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5. LA VISIONE BINOCULARE

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5. LA VISIONE BINOCULARE
Capitolo 5
5.
LA VISIONE BINOCULARE
1. LA BINOCULARITA’.
Uno dei più alti gradi si specializzazione raggiunti dagli esseri viventi nel loro percorso
evolutivo è rappresentato dalla capacità di utilizzare cerebralmente le immagini fornite da entrambi
gli occhi per produrne una unica di grado superiore. Tale capacità, caratteristica peculiare dei grandi
primati e specificatamente dell’uomo, prende il nome di binocularità.
La visione binoculare è un fenomeno notevolmente complesso all’interno del quale
interagiscono varie componenti come: l’adeguato sviluppo delle strutture neuro-anatomiche, la
buona capacità visiva degli occhi e non ultimo una matura esperienza visiva. Per questi motivi
risulta ovvio che la binocularità non può essere presente alla nascita, ma è un traguardo che dovrà
essere acquisito ed imparato durante l’età del primo sviluppo, maggiormente nella fase da 0 a due
anni e che si raffina in una fase successiva che si prolunga fino agli 8 anni. Dopo questa età tutto
ciò che non si è maturato o non è stato acquisito è irrimediabilmente perso. Ciò può accadere
quando il patrimonio genetico dell’individuo ha in sé dei deficit strutturali che non consentono
l’adeguato sviluppo degli strumenti neuro-sensoriali, oppure quando la presenza di una precoce ed
elevata ametropia, non evidenziata e non compensata in tempo, non consente il svilupparsi della
necessaria esperienza visiva.
Da un punto di vista puramente didattico è possibile classificare gli aspetti evolutivi della
visione binoculare secondo il modello proposto da Claude Worth nel 1915. Esso riconosce tre fasi,
che nella pratica clinica vengono denominati i tre gradi della binocularità:
1. La percezione simultanea
2. La fusione
3. La stereopsi
2 LA PERCEZIONE SIMULTANEA
Fino a quattro mesi di vita la visione è di tipo monoculare alternata. Significa che viene
cerebralmente utilizzata solo una delle due immagini provenienti dagli occhi, in quanto una viene
soppressa. Questa fase viene superata appunto intorno al 6 mese, quando tende a ridursi e pian
piano a scomparire il fenomeno della soppressione. Le immagini dei due occhi vengono percepite,
La visione binoculare
elaborate e quindi proiettate entrambe nel campo visivo simultaneamente, generando il fenomeno
della diplopia. Da qui in poi il soggetto comincia ad imparare come le due immagini possono essere
gestite per migliorarne l’utilizzo. È chiaro che a mantener vivo il fenomeno della simultaneità è la
buona qualità di entrambe le immagini. Se una delle due fosse particolarmente carente di particolari
e quindi di nitidezza rispetto all’altra, tornerebbe a primeggiare il fenomeno della soppressione a
carico dell’immagine peggiore. Si ricadrebbe
nella fase della monocularità bloccando
irrevocabilmente lo sviluppo visivo.
Metodo di valutazione
Per valutare la presenza nel soggetto esaminato del I° grado della binocularità è sufficiente
tentare di indurre artificialmente la condizione di diplopia. Si invita il soggetto a fissare una mira
luminosa, quindi si applica, davanti all’occhio dominante, un prisma di 6Δ a base verticale. Ci si
aspetta che la visione si sdoppi (un valore prismatico di questo tipo in direzione verticale non può
essere compensato). Se il soggetto, richiesto di descrivere ciò che vede, risponde di percepire una
sola mira, significa che una delle due immagini non è psichicamente utilizzata. In questo caso si
deduce che non è presente visione simultanea.
3 LA FUSIONE
La fusione è il secondo momento dello sviluppo visivo. Essa si realizza quando il sistema
impara a coordinare i movimenti degli occhi in modo che le stimolazioni luminose provenienti dalle
due pupille cadano su punti retinici corrispondenti.
Punti retinici corrispondenti
Affinché il processo di fusione si compia è necessario che, a livello retinico, il campo visivo
sia adeguatamente organizzato in termini spaziali, ove le due fovee rappresentano il punto zero
dell’intero sistema. I campi visivi dei due occhi sono legati reciprocamente in modo tale che ogni
area retinica dell’occhio destro, posta in una certa posizione ed ad una certa distanza dalla fovea,
trova nell’occhio sinistro un’identica area omologa, cioè posta dalla stessa parte e alla stessa
distanza dalla propria fovea.
Queste aree, spazialmente omologhe, hanno la particolarità di possedere la stessa direzionalità
visiva e prendono il nome di aree corrispondenti. Tutti i punti oggetto che , in funzione della loro
posizione nello spazio, riescono a stimolare aree retiniche corrispondenti determineranno stimoli
che a livello corticale saranno fusi in un’unica immagine, che verrà proiettata nello spazio
reale come se provenisse da un ipotetico terzo occhio posto in posizione intermedia tra i due (occhio
ciclopico). Le due fovee rappresentano i due punti corrispondenti principali.
Quindi, quando gli occhi fissano un oggetto, esso viene visto singolo perché vengono stimolate le
due aree corrispondenti principali (fovee). Contemporaneamente anche altri punti oggetto del campo
visivo, pur non fissati, vengono visti singoli in quanto stimolano altre aree retiniche corrispondenti
secondarie. Se si uniscono tra loro mediante un’ipotetica linea tutti i punti oggetto dello spazio visti
singoli si ottiene una circonferenza passante per il punto di fissazione e per i punti nodali dei due
occhi. Detta linea prende il nome di oroptero.
In realtà la forma dell’oroptero non è costante, ma assume aspetti diversi in funzione di:
 La distanza del punto di fissazione
 Il contrasto della mira
 Il livello di luminanza dell’ambiente
Sinteticamente, per brevi distanze di osservazione la forma è quella del cerchio con concavità
rivolta verso l’osservatore. All’aumentare della distanza del punto di fissazione la concavità si
riduce gradualmente fino a diventare una retta, per poi riprendere la forma curva, ma questa volta
con la convessità rivolta all’osservatore.
Capitolo 5
A
OROPTERO
B
C’
CC
fovea
A’
C’’
B’
fovea
B’
A’
“A” è il punto di fissazione. L’immagine cade sulle due
fovee che sono i punti retinici corrispondenti principali
“B” è un punto non fissato del campo visivo che stimola aree
retiniche corrispondenti e quindi viene visto singolo
“C” è un punto non fissato del campo visivo che stimola aree
retiniche non corrispondenti e quindi viene visto doppio
.
.
.
Variazioni della forma dell’oroptero in
funzione della distanza del punto di
fissazione.
La visione binoculare
La diplopia fisiologica
Tutti i punti oggetto del campo visivo posti fuori dell’oroptero stimolano aree retiniche non
corrispondenti e pertanto danno origine a diplopia, che viene indicata come fisiologica.
La diplopia fisiologica assume diversa classificazione a seconda della posizione, nel campo visivo,
che gli oggetti fuori dell’oroptero occupano rispetto al punto di fissazione.
B’
B
B’’
A
OROPTERO
C’’ C C’
F
F
I punti oggetto B e C stanno fuori dell’oroptero
e quindi vengono percepiti doppi. Il punto B si trova oltre
il punto di fissazione, stimola zone nasali delle due retine, la sua
proiezione sarà dalla parte tempiale di ogni occhio,
generando diplopia omonima. Il contrario avviene con il
punto C che si trova prima del punto di fissazione, stimola aree
tempiali e genera diplopia crociata.
I punti oggetto fuori dell’oroptero posti oltre il punto di fissazione stimolano aree retiniche
nasali non corrispondenti in entrambi gli occhi. Siccome la proiezione psichica dell’immagine nel
campo visivo avviene sempre in area opposta a quella di stimolazione, in questo caso ogni occhio
proietta la propria immagine all’esterno dalla parte tempiale. In pratica le due immagini, non fuse,
stanno ognuna dalla stessa parte dell’occhio che le ha generate e la diplopia si definisce omonima.
Al contrario gli oggetti fuori dell’oroptero, posti prima del punto di fissazione, stimolano
aree retiniche tempiali e la proiezione delle immagini diplopiche avviene in zone nasali; in tal modo
esse si trovano dalla parte di campo visivo opposta all’occhio che le ha generate. Questa diplopia
viene definita crociata. Quanto detto permette di comprendere come il fenomeno della visione
doppia sia qualcosa di connaturato al normale svolgimento del processo visivo, infatti la diplopia
quando è fisiologica non risulta essere disturbante perché il sistema è in grado di gestirla e di
assorbirla sensorialmente.
Capitolo 5
Cosa ben diversa è la diplopia generata da uno scorretto allineamento degli occhi: sempre fonte
di problemi e disagi visivi
Se l’allineamento dello stimolo luminoso su punti retinici corrispondenti è la condizione
affinché le due immagini possano essere fuse, è necessario che il sistema possieda degli idonei
strumenti che realizzino tale condizione. Essi sono:
1. La fusione sensoriale (fusione piatta).
2. la fusione motoria.
La fusione sensoriale riceve ed elabora tutte le informazioni del mondo esterno e le trasmette alla
componente motoria. Quest’ultima governa l’attività della muscolatura estrinseca che attraverso
complessi movimenti di vergenza tende a mantenere gli assi visivi in ortoposizione1. Non è detto,
in effetti, che ciò sempre accada. Alle volte, una certa grossolanità dell’attività della muscolatura
estrinseca non consente un perfetto allineamento degli assi visivi sul punto di fissazione, con la
conseguenza che gli stimoli monoculari non cadono su punti retinici corrispondenti. Per evitare la
diplopia la fusione sensoriale interviene, una seconda volta, sulla componente motoria, riuscendo
nella maggior parte dei casi a ripristinare il corretto allineamento che consente il compimento della
fusione. Solo in alcune situazioni, in cui l’errore di vergenza è particolarmente cospicuo, la
componente fusionale sensoriale può non riuscire a ripristinare l’ortoposizione. In questo caso la
diplopia è inevitabile e fastidiosa. L’unico mezzo per ripristinare la visione singola torna ad essere
la soppressione. Una delle due immagini oculari, generalmente quella di minor qualità, viene
eliminata. Si ritorna, di fatto, alla monocularità.
