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TRATTATO DI LISBONA E SISTEMI FISCALI di prof. Giuseppe Melis

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TRATTATO DI LISBONA E SISTEMI FISCALI di prof. Giuseppe Melis
TRATTATO DI LISBONA E SISTEMI FISCALI
di prof. Giuseppe Melis, dott. Alessio Persiani
(in "Diritto e Pratica Tributaria" n. 02 del 2013, pag. 1-267)
TRATTATO DI LISBONA E SISTEMI FISCALI (*)
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Gli effetti sulla tutela dei diritti fondamentali. – 3. Diritti
fondamentali e materia tributaria. – 4. La conferma del principio dell’unanimità in materia
fiscale. – 5. Le competenze fiscali dell’Unione. – 6. Il mancato inserimento nel Trattato di
principi di carattere tributario, la tutela della concorrenza e il riferimento alla «economia
sociale di mercato». – 7. Sistemi fiscali e concorrenza tra Stati membri. – 8. L’autonomia
impositiva dell’Unione europea e gli obiettivi di welfare. – 9. Fiscalità e tutela dell’ambiente.
– 10. Conclusioni.
1. – Introduzione
Il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009,
costituisce, come noto, una soluzione di compromesso dopo il fallimento del Trattato che
adottava una Costituzione per l’Europa conseguito all’esito negativo dei referendum tenuti in
Francia e nei Paesi Bassi (1).
Esso salva infatti la «sostanza» della Costituzione recependo molte delle innovazioni ivi
contenute ma si limita ad integrarle nel testo dei trattati esistenti senza ricorrere alla forma
solenne della Costituzione con i significati evocativi che essa – unitamente ad altri elementi
pure venuti meno (gli strumenti della legge e della legge quadro, i simboli della bandiera,
dell’inno e del motto) – avrebbe comportato.
Per quanto riguarda gli effetti del Trattato di Lisbona sui sistemi fiscali, ci pare che i profili
rilevanti siano i seguenti:
a) la più ampia tutela dei diritti fondamentali;
b) la regola dell’unanimità per la materia fiscale, che viene confermata;
c) le competenze fiscali dell’Unione, che rimangono invariate;
d) il mancato inserimento nel Trattato di principi di carattere tributario, il significato
dell’eliminazione della tutela della concorrenza dagli obiettivi del Trattato e del riferimento,
adesso contenuto nell’art. 3 del Trattato sull’Unione europea (di seguito, TUE), all’economia
sociale di mercato fortemente competitiva;
e) il tema della concorrenza fiscale tra stati;
f) la mancata istituzione di tributi a livello europeo e l’inesistenza di politiche sociali e fiscali
europee;
g) la fiscalità ambientale.
Procediamo nell’ordine, ben consapevoli, peraltro, che mentre alcuni dei profili sopra elencati
attengono all’organizzazione istituzionale dell’Unione europea – si pensi, ad esempio, alla
conferma della regola dell’unanimità o alla invarianza delle competenze dell’UE in ambito
tributario, al mancato inserimento di principi tributari nel Trattato e alle modifiche riferite
alla concorrenza – altri influenzano in modo più diretto ed immediato i singoli ordinamenti
nazionali, come avviene per la tutela dei diritti fondamentali e per le iniziative in materia di
fiscalità ambientale. Tuttavia, come si avrà modo di delineare nel prosieguo, è la
considerazione complessiva di tutti questi profili che – ferme restando le innegabili diversità
tra essi esistenti – porta a ritenere il Trattato di Lisbona non già un mero ed insignificante
tassello del percorso evolutivo della costruzione europea, ma quale importante momento di
riconsiderazione dei valori che a tale costruzione sono sottesi; riconsiderazione che non può
che influenzare anche i tratti essenziali del momento impositivo.
2. – Gli effetti sulla tutela dei diritti fondamentali
Quanto al piano relativo alla tutela dei diritti fondamentali, il portato principale del Trattato
di Lisbona attiene alle modifiche recate all’art. 6 del TUE, che, come noto, ha riconosciuto
alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (di seguito, Carta dei diritti) il
medesimo valore giuridico dei trattati, ha previsto l’adesione da parte dell’Unione europea
alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (di seguito, CEDU) ed ha
sancito che i diritti fondamentali, come risultanti dalla stessa CEDU e dalle tradizioni
costituzionali comuni degli Stati membri, costituiscono principi generali del diritto dell’UE
(2). Posto che tanto la Carta dei diritti quanto la CEDU operano riferimento ai diritti
fondamentali, l’analisi deve necessariamente prendere le mosse dall’esame del menzionato
art. 6 in punto di efficacia di queste due rilevanti fonti di tutela dei diritti degli individui.
Anteriormente al Trattato di Lisbona, il tema dell’efficacia giuridica si poneva in termini
relativamente agevoli per la Carta dei diritti, che, priva di carattere giuridicamente vincolante,
costituiva un mero supporto interpretativo di principi enucleati sulla scorta delle altre norme
dell’ordinamento dell’Unione (3). Più complesso era, invece, l’inquadramento della CEDU
nell’ambito degli ordinamenti nazionali degli Stati contraenti. Quanto all’ordinamento
italiano, prima delle modifiche del Titolo V della Costituzione, la CEDU era stata inquadrata
dalla giurisprudenza costituzionale alla stregua di un ordinario trattato internazionale, che, in
base ai principi generali applicabili in materia, si collocava nel sistema delle fonti al
medesimo grado delle leggi ordinarie in virtù dell’atto normativo di esecuzione della stessa
CEDU (4). A seguito delle modifiche recate dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 e,
in particolare, delle innovazioni apportate all’art. 117, 1° comma – in base al quale la potestà
legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei
vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali – la
giurisprudenza costituzionale, con le storiche sentenze cc.dd. «gemelle» del 2007 (5), ha
affermato che le previsioni della CEDU devono inquadrarsi proprio tra quelle espressive dei
predetti vincoli di derivazione internazionale, costituendo norme costituzionalmente
interposte, che integrano il parametro costituzionale (6). La stessa giurisprudenza ha tuttavia
precisato che alle norme della CEDU non può comunque riconoscersi efficacia diretta nel
nostro ordinamento, né in base all’art. 10, 1° comma, né sulla scorta dell’art. 11 della Carta
Costituzionale. In particolare, la prima previsione – il c.d. «trasformatore permanente» –
trova applicazione esclusivamente per le norme internazionali di carattere consuetudinario e
non anche per le norme pattizie contenute in trattati internazionali bilaterali o multilaterali;
categoria, quest’ultima, cui appartengono le norme della CEDU. Quanto al ben noto disposto
di cui all’art. 11 Cost., la sua inapplicabilità alle disposizioni CEDU deriva dalla mancata
origine delle stesse da organizzazioni internazionali rispetto alle quali siano state accettate
limitazioni di sovranità (7), ciò costituendo un rilevante tratto differenziale della stessa
CEDU rispetto alle norme dell’ordinamento dell’Unione europea. Con la conseguenza,
dunque, che l’eventuale contrasto tra normativa interna e previsioni della CEDU, ove non
componibile sotto il profilo interpretativo, deve risolversi secondo gli ordinari criteri
applicabili per i rapporti tra norme di rango costituzionale e subcostituzionale, mediante i ben
noti meccanismi dell’incidente di costituzionalità.
L’illustrato quadro di riferimento deve ora coordinarsi con le previsioni recate dal Trattato di
Lisbona e, in particolare, dal menzionato art. 6 del TUE. Al di là del valore giuridicamente
vincolante acquisito dalla Carta dei diritti – profilo che risulta tutt’altro che trascurabile, ma
che, ad un’isolata considerazione, non origina particolari questioni interpretative in punto di
collocazione nella gerarchia delle fonti, avendo la Carta il medesimo rango dei trattati
conclusi nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione – ciò su cui merita soffermare l’attenzione
riguarda le norme della CEDU, che, a motivo della loro peculiare posizione nella gerarchia
delle fonti dell’ordinamento interno, originano notevoli complessità anche con riferimento
alle interrelazioni con l’ordinamento dell’Unione europea. Le norme della CEDU hanno,
infatti, certamente natura di norme internazionali, a motivo dell’ingresso nell’ordinamento
italiano a mezzo della legge di ratifica e del relativo ordine di esecuzione. In base al
menzionato art. 6 del TUE, tuttavia, esse costituiscono anche fonti di supporto e di
«ricognizione» nella costruzione dei principi generali dell’ordinamento comunitario, nonché,
una volta concluso il processo di adesione dell’UE alla CEDU, norme rilevanti alla stregua di
quelle contenute nei trattati internazionali conclusi dalle istituzioni dell’Unione, oltre che
dagli Stati membri nella loro individualità (8).
Tale natura ibrida delle norme CEDU ha condotto all’emersione, nell’ambito della
giurisprudenza amministrativa, di un orientamento incline ad una sostanziale equiparazione
dei «cataloghi» dei diritti fondamentali contenuti, rispettivamente, nella CEDU e nella Carta
dei diritti (9). Facendo leva tanto sulle menzionate previsioni di cui all’art. 6, §§ 2 e 3, del
TUE – rispetto ai quali si sono affermate immediate conseguenze di assoluto rilievo atteso
che le norme della Convenzione divengono immediatamente operanti negli ordinamenti
nazionali degli Stati membri dell’Unione, e quindi nel nostro ordinamento nazionale, in forza
del diritto comunitario, e quindi in Italia ai sensi dell’art. 11 Cost. (10) – quanto sul disposto
di cui all’art. 52, § 3, della Carta dei diritti quale espressione del valore di standard minimo
delle norme della CEDU rispetto alla tutela accordata nell’ordinamento dell’UE ai diritti
fondamentali (11), si è sostenuta l’esistenza di un «assorbimento» del sistema della CEDU
nel più ampio e complesso ordinamento dell’UE e l’estendibilità alle norme convenzionali
della ampia e decennale evoluzione giurisprudenziale che ha [...] portato all’obbligo, per il
giudice nazionale, di interpretare le norme nazionali in conformità al diritto comunitario,
ovvero di procedere in via immediata e diretta alla loro disapplicazione in favore del diritto
comunitario [...] senza dover transitare per il filtro dell’accertamento della loro
incostituzionalità sul piano interno (12). Con l’ulteriore conseguenza, quindi, che nei riguardi
delle norme della CEDU dotate di compiutezza espositiva potrebbe trovare applicazione la
ben nota capacità di produzione di effetti diretti riconosciuta ad alcune norme facenti parte
dell’ordinamento comunitario.
Nonostante si tratti di posizione avente un’indubbia portata semplificatoria rispetto ad un
quadro interpretativo complesso, essa non sembra essere del tutto coerente con l’impianto
normativo delineato dal legislatore del TUE. Quanto all’art. 6, § 2, del TUE, infatti, non può
trascurarsi come esso non recepisca la CEDU nell’ordinamento dell’Unione, ma prefiguri, sia
pur in termini perentori e non meramente programmatici (13), l’adesione dell’UE alla CEDU.
Quanto, poi, all’art. 6, § 3, del TUE, esso mira non già a riconnettere alle norme della CEDU
effetti normativi nell’ordinamento dell’Unione, quanto a ricomprendere le previsioni
convenzionali tra quei sostegni di carattere normativo e giurisprudenziale in grado di
contribuire alla ricostruzione del contenuto dei principi fondamentali non scritti operanti
nell’ordinamento europeo (14). Come più volte evidenziato dalla giurisprudenza della Corte
di giustizia, i principi fondamentali dell’Unione godono di uno status autonomo: rispetto ad
essi le previsioni della CEDU costituiscono elementi utili a ricostruirne il contenuto (15), che
ben può essere, in misura più o meno marcata, diverso da quello delle stesse norme della
CEDU (16), anche in funzione dell’influenza dell’ulteriore fonte delle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri (17).
Anche la Corte costituzionale, con la recente pronuncia n. 80 del 2011, ha sostanzialmente
respinto una tale impostazione teorica: a fronte di argomenti volti ad affermare la
riconducibilità dei diritti garantiti dalla CEDU nell’ordinamento comunitario per la via
dell’illustrato art. 6, § 3, del TUE e della c.d. «trattatizzazione» della Carta dei diritti (18) –
ed a prescindere, dunque, dalla formale adesione alla CEDU ad opera dell’Unione – i giudici
costituzionali hanno evidenziato la diversità dei principi generali dell’ordinamento europeo
rispetto alle previsioni della CEDU, affermando il ruolo strumentale delle seconde rispetto ai
primi, ed hanno statuito l’inapplicabilità dell’art. 11 Cost. rispetto alla CEDU, posto che la
Convenzione ha dato vita ad una realtà giuridica, funzionale e istituzionale distinta
dall’Unione europea e non importante alcuna limitazione di sovranità per il legislatore
italiano nel senso fatto proprio dal menzionato art. 11, continuando il rapporto tra CEDU e
singoli ordinamenti nazionali a trovare la propria disciplina in ciascun sistema normativo
statale non essendovi in questa materia una competenza comune attribuita alle (né esercitata
dalle) istituzioni comunitarie (19). Al di là delle perplessità che suscitano talune affermazioni
della sentenza in questione – perplessità che hanno portato taluni autori a ritenere la
pronuncia in discorso quale un passaggio intermedio di un’evoluzione giurisprudenziale in
tema di CEDU che potrebbe ricalcare quella cui si è assistito in relazione all’ordinamento
comunitario (20) – merita rilevare come la stessa Corte costituzionale abbia evidenziato
l’autonomia dei principi generali dell’ordinamento dell’Unione rispetto alle previsioni della
CEDU, svolgendo le seconde un ruolo strumentale rispetto ai primi ed essendo una tale
autonomia funzionale all’affermazione del carattere di completezza dello stesso ordinamento
europeo.
Se è ben vero che le previsioni della CEDU risultano autonome rispetto ai principi generali
dell’ordinamento dell’Unione, non possono trascurarsi, d’altra parte, le connessioni esistenti
tra la sfera dei diritti fondamentali tutelata dalla CEDU e quella garantita dall’ordinamento
dell’Unione europea. Un primo collegamento è, appunto, quello di cui al più volte citato art.
6, § 3, del TUE: sebbene, come detto, non possa certamente individuarsi una relazione
identitaria tra i principi dell’Unione europea e quelli della CEDU, la previsione citata
esplicita comunque un collegamento tra i due ambiti convenzionali che la giurisprudenza
della Corte di giustizia ha affermato da molto tempo (21), assistendosi, peraltro, ad una
crescente attenzione rivolta dai giudici dell’Unione europea all’evoluzione interpretativa
della Corte europea dei diritti dell’uomo, finalizzata a cogliere gli orientamenti in punto di
tutela dei diritti fondamentali elaborati dai giudici di Strasburgo (22).
Ancor più rilevante, poi, è il collegamento tra le norme della CEDU e l’ordinamento
dell’Unione che si rintraccia nelle previsioni della Carta dei diritti. Proprio in virtù del
rilevante ruolo ricoperto già da molto tempo dalla CEDU nell’elaborazione giurisprudenziale
comunitaria, l’esigenza di prevedere forme di coordinamento tra la Carta dei diritti e la
CEDU fu avvertita sin dalle prime fasi dei lavori relativi alla Carta dei diritti. La scelta è stata
quella di procedere ad una sostanziale «incorporazione» nella Carta dei diritti delle
prerogative garantite dalla CEDU: in questo senso si era orientata già la commissione Simitis,
che nel febbraio del 1999 aveva predisposto un primo rapporto sulla Carta dei diritti e nella
medesima direzione deponevano anche gli indirizzi provenienti all’epoca dall’Assemblea del
Consiglio d’Europa (23). Quanto ai rapporti tra le sfere dei diritti fondamentali garantite dai
due strumenti, essi sono stati ispirati al principio del massimo standard di tutela,
prevedendosi – si veda l’art. 52, § 3, della Carta dei diritti – che le norme della CEDU non
sono di ostacolo ad una più ampia tutela dei medesimi diritti eventualmente prevista dalla
Carta dei diritti e, dall’altro lato, che quest’ultima non intende sostituirsi alle forme di
protezione dei diritti fondamentali previsti a livello nazionale ed internazionale e, in special
modo, alle garanzie offerte dalla CEDU: l’art. 53 della Carta dei diritti è proprio rivolto a
stabilire che il livello di protezione offerto dalla Carta non potrà in alcun caso essere inferiore
a quello garantito dalla CEDU, non potendo il livello di limitazioni previsto nella Carta
scendere al di sotto del livello previsto dalla CEDU.
Un ulteriore e – almeno sotto il profilo applicativo – più rilevante collegamento tra CEDU e
Carta dei diritti si può ravvisare nell’unitarietà del circuito interpretativo cui, a seguito del
Trattato di Lisbona, si assiste in materia di diritti fondamentali. Al di là della rilevanza in
punto di collocazione della CEDU nella gerarchia delle fonti interne che può riconoscersi alla
– prefigurata e, allo stato, non ancora attuale – adesione dell’Unione alla CEDU, il vero
portato del Trattato di Lisbona in relazione ai diritti fondamentali risiede nel conferimento di
valore giuridico vincolante alla Carta dei diritti e, per tale via, nell’instaurazione di un
effettivo sistema di tutela multilivello degli stessi diritti. Tenuto conto del principio del
massimo standard di tutela che, come detto, ispira i rapporti tra CEDU e Carta dei diritti, non
sembra illogico ipotizzare che l’interrelazione tra i diversi livelli di questo articolato sistema
di tutela – livelli riferiti non solo all’ordinamento europeo ed allo strumento pattizio della
CEDU, ma anche al livello costituzionale interno – possa svilupparsi secondo le direttrici di
quell’interpretazione conforme, intesa quale contaminazione dei contenuti delle diverse
disposizioni in tema di diritti fondamentali (24), cui è approdata la giurisprudenza
costituzionale tedesca (25) e che, come detto, da tempo ispira la giurisprudenza della Corte di
giustizia in punto di rapporti tra ordinamento dell’Unione europea e CEDU. Non può
trascurarsi, infatti, che la Carta dei diritti, oltre a situarsi quale strumento giuridico
pienamente vincolante al pari dei Trattati, richiama espressamente non solo i diritti garantiti
dalla CEDU, ma anche le tradizioni costituzionali comuni ai diversi Stati membri e le
legislazioni e prassi nazionali, instaurando un canale interpretativo sostanzialmente unitario,
in cui la rigida separazione tra le tutele previste dai diversi strumenti tende a porsi in secondo
piano, specie se l’interprete ispira la propria attività a quel principio di standard massimo di
tutela espressamente sancito dalla Carta dei diritti (26). In questo contesto, evidentemente, la
questione di costituzionalità rivestirebbe un ruolo di extrema ratio, da utilizzarsi nei soli casi
in cui la predetta contaminazione sul piano interpretativo sollevi concreti dubbi di
costituzionalità.
Sotto altro profilo, è ben vero che l’incisività e la pervasività delle tutele apprestate dalla
Carta dei diritti, intesa quale sistema normativo richiamante gli altri strumenti di tutela,
possano incontrare dei limiti nel principio di attribuzione che fonda l’azione comunitaria;
principio cui si opera più volte riferimento nel dettato della Carta dei diritti (27) e cui rinvia,
sia pur a proposito dell’ambito applicativo dei principi generali dell’ordinamento
dell’Unione, anche la citata pronuncia costituzionale n. 80 del 2011 (28). Tuttavia, non può
trascurarsi non solo che il Trattato di Lisbona ha proceduto ad un indubbio ampliamento delle
competenze delle istituzioni dell’Unione europea, ma anche come diversi tra i diritti tutelati
dalla Carta dei diritti trovino il proprio fondamento in quell’essenziale principio di non
discriminazione – come specificato dalle previsioni in tema di libertà fondamentali – cui la
Corte di giustizia ha più volte riconosciuto un’efficacia speciale e trascendente le materie di
specifica competenza, imponendosi la sua osservanza da parte degli Stati membri anche
quando questi agiscano nel quadro delle proprie competenze esclusive (29). Né, per idiritti
aventi un fondamento diverso dal principio di non discriminazione, può escludersi che la
«trattatizzazione» della Carta dei diritti non preluda ad un accresciuto interesse per la tutela
dei diritti fondamentali ad opera della Corte di giustizia ed alla possibile estensione del
predetto orientamento anche al di là del principio di non discriminazione e dei diritti ad esso
riconducibili.
3. – Diritti fondamentali e materia tributaria
Ciò detto in relazione alla tutela dei diritti fondamentali all’indomani del Trattato di Lisbona,
merita ora soffermare l’attenzione sul loro contenuto e sulle possibili interrelazioni esistenti
tra tali diritti e la materia tributaria.
Quanto al primo profilo, lo spirito ispiratore della maggior parte delle previsioni della Carta
dei diritti è fortemente ricognitivo e tutt’altro che rivoluzionario (30): come risulta anche dal
Preambolo della Carta stessa, la Carta dei diritti riafferma i diritti derivanti in particolare
dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dalla
Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali,
dalle carte sociali adottate dall’Unione e dal Consiglio d’Europa, nonché dalla giurisprudenza
della Corte di giustizia dell’Unione europea e da quella della Corte europea dei diritti
dell’uomo. Sotto questo profilo, la Carta dei diritti non introduce ex novo una tutela europea
dei diritti fondamentali, ma contribuisce – e in modo assai significativo, specie all’indomani
del Trattato di Lisbona e dell’assunzione di valore giuridicamente vincolante – al
consolidamento di una realtà giuridica già radicata nell’ordinamento dell’Unione europea,
specie per merito della Corte di giustizia che, superando l’inerzia della normazione scritta, ha
affermato, sin dai primi anni Settanta, che i diritti fondamentali costituiscono parte integrante
dei principi generali del diritto (comunitario prima e, poi,) dell’Unione europea, essendo la
loro tutela rimessa alla stessa Corte nel quadro degli obiettivi e della struttura dell’Unione,
tenendo conto delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri (31).
L’ampiezza del «catalogo» dei diritti fondamentali contenuto nella Carta dei diritti non
consente, in questa sede, un’analisi specifica dei contenuti di ciascun diritto. Sotto un profilo
generale, tuttavia, non possiamo non rilevare come l’impostazione di fondo della Carta dei
diritti e, in particolare, la rilevanza assegnata in tale sede ai diritti di natura sociale – che
ricevono espresso riconoscimento e tutela nei capi III e IV della Carta dei diritti dedicati,
rispettivamente, all’uguaglianza ed alla solidarietà – concorra, unitamente ad altri elementi di
innovazione del Trattato di Lisbona in punto di individuazione degli obiettivi della
costruzione europea di cui si dirà nel prosieguo, a connotare in senso più spiccatamente
sociale – o, quantomeno, non più solo mercatistico – la direzione delle politiche sviluppate
dalle istituzioni dell’Unione europea. Nella Carta dei diritti, infatti, i diritti sociali vengono
posti sullo stesso piano «costituzionale» rispetto a quelli civili e politici, sebbene la loro
effettiva parità di rango potrà essere verificata solo nell’analisi degli indirizzi intrapresi dalle
istituzioni nel loro concreto operare, dovendosi aver riguardo al punto di equilibrio tra valori
economico-concorrenziali e valori sociali che le istituzioni dell’Unione saranno in grado di
individuare di volta in volta in ciascuno degli ambiti ove si svolgeranno le loro azioni (32).
