avvertivo questo disagio ma non mi arrendevo
e cercavo con tutti i miei sforzi di migliorare. Ci riuscii in quinta quando divenni uno dei migliori e
in italiano sicuramente il più bravo.
Sono sempre stato un ragazzo orgoglioso e crescendo non ho mai avuto complessi, quindi ero un
ragazzo sereno. Terminata la quinta elementare andai alla scuola di avviamento al lavoro a Rosignano
Solvay, una scuola per figli di dipendenti della società. Feci il primo anno superando gli sesami con
buoni risultati ma il secondo anno dovetti lasciare la scuola con molto rammarico perché mi piaceva
molto frequentarla: facevamo officina e falegnameria. Era una scuola molto stimolante e io mi
applicavo molto ma lasciai perché in casa mi dissero che non potevano spendere soldi per la scuola.
Così a soli tredici anni mi imbarcai come mozzo su una barca da pesca; l’armatore era Arturo
Federici, un uomo possente di statura che aveva navigato per decine di anni sui famosi bastimenti a
vela, solcando gli oceani dall’Europa del sud al nord America fino in Asia e in Nuova Zelanda.
Quando eravamo a pesca, nei momenti di attesa, dopo aver calato le reti in mare, ci raccontava di quei
viaggi in cui aveva affrontato grosse tempeste o subito giorni di bonaccia che lo costringevano a stare
fermo. A volte stava mesi senza toccare terra.
Raccontava delle città americane, di grandi grattaceli che noi non sapevamo nemmeno immaginare.
Io ero un ragazzo e lo ascoltavo affascinato; riusciva a coinvolgerci al punto che immaginavamo di
essere anche noi a bordo di quei bastimenti, specie quando alzavamo la vela della nostra barca:
avevamo barche di circa nove metri con una bella velatura. Avevamo la vela latina che tutti i marinai
e i pescatori conoscono.
A bordo della barca il lavoro era molto duro. Partivamo la sera due ore prima che calasse il sole per
andare nella zona di pesca: se c’era vento andavamo a vela, se c’era bonaccia andavamo a remi a circa
due miglia dalla costa, calavamo le reti per lungo poco prima che tramontasse il sole e stavamo in
pesca fino a che non faceva scuro. Queste reti si chiamavano le manaide, ed erano fatte soltanto per
la pesca delle sarde e dell’acciughe. Avevano una lunghezza di quattrocento metri, divisi in quattro,
cioè quattro pezzi di cento metri, legati insieme l’uno sull’altro.
Ognuno di questi era composto da quattro spigoni, cioè ogni venticinque metri era legata una gassa e
ad ogni gassa veniva legato un segnale di sughero con la calama per stabilire se la rete doveva pescare
a fondo oppure a metà. Era una rete che alzava dalla corda piombata alla parte superiore circa undici
metri. La zona di pesca era quasi sempre dai venti ai venticinque metri di fondale: in una sola volta
potevamo prendere o meglio catturare anche cinque o sei quintali di pesce.
Nel tempo in cui smagliavamo il pesce dalla rete, venivano accese le luci che si trovavano a bordo di
piccoli gozzi; una volta assommato il pesce sotto la luce, le manaide venivano calate in cerchio intorno
al gozzo con la luce. Fatta questa operazione, il gozzo piano piano con i remi usciva dal cerchio
facendo ammagliare il pesce che aveva assommato.
Non tutte le notti potevamo fare un buon pescato, ma una media sempre di diversi quintali. Il lavoro
continuava una volta a terra, fra consegnare il pescato e rimettere in ordine le reti che un giorno sì
e uno no andavano messe ad asciugare stese sulla spiaggia: erano reti di cotone e per mantenerle
in buono stato dovevamo fare loro questo trattamento e non finivamo mai prima di mezzogiorno,
cosicché nel pomeriggio non rimanevano tante ore per andare a riposare. C’era anche un riposo
forzato quando il mare agitato non ci consentiva di uscire a pescare.
Arturo Federici, quando eravamo a pesca, oltre che parlare delle meravigliose avventure di quando
navigava sui bastimenti, ci parlava anche di politica. Noi non sapevamo cosa fosse la politica ma
riusciva molto bene a farci capire la differenza fra democrazia e totalitarismo: diceva che il fascismo
a quei tempi, nel 1940, aveva il potere assoluto in Italia e in quel partito militava la peggiore faccia
della società; ci diceva che lui era socialista ed io inizialmente non capivo cosa volesse dire e quale
potesse essere la differenza tra fascismo e socialismo ma lui riuscì molto bene a spiegarcela. Arturo
era un uomo straordinario che ha saputo trasmettere la sua idea socialista a me e agli altri giovani
imbarcati con lui. Devo dirgli grazie per avermi fatto fare una scelta politica giusta che mi è servita
nel corso della vita.
Mi sono sempre sentito dalla parte legittima anche se la più debole e indifesa di questa società.
Gli antifascisti di quegli anni in prevalenza erano lavoratori autonomi, cioè artigiani e commercianti,
ma tutti dipendenti statali o di enti pubblici e fabbriche e quindi dovevano per forza iscriversi al
partito fascista se volevano lavorare.
Arturo non nascondeva anche in quel periodo il suo antifascismo, era un uomo libero, coraggioso,
sempre coerente con le sue idee e credeva nella sua onestà anche sotto regime. Qualche volta usciva
anche allo scoperto, ci voleva molto coraggio a farlo e lui ne aveva. Ricordo un sabato, il giorno
della settimana che dovevamo andare all’adunata al campo sportivo a seguire le istruzioni come
avanguardisti, giovani fascisti e Balilla perché “dovevamo essere il futuro dell’Italia Fascista”.
Quel sabato sera non andai a pescare e Arturo pensò che mi fossi sentito poco bene. Il mattino
seguente andai sul mare all’arrivo delle barche; Arturo mi vide e mi chiese perché la sera prima
non mi fossi imbarcato e io gli risposi che ero andato all’adunata, visto che ero un Balilla ed era un
obbligo presentarci al campo sportivo. Avevo fatto la notte precedente in mare e non essendo andato
a dormire non me la sentivo di fare un’altra nottata in mare a pescare.
Arturo mi disse: “Vieni con me!”, e andammo alla sede del fascio che si trovava in piazza della Vittoria
davanti al monumento della guerra del quindici- diciotto. Mi prese per mano ed entrammo in questa
sede che era una sola stanza. Dietro una specie di scrivania era seduto il segretario del fascio e ai lati
tre o quattro fascisti; Arturo si rivolse al segretario chiamandolo per nome. Ricordo molto bene le
parole che gli disse: “Questo ragazzo la sera deve venire in mare a lavoro e il giorno deve riposare e
pertanto lui alle vostre adunate non ci può venire”. Il segretario si alzò di scatto in piedi e con voce
alta gli disse: “Gli ordini li dò io Arturo!”.
Arturo gli rispose: “Te gli ordini li dai ai tuoi scagnozzi e questo ragazzo all’adunata non ci può
venire!”.
A quel punto quegli scagnozzi, come li chiamò Arturo, si alzarono in piedi con aria minacciosa.
Arturo mi scansò da una parte e afferrò una seggiola di quelle impagliate e disse a quei tre o quattro
di mettersi a sedere se non si volevano creare problemi, e quel fisico che il mio amico si ritrovava
certamente problemi li avrebbe creati. Il segretario rivolto ad Arturo lo esortò a stare calmo perché da
parte loro non c’era nessuna intenzione cattiva. Arturo però lo avvertì che se avesse mandato qualche
squadraccia da fuori a manganellarlo, avrebbe dovuto inviare tanti fascisti perché per picchiare
uno come lui pochi non sarebbero bastati e che doveva preoccupasi perché dopo sarebbe andato a
cercarlo.
Io non andai più all’adunata e nessuno ha mai provato a toccare Arturo. Benché fossi un ragazzo,
capii la forza materiale e morale di quell’uomo e la vigliaccheria di quei fascisti: sono episodi ed
esempi che mi hanno aiutato a crescere bene.
Il governo fascista con a capo Mussolini nella Seconda Guerra Mondiale si alleò con la Germania
nazista di Hitler dichiarando guerra agli Inglesi che già combattevano contro i nazisti.
La Germania aveva una potenza militare che le consentì in pochi mesi di occupare i paesi dell’Est e in
seguito la Francia. L’Italia entrò in guerra con armamenti da rottamare: ricordo molto bene che dopo
pochi mesi l’Italia non aveva più nemmeno il ferro, così cominciarono a segare tutte le ringhiere
che erano sui muri di cinta delle case e degli edifici pubblici per permettere all’industria bellica di
fabbricare le armi. Fu un segno poco incoraggiante ed il tempo dimostrò la triste realtà; un esercito
di poveri disgraziati fu mandato al macello in Africa e nella campagna di Russia.
Voglio raccontare un episodio che se anche modesto è significativo e che senza dubbio ci mostra
quale era la salute di tutte le nostre forze armate; io non ho la presunzione di scrivere la storia, ma
voglio soltanto raccontare i fatti che ho vissuto. Qui a San Vincenzo c’erano due caserme di soldati,
una dove ora è piazza Mischi, l’altra in una vecchia casa contadina che ora si chiama la Conchiglia.
Quest’ultima aveva in dotazione quattro o cinque cannoni nascosti fra i cespugli della macchia, puntati
verso il mare e si vedevano molto bene dalle barche quando andavamo a pescare. Probabilmente
erano residui della guerra del quindici-diciotto: erano cannoni con le ruote di legno, come i barrocci
o i carri dei contadini.
Una mattina provarono a fare un’esercitazione a diverse centinaia di metri dalla costa e mi ricordo
che c’era un rimorchiatore che trainava un bersaglio su una zattera di legno. Le prime due cannonate
che furono sparate per poco non colpirono il rimorchiatore.
A quel punto il comandante del rimorchiatore mollò la sagola che trainava il bersaglio e a tutta forza
si diresse verso Livorno. Il bersaglio venne ad arenarsi sulla spiaggia davanti a dove ora c’é piazza
della Chimera. Il comando militare fece murare dei fondi di bottiglia rotte sopra la balaustra del viale
Marconi e per di più le barche dei pescatori riempite di sabbia furono poste attraverso gli scali che
avevano accesso al mare, strategia per fermare un eventuale sbarco del nemico. Potranno sembrare
barzellette, ma è la verità perché io ne sono stato testimone.
Il provvedimento che fu preso fu il razionamento di generi di prima necessità a partire dagli alimenti
e così cominciò il periodo della “grande fame” fino al giorno della liberazione da parte degli
alleati. L’Italia nel ‘43 era ormai sconfitta militarmente su tutti i fronti e semidistrutta da massicci
bombardamenti. Il governo fascista di Mussolini cadde e fu costituito il governo Badoglio che dopo
poco firmò l’armistizio con gli alleati, ma nel paese non c’era più un governo in grado di gestire
una situazione d’emergenza e tutto andò allo sbando. L’esercito si sfece e i soldati che poterono se
ne andarono a casa. Tutte le nostre navi da guerra fecero rotta su Gibilterra e si consegnarono agli
Inglesi. Dopo la firma dell’armistizio pensammo tutti che la guerra fosse finita in Italia; nel frattempo
gli Americani erano sbarcati in Sicilia e poi ad Anzio. Sembrava fatta invece i Tedeschi invasero il
nostro paese non trovando nessuna resistenza, visto che non avevamo più un esercito. Per loro fu
una passeggiata: tennero testa alle forze alleate bloccandole per molti mesi a Cassino; gli alleati
intensificarono i bombardamenti su tutti gli obbiettivi strategici cioè fabbriche, porti, ponti e stazioni;
i bombardamenti vennero fatti a tappeto con centinaia di fortezze volanti e colpirono abitazioni civili
causando centinaia e centinaia di morti. I più colpiti furono il porto di Livorno, le zone industriali,
gli edifici pubblici e le acciaierie di Piombino.
Dalle città i civili furono costretti a sfollare, chi in campagna, chi in piccoli paesi, lontani dagli obiettivi
più facili da colpire. Io con la mia famiglia sfollammo in campagna dopo un piccolo bombardamento
notturno a San Vincenzo che non causò molti danni. Andammo in località i Pianali: c’erano tre case
di contadini e una collinetta circondata dalla macchia.
Noi ci adattammo in una stanza: una tenda fatta di vecchie lenzuola separava la parte dove si dormiva
dalla parte dove si cucinava, ma quest’ultima veniva poco usata perché molte volte non avevamo niente
da mangiare. Fra sfollati e contadini non c’era molta solidarietà: i contadini non volevano mandarci
via ma certamente eravamo un fastidio per loro. Noi non avevamo niente e loro non facevano nulla
per aiutarci, specialmente dal punto di vista alimentare: loro avevano tutto, non gli mancava nulla a
differenza di noi che dovevamo sopravvivere con quel poco che si poteva con la tessera annonaria.
Tutto era razionato, quello che ci davano con i bollini poteva bastare a malapena a due persone
e noi eravamo in cinque. In seguito nemmeno le tessere servivano più perché in paese non restò
più nessuno; i forni non facevano più nemmeno il pane che era l’alimento base, non riuscivamo
nemmeno a mangiare due etti a testa. Voglio raccontare un capitolo legato alla grande fame prima
che sfollassimo da San Vincenzo.
Quando il nostro esercito di disgraziati era sempre in servizio, i soldati occuparono come caserma
la vecchia fattoria, una casa che dopo l’ultima ristrutturazione è stata trasformata in biblioteca
comunale e sala consiliare. Questa casa era di proprietà dei conti Della Gherardesca e il comando
militare l’adibì a caserma con delle camerate. I soldati erano una cinquantina e la cucina era stata
costruita all’esterno della caserma: era una struttura fatta di lamiere posta in lato del piazzale, di
fronte alla casa. Io e un altro ragazzo della mia età, che si chiamava Capraino, facemmo amicizia con
i soldati addetti alla cucina e ci accordammo con loro per pulire e lavare dopo la distribuzione del
rancio tutte le marmitte,la cui forma rettangolare faceva in modo che rimanesse sempre sul fondo
un po’ di minestra sufficiente a togliere la fame a tutti e due; quando il rancio era la pastasciutta una
porzione la davano anche a noi. Erano uomini che capivano la nostra fame e qualche volta ci davano
qualche pagnotta da portare a casa.
Così ogni mattina io e il Capraino uscivamo con il cucchiaio in tasca; questo durò fino a quando i
nostri soldati andarono tutti a casa con il disfacimento del nostro esercito.
