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Ricordi di San Vincenzo - Comune di San Vincenzo
Adamasco Giovani Ricordi di San Vincenzo Foto di copertina di Cippi Pitschen Questa che sto scrivendo è la storia della mia vita. La scrivo per me, mi piace raccontarla, quando la leggo è come se parlassi alla mia anima, ci sono episodi belli ma anche drammatici. È la storia del mio paese e dell’Italia. Mi diverto a fare un’analisi degli ultimi anni del fascismo ad oggi, ottobre 2002,con molte osservazioni e critiche viste da una mente di sinistra: ho militato nel P.c.i dal 1945, ho accettato, anche se con molto rammarico, che al congresso della Bolognina il simbolo del partito comunista diventasse P.D.S.; io avvertii subito un certo disagio, ma restai nel partito sempre come semplice militante fino al ‘99 quando rifiutai la tessera di adesione non perché fui io a cambiare opinione politica, ma perché la nuova classe dirigente non aveva più a che fare con la sinistra Italiana. Io non mi sono mai sentito dipendente da nessuno, sono sempre stato una mente libera, ho sempre detto in ogni occasione quello che pensavo, di tutte le osservazioni e critiche che faccio non ho la presunzione di avere sempre ragione, ma una cosa è certa: sono sincero e credo in quello che scrivo. Sono in pensione e come tutti quelli che amano il mare passo la maggior parte del tempo al porticciolo. Con il tempo bello io e i miei amici andiamo anche a pescare, da dilettanti, con il bolentino oppure con i palamiti ed è un bellissimo svago; poi ci troviamo al circolo ARCI per fare una partita a tressette o a briscola. La maggior parte di loro è formata da pensionati delle acciaierie di Piombino ed hanno la fortuna di essere andati in pensione a solo cinquant’anni con un buon trattamento. Una volta si interessavano molto di più alla politica, ora li trovo molto opportunisti; la cosa per molti di loro più interessante è il calcio e della politica sono del tutto disinteressati: delle squadre di calcio sanno tutto, a volte sono così presi da avere la presunzione di scegliere loro la formazione che deve andare in campo. Con loro un dialogo sulla politica non lo puoi fare ad eccezione di qualcuno che però essendo troppo dipendente dal partito si lascia influenzare dai discorsi dei politici. Sono i fatti che contano e in questa realtà è difficile fare un dialogo perché raramente riescono a farsi autocritica diventando dei telecomandati. Io invece riesco a farlo e mi piace il mio modo di pensare e criticare, mi sfogo e mi diverto. Chiudo questa parentesi politica per riprenderla più avanti. Voglio parlare di questo bellissimo paese dove sono nato e cresciuto, San Vincenzo. I miei ricordi più chiari partono da quando avevo appena sei anni. San Vincenzo era un piccolo paese di circa mille abitanti, compresi la vicina campagna e una frazione del comune di Campiglia Marittima: era una comunità fatta di povera gente, molti lavoravano in campagna, molti altri facevano i pescatori e una buona parte era costituita invece da barrocciai, categoria quest’ultima molto importante. Infatti con i loro mezzi riuscivano a far fronte i bisogni di allora nell’ambito dei trasporti,visto che non c’erano altri modi più pratici per viaggiare. Era una comunità composta inoltre da due barbieri, due calzolai che ci facevano le scarpe su misura, due fabbri i quali lavoravano in prevalenza per la campagna: essi assottigliavano con la forgia e il martello i vomeri che venivano poi fissati con dei bulloni all’aratro tirato da una coppia di buoi per arare i campi come oggi si fa con i trattori. C’era anche un maniscalco che ferrava i cavalli dei barrocciai, tre botteghe di generi alimentari che vendevano dalla pasta al carburo per l’acetilene e il petrolio che servivano per i nostri lumi di casa; c’erano anche due macellai ma non avevano molto lavoro visto che la nostra era una comunità di povera gente e il consumo di carne era molto limitato: gli alimenti base erano fagioli, patate, ceci, baccalà, stoccafisso, aringhe e tante sarde e acciughe portate a terra dai pescatori. Molte famiglie avevano un piccolo orto di una trentina di metri quadri; ai giorni d’oggi lo avrebbero usato come giardino con fiori e prato all’inglese, invece quello spazio veniva utilizzato per coltivare molte specie di verdure che erano un aiuto molto importante per una famiglia. Inoltre c’erano una piccola banca, un ufficio postale, un telefono pubblico, due cinema che proiettavano solo la domenica e un ufficio distaccato del comune di Campiglia Marittima con funzioni amministrative al servizio dei cittadini. San Vincenzo si estendeva a nord, fino al passaggio a livello della ferrovia e a sud fino al vecchio campo sportivo; c’era anche un mulino che macinava per tutta la campagna e forniva la farina alle nostre massaie ed era comune nella maggior parte delle famiglie fare il pane in casa e poi portarlo dopo al forno a cuocere. La comunità era molto povera, mancava anche lo stretto necessario per andare avanti ma quello che non mancava era una forte dignità, una grande solidarietà e rispetto reciproco; pesava però su di noi una miseria ingiusta perché tutti lavoravamo ma non venivamo mai retribuiti in modo da soddisfare le poche necessità quotidiane. La povertà era tale che mia madre mi lavava i pantaloni di solito la sera, quando andavamo a dormire, per farli asciugare al fuoco del camino in modo da poterli mettere il giorno dopo visto che non avevo il cambio. Ero solo un ragazzino ma provavo un forte disagio. Ricordo un particolare che risale a quando avevo nove o dieci anni: di fronte a dove risiedevo io, al di là della strada, abitava un certo Damini, anziano pensionato delle ferrovie,il quale aveva una casa indipendente, molto bellina. Questo Damini viveva con la moglie, non aveva figli, aveva parenti che abitavano a Milano e tutti gli anni un suo nipotino per le feste di Natale veniva a San Vincenzo con i suoi genitori. Questo ragazzino aveva la mia età e fu molto facile creare un rapporto di amicizia con lui così tutti i giorni eravamo a giocare insieme; si chiamava Piero ed era sempre vestito molto bene. Quello che mi colpì fu un cappottino scuro che indossava, perché a Natale faceva freddo anche da noi. Io un cappotto non lo avevo mai avuto e il freddo lo sentivo più di lui. A mia madre chiesi perché lui avesse il cappotto e io no e mia madre, che era una donna analfabeta ma molto intelligente, mi prese per mano e mi disse: “Vedi, Piero deve portare il cappotto perché se non lo avesse, con questo freddo, gli verrebbe la febbre e sarebbe costretto a stare a letto e non potrebbe venire a giocare con te, invece te sei un bel bimbo sano e il cappotto non ti serve”. Rimasi convinto al punto che mi dispiaceva per lui perché non si toglieva il cappotto nemmeno durante il gioco. Più tardi col passare degli anni capii il significato di quella risposta: non mi volle dire che eravamo poveri e il cappotto non poteva comprarlo perché mi avrebbe fatto sentire in uno stato di inferiorità; con quella risposta, nella sua ignoranza, riuscì a farmi sentire più fortunato di lui. Parlando dei grossi disagi con cui eravamo costretti a vivere, succedeva di arrivare alla fine del mese e non avere più una lira prima di riscuotere e quando mancava in casa l’olio e lo zucchero, non era una vergogna andare dalla vicina a chiedere in prestito una boccettina di olio e una tazza di zucchero; nessuno si scandalizzava, era una cosa reciproca che permetteva a tutti di arrivare in fondo al mese con meno disagi. Un poco meglio se la passava chi aveva meno figlioli; noi eravamo quattro ragazzi, ma nonostante avessimo due stanze nostre e non pagassimo l’affitto, i soldi non bastavano mai ed eravamo costretti a tante privazioni, anche dal punto di vista alimentare. In quella precaria situazione eravamo un po’ tutti, ma c’era una grande solidarietà e fiducia: quando mia madre usciva di casa, se la vicina era nell’ingresso, non toglieva la chiave dalla porta. Oggi quella miseria in generale non esiste più ed è bello che sia così ma abbiamo perso tanti valori, come la solidarietà, l’onestà, la tolleranza, il rispetto per la famiglia, ma una cosa è certa: la miseria la puoi sempre riprendere, ma tutti gli altri valori sono persi per sempre. Ho un punto preciso da dove cominciare a ricordare la mia infanzia, ovvero il mio primo giorno di scuola: indossavo un grembiule bianco molto lungo che mi arrivava sotto le ginocchia e mi dava fastidio e una borsa con una cinghia talmente lunga che mi arrivava ai piedi. Mia madre dovette farci un nodo a metà per farla su misura. Ricordo come un peso insopportabile la prima elementare specialmente: tutto l’anno scolastico a fare quadratini, lineette, puntini… un anno di noia. In seconda cominciarono a farci scrivere e prendere confidenza con i numeri e il terzo anno fu quello più difficile poiché cominciammo a fare dettati, problemi, pensierini, divisioni, moltiplicazioni: per me era molto dura e facevo sempre un sacco di errori. Io vivevo in una famiglia in cui mio padre e mia madre erano analfabeti, soltanto mia madre sapeva leggere un po’ meglio ma non bastava per potermi aiutare nei compiti a casa. Quando riportavo i compiti a scuola erano pieni di errori; questi risultati si ripetevano anche a scuola nonostante tutti i miei sforzi. Spesso il maestro mi chiamava alla lavagna a svolgere qualche problema ma io mi trovavo sempre in grosse difficoltà, scrivevo, poi cancellavo, non mi sentivo sicuro e facevo dei pasticci. A quel punto il maestro chiamava alla lavagna un altro alunno per correggere tutto quello che io avevo sbagliato, chiamava sempre il più bravo, un compagno di scuola che si chiamava Piero Corti e risolveva tutto con molta facilità. Il maestro mi diceva: “Hai visto come si fa? Impara!”. Quando il compagno andava a posto, mi dava un’occhiata come se si sentisse superiore. In quel momento mi sentivo molto offeso ma questo non avveniva perché lui era più intelligente di me, la differenza era fra la mia famiglia e la sua: lui era figlio del direttore della banca e fin dall’inizio della scuola i genitori gli aveva dato un grosso aiuto. Anche nei compiti a casa aveva sempre qualcuno che lo poteva correggere dove sbagliava, ma io con tutti e due i genitori analfabeti mi dovevo arrangiare sempre da solo fin dall’inizio della scuola. Quando il maestro mi diceva: “Visto come si fa? E impara!”, mi faceva violenza morale. Il maestro non riusciva a capire che la mia situazione familiare era culturalmente molto diversa da quella di Piero. Pur essendo un ragazzino di otto anni avvertivo questo disagio ma non mi arrendevo e cercavo con tutti i miei sforzi di migliorare. Ci riuscii in quinta quando divenni uno dei migliori e in italiano sicuramente il più bravo. Sono sempre stato un ragazzo orgoglioso e crescendo non ho mai avuto complessi, quindi ero un ragazzo sereno. Terminata la quinta elementare andai alla scuola di avviamento al lavoro a Rosignano Solvay, una scuola per figli di dipendenti della società. Feci il primo anno superando gli sesami con buoni risultati ma il secondo anno dovetti lasciare la scuola con molto rammarico perché mi piaceva molto frequentarla: facevamo officina e falegnameria. Era una scuola molto stimolante e io mi applicavo molto ma lasciai perché in casa mi dissero che non potevano spendere soldi per la scuola. Così a soli tredici anni mi imbarcai come mozzo su una barca da pesca; l’armatore era Arturo Federici, un uomo possente di statura che aveva navigato per decine di anni sui famosi bastimenti a vela, solcando gli oceani dall’Europa del sud al nord America fino in Asia e in Nuova Zelanda. Quando eravamo a pesca, nei momenti di attesa, dopo aver calato le reti in mare, ci raccontava di quei viaggi in cui aveva affrontato grosse tempeste o subito giorni di bonaccia che lo costringevano a stare fermo. A volte stava mesi senza toccare terra. Raccontava delle città americane, di grandi grattaceli che noi non sapevamo nemmeno immaginare. Io ero un ragazzo e lo ascoltavo affascinato; riusciva a coinvolgerci al punto che immaginavamo di essere anche noi a bordo di quei bastimenti, specie quando alzavamo la vela della nostra barca: avevamo barche di circa nove metri con una bella velatura. Avevamo la vela latina che tutti i marinai e i pescatori conoscono. A bordo della barca il lavoro era molto duro. Partivamo la sera due ore prima che calasse il sole per andare nella zona di pesca: se c’era vento andavamo a vela, se c’era bonaccia andavamo a remi a circa due miglia dalla costa, calavamo le reti per lungo poco prima che tramontasse il sole e stavamo in pesca fino a che non faceva scuro. Queste reti si chiamavano le manaide, ed erano fatte soltanto per la pesca delle sarde e dell’acciughe. Avevano una lunghezza di quattrocento metri, divisi in quattro, cioè quattro pezzi di cento metri, legati insieme l’uno sull’altro. Ognuno di questi era composto da quattro spigoni, cioè ogni venticinque metri era legata una gassa e ad ogni gassa veniva legato un segnale di sughero con la calama per stabilire se la rete doveva pescare a fondo oppure a metà. Era una rete che alzava dalla corda piombata alla parte superiore circa undici metri. La zona di pesca era quasi sempre dai venti ai venticinque metri di fondale: in una sola volta potevamo prendere o meglio catturare anche cinque o sei quintali di pesce. Nel tempo in cui smagliavamo il pesce dalla rete, venivano accese le luci che si trovavano a bordo di piccoli gozzi; una volta assommato il pesce sotto la luce, le manaide venivano calate in cerchio intorno al gozzo con la luce. Fatta questa operazione, il gozzo piano piano con i remi usciva dal cerchio facendo ammagliare il pesce che aveva assommato. Non tutte le notti potevamo fare un buon pescato, ma una media sempre di diversi quintali. Il lavoro continuava una volta a terra, fra consegnare il pescato e rimettere in ordine le reti che un giorno sì e uno no andavano messe ad asciugare stese sulla spiaggia: erano reti di cotone e per mantenerle in buono stato dovevamo fare loro questo trattamento e non finivamo mai prima di mezzogiorno, cosicché nel pomeriggio non rimanevano tante ore per andare a riposare. C’era anche un riposo forzato quando il mare agitato non ci consentiva di uscire a pescare. Arturo Federici, quando eravamo a pesca, oltre che parlare delle meravigliose avventure di quando navigava sui bastimenti, ci parlava anche di politica. Noi non sapevamo cosa fosse la politica ma riusciva molto bene a farci capire la differenza fra democrazia e totalitarismo: diceva che il fascismo a quei tempi, nel 1940, aveva il potere assoluto in Italia e in quel partito militava la peggiore faccia della società; ci diceva che lui era socialista ed io inizialmente non capivo cosa volesse dire e quale potesse essere la differenza tra fascismo e socialismo ma lui riuscì molto bene a spiegarcela. Arturo era un uomo straordinario che ha saputo trasmettere la sua idea socialista a me e agli altri giovani imbarcati con lui. Devo dirgli grazie per avermi fatto fare una scelta politica giusta che mi è servita nel corso della vita. Mi sono sempre sentito dalla parte legittima anche se la più debole e indifesa di questa società. Gli antifascisti di quegli anni in prevalenza erano lavoratori autonomi, cioè artigiani e commercianti, ma tutti dipendenti statali o di enti pubblici e fabbriche e quindi dovevano per forza iscriversi al partito fascista se volevano lavorare. Arturo non nascondeva anche in quel periodo il suo antifascismo, era un uomo libero, coraggioso, sempre coerente con le sue idee e credeva nella sua onestà anche sotto regime. Qualche volta usciva anche allo scoperto, ci voleva molto coraggio a farlo e lui ne aveva. Ricordo un sabato, il giorno della settimana che dovevamo andare all’adunata al campo sportivo a seguire le istruzioni come avanguardisti, giovani fascisti e Balilla perché “dovevamo essere il futuro dell’Italia Fascista”. Quel sabato sera non andai a pescare e Arturo pensò che mi fossi sentito poco bene. Il mattino seguente andai sul mare all’arrivo delle barche; Arturo mi vide e mi chiese perché la sera prima non mi fossi imbarcato e io gli risposi che ero andato all’adunata, visto che ero un Balilla ed era un obbligo presentarci al campo sportivo. Avevo fatto la notte precedente in mare e non essendo andato a dormire non me la sentivo di fare un’altra nottata in mare a pescare. Arturo mi disse: “Vieni con me!”, e andammo alla sede del fascio che si trovava in piazza della Vittoria davanti al monumento della guerra del quindici- diciotto. Mi prese per mano ed entrammo in questa sede che era una sola stanza. Dietro una specie di scrivania era seduto il segretario del fascio e ai lati tre o quattro fascisti; Arturo si rivolse al segretario chiamandolo per nome. Ricordo molto bene le parole che gli disse: “Questo ragazzo la sera deve venire in mare a lavoro e il giorno deve riposare e pertanto lui alle vostre adunate non ci può venire”. Il segretario si alzò di scatto in piedi e con voce alta gli disse: “Gli ordini li dò io Arturo!”