Venendo ora ad alcune interrelazioni dei diritti fondamentali con la materia tributaria (33), ci
sembra opportuno prendere le mosse da quegli ambiti – quelli del c.d. «giusto processo» e del
diritto di proprietà – in relazione ai quali l’esperienza della CEDU ha sinora mostrato le
espressioni più significative, tratteggiando, in un momento successivo, taluni profili di
connessione desumibili dalla più recente evoluzione della giurisprudenza della Corte di
Strasburgo, tenendo conto, evidentemente, del contributo che in questo contesto fornisce la
struttura della Carta dei diritti.
Quanto alle garanzie del «giusto processo», esse sono previste nell’ambito CEDU dall’art. 6,
che rappresenta all’interno della Convenzione il principale riferimento per l’individuazione di
un adeguato standard di protezione della persona in rapporto all’esercizio della giurisdizione,
apprestando tutela sia – e in modo preminente – sul versante del «diritto al processo» in base
al § 1, sia con riferimento ai «diritti nel processo» in base al successivo § 3. È ben noto, al
riguardo, l’orientamento negativo assunto dalla Corte di Strasburgo in merito all’applicabilità
delle garanzie di cui all’art. 6, § 1, della CEDU al processo tributario: il riferimento è alla
sentenza Ferrazzini (34), in cui i giudici di Strasburgo, facendo leva sul dato letterale che
limita l’applicazione del citato art. 6 alle controversie di carattere civile e alle accuse penali e
pur riconoscendo che un procedimento tributario ha indubbiamente un oggetto patrimoniale,
hanno ribadito che possono esistere delle obbligazioni «patrimoniali» nei confronti dello
Stato e dei suoi organi che, ai fini dell’art. 6, § 1, devono essere considerate come rientranti
esclusivamente nell’ambito del diritto pubblico e di conseguenza non sono compresi nella
nozione di «diritti ed obbligazioni di carattere civile». In questo senso, ha specificato la
Corte, la materia fiscale rientra ancora nell’ambito delle prerogative del potere di imperio,
poiché rimane predominante la natura pubblica del rapporto tra il contribuente e la
collettività. Non è questa la sede per esporre ed analizzare le numerose riflessioni critiche che
si sono susseguite sul caso Ferrazzini e, più in generale, sull’applicazione dei principi del fair
trial alle controversie tributarie (35). Resta fermo, comunque, che anche dopo il caso
Ferrazzini la Corte di Strasburgo ha ribadito il proprio orientamento sull’inapplicabilità
dell’art. 6 della CEDU al contenzioso tributario, nonostante l’espresso riconoscimento che le
pretese fatte valere nell’ambito tributario soddisfano uno dei criteri per la qualificazione di
una controversia come civile, vale a dire il loro carattere patrimoniale (36). Ebbene, di una
tutela riferita all’esercizio della giurisdizione l’individuo può ora valersi anche sulla base
dell’art. 47 della Carta dei diritti, che, a differenza della disposizione della CEDU, non soffre
di limitazioni rispetto alla natura delle controversie rispetto alle quali può trovare
applicazione (37). Tenuto conto dei persistenti dubbi in ordine alla conformità del processo
tributario ai canoni del fair trial (38), non sembra illogico ipotizzare che tali istanze possano
ora trovare una più ampia ed intensa tutela nella previsione della Carta dei diritti, sia pur
limitatamente alle ipotesi – peraltro in costante ascesa – in cui l’atto impositivo oggetto di
contestazione o, comunque, la pretesa fatta valere dal contribuente ricada nel cono d’ombra
proiettato dal diritto dell’Unione europea (39).
Quanto al diritto di proprietà ed alla sottesa dialettica tra interessi individuali ed esigenze
generali riferite all’imposizione prefigurata dall’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla
CEDU, la Corte di Strasburgo ha da sempre riconosciuto agli Stati contraenti un’ampia
latitudine di apprezzamento in merito alla selezione di obiettivi di politica economica e
sociale compressivi dei diritti individuali di proprietà, annettendo rilievo all’esistenza di un
giusto equilibrio tra le contrapposte esigenze; giusto equilibrio che, proprio a motivo della
discrezionalità legislativa in ordine alla selezione dei fini da perseguire, tende a porsi sul
piano della necessità, intesa quale selezione di un mezzo non eccessivo per il raggiungimento
del fine, secondo la tradizionale regola del c.d. mildestes Mittel elaborata dalla
giurisprudenza costituzionale tedesca (40). I principi in discorso ben possono influenzare
l’attività del legislatore tributario nazionale: al riguardo assumono rilievo, in particolare, le
aree dell’accertamento e della riscossione tributaria in cui, anche a seguito delle recenti
innovazioni legislative riferite ai cc.dd. «accertamenti esecutivi», è dato identificare diverse
ipotesi in cui il predetto principio di «giusto equilibrio» tra esigenze collettive e salvaguardia
degli interessi individuali non sembra correttamente osservato (41). Non sembra agevole, allo
stato, comprendere come in questo quadro si collochi la previsione recata dall’art. 17 della
Carta dei diritti: se da un lato, infatti, le norme in questione pongono maggiormente l’accento
sul profilo individualistico della proprietà, ravvisandosi l’unica restrizione relativa alla
regolamentazione dell’uso dei beni (e non alla loro privativa) nel generico richiamo
all’interesse generale contenuto nel terzo periodo dell’art. 17, § 1 (42), occorre evidenziare,
dall’altro lato, che la stessa Carta dei diritti enuncia, come detto, una molteplicità di valori
sociali che ben possono integrare la predetta nozione di interesse generale e, per tale via,
consentire tanto alle istituzioni dell’Unione quanto alle autorità nazionali di ponderare i diritti
individuali con i valori sociali legati all’eguaglianza sostanziale, alla solidarietà ed al rispetto
della persona umana, ferma restando, anche in tal caso, l’osservanza di quel «giusto
equilibrio» affermato in ambito CEDU e più volte richiamato anche dalla giurisprudenza
della Corte di giustizia (43). Come si dirà amplius nel prosieguo, il Trattato di Lisbona –
specie, ma non solo, in virtù del suo richiamo alla realizzazione in ambito europeo di
un’economia sociale di mercato – legittima una maggiore attenzione ai profili legati ai diritti
sociali della persona; attenzione che, come detto, trova sostegno anche nell’impostazione
della Carta dei diritti e – aspetto questo più rilevante – anche in importanti iniziative delineate
dalle istituzioni dell’UE nell’ultimo periodo (44). Resta fermo, comunque, che solo
l’osservazione dello sviluppo delle azioni delle stesse istituzioni nel prossimo futuro – specie
nell’attuale contesto di crisi economico-finanziaria – potrà legittimare un’effettiva attenzione
anche nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione ai valori sociali e, per tale via, il
superamento della logica economico-mercatistica che per lungo tempo ha ispirato le
dinamiche dell’ordinamento comunitario.
Ciò detto quanto ai diritti fondamentali che hanno da sempre mostrato un’interrelazione con
la materia tributaria, merita ora soffermarsi, come accennato, su talune ipotesi connotate in
senso più particolare.
A tale riguardo, rilievo assume la recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo
relativa al regime tributario previsto dallo Stato francese per l’associazione avente carattere
religioso dei Testimoni di Geova, in cui si discuteva della legittimità della normativa fiscale
francese in tema di tassazione delle donazioni volontarie disposte in favore di enti e
associazioni di natura religiosa (45). A seguito di una verifica fiscale svolta nel 1997 e riferita
al periodo 1993-1996, venne notificato all’associazione un avviso di accertamento per un
importo complessivamente pari, a titolo di maggiori imposte sanzioni ed interessi, ad oltre
quaranta milioni di euro, non potendo l’associazione beneficiare del regime speciale di
esenzione per i lasciti a titolo gratuito effettuati a favore di enti religiosi non avendo
l’associazione ottenuto l’autorizzazione ministeriale necessaria a tal fine (46). Posto che gli
argomenti dell’associazione non avevano ricevuto accoglimento a livello interno,
l’associazione si era rivolta ai giudici di Strasburgo, assumendo la violazione dell’art. 9 della
CEDU, che tutela, tra l’altro, la libertà di religione (47) a motivo delle conseguenze che dalla
soddisfazione del debito tributario sarebbero potute derivare in relazione ad alcuni luoghi di
culto – sub specie di necessaria disposizione della proprietà di tali luoghi al fine raccogliere
le risorse economiche necessarie per l’adempimento dell’obbligazione tributaria (48) –
violazione che, invece, veniva negata dalle autorità francesi sulla scorta dell’estraneità della
tassazione delle offerte e delle liberalità rispetto all’esercizio del culto. Dopo aver ricordato il
ruolo fondamentale della libertà di religione nel contesto della libertà di espressione
dell’individuo, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è curata di verificare se la condotta
delle autorità francesi potesse qualificarsi come un’ingerenza sul libero esercizio del diritto
alla libertà di religione. Nonostante l’applicazione di un determinato regime fiscale non
rappresenti, di norma, un’ingerenza in grado di comprimere una tale libertà, né, tantomeno,
quest’ultima possa essere invocata al fine di ottenere benefici fiscali aventi carattere
agevolativo (49), la stessa Corte, nel caso di specie, è giunta a ritenere la condotta delle
autorità francesi quale avente un effetto pregiudizievole sulla libertà garantita dall’art. 9 della
CEDU, facendo leva da un lato sul ruolo largamente prevalente delle donazioni e delle altre
liberalità rispetto al complesso delle fonti di finanziamento dell’associazione e, dall’altro lato,
sull’elevato ammontare complessivo del debito gravante in capo all’associazione, ritenuto
idoneo a pregiudicare l’esistenza dell’associazione e, in particolare, la libera disponibilità dei
luoghi di esercizio del culto. In ogni caso, al di là di questa posizione – comunque rilevante e
costituente uno dei rari momenti di interrelazione nella giurisprudenza della Corte tra libertà
di religione e materia tributaria – ciò che maggiormente interessa evidenziare attiene alla
successiva verifica condotta dai giudici di Strasburgo in ordine alla legittimità della
restrizione, in base al disposto dell’art. 9, § 2, della CEDU. Ebbene, lungi dall’entrare nel
merito della valutazione relativa alla legittimità degli obiettivi perseguiti dalle autorità
francesi rispetto alla tutela della libertà di religione dell’individuo, i giudici di Strasburgo
hanno concentrato l’attenzione sulla rispondenza della normativa francese al requisito fissato
dal citato § 2 sulla previsione per legge delle stesse restrizioni alla libertà in questione. A tale
riguardo, la Corte – collocandosi nel solco di un indirizzo giurisprudenziale emerso in tempi
relativamente recenti ma in via di progressivo consolidamento (50) – ha evidenziato come il
quadro normativo rilevante nella specie, considerato alla luce delle interpretazioni fornite
dalla giurisprudenza al riguardo, non avesse consentito all’associazione di poter
ragionevolmente prevedere il regime tributario applicabile alle donazioni ed alle liberalità
ricevute.
La rilevanza di un tale indirizzo – già evidente ad un autonomo inquadramento nel contesto
della CEDU – ci sembra possa accrescersi alla luce di una considerazione combinata con le
più recenti evoluzioni anche nel contesto dell’ordinamento dell’Unione europea. Più in
dettaglio, non solo non può trascurarsi che l’art. 10 della Carta dei diritti riconosce una tutela
analoga a quella della CEDU in tema di libertà di religione, anche con riferimento alle
limitazioni che le autorità statali possono prevedere (51), ma occorre altresì tenere presente
che la stessa Corte di giustizia in pronunce recenti, ed estranee allo specifico contesto della
libertà di religione, ha valorizzato il profilo della c.d. foreseeability delle previsioni
normative, rilevando come la sua mancanza è idonea a condurre ad un riscontro negativo di
proporzionalità – avendo riguardo, più precisamente, al requisito di necessità – delle misure
nazionali limitative di prerogative riconosciute dall’ordinamento dell’Unione europea agli
individui (52).
Ci sembra che un tale indirizzo – che esce rafforzato dalla congiunta considerazione della
CEDU e della Carta dei diritti e, per tale via, si impone in modo più intenso al legislatore
nazionale con riferimento non solo alla sua collocazione nella gerarchia delle fonti, ma anche,
e soprattutto, ai suoi contenuti – debba essere tenuto presente dal legislatore nazionale in sede
di predisposizione della normativa tributaria e, in particolare, nel contesto della libertà di
religione cui l’illustrata pronuncia della Corte di Strasburgo opera riferimento (53).
Un ulteriore spunto di interesse in merito alla interrelazione tra i diritti fondamentali tutelati
dalla CEDU e dalla Carta di Nizza e la materia tributaria proviene dal c.d. «diritto al
silenzio», in base al quale l’individuo non è tenuto ad autoaccusarsi. Il principio del nemo
tenetur se detegere trova tutela tanto nell’ambito della CEDU, quanto nel contesto
comunitario ove è stato ritenuto un principio generale dell’ordinamento dell’Unione europea
(54). Ebbene, oltre ai dubbi, autorevolmente evidenziati, in merito al possibile contrasto tra il
predetto principio e la significatività dell’eventuale rifiuto di collaborare opposto dal
contribuente in sede di verifica (55), ci sembra che del principio in discorso debba tenersi
conto anche nell’interpretazione di una recente previsione normativa in tema di rapporti tra
contribuente ed Amministrazione finanziaria. Il riferimento è, in particolare, alla previsione
recata dall’art. 11, 1° comma, del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, laddove stabilisce che
chiunque, a seguito delle richieste effettuate nell’esercizio dei poteri di cui agli artt. 32 e 33
del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, e agli artt. 51 e 52 del d.p.r. 29 settembre 1972, n. 633,
esibisce o trasmette atti o documenti falsi in tutto o in parte ovvero fornisce dati e notizie non
rispondenti al vero è punito ai sensi dell’art. 76 del d.p.r. 28 dicembre 2000, n. 445. Si tratta,
in sostanza, di una norma che punisce a titolo di falso materiale o ideologico il contribuente
che offra una collaborazione incompleta o mendace rispetto alle richieste avanzate
dall’Amministrazione finanziaria. Come evidenziato dalla relazione di accompagnamento, la
norma mira a reprimere i moltissimi casi in cui le informazioni [...] fornite dal contribuente
controllato, o da soggetti ad esso collegati per convergenza di interessi economici, [...] sono
caratterizzate da mendacio, come avviene, ad esempio, in occasione delle risposte agli inviti a
fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento o a esibire atti e documenti o, ancora
alle risposte ai questionari inviati ai contribuenti ai medesimi fini, così come alle
dichiarazioni rese dai contribuenti ai verificatori e riportate nei processi verbali di
constatazione (56). A fronte di tale versione originaria della previsione, in sede di
conversione del d.l. n. 201 il legislatore ha aggiunto un secondo periodo al medesimo 1°
comma disponendo che relativamente ai dati e alle notizie non rispondenti al vero la riferita
norma di cui al primo periodo si applica solo se a seguito delle richieste di cui al medesimo
periodo si configurano le fattispecie di cui al d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. Ebbene, non v’è
dubbio che la precisazione della condotta punita operata in sede di conversione dell’art. 11
sia riconducibile al rilevato contrasto esistente tra la versione originaria della norma ed il
principio del nemo tenetur se detegere (57): sulla scorta della versione originaria della
disposizione, infatti, il contribuente sarebbe stato punibile anche nell’ipotesi di una risposta
mendace alla richiesta dell’Amministrazione finanziaria rivolta ad evitare un’incriminazione
per un delitto già commesso. Ecco, allora, che se da un lato appare meritorio l’intervento
legislativo operato in sede di conversione e volto a tenere nel dovuto conto il c.d. «diritto al
silenzio» dell’individuo, occorre comunque rilevare, dall’altro lato, che dall’integrazione
recata dal secondo periodo del 1° comma in commento è originato un notevole
depotenziamento della portata applicativa della sanzione. Avendo riguardo, ad esempio, ai
delitti riferiti all’infedeltà della dichiarazione di cui agli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 74 del 2000
– delitti cui sono riconducibili la gran parte delle condotte penalmente rilevanti dei
contribuenti – occorre considerare che tali reati si considerano commessi al momento della
presentazione della dichiarazione stessa – tenendo conto dell’ulteriore termine di novanta
giorni concesso per l’invio della dichiarazione c.d. «tardiva» (58) – e, dunque, in un momento
di norma antecedente a quello in cui il contribuente riceve questionari o richieste
dall’Amministrazione finanziaria o, comunque, vengono effettuati accessi, ispezioni o
verifiche nei suoi confronti. Con la conseguenza che in tali ipotesi – tra le più frequenti nella
pratica, ripetiamo – non sembra agevole pervenire all’applicazione della norma incriminatrice
di cui all’art. 11 in questione, posto che ben difficilmente il reato tributario potrà ritenersi
commesso – configurarsi, nella formulazione letterale dell’art. 11 – in un momento
successivo alla richiesta effettuata dall’Amministrazione finanziaria. Non sembra dubbio,
allora, che l’integrazione normativa operata in sede di conversione – che ha correttamente
delimitato la fattispecie delittuosa in considerazione del principio di nemo tenetur se detegere
– ha anche reso meno incisiva la portata della disposizione e ciò, vale rilevare, proprio con
riferimento a quei casi – risposte mendaci agli inviti a fornire dati e notizie rilevanti ai fini
dell’accertamento o a esibire atti e documenti, risposte mendaci ai questionari inviati ai
contribuenti nonché dichiarazioni non veritiere rese dai contribuenti ai verificatori – che la
relazione di accompagnamento alla norma originaria aveva individuato – suscitando, peraltro,
non poche perplessità – come più frequenti e meritevoli di un’adeguata risposta
sanzionatoria.
4. – La conferma del principio dell’unanimità in materia fiscale
Nonostante l’allargamento operato dall’Atto Unico europeo del principio maggioritario ad
un’ampia serie di materie, la fiscalità è sempre rimasta condizionata all’adozione del
principio dell’unanimità.
L’art. 95, § 1, del Trattato CE (d’ora in poi, TCE), che prevedeva il procedimento
deliberativo a maggioranza qualificata, veniva infatti espressamente dichiarato, nel medesimo
articolo, come non applicabile alla materia fiscale.
Le istanze provenienti da parte della dottrina tributaristica (59) in ordine alla sostituzione del
principio del voto all’unanimità con quello a maggioranza qualificata, erano state recepite
dalla Commissione europea (60), che ne aveva proposto l’introduzione in quei casi in cui le
disposizioni fiscali fossero finalizzate ad aggiornare, semplificare o assicurare l’applicazione
uniforme dell’iva, delle accise e dell’imposta sul capitale, a prevenire la frode, l’evasione e
l’elusione nell’imposizione diretta ed indiretta, a coordinare le disposizioni per eliminare
restrizioni, discriminazioni e doppia imposizione, nonché a conseguire gli obiettivi del
Trattato in materia ambientale.
Alle proposte di adozione del principio di maggioranza qualificata, si accompagnava, inoltre,
quella di un ampliamento dei poteri del Parlamento europeo nel processo legislativo, oppure
del conferimento al Consiglio di una maggiore rappresentatività democratica (61).
Il progetto di Costituzione dell’Unione europea approvato dalla Convenzione europea il 10
luglio 2003 aveva fatto balenare la possibilità di un cambiamento sul punto. Pur non
estendendosi alla materia tributaria il nuovo e generale principio del voto a maggioranza e del
procedimento di co-decisione tra Consiglio e Parlamento europeo per l’esercizio della potestà
normativa, veniva infatti previsto il potere di adottare a maggioranza qualificata, una volta
verificatane la necessità, leggi o leggi-quadro europee che avessero ad oggetto la
cooperazione amministrativa o la lotta contro la frode fiscale e l’elusione fiscale illecita nel
settore dell’imposizione indiretta e dell’imposta sul reddito delle società (62).
Queste disposizioni non sono state tuttavia recepite né nel testo definitivo della Costituzione,
che in materia di armonizzazione e ravvicinamento delle imposte dirette ed indirette (nonché
in materia di fiscalità ambientale), riproponeva la regola dell’unanimità, senza eccezione
alcuna, né nel testo del Trattato di Lisbona.
A ben vedere, in un’Unione a ventisette Stati, la persistenza del meccanismo dell’unanimità,
almeno nella misura in cui abbia ad oggetto fattispecie di rilevanza meramente
intracomunitaria, appare sempre più difficilmente argomentabile.
Il problema risiede, tuttavia, nella pluralità dei modi, e nel loro diverso grado di pervasività,
in cui un determinato obiettivo avente tale rilevanza può di regola essere perseguito. Ciò pare
chiaramente dimostrato dalle numerose ipotesi di regolamentazione che si sono succedute nel
dibattito sulla direttiva sul risparmio, tese tra gli interessi finanziari degli Stati membri da un
lato e l’esistenza del segreto bancario in alcuni di essi dall’altro lato. Ebbene, la previsione di
una deroga, come proposto, nei casi di provvedimenti finalizzati al contrasto alla frode o
all’elusione, avrebbe certamente legittimato in una simile ipotesi l’intervento a maggioranza,
tuttavia con gli effetti politici che è agevole immaginare.
Per provare ad avanzare nel processo di integrazione nonostante il principio dell’unanimità
restano, dunque, solo due strade percorribili.
Da un lato, il ricorso al meccanismo della c.d. «cooperazione rafforzata» nel caso di Stati
membri like-minded. Si tratta tuttavia di un tema bifronte, perché se è vero che un certo
obiettivo europeo, finalizzato allo sviluppo del mercato interno, può essere perseguito tra una
ristretta cerchia di Stati, è anche vero che gli accordi raggiunti in tale sede non devono mai
risolversi in un vantaggio per gli Stati diversi da quelli in seno ai quali sia stato raggiunto
l’accordo (63).
Dall’altro lato, il ricorso a fonti di carattere «non legislativo» (cosiddetta soft law),
sviluppatosi soprattutto, per quanto riguarda la materia fiscale, a seguito del nuovo approccio
in tema di armonizzazione e «coordinamento fiscale» avviatosi verso la fine degli anni ’90.
All’obiettivo del coordinamento fiscale – sul cui contenuto torneremo oltre – si è infatti
accompagnata un’innovazione sul piano delle forme dell’azione: le indicazioni contenute in
raccomandazioni, guidelines, accordi multilaterali, note interpretative, comunicazioni e
risoluzioni vengono infatti a svolgere un triplice ruolo di supervisione, stimolo ed indirizzo –
dunque, di coordinamento – per la politica fiscale degli Stati membri, che deve inserirsi
nell’articolato quadro di riferimento dell’azione comunitaria in materia tributaria che tali atti
vanno a disegnare (64).
Ne costituisce oggetto, tra l’altro, anche l’azione della Corte di giustizia, nell’ottica di
proporre modelli comuni di riferimento in sostituzione di misure fiscali da essa giudicate
incompatibili con il Trattato e così evitare risposte asimmetriche nei vari Stati membri, ma
straordinariamente significativa è altresì la soft law analitica e puntuale elaborata dalla
Commissione europea in materia di aiuti di Stato, servita alla commissione stessa per
orientare le scelte di intervento degli Stati membri, nonché per promuovere e, in certa misura,
anticipare il diritto in senso proprio (65).
Tali atti, pur di regola non vincolanti, non sono peraltro privi di effetti (66).