Ho un altro ricordo della grande fame in tempo dello sfollamento. Un giorno andai alla macchia a
tendere le tagliole con le quali si prendevano varie specie di uccelli fra i quali merli, tordi, pettirossi
per cambiarli con pane e farina. Finito di tendere le tagliole, avvertii un languore allo stomaco e
una fame terribile: accanto a me c’era un albero carico di frutti e ne mangiai alcuni per alleviare
la fame. Poco dopo cominciai a sudare nonostante fosse molto freddo, le forze cominciarono ad
andare via, dentro di me crebbe la convinzione di stare per morire e mi rassegnai a questo triste
destino; mi sdraiai allora sopra a delle foglie e probabilmente svenni. Dopo non so quanto tempo mi
ripresi: mi sentivo in uno stato confusionale, non riuscivo a capire dove mi trovavo ma nel frattempo
arrivò mio fratello che aveva seguito le tagliole che avevo teso. Mi disse che era più di un’ora che mi
cercava, che mi aveva chiamato per tutto questo tempo senza ricevere risposta. Gli risposi che io ero
morto e poi ero “rinvivito” e lui, prendendomi in giro, mi rispose: “Non è che sei “rinvivito”, te sei
rincretinito!”. Dentro di me però mi dissi che se morire era uguale alla sensazione che avevo provato
io in quell’esperienza, allora la morte non mi faceva più paura.
Voglio raccontare anche questo episodio legato alla fame: ricordo che eravamo nel mese di giugno, il
mese in cui i contadini raccoglievano il grano nei campi e lo tagliavano con la falce, a mano.
Quando avevano finito il loro lavoro io e i miei fratelli andavamo nei campi a spigolare, cioè a
recuperare quel poco che rimaneva. In un paio di giorni avevamo ripulito spighe e recuperato dodici
chili di grano, ma il problema era come macinarlo.
Ci dissero che a Campiglia c’era un mulino che macinava anche piccole quantità di grano o granturco.
Mia madre mise questo grano in un sacco fatto da lei con un vecchio lenzuolo e mi chiese di andare al
mulino a farlo macinare. Dai Pianali, dove eravamo sfollati, a Campiglia erano circa dieci chilometri,
di cui metà da percorrere per una strada attraverso la macchia per arrivare a San Carlo e altrettanti
per arrivare a Campiglia.
Una volta arrivato al paese mi fu facile trovare questo mulino perché era poco distante.
Arrivato al mulino trovai una fila di persone che come me avevano piccoli sacchetti di grano di
quindici o venti chili; vidi che c’era un militare con un moschetto, allora chiesi il perché di quella
presenza e mi dissero che era un repubblichino e stava là per il servizio d’ordine. Quando venne il
mio turno, entrai con il mio sacchetto di grano di dodici chili, il mugnaio controllò l’esattezza del
peso, dopo di che versò il mio grano in un recipiente. Quando travasò la farina dentro il mio sacco
notai che la quantità che mi aveva dato era però solo di otto chili. Gli feci notare che i kg portati di
grano erano dodici e quindi mi spettava altra farina, però il mugnaio mi disse che tolta la crusca e il
costo della macinatura quello era ciò che mi spettava.
Ribattei che volevo anche la semola e la macinatura l’avrei pagata, allora lui mi prese a spinte e mi
cacciò fuori; io mi sentii truffato perché quattro chili di farina in meno per me volevano dire tanto.
Scosso per l’accaduto mi misi a sedere su di un muricciolo davanti al mulino: ero un ragazzo, non mi
potevo difendere da quell’abuso e mi misi a piangere sommessamente. In quel momento si avvicinò
quel militare e mi chiese: “Ragazzino, che cosa ti hanno fatto? Perché piangi?”. Io gli spiegai cosa era
successo, allora il soldato mi prese per mano e mi condusse nuovamente dentro al mulino; poi chiese
al mugnaio come mai con dodici chili di grano mi aveva dato solo otto chili di farina e questi ripeté
più o meno le stesse cose che aveva detto a me. Il soldato prese per il petto il mugnaio, lo avvicinò ad
sacco di farina e lo obbligò a versarla nel mio sacco e lo fece continuare fino a metterne una ventina
di chili. Si assicurò inoltre che ce la facessi a portarla a casa, mi aiutò a mettere il sacco in spalla e mi
disse di andare. Seppi in seguito che il proprietario del mulino si chiamava Zannoni.
Forse quest’esempio che voglio raccontare spiegherà meglio come noi italiani non eravamo preparati
per entrare in guerra. Era un giorno del ’42, mi sembra il giorno dell’ascensione; udimmo colpi di
cannone che venivano dal mare e salimmo sulla piana, una collinetta sopra San Vincenzo per vedere
e capire meglio che cosa succedeva. Vedemmo un vapore a circa un miglio o poco più dalla costa, a
sud di Marina di Donoratico e un sommergibile in superficie al largo del vapore che cannoneggiava
la nave. Le prime cannonate furono di avvertimento in modo che l’equipaggio abbandonasse la nave,
infatti non ci fu nessun morto. In seguito il sommergibile continuò sparare altre cannonate, poi
lanciò tre siluri e due colpirono in pieno la nave e quello che non la colpì si arenò sulla spiaggia vicino
alla villa del conte Gaddo della Gherardesca: il vapore si chiamava Pianona. Quando il vapore andò a
fondo, il sommergibile, con tutta calma, si immerse e dopo circa mezz’ora vedemmo un piccolo aereo
che fece due giri sul punto dell’incidente e se ne andò.
Questa era la forza di difesa che avevamo. Poco tempo dopo un altro vapore fu affondato
probabilmente dallo stesso sommergibile. Dalla spiaggia, dove tenevamo le barche da pesca, vedemmo
una colonna di fumo a circa cinque miglia dalla costa; pensammo subito ad un altro incidente e con
le barche ci dirigemmo verso il luogo della disgrazia, pensando subito al peggio. Si presentò una
scena drammatica: il vapore stava affondando e i marinai erano aggrappati ai boccaporti, tutti unti e
anneriti dalla nafta. Era un equipaggio di una decina di uomini; ci fu un solo morto che fu portato a
terra dalla barca di Alessandro Federici, la barca si chiamava Delia.
Fu issata la bandiera a mezz’asta per indicare morto a bordo. Il vapore andato a fondo si chiamava
Capacital e tutti e due trasportavano carbone.
Anche in tempi burrascosi come quelli andavamo la notte a pescare, con delle luci subacquee
alimentate da batterie elettriche per assommare il pesce e venivano calate a circa un paio di metri
sotto l’acqua per non essere viste dato che c’era l’oscuramento, ma non serviva a nulla perché
dall’alto si potevano vedere molto bene. Ricordo una notte durante la quale gli aerei che andavano a
bombardare Piombino passarono sopra di noi. Una notte si sentì un caccia venire in picchiata dritto
su di noi, con quel rumore inconfondibile: ci eravamo preparati al peggio ma l’aereo passò a poche
decine di metri sopra le nostre teste senza però sparare un colpo di mitraglia; sicuramente videro che
eravamo dei poveri pescatori e ci lasciarono fare il nostro lavoro.
Quando li sentivamo eravamo tranquilli.
Noi pescatori in quei giorni eravamo una risorsa per la nostra comunità perché gli alimenti che la
popolazione otteneva con le tessere annonarie erano da fame. Le donne la mattina venivano sulla
spiaggia ad aspettare che arrivassimo per acquistare le sarde e le acciughe: con il pesce che costava
pochi soldi si riusciva in parte ad alleviare la grande fame. Non tutte le notti il pescato era abbondante
e noi, indipendentemente dal guadagno, eravamo tristi, invece quando al mattino sbarcavamo
quintali di sarde ci sentivamo gratificati come se avessimo fatto un’opera buona.
Quando andavamo a casa la colazione per me e i miei fratelli consisteva in sarde arrostite sul carbone:
era per noi un alimento base. Da quanto pesce azzurro mangiavo pensavo che un giorno o l’altro mi
sarebbero spuntate le pinne.
Nel 1943 uno zatterone da sbarco tedesco, che navigava sottocosta, fu spinto sulla spiaggia durante
una mareggiata di libeccio da non consentirgli di riprendere il mare; rimase arenato a circa duecento
metri dalla battigia, era carico di farina e munizioni. Per portare a terra questo materiale occorrevano
due barche perché lo zatterone era a due chilometri a nord di San Vincenzo e su una delle barche
requisite c’era un equipaggio di due persone, io e il capo barca che si chiamava Benvenuti Romolo.
Accettammo solo perché non potevamo fare altrimenti, sarebbe stato molto pericoloso rifiutare.
A bordo dello zatterone i tedeschi avevano quattro soldati italiani prigionieri. La sera dovevamo
rientrare a casa a San Vincenzo con la barca; i prigionieri ci pregavano di farli salire a bordo per
venire via con noi. Decidemmo di aiutarli evitando di essere visti dai Tedeschi. Riuscimmo, due per
barca, a portarli via, non pensando troppo al pericolo che correvamo, anche per l’incoscienza della
nostra età. Per quei giovani fu la libertà.
L’unico vantaggio che noi avemmo fu quello di avere rimediato due sacchi di farina di un quintale
l’uno: era una farina dura, forse segale non tanto adatta per fare il pane perché non riuscivamo a
cuocerlo bene, ma con la fame era buono anche quello.
Una grande fregatura invece ce la dette un nostro conoscente che parlava il tedesco e faceva
l’interprete. Il comandante tedesco lo considerava il responsabile di tutti quelli che lavoravano a
terra: eravamo circa una decina di ragazzi addetti a trasferire il materiale dalla spiaggia alla strada. Gli
accordi prevedevano che il comandante ci avrebbe pagato per il lavoro svolto.
I soldi per tutti noi, una volta finito il lavoro, furono dati a Silvano, così si chiamava il nostro interprete,
ma egli sparì con i compensi di tutti. Seppi che era emigrato in Messico; lo rividi alla fine della guerra,
negli anni cinquanta. Gli ricordai di come si era comportato e mi disse che i soldi non li aveva mai
avuti. Dopo tanti anni ormai la cosa non aveva più senso ma volli dirgli almeno che si era comportato
da persona poco seria.
Io sono un uomo che ha vissuto in un periodo storico in cui la verità non è mai stata detta per molti
motivi. Dopo la firma dell’armistizio con gli alleati da parte del governo Badoglio, con la caduta
del fascismo prima e l’invasione tedesca poi, eravamo un popolo allo sbando. I vecchi gerarchi con
Mussolini formarono la Repubblica di Salò, il nome della città dove nacque. Questa costringeva i
giovani ad arruolarsi per combattere al fianco dei vecchi alleati nazisti; non furono tanti a aderire
nonostante i fascisti avessero messo sanzioni molto pesanti per chi non si presentava come per Pertini,
Longo, Paletta, Terracini e molti altri e altri uomini di centro come Taviani, Zaccagnini, uomini
che poi formarono la resistenza, organizzando formazioni partigiane. Gli antifascisti di allora erano
persone coraggiose e subirono anni di carcere e di confine, condanne inflitte dal tribunale speciale
fascista. Il presidente di questo famigerato tribunale si chiamava Trincali, era nativo di Castagneto
Calducci. Nonostante tutte le sofferenze, gli antifascisti non si piegavano mai, certi di essere dalla
parte giusta; le formazioni più grosse di partigiani operavano al nord e al centro, combatterono i
nazisti e i fascisti con grande coraggio e in nome della libertà. Molte città importanti furono liberate
dai partigiani prima che arrivassero le truppe alleate con un costo pesante di morti, ma ne valse la
pena.
Con la Resistenza fu ridata all’Italia quella dignità che il fascismo le aveva tolto.
Finita la guerra si formò il comitato di liberazione, formato da tutte le forze antifasciste e furono
indette le elezioni democratiche per costituire un governo.
La lotta fu tra la sinistra, cioè i comunisti e i socialisti insieme, e nell’altro schieramento il centro, con
i democristiani e altri piccoli partiti. Con le votazioni, la maggioranza andò alla Democrazia Cristiana;
fu creato all’inizio un governo d’unità nazionale ma poco dopo una coalizione fra D.C., Liberali
Monarchici e altre piccole forze,rappresentando la maggioranza assoluta, pose fine ad ogni intesa
con le forze di sinistra. I governi democristiani che poi si sono succeduti fino a poco tempo fa hanno
sempre impedito di fare capire ai giovani che cosa veramente fosse stata la guerra di liberazione. Nelle
scuole questa pagina di storia, ovvero l’importanza della nascita della Resistenza non è stata materia
di studio e d’approfondimento: fu un movimento spontaneo di giovani, donne e perfino ragazzi che
combatterono per la democrazia, la libertà, la giustizia sociale.
Con il passare dei primi anni però, per interessi politici dei governi in carica, cioè i democristiani, tutti
questi ideali al popolo furono negati in nome dell’anticomunismo, dal momento che le formazioni
partigiane in prevalenza erano di ispirazione di sinistra e questo dava fastidio sia alla classe dirigente,
governativa che americana; fino ad oggi ne hanno voluto parlare il meno possibile e quando lo hanno
fatto è stato con molte riserve.
Nei primi anni successivi del dopo guerra se un cittadino era considerato di sinistra difficilmente
poteva avere un posto di lavoro nella pubblica amministrazione. Un altro aspetto molto importante
che i giovani e meno giovani non sanno, ma va detto per giustizia storica, è che tutti i prefetti che
amministravano nel periodo fascista continuarono ad occupare quelle cariche senza essere rimossi,
il che sarebbe stato importantissimo per la nostra democrazia; questo è successo anche nelle sfere
dell’esercito e nei commissariati dato che sono rimaste persone che hanno continuato a gestire
quel potere con la mentalità fascista. Fu creato un corpo di polizia chiamato Celere, pronto sempre
a scatenarsi contro gli operai in sciopero con la tipica violenza fascista ed era addestrato solo a
manganellare coloro che scendevano in piazza per chiedere i loro diritti.
Il ministro degli interni era Scelba, democristiano, un uomo per il quale la violenza era pane
quotidiano. Furono istituiti altri apparati, come i Servizi Segreti che cominciarono a lavorare subito
contro la democrazia, depistando sulle stragi avvenute nel nostro paese pur di tenere la sinistra fuori
dal governo.
I governi di allora hanno fatto le peggiori cose che si può immaginare: intrecci fra politica e mafia,
investimenti politici in opere inutili, complicità nell’abusivismo edilizio…, tutto questo per mantenersi
un elettorato, anche quello manovrato dalla mafia.
Questa politica era gestita dai potenti di allora, governi amministrati dai bei nomi, dal C.A.F., cioè Craxi,
Andreotti, Forlani ed altri loro collaboratori che si credevano intoccabili ma che poi, inevitabilmente,
si sono autodistrutti: erano così ingordi che tutto quello che rubavano non gli bastava mai, portando
il paese ad un debito pubblico spaventoso, hanno rubato in tutti i settori dell’amministrazione
pubblica, perfino nella sanità con De Lorenzo e Poggiolini, quest’ultimo un burocrate.