. Arturo gli rispose: “Te gli ordini li dai ai tuoi scagnozzi e questo ragazzo all’adunata non ci può venire!”. A quel punto quegli scagnozzi, come li chiamò Arturo, si alzarono in piedi con aria minacciosa. Arturo mi scansò da una parte e afferrò una seggiola di quelle impagliate e disse a quei tre o quattro di mettersi a sedere se non si volevano creare problemi, e quel fisico che il mio amico si ritrovava certamente problemi li avrebbe creati. Il segretario rivolto ad Arturo lo esortò a stare calmo perché da parte loro non c’era nessuna intenzione cattiva. Arturo però lo avvertì che se avesse mandato qualche squadraccia da fuori a manganellarlo, avrebbe dovuto inviare tanti fascisti perché per picchiare uno come lui pochi non sarebbero bastati e che doveva preoccupasi perché dopo sarebbe andato a cercarlo. Io non andai più all’adunata e nessuno ha mai provato a toccare Arturo. Benché fossi un ragazzo, capii la forza materiale e morale di quell’uomo e la vigliaccheria di quei fascisti: sono episodi ed esempi che mi hanno aiutato a crescere bene. Il governo fascista con a capo Mussolini nella Seconda Guerra Mondiale si alleò con la Germania nazista di Hitler dichiarando guerra agli Inglesi che già combattevano contro i nazisti. La Germania aveva una potenza militare che le consentì in pochi mesi di occupare i paesi dell’Est e in seguito la Francia. L’Italia entrò in guerra con armamenti da rottamare: ricordo molto bene che dopo pochi mesi l’Italia non aveva più nemmeno il ferro, così cominciarono a segare tutte le ringhiere che erano sui muri di cinta delle case e degli edifici pubblici per permettere all’industria bellica di fabbricare le armi. Fu un segno poco incoraggiante ed il tempo dimostrò la triste realtà; un esercito di poveri disgraziati fu mandato al macello in Africa e nella campagna di Russia. Voglio raccontare un episodio che se anche modesto è significativo e che senza dubbio ci mostra quale era la salute di tutte le nostre forze armate; io non ho la presunzione di scrivere la storia, ma voglio soltanto raccontare i fatti che ho vissuto. Qui a San Vincenzo c’erano due caserme di soldati, una dove ora è piazza Mischi, l’altra in una vecchia casa contadina che ora si chiama la Conchiglia. Quest’ultima aveva in dotazione quattro o cinque cannoni nascosti fra i cespugli della macchia, puntati verso il mare e si vedevano molto bene dalle barche quando andavamo a pescare. Probabilmente erano residui della guerra del quindici-diciotto: erano cannoni con le ruote di legno, come i barrocci o i carri dei contadini. Una mattina provarono a fare un’esercitazione a diverse centinaia di metri dalla costa e mi ricordo che c’era un rimorchiatore che trainava un bersaglio su una zattera di legno. Le prime due cannonate che furono sparate per poco non colpirono il rimorchiatore. A quel punto il comandante del rimorchiatore mollò la sagola che trainava il bersaglio e a tutta forza si diresse verso Livorno. Il bersaglio venne ad arenarsi sulla spiaggia davanti a dove ora c’é piazza della Chimera. Il comando militare fece murare dei fondi di bottiglia rotte sopra la balaustra del viale Marconi e per di più le barche dei pescatori riempite di sabbia furono poste attraverso gli scali che avevano accesso al mare, strategia per fermare un eventuale sbarco del nemico. Potranno sembrare barzellette, ma è la verità perché io ne sono stato testimone. Il provvedimento che fu preso fu il razionamento di generi di prima necessità a partire dagli alimenti e così cominciò il periodo della “grande fame” fino al giorno della liberazione da parte degli alleati. L’Italia nel ‘43 era ormai sconfitta militarmente su tutti i fronti e semidistrutta da massicci bombardamenti. Il governo fascista di Mussolini cadde e fu costituito il governo Badoglio che dopo poco firmò l’armistizio con gli alleati, ma nel paese non c’era più un governo in grado di gestire una situazione d’emergenza e tutto andò allo sbando. L’esercito si sfece e i soldati che poterono se ne andarono a casa. Tutte le nostre navi da guerra fecero rotta su Gibilterra e si consegnarono agli Inglesi. Dopo la firma dell’armistizio pensammo tutti che la guerra fosse finita in Italia; nel frattempo gli Americani erano sbarcati in Sicilia e poi ad Anzio. Sembrava fatta invece i Tedeschi invasero il nostro paese non trovando nessuna resistenza, visto che non avevamo più un esercito. Per loro fu una passeggiata: tennero testa alle forze alleate bloccandole per molti mesi a Cassino; gli alleati intensificarono i bombardamenti su tutti gli obbiettivi strategici cioè fabbriche, porti, ponti e stazioni; i bombardamenti vennero fatti a tappeto con centinaia di fortezze volanti e colpirono abitazioni civili causando centinaia e centinaia di morti. I più colpiti furono il porto di Livorno, le zone industriali, gli edifici pubblici e le acciaierie di Piombino. Dalle città i civili furono costretti a sfollare, chi in campagna, chi in piccoli paesi, lontani dagli obiettivi più facili da colpire. Io con la mia famiglia sfollammo in campagna dopo un piccolo bombardamento notturno a San Vincenzo che non causò molti danni. Andammo in località i Pianali: c’erano tre case di contadini e una collinetta circondata dalla macchia. Noi ci adattammo in una stanza: una tenda fatta di vecchie lenzuola separava la parte dove si dormiva dalla parte dove si cucinava, ma quest’ultima veniva poco usata perché molte volte non avevamo niente da mangiare. Fra sfollati e contadini non c’era molta solidarietà: i contadini non volevano mandarci via ma certamente eravamo un fastidio per loro. Noi non avevamo niente e loro non facevano nulla per aiutarci, specialmente dal punto di vista alimentare: loro avevano tutto, non gli mancava nulla a differenza di noi che dovevamo sopravvivere con quel poco che si poteva con la tessera annonaria. Tutto era razionato, quello che ci davano con i bollini poteva bastare a malapena a due persone e noi eravamo in cinque. In seguito nemmeno le tessere servivano più perché in paese non restò più nessuno; i forni non facevano più nemmeno il pane che era l’alimento base, non riuscivamo nemmeno a mangiare due etti a testa. Voglio raccontare un capitolo legato alla grande fame prima che sfollassimo da San Vincenzo. Quando il nostro esercito di disgraziati era sempre in servizio, i soldati occuparono come caserma la vecchia fattoria, una casa che dopo l’ultima ristrutturazione è stata trasformata in biblioteca comunale e sala consiliare. Questa casa era di proprietà dei conti Della Gherardesca e il comando militare l’adibì a caserma con delle camerate. I soldati erano una cinquantina e la cucina era stata costruita all’esterno della caserma: era una struttura fatta di lamiere posta in lato del piazzale, di fronte alla casa. Io e un altro ragazzo della mia età, che si chiamava Capraino, facemmo amicizia con i soldati addetti alla cucina e ci accordammo con loro per pulire e lavare dopo la distribuzione del rancio tutte le marmitte,la cui forma rettangolare faceva in modo che rimanesse sempre sul fondo un po’ di minestra sufficiente a togliere la fame a tutti e due; quando il rancio era la pastasciutta una porzione la davano anche a noi. Erano uomini che capivano la nostra fame e qualche volta ci davano qualche pagnotta da portare a casa. Così ogni mattina io e il Capraino uscivamo con il cucchiaio in tasca; questo durò fino a quando i nostri soldati andarono tutti a casa con il disfacimento del nostro esercito. Ho un altro ricordo della grande fame in tempo dello sfollamento. Un giorno andai alla macchia a tendere le tagliole con le quali si prendevano varie specie di uccelli fra i quali merli, tordi, pettirossi per cambiarli con pane e farina. Finito di tendere le tagliole, avvertii un languore allo stomaco e una fame terribile: accanto a me c’era un albero carico di frutti e ne mangiai alcuni per alleviare la fame. Poco dopo cominciai a sudare nonostante fosse molto freddo, le forze cominciarono ad andare via, dentro di me crebbe la convinzione di stare per morire e mi rassegnai a questo triste destino; mi sdraiai allora sopra a delle foglie e probabilmente svenni. Dopo non so quanto tempo mi ripresi: mi sentivo in uno stato confusionale, non riuscivo a capire dove mi trovavo ma nel frattempo arrivò mio fratello che aveva seguito le tagliole che avevo teso. Mi disse che era più di un’ora che mi cercava, che mi aveva chiamato per tutto questo tempo senza ricevere risposta. Gli risposi che io ero morto e poi ero “rinvivito” e lui, prendendomi in giro, mi rispose: “Non è che sei “rinvivito”, te sei rincretinito!”. Dentro di me però mi dissi che se morire era uguale alla sensazione che avevo provato io in quell’esperienza, allora la morte non mi faceva più paura. Voglio raccontare anche questo episodio legato alla fame: ricordo che eravamo nel mese di giugno, il mese in cui i contadini raccoglievano il grano nei campi e lo tagliavano con la falce, a mano. Quando avevano finito il loro lavoro io e i miei fratelli andavamo nei campi a spigolare, cioè a recuperare quel poco che rimaneva. In un paio di giorni avevamo ripulito spighe e recuperato dodici chili di grano, ma il problema era come macinarlo. Ci dissero che a Campiglia c’era un mulino che macinava anche piccole quantità di grano o granturco. Mia madre mise questo grano in un sacco fatto da lei con un vecchio lenzuolo e mi chiese di andare al mulino a farlo macinare. Dai Pianali, dove eravamo sfollati, a Campiglia erano circa dieci chilometri, di cui metà da percorrere per una strada attraverso la macchia per arrivare a San Carlo e altrettanti per arrivare a Campiglia. Una volta arrivato al paese mi fu facile trovare questo mulino perché era poco distante. Arrivato al mulino trovai una fila di persone che come me avevano piccoli sacchetti di grano di quindici o venti chili; vidi che c’era un militare con un moschetto, allora chiesi il perché di quella presenza e mi dissero che era un repubblichino e stava là per il servizio d’ordine. Quando venne il mio turno, entrai con il mio sacchetto di grano di dodici chili, il mugnaio controllò l’esattezza del peso, dopo di che versò il mio grano in un recipiente. Quando travasò la farina dentro il mio sacco notai che la quantità che mi aveva dato era però solo di otto chili. Gli feci notare che i kg portati di grano erano dodici e quindi mi spettava altra farina, però il mugnaio mi disse che tolta la crusca e il costo della macinatura quello era ciò che mi spettava. Ribattei che volevo anche la semola e la macinatura l’avrei pagata, allora lui mi prese a spinte e mi cacciò fuori; io mi sentii truffato perché quattro chili di farina in meno per me volevano dire tanto. Scosso per l’accaduto mi misi a sedere su di un muricciolo davanti al mulino: ero un ragazzo, non mi potevo difendere da quell’abuso e mi misi a piangere sommessamente. In quel momento si avvicinò quel militare e mi chiese: “Ragazzino, che cosa ti hanno fatto? Perché piangi?”. Io gli spiegai cosa era successo, allora il soldato mi prese per mano e mi condusse nuovamente dentro al mulino; poi chiese al mugnaio come mai con dodici chili di grano mi aveva dato solo otto chili di farina e questi ripeté più o meno le stesse cose che aveva detto a me. Il soldato prese per il petto il mugnaio, lo avvicinò ad sacco di farina e lo obbligò a versarla nel mio sacco e lo fece continuare fino a metterne una ventina di chili. Si assicurò inoltre che ce la facessi a portarla a casa, mi aiutò a mettere il sacco in spalla e mi disse di andare. Seppi in seguito che il proprietario del mulino si chiamava Zannoni. Forse quest’esempio che voglio raccontare spiegherà meglio come noi italiani non eravamo preparati per entrare in guerra. Era un giorno del ’42, mi sembra il giorno dell’ascensione; udimmo colpi di cannone che venivano dal mare e salimmo sulla piana, una collinetta sopra San Vincenzo per vedere e capire meglio che cosa succedeva. Vedemmo un vapore a circa un miglio o poco più dalla costa, a sud di Marina di Donoratico e un sommergibile in superficie al largo del vapore che cannoneggiava la nave. Le prime cannonate furono di avvertimento in modo che l’equipaggio abbandonasse la nave, infatti non ci fu nessun morto. In seguito il sommergibile continuò sparare altre cannonate, poi lanciò tre siluri e due colpirono in pieno la nave e quello che non la colpì si arenò sulla spiaggia vicino alla villa del conte Gaddo della Gherardesca: il vapore si chiamava Pianona. Quando il vapore andò a fondo, il sommergibile, con tutta calma, si immerse e dopo circa mezz’ora vedemmo un piccolo aereo che fece due giri sul punto dell’incidente e se ne andò. Questa era la forza di difesa che avevamo. Poco tempo dopo un altro vapore fu affondato probabilmente dallo stesso sommergibile. Dalla spiaggia, dove tenevamo le barche da pesca, vedemmo una colonna di fumo a circa cinque miglia dalla costa; pensammo subito ad un altro incidente e con le barche ci dirigemmo verso il luogo della disgrazia, pensando subito al peggio. Si presentò una scena drammatica: il vapore stava affondando e i marinai erano aggrappati ai boccaporti, tutti unti e anneriti dalla nafta. Era un equipaggio di una decina di uomini; ci fu un solo morto che fu portato a terra dalla barca di Alessandro Federici, la barca si chiamava Delia. Fu issata la bandiera a mezz’asta per indicare morto a bordo. Il vapore andato a fondo si chiamava Capacital e tutti e due trasportavano carbone. Anche in tempi burrascosi come quelli andavamo la notte a pescare, con delle luci subacquee alimentate da batterie elettriche per assommare il pesce e venivano calate a circa un paio di metri sotto l’acqua per non essere viste dato che c’era l’oscuramento, ma non serviva a nulla perché dall’alto si potevano vedere molto bene. Ricordo una notte durante la quale gli aerei che andavano a bombardare Piombino passarono sopra di noi. Una notte si sentì un caccia venire in picchiata dritto su