Gli squilibri che normalmente vengono compensati dal sistema fusionale prendono il nome di
eteroforie , anche detti strabismi latenti per l’impossibilità di essere riconosciuti con la semplice
osservazione esterna. Mentre quelli che rimangono scompensati sono definiti eterotropie, meglio
conosciuti come strabismi manifesti.
Rivalità e dominanza
Quando due stimoli simili nella forma , ma diversi in alcuni particolari (ad esempio due
punti luminosi di uguale grandezza, ma di diverso colore), colpiscono aree retiniche corrispondenti
possono essere fusi in un' unica immagine che, a volte, percettivamente oscilla tra le caratteristiche
dell’uno e dell’altro con una frequenza massima di 30 Hz (il punto cambia alternativamente di
colore). Questo fenomeno va sotto il nome di rivalità binoculare. Quando, invece, l’immagine fusa
tende a conservare, con una certa permanenza temporale, le caratteristiche peculiari di uno solo dei
due stimoli si rileva la presenza di una marcata dominanza dell’occhio responsabile dell’immagine
più presente.
La dominanza oculare definisce la presenza di un occhio preferito, al quale viene attribuita la
funzione di direttore di tutte le funzionalità visive (ad esempio l’occhio dominante è il primo ad
allinearsi sul punto di fissazione, quasi a tracciare la strada al non dominante). La dominanza non è
necessariamente propria dell’occhio con miglior acuità visiva, ed è spesso associata alla dominanza
degli arti (occhio destro dominante nei destrimani e sinistro nei mancini), anche se la dominanza
crociata non è caso infrequente.
1
Per ortoposizione si intende la perfetta intersezione degli assi visivi sul punto di fissazione.
La visione binoculare
Area di Panum
La definizione di oroptero obbliga a considerare
diplopici tutti i punti oggetto al di fuori di esso.
In realtà Panum (1858) dimostrò che esiste un
intorno volumetrico dell’oroptero entro il quale
gli oggetti, pur stimolando aree retiniche non
perfettamente corrispondenti, vengono percepiti
ancora singoli. Tale ambito volumetrico è
impropriamente chiamato area di Panum.
Metodi di valutazione del II° della binocularità
Per valutare la buona presenza della capacità di fusione, oggi si utilizza abbastanza
frequentemente il test delle luci di Worth.
La mira è costituita da quattro dischi colorati su sfondo nero posti a croce: uno rosso in alto, due
verdi in orizzontale, ed uno bianco in basso. Gli occhi del soggetto esaminato sono coperti da filtri
anaglifici. In questo modo, si viene a creare la condizione in cui ogni occhio vede i dischi del colore
del proprio filtro e in più il disco bianco. La situazione è di parziale dissociazione fusionale, in
quanto la visione simultanea del disco bianco mantiene lo stimolo a fondere.
Ipotizzando di aver anteposto all’occhio destro il filtro verde e al sinistro quello rosso, dopo aver
invitato il soggetto esaminato a riferire ciò che vede, le possibili risposte sono le seguenti:
1. Vedo 4 luci: è presente visione binoculare singola nella norma, l’eventuale eteroforia è ben
compensata. La tonalità assegnata al cerchio bianco definisce la dominanza.
2. Vedo 2 luci rosse: è presente soppressione dell’occhio dx (filtro verde)
3. Vedo 3 luci verdi: è presente soppressione dell’occhio sx (filtro rosso)
Capitolo 5
4. Vedo 5 luci, due rosse a sinistra e tre verdi a destra: è presente diplopia omonima che
indica una esoforia.
5. Vedo 5 luci, due rosse a destra e tre verdi a sinistra: è presente diplopia crociata che indica
una exoforia.
Il test va effettuato da lontano sfruttando l’apposita mira a proiezione e da vicino con la torcia
opportunamente predisposta; è anche possibile, sempre con la torcia, fare un’analisi dinamica per
controllare lo spazio di fusione.
La visione binoculare
4. LA STEREOPSI
A causa della distanza orizzontale esistente tra i due occhi, le immagine retiniche dello
stesso oggetto risultano leggermente differenti e di conseguenza in alcune loro parti stimolano punti
retinici non corrispondenti. Nonostante ciò, quando la disparità binoculare non supera i 2°, le due
immagini vengono regolarmente fuse.
Ciò che potrebbe sembrare l’ennesimo intervento della fusione sensoriale a correggere un
errore visivo, costituisce una grandissima risorsa della binocularità. Infatti la disparità visiva
orizzontale è utilizzata dalla psiche per trarre preziose informazioni sulla forma tridimensionale
degli oggetti e sulla loro posizione nello spazio. Questo fenomeno prende il nome di: visione
stereoscopica o più brevemente stereopsi.
Come tutte le altre facoltà binoculari, anche la stereopsi deve essere acquisita dopo la
nascita. La sua maturazione è molto lunga in quanto, se l’inizio del processo è precoce, intorno ai 4
mesi di vita, esso si completa tra i 6 e gli 8 anni. La visione stereoscopica non è comunque da
considerarsi come l’inevitabile risultato della capacità fusionale, anche se da essa discende. Si
trovano in numero non infrequente soggetti adulti che posseggono regolari capacità di fusione (II°
della binocularità) e scarsi, alle volte nulli, valori di stereopsi. A sostegno di ciò è stata riconosciuta
la presenza nella corteccia visiva di una famiglia specifica di neuroni specializzati nel rilevamento
delle forme di disparità retinica, il cui anomalo sviluppo può compromettere tale capacità visiva.
Dipendendo dalla distanza tra gli occhi, è intuibile che l’efficacia della disparità sia molto
evidente nell’osservazione degli oggetti vicini e vada progressivamente perdendosi man mano che il
punto di osservazione si sposta verso l’infinito. Ciò farebbe pensare che il mondo oltre lo spazio
del vicino dovrebbe essere percepito bidimensionale. Tutti sappiamo che ciò non è vero, anche se
funzionalmente dovrebbe essere così. In effetti la visione in rilievo, nella zona del vicino, è esaltata
dalla percezione della disparità spaziale, ma questo ci insegna che, oltre il vicino, non può esistere
un mondo piatto. Pertanto quando l’osservazione si sposta verso l’orizzonte, l’esperienza visiva
acquisita nel vicino, la sovrapposizione degli oggetti, la prospettiva lineare, l’altezza degli oggetti
sull’orizzonte, il giochi di luci e ombre ci permettono di continuare ad interpretare correttamente il
mondo in forma tridimensionale. Questo ci spiega come sia possibile che soggetti, che in età adulta
abbiano subito la perdita di funzionalità di uno dei due occhi, mantengano un discreto grado di
percezione stereoscopica.
Come detto in precedenza la stereopsi è un fenomeno che deve essere “imparato”. Affinché ciò
accada è assolutamente necessario che pre-esistano alcune condizioni visive basilari. Esse sono:
 fissazione bifoveolare
 capacità completa di fusione
 sufficiente acuità visiva in ambo gli occhi.
Come si può osservare, la condizioni sopraccitate sono essenziali al fine di garantire la presenza dei
primi due gradi della binocularità. La stereopsi, infatti, sta nello scalino più alto della raffinatezza
binoculare e non può instaurarsi se non sono precedentemente acquisite la percezione simultanea e
la fusione.
Metodi di valutazione
Misurare il grado di raffinatezza della stereopsi presente in ciascun individuo può sembrare,
dal punto di vista terapeutico, un esercizio sterile. L’assenza della visione stereoscopica, nella
maggior parte dei casi non può essere ripristinata con la prescrizione di ausilii esterni. Nonostante
ciò constatare la presenza o meno di una matura stereopsi significa definire il livello di qualità
visiva, anche potenziale , che un soggetto può esprimere. Ecco perché i vari stereotest sono pratica
comune in tutte le indagini visive di tipo fiscale ed anche inseriti nella usuale pratica clinica
optometrica. In questo ambito è opportuno distinguere la stereopsi in
Capitolo 5
Locale
Globale
La prima è stimolata da mire, di forma definita e riconoscibile, identiche tra loro, ma che
vengono presentate separatamente ai due occhi con un effetto di spostamento lineare l’una rispetto
all’altra.
La seconda richiede una maggior raffinatezza e sviluppo dell’attività stereoscopica: le mire
sono prive di riconoscibilità monoculare; attraverso l’attività di organizzazione visiva dei vari
particolari distribuiti in modo casuale è possibile percepire delle figure di forma compiuta solo se è
presente un elevato grado di stereopsi.
La stereopsi può essere rilevata sia da lontano che da vicino. I test più utilizzati sono da vicino,
pertanto richiedono la presenza di un’ illuminazione molto buona e la compensazione
dell’eventuale presbiopia o di ametropie che possano penalizzare la visione prossimale. La disparità
spaziale delle mire osservate è misurata in secondi d’arco (’’), che al tempo stesso rappresenta il
valore della capacità stereoscopica del soggetto.
Test di stereopsi locale. Il più comune è il test di
Wirt, meglio conosciuto come test della mosca
di Titmus. La filtratura polarizzata davanti agli
occhi permette la percezione della mira in
rilievo, che diversamente sarebbe vista doppia.
Il test è articolato in una serie di mire con
coefficiente di disparità spaziale a partire da
3000’’ (la mosca) fino ad un minimo di 40’’ (il
nono gruppo di cerchi). La presenza di
strabismo è ovviamente condizione invalidante
del test.
Test di stereopsi globale. I test sono costruiti da
una serie di punti disposti in modo casuale. Solo
la capacità di percezione tridimensionale
permette il rilevamento di immagini.