Si sentivano al di sopra di tutto e hanno saccheggiato lo Stato come piaceva a loro, in maniera
indecente. Sono stati spazzati via da “mani pulite”, un piccolo gruppo di magistrati della procura di
Milano, attraverso avvisi di garanzia inviati a loro e ai potenti della politica che avevano governato
il paese per cinquant’anni per una serie di gravissimi reati. Molti di loro sono stati condannati ma
tutt’oggi, come al solito, i potenti, anche se ladri, in galera non vanno mai. Mi ricordo che quando si
trovavano davanti ai magistrati facevano pena, erano dei poveri agnellini spauriti; mentre i magistrati
contestavano loro i reati che avevano commesso, non mostravano alcuna dignità, uno su tutti Craxi,
che non ebbe il coraggio di affrontare le sue responsabilità e fuggì in Tunisia come latitante.
Una cosa mi ha stupito di questo personaggio: era un grande simpatizzante e ammiratore di Giuseppe
Garibaldi, ma Garibaldi è stato un eroe, un combattente, un coraggioso, un esempio di uomo vero,
Craxi invece dalla storia di Garibaldi non ha imparato nulla.
Voglio ripartire dal giorno che fummo liberati dagli alleati e finì la guerra con le armi ma cominciò
un’altra guerra, quella della ricostruzione. Il paese era quasi distrutto e per avere un minimo di
ritorno ad una vita normale dovevamo metterci subito al lavoro, non avevamo più alcuna risorsa,
eccetto le braccia. Una grande emigrazione di mano d’opera ci fu dal sud dell’Italia verso il nord.
Furono ricostruite le grandi fabbriche, le più importanti, per avere un inizio di sviluppo economico.
La maggior parte di mano d’opera che arrivava dal sud venne impiegata nell’edilizia e ci fu una
ripresa molto rapida tanto da chiamarlo il miracolo economico.
Tanti giovani non sanno che quel miracolo italiano, durato fino alla metà degli anni sessanta, fu
raggiunto sulla pelle degli operai pagati sotto costo. Alla maggior parte di loro non venivano versati
i contributi, tutto lavoro nero e i sindacati non erano ancora organizzati: non avevano tutti gli
strumenti per poter tutelare gli interessi degli operai, non esistevano leggi e regole, l’unico strumento
era lo sciopero, ogni imprenditore si gestiva come pareva a lui, ma quando gli operai si organizzarono
e diventarono una grande forza sindacale in grado di far valere i loro diritti, il miracolo economico
finì e finì in parte lo sfruttamento di tutti quegli operai che lavoravano come schiavi. La regola che
usavano gli imprenditori era così o altrimenti a casa.
Dopo il passaggio del fronte e l’arrivo degli alleati rientrammo tutti alle nostre case.
San Vincenzo non aveva subito grandi danni dalla guerra. Io con la mia famiglia fummo fra i primi a
rientrare dallo sfollamento. Voglio parlare ancora della mia storia personale: avevo diciassette anni,
dovevo scoprire tutto a partire dal sesso. Fui subito fortunato, di fronte alla mia abitazione, di là dalla
strada, abitava un certo Cardini Natalino che affittò una camera ad un ufficiale americano perché il
fronte alleato era già a Rosignano. In questa camera viveva con una prostituta: se la portava dietro
man mano che avanzava il fronte.
Era una bella donna, di giorno era sempre sola perché l’ufficiale andava in servizio; lei si sedeva sugli
scalini di casa ed io la guardavo, la consumavo con gli occhi. Ero solo un ragazzo e mi avvicinai a lei
con tutta la mia timidezza, poi fu lei a parlarmi, mi chiese come mi chiamavo mi domandò se fumavo
ed io risposi di sì, allora mi disse: “Vieni, ti voglio regalare un pacchetto di sigarette”.
Era un invito a salire in camera. Lei indossava tutti i giorni una sottana rosa trasparente, eravamo ad
Agosto, faceva caldo; mentre saliva le scale davanti a me sentivo il desiderio di toccarla, mi battevano
così forte le tempie che credevo mi scoppiassero. Giunti in camera si adagiò sul letto, mi prese una
mano e mi tirò a sé, mi dette subito un bacio in bocca, io non credevo si potesse baciare in quel modo,
poi mi tolse i pantaloni ed ebbi quel meraviglioso rapporto, mi tenne circa quattro ore in camera e
non finivamo mai di fare l’amore.
Fu la più bella esperienza della mia vita: questo rapporto durò altri tre giorni, poi l’ufficiale dovette
seguire il fronte e partirono. Era da Roma che se la portava appresso, era una prostituta che con lui lo
faceva per soldi, io da quel giorno ho avuto un gran rispetto per quelle donne. Poco dopo riaprirono
le case di tolleranza e per noi giovani erano veramente case del piacere. A quel tempo non era facile
avere rapporti sessuali, prevaleva sempre la cultura della verginità fino al matrimonio.
A San Vincenzo, dalla fine della guerra, in estate cominciò ad esserci il turismo di massa: sempre
in proporzione agli abitanti, i proprietari accettarono di dividere la propria abitazione con dei
villeggianti che spendevano pochi soldi e potevano godersi il mare. Noi approfittavamo dell’estate
per andare a caccia di ragazze con le quali a volte arrivavi a fine stagione senza combinare nulla,
risolvendosi solo con baci e poco più. La situazione cambiò quando un amico mio che si chiamava
Benvenuti Remo, di soprannome conte Guicciardini, di diversi anni più grande di me, mi dette un
consiglio: “invece di corteggiare quelle ragazzine di diciotto anni, corteggia le mamme, quelle spose
che hanno una quarantina di anni e i risultati, vedrai vengono!”.
Aveva ragione!
Rientrati dallo sfollamento, non c’era lavoro. Io lavoravo per gli Americani, stivavo del materiale in
grandi depositi; erano quantità enormi di tutto, dalle scatolette alle munizioni. Il materiale serviva
ai soldati al fronte, le casse che contenevano munizioni venivano stivate nei campi dei contadini in
piccoli depositi separati da decine di metri gli uni dagli altri. Era un continuo scaricare e caricare,
facevamo i turni di notte.
La prima cosa appena arrivarono gli alleati che cercai di prendermi, naturalmente dopo il cibo,
perché la fame era stata quella che più si era sofferto, fu un paio di scarpe: erano un paio d’anni che
camminavo con degli zoccoli con il fondo in legno e una tomaia ricavata da un paio di vecchie scarpe
inchiodate a quegli zoccoli e se volevi correre dovevi toglierli. Una volta procurate un paio di scarpe,
appena calzate mi misi a correre come un pazzo, provai dopo tanto tempo la sensazione di volare.
Passato il fronte, dopo qualche mese cominciammo a rimettere in ordine le barche da pesca. Avevo
diciotto anni e mi imbarcai di nuovo a bordo della barca di Arturo Federici dove da ragazzo avevo
fatto il mozzo.
Dopo circa un anno, Arturo decise di lasciare la vita del mare, avendo raggiunto l’età pensionabile,
per fare il magazziniere del pesce nella cooperativa pescatori. Mi disse che la vita del mare alla sua
età era troppo dura e mi chiese di prendere il comando della barca: eravamo quattro marinai di
equipaggio o cinque quando andavamo a pesca con la luce. Gli risposi che era una responsabilità
grossa ma egli aggiunse che ormai mi conosceva e potevo farcela tranquillamente! Fu gratificante
sentirmelo dire da un vecchio marinaio e pescatore come lui che conosceva davvero il mare.
Da pescatore a marinaio c’è molta differenza: quando pescavamo a quei tempi a San Vincenzo
bisognava essere l’uno e l’altro, il porto ancora non esisteva e molte volte ti trovavi ad affrontare il
mare agitato. Essere marinaio voleva dire saper gestire bene la barca in quelle situazioni e arrivare
a terra senza danni, nonostante avessimo a bordo un motore Fiat 501 a benzina: era un motore che
veniva montato sulle vetture di allora ma con il vento e il mare agitato ci serviva a poco, potevi fidarti
solo della vela.
Ricordo la prima volta che da capitano della barca, mi trovai coinvolto, a circa un miglio dalla costa,
da una tramontana: questo è uno dei peggiori venti che puoi affrontare con la vela perché non è un
vento teso che soffia con la stessa intensità ma soffia a raffiche che possono rovesciarti o troncare da
un momento all’altro l’albero di barche come la nostra.
Avendo avuto un maestro come Arturo, avevo imparato molto bene come gestire quelle situazioni; in
quel caso feci fare subito i terzaroli che sono stramazzoli lunghi circa cinquanta centimetri, cuciti a
mezza vela in parallelo da una parte e dall’altra. Questi stramazzoli, che venivano chiamati in gergo
marinaro “mataffione”, in quei casi servivano, legati all’antenna, a ridurre la vela a metà, per poter
così governare la barca con più sicurezza e al timone dovevi stare sempre molto attento se eri investito
da una raffica di vento molto forte ,in modo da manovrare la barca per alleggerire la pressione del
vento sulla vela. Io oggi ho settantaquattro anni, ma posso dire che noi ragazzi di allora, a differenza di
oggi, si diventava uomini molto prima, eravamo più ignoranti di sicuro, non ci potevamo permettere
di frequentare scuole superiori, ma c’erano anziani che per noi sono stati maestri di vita, molte cose
che a noi ci hanno insegnato, a scuola non le avremmo imparate mai.
Capisco che oggi, in questa società in cui viviamo, la scuola e l’istruzione sono determinanti per stare
al passo con tutti i sistemi tecnologici con i quali una società cresce e va avanti e ti devi adeguare a
questo sistema o sei tagliato fuori, ma io sono abbastanza pessimista, non so se col passare degli anni
questa tecnologia potrà rendere più vivibile la vita di ognuno di noi.
La stagione della pesca la facevamo da marzo fino a novembre, nei mesi d’inverno dovevamo
arrangiarci con altre attività, fra le tante c’era quella di andare a pesca di frodo con le bombe: il
materiale era molto facile da procurarsi, dal Delfino fino a torre nuova i tedeschi avevano depositato
lungo la spiaggia mine anticarro e antiuomo. Finita la guerra vennero gli artificieri a bonificare la
spiaggia da questi ordigni, che erano cassette con all’interno saponette di tritolo.
Gli artificieri, una volta disinnescata la mina, mettevano il tritolo dentro una cassa di legno, con gli
addetti ai lavori e in cambio di pesce potevamo prendere tritolo quanto ci pareva, così io e un altro
ragazzo della mia età costruivamo delle vere bombe. Per rendere attiva ogni saponetta occorreva
l’innesco, cioè capole e miccia. Questo materiale si poteva avere allo stesso modo, in cambio di
pesce, da operai che facevano i minatori in una cava di pietra. Per rendere operativa la bomba, con il
trapano facevamo un foro nella saponetta di tritolo, fori grandi quanto era lo spessore della capsula;
una volta inserita nel suo foro, mettevamo la miccia con un centimetro fuori dalla capsula, in modo di
poterla accendere. Prima di esplodere i tempi erano molto corti, calcolati in secondi, noi calcolavamo
circa dieci secondi perché i tempi erano calcolati dalla lunghezza della miccia. Il mare a quei tempi
era molto ricco di pesce, in prevalenza davamo la caccia alle spigole e alle mormore ma più facile era
trovare grossi sciami di muggini; potevamo catturare con un tiro cinquanta e più chili di pesce.
Era un lavoro molto pericoloso, se qualcosa non funzionava o se lanciavi la bomba un po’ in ritardo,
potevi rimanere mutilato alle braccia o addirittura anche peggio.
Il mio amico e collega di pesca era Guaredini Vasco, detto Nerbino. Quando il mare era mosso e
non ci consentiva di fare questo tipo di pesca, per coprire questi spazi di tempo mi ero inventato un
altro lavoro. Corrado Gingerini aveva un magazzino all’ingrosso di frutta e verdura, io acquistavo
una trentina di chili di limoni e messi in un sacco andavo ai mercati dei paesi vicini a venderli con
un sistema molto semplice. Mi spostavo con il pullman oppure con il treno, una volta in mercato
appoggiavo il sacco al banco di qualche amico, poi riempivo una piccola cassetta da frutta di una
trentina di limoni e con la cassetta in braccio giravo dentro il mercato all’aperto e offrivo alle massaie
quattro limoni a cento lire. Riuscivo a venderli tutti anche se al mercato c’erano bei banchi di frutta
e verdure; ero molto giovane, quasi un ragazzo e queste mamme capivano che avevo certamente
bisogno di guadagnare qualche soldo. Io, tolte le spese, riuscivo a guadagnare una piccola giornata e
a me bastava.
Cessai l’attività di bombardiere quando fui chiamato a fare il servizio militare. Possedevo il foglio
di ricogiuzione, un documento rilasciato dalla capitaneria di porto alla gente di mare, obbligatorio
per andare a pescare. Ma in marina nel 1948 la leva era di vent’otto mesi, e dal momento che mi
sembravano tanti, feci domanda per passare nell’esercito, dove la leva era di undici mesi. Non ci fu
nessuna difficoltà e fui trasferito alla leva di terra; fui mandato a Monto rio Veronese al C.A.R. ,cioè
al centro addestramento reclute che durava quaranta giorni, poi fui trasferito a Trento insieme con
altre reclute. Era una caserma dell’autocentro ove noi dovevamo prendere la patente di guida diesel
e a benzina. Questi undici mesi mi passarono abbastanza bene: presa la patente fui trasferito a Firenze
al Castello Belvedere che nel 1949 era adibito a caserma.
Appena arrivato al reparto avvertì subito un clima di intimidazione da parte di chi comandava: ci
proibirono di frequentare i circoli culturali dell’ A.R.C.I. ritenuti troppo di sinistra, invece avevamo
tutta la libertà per frequentare quelli dell’A.C.L.I. Capì subito che la guerra di liberazione non era
bastata per conquistare la strada della democrazia, purtroppo ancora oggi incompiuta: nelle forze
armate si respirava un clima fascista, non furono rinnovate le vecchie cariche delle forze armate,le
quali facevano il gioco dei governi in carica, cioè l’anticomunismo e inoltre non potevamo portare il
giornale “l’Unità” in caserma.
Noi eravamo un reparto di cinquanta soldati fra i quali ragazzi che avevano fatto la guerra partigiana,
alcuni avevano segni di ferite riportate in scontri a fuoco contro i fascisti,perciò fui fortunato a
trovarmi con loro poiché i superiori mantenevano una certa prudenza nell’applicare alcune direttive
fasciste; sapevano bene chi erano e con loro il giornale “l’Unità” circolava liberamente in caserma.
Voglio raccontare un particolare che poi è molto significativo.