di noi, con quel rumore inconfondibile: ci eravamo preparati al peggio ma l’aereo passò a poche decine di metri sopra le nostre teste senza però sparare un colpo di mitraglia; sicuramente videro che eravamo dei poveri pescatori e ci lasciarono fare il nostro lavoro. Quando li sentivamo eravamo tranquilli. Noi pescatori in quei giorni eravamo una risorsa per la nostra comunità perché gli alimenti che la popolazione otteneva con le tessere annonarie erano da fame. Le donne la mattina venivano sulla spiaggia ad aspettare che arrivassimo per acquistare le sarde e le acciughe: con il pesce che costava pochi soldi si riusciva in parte ad alleviare la grande fame. Non tutte le notti il pescato era abbondante e noi, indipendentemente dal guadagno, eravamo tristi, invece quando al mattino sbarcavamo quintali di sarde ci sentivamo gratificati come se avessimo fatto un’opera buona. Quando andavamo a casa la colazione per me e i miei fratelli consisteva in sarde arrostite sul carbone: era per noi un alimento base. Da quanto pesce azzurro mangiavo pensavo che un giorno o l’altro mi sarebbero spuntate le pinne. Nel 1943 uno zatterone da sbarco tedesco, che navigava sottocosta, fu spinto sulla spiaggia durante una mareggiata di libeccio da non consentirgli di riprendere il mare; rimase arenato a circa duecento metri dalla battigia, era carico di farina e munizioni. Per portare a terra questo materiale occorrevano due barche perché lo zatterone era a due chilometri a nord di San Vincenzo e su una delle barche requisite c’era un equipaggio di due persone, io e il capo barca che si chiamava Benvenuti Romolo. Accettammo solo perché non potevamo fare altrimenti, sarebbe stato molto pericoloso rifiutare. A bordo dello zatterone i tedeschi avevano quattro soldati italiani prigionieri. La sera dovevamo rientrare a casa a San Vincenzo con la barca; i prigionieri ci pregavano di farli salire a bordo per venire via con noi. Decidemmo di aiutarli evitando di essere visti dai Tedeschi. Riuscimmo, due per barca, a portarli via, non pensando troppo al pericolo che correvamo, anche per l’incoscienza della nostra età. Per quei giovani fu la libertà. L’unico vantaggio che noi avemmo fu quello di avere rimediato due sacchi di farina di un quintale l’uno: era una farina dura, forse segale non tanto adatta per fare il pane perché non riuscivamo a cuocerlo bene, ma con la fame era buono anche quello. Una grande fregatura invece ce la dette un nostro conoscente che parlava il tedesco e faceva l’interprete. Il comandante tedesco lo considerava il responsabile di tutti quelli che lavoravano a terra: eravamo circa una decina di ragazzi addetti a trasferire il materiale dalla spiaggia alla strada. Gli accordi prevedevano che il comandante ci avrebbe pagato per il lavoro svolto. I soldi per tutti noi, una volta finito il lavoro, furono dati a Silvano, così si chiamava il nostro interprete, ma egli sparì con i compensi di tutti. Seppi che era emigrato in Messico; lo rividi alla fine della guerra, negli anni cinquanta. Gli ricordai di come si era comportato e mi disse che i soldi non li aveva mai avuti. Dopo tanti anni ormai la cosa non aveva più senso ma volli dirgli almeno che si era comportato da persona poco seria. Io sono un uomo che ha vissuto in un periodo storico in cui la verità non è mai stata detta per molti motivi. Dopo la firma dell’armistizio con gli alleati da parte del governo Badoglio, con la caduta del fascismo prima e l’invasione tedesca poi, eravamo un popolo allo sbando. I vecchi gerarchi con Mussolini formarono la Repubblica di Salò, il nome della città dove nacque. Questa costringeva i giovani ad arruolarsi per combattere al fianco dei vecchi alleati nazisti; non furono tanti a aderire nonostante i fascisti avessero messo sanzioni molto pesanti per chi non si presentava come per Pertini, Longo, Paletta, Terracini e molti altri e altri uomini di centro come Taviani, Zaccagnini, uomini che poi formarono la resistenza, organizzando formazioni partigiane. Gli antifascisti di allora erano persone coraggiose e subirono anni di carcere e di confine, condanne inflitte dal tribunale speciale fascista. Il presidente di questo famigerato tribunale si chiamava Trincali, era nativo di Castagneto Calducci. Nonostante tutte le sofferenze, gli antifascisti non si piegavano mai, certi di essere dalla parte giusta; le formazioni più grosse di partigiani operavano al nord e al centro, combatterono i nazisti e i fascisti con grande coraggio e in nome della libertà. Molte città importanti furono liberate dai partigiani prima che arrivassero le truppe alleate con un costo pesante di morti, ma ne valse la pena. Con la Resistenza fu ridata all’Italia quella dignità che il fascismo le aveva tolto. Finita la guerra si formò il comitato di liberazione, formato da tutte le forze antifasciste e furono indette le elezioni democratiche per costituire un governo. La lotta fu tra la sinistra, cioè i comunisti e i socialisti insieme, e nell’altro schieramento il centro, con i democristiani e altri piccoli partiti. Con le votazioni, la maggioranza andò alla Democrazia Cristiana; fu creato all’inizio un governo d’unità nazionale ma poco dopo una coalizione fra D.C., Liberali Monarchici e altre piccole forze,rappresentando la maggioranza assoluta, pose fine ad ogni intesa con le forze di sinistra. I governi democristiani che poi si sono succeduti fino a poco tempo fa hanno sempre impedito di fare capire ai giovani che cosa veramente fosse stata la guerra di liberazione. Nelle scuole questa pagina di storia, ovvero l’importanza della nascita della Resistenza non è stata materia di studio e d’approfondimento: fu un movimento spontaneo di giovani, donne e perfino ragazzi che combatterono per la democrazia, la libertà, la giustizia sociale. Con il passare dei primi anni però, per interessi politici dei governi in carica, cioè i democristiani, tutti questi ideali al popolo furono negati in nome dell’anticomunismo, dal momento che le formazioni partigiane in prevalenza erano di ispirazione di sinistra e questo dava fastidio sia alla classe dirigente, governativa che americana; fino ad oggi ne hanno voluto parlare il meno possibile e quando lo hanno fatto è stato con molte riserve. Nei primi anni successivi del dopo guerra se un cittadino era considerato di sinistra difficilmente poteva avere un posto di lavoro nella pubblica amministrazione. Un altro aspetto molto importante che i giovani e meno giovani non sanno, ma va detto per giustizia storica, è che tutti i prefetti che amministravano nel periodo fascista continuarono ad occupare quelle cariche senza essere rimossi, il che sarebbe stato importantissimo per la nostra democrazia; questo è successo anche nelle sfere dell’esercito e nei commissariati dato che sono rimaste persone che hanno continuato a gestire quel potere con la mentalità fascista. Fu creato un corpo di polizia chiamato Celere, pronto sempre a scatenarsi contro gli operai in sciopero con la tipica violenza fascista ed era addestrato solo a manganellare coloro che scendevano in piazza per chiedere i loro diritti. Il ministro degli interni era Scelba, democristiano, un uomo per il quale la violenza era pane quotidiano. Furono istituiti altri apparati, come i Servizi Segreti che cominciarono a lavorare subito contro la democrazia, depistando sulle stragi avvenute nel nostro paese pur di tenere la sinistra fuori dal governo. I governi di allora hanno fatto le peggiori cose che si può immaginare: intrecci fra politica e mafia, investimenti politici in opere inutili, complicità nell’abusivismo edilizio…, tutto questo per mantenersi un elettorato, anche quello manovrato dalla mafia. Questa politica era gestita dai potenti di allora, governi amministrati dai bei nomi, dal C.A.F., cioè Craxi, Andreotti, Forlani ed altri loro collaboratori che si credevano intoccabili ma che poi, inevitabilmente, si sono autodistrutti: erano così ingordi che tutto quello che rubavano non gli bastava mai, portando il paese ad un debito pubblico spaventoso, hanno rubato in tutti i settori dell’amministrazione pubblica, perfino nella sanità con De Lorenzo e Poggiolini, quest’ultimo un burocrate. Si sentivano al di sopra di tutto e hanno saccheggiato lo Stato come piaceva a loro, in maniera indecente. Sono stati spazzati via da “mani pulite”, un piccolo gruppo di magistrati della procura di Milano, attraverso avvisi di garanzia inviati a loro e ai potenti della politica che avevano governato il paese per cinquant’anni per una serie di gravissimi reati. Molti di loro sono stati condannati ma tutt’oggi, come al solito, i potenti, anche se ladri, in galera non vanno mai. Mi ricordo che quando si trovavano davanti ai magistrati facevano pena, erano dei poveri agnellini spauriti; mentre i magistrati contestavano loro i reati che avevano commesso, non mostravano alcuna dignità, uno su tutti Craxi, che non ebbe il coraggio di affrontare le sue responsabilità e fuggì in Tunisia come latitante. Una cosa mi ha stupito di questo personaggio: era un grande simpatizzante e ammiratore di Giuseppe Garibaldi, ma Garibaldi è stato un eroe, un combattente, un coraggioso, un esempio di uomo vero, Craxi invece dalla storia di Garibaldi non ha imparato nulla. Voglio ripartire dal giorno che fummo liberati dagli alleati e finì la guerra con le armi ma cominciò un’altra guerra, quella della ricostruzione. Il paese era quasi distrutto e per avere un minimo di ritorno ad una vita normale dovevamo metterci subito al lavoro, non avevamo più alcuna risorsa, eccetto le braccia. Una grande emigrazione di mano d’opera ci fu dal sud dell’Italia verso il nord. Furono ricostruite le grandi fabbriche, le più importanti, per avere un inizio di sviluppo economico. La maggior parte di mano d’opera che arrivava dal sud venne impiegata nell’edilizia e ci fu una ripresa molto rapida tanto da chiamarlo il miracolo economico. Tanti giovani non sanno che quel miracolo italiano, durato fino alla metà degli anni sessanta, fu raggiunto sulla pelle degli operai pagati sotto costo. Alla maggior parte di loro non venivano versati i contributi, tutto lavoro nero e i sindacati non erano ancora organizzati: non avevano tutti gli strumenti per poter tutelare gli interessi degli operai, non esistevano leggi e regole, l’unico strumento era lo sciopero, ogni imprenditore si gestiva come pareva a lui, ma quando gli operai si organizzarono e diventarono una grande forza sindacale in grado di far valere i loro diritti, il miracolo economico finì e finì in parte lo sfruttamento di tutti quegli operai che lavoravano come schiavi. La regola che usavano gli imprenditori era così o altrimenti a casa. Dopo il passaggio del fronte e l’arrivo degli alleati rientrammo tutti alle nostre case. San Vincenzo non aveva subito grandi danni dalla guerra. Io con la mia famiglia fummo fra i primi a rientrare dallo sfollamento. Voglio parlare ancora della mia storia personale: avevo diciassette anni, dovevo scoprire tutto a partire dal sesso. Fui subito fortunato, di fronte alla mia abitazione, di là dalla strada, abitava un certo Cardini Natalino che affittò una camera ad un ufficiale americano perché il fronte alleato era già a Rosignano. In questa camera viveva con una prostituta: se la portava dietro man mano che avanzava il fronte. Era una bella donna, di giorno era sempre sola perché l’ufficiale andava in servizio; lei si sedeva sugli scalini di casa ed io la guardavo, la consumavo con gli occhi. Ero solo un ragazzo e mi avvicinai a lei con tutta la mia timidezza, poi fu lei a parlarmi, mi chiese come mi chiamavo mi domandò se fumavo ed io risposi di sì, allora mi disse: “Vieni, ti voglio regalare un pacchetto di sigarette”. Era un invito a salire in camera. Lei indossava tutti i giorni una sottana rosa trasparente, eravamo ad Agosto, faceva caldo; mentre saliva le scale davanti a me sentivo il desiderio di toccarla, mi battevano così forte le tempie che credevo mi scoppiassero. Giunti in camera si adagiò sul letto, mi prese una mano e mi tirò a sé, mi dette subito un bacio in bocca, io non credevo si potesse baciare in quel modo, poi mi tolse i pantaloni ed ebbi quel meraviglioso rapporto, mi tenne circa quattro ore in camera e non finivamo mai di fare l’amore. Fu la più bella esperienza della mia vita: questo rapporto durò altri tre giorni, poi l’ufficiale dovette seguire il fronte e partirono. Era da Roma che se la portava appresso, era una prostituta che con lui lo faceva per soldi, io da quel giorno ho avuto un gran rispetto per quelle donne. Poco dopo riaprirono le case di tolleranza e per noi giovani erano veramente case del piacere. A quel tempo non era facile avere rapporti sessuali, prevaleva sempre la cultura della verginità fino al matrimonio. A San Vincenzo, dalla fine della guerra, in estate cominciò ad esserci il turismo di massa: sempre in proporzione agli abitanti, i proprietari accettarono di dividere la propria abitazione con dei villeggianti che spendevano pochi soldi e potevano godersi il mare. Noi approfittavamo dell’estate per andare a caccia di ragazze con le quali a volte arrivavi a fine stagione senza combinare nulla, risolvendosi solo con baci e poco più. La situazione cambiò quando un amico mio che si chiamava Benvenuti Remo, di soprannome conte Guicciardini, di diversi anni più grande di me, mi dette un consiglio: “invece di corteggiare quelle ragazzine di diciotto anni, corteggia le mamme, quelle spose che hanno una quarantina di anni e i risultati, vedrai vengono!”