Anche in questo caso è necessaria l’apposizione agli occhi di una
filtratura polarizzata o l’utilizzo di filtri colorati anaglifici. I limiti
di stereopsi valutabile sono compresi tra 1900’’ e 15’’. In tempi
recenti si è affermato l’utilizzo del test di Lang. Con esso non è
necessario l’utilizzo di alcuna filtratura, grazie alla particolare
costruzione cilindrica dei suoi elementi. Unico limite è costituito da
una gamma di apprezzamento meno ampia (da 550’’ a 1200’’).
Test di Lang
5. LA CONVERGENZA
Cenni di oculomozione
I movimenti degli occhi nella loro esplorazione dello spazio vengono classificati in
Monoculari
 Binoculari
I movimenti monoculari prendono il nome di duzioni e si differenziano in
 Adduzione: movimento orizzontale verso l’interno
 Abduzione: movimento orizzontale verso l’esterno
 Supraduzione: movimento verticale verso l’alto
 Infraduzione: movimento verticale verso il basso

La visione binoculare


Excicloduzione: movimento di rotazione sul proprio asse verso l’esterno
Incicloduzione: movimento di rotazione sul proprio asse verso l’interno
I movimenti binoculari si differenziano in:
 Versioni: movimenti degli occhi nello stesso senso. Gli assi visivi non mutano, tra di loro,
l’angolazione.
 Vergenze: movimenti degli occhi in senso opposto. Gli assi visivi mutano, tra di loro,
l’angolazione.
Le vergenze sono i movimenti che consentono agli assi visivi di assumere l’ortoposizione, che,
come si è precedentemente visto, rappresenta la condizione fondamentale per innescare la
binocularità.
I movimenti di vergenza si verificano quando gli assi visivi abbandonano la loro cooperazione
coniugata, tipica della visione lontana gestita dai movimenti di versione. Nelle vergenze gli assi
visivi perdono il parallelismo e si portano a centrare oggetti posti nello spazio finito. Il fenomeno
ora descritto prende il nome di convergenza, che viene più precisamente definita:
 Convergenza positiva, quando i due occhi ruotano verso l’interno per fissare un oggetto più
vicino.
 Convergenza negativa, quando la fissazione avviene da un oggetto vicino ad uno lontano.
In questo caso si parla anche di divergenza o rilassamento di convergenza.
Le componenti della convergenza, così come enunciate da Maddox nel 1893, sono:



Convergenza tonica: nella situazione di riposo assoluto, ad occhi chiusi, gli assi visivi
assumono una posizione di leggera divergenza. Nel momento in cui il soggetto torna in stato
di veglia, si innesca il fisiologico tono basale della muscolatura che a livello oculare riporta
gli assi visivi in parallelismo. Tale variazione di assetto viene definito appunto convergenza
tonica.
Convergenza psichica: è quella parte della convergenza totale che viene attivata dalla
semplice presa di coscienza che esistono nel campo visivo degli oggetti vicini e quindi
potenziali obiettivi di fissazione.
Convergenza accomodativa: è quella quota strettamente associata all’accomodazione. È
indotta dall’attività innervativa e quindi non determinata dalla quantità di accomodazione
esercitata (è presente anche nella presbiopia) ed è variabile tra soggetto e soggetto. La
relazione tra convergenza accomodativa (AC) e l’accomodazione (A) è espressa dal
rapporto AC/A: diverso per ogni soggetto.
Come già in precedenza accennato, la muscolatura estrinseca deputata alla variazione di vergenza
agisce con una certa grossolanità, e quindi gli errori di ortoposizione degli assi visivi (eteroforie)
sono più la norma che l’eccezione. Il centro fusionale viene quindi attivato per correggere l’errore.
Si configura, pertanto un’ultima e definitiva componente della convergenza totale:
 Convergenza fusionale: la quale consente di soddisfare il desiderio di visione binoculare
singola e di evitare la diplopia, in tutte quelle condizioni in cui gli assi visivi non si
presentino allineati al punto di fissazione.
Capitolo 5
Le componenti della convergenza
.
Punto di fissazione
Misura della convergenza
L’unità di misura della convergenza è l’angolo metrico.
Si definisce ampiezza di convergenza di 1 angolo metrico quella ottenuta dagli assi visivi quando
convergono su di un punto posto a 1 metro.
Ne consegue che per esprimere il valore di convergenza in Angoli Metrici è sufficiente effettuare il
reciproco della distanza di fissazione espressa in metri. Ricordiamo che in modo analogo si esprime
il valore dell’accomodazione.
Es.: per avere visione singola e nitida osservando uno scritto posto a 50cm (0,5m) si deve
accomodare di 2 D. e convergere di 2 A.M.
L’ampiezza angolare dell’ angolo metrico, essendo dipendente solo dalla distanza del punto
fissazione, risulta essere un dato soggettivo. Infatti se due soggetti con diversa distanza tra gli occhi
(distanza interpupillare) fissano un oggetto ad un metro di distanza, entrambi esercitano una
convergenza di un angolo metrico, ma la reale ampiezza di questo angolo sarà maggiore per il
soggetto con distanza interpupillare più grande rispetto a quello con distanza interpupillare minore.
È quindi necessario attribuire un valore alla convergenza in angoli metrici tenendo conto della
soggettiva distanza interpupillare; ciò si ottiene applicando la seguente:
C   dp  AM
ove, se la distanza interpupillare (dp) è espressa in cm, la convergenza (C) è in diottrie prismatiche.
Punti remoto e prossimo di convergenza
Come nell’accomodazione, anche nella valutazione delle capacità di mutare la vergenza di
ogni soggetto, è possibile individuare un punto remoto e un punto prossimo di convergenza. Nella
pratica clinica, in effetti, ha valore solo il punto prossimo di convergenza, in quanto è un
formidabile indicatore della normale funzionalità della motilità oculare.
Esso è definito come il punto più vicino agli occhi percepito singolo anche se non nitido.
Generalmente il valore del p.p. di convergenza riamane immutato nel tempo.
Nei soggetti con buona motilità, i valori medi del p.p. di convergenza oscillano tra 2 e 5 cm di
distanza dal piano principale dell’occhio ovvero dal piano delle lenti dell’occhiale in uso. Valori
inferiori del punto prossimo di convergenza definiscono soggetti portatori di un eccesso di
convergenza; valori maggiori sono propri di soggetti meno capaci di convergere, quindi portatori di
insufficienza di convergenza. Valori comunque elevati del p.p. di convergenza sono spesso causa di
affaticamento visivo.
La visione binoculare
Essendo il p.p. di convergenza slegato dall’atto accomodativo, il suo valore non risente in modo
significativo della correzione oftalmica e l’unica maniera d’intervento consiste nella modifica della
postura abituale di lavoro.
Il rapporto Accomodazione-Convergenza
Valutando le varie componenti della convergenza totale, l’aspetto tonico e quello psichicoprossimale rappresentano valori modesti e generalmente sempre costanti. La parte più cospicua e
variabile è rappresentata dalla convergenza accomodativa, dipendente dall’esercizio
dell’accomodazione. In pratica, esiste una sincinesia tra lo stimolo nervoso che determina la
variazione di potere del cristallino, per focalizzare un oggetto a distanza finita, e lo stimolo che
attiva la contrazione dei retti interni, al fine di cercare l’ortoposizione degli occhi sul punto di
interesse visivo. Naturalmente sarebbe ragionevole pensare che un soggetto emmetrope dovrebbe
esercitare 1 angolo metrico di convergenza per ogni diottria di accomodazione impegnata: ciò
rappresenterebbe l’assoluta precisione nell’esercizio della binocularità. Ma in effetti ciò accade di
solito molto raramente. Ogni soggetto infatti risponde all’atto accomodativo con un proprio valore
di stimolazione in convergenza: a volte maggiore ed altre volte minore di ciò che è richiesto. Ma ciò
che conta è la costanza del valore di tale rapporto sincinetico.
Pertanto è possibile affermare che la risposta in convergenza di un soggetto ad una unità di
stimolazione accomodativa determina il suo valore personale e soggettivo tra convergenza
accomodativa e accomodazione, espresso usualmente con il termine di rapporto AC/A. In altre
AC
parole
rappresenta la quantità di convergenza in diottrie prismatiche (AC) che viene
A
usualmente trascinata per ogni diottria di accomodazione (A) esercitata.
È opportuno chiedersi se il rapporto AC/A possa rappresentare una costante assoluta durante
tutta la vita dell’individuo, ovvero possa essere soggetto a variazioni legate all’influenza di fattori
esterni. Un’analisi corretta deve condurci a verificare se tale rapporto sia di tipo acquisito, ovvero
innato; ove ciò che è innato è anche immodificabile, mentre ciò che si impara è quasi sempre
soggetto a possibili variazioni. A favore dell’ipotesi innata si possono fare le seguenti
considerazioni:
 Il rapporto è presente anche nei soggetti strabici
 Il rapporto, presente in soggetti normali provenienti da famiglie con tendenza allo strabismo
convergente, manifesta valori significativamente diversi da rilevamenti fatti su un campione
casuale (Burian 1970)
A sostegno dell’ipotesi legata all’acquisizione ci sono altre forti motivazioni:
 Il sistema visivo è fortunatamente capace di uscire dal vincolo del rapporto AC/A quando
viene commesso un errore di centraggio (convergenza fusionale). La flessibilità è una
caratteristica delle funzioni acquisite
 I soggetti affetti da stress visivo presentano tutti la tendenza a chiudere verso se stessi la
centratura dell’interesse visivo. Manifestano, infatti, valori del rapporto elevati con
conseguente eccesso di convergenza, che non esisteva prima del presentarsi dello stato di
stress. Infatti dopo un ciclo di rieducazione visiva terminata con successo, il rapporto si
riposiziona spesso su valori meno elevati.
Rifacendoci comunque alla normalità dei casi si nota che il rapporto tende a rimanere stabile
dalla prima giovinezza fino al presentarsi della presbiopia, ove sono spesso notati aumenti anche
forti del suo valore. Il fenomeno sembra legato al sovradimensionamento dello stimolo
accomodativo rispetto alla distanza richiesta, che nella presbiopia incipiente viene esercitato nel
tentativo di ottenere la focalizzazione da parte di un cristallino che non risponde più nel modo
dovuto.