Eravamo in caserma a Trento e una sera ci venne dato in dotazione tutto un equipaggiamento da
guerra; noi rimanemmo un po’ sorpresi, ma poi al mattino fu tutto chiaro. Fu fatta un’adunata di
tutti i soldati: erano i giorni in cui il governo italiano si apprestava a firmare con gli alleati il patto
Atlantico.
Da un piccolo palco prese la parola il comandante della caserma, le prime parole furono che noi
come soldati dovevamo rispettare le leggi che regolano l’esercito e quindi la nostra bandiera era
quella italiana e non quella di partiti; poi entrò nel vivo del discorso e disse che il governo italiano
si apprestava a firmare un patto militare con i paesi occidentali e in Italia c’erano forze contrarie a
questa scelta. Nelle piazze c’erano manifestazioni che creavano disordini e che le nostre autorità
non potevano tollerare. Aggiunse: “Ripeto, la nostra bandiera è quella italiana e perché queste
manifestazioni non creino troppi problemi è nostro dovere intervenire per riportare la calma nel
paese. Capisco che è doloroso dirlo ma è possibile essere costretti a sparare anche sui nostri cittadini”.
A quel punto la reazione fu immediata e partì proprio da quei ragazzi che avevano combattuto nelle
formazioni partigiane. Dalle file cominciarono a gettare elmetti e munizioni sul piazzale e dopo loro
lo facemmo in tanti. A quel punto capirono che i ragazzi di leva non ci sarebbero stati. Il giorno
seguente ci ritirarono tutto quel materiale dato in dotazione, poi ci furono dei tentativi per alcuni
di noi di mandarci alla compagnia di disciplina che mi pare si trovasse a Lecce, ma non ne fecero
di niente perché furono informate tutte le Federazioni Partigiane. Io dal punto di vista religioso
sono ateo pur essendo stato battezzato e avendo fatto la prima comunione, sono ateo non perché
abbia avuto forzature fin da ragazzino da parte della famiglia, è stata una scelta mia, crescendo mi
sono convinto che oltre la morte non c’è nulla, sono un materialista, ho le mie convinzioni giuste o
sbagliate, dipende dai punti di vista.
Non voglio scendere in dettagli, ho molto rispetto per chi crede in Dio, io mi sento autosufficiente,
non ho bisogno di pregare nessuno, quando ho bisogno di una risposta ai tanti problemi che
durante una vita capitano, li ho sempre risolti col mio coraggio, la mia forza e soprattutto con la mia
intelligenza e non credo in nessuna divinità. Parlando dei miei genitori con queste poche righe che
scrivo di loro è come se scrivessi cento pagine per dire chi erano e cosa sono stati.
I miei genitori erano due persone che hanno fatto sentire a noi figlioli tutto l’amore e il calore
umano che soltanto la povera gente sa dare; erano analfabeti, ma con la loro esperienza di vita hanno
saputo trasmettere a noi figlioli fin da piccoli regole e comportamenti che sono state le basi per farci
crescere sicuri di noi, senza complessi, con onestà, serietà, e coerenza.
Tutto questo mi è servito per crearmi una bella famiglia. Dopo essermi sposato, lasciai tutti quei
lavori saltuari e andai a lavoro nella falegnameria Pacchini. Lavorai come dipendente circa cinque
anni, poi mi sono messo in proprio a fare il verniciatore e restauratore e a lucidare mobili antichi,
un mestiere che ho imparato molto bene e che ho svolto fino alla pensione. Dal matrimonio ho
avuto due belle bimbe, oggi donne e felicemente sposate, il mio lavoro mi ha consentito di comprare
un appartamento e di far studiare le mie figliole che hanno preso il diploma magistrale. Voglio
sottolineare il ruolo importante che ha avuto mia moglie: oltre che moglie è stata una brava mamma
che ha saputo seguire ed educare le nostre figliole, facendole crescere in un ambiente sereno ed è
riuscita a farci sentire fieri di loro.
Anch’ io nel tempo libero ho dedicato molto del mio tempo a loro. Quando ancora erano bimbe,
mi piaceva portarle con me anche a pesca sulla mia barca, a praticare una pesca molto facile e
divertente: il bollentino e la pesca dei totani che esse facevano con tanta passione ed è servito a loro
per prendere confidenza con il mare che hanno imparato ad amare. Oggi sono felicemente sposate,
ci hanno fatto nonni di tre bellissime bimbe, la più grande ha ventuno anni ed è la figlia della figliola
più grande, l’altra figliola più giovane di cinque anni ha due bambine una di dodici e l’altra di tre
anni. Ci riteniamo molto fortunati ad essere nonni e aver visto crescere queste belle creature; la gioia
più grande sarebbe avere un bimbo sempre piccolo in casa. Mi piace ricordare una cosa che ho letto
in un libro, non ricordo chi l’aveva scritto, ma mi è piaciuto. Diceva: “una famiglia senza bambini è
come un giardino senza fiori”.
Voglio dedicare uno spazio di questo racconto per ricordare i vecchi personaggi di San Vincenzo,
che sono una parte di storia del nostro paese. Soltanto quelli che oggi hanno la mia età e sono nati e
cresciuti a San Vincenzo se li possono ricordare. Sono un pezzo di storia e di cultura del nostro paese.
Comincio da Vanni Bellagotti, una persona straordinaria che ho conosciuto quando era già vecchio
ma molto lucido e con la voglia di scherzare con noi che eravamo giovanissimi. Insieme al figlio
Ernesto gestiva un bar e ristorante di loro proprietà nel centro del paese. Aveva un legame d’amore e
affetto per sua moglie che manifestava in tutte le occasioni: prima di sua moglie Giannina non c’era
niente che contasse. Noi, essendo giovanissimi, riuscivamo a capirlo.
Morì che aveva oltre novant’anni. Qualche giorno prima di morire fece come un piccolo testamento:
disse a sua nipote Giuliana che dopo morto voleva essere accompagnato in spalla fino al cimitero da
me, dal Capraino, da Fernando e da Filanciano, soprannome di Adriano: questa fu una testimonianza
della simpatia che aveva per noi e di quel bellissimo rapporto che esisteva fra anziani e giovani.
Un altro personaggio importante da ricordare è il Nencini Dante, persona un po’ folcloristica nel suo
modo di vivere.
Lavorava in un piccolo fondo al centro del paese, era un bravissimo artigiano, un aggiustatore
meccanico, si poteva dire anche un artista nel suo lavoro: riparava biciclette, macchine per cucire,
fucili da caccia. A questi ultimi riusciva a ricostruire i vari pezzi da cambiare, faceva tutto a mano con
l’ausilio di una piccola e modesta attrezzatura a livello artigianale. In giovane età aveva lavorato in
una grossa azienda meccanica a Genova; là aveva un ruolo molto importante nel suo lavoro ma non
sopportava il peso di essere dipendente e tornò a San Vincenzo da dove era partito.
Per lui il lavoro doveva essere un piacevole passatempo, lavorava quel poco che gli consentiva di tirare
avanti giorno per giorno nella sua bottega, era sempre in compagnia di amici, raccontava barzellette e
tanti episodi di quando lavorava a Genova, narrava fatti quasi sempre non veri, se li creava con la sua
fantasia, ma sembravano credibili, le sue storie erano divertenti e i suoi amici lo stavano ad ascoltare
molto divertiti. Aveva un figlio, anche lui un po’ singolare, che si chiamava Primo Nencini, meglio
conosciuto come Nencino: il lavoro non lo attraeva molto, da giovane lavorava come rappresentante
di utensili meccanici, suonava molto bene il sassofono e nel dopo guerra fece parte di alcuni complessi
importanti. Scrisse una canzone che fu presentata da un agente a una casa discografica ma l’agente
disonesto cambiò il titolo alla canzone, fece qualche ritocco al testo e il Nencino fu tagliato fuori, a
lui non dettero nemmeno una lira.
Questa canzone fu incisa dal cantante Carlo Buti, molto popolare a quei tempi. Nencino finì i suoi
anni facendo l’arrotino in piazza e morì in miseria.
Un altro personaggio da ricordare è il Calignani: nel periodo invernale viveva vendendo le “crogiate”,
come le chiamiamo noi, cioè le castagne arrosto alla brace in fondo a via Piave. Per noi ragazzi era
quasi una tappa d’obbligo: le castagne erano una delle poche cose che ci potevamo permettere
perché costavano pochi centesimi. Il Calignani era come un barbone, viveva da solo in una stanza
ma si distingueva da un barbone perché una piccola attività l’aveva d’estate; lo chiamavano per fare
piccoli lavoretti, cosi tirava avanti, era malvestito, aveva una barba incolta, d’inverno indossava un
cappotto lungo fino ai piedi. Sul colletto del cappotto, che non aveva mai lavato, con il fumo della
legna e del carbone che accendeva per cuocersi le frugiate si era formata una patina nera tanto che
sul bavero sembrava che ci avesse la pelliccia. La generosità anche di chi non ha niente è sempre
presente: capitava che qualche ragazzino di noi non avesse i soldi per comprare le castagne, lui lo
capiva e una monetina gliela regalava, noi lo sentivamo come un secondo nonno, infatti quando si
andava da lui si diceva: “Si va dal nonno!”.
In quel periodo c’era un altro di questi personaggi che di soprannome era chiamato Castagnaccio
ed io non ho mai saputo il suo vero nome: con un carretto, che spingeva a mano, girava il paese
vendendo arance e il suo slogan era: “se non li vendo me le mangio e se li vendo me li bevo”, così non
nascondeva la sua passione per il bicchiere di vino.
Ricordo un altro personaggio, lo chiamavamo Meo; abitava in una casa che si chiama il Vaticano.
Anche lui un lavoro fisso non l’ha mai avuto ma era un artista, per quei tempi, nel costruire granatini
di scopa, che andava a tagliare alla macchia e con questa rivestiva seggiole e fiaschi. Inoltre riparava
catini e conche, che essendo fatti di argilla cotta, erano soggetti a rompersi. I catini venivano usati
dalle donne in cucina per rigovernare piatti, bicchieri e posate, le conche invece servivano per
fare il bucato. Questo lavaggio era un lavoro molto impegnativo e veniva fatto solo per certi capi di
indumenti, cioè biancheria intima, ma più che altro per lavare le lenzuola, mentre i capi da lavare
venivano messi prima a mollo nella pila con l’acqua sulla conca piena di panni poi veniva steso un
telo che copriva tutto. Fatta questa operazione le massaie mettevano uno strato di cenere fino all’orlo
della conca di circa quattro dita, la cenere usata era quella che esse toglievano dai fornelli di cucina e
del camino; dopodiché aggiungevano diversi gusci di uova che non so a che cosa servissero ai fini del
lavaggio. Vi era poi un contenitore pieno d’acqua appoggiato su due pietre e riscaldato con fuoco di
legna, fino a bollire e con un boccale l’acqua calda veniva versata nella conca sopra la cenere. L’acqua
scendeva piano piano fino al fondo della conca dove si trovava un foro di uscita e ciò che si scaricava
era chiamato ranno che poi era riutilizzato come prelavaggio. Finito il bucato la biancheria veniva
sciacquata in acqua chiara: era di un bianco perfetto e aveva un bel profumo di pulito.
Succedeva che la conca si rompesse e non tutti si potevano permettere di comprarne una nuova,
allora chiamavano Meo che riusciva a ripararla per pochi soldi con una tecnica di allora. Rimetteva
il pezzo rotto nella sua posizione, saldato con il cemento, poi con il trapanino a corda praticava dei
piccoli fori distanti pochi centimetri l’uno dall’altro e con un filo sottile di metallo li cuciva insieme
come fa il chirurgo su di una ferita.
Meo svolgeva un lavoro molto importante nella nostra comunità, il lavoro di impagliature: non avendo
una stanza per lavorare, con la buona stagione lavorava sul marciapiede davanti casa. Elencando
questi personaggi viene naturale parlare anche di Bruno Rossi, detto Buconero, soprannome che
lui non sopportava per niente. Era molto piccolo di statura, aveva un difetto fisico ad una spalla, era
sempre arrabbiato e bastava poco per farlo infuriare, un altro difetto che aveva era che non gli piaceva
il lavoro. La mattina comprava una cassa di sarde dai pescatori per andarle a vendere in campagna
ai contadini. Le caricava sul portabagagli della bicicletta, molte volte le cambiava in natura. Aveva
una voce potente, e per la festa del quindici agosto a San Vincenzo veniva fatta la tombola come si fa
oggi. Veniva giocata in piazza Vittoria, il tabellone dei numeri veniva appeso giù dal terrazzo sopra
al Gambero Rosso, i numeri estratti li ripeteva senza il microfono: una volta gli fu passato il numero
sessantasei, lui lo prese alla rovescia e annunciò il numero novantanove. Dalla piazza scoppiarono
fischi e risate e lui naturalmente si scusò dell’errore. Finita la tombola, il vincitore lasciava un piccolo
premio per lui.
Possiamo ricordare anche i fratelli Pellegrini, persone interessanti: uno faceva il fabbro e l’altro il
maniscalco. Il fabbro si chiamava Vincenzo, di soprannome Cencione. Era un uomo di corporatura
robusta, con il labbro inferiore enorme che gli penzolava quasi sopra la bazza, era bravo ma molto
rozzo; i suoi figlioli lo aiutavano in alcuni lavori di bottega come girare la forgia o reggere pezzi
sull’incudine, ma sembrava che non lo contentassero mai e li sgridava sempre, anche con parole molto
pesanti. L’altro fratello si chiamava Poldo, cioè Leopoldo, nel suo lavoro era veramente un artista,
costruiva ferri ai cavalli con difetti allo zoccolo, li costruiva su misura correggendo i problemi che tanti
animali presentavano. Era un artigiano conosciuto a livello nazionale e riceveva molti riconoscimenti.
Se qualche cittadino vuole ammirare alcuni capolavori che Poldo ha donato al comune deve sapere
che sono esposti in una bacheca all’ingresso, davanti alla porta dell’ufficio del Sindaco.
Non possiamo dimenticare un altro vecchio San Vincenzino: era un grande lavoratore e un grande
bevitore e mangiatore, si chiamava Giuseppe Galoppini ,soprannominato Madione proprio perché la
madia di quei tempi era il mobile dove le massaie lavoravano la pasta per fare il pane in casa. Il pane,
una volta cotto, veniva conservato nella madia almeno per una settimana. Era un buon pane, anche
dopo giorni era sempre squisito. Madione, da grande bevitore di vino, si dice che una volta andò a
pescare con i fratelli Federici all’isola d’Elba. I pescatori isolani erano anche agricoltori, coltivavano
in prevalenza piccoli vigneti nel piccolo appezzamento di terra e avevano un annesso agricolo usato
anche come stalla per il somaro, animale che serviva, oltre ad arare la vigna, a scollettare il vino con i
barili. Il paese era su un terreno che con altri mezzi non potevano arrivarci. Madione incontrò un suo
amico durante il tragitto e gli chiese di fare una bevuta, l’amico gli disse che il vino che trasportava
non era suo, poi per accontentarlo gli disse di andare dietro un canneto in modo che non lo vedesse
nessuno. Allora Madione tagliò una canna e con un pezzo ci fece un cannello. Tolto il tappo al
barilotto mise il cannello dentro e cominciò a bere fino a che non fu sazio. Il somaro portava due
barili, uno da un lato e uno dall’altro. Quando Madione riportò il somaro dall’amico, quest’ultimo
si accorse che il carico era sbandato da una parte. Gli chiese: “Quanto mi hai bevuto per sbandarmi
il ciuco?”.