. Aveva ragione! Rientrati dallo sfollamento, non c’era lavoro. Io lavoravo per gli Americani, stivavo del materiale in grandi depositi; erano quantità enormi di tutto, dalle scatolette alle munizioni. Il materiale serviva ai soldati al fronte, le casse che contenevano munizioni venivano stivate nei campi dei contadini in piccoli depositi separati da decine di metri gli uni dagli altri. Era un continuo scaricare e caricare, facevamo i turni di notte. La prima cosa appena arrivarono gli alleati che cercai di prendermi, naturalmente dopo il cibo, perché la fame era stata quella che più si era sofferto, fu un paio di scarpe: erano un paio d’anni che camminavo con degli zoccoli con il fondo in legno e una tomaia ricavata da un paio di vecchie scarpe inchiodate a quegli zoccoli e se volevi correre dovevi toglierli. Una volta procurate un paio di scarpe, appena calzate mi misi a correre come un pazzo, provai dopo tanto tempo la sensazione di volare. Passato il fronte, dopo qualche mese cominciammo a rimettere in ordine le barche da pesca. Avevo diciotto anni e mi imbarcai di nuovo a bordo della barca di Arturo Federici dove da ragazzo avevo fatto il mozzo. Dopo circa un anno, Arturo decise di lasciare la vita del mare, avendo raggiunto l’età pensionabile, per fare il magazziniere del pesce nella cooperativa pescatori. Mi disse che la vita del mare alla sua età era troppo dura e mi chiese di prendere il comando della barca: eravamo quattro marinai di equipaggio o cinque quando andavamo a pesca con la luce. Gli risposi che era una responsabilità grossa ma egli aggiunse che ormai mi conosceva e potevo farcela tranquillamente! Fu gratificante sentirmelo dire da un vecchio marinaio e pescatore come lui che conosceva davvero il mare. Da pescatore a marinaio c’è molta differenza: quando pescavamo a quei tempi a San Vincenzo bisognava essere l’uno e l’altro, il porto ancora non esisteva e molte volte ti trovavi ad affrontare il mare agitato. Essere marinaio voleva dire saper gestire bene la barca in quelle situazioni e arrivare a terra senza danni, nonostante avessimo a bordo un motore Fiat 501 a benzina: era un motore che veniva montato sulle vetture di allora ma con il vento e il mare agitato ci serviva a poco, potevi fidarti solo della vela. Ricordo la prima volta che da capitano della barca, mi trovai coinvolto, a circa un miglio dalla costa, da una tramontana: questo è uno dei peggiori venti che puoi affrontare con la vela perché non è un vento teso che soffia con la stessa intensità ma soffia a raffiche che possono rovesciarti o troncare da un momento all’altro l’albero di barche come la nostra. Avendo avuto un maestro come Arturo, avevo imparato molto bene come gestire quelle situazioni; in quel caso feci fare subito i terzaroli che sono stramazzoli lunghi circa cinquanta centimetri, cuciti a mezza vela in parallelo da una parte e dall’altra. Questi stramazzoli, che venivano chiamati in gergo marinaro “mataffione”, in quei casi servivano, legati all’antenna, a ridurre la vela a metà, per poter così governare la barca con più sicurezza e al timone dovevi stare sempre molto attento se eri investito da una raffica di vento molto forte ,in modo da manovrare la barca per alleggerire la pressione del vento sulla vela. Io oggi ho settantaquattro anni, ma posso dire che noi ragazzi di allora, a differenza di oggi, si diventava uomini molto prima, eravamo più ignoranti di sicuro, non ci potevamo permettere di frequentare scuole superiori, ma c’erano anziani che per noi sono stati maestri di vita, molte cose che a noi ci hanno insegnato, a scuola non le avremmo imparate mai. Capisco che oggi, in questa società in cui viviamo, la scuola e l’istruzione sono determinanti per stare al passo con tutti i sistemi tecnologici con i quali una società cresce e va avanti e ti devi adeguare a questo sistema o sei tagliato fuori, ma io sono abbastanza pessimista, non so se col passare degli anni questa tecnologia potrà rendere più vivibile la vita di ognuno di noi. La stagione della pesca la facevamo da marzo fino a novembre, nei mesi d’inverno dovevamo arrangiarci con altre attività, fra le tante c’era quella di andare a pesca di frodo con le bombe: il materiale era molto facile da procurarsi, dal Delfino fino a torre nuova i tedeschi avevano depositato lungo la spiaggia mine anticarro e antiuomo. Finita la guerra vennero gli artificieri a bonificare la spiaggia da questi ordigni, che erano cassette con all’interno saponette di tritolo. Gli artificieri, una volta disinnescata la mina, mettevano il tritolo dentro una cassa di legno, con gli addetti ai lavori e in cambio di pesce potevamo prendere tritolo quanto ci pareva, così io e un altro ragazzo della mia età costruivamo delle vere bombe. Per rendere attiva ogni saponetta occorreva l’innesco, cioè capole e miccia. Questo materiale si poteva avere allo stesso modo, in cambio di pesce, da operai che facevano i minatori in una cava di pietra. Per rendere operativa la bomba, con il trapano facevamo un foro nella saponetta di tritolo, fori grandi quanto era lo spessore della capsula; una volta inserita nel suo foro, mettevamo la miccia con un centimetro fuori dalla capsula, in modo di poterla accendere. Prima di esplodere i tempi erano molto corti, calcolati in secondi, noi calcolavamo circa dieci secondi perché i tempi erano calcolati dalla lunghezza della miccia. Il mare a quei tempi era molto ricco di pesce, in prevalenza davamo la caccia alle spigole e alle mormore ma più facile era trovare grossi sciami di muggini; potevamo catturare con un tiro cinquanta e più chili di pesce. Era un lavoro molto pericoloso, se qualcosa non funzionava o se lanciavi la bomba un po’ in ritardo, potevi rimanere mutilato alle braccia o addirittura anche peggio. Il mio amico e collega di pesca era Guaredini Vasco, detto Nerbino. Quando il mare era mosso e non ci consentiva di fare questo tipo di pesca, per coprire questi spazi di tempo mi ero inventato un altro lavoro. Corrado Gingerini aveva un magazzino all’ingrosso di frutta e verdura, io acquistavo una trentina di chili di limoni e messi in un sacco andavo ai mercati dei paesi vicini a venderli con un sistema molto semplice. Mi spostavo con il pullman oppure con il treno, una volta in mercato appoggiavo il sacco al banco di qualche amico, poi riempivo una piccola cassetta da frutta di una trentina di limoni e con la cassetta in braccio giravo dentro il mercato all’aperto e offrivo alle massaie quattro limoni a cento lire. Riuscivo a venderli tutti anche se al mercato c’erano bei banchi di frutta e verdure; ero molto giovane, quasi un ragazzo e queste mamme capivano che avevo certamente bisogno di guadagnare qualche soldo. Io, tolte le spese, riuscivo a guadagnare una piccola giornata e a me bastava. Cessai l’attività di bombardiere quando fui chiamato a fare il servizio militare. Possedevo il foglio di ricogiuzione, un documento rilasciato dalla capitaneria di porto alla gente di mare, obbligatorio per andare a pescare. Ma in marina nel 1948 la leva era di vent’otto mesi, e dal momento che mi sembravano tanti, feci domanda per passare nell’esercito, dove la leva era di undici mesi. Non ci fu nessuna difficoltà e fui trasferito alla leva di terra; fui mandato a Monto rio Veronese al C.A.R. ,cioè al centro addestramento reclute che durava quaranta giorni, poi fui trasferito a Trento insieme con altre reclute. Era una caserma dell’autocentro ove noi dovevamo prendere la patente di guida diesel e a benzina. Questi undici mesi mi passarono abbastanza bene: presa la patente fui trasferito a Firenze al Castello Belvedere che nel 1949 era adibito a caserma. Appena arrivato al reparto avvertì subito un clima di intimidazione da parte di chi comandava: ci proibirono di frequentare i circoli culturali dell’ A.R.C.I. ritenuti troppo di sinistra, invece avevamo tutta la libertà per frequentare quelli dell’A.C.L.I. Capì subito che la guerra di liberazione non era bastata per conquistare la strada della democrazia, purtroppo ancora oggi incompiuta: nelle forze armate si respirava un clima fascista, non furono rinnovate le vecchie cariche delle forze armate,le quali facevano il gioco dei governi in carica, cioè l’anticomunismo e inoltre non potevamo portare il giornale “l’Unità” in caserma. Noi eravamo un reparto di cinquanta soldati fra i quali ragazzi che avevano fatto la guerra partigiana, alcuni avevano segni di ferite riportate in scontri a fuoco contro i fascisti,perciò fui fortunato a trovarmi con loro poiché i superiori mantenevano una certa prudenza nell’applicare alcune direttive fasciste; sapevano bene chi erano e con loro il giornale “l’Unità” circolava liberamente in caserma. Voglio raccontare un particolare che poi è molto significativo. Eravamo in caserma a Trento e una sera ci venne dato in dotazione tutto un equipaggiamento da guerra; noi rimanemmo un po’ sorpresi, ma poi al mattino fu tutto chiaro. Fu fatta un’adunata di tutti i soldati: erano i giorni in cui il governo italiano si apprestava a firmare con gli alleati il patto Atlantico. Da un piccolo palco prese la parola il comandante della caserma, le prime parole furono che noi come soldati dovevamo rispettare le leggi che regolano l’esercito e quindi la nostra bandiera era quella italiana e non quella di partiti; poi entrò nel vivo del discorso e disse che il governo italiano si apprestava a firmare un patto militare con i paesi occidentali e in Italia c’erano forze contrarie a questa scelta. Nelle piazze c’erano manifestazioni che creavano disordini e che le nostre autorità non potevano tollerare. Aggiunse: “Ripeto, la nostra bandiera è quella italiana e perché queste manifestazioni non creino troppi problemi è nostro dovere intervenire per riportare la calma nel paese. Capisco che è doloroso dirlo ma è possibile essere costretti a sparare anche sui nostri cittadini”. A quel punto la reazione fu immediata e partì proprio da quei ragazzi che avevano combattuto nelle formazioni partigiane. Dalle file cominciarono a gettare elmetti e munizioni sul piazzale e dopo loro lo facemmo in tanti. A quel punto capirono che i ragazzi di leva non ci sarebbero stati. Il giorno seguente ci ritirarono tutto quel materiale dato in dotazione, poi ci furono dei tentativi per alcuni di noi di mandarci alla compagnia di disciplina che mi pare si trovasse a Lecce, ma non ne fecero di niente perché furono informate tutte le Federazioni Partigiane. Io dal punto di vista religioso sono ateo pur essendo stato battezzato e avendo fatto la prima comunione, sono ateo non perché abbia avuto forzature fin da ragazzino da parte della famiglia, è stata una scelta mia, crescendo mi sono convinto che oltre la morte non c’è nulla, sono un materialista, ho le mie convinzioni giuste o sbagliate, dipende dai punti di vista. Non voglio scendere in dettagli, ho molto rispetto per chi crede in Dio, io mi sento autosufficiente, non ho bisogno di pregare nessuno, quando ho bisogno di una risposta ai tanti problemi che durante una vita capitano, li ho sempre risolti col mio coraggio, la mia forza e soprattutto con la mia intelligenza e non credo in nessuna divinità. Parlando dei miei genitori con queste poche righe che scrivo di loro è come se scrivessi cento pagine per dire chi erano e cosa sono stati. I miei genitori erano due persone che hanno fatto sentire a noi figlioli tutto l’amore e il calore umano che soltanto la povera gente sa dare; erano analfabeti, ma con la loro esperienza di vita hanno saputo trasmettere a noi figlioli fin da piccoli regole e comportamenti che sono state le basi per farci crescere sicuri di noi, senza complessi, con onestà, serietà, e coerenza. Tutto questo mi è servito per crearmi una bella famiglia. Dopo essermi sposato, lasciai tutti quei lavori saltuari e andai a lavoro nella falegnameria Pacchini. Lavorai come dipendente circa cinque anni, poi mi sono messo in proprio a fare il verniciatore e restauratore e a lucidare mobili antichi, un mestiere che ho imparato molto bene e che ho svolto fino alla pensione. Dal matrimonio ho avuto due belle bimbe, oggi donne e felicemente sposate, il mio lavoro mi ha consentito di comprare un appartamento e di far studiare le mie figliole che hanno preso il diploma magistrale. Voglio sottolineare il ruolo importante che ha avuto mia moglie: oltre che moglie è stata una brava mamma che ha saputo seguire ed educare le nostre figliole, facendole crescere in un ambiente sereno ed è riuscita a farci sentire fieri di loro. Anch’ io nel tempo libero ho dedicato molto del mio tempo a loro. Quando ancora erano bimbe, mi piaceva portarle con me anche a pesca sulla mia barca, a praticare una pesca molto facile e divertente: il bollentino e la pesca dei totani che esse facevano con tanta passione ed è servito a loro per prendere confidenza con il mare che hanno imparato ad amare. Oggi sono felicemente sposate, ci hanno fatto nonni di tre bellissime bimbe, la più grande ha ventuno anni ed è la figlia della figliola più grande, l’altra figliola più giovane di cinque anni ha due bambine una di dodici e l’altra di tre anni. Ci riteniamo molto fortunati ad essere nonni e aver visto crescere queste belle creature; la gioia più grande sarebbe avere un bimbo sempre piccolo in casa. Mi piace ricordare una cosa che ho letto in un libro, non ricordo chi l’aveva scritto, ma mi è piaciuto. Diceva: “una famiglia senza bambini è come un giardino senza fiori”. Voglio dedicare uno spazio di questo racconto per ricordare i vecchi personaggi di San Vincenzo, che sono una parte di storia del nostro paese. Soltanto quelli che oggi hanno la mia età e sono nati e cresciuti a San Vincenzo se li possono ricordare. Sono un pezzo di storia e di cultura del nostro paese. Comincio da Vanni Bellagotti, una persona straordinaria che ho conosciuto quando era già vecchio ma molto lucido e con la voglia di scherzare con noi che eravamo giovanissimi. Insieme al figlio Ernesto gestiva un bar e ristorante di loro proprietà nel centro del paese. Aveva un legame d’amore e affetto per sua moglie che manifestava in tutte le occasioni: prima di sua moglie Giannina non c’era niente che contasse. Noi, essendo giovanissimi, riuscivamo a capirlo. Morì che aveva oltre novant’anni. Qualche giorno prima di morire fece come un piccolo testamento: disse a sua nipote Giuliana che dopo morto voleva essere accompagnato in spalla fino al cimitero da me, dal Capraino, da Fernando e da Filanciano, soprannome di Adriano: questa fu una testimonianza della simpatia che aveva per noi e di quel bellissimo rapporto che esisteva fra anziani e giovani. Un altro personaggio importante da ricordare è il Nencini Dante, persona un po’ folcloristica nel suo modo di vivere. Lavorava in un piccolo fondo al centro del paese, era un bravissimo artigiano, un aggiustatore meccanico, si poteva dire anche un artista nel suo lavoro: riparava biciclette, macchine per cucire, fucili da caccia. A questi ultimi riusciva a ricostruire i vari pezzi da cambiare, faceva tutto a mano con l’ausilio di una piccola e modesta attrezzatura a livello artigianale. In giovane età aveva lavorato in una grossa azienda meccanica a Genova; là aveva un ruolo molto importante nel suo lavoro ma non sopportava il peso di essere dipendente e tornò a San Vincenzo da dove era partito. Per lui il lavoro doveva essere un piacevole passatempo, lavorava quel poco che gli consentiva di tirare avanti giorno per giorno nella sua bottega, era sempre in compagnia di amici, raccontava barzellette e tanti episodi di quando lavorava a Genova, narrava fatti quasi sempre non veri, se li creava con la sua fantasia, ma sembravano credibili, le sue storie erano divertenti e i suoi amici lo stavano ad ascoltare molto divertiti. Aveva un figlio, anche lui un po’ singolare, che si chiamava Primo Nencini, meglio conosciuto come Nencino: il lavoro non lo attraeva molto, da giovane lavorava come rappresentante di utensili meccanici, suonava molto bene il sassofono e nel dopo guerra fece parte di alcuni complessi importanti. Scrisse una canzone che fu presentata da un agente a una casa discografica ma l’agente disonesto cambiò il titolo alla canzone, fece qualche ritocco al testo e il Nencino fu tagliato fuori, a lui non dettero nemmeno una lira. Questa canzone fu incisa dal cantante Carlo Buti, molto popolare a quei tempi. Nencino finì i suoi anni facendo l’arrotino in piazza e morì in miseria. Un altro personaggio da ricordare è il Calignani: nel periodo invernale viveva vendendo le “crogiate”, come le chiamiamo noi, cioè le castagne arrosto alla brace in fondo a via Piave. Per noi ragazzi era quasi una tappa d’obbligo: le castagne erano una delle poche cose che ci potevamo permettere perché costavano pochi centesimi. Il Calignani era come un barbone, viveva da solo in una stanza ma si distingueva da un barbone perché una piccola attività l’aveva d’estate; lo chiamavano per fare piccoli lavoretti, cosi tirava avanti, era malvestito, aveva una barba incolta, d’inverno indossava un cappotto lungo fino ai piedi. Sul colletto del cappotto, che non aveva mai lavato, con il fumo della legna e del carbone che accendeva per cuocersi le frugiate si era formata una patina nera tanto che sul bavero sembrava che ci avesse la pelliccia. La generosità anche di chi non ha niente è sempre presente: capitava che qualche ragazzino di noi non avesse i soldi per comprare le castagne, lui lo capiva e una monetina gliela regalava, noi lo sentivamo come un secondo nonno, infatti quando si andava da lui si diceva: “Si va dal nonno!”