Le raccomandazioni, ad esempio, dirette agli Stati membri e contenenti l’invito (come tale
non vincolante) a conformarsi ad un determinato comportamento, possono funzionare da un
lato come parametro di precisazione, sul piano interpretativo (in particolare, in sede di rinvio
pregiudiziale ex art. 267 TFUE), di norme interne (che abbiano ad esempio inteso
conformarsi alla raccomandazione stessa) e comunitarie (67), dall’altro lato come criterio di
valutazione della legalità dei comportamenti adottati dagli Stati membri, segnatamente
attraverso quel c.d. «effetto di liceità», che vale a rendere lecito il comportamento
raccomandato anche quando si concreta nella violazione di preesistenti norme internazionali
(68). A ciò deve aggiungersi l’obbligo «morale» che esse creano per gli Stati membri (69),
quale stimolo ad agire in una certa direzione o ad astenersi da comportamenti contrastanti con
l’interesse generale o con gli obiettivi dell’Unione. Le stesse risoluzioni del Consiglio, cui
può ricondursi il codice di condotta in materia di tassazione delle imprese, e le comunicazioni
della commissione, sempre più frequenti in materia tributaria, vengono a svolgere una
funzione di pressione sia tra Unione e Stati, sia tra gli stessi Stati membri; le guidelines,
infine, adottate in materia di aiuti di Stato dalla commissione per informare gli Stati membri
sulle modalità di controllo nei nuovi aiuti, sono addirittura intese a produrre effetti giuridici,
al punto da ritenersi impugnabili dinanzi alla Corte di giustizia (70).
Appare evidente che la finalità propria di tutti questi atti – almeno nei casi in cui essi non
rappresentino, in ossequio ai principi di sussidiarietà e proporzionalità, un mero passaggio
«politico» intermedio prima del ricorso all’extrema ratio della hard law (71) – è proprio
quella di aggirare, per quanto possibile, la rigidità del principio dell’unanimità in materia
fiscale, cui viene addebitato il blocco decisionale nell’ambito del Consiglio e l’impossibilità
di perseguire la convergenza in termini più incisivi (72).
Proprio per tale ragione, questa vasta congerie di strumenti più o meno atipici alimenta
tuttavia quei noti profili problematici di legittimazione democratica e la diffidenza degli Stati
membri più volte manifestatisi con riferimento all’operato della Corte di giustizia e sfociati, a
nostro avviso, in una attenuazione della spinta riformista della Corte stessa, sempre più
attenta alle giustificazioni degli Stati alle misure discriminatorie e restrittive adottate e incline
semmai ad approfondire il profilo della proporzionalità, anche qui, tuttavia, senza mai
imporre allo Stato il mildestes Mittel ed accontentandosi di una soluzione «ragionevole».
5. – Le competenze fiscali dell’Unione
Il TCE ha da sempre difettato di una considerazione di ampio respiro dei temi legati al
fenomeno tributario.
Questa assenza non deve tuttavia sorprendere.
Non solo, infatti, la Comunità economica europea nasce come unione doganale, risolvendosi
così il fattore fiscale, in chiave strumentale (73), nel mancato assoggettamento dei prodotti, al
momento del loro passaggio tra uno Stato e l’altro, a dazi di esportazione (o di importazione)
o a qualsiasi prelievo di effetto equivalente, e nell’istituzione di una tariffa doganale comune
nei confronti di Paesi terzi rispetto alla Comunità.
Soprattutto – e più esattamente – ciò che emerge dalla trama del Trattato e ne segna
l’originaria impostazione è la stretta connessione tra prelievo indiretto e scambi commerciali
intra- ed extracomunitari: le disposizioni fiscali sono così destinate ad evitare gli effetti
distorsivi causati dalle imposte alla libera circolazione delle merci, nel duplice senso di
eliminazione delle barriere fiscali a tale libera circolazione e di divieto di qualsiasi utilizzo in
funzione discriminatoria del tributo per favorire la produzione nazionale rispetto a quella
proveniente da un altro Stato membro. Una funzione, pertanto, «riduttiva» dei sistemi di
imposizione indiretta interni e dei loro differenziali: in altri termini, di tipo «negativo».
Al perseguimento di tali obiettivi iniziali e al successivo graduale passaggio dall’unione
doganale al mercato comune – relativo all’abolizione di ogni vincolo quantitativo e
qualitativo non solo per i beni e servizi, ma anche per i fattori produttivi – ha dunque
concorso l’azione in materia di imposizione indiretta, connotando una prima fase della
fiscalità comunitaria che ha occupato un ampio arco temporale e che comunque, pur collocata
ormai in secondo piano nel dibattito europeo, è ben lungi dall’essersi conclusa.
Ancor più complesso è il terreno dell’imposizione diretta.
Pur costituendo infatti l’assenza nel TCE di qualsiasi esplicito riferimento ad essa un
problema ampiamente superato, la circostanza che la base giuridica sia stata rinvenuta
nell’art. 3, lett. h), TCE (che prevedeva il ravvicinamento delle legislazioni nazionali nella
misura necessaria al funzionamento del mercato comune) e nell’art. 94 TCE (ora art. 115
TFUE) (che tuttora prevede la competenza del Consiglio a deliberare all’unanimità sulle
direttive volte al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed
amministrative degli Stati membri che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul
funzionamento del mercato comune) (74), ha fatto sì che il terreno sul quale sono nati e si
sono sviluppati gli interventi in materia di imposizione diretta è quello della realizzazione del
mercato comune, o meglio ancora, interno, a seguito delle modifiche intervenute con l’Atto
Unico europeo (75).
Gli interventi in tale materia sono stati tuttavia limitati non solo quantitativamente ma anche
qualitativamente, non avendo mai coinvolto aspetti puramente nazionali data la forte
resistenza degli Stati membri ad abdicare in materia di imposizione diretta a favore degli
organi comunitari (76).
Nonostante gli auspici che il Rapporto Neumark conteneva in ordine all’introduzione di
un’imposta sulle società armonizzata e al ravvicinamento della struttura della tassazione del
reddito delle persone fisiche, gli interventi di carattere puramente nazionale si sono infatti
sistematicamente arenati sulla considerazione dell’inopportunità di annullare la leva fiscale a
disposizione di ogni Stato, già fortemente compromessa dal sostanziale azzeramento dei
vantaggi derivanti dalla selettività dell’imposizione indiretta e dall’impossibilità di un’azione
sui cambi per effetto del passaggio alla moneta unica.
In tale ottica, anche gli obiettivi «minimali» individuati agli inizi degli anni ’90 dal Comitato
Ruding (77) – incaricato dalla Commissione europea presieduta da M.me Scrivener di
individuare le principali distorsioni di natura fiscale al funzionamento del mercato interno e
le misure specifiche per eliminarle –, consistenti nel raggiungimento di un livello minimo di
uniformità nella determinazione della base imponibile e nella previsione di una forbice di
aliquote d’imposta sugli utili societari (comprese le imposte locali), avevano finito per
formare oggetto di ampie riserve da parte della stessa commissione e del Consiglio, poiché
ritenuti inopportuni sotto numerosi profili.
Quanto sopra – che è alla base dell’esistenza, allo stato attuale, di sensibili differenze nella
determinazione della base imponibile del reddito delle persone fisiche e delle imprese, nei
sistemi di tassazione di società ed azionisti e nelle aliquote societarie, che finiscono per
riflettersi, sia pure unitamente ad altri non meno rilevanti fattori (78), sulle condizioni
concorrenziali e le relative scelte localizzative delle imprese operanti all’interno dell’Unione
– non ha subito modifiche per effetto del Trattato di Lisbona.
Le competenze fiscali, infatti, non risultano modificate, neanche in parte.
Anzi è stato abrogato l’art. 293 TCE che prevedeva l’avvio di negoziati tra Stati per la
conclusione di accordi per l’eliminazione della doppia imposizione. Tale abrogazione
consegue peraltro alla constatazione della sua sostanziale inutilità anche alla luce della
giurisprudenza della Corte di giustizia che ha sistematicamente rinvenuto in essa una norma
meramente «programmatica», sicché ci pare di poter condividere l’osservazione di chi non
rinviene in tale abrogazione una forma di regressione (79).
La materia delle imposte sui redditi resta dunque appannaggio dei singoli Stati, senza che sia
stato introdotto alcun ulteriore potere di armonizzazione da parte dell’Unione europea al di
fuori dei limiti sopra esaminati.
Questa soluzione difficilmente può essere criticata.
Da un lato, infatti, essa è coerente con quel richiamato percorso che ha condotto
all’elaborazione del concetto di coordinamento fiscale.
Si delinea infatti a decorrere dalla metà degli anni Novanta – forse definitivamente – un
concetto di armonizzazione per l’imposizione diretta che non è (né mai lo è stata)
unificazione, ma neanche semplice adeguamento ad un tipo comune: è solo, invece,
approssimazione, convergenza elastica finalizzata ad eliminare le distorsioni più rilevanti.
Da un lato il contenuto del concetto di armonizzazione utilizzato dal Trattato in materia di
imposizione indiretta tende ad affievolirsi in direzione di quello – testualmente indicato
dall’art. 94 TCE (ora 115 TFUE) – di ravvicinamento, dall’altro emerge e si consolida un
concetto di coordinamento: nozioni – quelle di ravvicinamento e coordinamento – che
costituiscono, rispetto a quella di armonizzazione, forme di integrazione maggiormente
rispondenti ai principi di necessità e sussidiarietà dell’azione comunitaria già sanciti dagli
artt. 3 e 5 TCE ed oggi confermati dall’art. 5 del TUE (80).
Non si specificano dunque, per gli istituti puramente nazionali, né modelli di imposta, né basi
imponibili comuni, né livelli impositivi uniformi: l’azione comunitaria si rivolge soltanto,
con un grado di incisività maggiore nell’imposizione indiretta e minore in quella diretta (81),
ad aspetti dell’imposizione che interessano flussi intracomunitari di ricchezza. Per il resto, si
guarda più al coordinamento delle politiche fiscali, sia per evitare che le modalità di esercizio
del potere tributario da parte di uno Stato membro si traducano in un pregiudizio per gli altri
Stati membri, sia per far sì che le scelte in materia di politica fiscale si attuino in quel quadro
di riferimento che gli atti adottati dagli organi comunitari, anche di cosiddetta soft law,
vengono a delineare (82).
Quanto accaduto a livello dei singoli Stati membri a seguito della crisi economica e
finanziaria conferma l’inevitabilità di tale approccio ed induce per il momento ad accantonare
la possibilità di prevedere forme avanzate di armonizzazione in materia di imposte sui redditi.
L’analisi comparatistica delle massicce strategie fiscali adottate dagli Stati membri dopo la
crisi consente infatti di evidenziare come la prospettiva fiscale abbia rivestito un ruolo
fondamentale (83), al punto che appare veramente difficile pensare che agli Stati sia sottratta
la leva fiscale in materia di imposizione diretta.
Ciò nondimeno, tale analisi mostra – questo sì – una mancanza di coordinamento tra le
misure adottate a livello nazionale, sicché ci pare che dal punto di vista europeo ciò dovrebbe
costituire almeno uno stimolo per contribuire al potenziamento del coordinamento fiscale,
finalizzato ad aumentare l’integrazione fiscale tra gli Stati nel rispetto delle sovranità fiscali
nazionali.
6. – Il mancato inserimento nel Trattato di principi di carattere tributario, la tutela della
concorrenza e il riferimento alla «economia sociale di mercato»
Già nel corso dell’ampia discussione che aveva accompagnato la stesura della Costituzione
europea si era assistito ad un rinnovato interesse per i grandi temi della fiscalità comunitaria,
tra cui:
a) se e quali principi di carattere tributario inserire nella Costituzione europea;
b) se e quali tributi istituire a livello europeo e, più in generale, se e come rimodellare
l’autonomia impositiva comunitaria.
Per quanto attiene al primo tema, il dibattito non ha portato ad alcun risultato.
Le pur autorevoli proposte (84) di fare un esplicito riferimento nel testo della Costituzione
(rectius, nella Carta dei diritti da incorporare in essa) al principio del consenso (anche
mediante l’ampliamento dei poteri del Parlamento nel processo legislativo), del riparto delle
spese pubbliche secondo la capacità contributiva individuale nel rispetto dell’esistenza libera
e dignitosa del contribuente e della famiglia, della solidarietà tra i consociati e della certezza
del diritto, del divieto di tributi di carattere confiscatorio, della promozione dell’autonomia
finanziaria degli enti sub-centrali e, infine, dell’azione dell’Amministrazione finanziaria
secondo principi di imparzialità, eguaglianza e affidamento, sono infatti rimaste inascoltate.
La Costituzione prima e il Trattato di Lisbona poi si pongono in una prospettiva di perfetta
continuità con il TCE: il Trattato di Lisbona si limita come detto a riprodurne, senza
variazioni, le disposizioni fiscali, e la fiscalità resta un fattore strumentale al perseguimento
del mercato interno, informato alle libertà economiche e al principio di libera concorrenza.
Viene dunque confermata l’idea di una fiscalità considerata essenzialmente in negativo, in cui
il tributo, anziché perseguirne in positivo le finalità, non deve costituire un ostacolo al
conseguimento degli obiettivi fissati nel Trattato, e nel quale è precluso ogni intervento
finalizzato alla giustizia o razionalità dei sistemi tributari nazionali (85). In altri termini,
viene ribadito come le regole fiscali europee rispondano alla logica dell’integrazione dei
mercati secondo i principi della libera concorrenza e della neutralità, e non già a quella del
perseguimento di quei valori di eguaglianza sostanziale che caratterizzano il fenomeno
tributario nei sistemi nazionali (86).
È sì vero che si è proceduto all’eliminazione, nell’articolo dedicato agli obiettivi del Trattato,
del riferimento a un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato
interno (art. 3, § 1, lett. g), TCE), sostituito dall’obiettivo di un’economia sociale di mercato
fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale (art. 3 TUE),
la quale certamente valorizza la «dimensione sociale europea».
Questa eliminazione risulta tuttavia ampiamente compensata sia dal suo trasferimento
all’interno del Protocollo sul mercato interno e sulla concorrenza (n. 27), che in quanto
allegato al Trattato ne costituisce parte integrante, sia dalla circostanza che il sistema
normativo attraverso cui si procede all’attuazione del principio di libertà di concorrenza è
rimasto di fatto inalterato (cfr. artt. 101 e ss. del TFUE).
Da un lato, infatti, si afferma nel Protocollo che considerando che il mercato interno ai sensi
dell’art. 3 del Trattato sull’Unione europea comprende un sistema che assicura che la
concorrenza non sia falsata; dall’altro, che l’Unione adotta, se necessario, misure in base alle
disposizioni dei trattati, ivi compreso l’art. 352 del Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea, dall’altro ancora, che il presente protocollo è allegato al trattato sull’Unione europea
e al trattato sul funzionamento dell’Unione europea (87).
Si riconosce, pertanto, che il principio di tutela della concorrenza rientra nell’art. 3 del
Trattato, si evidenzia la possibilità di ricorrere alla «clausola di flessibilità» di cui all’art. 352
TFUE (già art. 308 TCE) per garantire che la concorrenza sia libera e non falsata e si lascia
chiaramente intendere che il Protocollo, proprio in quanto allegato al Trattato, ne ha lo stesso
rilievo giuridico ai sensi dell’art. 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. A ciò
si aggiunga, poi, l’orientamento manifestato dalla Corte di giustizia in merito alla persistente
centralità degli obiettivi concorrenziali, sia pur nel contesto di un più ampio e complessivo
apprezzamento rispetto a valori di diversa natura (88).
Sotto questo profilo, ancorché sia stato paventato il rischio di una declassificazione della
politica comunitaria di concorrenza rispetto alle altre e di un suo depotenziamento (89), pare
potersi convenire con chi ritiene che la libertà di concorrenza conserva tutto il suo valore
giuridico e mantiene intatta la sua collocazione nel quadro dei principi-obiettivi
dell’ordinamento dell’Unione (90), mentre non condividiamo, per quanto diremo oltre, la
radicalità dell’affermazione secondo cui essa sarebbe stata declassata da valore a strumento
(91).
Al tempo stesso, tuttavia, non può certamente essere ignorato il nuovo riferimento alla
economia sociale di mercato, che dovrebbe essere inteso a valorizzare, come detto, la
«dimensione sociale europea» dell’azione comunitaria, e dunque i diritti fondamentali, la
solidarietà e gli aspetti egalitari (92).
La Corte di giustizia, in effetti, pur facendo riferimento alla funzione sociale della proprietà,
mostrava pur sempre di riferirsi all’interesse generale che sta alla base dei trattati, vale a dire
l’instaurazione di un’economia di concorrenza, dove la proprietà assurge a diritto
fondamentale, che può però essere limitato se il limite è giustificato dall’ordine economico
che concorre a realizzare (93).
La diversa espressione ora utilizzata dal Trattato di Lisbona non costituisce tuttavia di certo
una «controriforma».
Da un lato, infatti, la tutela dei diritti fondamentali costituisce da sempre il presupposto della
legittimità democratica dell’Unione, dall’altro la giurisprudenza comunitaria, nell’applicare
l’art. 16 della Carta dei diritti che sancisce la libertà di esercizio di un’attività economica e il
diritto di operare in un mercato concorrenziale, ha riconosciuto nella dignità della persona e
nei diritti fondamentali un limite certo di tale libertà, ritenendo che la tutela dei diritti
fondamentali può prevalere su una libertà economica riconosciuta dal Trattato, previo un loro
attento bilanciamento (94); dall’altro ancora, il principio di solidarietà ha formato oggetto di
costante valorizzazione da parte della Corte di giustizia, in quanto alla base del sistema
europeo (95).
Allo sviluppo e al consolidamento del principio di solidarietà si ricollega altresì quanto
accaduto in materia di libertà di circolazione delle persone, la quale possedeva
originariamente una connotazione esclusivamente economica, costituendo essa nella fase
iniziale uno tra i principali fattori di unificazione di una Comunità riservata ai soggetti
economicamente attivi (96).
Il legislatore europeo, attraverso una serie di atti derivati, ha infatti ampliato
progressivamente il diritto di ingresso e soggiorno, riconoscendo il diritto di residenza in un
altro Stato membro indipendentemente dall’esercizio della libera circolazione dei lavoratori o
della libertà di stabilimento, sino a giungere alla consacrazione con il Trattato di Maastricht
della libertà di circolazione mediante l’inserimento, nella nuova Parte II intitolata alla
cittadinanza dell’Unione (97), dell’art. 18 TCE (ora art. 21 TFUE), che riconosce a ogni
cittadino dell’Unione il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli
Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dal presente trattato e dalle
disposizioni adottate in applicazione dello stesso (98).
Le disposizioni sulla libertà di circolazione non investono dunque più i soli soggetti
professionalmente attivi, conformemente alla c.d. «concezione mercantilistica del diritto di
circolazione» (99), bensì si rivolgono al cittadino europeo, titolare del diritto fondamentale di
circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli altri Stati membri (c.d. «diritto di
incolato») (100), offrendo così un parametro normativo ulteriore per la verifica della
legittimità delle eventuali restrizioni a tale diritto, con rilevanti effetti anche in materia
tributaria, sol che si pensi alle exit taxes applicate a soggetti che si trasferiscono in un altro
Stato membro per motivi meramente residenziali.
Insomma, nell’esaminare il dilemma tra una politica europea di maggiore impronta sociale e
la costante attenzione al piano del mercato e della produttività (101), emergono dalla trama
comunitaria una serie di elementi che potrebbero apparire ambigui e tra loro contrastanti se
non si giungesse alla conclusione, che ci pare di poter condividere, che non si tratta in realtà
di coppie di antitesi in conflitto (mercato e diritti, liberalismo e solidarietà, liberismo e
dirigismo) ma di concetti che si influenzano vicendevolmente e formano parte di un progetto
complessivo (102). Come è stato scritto, i diritti sociali non vanno pensati in senso
conflittuale rispetto al mercato, bensì come strumenti etero-correttivi della competizione
diretti a conseguire risultati redistributivi che il mercato, da solo, non genera (103). Così
come non pare dubitabile che l’attività di protezione sociale, lungi dal deprimere la crescita
economica di un sistema, fornisce incentivi positivi alla produzione (104).
Si tratta di una prospettiva – quella della complementarietà tra obiettivi sociali ed obiettivi
economici – che in realtà sembra accompagnare la costruzione europea sin dai suoi primi
passi, sol che si pensi alla sentenza Defrenne (105) in cui la Corte evidenziava, in relazione al
principio di parità tra uomini e donne con riguardo alla retribuzione, che esso è un mezzo per
conseguire due scopi fondamentali della Comunità stessa, l’uno economico e consistente
nell’evitare distorsioni della concorrenza tra Stati, l’altro sociale e consistente nel garantire il
costante miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei popoli europei.
Questa prospettiva è peraltro tornata di attualità proprio con la recente crisi economica e
finanziaria, che ha rafforzato la tesi della necessità di contemperare mercato e sociale, non
potendo l’economia di mercato prescindere da un sistema sociale adeguato. Nella lettera di
incarico di Barroso a Monti del 20 ottobre 2009, si indica la priorità di verificare modi e
forme per un mutuo rafforzamento tra il mercato e la dimensione sociale dell’economia,
potendo solo una maggiore attenzione ai diritti sociali a livello europeo impedire la
disaffezione verso l’integrazione economica ed evitare uno sfaldamento che minerebbe le
radici stesse dell’Unione; ma altrettanto significativa è la comunicazione della commissione
del 27 ottobre 2010 (106), la quale contiene proposte per realizzare un disegno preciso di una
disciplina giuridica in materia di lavoro che attui in concreto un’economia sociale di mercato,
anche alla luce di quanto disposto dall’art. 9 TFUE (107).
In effetti, una siffatta prospettiva ha trovato ampio spazio proprio nella strategia
dell’occupazione, fondata sul coordinamento tra principi di solidarietà e concorrenza. A tale
riguardo, l’idea che i diritti sociali abbiano finalmente visto riconoscere il loro ruolo quale
non secondario rispetto alle libertà economiche, superando una visione dell’Unione europea
teleologicamente orientata alla formazione del mercato comune fondato sulla concorrenza, si
è dovuta confrontare, anteriormente all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, con una
giurisprudenza che aveva ingenerato nella comunità scientifica il timore che i diritti sociali,
nel raffronto con le libertà economiche, fossero sempre destinati a soccombere (108). La
dottrina constata tuttavia come la Corte abbia già sottolineato il maggior valore adesso
attribuito dall’ordinamento europeo ai diritti sociali, a favore della tesi per cui si stanno
muovendo i primi passi verso un più maturo riconoscimento dei diritti sociali nell’Unione
(109). Tale riconoscimento trova esplicazione non solo in un più attento vaglio delle
istituzioni dell’Unione del rispetto dei diritti fondamentali in occasione di ciascuna iniziativa
legislativa (110), ma, auspicabilmente, anche in una diversa rilevanza nella giurisprudenza
della Corte del balancing test tra valori economici e scopi lato sensu sociali interno al
giudizio di proporzionalità (111); momento, questo, che era sinora rimasto nell’ombra a
motivo del carattere recessivo dei valori non economici all’interno della trama dei trattati
comunitari (112).
Naturalmente, questo avanzamento in materia giuslavorista può assumere una rilevanza
anche tributaria. Si pensi, ad esempio, alla sentenza Roemer della Corte di giustizia (113),
con la quale la Corte ha esteso ad un soggetto legato ad un altro del medesimo sesso da
un’unione civile in Germania la più favorevole aliquota fiscale gravante sulla pensione
complementare di vecchiaia prevista soltanto in favore di persone coniugate e non separate
(114).