Dopo questo fatto diventò un detto, quando qualcuno esagerava un po’ nel bere si diceva: “Sei peggio
di Madione che sbandò il ciuco.”
Erano personaggi anche un po’ folcloristici, ad esempio per quanto riguarda il Pelosi e il Moscherini
si contavano i giorni che non avevano alzato il gomito. Si erano spartiti il territorio, Moscherini il
paese nuovo e il Pelosi quello vecchio. Se uno dei due sconfinava diventava una guerra fatta di offese e
qualche spinta ma senza nessun danno. Tutto questo avveniva sempre quando avevano alzato il gomito
ma tutto sommato erano simpatici. Un altro bravo artigiano era il vecchio Eugenio Mognarini, faceva
il carraio e lavorava in un capannone che si trovava in fondo a piazza Roma; lì accanto c’erano anche
gli stallaggi dei barrocciai ed egli costruiva carri per i contadini che venivano tirati dai buoi e barrocci
per i cavalli. Era tutto lavoro artigianale. Mognarini era anche maestro d’ascia ma il suo lavoro più
impegnativo era costruire le ruote, specie il mozzo centrale richiedeva una precisione assoluta: si
serviva di un tornio da legno, i razzi venivano fatti tutti a mano ma la professionalità si vedeva quando
questi pezzi andavano assemblati insieme a formare un cerchio perfetto. Un’altra operazione che non
consentiva nessun errore era il posizionamento del cerchione: questo veniva posato a terra, coperto
di avanzi di tavolette alle quali veniva dato fuoco. Questo portava il cerchio a una temperatura che
soltanto l’esperienza del carraio riusciva a calcolare; poi a caldo veniva piazzato sulla ruota calcolando
al millimetro la dilatazione che subiva. Man mano che si raffreddava si stringeva alla ruota tale che,
anche sulle strade più dissestate, le ruote non subivano nessun danno. Ci sono ancora oggi dei carri
vecchi che con l’avvento dei trattori non vengono più usati, e spesso li vediamo nei prati di alcune
ville in campagna. Sono sempre in ottimo stato, una vera testimonianza del mondo contadino.
Altri due personaggi che vanno ricordati sono i dottori Cini e Gambaccini. Il secondo era il nostro
medico di famiglia.
Quando facevano le visite a casa giravano in bicicletta. Il nostro dottore aveva una bicicletta da donna.
Il paese era così piccolo che anche con la bicicletta svolgevano bene il loro servizio. Il medico veniva
pagato con una piccola quota a fine anno. La medicina dell’epoca era molto limitata, addirittura per
una polmonite o un’altra infezione, potevi morire. Ricordo che i medici non avevano nemmeno quei
piccoli strumenti per ascoltare il cuore o i polmoni, visitavano tutto a orecchio.
Pensate che il nostro dottore era anche un po’ sordo. Ricordo che da ragazzino, quando ci veniva
la febbre, indipendentemente dalla causa, la prima terapia del medico era di toglierci subito il
mangiare, potevamo bere soltanto camomilla e latte e dovevano farci fare un clistere; l’apparecchio
del clistere si trovava in ogni camera da letto, appeso alla parete sopra al letto, accanto all’immagine
della Madonna. Se stavi tre o quattro giorni a letto malato senza mangiare, quando ti alzavi traballavi
e per riprenderti ci voleva almeno una settimana. A noi ragazzi, tutti gli anni a primavera, il medico
segnava una bottiglia di olio di fegato di merluzzo come ricostituente: anche questa era la medicina
dell’epoca.
Quando in tempo di guerra arrivarono gli alleati, ci fu per noi una rivoluzione totale: ci fecero
conoscere la penicillina e quando questa fu immessa sul mercato, fu determinante per la salvezza da
molte malattie infettive. Un altro grande personaggio per noi sanvincenzini, simbolo dell’antifascismo,
è Casimiro Quiriconi. Mia madre, che oggi ha cento anni, è stata testimone fin dall’inizio di quello
scellerato regime fascista, e mi raccontava ciò che quelle belve dei fascisti (così li chiamava lei) hanno
fatto a Casimiro. Ricordando quella violenza i suoi occhi tristi si bagnavano ancora di qualche lacrima.
Mia madre abitava al Vaticano, sopra dove ora c’è il gommista. Casimiro abitava nel palazzo di fronte,
era vedovo, credo avesse cinque figlie tutte quasi giovanissime, bambine a quei tempi, e lui gli ha fatto
da babbo e da mamma con l’aiuto di quelle un po’ più grandicelle.
Faceva il calzolaio e questo lavoro gli permetteva di tirare avanti alla meglio; non aveva un fondo
dove lavorare, perciò d’inverno lavorava in casa mentre nella bella stagione, in primavera e in estate,
lavorava la mattina nell’ingresso del palazzo che era molto grande, nel pomeriggio, col suo banchetto,
lavorava al fresco sul marciapiede.
Un giorno quella feccia di fascisti, cinque o sei dietro il cassone di un camioncino al canto “Allarme
siam fascisti, a morte i comunisti”, si accanirono su quel pover’uomo a manganellate, calci e per finire
gli ruppero il suo banchetto di lavoro, e lo lasciarono sanguinante per terra.
Le sue figlie correvano piangendo aiutandolo ad alzarsi e lo portavano in casa.
Mia madre quando sentiva quelle bestiali urla d’ incitamento a picchiare si affacciava alla finestra e
assisteva a quella terribile scena.
Pure lei correva in strada a dare una mano a quelle povere figliole.
Queste aggressioni si ripetevano un paio di volte in estate quando Casimiro lavorava sul marciapiede;
dopo queste aggressioni ricostruiva il suo banchetto e continuava a lavorare. Quest’uomo non ha mai
ceduto all’arroganza e alla prepotenza fascista, anche con il rischio di essere ucciso.
Era un comunista convinto, che lottava sperando di creare un domani migliore, fatto di tolleranza, di
libertà e di giustizia sociale per tutti. Io ho avuto la fortuna di conoscerlo anche se ormai era vecchio.
Questa è la storia vera di un antifascista raccontatami da mia madre.
Quello che mi dispiace è che il comune di San Vincenzo con le amministrazioni di sinistra, non si sia
mai ricordato di questo straordinario sanvincenzino.
Ci sono altri vecchi sanvincenzini da ricordare: Tarcuinio Pastacaldi aveva una bottega di frutta e
verdura in centro al paese esattamente di fronte al macello di Turiddu Galoppini.
La domenica vendeva le castagne arrostite, cioè le “crogiate”, ma dopo di lui nessuno ha più continuato
questa piccola attività molto apprezzata dai paesani. Come carattere era un uomo molto riservato.
C’era una piccola edicola, la proprietaria era Clara Ferri e oltre ai giornali pure lei vendeva frutta
fresca e secca. Noi ragazzini andavamo lì a comprare le castagne secche, cinque centesimi di castagne
ed eravamo contenti in questa piccola edicola.
Il giornale più venduto era “il Telegrafo”, non che ne vendesse molti visto che l’analfabetismo era
diffuso in grossa percentuale nei cittadini.
Carlino, il figlio, con un pacco di giornali girava il paese in bicicletta a vendere questo quotidiano e in
testa portava un cappello con la scritta “telegrafo”. La vecchia edicola era dove ora si vendono giornali
e cartoleria, di fronte dove ci sono ora i negozi di mobili del Cellini.
C’era il mercatino, così si chiamava, dove vendevano verdure e ortaggi della fattoria del Serristori;
tutte le mattine un barroccino trainato da un cavallo poni riforniva questo mercatino.
A fianco c’era una piccola stanzina con il telefono pubblico, un servizio molto importante per la nostra
collettività: quando c’era una chiamata, l’addetto al telefono mandava un ragazzino a portare l’avviso
all’utente, con l’ora dell’appuntamento e con chi aveva chiamato. Accanto al mercatino c’era l’ufficio
postale, direttore il sig. Poponcini e nello stesso stabile si trovava la Banca dei Paschi; come direttore
ci ho conosciuto il sig. Cigi Rossi, e Emilio Corti. Sempre in centro del paese, accanto all’edicola, si
trovava la bottega di stagnino. Questo artigiano si chiamava Budelli e oltre a riparare brocche e paioli
di rame li vendeva. Un altro personaggio era Oreste Simanatti: aveva la bottega di sarto e barbiere
in un piccolo fondo accanto all’edicola, era un uomo magrissimo, aveva due gambe come la forcella
davanti alla bicicletta. Da ragazzini i nostri genitori ci mandavano a tagliare i capelli da Oreste ed era
una tortura: per pettinare aveva uno strumento come un piccolo rullo che te lo girava in testa con una
certa pressione e sembrava che ti portasse via la cotenna.
Dove ora c’è il negozio di oreficeria del Marchi c’era la tabaccheria di Aurina dove vendeva
naturalmente tabacchi e oltre a questi vendeva stoffe di lana per maglioni, chincaglieria, bottoni,
rocchetti di cotone per cucire. Aurina la ricordo molto bene: una donna anziana con capigliatura
tutta bianca, era una donna dolce, molto garbata con noi ragazzi, si comportava come una nonna.
Il marito era il postino del paese, si chiamava Umberto: aveva un naso enorme di un colore violaceo
che sembrava una melanzana ed era un uomo scorbutico. Quando aiutava la moglie nella tabaccheria
a noi ragazzi le sigarette non le vendeva nemmeno a nome del nostro babbo; infatti quando chiedevi
le sigarette rispondeva “vai al vaso” come dire “vai a cacare”.
Un altro sanvincenzino da ricordare è Nando Manetti, il portiere della squadra di calcio di San
Vincenzo, un uomo con un fisico possente, che quando usciva in area in mezzo ai giocatori ne lasciava
quasi sempre un paio o tre stesi a terra. Il campo di calcio aveva tutto il fondo sterrato e ci voleva
molto coraggio a tuffarsi per parare in un fondo simile.
A Nando piaceva anche bere qualche bicchierotto di vino e Turiddo Galoppini, un tifoso accanito di
Nando, lo seguiva sempre anche quando la squadra giocava fuori casa. Turiddo, prima che cominciasse
la partita, metteva un fiaschetto di vino da un litro dietro il palo della porta perché senza quello non
parava; durante la partita, approfittando dei momenti in cui il gioco era sotto la porta avversaria, si
faceva delle bevute e in quelle situazioni parava tutto.
Altri paesani che hanno rappresentato lo sport sono stati Gaddo Mischi, un centometrista che ha
vinto il titolo di campione regionale e ottenuto altri piazzamenti a livello nazionale.
Altri giovani atleti con ottimi risultati in campo nazionale nell’atletica leggera sono stati Cappelli
Sirio, Bocci Fernando e Galoppini Lido. Ma ce ne sono stati altri, che pur mettendoci tanta passione,
non sono mai arrivati ad ottenere risultati apprezzabili.
Uno fra questi è stato Bianchino Ferri: correva in bicicletta e alla prima gara che partecipò fu subito
una frana. Il percorso era San Vincenzo-Venturina-Campiglia, e arrivo di nuovo a San Vincenzo.
Bianchino a Botramarmi aveva già un distacco di un paio di chilometri dal gruppo di testa.
A quei tempi la giuria era formata da un paio di motociclette e ne faceva parte della giuria con un
motofurgone Ernesto Bellagotti. Bianchino era l’unico corridore sanvincenzino, Ernesto lo fece salire
sul motofurgone riportandolo sul gruppo di testa. Nel seguito della corsa c’era il fratello Ferrino,
tifoso del fratello Bianchino; avendo visto il distacco che Bianchino poco prima aveva col gruppo di
testa rimase sorpreso quando lo rivide fra i primi e finì la corsa con la volata di gruppo. Ferrino finita
la corsa si avvicinò a Ernesto e gli disse: “Ma hai visto che rientro ha fatto Bianchino col distacco che
aveva?” Scommetto che in qualche tratto sarà andato anche a sessanta chilometri all’ora”. Ernesto gli
rispose che in qualche tratto si andava anche a novanta!
Al paese nuovo la tabaccheria del Periti era di un certo Balestri. Noi ragazzi lo conoscevamo molto
bene perché oltre a vendere tabacchi, vendeva trottole e palline, figurine di giocatori di calcio e di
campioni di automobili, tra cui i più quotati erano Nuvolari, Varsi e del ciclismo Binda, Girardesco,
Guerra. Noi ragazzi ci giocavamo in gruppo, il terreno di gioco di tutti i ragazzi del paese nuovo era via
Matteotti, una strada sterrata senza sfondo dove potevamo giocare in libertà senza pericoli. Durante
il gioco, immancabilmente, c’era sempre qualcuno che faceva a cazzotti, poi passato il momento si
ritornava a giocare insieme.
Quando andavamo a casa con qualche pesca all’occhio oppure il labbro spaccato che faceva sangue,
i nostri genitori non ti domandavano chi era stato, ti dicevano soltanto: “Oggi è toccato a te, bravo
coglione!”.
Un altro sanvincenzino da ricordare di tempi più recenti del dopo guerra è stato Vasco Tognarini, il
gestore del locale “La Chimera”, nata col nome “Capannina”. Fu creata da Federici Menelao insieme
al suo genero; ottenne subito un bel successo e dopo qualche anno fu acquistata da un signore di
Firenze, e dagli anni cinquanta in poi da Vasco Tognarini, che fece della Chimera uno dei locali
da ballo più belli e suggestivi della nostra costa: una pista affacciata sul mare, già questo creava
una atmosfera particolare, un’orchestra formata dai migliori orchestrali di livello nazionale, tutti
sanvincenzini, Bruno Paffi, Leonetto Dani al sassofono e clarinetto, Nencini Primo pure lui suonava
due strumenti, il Lupi alla batteria, Giovanni Spagnoli alla tromba. C’era una bella pista con tutti i
tavoli in cerchio. I balli erano quasi tutti lenti, le luci quasi spente. Il cantante si chiamava Ciofi, una
bellissima voce. Molte volte durante la serata per creare un’atmosfera molto suggestiva, Leonetto
scendeva in pista in mezzo alle coppie che ballavano, suonando con il sassofono con quel dolce suono
ti faceva sognare. Vasco Tognarini è stato un personaggio che ha molto contribuito a far conoscere
San Vincenzo. Un monumento molto importante di San Vincenzo è la nostra chiesa, con il suo
campanile gigantesco in mezzo al paese.