. In quel periodo c’era un altro di questi personaggi che di soprannome era chiamato Castagnaccio ed io non ho mai saputo il suo vero nome: con un carretto, che spingeva a mano, girava il paese vendendo arance e il suo slogan era: “se non li vendo me le mangio e se li vendo me li bevo”, così non nascondeva la sua passione per il bicchiere di vino. Ricordo un altro personaggio, lo chiamavamo Meo; abitava in una casa che si chiama il Vaticano. Anche lui un lavoro fisso non l’ha mai avuto ma era un artista, per quei tempi, nel costruire granatini di scopa, che andava a tagliare alla macchia e con questa rivestiva seggiole e fiaschi. Inoltre riparava catini e conche, che essendo fatti di argilla cotta, erano soggetti a rompersi. I catini venivano usati dalle donne in cucina per rigovernare piatti, bicchieri e posate, le conche invece servivano per fare il bucato. Questo lavaggio era un lavoro molto impegnativo e veniva fatto solo per certi capi di indumenti, cioè biancheria intima, ma più che altro per lavare le lenzuola, mentre i capi da lavare venivano messi prima a mollo nella pila con l’acqua sulla conca piena di panni poi veniva steso un telo che copriva tutto. Fatta questa operazione le massaie mettevano uno strato di cenere fino all’orlo della conca di circa quattro dita, la cenere usata era quella che esse toglievano dai fornelli di cucina e del camino; dopodiché aggiungevano diversi gusci di uova che non so a che cosa servissero ai fini del lavaggio. Vi era poi un contenitore pieno d’acqua appoggiato su due pietre e riscaldato con fuoco di legna, fino a bollire e con un boccale l’acqua calda veniva versata nella conca sopra la cenere. L’acqua scendeva piano piano fino al fondo della conca dove si trovava un foro di uscita e ciò che si scaricava era chiamato ranno che poi era riutilizzato come prelavaggio. Finito il bucato la biancheria veniva sciacquata in acqua chiara: era di un bianco perfetto e aveva un bel profumo di pulito. Succedeva che la conca si rompesse e non tutti si potevano permettere di comprarne una nuova, allora chiamavano Meo che riusciva a ripararla per pochi soldi con una tecnica di allora. Rimetteva il pezzo rotto nella sua posizione, saldato con il cemento, poi con il trapanino a corda praticava dei piccoli fori distanti pochi centimetri l’uno dall’altro e con un filo sottile di metallo li cuciva insieme come fa il chirurgo su di una ferita. Meo svolgeva un lavoro molto importante nella nostra comunità, il lavoro di impagliature: non avendo una stanza per lavorare, con la buona stagione lavorava sul marciapiede davanti casa. Elencando questi personaggi viene naturale parlare anche di Bruno Rossi, detto Buconero, soprannome che lui non sopportava per niente. Era molto piccolo di statura, aveva un difetto fisico ad una spalla, era sempre arrabbiato e bastava poco per farlo infuriare, un altro difetto che aveva era che non gli piaceva il lavoro. La mattina comprava una cassa di sarde dai pescatori per andarle a vendere in campagna ai contadini. Le caricava sul portabagagli della bicicletta, molte volte le cambiava in natura. Aveva una voce potente, e per la festa del quindici agosto a San Vincenzo veniva fatta la tombola come si fa oggi. Veniva giocata in piazza Vittoria, il tabellone dei numeri veniva appeso giù dal terrazzo sopra al Gambero Rosso, i numeri estratti li ripeteva senza il microfono: una volta gli fu passato il numero sessantasei, lui lo prese alla rovescia e annunciò il numero novantanove. Dalla piazza scoppiarono fischi e risate e lui naturalmente si scusò dell’errore. Finita la tombola, il vincitore lasciava un piccolo premio per lui. Possiamo ricordare anche i fratelli Pellegrini, persone interessanti: uno faceva il fabbro e l’altro il maniscalco. Il fabbro si chiamava Vincenzo, di soprannome Cencione. Era un uomo di corporatura robusta, con il labbro inferiore enorme che gli penzolava quasi sopra la bazza, era bravo ma molto rozzo; i suoi figlioli lo aiutavano in alcuni lavori di bottega come girare la forgia o reggere pezzi sull’incudine, ma sembrava che non lo contentassero mai e li sgridava sempre, anche con parole molto pesanti. L’altro fratello si chiamava Poldo, cioè Leopoldo, nel suo lavoro era veramente un artista, costruiva ferri ai cavalli con difetti allo zoccolo, li costruiva su misura correggendo i problemi che tanti animali presentavano. Era un artigiano conosciuto a livello nazionale e riceveva molti riconoscimenti. Se qualche cittadino vuole ammirare alcuni capolavori che Poldo ha donato al comune deve sapere che sono esposti in una bacheca all’ingresso, davanti alla porta dell’ufficio del Sindaco. Non possiamo dimenticare un altro vecchio San Vincenzino: era un grande lavoratore e un grande bevitore e mangiatore, si chiamava Giuseppe Galoppini ,soprannominato Madione proprio perché la madia di quei tempi era il mobile dove le massaie lavoravano la pasta per fare il pane in casa. Il pane, una volta cotto, veniva conservato nella madia almeno per una settimana. Era un buon pane, anche dopo giorni era sempre squisito. Madione, da grande bevitore di vino, si dice che una volta andò a pescare con i fratelli Federici all’isola d’Elba. I pescatori isolani erano anche agricoltori, coltivavano in prevalenza piccoli vigneti nel piccolo appezzamento di terra e avevano un annesso agricolo usato anche come stalla per il somaro, animale che serviva, oltre ad arare la vigna, a scollettare il vino con i barili. Il paese era su un terreno che con altri mezzi non potevano arrivarci. Madione incontrò un suo amico durante il tragitto e gli chiese di fare una bevuta, l’amico gli disse che il vino che trasportava non era suo, poi per accontentarlo gli disse di andare dietro un canneto in modo che non lo vedesse nessuno. Allora Madione tagliò una canna e con un pezzo ci fece un cannello. Tolto il tappo al barilotto mise il cannello dentro e cominciò a bere fino a che non fu sazio. Il somaro portava due barili, uno da un lato e uno dall’altro. Quando Madione riportò il somaro dall’amico, quest’ultimo si accorse che il carico era sbandato da una parte. Gli chiese: “Quanto mi hai bevuto per sbandarmi il ciuco?”. Dopo questo fatto diventò un detto, quando qualcuno esagerava un po’ nel bere si diceva: “Sei peggio di Madione che sbandò il ciuco.” Erano personaggi anche un po’ folcloristici, ad esempio per quanto riguarda il Pelosi e il Moscherini si contavano i giorni che non avevano alzato il gomito. Si erano spartiti il territorio, Moscherini il paese nuovo e il Pelosi quello vecchio. Se uno dei due sconfinava diventava una guerra fatta di offese e qualche spinta ma senza nessun danno. Tutto questo avveniva sempre quando avevano alzato il gomito ma tutto sommato erano simpatici. Un altro bravo artigiano era il vecchio Eugenio Mognarini, faceva il carraio e lavorava in un capannone che si trovava in fondo a piazza Roma; lì accanto c’erano anche gli stallaggi dei barrocciai ed egli costruiva carri per i contadini che venivano tirati dai buoi e barrocci per i cavalli. Era tutto lavoro artigianale. Mognarini era anche maestro d’ascia ma il suo lavoro più impegnativo era costruire le ruote, specie il mozzo centrale richiedeva una precisione assoluta: si serviva di un tornio da legno, i razzi venivano fatti tutti a mano ma la professionalità si vedeva quando questi pezzi andavano assemblati insieme a formare un cerchio perfetto. Un’altra operazione che non consentiva nessun errore era il posizionamento del cerchione: questo veniva posato a terra, coperto di avanzi di tavolette alle quali veniva dato fuoco. Questo portava il cerchio a una temperatura che soltanto l’esperienza del carraio riusciva a calcolare; poi a caldo veniva piazzato sulla ruota calcolando al millimetro la dilatazione che subiva. Man mano che si raffreddava si stringeva alla ruota tale che, anche sulle strade più dissestate, le ruote non subivano nessun danno. Ci sono ancora oggi dei carri vecchi che con l’avvento dei trattori non vengono più usati, e spesso li vediamo nei prati di alcune ville in campagna. Sono sempre in ottimo stato, una vera testimonianza del mondo contadino. Altri due personaggi che vanno ricordati sono i dottori Cini e Gambaccini. Il secondo era il nostro medico di famiglia. Quando facevano le visite a casa giravano in bicicletta. Il nostro dottore aveva una bicicletta da donna. Il paese era così piccolo che anche con la bicicletta svolgevano bene il loro servizio. Il medico veniva pagato con una piccola quota a fine anno. La medicina dell’epoca era molto limitata, addirittura per una polmonite o un’altra infezione, potevi morire. Ricordo che i medici non avevano nemmeno quei piccoli strumenti per ascoltare il cuore o i polmoni, visitavano tutto a orecchio. Pensate che il nostro dottore era anche un po’ sordo. Ricordo che da ragazzino, quando ci veniva la febbre, indipendentemente dalla causa, la prima terapia del medico era di toglierci subito il mangiare, potevamo bere soltanto camomilla e latte e dovevano farci fare un clistere; l’apparecchio del clistere si trovava in ogni camera da letto, appeso alla parete sopra al letto, accanto all’immagine della Madonna. Se stavi tre o quattro giorni a letto malato senza mangiare, quando ti alzavi traballavi e per riprenderti ci voleva almeno una settimana. A noi ragazzi, tutti gli anni a primavera, il medico segnava una bottiglia di olio di fegato di merluzzo come ricostituente: anche questa era la medicina dell’epoca. Quando in tempo di guerra arrivarono gli alleati, ci fu per noi una rivoluzione totale: ci fecero conoscere la penicillina e quando questa fu immessa sul mercato, fu determinante per la salvezza da molte malattie infettive. Un altro grande personaggio per noi sanvincenzini, simbolo dell’antifascismo, è Casimiro Quiriconi. Mia madre, che oggi ha cento anni, è stata testimone fin dall’inizio di quello scellerato regime fascista, e mi raccontava ciò che quelle belve dei fascisti (così li chiamava lei) hanno fatto a Casimiro. Ricordando quella violenza i suoi occhi tristi si bagnavano ancora di qualche lacrima. Mia madre abitava al Vaticano, sopra dove ora c’è il gommista. Casimiro abitava nel palazzo di fronte, era vedovo, credo avesse cinque figlie tutte quasi giovanissime, bambine a quei tempi, e lui gli ha fatto da babbo e da mamma con l’aiuto di quelle un po’ più grandicelle. Faceva il calzolaio e questo lavoro gli permetteva di tirare avanti alla meglio; non aveva un fondo dove lavorare, perciò d’inverno lavorava in casa mentre nella bella stagione, in primavera e in estate, lavorava la mattina nell’ingresso del palazzo che era molto grande, nel pomeriggio, col suo banchetto, lavorava al fresco sul marciapiede. Un giorno quella feccia di fascisti, cinque o sei dietro il cassone di un camioncino al canto “Allarme siam fascisti, a morte i comunisti”, si accanirono su quel pover’uomo a manganellate, calci e per finire gli ruppero il suo banchetto di lavoro, e lo lasciarono sanguinante per terra. Le sue figlie correvano piangendo aiutandolo ad alzarsi e lo portavano in casa. Mia madre quando sentiva quelle bestiali urla d’ incitamento a picchiare si affacciava alla finestra e assisteva a quella terribile scena. Pure lei correva in strada a dare una mano a quelle povere figliole. Queste aggressioni si ripetevano un paio di volte in estate quando Casimiro lavorava sul marciapiede; dopo queste aggressioni ricostruiva il suo banchetto e continuava a lavorare. Quest’uomo non ha mai ceduto all’arroganza e alla prepotenza fascista, anche con il rischio di essere ucciso. Era un comunista convinto, che lottava sperando di creare un domani migliore, fatto di tolleranza, di libertà e di giustizia sociale per tutti. Io ho avuto la fortuna di conoscerlo anche se ormai era vecchio. Questa è la storia vera di un antifascista raccontatami da mia madre. Quello che mi dispiace è che il comune di San Vincenzo con le amministrazioni di sinistra, non si sia mai ricordato di questo straordinario sanvincenzino. Ci sono altri vecchi sanvincenzini da ricordare: Tarcuinio Pastacaldi aveva una bottega di frutta e verdura in centro al paese esattamente di fronte al macello di Turiddu Galoppini. La domenica vendeva le castagne arrostite, cioè le “crogiate”, ma dopo di lui nessuno ha più continuato questa piccola attività molto apprezzata dai paesani. Come carattere era un uomo molto riservato. C’era una piccola edicola, la proprietaria era Clara Ferri e oltre ai giornali pure lei vendeva frutta fresca e secca. Noi ragazzini andavamo lì a comprare le castagne secche, cinque centesimi di castagne ed eravamo contenti in questa piccola edicola. Il giornale più venduto era “il Telegrafo”, non che ne vendesse molti visto che l’analfabetismo era diffuso in grossa percentuale nei cittadini. Carlino, il figlio, con un pacco di giornali girava il paese in bicicletta a vendere questo quotidiano e in testa portava un cappello con la scritta “telegrafo”. La vecchia edicola era dove ora si vendono giornali e cartoleria, di fronte dove ci sono ora i negozi di mobili del Cellini. C’era il mercatino, così si chiamava, dove vendevano verdure e ortaggi della fattoria del Serristori; tutte le mattine un barroccino trainato da un cavallo poni riforniva questo mercatino. A fianco c’era una piccola stanzina con il telefono pubblico, un servizio molto importante per la nostra collettività: quando c’era una chiamata, l’addetto al telefono mandava un ragazzino a portare l’avviso all’utente, con l’ora dell’appuntamento e con chi aveva chiamato. Accanto al mercatino c’era l’ufficio postale, direttore il sig. Poponcini e nello stesso stabile si trovava la Banca dei Paschi; come direttore ci ho conosciuto il sig. Cigi Rossi, e Emilio Corti. Sempre in centro del paese, accanto all’edicola, si trovava la bottega di stagnino. Questo artigiano si chiamava Budelli e oltre a riparare brocche e paioli di rame li vendeva. Un altro personaggio era Oreste Simanatti: aveva la bottega di sarto e barbiere in un piccolo fondo accanto all’edicola, era un uomo magrissimo, aveva due gambe come la forcella davanti alla bicicletta. Da ragazzini i nostri genitori ci mandavano a tagliare i capelli da Oreste ed era una tortura: per pettinare aveva uno strumento come un piccolo rullo che te lo girava in testa con una certa pressione e sembrava che ti portasse via la cotenna. Dove ora c’è il negozio di oreficeria del Marchi c’era la tabaccheria di Aurina dove vendeva naturalmente tabacchi e oltre a questi vendeva stoffe di lana per maglioni, chincaglieria, bottoni, rocchetti di cotone per cucire. Aurina la ricordo molto bene: una donna anziana con capigliatura tutta bianca, era una donna dolce, molto garbata con noi ragazzi, si comportava come una nonna. Il marito era il postino del paese, si chiamava Umberto: aveva un naso enorme di un colore violaceo che sembrava una melanzana ed era un uomo scorbutico. Quando aiutava la moglie nella tabaccheria a noi ragazzi le sigarette non le vendeva nemmeno a nome del nostro babbo; infatti quando chiedevi le sigarette rispondeva “vai al vaso” come dire “vai a cacare”. Un altro sanvincenzino da ricordare è Nando Manetti, il portiere della squadra di calcio di San Vincenzo, un uomo con un fisico possente, che quando usciva in area in mezzo ai giocatori ne lasciava quasi sempre un paio o tre stesi a terra. Il campo di calcio aveva tutto il fondo sterrato e ci voleva molto coraggio a tuffarsi per parare in un fondo simile. A Nando piaceva anche bere qualche bicchierotto