Con specifico riferimento alla materia fiscale, ci sembra invece che il punto nodale stia nel
verificare se, per effetto del riferimento all’economia sociale di mercato, si sia registrato un
diverso approccio in ordine al controllo di misure statali che producano effetti tali da
modificare le condizioni di concorrenza tra le imprese. In altri termini, se questo riferimento
abbia in qualche modo giocato a favore di uno specifico contemperamento degli interessi in
causa ai fini dell’applicazione della disciplina in materia di aiuti di stato. La crisi economica e
finanziaria mette invero a dura prova il sistema europeo delle regole a tutela della
concorrenza, poiché gli Stati sono tentati sempre più di ricorrere all’intervento pubblico
(115).
Si tratta del ben noto problema delle finalità c.d. «promozionali» del diritto tributario, che
non è solo finalizzato ad attuare il riparto della spesa pubblica su tutti quei consociati in
qualche modo interessati alla vita della collettività di cui sono parte e che siano titolari di
indici di capacità contributiva (116), ma anche di favorire il perseguimento, tramite lo
strumento fiscale, di obiettivi ritenuti meritevoli. Questa finalità promozionale, comportando
una minore imposta in capo a determinati soggetti, costituisce un’evidente deroga al criterio
del riparto, determinando, a parità di spesa pubblica da finanziare, una maggiore imposta in
capo ai restanti soggetti. Ecco dunque che, trovando detta funzione di riparto copertura nel
principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., occorre che l’agevolazione trovi
parimenti copertura in un altro principio costituzionale, giustificando un bilanciamento di
valori.
Un siffatto bilanciamento trova tuttavia difficoltà di recepimento sul piano europeo.
Emblematica è la vicenda dei soggetti c.d. «non profit»: nessuno revoca in dubbio la
meritevolezza della funzione da essi svolta, talvolta anche sostitutiva dell’intervento statale al
punto di far considerare le agevolazioni alla stregua di tax expenditures alternative agli oneri
che lo Stato dovrebbe altrimenti sostenere. Ciò nonostante, nella nota sentenza della Corte di
giustizia del 10 gennaio 2006 nella causa C-222/04 Cassa di risparmio di Firenze (117), la
Corte stessa ha chiaramente affermato che le finalità, pur meritevoli, non rilevano nel diritto
europeo nella misura in cui la disciplina agevolativa determini un’alterazione della
concorrenza. Se ciò accade, allora la normativa interna contrasta con il divieto di accordare
aiuti di stato, intesi come vantaggi, anche di natura tributaria, a beneficio di determinate
imprese o produzioni mediante risorse pubbliche che abbiano l’effetto di distorcere la
concorrenza nel mercato unico.
Ecco dunque che i pur rilevanti contrappesi costituzionali che giustificano la deroga al riparto
finiscono per diventare irrilevanti al cospetto della tutela della concorrenza assicurata dalle
norme del Trattato UE.
Si tratta allora di vedere se quei medesimi valori ed interessi costituzionalmente riconosciuti
negli ordinamenti nazionali, una volta «usciti dalla porta», possano poi in qualche modo
«rientrare dalla finestra» rifluendo sul piano europeo ora sul terreno della valutazione della
non selettività dell’aiuto (inquadrandosi il differenziato regime nella c.d. «natura o struttura
del sistema fiscale»), ora sul terreno della meritevolezza degli interessi perseguiti tale da
giustificare una deroga alla disciplina comunitaria: introducendo, dunque, un nuovo
bilanciamento, questa volta tra tutela della concorrenza e quei medesimi valori promossi
dagli ordinamenti nazionali e alla cui attuazione la disciplina fiscale è ordinata, nella misura
in cui detti valori possano trovare un riconoscimento da parte del diritto europeo (118).
In generale, che vi sia una maggiore sensibilità verso il problema è dimostrato dalle numerose
comunicazioni emanate dalla commissione sin dalla fine del 2008 su sollecitazione
dell’ECOFIN (119).
Tuttavia, mentre per quanto riguarda il profilo della non selettività dell’aiuto, si osserva in
effetti una maggiore disponibilità della commissione a considerare le misure adottate dagli
Stati come misure escluse dal divieto, per quanto riguarda il profilo del bilanciamento,
l’esistenza di specifiche deroghe nella disciplina degli aiuti conduce tuttora ad una risposta
negativa alla domanda se quei valori ed interessi costituzionalmente rilevanti alla base del
bilanciamento interno, una volta receduti rispetto alla tutela della concorrenza, possano essere
successivamente recuperati. Si tratta, infatti, di questione, quella della rilevanza degli
obiettivi perseguiti, già considerata (ed esaurita) a livello europeo mediante la previsione
delle deroghe di cui all’art. 107, § 3, TFUE, luogo di conciliazione tra obiettivi di solidarietà
e tutela della concorrenza, che al potere della commissione costituiscono un insuperabile
limite (120).
Ciò cui si assiste, al momento, è soltanto una maggiore apertura verso gli aiuti ad istituzioni
finanziarie, in considerazione del rischio per l’economia dei singoli Stati membri che il loro
default potrebbe provocare (121).
7. – Sistemi fiscali e concorrenza tra Stati membri
È stato evidenziato in dottrina che la concorrenza non è più di per sé un obiettivo dell’Unione
ma diventa uno strumento al servizio dei consumatori e in questo quadro aggiunge l’evasione
tra gli strumenti di distorsione della concorrenza: con la conseguenza del divieto di norme
fiscali che alterino gli scambi, come accade nel caso di un’imposta sulle società con aliquote
eccessivamente basse (122).
Si evidenzia dunque un secondo profilo: a quello relativo alla valutazione delle misure
interne che abbiano l’effetto di falsare la concorrenza in nome di determinati valori, si
aggiunge quello della concorrenza fiscale tra Stati membri.
Ora, a partire dalla metà degli anni ’90 e sino ai giorni nostri l’intervento europeo in materia
fiscale non è stato più rivolto al solo obiettivo di eliminare gli ostacoli di natura fiscale al
raggiungimento del mercato interno, ma anche a quello di tutelare gli interessi finanziari dei
singoli Stati membri. L’integrazione in materia di imposizione diretta non è stata pertanto più
vista solo come elemento (negativo) di perdita di sovranità fiscale per gli Stati membri, ma
anche, in un certo senso, come strumento (positivo) per preservarla. L’attenzione si è rivolta
così alle politiche tributarie sleali e dannose, finalizzate ad attrarre investimenti produttivi e
finanziari dei soggetti non residenti, che indebolendo le finanze degli Stati membri con
pressione fiscale più elevata, ne condizionano la politica economica e sociale e, in definitiva,
le scelte politiche sui livelli di welfare ritenuti più soddisfacenti.
È pertanto venuta meno la logica dell’adeguamento spontaneo «verso il basso», del
cosiddetto race to the bottom, della competizione tra Stati membri, alla quale si imputa una
allocazione non efficiente delle risorse, la mancanza di equità interstatale e la concentrazione
del prelievo verso forme reddituali caratterizzate da scarsa mobilità, in primis il lavoro (123).
Ciò che ha sollevato, tuttavia, per i più scettici, il triplice rischio di dare vita nei rapporti tra
Stati membri e loro cittadini ad un «cartello fiscale»; di diminuire, nei rapporti tra Stati UE e
Stati extra-UE, l’attrattività dell’area euro nei confronti degli altri attori dell’economia
mondiale (124); di favorire quegli Stati membri la cui maggiore estensione territoriale e del
mercato interno già assicura un vantaggio competitivo (125).
Si è attuato, in particolare, un ampio processo di transizione da quell’approccio ai singoli
problemi (piecemeal approach) che aveva caratterizzato l’azione dell’Unione europea sino
agli inizi degli anni ’90, ad un approccio anche globale, ad una visione di insieme dei
problemi della fiscalità comunitaria, in cui la fiscalità viene considerata in relazione ai diversi
obiettivi fissati dal Trattato e in cui vengono in rilievo temi quali la stabilizzazione delle
entrate tributarie, il buon funzionamento del mercato interno e la promozione
dell’occupazione (126).
Nella comunicazione della commissione al Consiglio Verso il coordinamento fiscale
nell’Unione Europea: un pacchetto di misure volte a contrastare la concorrenza fiscale
dannosa (127), si introduce infatti per la prima volta, sotto l’ombrello del coordinamento
fiscale, una distinzione tra una concorrenza fiscale legittima ed una «dannosa» (harmful tax
competition), per impedire agli Stati membri di adottare o mantenere misure fiscali che siano
tali da falsare in modo «sleale» il gioco della concorrenza, attraendo in maniera non
trasparente capitali ed imprese di altri Stati membri in pregiudizio dei relativi interessi
finanziari (cosiddetto beggar thy neighbour) (128).
Ciò ha comportato un’azione sotto un duplice fronte.
Da un lato, essa ha riguardato gli investimenti di origine finanziaria e il progetto in materia di
fiscalità del risparmio si è tradotto – a seguito di lunghe e complesse trattative, che hanno
richiesto la stipula di appositi accordi anche con Stati terzi – nella Direttiva n. 2003/48/CE, in
cui è venuto meno il modello della cosiddetta «coesistenza» tra ritenuta e scambio di
informazioni – essendo quest’ultimo diventato il meccanismo-base, al fine di sancire
definitivamente il principio della tassazione degli interessi nello Stato di residenza del
percettore – e si è consentito soltanto in via eccezionale e transitoria a taluni Stati di applicare
una ritenuta alla fonte sino al raggiungimento di ulteriori accordi tra l’Unione e tali Stati terzi
aventi ad oggetto un sistema di scambio di informazioni a richiesta (129).
Dall’altro, essa ha riguardato gli investimenti di origine produttiva, tramite l’introduzione di
un codice di condotta (code of conduct), che ha imposto agli Stati di astenersi dall’adottare
(c.d. clausola di standstill), ovvero di eliminare (c.d. clausola di rollback), tutte le misure
fiscali, di carattere non generalizzato, in grado di incidere sensibilmente sulla localizzazione
delle attività produttive all’interno dell’Unione europea (130).
In tale contesto, la soppressione dei regimi ritenuti nocivi alla concorrenza dell’Unione è
passata talvolta, ove ne ricorrevano i presupposti, attraverso le forche caudine delle
disposizioni del TCE in materia di aiuti di Stato (131), altre volte ha formato oggetto di
eliminazione spontanea, ed altre volte ancora, infine, di negoziazione con le istituzioni
comunitarie in vista dell’ottenimento di una proroga al termine per la loro eliminazione.
Dunque, anche sul piano dei comportamenti dei singoli Stati si è preso atto che la
concorrenza va vista in un’ottica più ampia, al fine di non mettere a repentaglio valori ed
obiettivi altrettanto importanti.
Ci pare, tuttavia, che ciò non possa spingersi al punto da attirare alla tutela comunitaria quei
regimi tributari a carattere generalizzato e non discriminatorio, anche quando si concretino in
un’aliquota sensibilmente inferiore a quella mediamente applicata negli Stati membri, e
dunque a rinvenire nel Trattato di Lisbona una novità in tal senso.
A tale riguardo, fortemente significativa appare la vicenda dell’Irlanda, dove il salvataggio
delle finanze irlandesi approvato dall’Unione europea e dal Fondo monetario internazionale è
stato usato, senza successo, da governi (Francia e Germania), istituzioni multilaterali (OCSE)
e altri soggetti quale pretesto per obbligare Dublino ad aumentare l’aliquota dell’imposta
sulle società, attualmente fissata al 12,5 per cento.
Del resto, come è stato osservato (132), se è vero che la politica fiscale dell’Irlanda ha
consentito che le società americane investissero in Irlanda più che in Cina, India, Brasile e
Russia messe assieme, non può ritenersi che i problemi causati dal debito sovrano irlandese
possano essere addossati al ridotto livello di tassazione. Anzi, il gettito generato dalla
tassazione delle società equivale in Irlanda a quasi il 3 per cento del PIL, rispetto ad un valore
appena superiore all’1 per cento della Germania; né potrebbe spiegarsi come i mercati dei
titoli di Stato abbiano punito severamente paesi come la Grecia, il Portogallo e la Spagna, in
cui le aliquote dell’imposta sulle società sono da due a tre volte più elevate.
È pertanto auspicabile che si prenda finalmente atto che una concorrenza sulle aliquote fiscali
costituisce uno dei fattori principali per rendere nuovamente l’Unione europea un luogo
privilegiato di investimento per i capitali internazionali e per spingere gli Stati membri ad una
gestione virtuosa dei bilanci sul fronte delle spese. In questa direzione si stanno muovendo
diversi Paesi che, nonostante l’incremento della pressione fiscale, hanno diminuito le aliquote
relative alle imposte sui redditi societari.
8. – L’autonomia impositiva dell’Unione europea e gli obiettivi di welfare
La visione restrittiva del fenomeno tributario non poteva non investire anche l’autonomia
impositiva dell’Unione europea.
Si tratta di un tema complesso, rispetto al quale possiamo individuare almeno due aspetti
rilevanti.
In primo luogo, quello delle modalità di finanziamento dell’Unione europea in sé considerate:
il dibattito sull’autonomia finanziaria dell’Unione, avviato agli inizi degli anni ’70 con
l’istituzione delle cc.dd. «risorse proprie» (133), si è infatti sempre più orientato in direzione
della creazione di una reale autonomia di bilancio dell’Unione e non di una mera
autosufficienza finanziaria, e dunque della fine della dipendenza di essa dai contributi versati
dagli Stati membri (134). Rispetto ad essa, l’istituzione di un tributo proprio rappresenta una
delle possibili soluzioni, quale modo per ovviare ad una situazione, considerata paradossale,
di representation without taxation.
In secondo luogo, quello della correlazione tra le entrate dell’Unione e le spese che esse sono
destinate a finanziare. A tale riguardo, le politiche di entrata e di spesa sono saldamente nelle
mani dei governi nazionali, tenuti unicamente al rispetto del cosiddetto «Patto di stabilità», e
dunque all’obbligo del mantenimento di taluni parametri economici in un range predefinito. Il
welfare rimane prerogativa degli Stati membri, così come la decisione delle politiche in
materia di imposizione diretta ed indiretta, con i soli limiti, più o meno intensi, imposti dal
Trattato, dalle fonti comunitarie derivate e dalla giurisprudenza comunitaria.
Il principio cardine che informa tale impostazione è quello della sussidiarietà (art. 5 TCE,
adesso art. 5 TUE), che richiede il trasferimento all’Unione delle sole funzioni che possono
essere gestite in modo più efficace a livello europeo. Ciascuno Stato ha pertanto disegnato un
proprio sistema fiscale in relazione alla dimensione e composizione della spesa pubblica,
perseguendo specifiche finalità di produzione di beni pubblici, distribuzione del reddito e
protezione sociale. La fiscalità svolge così una funzione complementare insieme alla spesa
pubblica, con proprie forme di prelievo, scale di aliquote, esenzioni ed incentivi fiscali.
Naturalmente, i mezzi utilizzati per perseguire gli obiettivi ed i valori di volta in volta fissati
nei sistemi nazionali, dovranno armonizzarsi con i principi fissati dal Trattato e dalla
giurisprudenza comunitaria, ovvero, in caso di relativo conflitto, almeno potersi includere in
quelle «valvole di sfogo» costituite dalle ragioni imperative di interesse generale proprie della
rule of reason o nelle deroghe all’operatività delle norme in materia di aiuti di Stato, previste
dall’art. 107 TFUE in funzione di obiettivi economici e sociali ritenuti degni di tutela nella
prospettiva comunitaria (135).
Così stando le cose, non pare debba essere enfatizzato il ruolo delle funzioni e della spesa in
ambito europeo per giustificare la necessità di un massiccio aumento di risorse (136), né
appare univoca la correlazione tra tale necessità e l’attribuzione di poteri tributari al soggetto
che attua la politica della spesa. Ciò anche alla luce della Carta dei diritti, che, sotto il profilo
testuale, non pare offrire elementi determinanti in tal senso, essendo i riferimenti ai temi
classici del welfare (sanità, previdenza, assistenza, istruzione) tratteggiati in modo piuttosto
generico e che, in sostanza, rimette l’effettivo perseguimento di finalità lato sensu sociali alla
concreta azione e, per certi versi, discrezionalità di ponderato bilanciamento delle istituzioni
dell’Unione nei diversi settori di azione.
Si tratta dunque di una configurazione per la quale l’Unione, almeno avendo riguardo alla
lettera della Carta dei diritti, non si occupa di politiche sociali fiscali, di sanità, pensioni,
istruzione ed ordine pubblico, che viene tuttavia fortemente criticata da coloro che ritengono
che non si possa separare a lungo la regolazione economica e monetaria affidata all’UE e i
provvedimenti sullo stato sociale e le tasse di competenza dei governi, senza incidere sui
fondamenti stessi della democrazia, essendo i tempi maturi per sviluppare il pilastro
«popolare» europeo (137).
Il processo di Karlsruhe al Trattato di Lisbona – c.d. Lissabon-Urteil (138) – ha in effetti
precisato, in relazione al c.d. «controllo di identità», che l’unificazione europea non può
realizzarsi in modo tale da lasciare agli Stati membri uno spazio insufficiente per la
determinazione politica delle condizioni di vita economiche, culturali e sociali (§ 249) e che
per la capacità di autodeterminazione propria di uno Stato costituzionale si considerano
particolarmente sensibili [...] le decisioni fondamentali in materia fiscale su entrate e uscite –
motivate anche dalla politica sociale – della mano pubblica (139).
Non si negano, dunque, per la materia fiscale, in modo assoluto spazi di integrazione e di
primazia europea, purché rimangano spazi alla sovranità, la cui delimitazione avviene per il
tramite della locuzione decisioni fondamentali.
Sotto questo profilo il Trattato di Lisbona non presenta criticità, non prevedendo esso, come i
precedenti trattati, in alcun modo il definitivo ed irreversibile trasferimento dei poteri sovrani
dagli Stati alla UE, ribadendo anzi l’identità nazionale degli Stati stessi ed il loro potere di
modificare le norme del Trattato comprese quelle relative alla Kompetenz-Kompetenz (140).
In quest’ottica, mentre il dibattito sul primo profilo – quello di una reale autonomia
finanziaria dell’Unione europea – può sfociare in un qualche apprezzabile risultato sul piano
concreto, come detto non necessariamente coincidente con l’istituzione di un tributo proprio,
il secondo profilo – quello di una correlazione tra le entrate dell’Unione e le spese che esse
sono destinate a finanziare – non appare né realistico né, probabilmente, auspicabile. Se una
politica redistributiva efficacemente attuata a livello europeo può immaginarsi, essa va
valutata rispetto agli Stati membri considerati nel loro complesso: del resto, da un lato la
quota non destinata al funzionamento dell’Unione viene già adesso destinata a politiche di
vario genere attuate nei vari Stati membri, con net contributors e net recipients a seconda
della maggiore o minore intensità con la quale queste politiche sono ivi attuate; dall’altro, la
politica in materia di aiuti di Stato favorisce quei territori il cui prodotto interno lordo si
colloca al di sotto della media europea. Ciò che esclude in radice, ovviamente, qualsiasi
trasferimento a livello europeo del prelievo progressivo sul reddito dei «cittadini» europei
(141) ed allontana decisamente qualsiasi prospettiva organizzativa in senso federalista
dell’ordinamento europeo (142).
In tale quadro, le modalità attraverso le quali può realizzarsi l’autonomia finanziaria
dell’Unione europea degradano a mera questione tecnica, da risolversi sulla base di criteri di
carattere economico, come le eventuali distorsioni provocate dal prelievo o la stabilità del
prelievo stesso; di carattere amministrativo, come i relativi costi di riscossione; ovvero infine
di carattere politico, soprattutto in considerazione del modo con il quale il prelievo sarà
percepito dai cittadini dell’Unione, la cui insofferenza per l’azione delle istituzioni
comunitarie si è inequivocabilmente manifestata nell’esito negativo dei referendum francese
ed olandese sulla Costituzione europea (143).
Concludendo su tale aspetto, siamo dunque ben lontani da un «ordinamento fiscale europeo»
nel quale l’Unione europea esercita piena competenza fiscale tramite una o più imposte
proprie, definendone la base imponibile ed assicurandone l’accertamento e la riscossione; né
può ipotizzarsi l’allocazione a livello europeo di funzioni decisive – quali la regolazione della
pressione fiscale globale negli Stati membri, la ripartizione del carico fiscale complessivo tra
i diversi rami dell’imposizione e la struttura delle singole imposte o almeno di quelle più
importanti –, che dipendono dalla struttura economica e sociale dei singoli Stati membri e
richiedono interventi ad hoc fondati sulla sovranità nazionale.
Va tuttavia rilevato che la crisi finanziaria ed economica che ha colpito le economie mondiali
sta favorendo una fervente discussione politica a livello mondiale ed europeo in materia di
tassazione del settore finanziario che coinvolge anche il tema delle risorse proprie.
In particolare, nel contesto europeo, nonostante le diverse forme che la tassazione del settore
finanziario (144) può assumere – si pensi, in particolare, alla tassa sulle banche, alla tassa
sulle attività finanziarie (TAF) ed, infine, alla tassa sulle transazioni finanziarie (TTF) – solo
quest’ultima, comunemente chiamata Tobin Tax, è stata considerata idonea a conseguire gli
obiettivi degli Stati membri ed è quella di cui oggi si propone l’introduzione (145).
L’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie trova la sua ratio, in primo luogo,
nella volontà di garantire che il settore finanziario partecipi ai costi della crisi e che venga ad
essere tassato in modo equo rispetto ad altri settori (146). In secondo luogo, attraverso tale
tributo si vuole disincentivare le attività a eccessivo tasso di rischio da parte degli enti
finanziari e generare nuove entrate. Tali entrate potrebbero essere utilizzate o per ridurre altre
forme di imposizione con l’obiettivo di stimolare la crescita e la creazione di posti di lavoro,
o per introdurre politiche specifiche, quali l’aiuto allo sviluppo o la lotta al cambiamento
climatico (147).
Secondo il Parlamento europeo e la Commissione europea una parte del gettito proveniente
dall’imposta sulle transazioni finanziare – che dovrebbe complessivamente corrispondere a
circa 57 miliardi di euro – dovrebbe essere gestita dall’Unione europea quale risorsa propria,
con l’obiettivo ultimo di ridurre la dipendenza del bilancio dell’Unione europea dai contributi
nazionali e liberare pertanto risorse dei bilanci nazionali per destinarle ad altri fini
(148)(149).
Si conferma, per tale via, l’idea secondo cui le politiche sociali devono rimanere nelle mani
degli Stati membri e non trasformare l’UE in un produttore di sicurezza per i suoi cittadini.
Del resto, i possibili scopi di un tributo proprio non si esauriscono nella possibilità di attrarre
al livello europeo la tutela del welfare, potendo investire obiettivi ben diversi quali, ad
esempio, la stabilizzazione anti-ciclica dell’economia (150).
Al tempo stesso, tuttavia, come è stato osservato (151), la previsione di una entrata propria di
tale importanza, potrebbe finalmente aprire la strada alla concreta possibilità di introdurre nel
Trattato i principi fondamentali tributari di garanzia che di un siffatto tributo proprio
dovrebbero costituire il logico corollario.