Di parroco, quando ero ragazzino io, c’era Don Carlo, che nel 1945 ormai novantenne, lasciò la
gestione della chiesa al nuovo parroco, Don Ivo. Don Carlo morì in assoluta povertà abbandonato
quasi a se stesso, in due piccole stanze, lo accudirono con amore e rispetto le donne dell’U.D.I. fino
alla morte. Di Don Carlo ho un ricordo bellissimo di quando ero un piccolo ragazzino: io e altri miei
compagni la domenica andavamo da Don Carlo che ci faceva suonare le campane per la messa delle
undici. Le campane erano molto grosse, erano due, si suonavano con le corde e quando raggiungevano
il massimo del movimento, uno alla volta ci attaccavamo alle corde e facevamo l’altalena dal basso in
alto ed era molto divertente.
Un altro vecchio sanvincenzino che voglio ricordare è il Saggini Aladino: gestiva un negozio di sua
proprietà che vendeva stoffe per vestiti e chincaglieria. Il Saggini mi fa ricordare un episodio un po’
singolare che voglio raccontare. Eravamo nel 1943 quando erano a tessera tutti i generi alimentari
e la fame era terribile. Un giorno io e i miei fratelli a mezzogiorno andammo a pranzo, a pranzo per
modo di dire, perché di solito in tavola non c’era quasi mai niente.
Con grande sorpresa trovammo in tavola una grossa gallina lessa, ci avventammo come avvoltoi su
quella gallina e a mia madre non chiedemmo nemmeno il perché di quell’insolito pranzo. Il giorno
seguente ritrovammo un’altra gallina in tavola e a quel punto domandai a mia madre se il babbo la
notte andava a rubare i polli, dato che noi il pollo non si mangiava nemmeno il giorno di Natale,
perché non ce lo potevamo permettere, e mia madre allora ci spiegò come stavano le cose.
Ci disse che il Saggini, dietro casa, teneva un piccolo pezzo di terra e aveva fatto un piccolo pollaio
dove allevava una decina di galline per avere uova fresche per uso di casa.
Volle il caso che le galline venissero colpite da una malattia, infettandosi una dopo l’altra, destinate a
morte sicura; allora mia madre chiese al Saggini se prima che fossero uccise le avesse date a lei. Con
questa malattia, un giorno o due prima di morire, le galline diventavano un po’ grulle; a quel punto ci
disse mia madre che lei gli tagliava il collo con la testa, e il resto si poteva mangiare tranquillamente.
Era una malattia dove non morivano tutte insieme, venivano colpite anche a distanza di qualche giorno
l’una dall’altra. La mattina mia madre mi faceva passare dal negozio del Saggini a domandargli se mi
avrebbe dato qualche gallina che dava segni di malattia, e noi una dopo l’altra si mangiavano tutte. In
seguito non avemmo nessun disturbo per quello che riguardava la salute: non fu per incoscienza che
rischiammo di essere infettati ma per la grande fame.
Un altro vecchio sanvincenzino è Beppe Mengozzi, una persona stupenda, si poteva definire un poeta
dilettante, sempre allegro e divertente con le sue battute e le sue poesie. Era semianalfabeta ma ciò
nonostante scriveva e recitava filastrocche bellissime, e fra le altre cose era molto originale: parlava di
tutti i grandi Giuseppi che hanno fatto la storia nel mondo, come Giuseppe Garibaldi, Verdi, Stalin,
Mazzini, tutti personaggi che hanno avuto un ruolo importante in tutti i campi; in ultimo aveva
aggiunto un piccolo versetto poetico e satirico dove diceva che i Beppi ci sono grandi grandi o piccoli
piccoli, confrontando se stesso e tutti i Beppi di San Vincenzo fino al più balordo. Un’altra bella
filastrocca la cantava sugli animali, gliel’ho sentita cantare già negli anni ‘45, e la stessa canzone l’ho
risentita cantare da Bramaldi circa quarant’anni dopo: potrei giurare che la canzone senza dubbio
era quella di Beppe.
Un altro sanvincenzino che va ricordato è Gasparo, il custode del passaggio a livello delle ferrovie
dello stato a nord di San Vincenzo. Gasparo era un grande invalido della guerra quindici- diciotto,
perse una gamba in trincea dallo scoppio di una granata. La protesi che portava era una gamba
interamente di legno fatta come una stampella, applicata a quel poco di gamba rimasta. Era un uomo
un po’ singolare: durante il suo turno di lavoro, naturalmente, abbassava le sbarre al passaggio dei
treni, ma a volte, anche se non c’erano altri treni in corsa, le sbarre le lasciava chiuse e andava al bar
vicino al casello a farsi un quartino o il mezzo litro con gli amici che si trovavano giù al bar.
Il bar era distante circa cento metri dal casello, e facendo andata e ritorno con una gamba di legno
un po’ di tempo passava.
Prima della guerra il traffico di mezzi meccanici era quasi inesistente, il mezzo più pratico era la
bicicletta e con questa le persone passavano di sotto le sbarre e non avevano nessun disagio. Se
capitava che un barrocciaio con il suo mezzo avesse da entrare o uscire dal paese, trovando le sbarre
chiuse non protestava, guardava dentro il casello e se Gasparo non c’era, conoscendo le sue singolari
abitudini, legava il cavallo alle sbarre del passaggio a livello e andava al bar, sicuro di trovarlo a farsi
il bicchierotto, e insieme si facevano un’altra bevuta, e Gasparo insieme al barrocciaio tornavano al
posto di lavoro, con molta calma, trovando anche il tempo per conversare su un po’ di tutto. Tutto
scorreva in un clima tranquillo, tutto l’opposto di come viviamo oggi, dove non sopportiamo più
nessun disagio, tutti impazienti abbiamo perso il senso della tolleranza e della educazione. Dal punto
di vista umano viviamo molto peggio.
Bisogna ricordare anche la famiglia Marosi. Miriade e il figlio Ionio gestivano al paese nuovo il locale
“il Cacciatore” di loro proprietà e oltre al bar nei fondi del locale facevano magazzino di prodotti
alimentari, formaggi, stoccafisso, baccalà, acciughe salate, rifornivano negozi che vendevano al
dettaglio. Il bar era frequentato da operai e da molti cacciatori e le discussioni erano molto animate
come oggi discutiamo di calcio, erano scontri molto amichevoli anche se di mezzo c’era sempre
qualche bicchiere di vino.
Un altro pezzo di storia di San Vincenzo era il bagno Nettuno che oggi non c’è più. Il bagno Nettuno
era una rotonda costruita su palafitte in mare alla battigia della spiaggia. Era composto da un piccolo
bar e una cucina per fare il ristorante, una bellissima terrazza esposta al mare che, circondata da
tende scorrevoli, funzionava anche da pista da ballo. Il locale stava aperto da giugno a settembre, in
spiaggia aveva una decina di cabine e due patini, un’attrezzatura sufficiente per ospitare quel piccolo
turismo prima della guerra, cioè fino agli anni quaranta, un turismo che se lo permettevano pochi
privilegiati. Tutte le sere c’erano feste da ballo aperte a tutti, e l’abbigliamento dei clienti doveva essere
di una certa eleganza, ad esempio gli uomini in prevalenza indossavano calzoni bianchi e giacche
scure. I proprietari e i gestori erano Candido Cini e la mamma Genoveffa; la signora Genoveffa a noi
ragazzi non ci tollerava perché nelle ore pomeridiane la rotonda creava un grande spazio d’ombra
sulla spiaggia dove non arrivava l’acqua e noi ragazzi andavamo sempre a giocare sotto quel fresco
e diventava sempre una guerra fra noi ragazzi e la signora Genoveffa, ma si vinceva quasi sempre
noi. Quello spazio lo consideravamo un nostro territorio e la Genoveffa era una donna molto rude e
arrogante. Quella bellissima rotonda fu demolita nel 1942.
Voglio ricordare un altro sanvincenzino, Libero Becherini, chiamato Picche, soprannome ereditato
dal vecchio nonno. Libero, persona molto superstiziosa, lo voglio ricordare in un episodio molto
singolare. Nel 1945, finita la guerra, rientrammo tutti alle nostre case da dove eravamo sfollati. Gli
armatori delle barche da pesca si attrezzarono per praticare la pesca a strascico, cioè una piccola
paranza.
A bordo di una di queste paranze eravamo imbarcati cinque marinai: capitano e capo pesca era
Benvenuti Romolo, poi Piero Aprilino, Ciari Aldo Picche e poi me. Da qualche giorno la pesca non
andava troppo bene rispetto a giorni indietro, pescavamo poco pesce e Picche cominciò a dire che
avevano dato il malocchio alla barca e dovevamo andare dallo stregone a far togliere la iettatura alle
barche.
Io non ci credevo a queste stregonerie, ma siccome io ero il più piccolo, Libero mi costrinse ad andare
con lui. Questo personaggio si chiamava Bartolini di cognome, abitava in un podere del Serristori
vicino a Donoratico. Libero tolse dalla barca il pagliolo di prua per portarlo dallo stregone: mi disse
che le mamme quando fanno spegnere il malocchio ai bimbi gli portano il camiciolino allora noi gli
portavamo il pagliolino. Andammo da questo Bartolini in bicicletta e arrivati alla casa colonica dove
abitava, in casa trovammo la massaia, gli dicemmo di voler parlare con suo marito, ci indicò che stava
lavorando poco lontano da casa, andammo da lui e gli spiegammo quale era il problema di questa
visita, lui gentilmente ci invitò a seguirlo a casa. Arrivati a casa ci fece salire in camera: la stanza era
quasi buia, indossò una specie di cappa nera, poi seduto a un piccolo tavolo ci chiese un qualcosa che
appartenesse alla barca, e noi gli consegnammo il tagliolino; accese una candela, sul tavolo teneva un
piatto dove versò un poco di acqua e buttò dentro alcune gocce di olio, poi aprì un vecchio libro e
mormorava parole che noi non capivamo.
Durante quella operazione disse sotto voce che vedeva un forte malocchio, allora Picche mi dette
un paio di gomitate sul fianco come per dire “hai visto che avevo ragione”. Lo stregone, finita la
funzione, ci disse che il pagliolo andava bagnato con l’acqua benedetta per togliere definitivamente
il malocchio. Arrivati a San Vincenzo dovevamo andare in chiesa a benedire il tagliolino. Picche
voleva mandare me dentro la chiesa a benedire il pagliolo, io mi rifiutai anche perché la ritenevo una
pagliacciata. Lui non perse tempo, entrò lui in chiesa, era un pomeriggio d’estate e per fortuna in
chiesa non c’era nessuno; quando uscì mi accorsi che aveva tutta la camicia bagnata davanti al petto
perché sotto teneva nascosto il pagliolo. Io gli dissi che lo stregone aveva detto di benedirlo non di
tuffarlo dentro la pila dell’acqua benedetta! Libero però era certo che il periodo nero fosse finito.
La mattina successiva andammo di nuovo a pescare, successe che la prima cala la rete ci rimase
afferrata a un pezzo di relitto in fondo al mare, e perdemmo la rete, cosa che per noi fu un grosso
danno. Da quel giorno si sparse la voce e Libero non ebbe più pace: quando sul mare qualcosa non
funzionava dicevano: “Vai da Picche lui mette tutte le cose apposto”.
Un altro sanvincenzino molto importante della storia paesana è stato Osvaldo Mischi, primo sindaco
di San Vincenzo a ricoprire questa carica, quando San Vincenzo da frazione di Campiglia divenne
comune autonomo. Voglio fare una piccola biografia di questo vecchio sanvincenzino: Osvaldo faceva
l’artigiano insieme al babbo nel mestiere di sarto, erano dei veri professionisti nell’ambito del loro
lavoro e a quei tempi un abito cucito dal Mischi era come un abito fatto da Valentino, infatti avevano
una clientela un po’ benestante.
C’era anche il sarto dei poveri che era il Favilli Amleto, un sordomuto che svolgeva due lavori: il
sarto e il fotografo. Mia madre a noi ragazzi il vestito della comunione lo fece cucire ad Amleto, un
completino con giacchina e pantaloni corti.
Quando indossavi quell’abitino, pur avendo un fisico perfetto, sembravi un piccolo disgraziato, la
giacca o ti pendeva da una parte o sul davanti, oppure Amleto imbottiva una spalla differente all’altra,
ma non avevamo di meglio e così ti contentavi. Tornando a Osvaldo, lui riusciva a conciliare il lavoro
con le funzioni di sindaco. Nel 1948 cessò il lavoro di sarto, ricordo molto bene l’anno perché
entrammo insieme a lavoro con una cooperativa che operava nell’ambito della società Solvay alle
cave di pietra a San Carlo, io fui assunto una quindicina di giorni prima di lui.
Era un lavoro molto pesante, in dotazione ci furono consegnati gli arnesi da lavoro, un piccone, una
pala e una mazza del peso di cinque chili; dovevamo caricare otto vagoni a testa dal peso di circa
quindici quintali l’uno, alcune pietre grosse dovevamo romperle a pezzi da poterle caricare a braccia
dentro il carrello. Con Osvaldo il primo giorno di lavoro ci trovammo nella stessa cava; immaginate
per Osvaldo, con la mano che aveva fatto il lavoro di sarto, maneggiare la pietra cosa poteva significare:
il secondo giorno aveva i polpastrelli delle dita che gli facevano sangue. Uguale successe a me e allora
cercai di proteggermi le mani con un paio di guanti da lavoro che usavano i soldati americani per
lavorare e un paio le procurai anche a Osvaldo. Questi guanti li vendeva il Orami che riciclava tutta
la roba militare degli americani e trafficava nel vestiario.
Ad Orami gli dissi che i guanti erano per Osvaldo, me li dette e non volle una lira. Osvaldo non si
arrese perché uno stipendio a casa anche lui doveva portarlo. Nella cava lavoravano una quindicina
o venti spacchini e a Osvaldo tanti di questi ragazzi gli davano una grossa mano dato che loro quel
lavoro lo facevano con molta facilità perché erano abituati. Qui colgo l’occasione per ricordare
anche loro: Quagli Guido, Sforzi Vittorio detto ragno, Montorsi Aldo detto gnaccone, Cappelli Sirio,
Dannunzio Galoppini detto gamenna, Nudi Fico, Nello Mengozzi.