di vino e Turiddo Galoppini, un tifoso accanito di Nando, lo seguiva sempre anche quando la squadra giocava fuori casa. Turiddo, prima che cominciasse la partita, metteva un fiaschetto di vino da un litro dietro il palo della porta perché senza quello non parava; durante la partita, approfittando dei momenti in cui il gioco era sotto la porta avversaria, si faceva delle bevute e in quelle situazioni parava tutto. Altri paesani che hanno rappresentato lo sport sono stati Gaddo Mischi, un centometrista che ha vinto il titolo di campione regionale e ottenuto altri piazzamenti a livello nazionale. Altri giovani atleti con ottimi risultati in campo nazionale nell’atletica leggera sono stati Cappelli Sirio, Bocci Fernando e Galoppini Lido. Ma ce ne sono stati altri, che pur mettendoci tanta passione, non sono mai arrivati ad ottenere risultati apprezzabili. Uno fra questi è stato Bianchino Ferri: correva in bicicletta e alla prima gara che partecipò fu subito una frana. Il percorso era San Vincenzo-Venturina-Campiglia, e arrivo di nuovo a San Vincenzo. Bianchino a Botramarmi aveva già un distacco di un paio di chilometri dal gruppo di testa. A quei tempi la giuria era formata da un paio di motociclette e ne faceva parte della giuria con un motofurgone Ernesto Bellagotti. Bianchino era l’unico corridore sanvincenzino, Ernesto lo fece salire sul motofurgone riportandolo sul gruppo di testa. Nel seguito della corsa c’era il fratello Ferrino, tifoso del fratello Bianchino; avendo visto il distacco che Bianchino poco prima aveva col gruppo di testa rimase sorpreso quando lo rivide fra i primi e finì la corsa con la volata di gruppo. Ferrino finita la corsa si avvicinò a Ernesto e gli disse: “Ma hai visto che rientro ha fatto Bianchino col distacco che aveva?” Scommetto che in qualche tratto sarà andato anche a sessanta chilometri all’ora”. Ernesto gli rispose che in qualche tratto si andava anche a novanta! Al paese nuovo la tabaccheria del Periti era di un certo Balestri. Noi ragazzi lo conoscevamo molto bene perché oltre a vendere tabacchi, vendeva trottole e palline, figurine di giocatori di calcio e di campioni di automobili, tra cui i più quotati erano Nuvolari, Varsi e del ciclismo Binda, Girardesco, Guerra. Noi ragazzi ci giocavamo in gruppo, il terreno di gioco di tutti i ragazzi del paese nuovo era via Matteotti, una strada sterrata senza sfondo dove potevamo giocare in libertà senza pericoli. Durante il gioco, immancabilmente, c’era sempre qualcuno che faceva a cazzotti, poi passato il momento si ritornava a giocare insieme. Quando andavamo a casa con qualche pesca all’occhio oppure il labbro spaccato che faceva sangue, i nostri genitori non ti domandavano chi era stato, ti dicevano soltanto: “Oggi è toccato a te, bravo coglione!”. Un altro sanvincenzino da ricordare di tempi più recenti del dopo guerra è stato Vasco Tognarini, il gestore del locale “La Chimera”, nata col nome “Capannina”. Fu creata da Federici Menelao insieme al suo genero; ottenne subito un bel successo e dopo qualche anno fu acquistata da un signore di Firenze, e dagli anni cinquanta in poi da Vasco Tognarini, che fece della Chimera uno dei locali da ballo più belli e suggestivi della nostra costa: una pista affacciata sul mare, già questo creava una atmosfera particolare, un’orchestra formata dai migliori orchestrali di livello nazionale, tutti sanvincenzini, Bruno Paffi, Leonetto Dani al sassofono e clarinetto, Nencini Primo pure lui suonava due strumenti, il Lupi alla batteria, Giovanni Spagnoli alla tromba. C’era una bella pista con tutti i tavoli in cerchio. I balli erano quasi tutti lenti, le luci quasi spente. Il cantante si chiamava Ciofi, una bellissima voce. Molte volte durante la serata per creare un’atmosfera molto suggestiva, Leonetto scendeva in pista in mezzo alle coppie che ballavano, suonando con il sassofono con quel dolce suono ti faceva sognare. Vasco Tognarini è stato un personaggio che ha molto contribuito a far conoscere San Vincenzo. Un monumento molto importante di San Vincenzo è la nostra chiesa, con il suo campanile gigantesco in mezzo al paese. Di parroco, quando ero ragazzino io, c’era Don Carlo, che nel 1945 ormai novantenne, lasciò la gestione della chiesa al nuovo parroco, Don Ivo. Don Carlo morì in assoluta povertà abbandonato quasi a se stesso, in due piccole stanze, lo accudirono con amore e rispetto le donne dell’U.D.I. fino alla morte. Di Don Carlo ho un ricordo bellissimo di quando ero un piccolo ragazzino: io e altri miei compagni la domenica andavamo da Don Carlo che ci faceva suonare le campane per la messa delle undici. Le campane erano molto grosse, erano due, si suonavano con le corde e quando raggiungevano il massimo del movimento, uno alla volta ci attaccavamo alle corde e facevamo l’altalena dal basso in alto ed era molto divertente. Un altro vecchio sanvincenzino che voglio ricordare è il Saggini Aladino: gestiva un negozio di sua proprietà che vendeva stoffe per vestiti e chincaglieria. Il Saggini mi fa ricordare un episodio un po’ singolare che voglio raccontare. Eravamo nel 1943 quando erano a tessera tutti i generi alimentari e la fame era terribile. Un giorno io e i miei fratelli a mezzogiorno andammo a pranzo, a pranzo per modo di dire, perché di solito in tavola non c’era quasi mai niente. Con grande sorpresa trovammo in tavola una grossa gallina lessa, ci avventammo come avvoltoi su quella gallina e a mia madre non chiedemmo nemmeno il perché di quell’insolito pranzo. Il giorno seguente ritrovammo un’altra gallina in tavola e a quel punto domandai a mia madre se il babbo la notte andava a rubare i polli, dato che noi il pollo non si mangiava nemmeno il giorno di Natale, perché non ce lo potevamo permettere, e mia madre allora ci spiegò come stavano le cose. Ci disse che il Saggini, dietro casa, teneva un piccolo pezzo di terra e aveva fatto un piccolo pollaio dove allevava una decina di galline per avere uova fresche per uso di casa. Volle il caso che le galline venissero colpite da una malattia, infettandosi una dopo l’altra, destinate a morte sicura; allora mia madre chiese al Saggini se prima che fossero uccise le avesse date a lei. Con questa malattia, un giorno o due prima di morire, le galline diventavano un po’ grulle; a quel punto ci disse mia madre che lei gli tagliava il collo con la testa, e il resto si poteva mangiare tranquillamente. Era una malattia dove non morivano tutte insieme, venivano colpite anche a distanza di qualche giorno l’una dall’altra. La mattina mia madre mi faceva passare dal negozio del Saggini a domandargli se mi avrebbe dato qualche gallina che dava segni di malattia, e noi una dopo l’altra si mangiavano tutte. In seguito non avemmo nessun disturbo per quello che riguardava la salute: non fu per incoscienza che rischiammo di essere infettati ma per la grande fame. Un altro vecchio sanvincenzino è Beppe Mengozzi, una persona stupenda, si poteva definire un poeta dilettante, sempre allegro e divertente con le sue battute e le sue poesie. Era semianalfabeta ma ciò nonostante scriveva e recitava filastrocche bellissime, e fra le altre cose era molto originale: parlava di tutti i grandi Giuseppi che hanno fatto la storia nel mondo, come Giuseppe Garibaldi, Verdi, Stalin, Mazzini, tutti personaggi che hanno avuto un ruolo importante in tutti i campi; in ultimo aveva aggiunto un piccolo versetto poetico e satirico dove diceva che i Beppi ci sono grandi grandi o piccoli piccoli, confrontando se stesso e tutti i Beppi di San Vincenzo fino al più balordo. Un’altra bella filastrocca la cantava sugli animali, gliel’ho sentita cantare già negli anni ‘45, e la stessa canzone l’ho risentita cantare da Bramaldi circa quarant’anni dopo: potrei giurare che la canzone senza dubbio era quella di Beppe. Un altro sanvincenzino che va ricordato è Gasparo, il custode del passaggio a livello delle ferrovie dello stato a nord di San Vincenzo. Gasparo era un grande invalido della guerra quindici- diciotto, perse una gamba in trincea dallo scoppio di una granata. La protesi che portava era una gamba interamente di legno fatta come una stampella, applicata a quel poco di gamba rimasta. Era un uomo un po’ singolare: durante il suo turno di lavoro, naturalmente, abbassava le sbarre al passaggio dei treni, ma a volte, anche se non c’erano altri treni in corsa, le sbarre le lasciava chiuse e andava al bar vicino al casello a farsi un quartino o il mezzo litro con gli amici che si trovavano giù al bar. Il bar era distante circa cento metri dal casello, e facendo andata e ritorno con una gamba di legno un po’ di tempo passava. Prima della guerra il traffico di mezzi meccanici era quasi inesistente, il mezzo più pratico era la bicicletta e con questa le persone passavano di sotto le sbarre e non avevano nessun disagio. Se capitava che un barrocciaio con il suo mezzo avesse da entrare o uscire dal paese, trovando le sbarre chiuse non protestava, guardava dentro il casello e se Gasparo non c’era, conoscendo le sue singolari abitudini, legava il cavallo alle sbarre del passaggio a livello e andava al bar, sicuro di trovarlo a farsi il bicchierotto, e insieme si facevano un’altra bevuta, e Gasparo insieme al barrocciaio tornavano al posto di lavoro, con molta calma, trovando anche il tempo per conversare su un po’ di tutto. Tutto scorreva in un clima tranquillo, tutto l’opposto di come viviamo oggi, dove non sopportiamo più nessun disagio, tutti impazienti abbiamo perso il senso della tolleranza e della educazione. Dal punto di vista umano viviamo molto peggio. Bisogna ricordare anche la famiglia Marosi. Miriade e il figlio Ionio gestivano al paese nuovo il locale “il Cacciatore” di loro proprietà e oltre al bar nei fondi del locale facevano magazzino di prodotti alimentari, formaggi, stoccafisso, baccalà, acciughe salate, rifornivano negozi che vendevano al dettaglio. Il bar era frequentato da operai e da molti cacciatori e le discussioni erano molto animate come oggi discutiamo di calcio, erano scontri molto amichevoli anche se di mezzo c’era sempre qualche bicchiere di vino. Un altro pezzo di storia di San Vincenzo era il bagno Nettuno che oggi non c’è più. Il bagno Nettuno era una rotonda costruita su palafitte in mare alla battigia della spiaggia. Era composto da un piccolo bar e una cucina per fare il ristorante, una bellissima terrazza esposta al mare che, circondata da tende scorrevoli, funzionava anche da pista da ballo. Il locale stava aperto da giugno a settembre, in spiaggia aveva una decina di cabine e due patini, un’attrezzatura sufficiente per ospitare quel piccolo turismo prima della guerra, cioè fino agli anni quaranta, un turismo che se lo permettevano pochi privilegiati. Tutte le sere c’erano feste da ballo aperte a tutti, e l’abbigliamento dei clienti doveva essere di una certa eleganza, ad esempio gli uomini in prevalenza indossavano calzoni bianchi e giacche scure. I proprietari e i gestori erano Candido Cini e la mamma Genoveffa; la signora Genoveffa a noi ragazzi non ci tollerava perché nelle ore pomeridiane la rotonda creava un grande spazio d’ombra sulla spiaggia dove non arrivava l’acqua e noi ragazzi andavamo sempre a giocare sotto quel fresco e diventava sempre una guerra fra noi ragazzi e la signora Genoveffa, ma si vinceva quasi sempre noi. Quello spazio lo consideravamo un nostro territorio e la Genoveffa era una donna molto rude e arrogante. Quella bellissima rotonda fu demolita nel 1942. Voglio ricordare un altro sanvincenzino, Libero Becherini, chiamato Picche, soprannome ereditato dal vecchio nonno. Libero, persona molto superstiziosa, lo voglio ricordare in un episodio molto singolare. Nel 1945, finita la guerra, rientrammo tutti alle nostre case da dove eravamo sfollati. Gli armatori delle barche da pesca si attrezzarono per praticare la pesca a strascico, cioè una piccola paranza. A bordo di una di queste paranze eravamo imbarcati cinque marinai: capitano e capo pesca era Benvenuti Romolo, poi Piero Aprilino, Ciari Aldo Picche e poi me. Da qualche giorno la pesca non andava troppo bene rispetto a giorni indietro, pescavamo poco pesce e Picche cominciò a dire che avevano dato il malocchio alla barca e dovevamo andare dallo stregone a far togliere la iettatura alle barche. Io non ci credevo a queste stregonerie, ma siccome io ero il più piccolo, Libero mi costrinse ad andare con lui. Questo personaggio si chiamava Bartolini di cognome, abitava in un podere del Serristori vicino a Donoratico. Libero tolse dalla barca il pagliolo di prua per portarlo dallo stregone: mi disse che le mamme quando fanno spegnere il malocchio ai bimbi gli portano il camiciolino allora noi gli portavamo il pagliolino. Andammo da questo Bartolini in bicicletta e arrivati alla casa colonica dove abitava, in casa trovammo la massaia, gli dicemmo di voler parlare con suo marito, ci indicò che stava lavorando poco lontano da casa, andammo da lui e gli spiegammo quale era il problema di questa visita, lui gentilmente ci invitò a seguirlo a casa. Arrivati a casa ci fece salire in camera: la stanza era quasi buia, indossò una specie di cappa nera, poi seduto a un piccolo tavolo ci chiese un qualcosa che appartenesse alla barca, e noi gli consegnammo il tagliolino; accese una candela, sul tavolo teneva un piatto dove versò un poco di acqua e buttò dentro alcune gocce di olio, poi aprì un vecchio libro e mormorava parole che noi non capivamo. Durante quella operazione disse sotto voce che vedeva un forte malocchio, allora Picche mi dette un paio di gomitate sul fianco come per dire “hai visto che avevo ragione”. Lo stregone, finita la funzione, ci disse che il pagliolo andava bagnato con l’acqua benedetta per togliere definitivamente il malocchio. Arrivati a San Vincenzo dovevamo andare in chiesa a benedire il tagliolino. Picche voleva mandare me dentro la chiesa a benedire il pagliolo, io mi rifiutai anche perché la ritenevo una pagliacciata. Lui non perse tempo, entrò lui in chiesa, era un pomeriggio d’estate e per fortuna in chiesa non c’era nessuno; quando uscì mi accorsi che aveva tutta la camicia bagnata davanti al petto perché sotto teneva nascosto il pagliolo. Io gli dissi che lo stregone aveva detto di benedirlo non di tuffarlo dentro la pila dell’acqua benedetta! Libero però era certo che il periodo nero fosse finito. La mattina successiva andammo di nuovo a pescare, successe che la prima cala la rete ci rimase afferrata a un pezzo di relitto in fondo al mare, e perdemmo la rete, cosa che per noi fu un grosso danno. Da quel giorno si sparse la voce e Libero non ebbe più pace: quando sul mare qualcosa non funzionava dicevano: “Vai da Picche lui mette tutte le cose apposto”. Un altro sanvincenzino molto importante della storia paesana è stato Osvaldo Mischi, primo sindaco di San Vincenzo a ricoprire questa carica, quando San Vincenzo da frazione di Campiglia divenne comune autonomo. Voglio fare una piccola biografia di questo vecchio sanvincenzino: Osvaldo faceva l’artigiano insieme al babbo nel mestiere di sarto, erano dei veri professionisti nell’ambito del loro lavoro e a quei tempi un abito cucito dal Mischi era come un abito fatto da Valentino, infatti avevano una clientela un po’ benestante. C’era anche il sarto dei poveri che era il Favilli Amleto, un sordomuto che svolgeva due lavori: il sarto e il fotografo. Mia madre a noi ragazzi il vestito della comunione lo fece cucire ad Amleto, un completino con giacchina e pantaloni corti. Quando indossavi quell’abitino, pur avendo un fisico