9. – Fiscalità e tutela dell’ambiente
In base all’art. 3 del TUE, l’elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità
dell’ambiente costituisce – unitamente alla crescita economica equilibrata, alla stabilità dei
prezzi e all’economia sociale di mercato fortemente competitiva – uno dei fattori utili al
perseguimento di uno sviluppo sostenibile dell’Europa. A ciò si aggiunga, poi, che per effetto
delle modifiche recate dal Trattato di Lisbona le tematiche ambientali hanno acquisito una
spiccata dimensione internazionale: è quanto risulta tanto dalla previsione generale dell’art. 2,
§ 5, del TUE, in cui si opera riferimento al contributo delle istituzioni comunitarie alle azioni
internazionali volte a promuovere uno sviluppo sostenibile della Terra, quanto dalla più
specifica disposizione dell’art. 21, § 2, lett. f) del TUE che impegna le istituzioni comunitarie
ad agire sul piano internazionale nel senso della preservazione e del miglioramento della
qualità dell’ambiente e della gestione sostenibile delle risorse naturali mondiali (152). Né,
sempre nell’ottica della centralità delle tematiche ambientali, può trascurarsi il portato
dell’art. 37 della Carta dei diritti, che – sebbene non attribuisca ai cittadini europei un vero e
proprio diritto all’ambiente salubre (153) – ribadisce, con impronta individualistica,
l’impegno europeo al miglioramento della qualità dell’ambiente, che deve essere garantito
conformemente al principio dello sviluppo sostenibile. Anche l’ambiente viene dunque in
rilievo quale meccanismo di correzione dell’ordine economico «efficiente», nel contesto di
un’azione comunitaria che deve comunque essere improntata alla promozione di uno
sviluppo sostenibile.
Da tempo le istituzioni comunitarie hanno individuato nella fiscalità uno strumento per il
perseguimento degli obiettivi di natura ambientale: tralasciando le iniziative più risalenti nel
tempo, già nel contesto della strategia di Lisbona del marzo 2000 – rivolta a fare dell’Europa
l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo – e dell’azione di
rilancio di tale strategia del 2005 la Commissione europea aveva individuato nella leva
tributaria uno – se non il principale – strumento di promozione dell’uso sostenibile delle
risorse nell’UE e, in tal modo, dell’innovazione quale fattore di crescita economica dell’intera
area comunitaria (154).
Proprio in questo contesto si inquadrano i lavori dei primi anni Duemila che hanno condotto
all’approvazione della direttiva sulla tassazione dei prodotti energetici e dell’elettricità (155);
direttiva che, nonostante un approccio perfettibile alle tematiche ambientali, ha comunque
rappresentato un primo e importante passo in avanti della strategia rivolta al perseguimento di
finalità ambientali mediante lo strumento impositivo.
L’approvazione del Trattato di Lisbona, in verità, non ha di per sé apportato mutamenti
significativi alle tematiche dell’imposizione ambientale. Se è vero, infatti, che la dimensione
internazionale delle tematiche ambientali e l’attribuzione alle istituzioni comunitarie di
competenze specifiche in tema di azione esterna dell’UE hanno consentito alle istituzioni
stesse di esprimere un pensiero comune in sede internazionale (156), va rilevato che sul piano
interno l’azione comunitaria ha continuato a svolgersi secondo le linee direttrici già impostate
in precedenza sulla base dapprima della strategia di Lisbona e, successivamente, degli
interventi di rilancio della strategia stessa del 2005. Né, sotto questo profilo, le previsioni di
cui agli artt. 192, § 2 e 194, § 3 del TFUE ci sembrano vadano oltre una riconferma della
regola dell’unanimità in materia fiscale, anche se l’imposizione è finalizzata al perseguimento
di finalità ambientali o energetiche.
Ben diversa è stata, invece, l’influenza della recente crisi economico-finanziaria sulle
tematiche che ci occupano. Infatti, preso atto che la crisi ha vanificato anni di progressi
economici e sociali e messo in luce le carenze strutturali dell’economia europea (157), ha
preso corpo la strategia «Europa 2020», che ha posto un importante accento sulle tematiche
ambientali, evidenziando la necessità del raggiungimento dei relativi obiettivi in punto di
riduzione di gas a effetto serra, di innalzamento della quota di fonti di energia rinnovabile e
di miglioramento dell’efficienza energetica (158), ciò che genererebbe non solo un
importante risparmio finanziario sulle fonti di approvvigionamento petrolifere, ma – e, in
un’ottica di miglioramento dell’economia sociale, soprattutto – anche nuovi posti di lavoro ed
un rilevante incremento del prodotto interno lordo europeo (159).
È proprio in questo contesto di incalzante rilievo delle tematiche ambientali nel più ampio
ambito della exit strategy dalla crisi finanziaria che ha preso corpo la proposta della
commissione per la riforma della tassazione dell’energia (160), volta a (i) riequilibrare
l’onere fiscale tra i vari combustibili, comprese le energie rinnovabili, in modo oggettivo e
avendo riguardo al contenuto energetico e alle emissioni di CO2 e (ii) istituire un quadro
normativo per la tassazione del CO2 nel mercato interno e, di conseguenza, fissare un prezzo
per le emissioni di CO2 che non sono coperte dal sistema di scambio delle quote di emissioni
dell’UE. In questa prospettiva, la commissione ha proposto una scissione dell’aliquota
minima sui prodotti energetici, prevedendo da un lato una tassazione generale del consumo di
energia basata sul contenuto energetico e indipendente dal tipo di prodotto, essenzialmente
volta ad incentivare il risparmio di energia e, dall’altro lato, un’imposizione legata al CO2,
dipendente direttamente dalla quantità di emissioni di CO2 del prodotto energetico, rivolta,
evidentemente, ad incentivare l’uso di prodotti energetici a bassa emissione di CO2.
Fermo restando che la proposta di direttiva non è stata ancora approvata e che, in ogni caso,
gli effetti benefici della nuova impostazione dipenderanno in gran parte dalle scelte attuate a
livello nazionale (161), il «salto di qualità» rispetto alle precedenti ipotesi di riforma della
tassazione dell’energia appare evidente (162). Si pensi, al riguardo, che soltanto nel 2005 – e,
dunque, prima dell’inizio della crisi economico-finanziaria – la Commissione europea, lungi
da una radicale ristrutturazione della tassazione dell’energia, si era limitata ad evidenziare
alcune puntuali necessità di intervento, riferite, in particolare, alla tassazione del gasolio
professionale, al ravvicinamento verso l’alto delle aliquote di accisa dei prodotti utilizzati per
la produzione e alla tassazione delle autovetture (163). Se è vero, dunque, che la
specificazione introdotta dal Trattato di Lisbona nel senso della duplice finalità della politica
ambientale a favore di un miglioramento della qualità dell’ambiente e dello sviluppo
sostenibile può aver influito sulla struttura dualistica dell’imposizione proposta dalla
commissione, non è casuale che a tale radicale proposta di riforma si sia giunti solo nel
contesto della crisi economico-finanziaria e della relativa exit strategy «Europa 2020», in un
clima generale in cui molti Stati membri stanno mettendo a punto le proprie strategie per
uscire dalla crisi economica e finanziaria e stanno considerando di apportare riforme
strutturali alle politiche di bilancio e ai regimi tributari, ciò che offre l’occasione per di una
revisione della direttiva sulla tassazione dell’energia nell’ottica di realizzare
contemporaneamente sia gli obiettivi economici sia quelli ambientali.
Sotto un profilo più generale, poi, va evidenziato che l’accresciuta attenzione e lo spirito di
rinnovamento in tema di imposizione ambientale che è conseguito alla crisi finanziaria e alla
relativa exit strategy europea dovrebbero, auspicabilmente, contribuire ad un maggior
coordinamento a livello europeo in tema di tassazione ambientale. In questa prospettiva, la
radicale (proposta di) riforma della tassazione dell’energia nel senso del perseguimento di
obiettivi tanto di miglioramento della qualità dell’ambiente, quanto di sviluppo sostenibile
potrebbe costituire un importante impulso ad un più ampio coordinamento tra gli Stati
membri sulle tematiche di fiscalità ambientale. Un tale coordinamento, peraltro, potrebbe
conseguire, in modo più agevole rispetto ad un’azione puramente nazionale, quell’obiettivo
lato sensu redistributivo da tempo al centro delle azioni comunitarie in materia fiscale,
consistente nello spostamento del peso fiscale verso fattori connotati da maggiore mobilità, a
vantaggio di quelli meno mobili, quali, tipicamente, il lavoro (164). Sotto altro profilo,
un’azione coordinata in materia di imposizione ambientale minimizzerebbe l’impatto
concorrenziale della tassazione di un fattore di produzione quale è l’energia, riducendo,
peraltro, anche i costi di compliance delle imprese interessate.
Nella prospettiva del coordinamento nello specifico settore della fiscalità ambientale, rilievo
potrebbe assumere il ruolo delle istituzioni dell’Unione – e della commissione in particolare –
in materia di aiuti di Stato a finalità ambientale. Intendiamo riferirci, più precisamente, agli
orientamenti elaborati dalla commissione in materia di misure di sostegno statale volte al
perseguimento di finalità ambientali; orientamenti che, come noto, definiscono e delimitano
l’ambito degli interventi statali autorizzabili in base alla normativa in tema di aiuti di Stato
(165). Ora, se è ben vero che in tale contesto il riferimento è alle sole misure statali di
agevolazione, non può trascurarsi come dagli orientamenti della commissione discenda un
inevitabile effetto conformativo degli Stati interessati, che se intendono promuovere misure
di incentivazione o agevolazione degli scopi ambientali devono attenersi, almeno in linea
generale, alle indicazioni contenute negli orientamenti in questione. Più precisamente, gli
orientamenti della commissione, nel delineare le caratteristiche richieste per l’ammissibilità
di misure agevolative compatibili con il mercato comune, influenzano la struttura del sistema
nazionale delle agevolazioni – e, dunque, del sistema fiscale – promuovendo un sia pur
parziale coordinamento a livello europeo.
Non v’è dubbio, peraltro, che – come sottolinea la stessa commissione – un maggior
coordinamento della fiscalità ambientale è al momento non solo auspicabile, ma
indispensabile nell’ottica tanto di un miglioramento dell’integrazione comunitaria, quanto
dell’elaborazione di una risposta comune alla crisi economico-finanziaria e, al contempo,
della promozione di una crescita economica che presti la dovuta attenzione ai profili sociali
(166). Diversamente, l’istituzione di tributi a finalità ambientale a livello puramente
nazionale e al di fuori di un appropriato quadro comune rischia di originare disparità di
trattamento e diversità competitive, certamente non auspicabili nel presente momento storico
e politico dell’UE.
10. – Conclusioni
In conclusione, ci sembra che le modifiche di maggior peso apportate dal Trattato di Lisbona
non possano ritenersi «rivoluzionarie» rispetto all’assetto complessivo dell’ordinamento
dell’UE. La novità principale – l’assunta vincolatività giuridica della Carta dei diritti e la
conseguente acquisizione del medesimo valore giuridico dei trattati dei diritti fondamentali in
essa sanciti – è stata bensì rilevante, ma certamente non tale da sconvolgere l’assetto
dell’ordinamento dell’Unione, sol che si tenga conto che già nel quadro ante Lisbona i
medesimi diritti fondamentali assumevano rilievo quale principi generali del diritto
comunitario, in virtù delle progressive evoluzioni della giurisprudenza comunitaria (167).
Anche l’ulteriore ed importante innovazione relativa agli obiettivi dell’Unione in punto di
costruzione di un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena
occupazione e al progresso sociale non costituisce, come detto, una «controriforma» rispetto
al passato, se è vero che il «diritto comunitario vivente» – vale a dire la giurisprudenza della
Corte di giustizia – aveva già valorizzato il principio di solidarietà ed evidenziato sin dagli
anni Settanta l’intimo collegamento tra obiettivi di carattere economico e sociale (168).
Tantomeno può ritenersi che il Trattato di Lisbona abbia attuato una «rivoluzione fiscale»
(169), se è vero che, in tale ambito, le modifiche si sono limitate all’abrogazione dell’art. 293
del Trattato CE in tema di riconoscimento agli Stati del compito di eliminazione della doppia
imposizione e ad alcuni impulsi favorevoli all’intrapresa di un percorso di armonizzazione
nel settore della fiscalità ambientale e che, per converso, nulla è mutato con riferimento alle
competenze dell’Unione in materia fiscale e alla persistente applicabilità del principio
dell’unanimità.
E, tuttavia, non si può cedere alla tentazione di concludere che nulla è mutato. Il
cambiamento è forse meno evidente, ma – almeno in linea teorica – potrebbe rivelarsi più
profondo. Sia pur in un panorama normativo non privo di contraddizioni (170), al Trattato di
Lisbona deve ascriversi il merito di aver operato espresso riferimento ad obiettivi ulteriori
rispetto a quelli prettamente mercatistici, tipici della precedente costruzione comunitaria,
facendo sì che l’obiettivo dell’instaurazione del mercato interno assommi ora al proprio
interno una trama complessa e variegata di interessi (171). La conseguenza di un tale mutato
approccio di fondo deve rintracciarsi nell’ormai acquisita parità di tali obiettivi di carattere
lato sensu sociale rispetto a quelli di carattere economico-concorrenziale: se è vero, come
detto, che l’obiettivo della promozione di un assetto concorrenziale non è né venuto meno né
ha perso significativamente di rilievo, non può trascurarsi che, a seguito del Trattato di
Lisbona, per i valori di carattere sociale deve ritenersi ormai superato il tradizionale
approccio delle istituzioni comunitarie – e della Corte di giustizia in particolare – incline ad
una loro interpretazione restrittiva e in chiave meramente derogatoria dei valori di tipo
economico. Il portato del Trattato di Lisbona risiede, dunque, nel definitivo superamento di
quel rapporto gerarchico tra obiettivi di carattere economico e scopi di tipo sociale che ha
caratterizzato la costruzione comunitaria nei decenni precedenti in favore di una più
complessa interrelazione tra tali finalità, rivolta all’individuazione di un punto di equilibrio
tra tali esigenze necessariamente mutevole di volta in volta a seconda della materia di
riferimento (172). Ferma restando l’esigenza di verificare in concreto l’azione delle
istituzioni comunitarie, il rapporto ormai paritario tra valori economici e sociali dovrebbe
risolversi non solo in una più equilibrata ponderazione di tali interessi ad opera del Consiglio
e della commissione (173), ma anche nella rilevanza di quella terza fase del giudizio
applicativo del principio di proporzionalità – dedicata, appunto, alla ponderazione vera e
propria degli interessi in gioco secondo un criterio che tenga conto di costi e benefici
connessi ai reciproci sacrifici dei predetti interessi – che, come detto, è rimasta a lungo
nell’ombra nella giurisprudenza della Corte di giustizia (174). La cennata parità tra valori
economici e sociali potrebbe riflettersi in un diverso approccio delle istituzioni dell’Unione
anche rispetto alla materia fiscale: non solo la rilevanza del bilanciamento tra valori di
diversa natura in sede di giudizio di proporzionalità potrebbe condurre ad un diverso
apprezzamento ad opera dei giudici della Corte degli interessi di carattere nazionale in sede di
valutazione delle cause di giustificazione di misure fiscali discriminatorie o restrittive, ma – e
soprattutto – la diversa enfasi posta sui valori di tipo sociale potrebbe influenzare il balancing
test cui saranno chiamati la commissione ed il Consiglio in sede di adozione di atti di c.d.
«integrazione fiscale positiva».
Note:
(*) Contributo sottoposto a revisione anonima da parte di professori ordinari e fuori ruolo
italiani e valutato positivamente da due componenti del Comitato scientifico della Rivista.
I §§ 1, 4, 5, 6, 7 e 8 sono stati redatti dal prof. Giuseppe Melis, i §§ 2, 3 e 9 dal dott. Alessio
Persiani. Le conclusioni sono sono state redatte congiuntamente dagli autori. Il presente
lavoro, peraltro, costituisce il frutto di una prima riflessione da parte degli autori sulla materia
e sarà seguito da uno scritto più ampio ed approfondito.
(1) Vedi B. Nascimbene - A. Lang, Il Trattato di Lisbona: l’Unione europea a una svolta?, in
Corr. giur., 2008, 37 ss.
(2) Così l’art. 6 del TUE: l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre
2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Le disposizioni della Carta
non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati. I diritti, le
libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del
titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in
debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali
disposizioni. L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze
dell’Unione definite nei trattati. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle
tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in
quanto principi generali.
(3) Si veda, al riguardo, G. Tesauro, Diritto comunitario, Padova, 2005, 132, il quale
evidenzia la rilevanza della Carta dei diritti quale momento di riaffermazione di valori già
tutelati nell’ordinamento comunitario, sia pur con qualche precisazione e/o aggiunta.
L’assenza di valore giuridico vincolante non ha impedito, peraltro, che la Carta dei diritti sia
stata più volte richiamata, in funzione appunto di supporto interpretativo, dalla Corte di
giustizia nella sua giurisprudenza. Si veda, ad esempio, la sentenza del 12 maggio 2005,
relativa alla causa C-347/03, Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia e altri c. Ministero
delle Politiche Agricole e Forestali, nonché la successiva sentenza del 27 giugno 2006,
relativa alla causa C-540/03, Parlamento europeo c. Consiglio, ove si afferma, al § 38, che se
è pur vero che la Carta non costituisce uno strumento giuridico vincolante, il legislatore
comunitario ha tuttavia inteso riconoscerne l’importanza affermando, al secondo
«considerando» della direttiva, che quest’ultima rispetta i principi riconosciuti non solamente
dall’art. 8 della CEDU, bensì parimenti dalla Carta. L’obiettivo principale della Carta, come
emerge dal suo preambolo, è peraltro quello di riaffermare «i diritti derivanti in particolare
dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dalla
[CEDU], dalle carte sociali adottate dall’Unione e dal Consiglio d’Europa, nonché dalla
giurisprudenza della Corte [...] e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo. Sul
punto, sia pur con riferimento ad alcuni richiami alla Carta dei diritti allora contenuti solo
nelle conclusioni degli Avvocati generali, si veda R. Bifulco - M. Cartabia - A. Celotto,
Introduzione, in AA.VV., L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, a cura di R. Bifulco - M. Cartabia - A. Celotto, Bologna, 2001, 24 e ss.
(4) Quanto al testo originario della CEDU, il riferimento è alla l. 4 agosto 1955, n. 848,
recante, appunto, la ratifica e l’esecuzione della CEDU nell’ordinamento italiano. Con
riferimento alla giurisprudenza costituzionale si vedano le pronunce della Corte cost. 18
aprile 1967, n. 48; 8 aprile 1976, n. 69; 16 dicembre 1980, n. 188; 5 luglio 1990, n. 315 e 6
giugno 1989, n. 323. Non erano mancate, invero, talune prese di posizione più «avanzate» ad
opera della stessa Corte: il riferimento è, in particolare, alla pronuncia 19 gennaio 1993, n. 10
– ove un passaggio valorizzava il disposto dell’art. 2 Cost. per affermare che le norme della
CEDU derivavano da una fonte riconducibile a una competenza atipica e, come tali,
insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria – e
alla sentenza 19 febbraio 1999, n. 38 in cui la Corte, dopo aver escluso che la CEDU potesse
integrare il parametro di costituzionalità, aveva comunque evidenziato l’integrazione tra le
diverse Carte sotto il profilo interpretativo. Tuttavia – come precisato da A. Guazzarotti, La
CEDU dopo il Trattato di Lisbona: come in un gioco dell’oca?, in Studium iuris, 2012, 172173 e R. Morelli, La Convenzione Europea dei diritti dell’uomo alla luce delle recenti novità
del Trattato di Lisbona, in Teoria del diritto e dello Stato, 2010, 415-416 – si era trattato di
affermazioni che erano rimaste isolate, nel contesto di un orientamento consolidato nel senso
della riconduzione della CEDU entro i confini dell’ordinario diritto internazionale pattizio.
(5) Si tratta, in particolare, delle sentenze della Corte cost. 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349. Le
sentenze hanno formato oggetto di un’ampia disamina in dottrina. Si vedano, per tutti,
AA.VV., Riflessioni sulle sentenze 348-349 del 2007 della Corte costituzionale, a cura di C.
Salazar - A. Spadaro, Milano, 2009; B. Conforti, La Corte costituzionale e gli obblighi
internazionali dello Stato in tema di espropriazione, in Giur. it., 2008, 569-573; A. Ruggeri,
La CEDU alla ricerca di una nuova identità, tra prospettiva formale-astratta e prospettiva
assiologico-sostanziale d’inquadramento sistematico (a prima lettura di Corte Cost. nn. 348 e
349 del 2007), in www.forumcostituzionale.it.
(6) La particolare collocazione riconosciuta alle norme CEDU dalle pronunce costituzionali
in parola era volta – come precisa la stessa Corte costituzionale – a fare chiarezza su tale
problematica [...] avente rilevanti risvolti pratici nella prassi quotidiana degli operatori del
diritto. Sotto questo profilo, le pronunce della Corte costituzionale hanno costituito una
risposta agli orientamenti interpretativi emergenti nella giurisprudenza civile di legittimità,
inclini ad operare un sindacato diffuso di compatibilità delle norme interne di volta in volta
rilevanti con le previsioni della CEDU e comportante, in caso di contrasto, la disapplicazione
della legislazione italiana di riferimento. Si vedano, al riguardo, le pronunce Cass., sez. I
pen., 3 ottobre 2005, n. 35616; Cass., sez. I pen., 3 ottobre 2006, n. 32678, nonché la più
ampia sentenza Cass., sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28507 ove si affermava la natura
sovraordinata alle norme della CEDU sancendo l’obbligo per il giudice di disapplicare la
norma interna in contrasto con la norma pattizia dotata di immediata precettività nel caso
concreto. Si trattava, a ben vedere, di un percorso inopportuno – così R. Calvano, La Corte
costituzionale e la CEDU nella sentenza n. 348/2007: Orgoglio e pregiudizio?, in Giur. it.,
2008, 574 – dalla Corte correttamente censurato a favore di un sindacato accentrato secondo
l’ordinario procedimento dell’incidente di costituzionalità, mediante la valorizzazione
dell’art. 117, 1° comma, Cost. ed il richiamo alla teoria delle norme interposte; teoria cui,
prima delle sentenze del 2007, autorevole dottrina – F. Sorrentino, Il diritto europeo nella
giurisprudenza della Corte costituzionale: problemi e prospettive, in Quaderni regionali,
2006, 636 – aveva già fatto cenno proprio in funzione di una maggiore valorizzazione del
dettato della CEDU.
(7) Così la sentenza della Corte cost. 24 ottobre 2007, n. 348.
(8) Sulla tematica dei rapporti tra ordinamento dell’UE e trattati internazionali conclusi dalle
stesse istituzioni europee si veda R. Cafari Panico - L. Tomasi, Il futuro della CEDU tra
giurisprudenza costituzionale e diritto dell’Unione, in Diritto pubblico comparato ed europeo,
2008, 199-200. Con particolare riferimento al tema della diretta applicabilità in ambito UE
delle previsioni contenute negli accordi internazionali, uno dei casi più rilevanti attiene ai
trattati conclusi nel contesto dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Quanto alla
dottrina ed alla giurisprudenza rilevante in materia sia consentito rinviare ad approfondimenti
ed indicazioni contenuti in A. Persiani, Organizzazione Mondiale del Commercio, disciplina
in materia di sovvenzioni ed imposizione diretta: alcune riflessioni, in Diritto e pratica
tributaria internazionale, 2007, 515-568, nonché in A. Persiani, GATS, clausola della nazione
più favorita e rimborso IVA a soggetti residenti in stati terzi: una sentenza laconica per una
vicenda che non poteva risolversi diversamente. Nota alla sentenza della Corte di giustizia del
7 giugno 2007, relativa alla causa C-335/05, Rízení Letového Provozu, in Diritto e pratica
tributaria internazionale, 2008, 1321-1345.