Anche il variare delle dimensioni del diametro pupillare può indurre a trovare variazioni di rapporto
AC/A. Il fenomeno, in questi casi, è fittizio, perché legato alla differenza di profondità di fuoco
Capitolo 5
determinata proprio dall’ampiezza della fessura pupillare, che induce variazioni anche significative
nell’utilizzo dell’accomodazione.
LO STATO ETEROFORICO
Quando, senza un ulteriore intervento della componente sensoriale, si ottiene l’allineamento
degli assi visivi sul punto di fissazione il sistema visivo è definito ortoforico.
Quando l’ortoforia non si verifica, ed è la norma, gli occhi presentano una deviazione che può
essere:
 Latente: quando il centro fusionale ha capacità sufficienti a ripristinare l’ortoposizione.
Pertanto la deviazione viene mascherata e può essere evidenziata e misurata solo
sopprimendo, con tecniche appropriate, l’attività della fusione sensoriale. Questo tipo di
deviazioni costituisce il gruppo delle eteroforie.
 Manifesta:
quando le riserve fusionali non sono sufficienti a compensare l’errore di
allineamento. Pertanto l’attività fusionale si interrompe, la diplopia viene contrastata dalla
soppressione e uno dei due occhi si pone in evidente posizione deviata, mentre il
controlaterale mantiene la fissazione. Questo tipo di deviazioni forma la famiglia delle
eterotropie.
Prima di affrontare la classificazione delle eteroforie è opportuno fissare alcune considerazioni
fondamentali:
I° Considerazione: lo stato eteroforico è un’anomalia latente del sistema visivo binoculare. Non è
quindi assegnabile ad uno solo dei due occhi. Differentemente il soggetto strabico (affetto da
eterotropia) può manifestare la deviazione sempre a carico dello stesso occhio mentre il
controlaterale rimane fissante.
II° Considerazione: la condizione di deviazione, sia latente che manifesta, è prevalentemente legata
ad una distanza specifica. Un soggetto può essere eteroforico o eterotropico quando osserva
l’infinito e presentare la condizione di ortoforia nelle osservazioni prossimali e viceversa.
III° Considerazione: si può sicuramente affermare che, valutando tutte le usuali distanze di
fissazione, non esistono soggetti assenti da eteroforia.
IV° Considerazione: Il valore della foria, così come può essere misurata con i diversi test a
disposizione, è soggetto ad una evidente variabilità, dovuta alle seguenti condizioni:
 Importanza che, in quel momento,il soggetto assegna a ciò che viene fissato.
 Lenti utilizzate
 Luminanza dell’ambiente
 Dislocazione nello spazio degli oggetti osservati
 Livello di affaticamento
 Postura
Classificazione delle eteroforie
Alcuni autori sogliono differenziare le eteroforie secondo la loro etiologia, assegnando al fenomeno
tre possibili cause:
 La presenza di condizioni strutturali che determinano una mancanza di simmetria tra gli
occhi (ad es.: difformità tra le forme orbitarie o dei bulbi, differenze di lunghezza della
porzione tendinea dei muscoli estrinseci, asimmetrie del cranio ecc.). L’eteroforie
assegnabili a questa origine vengono indicate di tipo STATICO.
 Valori fuori norma del rapporto sinergico tra accomodazione e convergenza, possibilmente
complicate dalla presenza di ametropie non corrette. Sono queste le forme classificate come
eteroforie ACCOMODATIVE.
La visione binoculare

Tutte le forme di mancanza di controllo dell’innervazione della muscolatura estrinseca
(spasmi neuronali, iper/ipo eccitazioni, disturbi sinaptici) che determinano alterazione della
propriocettività2. Sono queste le eteroforie di tipo NEUROGENO.
Dal punto di vista clinico le eteroforie si classificano nei seguenti gruppi:
Orizzontali:
 Esoforia: è la condizione in cui gli occhi tendono a convergere su un punto più vicino
dell’oggetto fissato.
 Exoforia: è la condizione in cui gli occhi tendono a convergere in un punto più lontano
dell’oggetto fissato
Verticali:
 Iperforia destra o ipoforia sinistra: condizione in cui l’occhio destro è deviato verso l’alto e
il sinistro verso il basso.
 Iperforia sinistra o ipoforia destra: condizione in cui l’occhio sinistro è ruotato verso l’alto
ed il destro verso il basso
Torsionali:
 Incicloforia: rotazione torsionale, lungo l’asse anteroposteriore, di entrambi gli occhi verso
il naso
 Exocicloforia: torsione lungo l’asse anteroposteriore, di entrambi gli occhi verso le tempie
In clinica optometrica il gruppo di principale interesse è sicuramente quello delle forie orizzontali,
perché sono quelle legate all’attività accomodativa.
Esoforia
È la tendenza degli occhi a convergere su un punto più vicino dell’oggetto fissato. È
l’attitudine comportamentale a fare del proprio corpo il punto di riferimento interpretativo di tutto lo
spazio visivo. Ogni cosa viene interpretata in relazione a se stessi. L’esoforia può quindi definire
soggetti che presentano attitudini a prestare molta attenzione a se stessi, spesso pignoli nella
valutazione dei dettagli e dei particolari più che della generalità di ciò che viene osservato.
Nella sua forma più comune la si ritrova associata ad un rapporto AC/A elevato, ove
naturalmente il massimo valore lo si riscontra nella visione vicina. La si osserva principalmente nei
soggetti che utilizzano maggiormente l’accomodazione. È pertanto considerata la normalità per gli
ipermetropi e comunque frequente in tutti coloro che svolgano la loro abituale attività lavorativa in
spazi visivi brevi. È la condizione più spesso presente nelle sintomatologie da stress visivo
(astenopia fusionale). Nella forme accompagnate da ipermetropie medio-lievi, la semplice
correzione ottica risulta sufficiente alla totale scomparsa dei sintomi e garantisce il ritorno ad una
binocularità equilibrata.
Pur con bassa frequenza è possibile l’esoforia in presenza di rapporto AC/A basso. In questi
casi il valore di deviazione è maggiore da lontano e tende a ridursi alle distanze prossimali.
Naturalmente l’eventuale correzione ottica non è in grado di fornire grande aiuto, ma
fortunatamente questi casi sono spesso accompagnati da scarsi sintomi astenopici. Nelle forme più
gravi il problema maggiore è rappresentato da intermittenti alterazioni della binocularità nella
visione lontana che può essere risolto con tecniche riabilitative e in casi estremi con l’utilizzo di
lenti prismatiche.
È bene ricordare che gli esercizi ortottici tendenti a far aumentare la capacità fusionale
soggettiva hanno, nei casi di esoforia, scarsi risultati nel senso che l’atto del divergere non può
essere esercitato in forma volontaria (come lo è invece la capacità di convergere) e quindi poco si
La capacità proprioaccettiva è una particolare sensibilità, grazie alla quale l’organismo ha la percezione di sé in rapporto col mondo esterno e più
propriamente consente di capire la posizione e il movimento degli arti indipendentemente dalle informazioni fornite dalla vista (mantenere l’armonia
dei movimenti in rapporto al mondo esterno anche ad occhi chiusi).
2
Capitolo 5
adatta ad essere imparato. Maggiori risultati possono avere le tecniche riabilitative che considerano
l’esoforia non la causa, ma il sintomo di una serie di tensioni dovute ad un scorretto rapporto
dell’individuo con il suo ambiente e con le sue attività quotidiane. Intervenire sul comportamento
produce l’estinzione del sintomo.
Exoforia
È la tendenza degli occhi a convergere verso un punto più distante dell’oggetto fissato. Dal
punto di vista comportamentale si verifica in soggetti poco attenti a se, più interessati alla generalità
del mondo circostante piuttosto che ai singoli particolari che lo compongono, e sono spesso
classificati nella categoria dei distratti e dei superficiali.
E’ riferibile ai soggetti che facciano uso ridotto dell’attività accomodativa, pertanto è la
condizione fisiologicamente più consona da ritrovare nei soggetti miopi.
In effetti, come hanno dimostrato gli studi di Duane e poi di Sheard, la presenza di exoforia
lieve da lontano e con valori oscillanti tra 2 e 8 diottrie prismatiche da vicino (40cm) rappresenta la
normalità fisiologica, mediante la quale si ottiene una perfetta gestione della binocularità e totale
assenza di sintomi astenopici.
Naturalmente la presenza di exoforia associata ad un rapporto AC|A elevato connota un
eccesso di divergenza, specie da vicino, con possibili disturbi della binocularatà e presenza di
sintomi astenopici, che possono risolversi con un adeguato utilizzo di lenti negative durante le
attività prossimali. Nei miopi di medio valore, alle volte è sufficiente interrompere la diffusa
abitudine a togliere gli occhiali da vicino che se utilizzati a permanenza consentono la scomparsa di
ogni problema. Solo in rari casi può essere presente la perdita di binocularità nella visione lontana
che può essere combattuta, nei soggetti giovani, con l’utilizzo dell’ipercorrezione miopica. Efficaci
si dimostrano le tecniche ortottiche di aumento delle capacità fusionali che in questo caso vanno ad
agire su una funzionalità legata alla volontarietà e quindi ben si attagliano ad essere apprese.
Iperforia
È raro che si presenti allo stato puro. La si ritrova infatti quasi sempre associata a deviazioni
orizzontali. A differenza delle orizzontali, che possono essere compensate anche per valori elevati
dal sistema fusionale, nelle forme verticali la compensazione e l’insorgere della diplopia è più
marcato. Infatti la capacità fusionale del sistema visivo in direzione verticale è di circa 3Δ in totale.
Pertanto sono sufficienti deviazioni di 1,5Δ per occhio per creare problemi.