perfetto, sembravi un piccolo disgraziato, la giacca o ti pendeva da una parte o sul davanti, oppure Amleto imbottiva una spalla differente all’altra, ma non avevamo di meglio e così ti contentavi. Tornando a Osvaldo, lui riusciva a conciliare il lavoro con le funzioni di sindaco. Nel 1948 cessò il lavoro di sarto, ricordo molto bene l’anno perché entrammo insieme a lavoro con una cooperativa che operava nell’ambito della società Solvay alle cave di pietra a San Carlo, io fui assunto una quindicina di giorni prima di lui. Era un lavoro molto pesante, in dotazione ci furono consegnati gli arnesi da lavoro, un piccone, una pala e una mazza del peso di cinque chili; dovevamo caricare otto vagoni a testa dal peso di circa quindici quintali l’uno, alcune pietre grosse dovevamo romperle a pezzi da poterle caricare a braccia dentro il carrello. Con Osvaldo il primo giorno di lavoro ci trovammo nella stessa cava; immaginate per Osvaldo, con la mano che aveva fatto il lavoro di sarto, maneggiare la pietra cosa poteva significare: il secondo giorno aveva i polpastrelli delle dita che gli facevano sangue. Uguale successe a me e allora cercai di proteggermi le mani con un paio di guanti da lavoro che usavano i soldati americani per lavorare e un paio le procurai anche a Osvaldo. Questi guanti li vendeva il Orami che riciclava tutta la roba militare degli americani e trafficava nel vestiario. Ad Orami gli dissi che i guanti erano per Osvaldo, me li dette e non volle una lira. Osvaldo non si arrese perché uno stipendio a casa anche lui doveva portarlo. Nella cava lavoravano una quindicina o venti spacchini e a Osvaldo tanti di questi ragazzi gli davano una grossa mano dato che loro quel lavoro lo facevano con molta facilità perché erano abituati. Qui colgo l’occasione per ricordare anche loro: Quagli Guido, Sforzi Vittorio detto ragno, Montorsi Aldo detto gnaccone, Cappelli Sirio, Dannunzio Galoppini detto gamenna, Nudi Fico, Nello Mengozzi. Osvaldo, con la carica che ricopriva come sindaco, poteva trovarsi un lavoro più adatto a lui ma non ha mai cercato privilegi, era un socialista vero, coerente con i suoi principi, onesto con se stesso e con gli altri. Gli piaceva la compagnia, era una persona allegra e stava bene con gli amici. L’amministrazione del comune con sindaco Osvaldo, si trovò tanti problemi da affrontare poiché il comune era nato da poco e aveva pochissime risorse finanziarie. Nonostante tante difficoltà, il paese cominciò a crescere, un po’ disordinato ma cresceva. Se San Vincenzo oggi è un paese come si può vedere, funzionante e moderno, si deve in buona parte agli uomini come Osvaldo. Credo che un riconoscimento meritato sia stato avergli dedicato una piazza a suo nome. Io tutti questi vecchi sanvincenzini li ho conosciuti, ho vissuto insieme a loro, ricordarli per me e come fare una riunione di famiglia. Oggi meglio di me nessuno può ricordarli, in ognuno di loro ho scritto un qualcosa per far capire il personaggio, spero in parte di esserci riuscito. Erano tutte persone oneste, schiette e generose, c’era tanta solidarietà e questa nasceva da uno stato di bisogno e la solidarietà l’ha inventata la povera gente. Una cosa che mi piace ricordare è che San Vincenzo alle sue origini aveva un legame molto stretto con la campagna. Quasi tutti coloro che abitano in paese sono di origine contadina, anche i miei genitori venivano da quel mondo. Parlando di San Vincenzo come si fa a non ricordare il mondo contadino? Eravamo circondati da quel meraviglioso tappeto verde dei campi, i campi di grano di allora, quando non venivano usati i diserbanti e in primavera nascevano in mezzo al grano i papaveri: questo spettacolo era un’opera d’arte naturale che solo la natura sa creare. L’economia di San Vincenzo si reggeva in prevalenza sulla campagna e sul mare. Le case coloniche erano come una collana intorno al paese cominciando da sud, sulla via della principessa: al primo podere abitava il Becherini, verso l’Aurelia il Francalacci, e il Debolini, poi sull’Aurelia il Favilli, il Giomi, il Federigi, il Vallesi in via San Bartolo, il Franchini, il Tuci, il Tampini, il Tani poi ancora sull’Aurelia, il Buti, il Cecchini, in via del Castelluccio, il Soldi, il Nannelli, il Federigi, Lanciani, il Magnani nella valle il Ciaponi e il Cuagliarini, per finire il cerchio a nord il Bottini. Nei lavori di campagna venivano occupate molte donne nella raccolta dei cavoli, carciofi, pomodori e durante la mietitura del grano. Il lavoro veniva fatto tutto a mano, decine di uomini e donne con la falce tagliavano il grano facendo dei barsi legati con la pianta del grano stesso, e riuscivano con esperienza e arte, se così si può chiamare, a creare una fascia che avvolgeva e teneva molto bene insieme il mazzo del grano come se fosse legato con una corda. I balzi di grano venivano lasciati nel campo stivati in piccoli montini di circa venti barsi accumulati in verticale, in modo che il sole completasse la maturazione. La mietitura fatta a mano con la falce andava eseguita una quindicina di giorni prima della maturazione, altrimenti le spighe con bruschi movimenti avrebbero scaricato a terra una parte del prodotto, cioè il grano. Il giorno della trebbiatura in campagna era una delle più belle feste dell’anno. Se il raccolto era buono i contadini si sentivano premiati per il tanto duro lavoro. Il giorno prima veniva portata nell’aia la macchina trebbiatrice, veniva fatta funzionare da un piccolo trattore che aveva un volano laterale che con una grossa cinghia, a sua volta applicata ad una puleggia della trebbiatrice, cominciava a trebbiare. Il contadino, con i buoi e il carro, andava nei campi a caricare i balzi di grano per portarli nell’aia; questi venivano passati ad un operatore chiamato l’imboccatore che aveva il compito di inserire i balzi di grano dentro una bocca sopra la macchina: era l’ultima fase prima che avvenisse la separazione del grano dalla pula e dalla paglia. Venivano applicati i secchi ad una bocchetta della trebbiatrice. Un’altra operazione importante era il recupero della paglia. Questo lavoro era fatto da braccia molto esperte: i famosi pagliai, così venivano chiamati, consistevano in un alto circa dieci metri chiamato stallo, fissato a terra e intorno partendo da una base di cinque metri di diametro, veniva stivata la paglia fino in cima, per finire a zero. Il pagliaio finito diventava un’opera d’arte, capace di reggere a qualsiasi vento o temporale: era fatto in maniera che la pioggia scivolava via come sulle penne degli uccelli e la paglia non poteva marcire. Il giorno della trebbiatura veniva vissuta come una festa, era la più faticosa ma anche la più gioiosa e i contadini confinanti si scambiavano la mano d’opera. Al mattino, di buon ora, la massaia con altre donne preparava nell’aia una grande tavola apparecchiata per la colazione a base di prosciutto, salsicce, rigatino, formaggi, vino. A tavola non potevano mai esserci meno di una ventina di persone. A pranzo la massaia metteva in tavola il meglio che aveva: uno degli animali che non poteva mancare era il papero. Dopo la cena, per tradizione, molti contadini dotati di vena poetica, cantavano poesie, come dicevano loro “a braccio”: riuscivano ad improvvisare su qualsiasi soggetto, si sfidavano a due alla volta, magari uno sceglieva il fuoco e l’altro l’acqua, dopo una mezz’ora di lotta poetica vinceva quello che con il fuoco aveva distrutto tutto, o l’altro che con l’acqua era riuscito a spegnerlo. La scelta era molto vasta per quello che riguardava i soggetti da cantare, ad esempio uno sceglieva il mare l’altro la terra, a volte gli scontri erano anche nell’ambito dello sport. I campioni di allora erano molto conosciuti, nel ciclismo, Binda, Guerra, allora uno cantava le grandi imprese di Binda, l’altro quella di Guerra, naturalmente anche esagerandole, per mettere in difficoltà l’avversario. Io ho conosciuto alcuni di questi simpatici personaggi che ho sentito cantare: ricordo i cugini Antoni, Odrasto Giomi, i fratelli Malotti e tanti altri. I contadini tra loro riuscivano a creare serate liete e divertenti, organizzavano festicciole da ballo, sempre la domenica sera, una volta in casa di uno e un’altra a casa dell’altro. Nelle case dei contadini la stanza più grande era la cucina visto che esistevano famiglie composte da tredici, quindici persone compresi i bambini. La cucina veniva trasformata in sala da ballo, i mobili appoggiati ad una parete per ottenere uno spazio sufficiente ad una decina di coppie per ballare. Un suonatore con la fisarmonica allietava la serata suonando musica da ballo. Il bar era un piccolo tavolo in un angolo con sopra il fiasco di vino sempre a disposizione. Queste feste da ballo, oltre che a far trascorrere una serata divertente, erano fondamentali per far incontrare i giovani. La maggior parte dei matrimoni nasceva in quelle occasioni. Nel mondo contadino era radicato il senso dell’ospitalità, se qualcuno incontrava un amico che abitava in paese, dopo aver scambiato i saluti, invitava l’altro a veglia, un invito ad andare la sera dopo cena a casa sua per ritrovarsi e trascorrere una serata insieme conversando di un po’ su tutto, dal lavoro agli interessi e alla famiglia. Tutte le volte avevamo tante cose di cui parlare, la gente era molto più aperta e sincera. L’immancabile fiasco di vino era sul tavolo davanti al focolare sempre con il fuoco acceso nelle serate d’inverno. Il focarile era quello che oggi si chiama caminetto: era una struttura rustica e semplice, la base era molto grande costruita a mattoni, alta circa cinquanta centimetri dal pavimento con il fuoco al centro. Ai lati, sopra al focarile, si potevano trovare di solito due piccole panche dove seduti stavano quasi sempre i bambini nelle serate d’inverno. Il fuoco del focarile, oltre a scaldare l’ambiente, era indispensabile per cuocere i cibi ed avere sempre l’acqua calda, tramite un grosso paiolo di rame appeso al centro del fuoco. L’acqua calda serviva per tante funzioni domestiche. Una funzione molto importante era quella per fare il bagno: quando l’acqua nel paiolo andava in ebollizione, veniva travasata dentro tinozze abbastanza grandi riempite poi con acqua fredda fino alla temperatura giusta. Il fuoco era sempre acceso, consentendo di avere sempre a disposizione un servizio che oggi puoi avere soltanto con l’energia elettrica. Prima della guerra nelle case coloniche la corrente elettrica non esisteva. In cucina c’era un lume a petrolio, nelle camere la luce la ottenevamo con la bugia, non so poi perché la chiamavano bugia. Era una piccola bacinella di rame con un occhiellino da una parte per poterla impegnare; veniva versato il fondo dell’olio d’oliva fino a metà, veniva immerso un lucignolo composto da una piccola treccia di bambagia, lasciandone un pezzetto fuori dal liquido appoggiato sopra una piccola scannellatura della bugia per essere acceso: emanava una piccola luce e tanto cattivo odore. I ragazzi che abitavano in campagna, rispetto a noi erano molto penalizzati: noi finita la scuola andavamo in spiaggia e per noi ragazzi il mare era il massimo del divertimento, per i ragazzi di campagna era quasi impossibile perché i loro genitori erano sempre impegnati nei lavori di campagna e non avevano il tempo per portarli al mare. In campagna i ragazzi di otto, dieci anni venivano impegnati nel pomeriggio dopo la scuola in lavori a volte anche molto duri, come andare al trapelo, un lavoro indispensabile quando dovevano arare i campi. Questo lavoro veniva fatto con due paia di buoi attaccati all’aratone: tutte le volte che con il solco arrivavi in cima al campo, i buoi di testa venivano staccati e girati nell’altro senso e questa operazione spettava al ragazzo. Il contadino con gli altri buoi girava l’attrezzo nella direzione opposta, il ragazzo riattaccava di nuovo i buoi di testa davanti agli altri. Il lavoro di arare i campi veniva eseguito nei mesi invernali, perché la semina del grano avveniva in quei mesi dell’anno, da questo si può capire il disagio di quei ragazzi. Ora voglio sottolineare il legame che c’era fra campagna e paese. I contadini che lavoravano i poderi della fattoria del conte Della Gherardesca facevano la vendemmia in San Vincenzo al cantinone che anche oggi è conosciuto con questo nome, invece, dove oggi c’è la biblioteca comunale, c’era la fattoria ed oltre agli uffici c’era una stalla per il cavallo e il barroccio di fattoria. Il barrocciaio si chiamava Tista cioè Battista. C’era anche una piccola falegnameria indispensabile per eseguire tutti i lavori di manutenzione ai poderi e per gli altri lavori che si presentavano. Nell’ambito dell’azienda era istallata una piccola distilleria che produceva il famoso gin. Sotto il pavimento dove c’è ora piazza Mischi ci sono ancora i locali dove veniva conservato il grano per la semina, locali costruiti e studiati per quell’uso. I falegnami erano due, il Bacci e il Cascielli, e il gestore della distilleria si chiamava Camerini. A nord di San Vincenzo c’è tutt’oggi il caseggiato chiamato il conservificio, dove si trasformavano appunto i pomodori in conserva. In quella struttura venivano raccolti cavoli, spinaci, carciofi, finocchi e altre verdure fresche, confezionati in apposite cassette di legno e spediti anche all’estero. A pochi centinai di metri oggi c’è l’hotel Santa Caterina: allora era un locale dove veniva lavorato il pesce in scatola, era una friggera, produceva sarde in scatola sott’olio con il nome di “Oautis”; il prodotto veniva fornito sul posto dai pescatori di San Vincenzo perché il mare a quei tempi era molto pescoso. La mano d’opera nella friggera era costituita in prevalenza da donne e tutto questo contribuiva alla nostra economia anche se purtroppo sempre povera. Come si vede mare e campagna erano molto legati. Quelli della mia età, nati e cresciuti a San Vincenzo, vogliono bene al paese, lo sentono come una propria creatura perché l’abbiamo visto crescere. Io sono cresciuto con la polvere dei campi e il sale del mare sulla pelle, me la sento ancora oggi addosso come un velo invisibile. Sono contento oggi di ricordarmi molto bene di quei tempi, vuol dire che erano soprattutto belli anche se eravamo molto poveri. Mentre scrivo questi ricordi mi sembra di sentire e ricordare i profumi della campagna e del mare. Ai nostri figli e ai nipoti queste gioie della natura le abbiamo negate, rovinando tutto per una corsa sfrenata ai profitti, distruggendo tutto quanto c’era di più bello. San Vincenzo ha una storia e conoscerla può essere molto interessante, io la racconto come figlio di questo bel paese. San Vincenzo era una frazione del comune di Campiglia, non aveva nessuna autonomia, mancavano tutti o quasi i servizi essenziali, non avevamo nessuna strada asfaltata, mancava la rete fognaria. In via Piave, dove abitavo io, c’erano fosse a cielo aperto, dove scorrevano le acque chiare di tutte le case che si trovavano più in alto e una scuola elementare che aveva una struttura vecchia con degli infissi dove il vento e il freddo entravano da tutte le parti: quando faceva libeccio ci dovevamo legare al banco altrimenti ci portava via, io ho esagerato ma è per dare un’idea di quale stato fosse, tanto che le insegnanti avevano lo scaldino con la brace accesa che la bidella di nome Amalia gli faceva trovare sempre pronto tutte le mattine. La scuola era in piazza della Vittoria dove ora ci sono gli uffici del comune. Per amministrare le poche case che riguardavano la frazione di San Vincenzo, in organico c’era