(9) Il riferimento è, in particolare, alla sentenza del T.a.r. Lazio, sez. II-bis, 18 maggio 2010,
n. 11984, con nota di F. D’Oro, La disapplicazione delle norme interne contrastanti con le
norme CEDU: note a margine della sentenza t.a.r. Lazio, Sez. II-bis, 18 maggio 2010, n.
11984, in Giur. it., 2011, 1435-1444 e alle pronunce del Cons. Stato, 2 marzo 2010, n. 1220;
28 maggio 2010, n. 3760 e 29 settembre 2010, n. 7200, quest’ultima con nota di D. Gallo - L.
Paladini, Note sulla «rilevanza diretta» della CEDU nella recente giurisprudenza
amministrativa, in Giur. it., 2011, 2186 e ss. Sia pur in termini meno netti, si vedano altresì le
pronunce del T.a.r. Lombardia, sez. II, 20 maggio 2010, n. 2070; T.a.r. Liguria, sez. I, 18
novembre 2010, n. 10405; T.a.r. Sicilia, sez. II, 1° febbraio 2011, n. 175 e T.a.r. Veneto, sez.
I, 10 marzo 2011, n. 400.
(10) Così la menzionata sentenza del T.a.r. Lazio n. 11984 del 2010.
(11) Così l’art. 52, § 3 della Carta dei diritti: laddove la presente Carta contenga diritti
corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti
dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a
quelli conferiti dalla suddetta Convenzione. La presente disposizione non preclude che il
diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa.
(12) Così ancora la menzionata sentenza del T.a.r. Lazio n. 11984 del 2010.
(13) In questo senso, rispetto all’identica previsione contenuta nel trattato costituzionale
europeo si era espresso J. Jacquè, La Constitution pour l’Europe et les droits fondamentaux,
in Europe des libertés, 2004, 14, 12. Ciò non significa, peraltro, che la procedura relativa
all’adesione dell’UE alla CEDU sia priva di profili problematici. L’art. 218, § 8, terzo
periodo del TFUE prevede che il Consiglio delibera all’unanimità [...] per l’accordo
sull’adesione dell’Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali; la decisione sulla conclusione di tale accordo entra in vigore
previa approvazione degli Stati membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali.
Se è vero, infatti, che, come desumibile dall’art. 218, § 1, del TFUE, l’accordo di adesione
alla CEDU costituirebbe un accordo concluso dall’Unione – autonomamente considerata
rispetto agli Stati membri che la compongono – e gli altri Stati contraenti della CEDU, la
previsione di un’approvazione ex post da parte degli Stati membri rispetto all’accordo di
adesione alla CEDU sembra contraddire in modo piuttosto chiaro la piena personalità
giuridica e, in particolare, la piena autonomia sul piano internazionale che l’art. 47 del TUE
riconosce all’Unione europea. In questo senso si veda G. Amato, Prefazione, in J. Ziller, Il
nuovo Trattato europeo, Bologna, 2007, 10. Ecco allora che sembra avvalorata la tesi di
coloro – J. Ziller, Il nuovo Trattato europeo, cit., 104 – che ritengono che la previsione in
questione celi una profonda sfiducia da parte degli Stati membri nei confronti delle istituzioni
europee, considerate non in grado di agire in piena autonomia sul piano internazionale. Più in
generale, sui nodi problematici sottesi all’adesione dell’Unione alla CEDU si vedano G.
Fiengo, Verso l’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo: prime riflessioni sugli aspetti problematici dell’attuale fase del negoziato, in
Diritto pubblico comparato ed europeo, 2011, 108-119; J. Jacquè, The Accession of the
European Union to the European Convention on Human Rights and Fundamental Freedoms,
in Common Market Law Review, 2011, 995-1023; T. Lock, Walking on a tightrope: the draft
ECHR Accession Agreement and the autonomy of the EU legal order, in Common Market
Law Review, 2011, 1025-1054.
(14) Taluni dubbi sull’effettiva opportunità di mantenere nel corpo dell’art. 6 del TUE il
richiamo contenuto al § 3 ai principi generali dell’ordinamento dell’UE e, indirettamente, alla
CEDU e alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, nonostante il riconoscimento
alla Carta dei diritti dello stesso valore giuridico dei trattati esprime L. Daniele, La protezione
dei diritti fondamentali nell’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona: un quadro
d’insieme, in Il diritto dell’Unione europea, 2009, 650-652 che giustifica la permanenza de
suddetto richiamo solo in relazione alla mancata accettazione dell’efficacia giuridica della
Carta dei diritti ad opera del Regno Unito e della Polonia, come risultante dal Protocollo n. 30
allegato al Trattato di Lisbona.
(15) Sulla funzione di integrazione della CEDU rispetto ai principi generali dell’ordinamento
dell’UE si veda, ben prima delle modifiche normative in commento, F. Salerno, voce Principi
generali di diritto (diritto internazionale), in Dig. disc. priv., sez. pubbl., 1996, Vol. IX, 524 e
ss. il quale evidenzia come già prima del richiamo alla CEDU contenuto nell’art. F, § 2 del
Trattato sull’Unione europea (risultante dalle modifiche del Trattato di Maastricht) la stessa
CEDU fosse considerata espressione di principi generali di diritto vigenti negli Stati membri
e come, a seguito dell’introduzione del menzionato art. F e del richiamo ivi contenuto alla
CEDU ed alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, la Convenzione, lungi dal
porsi in contrasto in termini di contenuto con le stesse tradizioni costituzionali, abbia
acquisito il ruolo di catalogo puntuale dei diritti fondamentali garantiti negli Stati membri.
Sottolinea l’importanza del Trattato di Lisbona ai fini dell’accresciuta intensità dei rapporti
tra diritto dell’Unione europea e CEDU avendo particolare riguardo agli organi
giurisdizionali G. Harpaz, The European Court of Justice and its relations with the European
Court of Human Rights: the quest for enhanced reliance, coherence and legitimacy, in
Common Market Law Review, 2009, 105-141.
(16) Sul punto si veda E. Cannizzaro, Diritti «diretti» e diritti «indiretti»: i diritti
fondamentali tra Unione, CEDU e Costituzione italiana, in Il diritto dell’Unione europea,
2012, 26-27.
(17) A questo proposito, si veda la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia che ha
da sempre posto su un piano di parità la CEDU e le tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri ai fini della ricostruzione dei principi generali in argomento. In particolare, si veda la
sentenza del 14 marzo 1974, relativa alla causa C-4/73, J. Nold-und Baustoßgrosshandlung c.
Commissione, la sentenza del 13 dicembre 1979, relativa alla causa C-44/79, L. Hauer c.
Land Rheinland-Pfzalz, la pronuncia dell’11 luglio 1989, relativa alla causa C-265/87, H.
Shrader HS Kraftfutter GmbH & Co. KG c. Hauptzollamt Gronau e la sentenza del 13 luglio
1989, relativa alla causa C-5/88, H. Wachauf c. Germania.
(18) Per «trattatizzazione» intendendosi l’acquisizione da parte della Carta dei diritti del
medesimo valore giuridico dei trattati espressamente sancita dall’art. 6, § 1, del TUE.
(19) Così la sentenza della Corte cost. 11 marzo 2011, n. 80.
(20) In questo senso, R. Cafari Panico - L. Tomasi, Il futuro della CEDU tra giurisprudenza
costituzionale e diritto dell’Unione, cit., 195.
(21) Per una valorizzazione della CEDU, ritenuta fonte di particolare significato ai fini della
ricostruzione dei principi generali dell’ordinamento dell’Unione europea, si veda la sentenza
del 21 settembre 1989, relativa alle cause riunite C-46/87 e C-227/88, Hoechst AG c.
Commissione nonché la pronuncia del 18 giugno 1991, relativa alla causa C-260/89, Elliniki
Radiophonia Tileorassi AE c. Dimotiki Etairia Pliroforissis e Sotirios Kouvelas.
(22) Si veda la sentenza della Corte di giustizia del 17 febbraio 1998, relativa alla causa C249/96, Lisa Jacqueline Grant c. South-West Trains Ltd. In dottrina, si veda D. Simon, Des
influénces reciproques entre CJCE et CEDH: «je t’aime, moi non plus»?, in Pouvoirs, 2001,
96, 31 e ss., nonché, più recentemente, A. Tizzano, Les cours européenes et l’adhésion de
l’Union à la CEDH, in Il diritto dell’Unione europea, 2011, 29 e ss. il quale precisa che i
giudici della Corte di giustizia possono non conformarsi alla giurisprudenza della Corte di
Strasburgo che mettano a repentaglio i principes identitaires et fondamentaux de l’Union;
scenario comunque che appare realisticamente poco probabile. A favore di un vero e proprio
vincolo degli indirizzi giurisprudenziali della Corte europea dei diritti dell’uomo ai fini
dell’interpretazione delle disposizioni della CEDU nel contesto dell’ordinamento interno si è
invece espressa la nostra Corte costituzionale nella sentenza 11 novembre 2010, n. 317, ove
la medesima Corte ha precisato che essa non può sostituire la propria interpretazione di una
disposizione della CEDU a quella della Corte di Strasburgo, con ciò uscendo dai confini delle
proprie competenze, in violazione di un preciso impegno assunto dallo Stato italiano con la
sottoscrizione e la ratifica, senza l’apposizione di riserve, della Convenzione. Sul punto, in
senso critico, si veda E. Cannizzaro, Il bilanciamento fra i diritti fondamentali e l’art. 117, 1°
comma, Cost., in Rivista di diritto internazionale, 2010, 128 e ss.
(23) Si veda, in particolare, la raccomandazione dell’Assemblea del Consiglio d’Europa n.
1439 del 2000, ove si invitava la Comunità ad aderire alla CEDU ed il più ampio rapporto del
Committee on Legal Affairs and Human Rights n. 8611 del 14 gennaio 2000. Al riguardo, si
veda T. Groppi, Commento all’art. 52, in AA.VV., L’Europa dei diritti. Commento alla Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a cura di R. Bifulco - M. Cartabia - A Celotto,
cit., 358-359.
(24) Così R. Morelli, La Convenzione Europea dei diritti dell’uomo alla luce delle recenti
novità del Trattato di Lisbona, cit., 438. Sull’istituto dell’interpretazione conforme
nell’ambito del diritto costituzionale, del diritto comunitario e della CEDU si veda A. Celotto
- G. Pistorio, Interpretazioni comunitariamente e convenzionalmente conformi, in Giur. it.,
2010, 1979 e ss. nonché G. Pistorio, I «limiti» all’interpretazione conforme: cenni su un
problema aperto, in Rivista AIC, 2011, n. 2, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.
(25) La giurisprudenza costituzionale tedesca, sulla base di un’interpretazione sistematica di
talune previsioni del Grundgesetz, ha elaborato un principio di «favore per il diritto
internazionale» che si esplicita in un onere per il giudice comune di interpretazione conforme
dei diritti fondamentali garantiti dall’ordinamento interno alla CEDU, fungendo questa da
sussidio interpretativo (Auslegungshilfen) rispetto ai primi. Merita precisare che il principio
in parola muove non già da una superiorità gerarchica della CEDU – che, anzi, possiede il
rango della relativa legge di esecuzione nell’ordinamento interno e non assurge a parametro
di costituzionalità – quanto dalla particolare rilevanza della materia dei diritti fondamentali e
dalla necessità di evitare responsabilità delle autorità tedesche sul piano internazionale. Su
tale principio – affermato già in una risalente sentenza del 1987 e ribadito più di recente dal
Bundesverfassungsgericht nell’ordinanza n. 1481 del 14 ottobre 2004, Görgülü – si vedano
A. Di Martino, Il Tribunale costituzionale tedesco delimita gli effetti nel diritto interno delle
sentenze
della
Corte
europea
dei
diritto
dell’uomo,
in
www.associazionedeicostituzionalisti.it, nonché R. Morelli, La Convenzione Europea dei
diritti dell’uomo alla luce delle recenti novità del Trattato di Lisbona, cit., 424-430.
(26) Sotto questo profilo, appare significativa la posizione assunta dall’Avvocato generale
Kokott nelle sue conclusioni del 6 maggio 2010, relative alla causa C-104/09, Pedro Manuel
Roca Álvarez c. Sesa Start España ETT SA, in cui, al fine di ovviare alla dubbia efficacia
orizzontale delle disposizioni contenute nella Direttiva n. 76/207/Cee in un’ottica di
restaurazione della parità di trattamento tra uomo e donna nel contesto della disciplina
spagnola di riduzione dell’orario lavorativo per esigenze legate alla cura dei figli, si delinea
lo strumento dell’interpretazione conforme quale valida alternativa alla disapplicazione delle
norme nazionali in contrasto con la normativa dell’ordinamento dell’Unione, fermo restando
lo scopo ultimo, consistente nella piena efficacia del diritto dell’ordinamento UE. A favore di
un maggior peso dell’interpretazione conforme si schiera anche R. Morelli, La Convenzione
Europea dei diritti dell’uomo alla luce delle recenti novità del Trattato di Lisbona, cit., 437440.
(27) Si veda, al riguardo, l’art. 51 della Carta dei diritti ove prevede che le relative
disposizioni si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del
principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del
diritto dell’Unione, non derivando dalla Carta dei diritti alcuna estensione dell’ambito di
applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione o, comunque,
l’introduzione di competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione.
(28) Si veda la citata sentenza della Corte cost. n. 80 del 2011, laddove afferma, sulla base
anche degli orientamenti della giurisprudenza della Corte di giustizia, che i principi generali
del diritto comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto rilevano
esclusivamente rispetto a fattispecie alle quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti
comunitari, poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie, infine le deroghe
nazionali a norme comunitarie asseritamente giustificate dal rispetto dei diritti fondamentali,
essendo viceversa tali principi inapplicabili nei confronti di normative che non entrano nel
campo di applicazione del diritto comunitario.
(29) Si veda la sentenza della Corte di giustizia 2 febbraio 1989, relativa alla causa C-186/87,
Ian William Cowan c. Tresor Public, in cui la Corte, nel valutare la violazione del principio
di non discriminazione in relazione ad una normativa relativa al risarcimento dei danni fisici
subiti da un turista inglese che si era recato in Francia, ha precisato, al § 19, che se la
legislazione penale e le norme di procedura penale, nel novero delle quali rientra la
controversa disposizione nazionale, sono in linea di principio riservate alla competenza degli
Stati membri, tuttavia dalla giurisprudenza costante della Corte risulta che il diritto
comunitario pone dei limiti a tale competenza. Le norme considerate non possono infatti
porre in essere discriminazioni nei confronti di soggetti cui il diritto comunitario attribuisce il
diritto alla parità di trattamento né limitare le libertà fondamentali garantite dal diritto
comunitario. Nella medesima direzione «estensiva» dell’ambito applicativo del principio di
non discriminazione si veda anche la successiva sentenza della Corte di giustizia del 5 giugno
2008, relativa alla causa C-164/07, James Wood c. Fonds de garantie des victimes des actes
de terrorisme et d’autres infractions. Sotto un profilo più generale, va rilevato come il
principio di eguaglianza abbia conosciuto un’importante evoluzione nel corso dei decenni
della costruzione europea. In una prima fase – che ha preso avvio negli anni Settanta del
secolo scorso – si è assistito ad una progressiva affermazione del principio di eguaglianza in
senso formale sotto il profilo dell’ampliamento del suo ambito di operatività sia ratione
materiae – con l’adozione di atti di diritto comunitario derivato volti a rendere il principio de
quo applicabile a situazioni non espressamente previste dal Trattato, quali quello
dell’impiego, della maternità e della previdenza sociale in relazione alla non discriminazione
in base al sesso – sia ratione subiecti, a seguito dell’ampliamento operato dalla Corte di
giustizia in merito all’ambito applicativo della libera prestazione dei servizi, ritenuta
applicabile a tutti coloro che si spostano in un altro Stato membro a prescindere dal fatto che
lo facciano per effettuare o ricevere una prestazione. Il Trattato di Maastricht prima e quello
di Amsterdam poi hanno segnato, invece, l’avvio del riconoscimento della dimensione
sostanziale del principio di eguaglianza, che, peraltro, viene per la prima volta posto tra gli
obiettivi che Comunità ed Unione europa debbono perseguire ed esteso – per mezzo
dell’allora art. 13 del Trattato CE – anche a settori estranei all’ambito della concorrenza e del
mercato. Il Trattato di Lisbona e la Carta dei diritti costituiscono l’ultimo passaggio di
quest’evoluzione, non ancora conclusa, con l’affermazione all’art. 21 della stessa Carta di un
generale divieto di discriminazione, che in tal modo supera la tassatività delle cause di
discriminazione che connotava il precedente art. 13 del Trattato CE. In tutto questo percorso
evolutivo, significativo è stato l’apporto della giurisprudenza della Corte di giustizia: oltre
alle menzionate pronunce Cowan e James Wood in tema di ambito di applicazione del
principio di non discriminazione, non può trascurarsi l’indirizzo emerso in tempi più recenti
in merito alla fonte del principio stesso e ad alcune sue specifiche declinazioni. Il riferimento
è, in particolare, alla sentenza del 22 novembre 2005, relativa alla causa C-144/04, Werner
Mangold c. Rüdiger Helm e alla successiva pronuncia del 19 gennaio 2010, relativa alla
causa C-555/07, Seda Kucukdeveci c. Swedex, in cui la Corte ha affermato, con specifico
riferimento al principio di non discriminazione in base all’età, che esso trova la sua fonte in
vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, in tal
modo superando l’ostacolo derivante dall’inapplicabilità nella specie della clausola di non
discriminazione prevista dalla Direttiva n. 2000/78/CE per la mancata scadenza del termine
utile per il relativo recepimento e la difficoltà, non meno rilevante, in merito agli effetti solo
verticali e non anche orizzontali delle norme chiare, precise ed incondizionate contenute in
direttive non recepite. Tale evoluzione del principio di non discriminazione trova riscontro in
analisi del medesimo principio legate anche a fattori diversi da quello dell’età, come, ad
esempio, è avvenuto per la non discriminazione in base al sesso nella sentenza del 30
settembre 2010, relativa alla causa C-104/09, Pedro Manuel Roca Álvarez c. Sesa Start
España ETT SA, e nella successiva pronuncia dell’11 novembre 2010, Dita Danosa c. LKB
Līzings SIA, e, da ultimo, sta conducendo al vaglio ad opera della stessa Corte di Giustizia
della coerenza delle norme contenute in atti di diritto derivato con il medesimo principio di
non discriminazione, come avvenuto nella sentenza del 1° marzo 2011, relativa alla causa C236/09, Association Belge des Consommateurs Test-Achats ASBL e altri c. Conseil des
ministres. Se è ben vero che, allo stato, il principio in discorso appare sprovvisto del carattere
di universalità e che permangono talune difficoltà – comunque temperate dai menzionati
orientamenti giurisprudenziali – ad affermare l’operatività del principio stesso nei settori
della fiscalità estranei all’area di influenza del diritto dell’UE, non può comunque trascurarsi
come sia in corso una lenta ma progressiva evoluzione volta a ricomprendere, quantomeno in
modo indiretto, le misure di natura tributaria entro il perimetro di interesse delle istituzioni
europee, facendo leva sulla crescente attenzione delle stesse istituzioni verso tematiche di
coesione sociale che, in quanto tali, ben possono coinvolgere la leva tributaria in funzione del
raggiungimento di finalità più ampie e generali. Sull’evoluzione del principio di non
discriminazione e, in particolare, sulle vicende legate alla giurisprudenza Mangold e
Kucukdeveci si vedano L. Cappuccio, Il caso Mangold e l’evoluzione della giurisprudenza
comunitaria sul principio di non discriminazione, in AA.VV., Dieci casi sui diritti in Europa,
a cura di M. Cartabia, Bologna, 2011, 111-124; A. D’Aloia, Il principio di non
discriminazione e l’integrazione europea «attraverso» la Corte di giustizia: riflessi del caso
Mangold, in AA.VV., Dieci casi sui diritti in Europa, a cura di M. Cartabia, Bologna, 2011,
125-137; C. Feliziani, La tutela dei diritti fondamentali in Europa dopo Lisbona. La Corte di
giustizia prende atto della natura giuridica vincolante della Carta di Nizza, in Rivista AIC,
2011, 1, 1-26; M. Marchegiani, Sul principio di non discriminazione in base all’età
nell’ordinamento comunitario, in Rivista del diritto della sicurezza sociale, 2010, 603-615;
M. Pacini, Il principio generale europeo di non discriminazione, in Giornale di diritto
amministrativo, 2010, 779-787. Inoltre, sull’estensione applicativa del principio di non
discriminazione anche a fattispecie connotate da un collegamento tenue con il diritto
del’Unione europea, si veda S. Amadeo, Il principio di eguaglianza e la cittadinanza
dell’Unione: il trattamento del cittadino europeo «inattivo», in Il diritto dell’Unione europea,
2011, 59-94. Con specifico riferimento alla materia tributaria, si veda F. Gallo, L’uguaglianza
tributaria, Napoli, 2013, 50 ss. e 72 (in particolare le note 30, 31 e 32).
(30) Così R. Bifulco - M. Cartabia - A. Celotto, Introduzione, cit., 12.
(31) Si veda, al riguardo, la sentenza della Corte di giustizia 12 novembre 1969, relativa alla
causa C-29/69, Stauder e la successiva pronuncia del 17 dicembre 1970, relativa alla causa C11/70, Internationale Handelsgesellschaft. Particolarmente rilevante è stata anche la
giurisprudenza della Corte di giustizia riferita al diritto di proprietà, di cui alla successiva
nota n. 43. Sul punto si veda anche R. Bifulco - M. Cartabia - A. Celotto, Introduzione, cit.,
13-14.
(32) Si veda, al riguardo, A. Lo Giudice, L’Unione europea dopo Lisbona. Dal primato dei
diritti alla costruzione di uno spazio sociale, in AA.VV., L’Unione europea dopo il Trattato di
Lisbona, a cura di N. Parisi - V. Petralia, Torino, 2011, 223 e ss., il quale evidenzia che
l’effettività dei diritti sociali passa per il grado di efficacia dello strumento tuttora più
utilizzato per la definizione di politiche sociali di portata europea, vale a dire il metodo di
coordinamento aperto, il quale, se da un lato favorisce il coordinamento in un contesto
sovrastatale in relazione a materie ove l’azione di armonizzazione è più difficile, dall’altro
lato annette un ruolo comunque centrale agli Stati nazionali, ciò che può condurre ad una race
to the bottom negli standard di protezione sociale, data l’assenza di soglie minime
predeterminate e di obiettivi precisi. Sebbene non aiuti, non sembra comunque costituire un
ostacolo invalicabile il mancato ampliamento delle competenze delle istituzioni dell’Unione;
mancato ampliamento espressamente ribadito anche dall’art. 6, § 2 del TUE. Si è rilevato
infatti – si veda A. Alaimo - B. Caruso, Dopo la politica i diritti: l’Europa «sociale» dopo il
Trattato di Lisbona, in AA.VV., L’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona, a cura di N.