Osvaldo, con la carica che ricopriva come sindaco, poteva trovarsi un lavoro più adatto a lui ma non ha
mai cercato privilegi, era un socialista vero, coerente con i suoi principi, onesto con se stesso e con gli
altri. Gli piaceva la compagnia, era una persona allegra e stava bene con gli amici. L’amministrazione
del comune con sindaco Osvaldo, si trovò tanti problemi da affrontare poiché il comune era nato da
poco e aveva pochissime risorse finanziarie. Nonostante tante difficoltà, il paese cominciò a crescere,
un po’ disordinato ma cresceva. Se San Vincenzo oggi è un paese come si può vedere, funzionante e
moderno, si deve in buona parte agli uomini come Osvaldo. Credo che un riconoscimento meritato
sia stato avergli dedicato una piazza a suo nome.
Io tutti questi vecchi sanvincenzini li ho conosciuti, ho vissuto insieme a loro, ricordarli per me e
come fare una riunione di famiglia.
Oggi meglio di me nessuno può ricordarli, in ognuno di loro ho scritto un qualcosa per far capire il
personaggio, spero in parte di esserci riuscito. Erano tutte persone oneste, schiette e generose, c’era
tanta solidarietà e questa nasceva da uno stato di bisogno e la solidarietà l’ha inventata la povera
gente.
Una cosa che mi piace ricordare è che San Vincenzo alle sue origini aveva un legame molto stretto
con la campagna. Quasi tutti coloro che abitano in paese sono di origine contadina, anche i miei
genitori venivano da quel mondo. Parlando di San Vincenzo come si fa a non ricordare il mondo
contadino? Eravamo circondati da quel meraviglioso tappeto verde dei campi, i campi di grano di
allora, quando non venivano usati i diserbanti e in primavera nascevano in mezzo al grano i papaveri:
questo spettacolo era un’opera d’arte naturale che solo la natura sa creare.
L’economia di San Vincenzo si reggeva in prevalenza sulla campagna e sul mare. Le case coloniche
erano come una collana intorno al paese cominciando da sud, sulla via della principessa: al primo
podere abitava il Becherini, verso l’Aurelia il Francalacci, e il Debolini, poi sull’Aurelia il Favilli, il
Giomi, il Federigi, il Vallesi in via San Bartolo, il Franchini, il Tuci, il Tampini, il Tani poi ancora
sull’Aurelia, il Buti, il Cecchini, in via del Castelluccio, il Soldi, il Nannelli, il Federigi, Lanciani, il
Magnani nella valle il Ciaponi e il Cuagliarini, per finire il cerchio a nord il Bottini.
Nei lavori di campagna venivano occupate molte donne nella raccolta dei cavoli, carciofi, pomodori
e durante la mietitura del grano. Il lavoro veniva fatto tutto a mano, decine di uomini e donne con
la falce tagliavano il grano facendo dei barsi legati con la pianta del grano stesso, e riuscivano con
esperienza e arte, se così si può chiamare, a creare una fascia che avvolgeva e teneva molto bene
insieme il mazzo del grano come se fosse legato con una corda.
I balzi di grano venivano lasciati nel campo stivati in piccoli montini di circa venti barsi accumulati
in verticale, in modo che il sole completasse la maturazione. La mietitura fatta a mano con la falce
andava eseguita una quindicina di giorni prima della maturazione, altrimenti le spighe con bruschi
movimenti avrebbero scaricato a terra una parte del prodotto, cioè il grano.
Il giorno della trebbiatura in campagna era una delle più belle feste dell’anno.
Se il raccolto era buono i contadini si sentivano premiati per il tanto duro lavoro. Il giorno prima
veniva portata nell’aia la macchina trebbiatrice, veniva fatta funzionare da un piccolo trattore che
aveva un volano laterale che con una grossa cinghia, a sua volta applicata ad una puleggia della
trebbiatrice, cominciava a trebbiare.
Il contadino, con i buoi e il carro, andava nei campi a caricare i balzi di grano per portarli nell’aia;
questi venivano passati ad un operatore chiamato l’imboccatore che aveva il compito di inserire i balzi
di grano dentro una bocca sopra la macchina: era l’ultima fase prima che avvenisse la separazione
del grano dalla pula e dalla paglia. Venivano applicati i secchi ad una bocchetta della trebbiatrice.
Un’altra operazione importante era il recupero della paglia.
Questo lavoro era fatto da braccia molto esperte: i famosi pagliai, così venivano chiamati, consistevano
in un alto circa dieci metri chiamato stallo, fissato a terra e intorno partendo da una base di cinque
metri di diametro, veniva stivata la paglia fino in cima, per finire a zero.
Il pagliaio finito diventava un’opera d’arte, capace di reggere a qualsiasi vento o temporale: era fatto
in maniera che la pioggia scivolava via come sulle penne degli uccelli e la paglia non poteva marcire.
Il giorno della trebbiatura veniva vissuta come una festa, era la più faticosa ma anche la più gioiosa e
i contadini confinanti si scambiavano la mano d’opera.
Al mattino, di buon ora, la massaia con altre donne preparava nell’aia una grande tavola apparecchiata
per la colazione a base di prosciutto, salsicce, rigatino, formaggi, vino. A tavola non potevano mai
esserci meno di una ventina di persone.
A pranzo la massaia metteva in tavola il meglio che aveva: uno degli animali che non poteva mancare
era il papero. Dopo la cena, per tradizione, molti contadini dotati di vena poetica, cantavano poesie,
come dicevano loro “a braccio”: riuscivano ad improvvisare su qualsiasi soggetto, si sfidavano a due
alla volta, magari uno sceglieva il fuoco e l’altro l’acqua, dopo una mezz’ora di lotta poetica vinceva
quello che con il fuoco aveva distrutto tutto, o l’altro che con l’acqua era riuscito a spegnerlo.
La scelta era molto vasta per quello che riguardava i soggetti da cantare, ad esempio uno sceglieva il
mare l’altro la terra, a volte gli scontri erano anche nell’ambito dello sport.
I campioni di allora erano molto conosciuti, nel ciclismo, Binda, Guerra, allora uno cantava le grandi
imprese di Binda, l’altro quella di Guerra, naturalmente anche esagerandole, per mettere in difficoltà
l’avversario. Io ho conosciuto alcuni di questi simpatici personaggi che ho sentito cantare: ricordo i
cugini Antoni, Odrasto Giomi, i fratelli Malotti e tanti altri.
I contadini tra loro riuscivano a creare serate liete e divertenti, organizzavano festicciole da ballo,
sempre la domenica sera, una volta in casa di uno e un’altra a casa dell’altro. Nelle case dei contadini
la stanza più grande era la cucina visto che esistevano famiglie composte da tredici, quindici persone
compresi i bambini. La cucina veniva trasformata in sala da ballo, i mobili appoggiati ad una parete
per ottenere uno spazio sufficiente ad una decina di coppie per ballare. Un suonatore con la
fisarmonica allietava la serata suonando musica da ballo. Il bar era un piccolo tavolo in un angolo
con sopra il fiasco di vino sempre a disposizione. Queste feste da ballo, oltre che a far trascorrere una
serata divertente, erano fondamentali per far incontrare i giovani.
La maggior parte dei matrimoni nasceva in quelle occasioni.
Nel mondo contadino era radicato il senso dell’ospitalità, se qualcuno incontrava un amico che
abitava in paese, dopo aver scambiato i saluti, invitava l’altro a veglia, un invito ad andare la sera
dopo cena a casa sua per ritrovarsi e trascorrere una serata insieme conversando di un po’ su tutto,
dal lavoro agli interessi e alla famiglia. Tutte le volte avevamo tante cose di cui parlare, la gente era
molto più aperta e sincera. L’immancabile fiasco di vino era sul tavolo davanti al focolare sempre con
il fuoco acceso nelle serate d’inverno.
Il focarile era quello che oggi si chiama caminetto: era una struttura rustica e semplice, la base era
molto grande costruita a mattoni, alta circa cinquanta centimetri dal pavimento con il fuoco al
centro.
Ai lati, sopra al focarile, si potevano trovare di solito due piccole panche dove seduti stavano quasi
sempre i bambini nelle serate d’inverno. Il fuoco del focarile, oltre a scaldare l’ambiente, era
indispensabile per cuocere i cibi ed avere sempre l’acqua calda, tramite un grosso paiolo di rame
appeso al centro del fuoco. L’acqua calda serviva per tante funzioni domestiche. Una funzione molto
importante era quella per fare il bagno: quando l’acqua nel paiolo andava in ebollizione, veniva
travasata dentro tinozze abbastanza grandi riempite poi con acqua fredda fino alla temperatura
giusta.
Il fuoco era sempre acceso, consentendo di avere sempre a disposizione un servizio che oggi puoi
avere soltanto con l’energia elettrica. Prima della guerra nelle case coloniche la corrente elettrica
non esisteva. In cucina c’era un lume a petrolio, nelle camere la luce la ottenevamo con la bugia,
non so poi perché la chiamavano bugia.
Era una piccola bacinella di rame con un occhiellino da una parte per poterla impegnare; veniva
versato il fondo dell’olio d’oliva fino a metà, veniva immerso un lucignolo composto da una piccola
treccia di bambagia, lasciandone un pezzetto fuori dal liquido appoggiato sopra una piccola
scannellatura della bugia per essere acceso: emanava una piccola luce e tanto cattivo odore.
I ragazzi che abitavano in campagna, rispetto a noi erano molto penalizzati: noi finita la scuola
andavamo in spiaggia e per noi ragazzi il mare era il massimo del divertimento, per i ragazzi
di campagna era quasi impossibile perché i loro genitori erano sempre impegnati nei lavori di
campagna e non avevano il tempo per portarli al mare.
In campagna i ragazzi di otto, dieci anni venivano impegnati nel pomeriggio dopo la scuola in
lavori a volte anche molto duri, come andare al trapelo, un lavoro indispensabile quando dovevano
arare i campi. Questo lavoro veniva fatto con due paia di buoi attaccati all’aratone: tutte le volte
che con il solco arrivavi in cima al campo, i buoi di testa venivano staccati e girati nell’altro senso e
questa operazione spettava al ragazzo. Il contadino con gli altri buoi girava l’attrezzo nella direzione
opposta, il ragazzo riattaccava di nuovo i buoi di testa davanti agli altri. Il lavoro di arare i campi
veniva eseguito nei mesi invernali, perché la semina del grano avveniva in quei mesi dell’anno, da
questo si può capire il disagio di quei ragazzi.
Ora voglio sottolineare il legame che c’era fra campagna e paese. I contadini che lavoravano i poderi
della fattoria del conte Della Gherardesca facevano la vendemmia in San Vincenzo al cantinone
che anche oggi è conosciuto con questo nome, invece, dove oggi c’è la biblioteca comunale, c’era
la fattoria ed oltre agli uffici c’era una stalla per il cavallo e il barroccio di fattoria. Il barrocciaio si
chiamava Tista cioè Battista. C’era anche una piccola falegnameria indispensabile per eseguire tutti
i lavori di manutenzione ai poderi e per gli altri lavori che si presentavano.
Nell’ambito dell’azienda era istallata una piccola distilleria che produceva il famoso gin. Sotto il
pavimento dove c’è ora piazza Mischi ci sono ancora i locali dove veniva conservato il grano per
la semina, locali costruiti e studiati per quell’uso. I falegnami erano due, il Bacci e il Cascielli, e
il gestore della distilleria si chiamava Camerini. A nord di San Vincenzo c’è tutt’oggi il caseggiato
chiamato il conservificio, dove si trasformavano appunto i pomodori in conserva. In quella struttura
venivano raccolti cavoli, spinaci, carciofi, finocchi e altre verdure fresche, confezionati in apposite
cassette di legno e spediti anche all’estero.
A pochi centinai di metri oggi c’è l’hotel Santa Caterina: allora era un locale dove veniva lavorato
il pesce in scatola, era una friggera, produceva sarde in scatola sott’olio con il nome di “Oautis”;
il prodotto veniva fornito sul posto dai pescatori di San Vincenzo perché il mare a quei tempi era
molto pescoso. La mano d’opera nella friggera era costituita in prevalenza da donne e tutto questo
contribuiva alla nostra economia anche se purtroppo sempre povera.
Come si vede mare e campagna erano molto legati.
Quelli della mia età, nati e cresciuti a San Vincenzo, vogliono bene al paese, lo sentono come una
propria creatura perché l’abbiamo visto crescere. Io sono cresciuto con la polvere dei campi e il sale
del mare sulla pelle, me la sento ancora oggi addosso come un velo invisibile.
Sono contento oggi di ricordarmi molto bene di quei tempi, vuol dire che erano soprattutto belli
anche se eravamo molto poveri.
Mentre scrivo questi ricordi mi sembra di sentire e ricordare i profumi della campagna e del mare.
Ai nostri figli e ai nipoti queste gioie della natura le abbiamo negate, rovinando tutto per una
corsa sfrenata ai profitti, distruggendo tutto quanto c’era di più bello. San Vincenzo ha una storia
e conoscerla può essere molto interessante, io la racconto come figlio di questo bel paese. San
Vincenzo era una frazione del comune di Campiglia, non aveva nessuna autonomia, mancavano
tutti o quasi i servizi essenziali, non avevamo nessuna strada asfaltata, mancava la rete fognaria. In via
Piave, dove abitavo io, c’erano fosse a cielo aperto, dove scorrevano le acque chiare di tutte le case
che si trovavano più in alto e una scuola elementare che aveva una struttura vecchia con degli infissi
dove il vento e il freddo entravano da tutte le parti: quando faceva libeccio ci dovevamo legare al
banco altrimenti ci portava via, io ho esagerato ma è per dare un’idea di quale stato fosse, tanto che
le insegnanti avevano lo scaldino con la brace accesa che la bidella di nome Amalia gli faceva trovare
sempre pronto tutte le mattine.
La scuola era in piazza della Vittoria dove ora ci sono gli uffici del comune. Per amministrare le
poche case che riguardavano la frazione di San Vincenzo, in organico c’era un solo impiegato che
svolgeva alcune pratiche, il signor Cantini. Come dipendenti locali c’erano due spazzini, uno che
provvedeva alla raccolta dei rifiuti e a spazzare la strada del paese vecchio, cioè Armando Roventini,
il quale aveva un carretto trainato da un ciuco, un animale molto vecchio che quando si fermava
traballava come se dovesse cascare da un momento all’altro. Al paese nuovo l’altro spazzino trainava
il carretto a braccia. Avevamo una guardia comunale, il signor Turchi.
La maggior parte delle abitazioni non aveva l’acqua corrente in casa. Al paese nuovo avevamo una
sola fonte, in fondo a via Piave, dove c’è ancora. Le donne con delle bellissime brocche di rame,
attingevano l’acqua per bere e cucinare, per gli altri servizi avevamo un pozzo che serviva per due
case confinanti. Accanto al pozzo c’erano le pile in cemento indispensabili per fare i bucati e
annaffiare il piccolo orticello coltivato a verdure; nelle case non avevamo la corrente elettrica e per
l’illuminazione avevamo il lume a petrolio. Era una struttura con il globo di vetro e di ferro battuto,
erano opere d’arte.