un solo impiegato che svolgeva alcune pratiche, il signor Cantini. Come dipendenti locali c’erano due spazzini, uno che provvedeva alla raccolta dei rifiuti e a spazzare la strada del paese vecchio, cioè Armando Roventini, il quale aveva un carretto trainato da un ciuco, un animale molto vecchio che quando si fermava traballava come se dovesse cascare da un momento all’altro. Al paese nuovo l’altro spazzino trainava il carretto a braccia. Avevamo una guardia comunale, il signor Turchi. La maggior parte delle abitazioni non aveva l’acqua corrente in casa. Al paese nuovo avevamo una sola fonte, in fondo a via Piave, dove c’è ancora. Le donne con delle bellissime brocche di rame, attingevano l’acqua per bere e cucinare, per gli altri servizi avevamo un pozzo che serviva per due case confinanti. Accanto al pozzo c’erano le pile in cemento indispensabili per fare i bucati e annaffiare il piccolo orticello coltivato a verdure; nelle case non avevamo la corrente elettrica e per l’illuminazione avevamo il lume a petrolio. Era una struttura con il globo di vetro e di ferro battuto, erano opere d’arte. Oggi si vedono quasi uguali ma naturalmente sono alimentati con una lampada elettrica. Eravamo abituati a questo modo di vivere per cui non si avvertivano troppi disagi. L’igiene e la pulizia della casa erano essenziali per tutte le famiglie. Noi ragazzi avevamo le toppe ai pantaloni, ma la nostra era una povertà molto dignitosa. Finita la guerra, con un buon lavoro fatto a livello politico e amministrativo riuscimmo a trasformare San Vincenzo da frazione a comune. Le cose cominciarono a migliorare. Il comune cercò di fornire i servizi essenziali, fu un duro lavoro. Eravamo usciti da poco dalla guerra e le risorse finanziarie non ce n’erano. Capimmo che San Vincenzo, con la sua bella spiaggia circondata da una rigogliosa campagna e da meravigliose colline, una vista sul mare da cui si può ammirare tutto l’arcipelago delle isole toscane, compresa la Corsica e osservare tramonti che fanno sognare, poteva avere uno sviluppo turistico. Questo sarebbe stata una grande risorsa per l’economia del paese. Il luogo diventava ogni anno sempre più funzionale, con la creazione dei stabilimenti balneari, cinema, tutti i servizi per ospitare i turisti, piste da ballo, per ricordarne una la Capannina, un locale molto bello. Era un turismo di massa, ma una ricchezza per San Vincenzo. Non sto ad elencare tutto quello che fino ad oggi è stato lo sviluppo di questo paese: opere di grande rilievo turistico sono i bellissimi villaggi turistici insediati in un bosco meraviglioso a sud di San Vincenzo, il bellissimo parco di Ripigliano. San Vincenzo oggi è uno dei luoghi di villeggiatura più belli del nostro litorale, con i suoi alberghi e le sue pensioni. Nella stagione estiva ospitano molte decine di migliaia di turisti, offrendo loro tutti i servizi, direi ottimi per trascorrere una piacevole vacanza: impianti sportivi con campi da tennis, palestre e un bellissimo approdo turistico per coloro che possiedono una barca e amano il mare. Non voglio aggiungere altro, quello che oggi è San Vincenzo lo abbiamo sotto i nostri occhi. Ora voglio parlare di tutta la politica dal 1945 al 2002, di come l’ho vissuta da persona semplice come sono io, senza titoli di studio e pertanto tutto quello che scrivo non può essere letto come se fosse scritto da un professionista ma da un uomo soltanto che ha passato questi momenti e lo ha fatto vivendo in un tessuto sociale di operai e di povera gente. Io ho vissuto la politica fino ad oggi da uomo di sinistra ma che non si riconosce nella sinistra attuale. Non ho la presunzione che queste mie idee siano condivise da tanti ma credo che molti siano d’accordo con quello che dirò. Sono una persona perbene e questa critica che faccio sulla politica viene da chi tutti i giorni ha vissuto in questa realtà e queste osservazioni e sensazioni nascono da una mente pulita e democratica. Voglio subito entrare nell’ambito della politica: tutti i governi che abbiamo avuto in Italia sono stati gestiti da una classe dirigente paragonabile ad una famiglia dove c’è il capo famiglia alcolizzato e la moglie puttana. Immaginate ai figlioli che esempi di serietà, di onestà, di correttezza e coerenza hanno trasmesso. La nostra classe dirigente era soprattutto fatta di ladri che saccheggiavano il paese. Per elencare tutte le cose sporche che hanno fatto ci vorrebbe un libro come l’elenco telefonico. Oggi otto dicembre duemiladue al congresso dell’UDC abbiamo visto applaudire tutta la faccia democristiana ripulita e rimessa in campo e questo vuol dire che gli italiani non conoscono la storia del loro paese. A proposito dei nostri onorevoli, mi piacerebbe che qualche giornalista oltre a scrivere notizie, facesse una ricerca su di loro, per sapere quanti hanno fatto il servizio di leva e vorrei notizie anche sui loro figli, parenti e amici. Di sicuro ne sortirebbe un dato sconcertante per quello che riguarda il lavoro con il clientelismo. Problemi per i loro figli non esistono, trovano porte aperte ovunque, possono scegliere incarichi importanti ben pagati anche se sono degli incapaci. Questi problemi non li avevano nemmeno quelli che ricoprivano cariche pubbliche, sindaci, assessori anche di piccole città e tutti quelli che ricoprivano funzioni importanti nell’amministrazione pubblica, non avevano problemi, potevano scegliere il lavoro per i loro figli, parenti, amici accaparrando il meglio che c’era sul mercato. Il cittadino comune, anche se laureato o diplomato, era costretto a fare lavori saltuari o a fare il disoccupato. Nell’estate del ‘99 venne nel nostro paese, in visita ufficiale, il primo ministro cinese per incontrare le massime cariche dello stato, dal Presidente della Repubblica a quello del Consiglio e di Camera e di Senato, rappresentanti dell’industria e della finanza. Quello che più mi colpì nell’incontro con i segretari di partito fu la sfacciataggine della nostra classe dirigente, che fece presente al ministro cinese le violazioni dei diritti civili e di libertà nel suo paese, gli furono ricordati gli episodi di piazza Tienanmen, con la presunzione di dare un modello di democrazia e libertà, come abbiamo noi. I nostri politici hanno perso il senso della ragione quando confrontano un paese come la Cina, con un miliardo e duecentomila di cittadini, con il nostro. Con noi i governi non finiscono mai una legislatura per la presenza di decine di partiti o di gruppetti che provocano grossi problemi quando si devono spartire poltrone importanti, specie nei ministeri. Vi sono onorevoli che si inventano un loro partito o movimento la mattina dopo aver letto il loro oroscopo. Abbiamo individui che sono entrati in politica per mantenersi un posto di lavoro, mentre nel privato sarebbero stati dei falliti. Essi usufruiscono di tanti privilegi e danno l’impressione di gestire bene la cosa pubblica. Purtroppo spesso viene alla luce che la loro gestione è opportunista e i soldi sperperati e rubati a danno della collettività. Quando si tratta di quattrini, essi non sono mai in buona fede, i danni che ne derivano sono tutti calcolati, al fine di intascare miliardi per sé e per il loro partito, e quando i responsabili si trovano nessuno va in galera. Ci sono politici che durante la legislatura passano da uno schieramento ad un altro secondo la loro convenienza, creando ingovernabilità e confusione. Immaginiamoci governi come i nostri in Cina. Tutto questo lo chiamano pluralismo, libertà, democrazia ma non riescono a distinguere la democrazia dalla confusione. I nostri rappresentanti fecero presente al ministro cinese i fatti di piazza Tienanmen condannandone la violenza; anche io condanno la violenza da qualsiasi parte venga consumata, ma i nostri politici sono di memoria corta o non vogliono ricordare che di piazza Tienanmen in Italia ne abbiamo avute prima della Cina; i giovani non lo sanno ma è bene ricordarle: a Genova, quando la Democrazia Cristiana con altri partiti scagnozzi si apprestava a formare un governo con i fascisti, cioè il governo Tambiani, i cittadini democratici scesero in piazza a protestare e la polizia non esitò a sparare sulla folla, uccidendo alcuni manifestanti e lo stesso fecero a Bologna e Reggio Emilia. La nostra classe dirigente vorrebbe dare lezioni di comportamento agli altri, ma la democrazia ha delle regole che tutti dovrebbero rispettare. Non come hanno fatto i nostri governanti fino ad oggi, facendola diventare un abuso di pochi e non un diritto di tutti. I nostri politici non pagano mai i loro errori, a pagare è sempre la povera gente che deve stare alle regole. Oggi viviamo in una società che ha raggiunto straordinari traguardi, impensabili fino a pochi anni fa. Se cominciamo dalla tecnologia, noi esseri comuni non riusciamo nemmeno con la fantasia a seguire le grandi conquiste che però in molti casi si ritorgono su di noi, rendendoci la vita a volte complicata. Il grande male di questa società è la corsa ai profitti, trascurando tutto quello che una società civile dovrebbe garantire: rispetto dell’ambiente, dei diritti civili più volte violati, del lavoro, della scuola, della sanità, in modo che ogni cittadino si crei una famiglia e si possa lasciare ai nostri figli un mondo più giusto e un paese vivibile. Anche se tutto questo sarà impossibile, mi piace pensarlo per amore del prossimo, ma questa è un’era dove la forza prevale quasi sempre sulla ragione e difficilmente ci arriveremo. Io sono anziano, ho seguito i nostri uomini politici come semplice cittadino dal dopo guerra ad oggi. Il mio giudizio non sarà condiviso da molti, ma questa è la mia analisi: quando i nostri politici arrivano ad essere deputati o senatori vengono colpiti da un virus, si ammalano di una patologia incurabile cioè la presunzione, l’arroganza di sentirsi perfino al di sopra della legge. Prima di essere eletti essi si sentivano vicini ai problemi quotidiani della povera gente, uomini di sinistra che oggi hanno dimenticato il loro ruolo e vivono in un’altra realtà, in un mondo dove possono avere tutto e si adattano bene al nuovo ruolo. Quello che più angoscia e crea un disagio molto forte a me che sono sempre stato coerente con i principi fondamentali della sinistra, con la solidarietà e la difesa dei cittadini più deboli è la constatazione che tutti questi principi sono stati traditi. Oggi della sinistra non è rimasto più niente o poco, arrivano a vergognosi compromessi, chiedono sostegno per stare al governo alla peggior faccia dei politicanti, addirittura quelli che avevano gestito i vecchi governi del C.A.F. Non c’è bisogno di elencarli uno per uno ma alcuni più rappresentativi come De Mita e Andreotti non credo avessero molte credenziali. Avete dimenticato che razza di individuo è stato Cossiga? Aveva formato la Gladio con una banda di terroristi pronti, al momento opportuno, a far fuori gli esponenti comunisti di allora se avessero ottenuto una maggioranza per governare; caduto il governo Prodi, D’Alema formò il nuovo governo con se stesso Presidente del Consiglio. Per formare quel governo si servì dei personaggi che ho già citato per finire la legislatura. I dirigenti di oggi, paragonati a quelli degli anni passati, non sanno più cosa vuol dire credere in qualcosa per cui vale la pena di lottare fino in fondo, con coerenza e coraggio. Il governo D’Alema è stato la vergogna della sinistra, senza idee chiare, con tanti compromessi da non distinguere più sinistra, centro e destra. Tutto in uno stato di confusione, al punto che il cittadino di sinistra non riusciva a capire chi è che lo rappresentava. Io, che sono un uomo di sinistra, non riesco a vedere chi può tutelare i diritti della povera gente con questa politica opportunista dove i più lavorano per propria convenienza, una sinistra che con il governo D’Alema si è prostituita agli americani con la guerra nel Cossovo ma di questo ne parlerò più avanti. Potrò sembrare sempre molto legato al passato ed in parte è vero, perché il tempo non è riuscito a farmi perdere il colore, ho conosciuto uomini di sinistra antifascisti che hanno portato avanti le loro idee con dignità, coerenza e coraggio. Condannati ad anni d’esilio e di confine dal tribunale speciale fascista non sono mai arrivati a sporchi compromessi, non perché volevano fare gli eroi ma perché erano uomini veri, non dei politici da salotto come sono oggi. Uno dei mali della politica è secondo me il compromesso, in cui ognuna delle parti deve rinunciare a qualcosa stravolgendo tanti progetti o proposte che sarebbero state utili per il cittadino. Non mi piace in politica la pratica del compromesso dove le parti sono soddisfatte a metà. Sarebbe molto più utile arrivare ad una convergenza dei programmi, questo vorrebbe dire lavorare tutti nell’interesse dei cittadini. Purtroppo i compromessi, insieme agli intrallazzi, vengono praticati perfino con le elezioni del Presidente della Repubblica; ogni partito presenta un loro candidato, le prime votazioni sempre a vuoto, dopo con incontri di corridoio si arriva al compromesso fra le parti “io ti dò te mi dai”, e a camere congiunte, con una votazione gia scontata, viene fatto il nome. Dimenticavo di ricordare i fratelli Danesi Roberto e Italo proprietari del cinema Centrale, e il maestro Bianchi che ho conosciuto quando lui era già anziano e non insegnava più essendo in pensione. Abitava nell’appartamento accanto al cinema Danesi, sopra il negozio d’oreficeria del Marchi. Ricordo un particolare di lui che riguarda me quando ero un ragazzino: nel dietro della casa aveva un piccolo giardino con una bella pianta di fico; quando i fichi erano maturi non poteva coglierli perché con l’età avanzata che aveva non poteva salire sopra la pianta; allora chiappava un paio di ragazzini, fra i quali a volte anche me, per farci salire sul fico a cogliere i frutti. Non potevamo dirgli di no perché per noi ragazzi il maestro rappresentava quasi un’autorità. Saliti sulla pianta con un piccolo paniere a cogliere i fichi ci obbligava a cantare perché se cantavi non potevi mangiare i frutti. Il maestro stava sotto con una canna in mano e quando non ci sentiva cantare con la canna ci picchiava sulle gambe; ricordo che la canzone che cantavamo era la canzone “faccetta nera”, che avevamo imparato a scuola nel periodo fascista della guerra in Africa Orientale. Un altro maestro con cui ho finito le scuole elementari era il Sabatini che era molto autoritario e ci metteva molte volte in soggezione. In quinta non eravamo una classe facile da gestire, c’erano ragazzi da tre anni, erano ripetenti, non diciamo perché erano duri ma diciamo che volevano approfondire le materie. Ricordo che un ragazzo fra i ripetenti si chiamava Guido Quagli, aveva già quattordici anni e era già grande per la sua età. Il maestro una volta gli disse che se la mattina seguente fosse venuto a scuola senza essersi fatto la barba lo avrebbe rimandato a casa. C’erano anche episodi divertenti a scuola, una mattina il maestro ci fece una lezione sulla guerra del quindici- diciotto dicendo anche che Benito Mussolini fu ferito in trincea da una granata. Il giorno seguente l’insegnante ci volle interrogare su quella lezione e chiese ad uno degli alunni, al Becherini, uno degli anziani, se ricordava da cosa fu ferito il duce in guerra. Lui gli disse che fu ferito da una granatata! Allora il maestro gli fece un urlo chiamandolo duro, e in classe fu tutta una risata. A cura di Tagete Edizioni, Pontedera (Pi) Stampa P.R.P. di Balzani Bruno Pontedera (PI)