La misura dell’eteroforia
Per attribuire un valore all’eteroforia è necessario evidenziarla. Quindi rendere palese ciò
che normalmente è latente. È necessario usare delle tecniche capaci di inibire l’attività del centro
fusionale.
Ciò è possibile:
 facendo arrivare agli occhi due stimoli talmente tra loro differenti in forma, particolari,
colore ecc., da non poter assolutamente essere fusi in un'unica immagine
 mantenere lo stimolo unico, ma far in modo che esso colpisca aree retiniche non
corrispondenti, al punto tale da non poter essere fuso.
Una volta ottenuta la diplopia:
 La posizione delle immagine diplopiche nello spazio definisce il tipo di deviazione: se la
diplopia è omonima si è in presenza di esoforia, se è crociata di exoforia.
La visione binoculare
il valore prismatico, correttamente orientato, in grado di ripristinare la sovrapposizione o
l’allineamento delle due immagini definisce il valore della foria.
In sede clinica esistono svariati test per ottenere, mediante la dissociazione visiva, la misura della
eteroforia in Δ. Tra i più comuni, facilmente eseguibili anche con l’occhialino di prova, si possono
ricordare:
Il metodo di Maddox: Il test consente la misura sia delle forie orizzontali che verticali. Il soggetto
osserva in visione binoculare una mira luminosa puntiforme. Si antepone ad uno dei due occhi una
lente cilindrica di 500 dt. In questa condizione l’occhio libero (scoperto) continua a vedere la
sorgente luminosa, l’altro, a causa dell’enorme distorsione generata dal cilindro, percepisce un stria
luminosa, orientata secondo l’asse del cilindro stesso. Si è così ottenuta una perfetta dissociazione:
ciascun occhio percepisce un’immagine totalmente diversa da quella del controlaterale. A questo
punto, gli occhi assumeranno la loro posizione naturale evidenziando la foria presente.

METODO DI MADDOX PER LA MISURA DELL’ETEROFORIA
Cilindro su occhio destro
Immagine percepita dall’O.S.
Ortoforia orizzontale
Ortoforia verticale
Immagine percepita dall’O.D.
Exoforia
Esoforia
Iperforia destra
Iperforia sinistra
La condizione di ortoforia è definita dalla
perfetta intersecazione della stria con la
sorgente. La foria è misurata del valore del
prisma che la ripristina. In alternativa, è
possibile fissare la sorgente luminosa al centro
di una croce (croce di Maddox), sui cui quattro
bracci
sono
ricavate
delle
tacche
opportunamente distanziate, in modo che ad
ognuna di esse corrisponda l’incremento di una
diottria prismatica di scostamento. Il soggetto è
invitato a riferire in prossimità di quale tacca
vede passare la stria luminosa
Capitolo 5
I metodi di Hering e Schober. Nel test di
Hering la mira è costituita da una croce i cui
bracci sono polarizzati ortogonalmente tra loro.
Ogni occhio ha anteposto un filtro polarizzato
con lo stesso andamento delle braccia della
croce. La dissociazione è definita dal fatto che
La mira del test di
Schober
ogni occhio vede solo il braccio della croce polarizzato nella stessa direzione. In presenza di
eteroforia le braccia della croce saranno tra loro disassate. Il prisma che ripristina la corretta
intersecazione misura la foria presente.
Schober propone un test simile con la variante dell’uso di colori e filtri anaglifici: la croce è filtrata
in rosso, i cerchi in verde. Davanti all’occhio destro è posto un filtro rosso e al sinistro un filtro
verde. La posizione vista della croce rispetto ai cerchi definisce la foria. Il prisma che ripristina il
perfetto centraggio la misura.
La misura del rapporto AC/A
Esistono, più frequentemente descritti in letteratura, due metodi per la sua misurazione:
 Il metodo della foria
 Il metodo del gradiente
Metodo della foria
La misura viene eseguita con la correzione ottenuta con l’esame visivo. Devono essere noti i
seguenti dati:
1. D.A.V. per lontano in cm
2. FV: foria per vicino rilevata a 40 cm in Δ
3. FL: foria per lontano (accomodazione rilassata) in Δ
4. Valore in diottrie dell’accomodazione esercitata nella visione a 40 cm (reciproco della
distanza espressa in metri).
La formula che consente il calcolo del rapporto è la seguente:
AC
( FV )  ( FL)
 D. A.V . 
A
Acc.
Si tenga conto che le esoforie vanno assunte con il segno positivo (+), e le exoforie con il segno
negativo (-).
Metodo del gradiente
In questo modo non viene fatta variare la vergenza, cambiando la distanza di fissazione, ma
bensì intervenendo sullo stimolo accomodativo necessario per vedere nitida una mira ad una
costante distanza prossimale.
Si fa fissare, attraverso l’eventuale compensazione diottrica, binocularmente un trafiletto posto a 40
cm
1. Si dissocia la visione binoculare
2. Si misura la foria orizzontale e se ne prende nota
3. Si antepone un’addizione di 1dt positiva (si costringono gli occhi a disaccomodare di
1 dt per mantenere la corretta focalizzazione)
4. Si rimisura la foria orizzontale
La differenza tra la prima misura di foria e la seconda (dopo aver inserito la lente sf.+1,00)
definisce il valore del rapporto AC/A. Infatti il differenziale tra le due forie determina di quanto è
cambiata la convergenza dopo avere inibito l’accomodazione di 1 dt.
È opportuno effettuare il test anche con l’inserimento di una sfera di -1,00. Spesso si ottiene un
valore diverso. In questo caso si fa la media tra i due risultati.
La visione binoculare
Con il metodo della foria si ottengono generalmente valori più elevati del rapporto AC/A
rispetto a quelli rilevati con il metodo del gradiente. Il motivo sta nel fatto che con il metodo della
foria entra nel calcolo anche la componente psichica della convergenza.
Il valore medio del gradiente risulta essere 4/1. Ogni diottria di accomodazione trascina 4
diottrie prismatiche di convergenza.
La conoscenza del valore del rapporto AC/A ci consente di stabilire a priori se la
prescrizione di valori sferici potrà avere o meno effetto in presenza di una foria disturbante.
Esempio: un soggetto videoterminalista, portatore di una marcata esoforia a distanza prossimale,
lamenta astenopia al termine del lavoro. La possibilità che la prescrizione di un lieve positivo da
vicino possa risolvere adeguatamente il problema dipende dal valore del suo rapporto AC/A. Se il
rapporto è medio alto la prescrizione di un valore minimo di positivo (da +0,25 a +0,75) sarà
sufficiente ad inibire una buona quantità dell’eccesso di convergenza presente, sicuramente
sufficiente ad eliminare l’astenopia. In caso contrario (rapporto basso) l’influenza della lente
positiva si farà sentire molto poco, con scarsi risultati sull’astenopia3.
Le riserve fusionali: la flessibilità binoculare
Entro certi limiti, è possibile, dopo aver compensato la foria, mantenere costante lo sforzo
accomodativo e variare la quantità di convergenza esercitata. Ugualmente è possibile esercitare una
variazione accomodativa mantenendo la convergenza stabilizzata ad una certa distanza. Ovviamente
tale capacità di dissociazione tra le due funzioni (accomodazione e convergenza) presenta alcune
caratteristiche salienti:
1. Esiste un limite di dissociazione oltre il quale la capacità fusionale non è più in grado di
mantenere la visione singola e simultanea. Questo limite dipende dalle riserve fusionali che
ciascuno possiede.
2. Al fine di eliminare uno stato di discomfort, sfruttando la flessibilità presente tra le due
componenti, è possibile modificare il loro rapporto anteponendo agli occhi delle lenti
sferiche ovvero delle lenti prismatiche, senza alterare la binocularità.
La flessibilità fusionale risulta basilare negli ametropi non corretti o sottocorretti. Facciamo alcuni
esempi.
Es. I : miope di 3 dt. in OO.
Senza correzione il punto remoto giace a 33 cm dal piano principale dell’occhio. Ponendo un
oggetto a questa distanza, per assicurare la visione bifoveolare, sarà necessario esercitare 3 angoli
metrici di convergenza che dovrebbero trascinare, per unicità di stimolo, un’adeguata quantità di
accomodazione. Ma in questo caso, affinché il punto oggetto sia percepito nitido, è necessario che
l’accomodazione rimanga totalmente rilassata. Entra quindi in funzione il centro fusionale che
provvede a dissociare totalmente la componente convergenza da quella accomodativa, consentendo
la regolare percezione singola e nitida.
Es. II: ipermetrope di 1 dt in OO.
Non corretto, il soggetto osserva l’infinito accomodando di 1 dt per compensare la visione sfuocata.
Questo atto accomodativo trascina una parte di vergenza positiva che farebbe convergere gli assi
visivi prima del punto di fissazione. Ancora il centro fusionale provvede all’adeguata dissociazione,
in modo che all’atto accomodativo non corrisponda alcun valore di convergenza.
L’elemento fondante all’interno del complesso sistema che regge la binocularità risulta essere la
capacità fusionale di tipo sensoriale di cui ogni individuo è dotato. Essa consente di correggere
l’errore di fissazione generato dall’eteroforia. Tale capacità, anche se è posseduta da tutti, non lo è
3
La prescrizione di valori di positivo particolarmente elevati per compensare un AC/A basso viene spesso mal tollerata.
Capitolo 5
in misura uguale. Ciò che fa la differenza è la porzione di capacità fusionale che rimane disponibile
dopo aver compensato l’eteroforia: quella che comunemente viene chiamata riserva fusionale.
La riserva fusionale assume valore anche molto diverso tra soggetto e soggetto. Ciò ci permette di
osservare che due soggetti portatori della stessa quantità di eteroforia, se posti a svolgere un
identico lavoro ad una distanza stabilita, possono dimostrare performance visive anche molto
diverse. Uno dei due può essere in grado di portare a termine il suo lavoro in maniera agevole e
rilassata, ottenendo un buon risultato. L’altro, dopo un breve periodo di applicazione, potrebbe
denunciare dei sintomi generali di disturbo quali: cefalea, bruciore agli occhi, lacrimazione,
difficoltà di attenzione ecc.; il lavoro verrà portato a termine con difficoltà e il risultato raggiunto
non sarà molto soddisfacente. Risulta evidente che la differenza si gioca sulla quantità di riserve
fusionali disponibili, evidentemente maggiori nel primo dei due soggetti del nostro esempio.