Parisi - V. Petralia, Torino, 2011, 203 – che non solo l’attivismo della Corte di giustizia ha
condotto in passato ad un’applicazione di taluni principi fondamentali – è il caso del principio
di non discriminazione, su cui si veda la giurisprudenza citata nella precedente nota n. 29 – al
di là della sfera di competenze delle istituzioni europee, ma anche che – si veda M. Cartabia,
I diritti fondamentali in Europa dopo Lisbona. Verso nuovi equilibri?, in Giornale di diritto
amministrativo, 2010, 222 – la storia degli Stati federali mostra l’esistenza di una forza di
pressione considerevole che i diritti tendono ad esplicare sul riparto delle competenze,
chiaramente a favore di un movimento centripeto.
(33) Non è questa la sede per analizzare compiutamente tutte le possibili interrelazioni. Per
una recente analisi dei profili europei – intesi come comprensivi tanto della CEDU quanto
dell’ordinamento dell’Unione europea – dei diritti fondamentali dei contribuenti, si veda S.
Marchese, Diritti fondamentali europei e diritto tributario dopo il Trattato di Lisbona, retro,
2012, I, 308 e ss.
(34) Si tratta della nota sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 12 luglio 2001,
Ferrazzini c. Italia. Per un commento si veda M. Greggi, Giusto processo e diritto tributario
europeo: applicazione e limiti del principio (il caso Ferrazzini), in Riv. dir. trib., 2002, 571 e
ss.
(35) Si vedano, per tutti, A. Bodrito – A. Marcheselli, Questioni attuali in tema di giusto
processo tributario nella dimensione interna e internazionale, in Riv. dir. trib., 2007, 723-793;
L. Del Federico, Il giusto processo tributario: tra art. 6 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo e art. 111 Cost. Nota alla sentenza della Corte di Cassazione, sezione tributaria, 17
giugno 2004, n. 11350, in GT - Riv. giur. trib., 2005, 154-159; S. Dorigo, Il diritto alla
ragionevole durata del giudizio tributario nella giurisprudenza recente della Corte europea dei
diritti dell’uomo, cit., 42 e ss.; F. Gallo, Verso un «giusto processo» tributario, in Rass. trib.,
2003, 11-41; P. Russo, Il giusto processo tributario, in Rass. trib., 2004, 11 e ss.; F. Tesauro,
Giusto processo e processo tributario, in Rass. trib., 2006, 11-58.
(36) Sulla rilevanza del carattere della patrimonialità della pretesa fatta valere ai fini della
ricomprensione della relativa controversia nell’ambito di applicazione dell’art. 6 della CEDU
si veda M. Chiavario, Art. 6 Diritto ad un processo equo, in AA.VV., Commentario alla
Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di
S. Bartole - B. Conforti - G. Raimondi, Padova, 2001, 167.
(37) Si veda, al riguardo, il documento n. 2007/C 303/02, Spiegazioni relative alla Carta dei
diritti fondamentali, in G.U.U.E. n. C 303 del 14 dicembre 2007, 30 ove, sulla scorta anche
della giurisprudenza comunitaria, si precisa, con riferimento all’art. 47 della Carta dei diritti,
che nel diritto dell’Unione il diritto a un giudice non si applica solo a controversie relative a
diritti e obblighi di carattere civile. Nel medesimo senso si veda altresì M. D’Amico,
Commento all’art. 47, in AA.VV., L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, a cura di R. Bifulco - M. Cartabia - A. Celotto, cit., 322.
Sotto questo profilo, dunque, trova applicazione il principio del massimo standard di tutela
cui, come detto, è informato il rapporto tra CEDU e Carta dei diritti: posto che, nella specie,
si assiste ad una maggior tutela – almeno con riferimento all’ambito oggettivo di applicazione
– accordata dalla Carta dei diritti, ci troviamo dinanzi ad una delle ipotesi prefigurate dal
secondo periodo dell’art. 52, § 3 della Carta dei diritti, ove si dispone l’assenza di limiti ad
eventuali tutele più estese accordate dalla stessa Carta dei diritti rispetto alla CEDU.
(38) Si vedano le ampie disamine di A. Bodrito - A. Marcheselli, Questioni attuali in tema di
giusto processo tributario nella dimensione interna e internazionale, cit., 723-793; F. Gallo,
Verso un «giusto processo» tributario, cit., 11 e ss.; P. Russo, Il giusto processo tributario,
cit., 11 e ss.; F. Tesauro, Giusto processo e processo tributario, cit., 11 e ss.
(39) Ciò in virtù di quanto previsto dall’art. 51 della Carta dei diritti, riportato nella
precedente nota n. 27. Quanto alle situazioni processuali che possono considerarsi ricadenti
nel perimetro dell’attuazione del diritto dell’Unione, si pensi, a titolo di esempio, alle ipotesi
di applicabilità del principio di non discriminazione – sub specie delle diverse libertà
fondamentali garantite dal TFUE – ovvero alla disciplina in materia di aiuti di Stato. Per una
conferma, a contrario, che le ipotesi in cui si faccia luogo all’invocazione delle libertà
fondamentali rientrano nell’attuazione del diritto dell’Unione si veda la sentenza della Corte
di giustizia del 1° marzo 2011, relativa alla causa C-457/09, Claude Chartry c. État belge, §
25.
(40) Si vedano, ex multis, F. Buonuomo, La tutela della proprietà dinanzi alla Corte europea
dei diritti dell’uomo, Milano, 2005, 73 e ss.; F. Manganaro, La Convenzione europea dei
diritti dell’uomo e il diritto di proprietà, in Diritto amministrativo, 2008, 379 e ss.; M.L.
Padelletti, Art. 1 Protezione della proprietà, in AA.VV., Commentario alla Convenzione
europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole - B.
Conforti - G. Raimondi, Padova, 2001, 801 e ss.; M.L. Padelletti, La tutela della proprietà
nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Milano, 2003, 174 e ss.; M.L. Padelletti,
Commento all’art. 1, in AA.VV., Commentario breve alla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole - De Sena -
V. Zagrebelsky, Padova, 2012, 791 e ss.; C. Panzarino, Il diritto di proprietà nell’art. 1 del
primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali. Rassegna di giurisprudenza, in Rivista amministrativa
della Repubblica italiana, 2003, 340-341.
(41) Al riguardo, sia consentito rinviare alla disamina condotta in G. Melis - A. Persiani,
Riscossione coattiva e Convenzione europea dei diritti dell’uomo: alcune riflessioni, in Rass.
trib., 2011, 901-923.
(42) Si veda, al riguardo, A. Lucarelli, Commento all’art. 17, in AA.VV., L’Europa dei diritti.
Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a cura di R. Bifulco - M.
Cartabia - A. Celotto, cit., 142 ove afferma che il profilo individualistico, inteso come stretta
relazione tra individuo, diritto di godimento e bene, è decisamente accentuato nell’art. 17,
comprimendo, in parte, il nesso funzionale tra soddisfazione di bisogni individuali e bisogni
collettivi.
(43) Il riferimento è, in particolare, alla fondamentale sentenza del 14 maggio 1974, relativa
alla causa C-4/73, J. Nold, Kohlen- und Baustoffgrosshandlung c. Commissione, ove la Corte
di giustizia ha precisato che le limitazioni dei diritti proprietari non solo devono essere
giustificati dagli obiettivi d’interesse generale perseguiti dalla Comunità, ma devono anche
far sì che non resti lesa la sostanza dei diritti stessi; profilo quest’ultimo da accertarsi avendo
riguardo al principio di proporzionalità e, in particolare, al requisito di necessità, come
precisato dalla stessa Corte nella sentenza del 13 dicembre 1979, relativa alla causa C-44/79,
Liselotte Hauer c. Land Rheinland-Pfalz, § 19. Nella medesima direzione si veda altresì la
sentenza del 7 febbraio 1985, relativa alla causa C-240/83, Procuratore della Repubblica c.
Association de defense des bruleurs d’huiles usagees e la pronuncia dell’8 ottobre 1986,
relativa alla causa C-234/85, Procedimento penale a carico di Franz Keller. In dottrina si veda
L. Daniele, La tutela del diritto di proprietà e del diritto al libero esercizio delle attività
economiche nell’ordinamento comunitario e nel sistema della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, in Il Diritto dell’Unione europea, 1998, 53 e ss.
(44) Si vedano le proposte delineate dalla commissione nel documento COM (2010) 608 del
27 ottobre 2010, Verso un atto per il mercato unico. Per un’economia sociale di mercato
altamente competitiva. 50 proposte per lavorare, intraprendere e commerciare insieme in
modo più adeguato, in tema di rafforzamento della solidarietà nel mercato unico (23-25) e di
promozione dell’economia sociale di mercato (26-28), ove si afferma, tra l’altro, che il
Trattato di Lisbona e l’affermazione del concetto di economia sociale di mercato altamente
competitiva tra gli obiettivi chiave [...] costringe ad una visione più completa del mercato
unico. Le libertà economiche e le libertà di azioni collettive devono essere «armonizzate».
[...] Le libertà di un mercato unico devono essere valorizzate a vantaggio dei più forti e dei
più deboli. Tutti devono poter beneficiare delle opportunità del mercato unico, anche i
disabili e gli anziani e si delineano proposte volte a sostenere ed accompagnare lo sviluppo di
progetti imprenditoriali innovativi sul piano sociale. Ancora, nel successivo documento COM
(2011) 206 del 13 aprile 2011, L’Atto per il mercato unico. Dodici leve per stimolare la
crescita e rafforzare la fiducia. Insieme per una nuova crescita, con riferimento alla coesione
sociale, si legge che la commissione proporrà [...] una legislazione trasversale che permetta di
chiarire l’esercizio delle libertà di stabilimento e di prestazione di servizi accanto ai diritti
sociali fondamentali, tra cui il diritto di azione collettiva, conformemente alla legislazione e
alle prassi nazionali e nel rispetto del diritto dell’Unione e, ancora, con riferimento
all’imprenditoria sociale, che la stessa commissione proporrà una legislazione mirante a
creare un quadro europeo che garantisca lo sviluppo dei fondi d’investimento solidale. Un
importante accento sui profili sociali si può rilevare anche nel documento COM (2012) 173
del 18 aprile 2012, Verso una ripresa fonte di occupazione, dedicato al mercato del lavoro.
(45) Si tratta della pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo del 30 giugno 2011, n.
8916/05, Affaire Association les Témoins de Jéhovah c. France.
(46) Si veda la citata sentenza n. 8916/05, Témoins de Jéhovah, § 13, ove si riporta il
passaggio del provvedimento di rifiuto della concessione del regime di esenzione in parola,
negato in quanto l’associazione n’ayant pas obtenu à ce jour d’autorisation préfectorale ou
ministérielle de recevoir des dons ou legs en franchise de droits de mutation à titre gratuit,
elle ne peut bénéficier des dispositions de l’article 795-10.
(47) In particolare, l’art. 9 della CEDU dispone al § 1 che ogni persona ha diritto alla libertà
di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o
credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo
individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto,
l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti e al § 2 prosegue stabilendo che la libertà di
manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni
diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una
società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della
morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui.
(48) Così la citata sentenza n. 8916/05, Témoins de Jéhovah, § 46: si la taxation litigieuse
était confirmée, il en résulterait la saisine et la vente du Béthel, ce qui entraînerait la perte
d’un lieu de culte. La pratique collective d’une religion implique de pouvoir s’appuyer sur
des ressources matérielles et celles-ci sont généralement le fruit des offrandes des fidèles.
Elle implique le droit de louer ou d’acquérir un lieu de culte et de préparer des manuels. Les
offrandes sont de nature religieuse et représentent sa principale ressource soit 86,47%. Leur
taxation aboutirait inévitablement à la liquidation, l’Etat pouvant mettre en vente les biens
hypothéqués.
(49) Si veda al riguardo la citata sentenza n. 8916/05, Témoins de Jéhovah, § 52.
(50) Si veda la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 20 settembre 2005, n.
68741/01, CBC-Union SRO c. Czech Republic, 14 ottobre 2010, n. 23759/03, Shchokin c.
Ukraine, 7 luglio 2011, n. 39766/05, Serkov c. Ucraina e 20 settembre 2011, n. 14902/04,
OAO Neftyanaya Kompaniya Yukos c. Russia.
(51) Si veda, al riguardo, il documento n. 2007/C 303/02, Spiegazioni relative alla Carta dei
diritti fondamentali, cit., 21.
(52) Si veda la sentenza 5 luglio 2012 relativa alla causa C-318/10, Société d’investissement
pour l’agriculture tropicale SA (SIAT) c. Stato belga, relativa ad una normativa belga che
prevedeva l’indeducibilità di determinate spese per prestazioni di servizi allorché queste
fossero state sostenute nell’ambito di operazioni intercorse con soggetti residenti in Stati ove
i relativi ricavi non erano tassati o, comunque, non erano tassati in modo congruo. Ebbene, in
tale contesto la Corte di giustizia, pur ammettendo che una tale disciplina restrittiva potesse
ritenersi idonea a perseguire esigenze di contrasto all’evasione fiscale, di preservazione
dell’efficacia dei controlli fiscali e di salvaguardia della ripartizione della potestà impositiva,
ha comunque ritenuto la medesima disciplina non in linea con il criterio di necessità a motivo
dell’inadeguata delimitazione da parte del legislatore dell’ambito applicativo della disciplina,
evidenziando – al § 56 della sentenza – che essa può essere applicata in assenza di
qualsivoglia criterio oggettivo e verificabile da parte di terzi che possa servire da indizio
dell’esistenza di una costruzione di puro artificio, priva di realtà economica, al fine di eludere
l’imposta normalmente dovuta sugli utili generati dalle attività svolte sul territorio nazionale,
in quanto viene preso in considerazione solo il livello impositivo cui è assoggettato il
prestatore di servizi nello Stato membro ove è stabilito.
(53) Volendo ipotizzare un risvolto pratico di tale giurisprudenza, può porsi mente alla
vicenda di stretta attualità della normativa in tema di esenzione (prima dall’ICI e,
successivamente) dall’IMU degli immobili destinati a particolari attività considerate
meritevoli sotto il profilo sociale. Il riferimento è, in particolare, all’art. 7, 1° comma, lett. i),
del d.lgs. n. 504 del 1992 che esenta da imposizione gli immobili utilizzati, tra l’altro, per
attività di religione o di culto purché gli immobili siano a ciò esclusivamente destinati. Tale
disposizione, che già in passato aveva formato oggetto di un vasto contenzioso e dal quale
erano emersi diversi indirizzi interpretativi – un tentativo di chiarimento dell’ambito
applicativo della disposizione in discorso era stato effettuato dal legislatore del d.l. 30
settembre 2005, n. 203, che aveva provveduto all’inserimento nel corpo dell’art. 7 del d.lgs.
n. 504 del 1992 di un comma 2-bis, in base al quale si disponeva che l’esenzione disposta
dall’art. 7, 1° comma, lett. i), del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, si intende applicabile alle
attività indicate nella medesima lettera che non abbiano esclusivamente natura commerciale –
è stata recentemente modificata dall’art. 91-bis del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 che, a decorrere
dal 1° gennaio 2013, ha subordinato l’applicazione dell’esenzione non solo alla destinazione
esclusiva dell’immobile, o di una sua parte, allo svolgimento dell’attività socialmente
meritevole, ma anche a che l’attività stessa sia svolta con modalità non commerciali,
prevedendosi che, nel caso in cui non sia possibile stabilire in modo puntuale la porzione
dell’immobile effettivamente utilizzata per lo svolgimento dell’attività rilevante, debba
adottarsi un criterio proporzionale avendosi riguardo alle modalità stabilite da un decreto
ministeriale avente natura regolamentare. Ebbene, in un quadro di scarsa chiarezza normativa
e complesso sotto il profilo interpretativo – e, dunque, di difficile comprensione e
applicazione per i contribuenti interessati – il Consiglio di Stato ha reso un primo parere
(parere del Consiglio di Stato 4 ottobre 2012, n. 4180) fortemente critico in merito allo
schema di decreto elaborato dal Ministero dell’Economia, sottolineando come esso si fosse
spinto a stabilire, in modo peraltro assai eterogeneo, criteri per la qualificazione della natura
commerciale o meno delle modalità di esercizio dell’attività; criteri, questi, affatto estranei al
compito assegnato alla normazione di rango secondario e, dunque, eccedenti rispetto
all’ambito di effettiva disciplina. Ora, ponendosi nell’anzidetta prospettiva di disposizioni che
siano quanto più possibile coerenti con i canoni di chiarezza e prevedibilità applicativa
auspicati sia dalla Corte di Strasburgo quanto dalle istituzioni dell’Unione europea, non può
non rilevarsi come l’incertezza applicativa che il susseguirsi degli interventi sta determinando
non contribuisca affatto a precisare l’ambito applicativo di una previsione di assoluto rilievo,
in quanto di interesse per tutti gli enti operanti nel settore del c.d. «no profit». Né, peraltro, il
profilo di prevedibilità nell’applicazione della normativa sembra essere significativamente
migliorato a seguito dell’ulteriore e recente intervento di cui all’art. 9, 6° comma, del d.l. 10
ottobre 2012, n. 174 – convertito, con modificazioni, dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213 – che,
integrando la previsione di cui al citato art. 91-bis, ha assegnato al regolamento ministeriale
anche il compito di stabilire i requisiti, generali e di settore, per qualificare le attività di cui
all’art. 7, 1° comma, lett. i) del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, come svolte con modalità
non commerciali: i criteri stabiliti dal regolamento ministeriale per lo svolgimento con
modalità non commerciali delle attività rilevanti sono ben lungi, infatti, dal poter formare
oggetto di univoca interpretazione. Come puntualmente rilevato dal secondo parere reso dal
Consiglio di Stato sulla questione (parere del Cons. Stato, 13 novembre 2012, n. 4802) tali
criteri – e, in particolare, quello riferito all’attività assistenziale e sanitaria da svolgersi dietro
versamento di importi non superiori alla metà di quello medio previsto per le stesse attività
convenzionate o contrattualizzate svolte nello stesso ambito territoriale – appaiono di difficile
applicazione. Orbene, non si vede come i contribuenti interessati possano procedere «senza
timori» all’applicazione di una normativa che, allo stato, presenta non trascurabili
complessità di attuazione pratica, tenuto conto, peraltro, della risoluzione del Dipartimento
delle Finanze 3 dicembre 2012, n. 1, che ha ritenuto le previsioni in merito allo svolgimento
con modalità commerciali delle attività applicabili già a partire dal periodo d’imposta in
corso (e giunto quasi al termine). Con la conseguenza che i contribuenti interessati si sono
visti costretti a determinare la debenza o meno dell’IMU sulla scorta di norme emanate solo
da pochi giorni e che presentano non poche complessità applicative (si pensi, ad esempio, con
riferimento all’attività didattica, alle difficoltà di definire compiutamente il criterio dei
corrispettivi di importo simbolico e tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo
del servizio). Sotto altro profilo, poi, non può trascurarsi come solo in tempi assai recenti – il
riferimento è, in particolare, alla decisione della Commissione europea del 19 dicembre 2012
– si siano dissolti i dubbi in punto di compatibilità comunitaria della disciplina
specificamente riferita all’IMU dovuta dagli enti «no profit» con la normativa comunitaria in
materia di aiuti di Stato.
(54) Sul punto si veda la compiuta e puntuale analisi giurisprudenziale di S. Marchese, Diritti
fondamentali europei e diritto tributario dopo il Trattato di Lisbona, cit., 331-338.
(55) Si vedano al riguardo le riflessioni di L. Del Federico, Tutela del contribuente ed
integrazione giuridica europea, Milano, 2010, 333-337.
(56) Si veda la relazione di accompagnamento al disegno di legge n. 4829 relativo alla
conversione in legge del d.l. n. 201 del 2011 presentato alla Camera dei Deputati il 6
dicembre 2011.
(57) In questo senso si vedano anche le notazioni di A. Marcheselli, Obbligo di collaborare
con il Fisco e diritto di tacere: violazione del diritto comunitario?, in Corr. trib., 2012, 2533 e
ss.
(58) Sul tempus commissi delicti riferito a tali fattispecie si vedano anche i chiarimenti della
circolare dell’Agenzia delle entrate 4 agosto 2000, n. 154/E.
(59) Tra i tanti, si veda W. Schön, Tax competition in Europe – the legal perspective, in EC
Tax Review, 2000, 104. Si vedano anche le argomentazioni di F. Vanistendael, Le nuove
fonti del diritto ed il ruolo dei principi comuni nel diritto tributario, relazione presentata al
Convegno di studio Per una Costituzione fiscale europea, Bologna, 28 e 29 ottobre 2005.
(60) Comunicazione della commissione al Consiglio COM (2000) 114 del 14 marzo 2000,
Contributo supplementare della commissione alla Conferenza intergovernativa sulle riforme
istituzionali. Il voto a maggioranza qualificata per gli aspetti relativi al Mercato unico nei
settori dell’imposizione fiscale e della sicurezza sociale. Va detto che la commissione ha fatto
balenare qualche volta anche la possibilità di intervenire mediante la procedura a
maggioranza di cui all’attuale art. 116 del TFUE, che fornisce la base giuridica per l’adozione
a maggioranza da parte della commissione di provvedimenti nel caso di distorsioni della
concorrenza nel mercato interno: si veda, ad esempio, la Comunicazione della commissione
al Consiglio COM (2001) 260, § 4.2. Tuttavia, in concreto essa non vi ha mai fatto ricorso: si
vedano B. Terra - J. Wattel, European Tax Law, L’Aia, 2005, 21.
(61) F. Vanistendael, Memorandum on the Taxing Powers of the European Union, in EC Tax
Review, 2002, 120 ss.
(62) Si tratta delle cosiddette «passerelle tributarie». Si veda G. Bizioli, Imposizione e
costituzione europea, in Riv. dir. trib., 2005, 233 ss.
(63) Si pensi, ad esempio, all’istituzione di una imposta di tipo europeo (ad esempio,
sull’energia) soltanto in taluni Stati membri, che finirebbe per attrarre investimenti in quegli
Stati in cui tale imposta non esiste. Va rilevato, invero, che sul fronte dell’utilizzo della
cooperazione rafforzata in ambito fiscale sembra potersi assistersi ad una significativa
evoluzione: nel contesto dell’imposta sulle transazioni finanziarie – di cui diremo al
successivo § 8 – la commissione, al fine di superare le divergenze di opinione degli Stati
membri in ordine alla’istituzione di un tale tributo e prendendo atto dell’esistenza di una
volontà favorevole all’adozione dell’imposta da parte di undici Stati (precisamente, Belgio,
Germania, Estonia, Grecia, Spagna, Francia, Italia, Austria, Portogallo, Slovenia e
Slovacchia), ha proposto al Consiglio l’adozione di una decisione di autorizzazione alla
cooperazione rafforzata in tale ambito in base all’art. 329, § 1, del TFUE. Al momento, gli
Stati non partecipanti a tale cooperazione rafforzata hanno richiesto ulteriori valutazioni
sull’incidenza dell’istituenda imposta sulle dinamiche concorrenziali del mercato interno. Si
vedano, in proposito, il documento della commissione COM (2012) 631 del 25 ottobre 2012
ed il documento del Consiglio n. 16051 del 2012 relativo alle decisioni del Consiglio
ECOFIN adottate nella riunione del 13 novembre 2012.