Oggi si vedono quasi uguali ma naturalmente sono alimentati con una lampada elettrica. Eravamo
abituati a questo modo di vivere per cui non si avvertivano troppi disagi.
L’igiene e la pulizia della casa erano essenziali per tutte le famiglie. Noi ragazzi avevamo le toppe ai
pantaloni, ma la nostra era una povertà molto dignitosa. Finita la guerra, con un buon lavoro fatto a
livello politico e amministrativo riuscimmo a trasformare San Vincenzo da frazione a comune.
Le cose cominciarono a migliorare. Il comune cercò di fornire i servizi essenziali, fu un duro
lavoro.
Eravamo usciti da poco dalla guerra e le risorse finanziarie non ce n’erano. Capimmo che San
Vincenzo, con la sua bella spiaggia circondata da una rigogliosa campagna e da meravigliose colline,
una vista sul mare da cui si può ammirare tutto l’arcipelago delle isole toscane, compresa la Corsica
e osservare tramonti che fanno sognare, poteva avere uno sviluppo turistico.
Questo sarebbe stata una grande risorsa per l’economia del paese. Il luogo diventava ogni anno
sempre più funzionale, con la creazione dei stabilimenti balneari, cinema, tutti i servizi per ospitare
i turisti, piste da ballo, per ricordarne una la Capannina, un locale molto bello. Era un turismo di
massa, ma una ricchezza per San Vincenzo. Non sto ad elencare tutto quello che fino ad oggi è
stato lo sviluppo di questo paese: opere di grande rilievo turistico sono i bellissimi villaggi turistici
insediati in un bosco meraviglioso a sud di San Vincenzo, il bellissimo parco di Ripigliano.
San Vincenzo oggi è uno dei luoghi di villeggiatura più belli del nostro litorale, con i suoi alberghi
e le sue pensioni.
Nella stagione estiva ospitano molte decine di migliaia di turisti, offrendo loro tutti i servizi, direi
ottimi per trascorrere una piacevole vacanza: impianti sportivi con campi da tennis, palestre e un
bellissimo approdo turistico per coloro che possiedono una barca e amano il mare. Non voglio
aggiungere altro, quello che oggi è San Vincenzo lo abbiamo sotto i nostri occhi.
Ora voglio parlare di tutta la politica dal 1945 al 2002, di come l’ho vissuta da persona semplice come
sono io, senza titoli di studio e pertanto tutto quello che scrivo non può essere letto come se fosse
scritto da un professionista ma da un uomo soltanto che ha passato questi momenti e lo ha fatto
vivendo in un tessuto sociale di operai e di povera gente.
Io ho vissuto la politica fino ad oggi da uomo di sinistra ma che non si riconosce nella sinistra attuale.
Non ho la presunzione che queste mie idee siano condivise da tanti ma credo che molti siano
d’accordo con quello che dirò. Sono una persona perbene e questa critica che faccio sulla politica
viene da chi tutti i giorni ha vissuto in questa realtà e queste osservazioni e sensazioni nascono da
una mente pulita e democratica.
Voglio subito entrare nell’ambito della politica: tutti i governi che abbiamo avuto in Italia sono stati
gestiti da una classe dirigente paragonabile ad una famiglia dove c’è il capo famiglia alcolizzato e
la moglie puttana. Immaginate ai figlioli che esempi di serietà, di onestà, di correttezza e coerenza
hanno trasmesso. La nostra classe dirigente era soprattutto fatta di ladri che saccheggiavano il paese.
Per elencare tutte le cose sporche che hanno fatto ci vorrebbe un libro come l’elenco telefonico.
Oggi otto dicembre duemiladue al congresso dell’UDC abbiamo visto applaudire tutta la faccia
democristiana ripulita e rimessa in campo e questo vuol dire che gli italiani non conoscono la
storia del loro paese. A proposito dei nostri onorevoli, mi piacerebbe che qualche giornalista oltre
a scrivere notizie, facesse una ricerca su di loro, per sapere quanti hanno fatto il servizio di leva e
vorrei notizie anche sui loro figli, parenti e amici. Di sicuro ne sortirebbe un dato sconcertante per
quello che riguarda il lavoro con il clientelismo.
Problemi per i loro figli non esistono, trovano porte aperte ovunque, possono scegliere incarichi
importanti ben pagati anche se sono degli incapaci.
Questi problemi non li avevano nemmeno quelli che ricoprivano cariche pubbliche, sindaci, assessori
anche di piccole città e tutti quelli che ricoprivano funzioni importanti nell’amministrazione pubblica,
non avevano problemi, potevano scegliere il lavoro per i loro figli, parenti, amici accaparrando il
meglio che c’era sul mercato. Il cittadino comune, anche se laureato o diplomato, era costretto a
fare lavori saltuari o a fare il disoccupato.
Nell’estate del ‘99 venne nel nostro paese, in visita ufficiale, il primo ministro cinese per incontrare
le massime cariche dello stato, dal Presidente della Repubblica a quello del Consiglio e di Camera
e di Senato, rappresentanti dell’industria e della finanza. Quello che più mi colpì nell’incontro con
i segretari di partito fu la sfacciataggine della nostra classe dirigente, che fece presente al ministro
cinese le violazioni dei diritti civili e di libertà nel suo paese, gli furono ricordati gli episodi di piazza
Tienanmen, con la presunzione di dare un modello di democrazia e libertà, come abbiamo noi.
I nostri politici hanno perso il senso della ragione quando confrontano un paese come la Cina, con
un miliardo e duecentomila di cittadini, con il nostro. Con noi i governi non finiscono mai una
legislatura per la presenza di decine di partiti o di gruppetti che provocano grossi problemi quando
si devono spartire poltrone importanti, specie nei ministeri.
Vi sono onorevoli che si inventano un loro partito o movimento la mattina dopo aver letto il loro
oroscopo. Abbiamo individui che sono entrati in politica per mantenersi un posto di lavoro, mentre
nel privato sarebbero stati dei falliti. Essi usufruiscono di tanti privilegi e danno l’impressione di
gestire bene la cosa pubblica. Purtroppo spesso viene alla luce che la loro gestione è opportunista e
i soldi sperperati e rubati a danno della collettività.
Quando si tratta di quattrini, essi non sono mai in buona fede, i danni che ne derivano sono tutti
calcolati, al fine di intascare miliardi per sé e per il loro partito, e quando i responsabili si trovano
nessuno va in galera. Ci sono politici che durante la legislatura passano da uno schieramento ad un
altro secondo la loro convenienza, creando ingovernabilità e confusione. Immaginiamoci governi
come i nostri in Cina. Tutto questo lo chiamano pluralismo, libertà, democrazia ma non riescono a
distinguere la democrazia dalla confusione.
I nostri rappresentanti fecero presente al ministro cinese i fatti di piazza Tienanmen condannandone
la violenza; anche io condanno la violenza da qualsiasi parte venga consumata, ma i nostri politici
sono di memoria corta o non vogliono ricordare che di piazza Tienanmen in Italia ne abbiamo avute
prima della Cina; i giovani non lo sanno ma è bene ricordarle: a Genova, quando la Democrazia
Cristiana con altri partiti scagnozzi si apprestava a formare un governo con i fascisti, cioè il governo
Tambiani, i cittadini democratici scesero in piazza a protestare e la polizia non esitò a sparare sulla
folla, uccidendo alcuni manifestanti e lo stesso fecero a Bologna e Reggio Emilia. La nostra classe
dirigente vorrebbe dare lezioni di comportamento agli altri, ma la democrazia ha delle regole
che tutti dovrebbero rispettare. Non come hanno fatto i nostri governanti fino ad oggi, facendola
diventare un abuso di pochi e non un diritto di tutti.
I nostri politici non pagano mai i loro errori, a pagare è sempre la povera gente che deve stare
alle regole. Oggi viviamo in una società che ha raggiunto straordinari traguardi, impensabili fino a
pochi anni fa. Se cominciamo dalla tecnologia, noi esseri comuni non riusciamo nemmeno con la
fantasia a seguire le grandi conquiste che però in molti casi si ritorgono su di noi, rendendoci la vita
a volte complicata. Il grande male di questa società è la corsa ai profitti, trascurando tutto quello
che una società civile dovrebbe garantire: rispetto dell’ambiente, dei diritti civili più volte violati, del
lavoro, della scuola, della sanità, in modo che ogni cittadino si crei una famiglia e si possa lasciare
ai nostri figli un mondo più giusto e un paese vivibile. Anche se tutto questo sarà impossibile, mi
piace pensarlo per amore del prossimo, ma questa è un’era dove la forza prevale quasi sempre sulla
ragione e difficilmente ci arriveremo. Io sono anziano, ho seguito i nostri uomini politici come
semplice cittadino dal dopo guerra ad oggi.
Il mio giudizio non sarà condiviso da molti, ma questa è la mia analisi: quando i nostri politici
arrivano ad essere deputati o senatori vengono colpiti da un virus, si ammalano di una patologia
incurabile cioè la presunzione, l’arroganza di sentirsi perfino al di sopra della legge.
Prima di essere eletti essi si sentivano vicini ai problemi quotidiani della povera gente, uomini di
sinistra che oggi hanno dimenticato il loro ruolo e vivono in un’altra realtà, in un mondo dove
possono avere tutto e si adattano bene al nuovo ruolo. Quello che più angoscia e crea un disagio
molto forte a me che sono sempre stato coerente con i principi fondamentali della sinistra, con la
solidarietà e la difesa dei cittadini più deboli è la constatazione che tutti questi principi sono stati
traditi.
Oggi della sinistra non è rimasto più niente o poco, arrivano a vergognosi compromessi, chiedono
sostegno per stare al governo alla peggior faccia dei politicanti, addirittura quelli che avevano gestito
i vecchi governi del C.A.F. Non c’è bisogno di elencarli uno per uno ma alcuni più rappresentativi
come De Mita e Andreotti non credo avessero molte credenziali.
Avete dimenticato che razza di individuo è stato Cossiga? Aveva formato la Gladio con una banda
di terroristi pronti, al momento opportuno, a far fuori gli esponenti comunisti di allora se avessero
ottenuto una maggioranza per governare; caduto il governo Prodi, D’Alema formò il nuovo governo
con se stesso Presidente del Consiglio. Per formare quel governo si servì dei personaggi che ho già
citato per finire la legislatura.
I dirigenti di oggi, paragonati a quelli degli anni passati, non sanno più cosa vuol dire credere in
qualcosa per cui vale la pena di lottare fino in fondo, con coerenza e coraggio.
Il governo D’Alema è stato la vergogna della sinistra, senza idee chiare, con tanti compromessi
da non distinguere più sinistra, centro e destra. Tutto in uno stato di confusione, al punto che il
cittadino di sinistra non riusciva a capire chi è che lo rappresentava.
Io, che sono un uomo di sinistra, non riesco a vedere chi può tutelare i diritti della povera gente
con questa politica opportunista dove i più lavorano per propria convenienza, una sinistra che con
il governo D’Alema si è prostituita agli americani con la guerra nel Cossovo ma di questo ne parlerò
più avanti. Potrò sembrare sempre molto legato al passato ed in parte è vero, perché il tempo non
è riuscito a farmi perdere il colore, ho conosciuto uomini di sinistra antifascisti che hanno portato
avanti le loro idee con dignità, coerenza e coraggio.
Condannati ad anni d’esilio e di confine dal tribunale speciale fascista non sono mai arrivati a
sporchi compromessi, non perché volevano fare gli eroi ma perché erano uomini veri, non dei
politici da salotto come sono oggi.
Uno dei mali della politica è secondo me il compromesso, in cui ognuna delle parti deve rinunciare
a qualcosa stravolgendo tanti progetti o proposte che sarebbero state utili per il cittadino. Non mi
piace in politica la pratica del compromesso dove le parti sono soddisfatte a metà. Sarebbe molto più
utile arrivare ad una convergenza dei programmi, questo vorrebbe dire lavorare tutti nell’interesse
dei cittadini. Purtroppo i compromessi, insieme agli intrallazzi, vengono praticati perfino con le
elezioni del Presidente della Repubblica; ogni partito presenta un loro candidato, le prime votazioni
sempre a vuoto, dopo con incontri di corridoio si arriva al compromesso fra le parti “io ti dò te mi
dai”, e a camere congiunte, con una votazione gia scontata, viene fatto il nome.
Dimenticavo di ricordare i fratelli Danesi Roberto e Italo proprietari del cinema Centrale, e il
maestro Bianchi che ho conosciuto quando lui era già anziano e non insegnava più essendo in
pensione. Abitava nell’appartamento accanto al cinema Danesi, sopra il negozio d’oreficeria del
Marchi.
Ricordo un particolare di lui che riguarda me quando ero un ragazzino: nel dietro della casa aveva
un piccolo giardino con una bella pianta di fico; quando i fichi erano maturi non poteva coglierli
perché con l’età avanzata che aveva non poteva salire sopra la pianta; allora chiappava un paio di
ragazzini, fra i quali a volte anche me, per farci salire sul fico a cogliere i frutti.
Non potevamo dirgli di no perché per noi ragazzi il maestro rappresentava quasi un’autorità. Saliti
sulla pianta con un piccolo paniere a cogliere i fichi ci obbligava a cantare perché se cantavi non
potevi mangiare i frutti. Il maestro stava sotto con una canna in mano e quando non ci sentiva cantare
con la canna ci picchiava sulle gambe; ricordo che la canzone che cantavamo era la canzone “faccetta
nera”, che avevamo imparato a scuola nel periodo fascista della guerra in Africa Orientale.
Un altro maestro con cui ho finito le scuole elementari era il Sabatini che era molto autoritario e ci
metteva molte volte in soggezione. In quinta non eravamo una classe facile da gestire, c’erano ragazzi
da tre anni, erano ripetenti, non diciamo perché erano duri ma diciamo che volevano approfondire
le materie. Ricordo che un ragazzo fra i ripetenti si chiamava Guido Quagli, aveva già quattordici
anni e era già grande per la sua età. Il maestro una volta gli disse che se la mattina seguente fosse
venuto a scuola senza essersi fatto la barba lo avrebbe rimandato a casa.
C’erano anche episodi divertenti a scuola, una mattina il maestro ci fece una lezione sulla guerra del
quindici- diciotto dicendo anche che Benito Mussolini fu ferito in trincea da una granata.
Il giorno seguente l’insegnante ci volle interrogare su quella lezione e chiese ad uno degli alunni,
al Becherini, uno degli anziani, se ricordava da cosa fu ferito il duce in guerra.
Lui gli disse che fu ferito da una granatata!
Allora il maestro gli fece un urlo chiamandolo duro, e in classe fu tutta una risata.
A cura di Tagete Edizioni,
Pontedera (Pi)
Stampa P.R.P. di Balzani Bruno
Pontedera (PI)
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