Possiamo quindi affermare che la quantità di foria non rappresenta un problema visivo, lo
diventa soltanto nel caso che la riserva fusionale, rimanente dopo la compensazione, non sia
almeno il doppio della foria stessa.
Si può comprendere, pertanto, che debba essere molto importante, in sede di esame
rifrattivo, conoscere le riserve fusionali del soggetto esaminato onde pervenire alla miglior
soluzione correttiva.
La misura delle riserve fusionali
La misura delle riserve viene normalmente eseguita sia all’infinito sia alla distanza di
lettura. Lo scopo è definire il valore di vergenza sia positiva che negativa che il soggetto riesce a
disimpegnare dall’accomodazione. Deve essere usata una mira che per le sue caratteristiche
consenta con facilità di apprezzarne lo sfuocamento. A questo scopo viene sempre usata la carta di
Sheard nella sua porzione che va tra i 5 e i 10 decimi. È opportuno, per non ottenere risultati poco
attendibili, iniziare sempre con la misura delle capacità a divergere (RFN) e lasciare per ultima la
definizione della capacità a convergere (RFP)
Riserve fusionali positive
Si inizia proponendo al soggetto la mira da lontano, scelta accertandosi che sia percepita
nitida (naturalmente l’eventuale ametropia deve essere completamente corretta). Quindi si comincia
ad anteporre valori crescenti di prisma a base tempiale. In questo modo gli occhi, al fine di
mantenere la mira coniugata con le fovee, sono costretti a convergere per compensare il valore
prismatico inserito, mentre l’accomodazione rimane fissa per continuare a percepire la mira nitida.
Continuando ad aumentare il valore prismatico (BT) si arriva al punto in cui il sistema fusionale
non è più in grado di aumentare lo sforzo in convergenza e quindi per evitare la diplopia deve
ricorrere all’aiuto dell’accomodazione. Infatti facendo aumentare un po’ l’accomodazione, la
fusione torna ad essere possibile, ma sicuramente la mira non sarà più vista nitida. Il momento in
cui il soggetto riferisce di percepire una perdita di nitidezza della mira rappresenta il punto di
sfuocamento.
Continuando ad aumentare il valore prismatico BT, il soggetto continuerà ad avere visione
singola ma sempre più sfocata, finché ad un certo punto dirà di vedere doppio. Il presentarsi della
diplopia significa che il valore del prisma BT inserito non può più essere compensato nemmeno con
l’aiuto dell’accomodazione: questo valore prende il nome di punto di rottura. Ora si inverte il
cammino: viene progressivamente ridotto il valore prismatico che ha prodotto la rottura e si invita il
soggetto a riferire quando tornerà a vedere singolo. Il valore prismatico che consente il ritorno alla
fusione si chiama punto di recupero.
Riserve fusionali negative
Il metodo è identico a quello delle RFP soltanto che il prisma inserito è a base nasale e
quindi lo stimolo indotto è in divergenza. In questo caso, al raggiungimento del punto critico, il
mantenimento della fusione sarà sostenuto da un atto di disaccomodazione (accomodazione
La visione binoculare
negativa). Risulta pertanto ovvio che nell’esecuzione del test da lontano non si rileverà il punto di
sfuocamento, ma soltanto quello di rottura.4
Entrambi i test vengono poi effettuati, con le stesse modalità, a distanza prossimale (40 cm).
VALORI MEDI DELL’AMPIEZZA DELLE RISERVE FUSIONALI
Distanza
Divergenza
Convergenza
Rottura 6 - 8
Annebbiamento 12 - 14
Lontano (5m)
Recupero 4 - 5
Rottura 25- 28
Annebbiamento 13 – 15
Annebbiamento 18 – 21
Rottura 19 – 21
Rottura 25 – 28
Vicino (40cm)
Recupero 13 - 14
Recupero 18 - 20
Le accomodazioni relative
Un adeguato corollario ai test delle riserve fusionali sono quelli che determinano le
accomodazioni relative
Il metodo consiste nel far osservare una mira di lettura in visione binoculare. Il soggetto eserciterà
la quantità di accomodazione necessaria per vedere la mira nitida, ciò richiamerà un certo valore di
convergenza, in funzione del suo rapporto AC/A, al fine di avere gli assi visivi concentrati sulla
mira. Se a questo punto l’ortoposizione non è ancora raggiunta (eteroforia), interverrà la fusione
sensoriale in quantità sufficiente a correggere l’errore di vergenza.
Ora si inizia ad anteporre agli occhi del soggetto del potere positivo gradualmente crescente.
Naturalmente, per continuare a vedere nitido, il nostro soggetto dovrà rilasciare sempre più la sua
accomodazione in quantità uguale al potere positivo anteposto. Viene, pertanto a diminuire lo
stimolo accomodativo a cui si accoppia un minor stimolo di convergenza. Gli occhi tenderanno a
convergere meno (divergere).
Se ciò avvenisse si instaurerebbe la diplopia: l’oggetto è visto nitido, ma gli assi visivi non
sono più in ortoposizione. Rientra, quindi, in gioco il centro fusionale che per mantenere la visione
nitida e singola comincerà a spendere le sue riserve al fine di consentire il mantenimento costante
del valore della convergenza nonostante il valore dell’accomodazione stia calando. Continuando ad
anteporre potere positivo lo sforzo nel mantenere immutata la convergenza diventa sempre
maggiore, finché raggiunto il limite delle riserve ( punto di rottura) l’equilibrio si rompe e si genera
l’inevitabile diplopia.
La quantità di positivo che si è riusciti aggiungere poco prima che si verificasse la rottura visiva
rappresenta la quantità di accomodazione massima che il soggetto riesce a disimpegnare,
mantenendo fissa la convergenza totale; essa prende il nome di accomodazione relativa negativa.
Il test viene ripetuto anteponendo lenti negative. In questo caso l’accomodazione è stimolata
ad aumentare e gli occhi a convergere ulteriormente. Il valore massimo di negativo anteposto
definisce il massimo potere accomodativo che il soggetto riesce a produrre, mantenendo fissa la
convergenza sulla mira e prende il nome di accomodazione relativa positiva.
7 . LA DISPARITA’ DI FISSAZIONE.
Il concetto di ortoposizione degli assi visivi, che usualmente si pone alla base di una corretta
fusione delle immagini, non è sempre verificato. Spesso accade che l’immagine di un oggetto
fissato binocularmente cada sulla fovea dell’occhio dominante e in una zona parafoveolare
dell’occhio controlaterale. Vengono stimolate aree retiniche non perfettamente corrispondenti,
condizione questa assimilabile alle forme di eterotropia. Quando però la non perfetta stimolazione
delle arre retiniche consente comunque di rimanere all’interno dell’area di Panum la visione rimane
singola e simultanea e l’errore di fissazione prende il nome di Disparità di Fissazione.
4
In visione lontana, se il soggetto è corretto adeguatamente, l’accomodazione esercitata è 0. Pertanto non è possibile
operare ulteriore disaccomodazione.
Capitolo 5
La presenza della disparità di fissazione rappresenta uno stato di stress del sistema
binoculare di vergenza. La misura della disparità di fissazione indica l’entità dello stress. In
condizioni di visione binoculare, il massimo errore che si può verificare è determinato dalla soglia
di disparità oltre la quale si genera la diplopia. Naturalmente una parte non trascurabile è giocata
dall’estensione dell’area di Panum. Siccome l’aria di Panum varia in funzione delle caratteristiche
spaziali dello stimolo, anche il valore della disparità di fissazione dipende dall’ampiezza, la
frequenza e la velocità di movimento dello stimolo.
La posizione eccentrica dell’area parafoveolare interessata dalla disparità conduce a definire
le condizioni di disparità di fissazione come esodisparità, exodisparità e iperdisparità. Naturalmente
la presenza di disparità di fissazione introduce un valore di eteroforia. Essendo la disparità di
fissazione un disallineamento di vergenza che si manifesta in condizione di binocularità, la foria
corrispondente sarà di tipo associato. L’andamento spaziale della foria associata segue nella
maggior parte dei casi, anche se non sempre, quello della disparità di fissazione. È usuale
riscontrare esoforia nei casi di esodisparità e exoforia nei casi di exodisparità.
Essendo un fenomeno legato ad uno stato di stress della binocularità ove vergenza ed
accomodazione sono protagoniste, è ovvio che una generale sintomatologia astenopica,
riconducibile in senso generale a vari disturbi della visione binoculare, può originare da situazioni
di disparità di fissazione ai limiti della rottura fusionale. È opportuno pertanto, in sede di esame
rifrattivo, e in particolare in concomitanza della definizione delle forie abituali, produrre una misura
della disparità di fissazione.
Oltre al disparometro di Sheedy, esiste un test molto usato, anche per il suo costo relativo,
che è in grado di fornire dati molto attendibili sulla disparità di fissazione: La Carta di Wesson.
È una tabella laminata di circa 10x15 cm con un quadrato centrale, diviso a metà da due filtri
polarizzati e che contiene sopra una serie di linee verticali di diverso colore, poste ad 1 mm una
dall’altra. Nella parte inferiore una freccia nera verticale. La freccia in basso è polarizzata al
contrario della linee colorate in alto. Il soggetto esaminato porta la polarizzazione omologa davanti
agli occhi, in modo che l’occhio destro veda la freccia e non le righe e viceversa per l’occhio
sinistro. La condizione di binocularità esercitata è garantita dagli altri elementi presenti nel contorno
della scheda che vengono percepiti con ambo gli occhi. In assenza di disparità la freccia viene
percepita in corrispondenza dello zero centrale, mentre in presenza di disparità la freccia si
posiziona in corrispondenza delle linee verticali a destra o a sinistra dello zero, a seconda che la
diplopia indotta dal test si di tipo omonimo o crociato. Si evidenzia in questo modo il grado di
esodisparità o exodisparità. Fino a tre linee di disallineamento la disparità può essere considerata
tollerabile; oltre questo limite è necessario tenerne cinto nella compensazione finale dell’ametropia.
8. ETEROTROPIE
Quando, per ragioni sia di carenza sia di inadeguatezza organica, le riserve fusionali sono
inibite, l’errore di centratura degli assi visivi sul punto di fissazione si rende manifesto. In questo
caso uno solo dei due occhi (generalmente il dominate) rimane coniugato con il punto di fissazione,
mentre il controlaterale si pone in posizione deviata. La diplopia diventa inevitabile. Questa
condizione prende il nome di eterotropia, o più comunemente strabismo.
Un’esaustiva classificazione degli strabismi risulta assai difficile, anche perché in molti casi
l’etiologia è sconosciuta. Una possibile differenziazione è possibile farla dopo aver esaminato il
comportamento dell’angolo di deviazione.
Quando l’angolo di deviazione varia al variare della posizione di sguardo, lo strabismo è definito
incomitante. Mentre se l’angolo rimane costante si parla di strabismo concomitante.
Ancora, quando la deviazione risulta sempre a carico dello stesso occhio lo strabismo è definito
monolaterale. Se invece la fissazione avviene indifferentemente con l’uno o l’altro occhio lo
strabismo è detto alternante essenziale. Mentre se nell’alternanza rimane più volte deviato uno
stesso occhio: alternante preferenziale.
La visione binoculare
Infine, nei casi di eteroforia compensata con difficoltà, in condizioni legate allo stress o a particolari
posizioni di sguardo, le deviazione può diventare manifesta. In questo caso si parla di strabismo
intermittente.
Effetti correlati alle anomalie di fissazione
Quando una causa qualsiasi provoca una deviazione oculare che impedisce all’immagine
dell’oggetto fissato di cadere su entrambe le fovee degli occhi si possono verificare le seguenti
possibilità:
1) Visione binoculare singola e simultanea. L’errore viene annullato dall’azione della fusione
sensoriale. La visione torna ad essere bifoveolare.
2) Diplopia binoculare patologica. Il riflesso di fusione non riesce a correggere l’anomalia di
fissazione. Le due immagini dell’oggetto fissato non cadono su aree corrispondenti delle due
retine.
3) Soppressione patologica. Vengono eliminate le stimolazioni inviate da uno dei due occhi al fine
di ripristinare la visione singola. È un fenomeno tipico nelle forme di strabismo concomitante.
4) Corrispondenza retinica anomala. L’eliminazione della diplopia avviene mediante lo sviluppo
di una nuova correlazione spaziale tra le due retine. Anche questa anomalia è particolarmente
presente nello strabismo concomitante.
5) Fissazione eccentrica. Si manifesta nei casi trattati male o in ritardo rispetto alle necessità. In
conseguenza ad una radicalizzazione profonda della soppressione centrale.
Diplopia binoculare patologica.
In tutti i casi di strabismo, nei quali sia mantenuta una normale corrispondenza retinica,
l’immagine che si forma nell’occhio fissante, cadendo sulla fovea, viene percepita distinta ed
interpretata come l’immagine vera. L’immagine dell’occhio deviato si forma su zone periferiche
della retina ove l’acuità visiva è carente, pertanto la percezione è di scarsa qualità e viene
interpretata come immagine falsa. L’immagine falsa è sempre proiettata nello spazio in senso
opposto a quello della deviazione. L’oggetto viene quindi percepito doppio.
Soppressione.
La diplopia patologica rappresenta una condizione fisiologicamente avversata
dall’organismo, che, allo scopo di ripristinare il comfort visivo, pone in essere una forma di
inibizione (soppressione) degli stimoli provenienti da due zone della retina dell’occhio deviato, che
ha generato l’immagine falsa. Più precisamente vengono inibite:
1) L’area retinica periferica ove cade l’immagine dell’oggetto fissato dall’occhio non deviato. Ciò
consente l’eliminazione dell’immagine falsa.
2) L’area foveolare dell’occhio deviato. Ciò permette di evitare il fenomeno della confusione
visiva. Infatti la fovea dell’occhio deviato sarà stimolata da una diversa porzione dello spazio
visivo, generando un’immagine di buona qualità che andrebbe a disturbare l’attenzione visiva
sull’oggetto fissato.
La soppressione patologica è un riflesso condizionato (non permanente). Essa è presente solo in
visione binoculare quando è presente una deviazione. Infatti nelle forme di strabismo intermittente,
nei momenti in cui si ripristina la binocularità, o quando l’occhio fissante viene occluso la
soppressione si risolve immediatamente.
Non è corretto interpretare la soppressione come un fenomeno straordinario messo
esclusivamente in atto dall’organismo per risolvere condizioni visive patologiche, giacché una
soppressione fisiologica viene normalmente esercitata nella rivalità retinica, nella gestione della
diplopia fisiologica e comunque come forma di pulizia del campo visivo necessaria a non distrarre
l’attenzione sull’oggetto di fissazione.
Capitolo 5
Corrispondenza retinica anomala.
È ancora una volta un fenomeno organico messo in atto nel tentativo di riportare alla
normalità una visione binoculare inibita dalla presenza di un’anomalia funzionale, quale lo
strabismo. Si determina quando elementi retinici corrispondenti perdono la loro comune direzione
visiva per ricrearne una nuova tra due aree anatomicamente non corrispondenti. Come si è visto la
diplopia patologica si crea perché nell’occhio deviato, l’immagine dell’oggetto fissato si forma in
una zona periferica della retina non corrispondente alla fovea dell’occhio fissante. Nei casi di
strabismo ad angolo costante, i centri superiori sono in grado di assegnare a questa zona di retina
periferica la stessa direzione visiva della fovea dell’occhio fissante.
A
f
A
A’
α
Esotropia destra con
corrispondenza retinica
normale. È presente diplopia
omonima
f
f
α
f
Esotropia in occhio destro con
corrispondenza retinica anomala.
L’area retinica α ha assunto la stessa
direzionalità visiva della fovea
dell’occhio sinistro. Si ripristina la
visione singola e simultanea
Si genera quindi una pseudofovea, ricreando così, in modo anomalo la binocularità La
corrispondenza anomala non si limita ai due elementi principali ma si estende a tutte le aree
retiniche equidistanti dai due nuovi elementi principali.
Questo adattamento dell’apparato sensoriale determina corrispondenza tra due elementi
retinici funzionalmente molto dissimili tra loro, soprattutto perché forniti di acuità visiva
marcatamente diversa. Pertanto la binocularità recuperata è sempre di tipo piuttosto rudimentale,
con scarse capacità di stereopsi e limitata gestione dei movimenti fusionali.
Fissazione eccentrica.
La CRA è un’anomalia della binocularità. Ciò significa che, in un soggetto ove essa si sia
instaurata, l’occlusione dell’occhio fissante produce una scomparsa dello scotoma centrale che
consente all’occhio deviato di riprendere la posizione corretta di fissazione.
Nei casi in cui la strabismo non sia stato precocemente diagnosticato ovvero ove non sia intervenuti
tempestivamente con adeguato trattamento, la soppressione centrale si radica al tal punto da
acquisire caratteri di permanenza anche in occasione di occlusione dell’occhio fissante. In questo
caso il soggetto è costretto a scegliere per la fissazione monoculare un punto retinico eccentrico che
gli consente un visus migliore di quello maculare depresso dalla persistenza della soppressione.
Sembra esistere, anche se non sempre verificato, una diretta relazione tra CRA e fissazione
eccentrica, nel senso che la fissazione eccentrica sarebbe un’ulteriore involuzione monoculare di
una CRA precedentemente instaurata. Quando, in un soggetto in cui sia presente fissazione
eccentrica si occlude l’occhio fissante si possono verificare due possibilità a carico dell’occhio
deviato:
La visione binoculare
a) Risponde parzialmente allo stimolo di fissazione: si muove e riduce (non annulla) l’angolo
di deviazione
b) Rimane immobile
Nella condizione (a) vengono a formarsi due pseudo-fovee: quella della corrispondenza retinica
anomala e quella di fissazione eccentrica; nella condizione (b) la pseudo-fovea della CRA coincide
con quella di fissazione eccentrica.
Ambliopia.
L’espressione greca αμβλυξ ωψ (occhio ottuso), da cui deriva il termine ambliopia,
esemplifica abbastanza bene la condizione visiva legata a tale fenomeno: la presenza di un deficit
visivo in uno o entrambi gli occhi che non risponde alle usuali correzioni oftalmiche.
Per meglio comprendere la fisiopatologia dello stato ambliopico è opportuno richiamare alcuni
concetti di anatomo-fisiologia delle vie ottiche.
Dalle cellule ganglionari della retina
origina il nervo ottico, le cui fibre si
decussano nel chiasma per dirigersi verso
il corpo genicolato esterno (CGE), dove
contraggono sinapsi. L’anatomia del
corpo genicolato esterno è stratiforme:
ogni strato è interessato da fibre nervose
appartenenti ad un solo occhio, ma in
forma alternata: dalla retina temporale
dell’occhio omolaterale e da quella nasale
dell’occhio controlaterale.
Lo stimolo luminoso che eccita la retina
viene trasmesso al corpo genicolato esterno e da qui passa alla corteccia visiva.
La corteccia visiva primaria ha una struttura colonnare:
 Gruppi di colonne di cellule monoculari che ricevono, quindi, informazioni da un solo
occhio (20%)
 Gruppi di colonne di cellule binoculari dove convergono assoni provenienti da ambo gli
occhi (80%)
La struttura corticale è presente nell’embrione, ma dopo la nascita deve ricevere stimoli dall’esterno
per perfezionarsi. Per quanto riguarda il sistema visivo il periodo critico di maturazione va da 0 a 8
anni. Se in questo periodo il processo di maturazione subisce delle alterazioni ne consegue
ambliopia.
I meccanismi patogenetici dell’ambliopia possono assumere forme di diversa gravità:
 Deprivazione visiva e anomala interazione binoculare. A causa del diverso imput visivo
proveniente dai due occhi si instaura una competizione tra le cellule corticali che si risolve
con il dominio dell’occhio normale sull’occhio deprivato. La cooperazione binoculare viene
interrotta, l’occhio normale occupa la maggioranza delle cellule a disposizione (fino
all’85%). L’occhio deprivato stimola solo in minima parte e in modo anomalo la corteccia
visiva. Le cellule delle colonne binoculari si riducono fino quasi all’estinzione. Si verifica
un sovvertimento totale della struttura colonnare corticale. Le cellule del corpo genicolato
esterno che contraggono sinapsi con le fibre appartenenti all’occhio deprivato si atrofizzano.
 Deprivazione visiva monoculare. È meno grave della precedente. A livello corticale si
riscontra una riduzione della sensibilità cellulare dovuta ad un aumento di cellule che
rispondono lentamente e in modo anomalo o non rispondono affatto. L’architettura corticale
Capitolo 5
è modificata nelle stimolazioni strettamente monoculari e non nelle cellule binoculari.
L’atrofia del CGE è minore
Etiologia dell’ambliopia.
A seconda delle cause che la generano, l’ambliopia può essere definita:
1. Organica
2. Funzionale
In entrambi i casi essa si manifesta attraverso una diminuzione dell’acuità visiva mono o bilaterale
non correggibile con lenti.
Nel primo caso (Organica) sono presenti anomalie anatomiche delle strutture deputate alla corretta
trasmissione degli stimoli luminosi. Si tratta spesso di Ambliopia congenita, che non ha possibilità
di reversibilità.
Nel secondo caso (Funzionale), tutte le strutture anatomiche oculari sono perfettamente sviluppate,
pertanto l’ambliopia presente è legata a fenomeni di mancato sviluppo visivo spesso dipendenti da
anomalie rifrattive. L’insorgenza è precoce (nel momento critico dello sviluppo visivo) e se
diagnosticata e curata precocemente ha spesso carattere di reversibilità.
In questi casi si parla di:
 ambliopia ex anopsia (da non uso)
 ambliopia passiva (dovuta a errori rifrattivi non corretti)
 ambliopia attiva (dovuta a soppressione)
La forma attiva è quella secondaria a strabismo monolaterale (non alternante). Quando la
deviazione permane a lungo a carico sempre dello stesso occhio anche la soppressione patologica
assume carattere di incondizionalità. Essa si manifesta in modo continuo e permanente sempre sullo
stesso occhio. In questi casi, col passare del tempo, l’occhio deviato perde la sua naturale capacità
visiva che va attestandosi su valori subnormali. A volte essa viene indicata impropriamente anche
come ambliopia da non uso (ambliopia ex anopsia). In base alla prognosi appare utile farne
un’ulteriore distinzione in:
 Ambliopia d’arresto
 Ambliopia da estinzione
La prima si verifica quando la deviazione oculare è presente, come spesso accade, in età infantile.
In questo caso la soppressione permanente impedisce alla funzionalità visiva di svilupparsi.
La seconda è presente nelle deviazioni a insorgenza tardiva, quando il soggetto ha compiuto già
precedentemente il normale sviluppo della binocularità.
Va da se che questa seconda è suscettibile, mediante opportuni trattamenti ortottici e/o chirurgici, di
un migliore ricupero funzionale.
La terapia
Lo scopo è quello ottenere valori di acuità visiva il più possibile elevati, ma soprattutto
simili in entrambi gli occhi. L’approccio terapeutico dipende dall’età del paziente e dal tipo di
ambliopia presente. Rimane comunque fondamentale la collaborazione familiare.
Elementi necessari affinché si possa produrre un trattamento efficace sono:
 La precocità della diagnosi.
 La correzione ottica totale del vizio rifrattivo. Le ambliopie di tipo passivo di origine
anisometropica sono normalmente bene curate con la sola correzione ottica. Essa rimane,
comunque il primo passo terapeutico in ogni tipo di trattamento.
 La presenza o il ripristino di fissazione centrale.
Il trattamento di elezione consiste nell’occlusione dell’occhio visivamente più sano, al fine di
ottenere:
 L’abolizione del riflesso di soppressione, presente in visione binoculare;
 Costringere l’occhio ambliope ad un continuo esercizio.
La visione binoculare
L’occlusione
può
essere
praticata
ininterrottamente durante tutto l’arco della
giornata (occlusione permanente) oppure
soltanto in alcuni periodi, spesso in funzione
dell’attività svolta (occlusione intermittente).
L’occlusione si realizza con diversi metodi,
scelti in ragione anche dell’età del soggetto
da trattare e del grado di collaborazione
dello stesso.
In genere si tratta di tamponi applicati a pelle nella zona periorbitaria ovvero di conchiglie di
plastica morbida che aderiscono sulla faccia interna della lente dell’occhiale utilizzato per la
correzione oftalmica.
Il soggetto portatore di occlusione permanente va controllato almeno ogni 15 giorni per accertare le
condizioni visive dell’occhio occluso. Non è infatti impossibile che un’occlusione permanente
possa provocare una irreversibile ambliopia da occlusione nell’occhio prima normale. Tale
possibilità è più frequente in bambini molto piccoli. In questo caso va praticata, per brevi intervalli
durante la giornata, l’occlusione inversa, in maniera che l’occhio normalmente fissante riprenda,
pur per brevi periodi, la sua funzione.
Il trattamento di occlusione va protratto finché il visus dell’occhio trattato raggiunge un livello pari,
o massimo inferiore di uno o due decimi, a quello dell’occhio sano. Se dopo almeno tre mesi di
trattamento non si ottengono apprezzabili risultati, il trattamento va abbandonato.
Nel caso auspicabile, invece, che il trattamento di occlusione abbia dato significativi risultati
di ricupero, non è opportuno interromperlo immediatamente, ma si preferisce passare attraverso una
fase di occlusione parziale. Con questa tecnica l’occhio fissante non viene eliminato dalla visione,
ma il suo visus viene ridotto ad un livello di poco inferiore a quello dell’occhio ambliope. Si attua
così l’abolizione della dominanza dell’occhio fissante e si impedisce di conseguenza il riflesso di
soppressione, ma, cosa non da poco, rimane al soggetto la possibilità di esercitare una visione
binoculare singola ove ne sussistano le condizioni.
Uno dei sistemi oggi più utilizzati per la realizzazione dell’occlusione parziale è rappresentato dai
filtri di Bangerter. Trattasi di sottili pellicole sagomabili e facilmente applicabili all’interno della
lente oftalmica correttiva. La loro trasparenza è variabile a seconda della riduzione di visus che si
voglia ottenere.
Un metodo alternativo all’occlusione, nei casi di scarsa risposta a quest’ultima, è la
penalizzazione. Il metodo consiste nell’annebbiare la visione dell’occhio fissante mediante
correzione ottica volontariamente non esatta. Può essere effettuata solo per vicino, solo per lontano
o anche in forma totale. Il vantaggio è che (ad esclusione della forma totale) l’occhio fissante non
perde completamente la sua funzionalità visiva. Infatti nella penalizzazione da lontano esso rimane
attivo nella visione vicina e viceversa nella penalizzazione da vicino.
9 . CONCLUSIONI
Nelle anomalie latenti della visione binoculare trovano posto primariamente le deviazioni
orizzontali associate ad un problema accomodativo. Queste rappresentano un quotidiano impegno
nell’attività rifrattiva degli ottici. Risulta quindi opportuno, ai fini di una corretta interpretazione ed
un adeguato trattamento, farne classificazione.
Capitolo 5
ESODEVIAZIONI
Eccesso di
Convergenza
Cause
a) Eccessiva attività
dell’accomodazione:
ipermetropia latente,
spasmo accomodativo.
Segni e Sintomi
Esoforia prossimale
Esame
Refrazione oggettiva
variabile
Trattamento
Migliorare la postura
prossimale
Schiascopia dinamica
Ridurre i tempi di
applicazione prossimale
Cefalea
Lacrimazione
b) AC/A elevato
Bruciori
Soggettivo con marcato
annebbiamento
c) Presbiopia incipiente
Insufficienza di
divergenza
a) Ipermetropia non
corretta
Focalizzazione da
lontano difficoltosa
dopo prolungata attività
prossimale
Cicloplegia
Esoforia in distanza
Schiascopia dinamica
Astenopia classica
Test della disparità di
fissazione
b) AC/A medio basso
c) Tono basale dei
muscoli mediali
eccessivo
EXODEVIAZIONI
Insufficienza di
convergenza
Cause
a) Ridotto uso della
convergenza
accomodativa: miopia
non corretta.
Riabilitazione: esercizi
per aumentare ARP e
RFN
Diplopia episodica e
annebbiamenti da
vicino
Segni e Sintomi
Foria prossimale exo
elevata
Correzione ottica se
possibile a permanenza
Correzione ottica
completa e a
permanenza
nell’ipermetropia
Riabilitazione per RFN
e ARP
Esame
Re.Vi.P.
Trattamento
Correzione
dell’ametropia
Esame rifrattivo usuale
Ampiezza
accomodativa normale
Riabilitazione:
Esercizi x RFP
Esercizi per diplopia
fisiologica ripetuti nel
tempo
PPC oltre i 10 cm.
Disaffezione al lavoro
prossimale
Basso AC/A
Eccesso di divergenza
sconosciute
Marcata exoforia in
distanza (a volte tropia)
Modesta foria
prossimale (sia exo che
eso)
Soppressione frequente
Raramente diplopia
Esame rifrattivo usuale
Training per sviluppo
di RFP e ARN
Trattamento della
soppressione
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