(64) Ad esempio, con riferimento alla tassazione dei dividendi, si veda la comunicazione
della commissione al Consiglio COM (2003) 810 del 19 dicembre 2003, Dividend taxation of
individuals in the Internal Market; in merito al regime delle perdite transfrontaliere, si veda la
comunicazione della commissione al Consiglio COM (2006) 824 del 19 dicembre 2006, Tax
treatment of losses in cross-border situations; quanto, infine, alle exit taxes, si veda la
comunicazione della commissione al Consiglio COM (2006) 825 del 19 dicembre 2006, Exit
taxation and the need for co-ordination of Member States’ tax policies.
(65) Così F. Snyder, «Soft law» e prassi istituzionale nella comunità europea, in Sociologia
del diritto, 1993, 80 e ss. Si veda anche M. Orlandi, Gli aiuti di Stato nel diritto comunitario,
Napoli, 1995, 91 e ss., che ne evidenzia l’importanza in relazione alle tipologie di aiuti non
ancora interessate da una disciplina organica di diritto comunitario derivato.
(66) Sugli effetti della soft law, si veda B. Pastore, Soft law, gradi di normatività, teoria delle
fonti, in Lavoro e diritto, 2003, 5 e ss., per il quale l’espressione soft law è generalmente
usata per indicare una serie di atti, non omogenei quanto ad origine e natura, che, pur privi di
effetti giuridici vincolanti, risultano comunque, in vario modo, giuridicamente rilevanti; F.
Snyder, «Soft law» e prassi istituzionale nella comunità europea, cit., 80 e ss. secondo il
quale si tratta di regole di condotta che, in linea di principio, non sono dotate per legge di
forza vincolante ma che, nondimeno, possono produrre effetti pratici; A. Poggi, Soft law
nell’ordinamento comunitario, in www.astrid-online.it/rassegna, che evidenzia l’esistenza di
tre principali orientamenti sul tema: quello secondo cui la soft law individua una tipologia di
atti, quello secondo cui essa delinea una tecnica di regolazione e quello, infine, secondo cui il
fenomeno comprenderebbe tanto una tipologia di atti, quanto una tecnica di regolazione. Con
riferimento all’ordinamento internazionale, si veda M. Distefano, Origini e funzioni del soft
law in diritto internazionale, in Lavoro e diritto, 2003, 17 e ss.
(67) Si veda al sentenza della Corte di giustizia del 13 dicembre 1989, relativa alla causa C322/88, Grimaldi.
(68) Cfr. P. Mengozzi, Istituzioni di diritto comunitario e dell’Unione Europea, Padova,
2003, 184. Con riferimento alle raccomandazioni delle organizzazioni internazionali, si veda
B. Conforti, Organizzazione internazionale, in Enciclopedia del Novecento, IV, Roma, 1979,
960, che cita l’esempio delle raccomandazioni dell’Organizzazione delle Nazioni Unite
(ONU) alla rottura delle relazioni commerciali con taluni Stati, la cui esecuzione sarebbe
sempre lecita anche se comportante l’inosservanza di trattati bilaterali o multilaterali di
commercio. Anche alle comunicazioni della commissione si riconosce un effetto di liceità, in
quanto sarebbero idonee ad ingenerare nei destinatari una situazione di legittimo affidamento:
si veda A.E. La Scala, Il divieto di aiuti di Stato e le misure di vantaggio nel quadro della
politica regionale dell’Unione Europea e degli Stati membri, in Dir. prat. tribut. intern., 2005,
37 e ss.
(69) Cfr. V. Guizzi, Manuale di diritto e politica dell’Unione Europea, Napoli, 2003, 313.
(70) A. Grau - M. Herrera, The link between tax coordination and tax harmonization, in EC
Tax Review, 2003, 34. Sugli atti di soft law nel contesto della disciplina degli aiuti di Stato e
sulla loro produzione di effetti giuridici per il tramite dei principi generali dell’ordinamento
dell’UE si veda O. Stefan, Hybridity before the court: a hard look at soft law in the EU
competition and state aid case law, in European Law Review, 2012, 49-69.
(71) Infatti, ben potrebbe accadere che l’atto di soft law sia suscettibile di essere trasformato
in hard law nel caso di inerzia degli Stati membri: si pensi, ad esempio, alle comunicazioni
della commissione che elevano a «sistema» le conclusioni della Corte di giustizia in tema di
non discriminazione o di restrizioni, dove la perdurante presenza di normative incompatibili
con il Trattato potrebbe condurre la commissione all’apertura di una procedura di infrazione.
In questo senso, dunque, il coordinamento fiscale non sempre rappresenta un modello di
azione in aree ove è carente un potere normativo della Comunità, talvolta essendo
riconducibile alla volontà di un approccio iniziale più morbido, altre volte essendo frutto
dell’impossibilità di superare il vincolo dell’unanimità.
(72) Occorre rilevare, peraltro, che anche atti di soft law non direttamente riguardanti la
materia fiscale potrebbero, cionondimeno, incidere sulle future iniziative delle istituzioni
dell’Unione relative all’assetto dei sistemi tributari nazionali. Riprendendo il tema dei diritti
fondamentali consacrati dalla Carta dei diritti, di cui si è detto nei precedenti §§ 2 e 3, la
commissione ha proceduto all’elaborazione di una serie di atti di soft law volti ad indirizzare
la valutazione ad opera delle istituzioni dell’Unione – e, in primis, della stessa commissione –
del grado di compatibilità delle diverse proposte di carattere normativo con i precetti della
Carta dei diritti. Si veda, in particolare, la Comunicazione del 27 aprile 2005, n. COM (2005)
172, Rispetto della Carta dei diritti fondamentali nelle proposte legislative della
commissione: metodologia per un controllo sistematico e rigoroso, nonché la successiva
Comunicazione del 29 aprile 2009, n. COM (2009) 205, Relazione sul funzionamento pratico
della metodologia per un controllo sistematico e rigoroso del rispetto della Carta dei diritti
fondamentali, ove, più chiaramente, si afferma che è necessario [...] pensare in termini di
diritti fondamentali, nonché favorire la «cultura dei diritti fondamentali» fin dalle fasi iniziali
di ideazione delle proposte. Tenuto conto del recente attivismo mostrato dalle istituzioni
dell’UE nel contesto tributario – tradottosi, al momento, nelle proposte da un lato di
istituzione di un’imposta sulle transazioni finanziarie a livello europeo e, dall’altro lato, di
adozione di una rinnovata disciplina della tassazione dell’energia – non sembra illogico
ritenere che tali atti di soft law non espressamente riferiti alla materia tributaria possano
comunque incidere sull’approccio delle stesse istituzioni nei confronti delle questioni fiscali,
portando ad una diversa considerazione dei diritti di natura non economica nel contesto di atti
attinenti al momento impositivo.
(73) C. Sacchetto, Armonizzazione fiscale nella Comunità Europea, in Enc. giur., II, 1988, 1;
da ultimo, M. Basilavecchia, L’evoluzione della politica fiscale dell’Unione europea, in Riv.
dir. trib., 2009, 361 ss.
(74) Ad esse si aggiungevano, sia pure su un piano secondario, l’art. 96 TCE (ora art. 116
TFUE), relativo alla rimozione della disparità delle disposizioni interne che falsano la
concorrenza, e l’art. 293 TCE (adesso abrogato), che evidenzia l’obiettivo della eliminazione
della doppia imposizione nei rapporti internazionali. Va inoltre ricordato l’art. 174 TCE (ora
art. 191 TFUE), che colloca il canone chi inquina paga tra i cardini della politica della
Comunità in materia ambientale e riconosce lo strumento tributario quale possibile mezzo per
attuarlo: sul tema della fiscalità ambientale, si veda R. Perrone Capano, L’imposizione e
l’ambiente, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, Padova, 1994, 449 ss.; F.
Picciaredda - Selicato, I tributi e l’ambiente, Milano, 1996; F. Gallo - F. Marchetti, I
presupposti della tassazione ambientale, in Rass. trib., 1999, 115 e ss.; C. Verrigni, La
rilevanza del principio comunitario «chi inquina paga» nei tributi ambientali, ivi, 2003, 1614
ss.
(75) Ai sensi dell’art. 8A TCE, introdotto dall’Atto Unico europeo, il mercato interno postula
uno spazio senza frontiere interne in cui sono assicurate quattro libertà di circolazione
fondamentali, e cioè quelle afferenti alle merci, alle persone, ai servizi e ai capitali. Mentre il
mercato comune può essere definito come una zona di libero scambio, il mercato interno
coincide con un’area economica integrata in direzione di un’unione economica e monetaria.
(76) Sul punto, C. Sacchetto, Armonizzazione fiscale, cit., 1 ss.; F. Tesauro, Profili della
fiscalità comunitaria, in Boll. trib., 1988, 1751 ss.; A. Fantozzi, Il sistema tributario italiano
verso il mercato unico europeo, in Rass. trib., 1988, 551 ss.; Russo - R. Cordeiro Guerra,
L’armonizzazione fiscale nella Comunità Europea, ivi, 1990, 629 ss.; G. Croxatto,
Armonizzazione fiscale e mercato unico europeo, in Soc., 1990, 105 ss.; E. De Mita,
L’armonizzazione delle imposte dirette, in Riv. dir. trib., 1989, 53 ss.; C. Garbarino,
Imposizione diretta e imprese multinazionali nella Comunità europea, in Soc., 1991, 1182 ss.;
F. Gallo - G. Melis, L’elusione fiscale internazionale nei processi di integrazione tra Stati:
l’esperienza della Comunità Europea, in Justiça tributaria: direitos do fisco e garantias dos
contribuintes nos atos da administraçao e no proceso tributario (Autori vari), San Paolo,
1998, 165 ss.; F. Amatucci, Il principio di non discriminazione fiscale, Padova, 1998, 117 ss.;
B. Terra - J. Wattel, European Tax Law, cit., 4.
(77) Sull’approccio «minimalista» del Comitato Ruding, v. I. Stitt, Corporate Taxation in the
EC, in British Tax Review, 1993, 75 e ss.
(78) Sarebbe infatti ingenuo ritenere che l’armonizzazione dei soli aspetti fiscali sia idonea ad
eliminare ogni squilibrio concorrenziale tra le imprese, sussistendo ad esempio forti divari
anche nel costo del lavoro e del capitale di credito. Si veda al riguardo S. Pininfarina,
Competitività delle imprese e sistema fiscale, in L’impegno dell’industria tra l’Italia e
l’Europa: Discorsi e interventi in quattro anni di presidenza Confindustria (1988-1992),
Roma, 1993, 524 ss.
(79) Marchessou, Le conseguenze fiscali del Trattato di Lisbona, in Rass. trib., 2010, 598.
Anzi sottolinea E. Kemmeren, After Repeal of Article 293 EC Treaty Under the Lisbon
Treaty: the EU Objective of Eliminating Double Taxation Can Be Applied More Widely, in
EC Tax Review, 2008, 156-158 come a seguito di tale abrogazione le istituzioni dell’Unione
possano perseguire con maggiore convinzione finalità di eliminazione della doppia
imposizione nel mercato interno.
(80) Questo nuovo approccio prende le mosse dalla comunicazione della commissione al
Consiglio COM (90) 601 del 20 aprile 1990, Orientamenti relativi all’imposizione fiscale
delle imprese. Sul principio di sussidiarietà in materia fiscale, si veda A. Grau - M. Herrera,
The link between tax coordination and tax harmonization: limits and alternatives, cit., 28 ss.
Sull’incremento del ricorso alla soft law quale risultato del dibattito sul principio di
«sussidiarietà» stabilito nel Trattato di Maastricht (firmato il 7 febbraio 1992), si veda F.
Snyder, «Soft law» e prassi istituzionale nella comunità europea, cit., 80 ss. Quanto
all’esperienza, per certi versi analoga, del diritto commerciale, v. J. Wouters, European
Company Law: quo vadis?, in Common Market Law Review, 2000, 272.
(81) Cfr. F. Bolkestein, The future of European tax policy, in EC Tax Review, 2002, 19 ss.
(82) Questo approccio coinvolge, a seguito del vertice di Lisbona (23-24 marzo 2000), anche
la politica economica, in cui gli Stati membri perseguono obiettivi comuni, ma sono liberi di
adottare forme di implementazione secondo le circostanze che si presentano a livello
nazionale e nell’ambito dei rispettivi frameworks istituzionali: v. I. Begg, Future fiscal
arrangements of the European Union, in Common Market Law Review, 2004, 775 ss.
Ancor più significativa appare la vicenda delle politiche occupazionali e sociali, dove si
utilizza il concetto di «metodo di coordinamento aperto», vera e propria forma di
cooperazione (o pratica di concertazione, che dir si voglia) «istituzionalizzata», fondata sugli
artt. 147, 148, 151 e 143 del TFUE (elaborazione annuale da parte del Consiglio, su proposta
della commissione, delle guidelines per gli Stati membri; esame da parte del Consiglio
dell’attuazione di tali politiche nei vari Stati membri; relazione annuale del Consiglio
sull’attuazione degli orientamenti; ecc.): si veda F. Bano, Diritto del lavoro e nuove tecniche
di regolazione: il soft law, in Lavoro e diritto, 2003, 48 ss., per il quale siamo in presenza di
un metodo istituzionalizzato di azione comunitaria, nel quale si rinvengono atti e procedure la
cui rilevanza trascende la sfera puramente politica, per produrre effetti giuridicamente
apprezzabili; V. Hatzopoulos, A (more) social europe: a political crossroad or a legal oneway? Dialogues between Luxembourg and Lisbon, in Common Market Law Review, 2005,
1630, ove evidenzia la rilevanza del metodo di coordinamento aperto nel perseguimento degli
obiettivi della strategia di Lisbona intrapresa negli anni Duemila; M. Massa, Modelli e
strumenti del governo delle politiche sociali al livello nazionale e comunitario, in AA.VV.,
La garanzia dei diritti sociali nel dialogo tra legislatori e Corte costituzionale, a cura di
Bianchi, Pisa, 2006, 30, che sottolinea che in sintesi, il metodo aperto di coordinamento
consiste nella determinazione di obiettivi a livello comunitario, che singoli Stati sono
chiamati ad integrare e realizzare, per poi renderne conto alle istituzioni europee: tutto ciò,
peraltro, senza che da questo procedimento derivino vincoli giuridici in senso stretto a carico
degli Stati; P. Olivelli, Diritti sociali e «metodo di coordinamento aperto» in Europa, in
Argomenti di diritto del lavoro, 2002, 313 ss.
Tale «istituzionalizzazione» è invece assente nel coordinamento fiscale. Sulla nozione di
coordinamento, si veda anche M. Aujean, Le fonti europee e la loro efficacia in materia
tributaria, tra armonizzazione, coordinamento e concorrenza fiscale leale, relazione presentata
al Convegno di studio Per una Costituzione fiscale europea, Bologna, 28 e 29 ottobre 2005.
(83) Si veda, al riguardo, G. Melis - F. Pitrone, Coordinating Tax Strategies at the EU Level
as a Solution to the Economic and Financial Crisis, in Intertax, 2011, 374-380.
(84) Si allude alle proposte del Gruppo di lavoro costituito presso l’Associazione per gli studi
e le ricerche sulla riforma delle istituzioni democratiche (Astrid), i cui contributi (di A.
Fantozzi, S. La Rosa e G. Marongiu) possono essere letti in Riv. dir. trib., 2003, IV, 97 ss. Si
veda anche F. Gallo, Il ruolo dell’imposizione dal Trattato dell’Unione alla Costituzione
Europea, in Rass. trib., 2003, 1487 e ss.; Id., Etica e giustizia nella «nuova» riforma
tributaria, retro, 2004, I, 41 ss.; A.E. La Scala, I principi fondamentali in materia tributaria in
seno alla Costituzione dell’Unione Europea, Milano, 2005, 35 ss.
(85) Cfr. C. Sacchetto - G. Bizioli, Fisco, il grande assente nel Trattato UE, in Italia Oggi, 20
aprile 2005, 1.
(86) Cfr. F. Gallo, Le ragioni del Fisco, Bologna, 2011, 130; Boria, Diritto tributario europeo,
Milano, 2005, 189.
(87) Sulla rilevanza del protocollo n. 27 si veda anche S. Lavrijssen, What role for national
competition authorities in protecting non-competition interests after Lisbon?, in European
Law Review, 2010, 637.
(88) Si veda S. Lavrijssen, What role for national competition authorities in protecting noncompetition interests after Lisbon?, cit., 637, che opera riferimento alla sentenza della Corte
di giustizia del 6 ottobre 2009, relativa alla causa C-501/06, GlaxoSmithKline e del 4 giugno
2009, relativa alla causa C-8/08, T-Mobile.
(89) R. Mastroianni, Osservazioni sul sistema italiano di applicazione decentrata del diritto
comunitario della concorrenza: i recenti sviluppi, in Rass. Avv. Stato, 2007, 21 ss.
(90) De Pasquale, Libera concorrenza ed economia sociale nel Trattato di Lisbona, in Dir.
pubbl. com. ed eur., 2009, I, 81 ss., la quale evidenzia che il nuovo Trattato ha fatto salvo il
richiamo all’adozione di una politica economica [...] condotta conformemente al principio di
un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza (art. 119 TFUE) – sia pure
spostandolo dai principi alla politica economica e monetaria – e quello ad un regime
competitivo non alterato (artt. 116 e 120 TFUE).
(91) G. Vettori, Diritti fondamentali e diritti sociali. Una riflessione fra due crisi, in Contr. e
impr., 2011, 915.
(92) Al riguardo, il Trattato di Maastricht affermava, ben diversamente, che l’economia
europea dovesse essere condotta conformemente al principio di un’economia di mercato
aperta e in libera concorrenza (art. 4 del Trattato istitutivo, nel testo modificato dal Titolo II,
art. G, del Trattato di Maastricht: L’azione degli Stati membri e della Comunità deve essere
improntata ad una politica economica condotta conformemente al principio di un’economia
di mercato aperta e in libera concorrenza), ponendo non trascurabili problemi di raffronto con
le Costituzioni di alcuni Stati membri. Si pensi, ad esempio, alla Costituzione tedesca e alla
sua ispirazione all’economia sociale di mercato – intesa come riferimento ai principi classici
dell’economia di mercato senza tuttavia considerarli in modo assoluto ma come condizioni
strutturali all’interno delle quali realizzare la giustizia sociale e la solidarietà – oppure di
quella italiana, la quale all’art. 41 Cost. afferma che l’economia deve essere indirizzata a fini
sociali, e che tale funzione di indirizzo debba essere svolta dallo Stato. In altri termini, l’idea
è pur sempre quella secondo cui lo Stato deve creare le precondizioni per un corretto
funzionamento del mercato, non essendo le forze spontanee e la flessibilità da sole in grado di
generare un mercato efficiente.
(93) R. Rolli, La proprietà come diritto dell’uomo?, in Contratto e impr., 2011, 1039. Sulla
diversità tra i principi elaborati in materia di proprietà privata dalla giurisprudenza europea
rispetto a quelli della «Costituzione economica» italiana, si veda C. Salvi, La proprietà e
l’Europa. Diritto di libertà o funzione sociale?, in Riv. crit. dir. priv., 2009, 418 ss.
(94) Si veda la sentenza della Corte di giustizia del 12 giugno 2003, relativa alla causa C112/00, Schmidberger.
(95) Si veda P. Mengozzi, Il contributo del diritto alla determinazione dell’identità
dell’Unione Europea, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 645 ss. e la giurisprudenza ivi
richiamata.
(96) Sul punto, si veda S. Amadeo, Il principio di eguaglianza e la cittadinanza dell’Unione:
il trattamento del cittadino europeo «inattivo», cit., 59-94.
(97) Sull’origine della cittadinanza europea, le cui prime proposte risalgono al 1972, si veda
M. Cartabia, Cittadinanza europea, in Enc. giur., Agg.to, IX, Roma, 1995, 1 ss.
(98) Il profondo mutamento di tale concezione è in larga parte merito della Corte di giustizia,
che ha fornito un’interpretazione uniforme del contenuto della libertà di circolazione delle
persone – essendo sufficiente la qualificazione come lavoratore subordinato, autonomo o
prestatore di servizi per beneficiare di un trattamento sostanzialmente identico (Corte di
giustizia, 8 aprile 1976, C-48/75, Royer, § 12) – ha interpretato in senso ampio la nozione di
lavoratore e di destinatario dei servizi (comprendendovi anche i turisti: si veda Corte di
giustizia, 2 febbraio 1989, C-186/87, Cowan, § 15), e ha infine riconosciuto un diritto di
accesso e di soggiorno a tutti coloro in grado di esibire alla frontiera un documento di identità
valido (Corte di giustizia, 27 aprile 1989, C-321/87, Commissione c. Belgio, § 11 e ss.),
estendendo la disciplina della libera circolazione delle persone ad ipotesi di mera ricerca di
lavoro, di formazione professionale, di turismo, di fruizione di cure mediche e di servizi in
genere (Corte di giustizia, 7 luglio 1976, C-118/75, Watson and Belmann; 23 marzo 1982, C53/81, Levin; 31 gennaio 1984, C-286/82 e C-26/83, Luisi e Carbone; 13 febbraio 1985, C293/83, Gravier. Si veda L.S. Rossi, I beneficiari della libera circolazione delle persone nella
giurisprudenza comunitaria, in Foro it., 1994, IV, 97 ss.).
(99) Secondo la felice espressione di G. Tesauro, Diritto comunitario, cit., 453, che sottolinea
come le direttive del 1990 abbiano stabilito un diritto di soggiorno di durata indeterminata
pur in assenza del requisito dell’esercizio di un’attività economica, all’unica condizione di
disporre di risorse sufficienti; si veda anche P. Farmer, Il divieto di discriminazione in base
alla nazionalità e le libertà fondamentali della Comunità, relazione al Convegno di studio su
Libertà economiche del Trattato UE ed imposizione diretta degli Stati, Bologna, 27-28
settembre 2002, 9 del dattiloscritto; M. Condinanzi - A. Lang - B. Nascimbene, Cittadinanza
dell’Unione e libera circolazione delle persone, Milano, 2006, 20 ss. e 83 ss., i quali
evidenziano anche che il passaggio della denominazione da Comunità economica europea in
Comunità europee sottende il superamento dell’iniziale impostazione «funzionalista», e
sottolineano in ogni caso l’esistenza di limiti, sia dal punto di vista delle ragioni di ordine
pubblico, pubblica sicurezza e sanità, sia in ordine alla circostanza che il soggetto
economicamente inattivo non diventi un onere eccessivo per lo Stato membro ospitante. Per
la giurisprudenza comunitaria, si veda Corte di giustizia, 21 settembre 1997, C-378/97,
Wijsenbeek; 12 maggio 1998, C-85/96, Martinez Sala; 23 novembre 2000, C-135/99, Elsen;
11 luglio 2002, C-224/98, D’Hoop; 20 settembre 2001, C-184/99, Grzelczyk; 19 settembre
2002, C-413/99, Baumbast, in cui viene definitivamente chiarito l’effetto diretto dell’art. 18;
19 ottobre 2004, C-200/02, Kunquian; 7 settembre 2004, C-456/02, Trojani. Sul punto, si
veda B. Terra - P. Wattel, European Tax Law, cit., 32.
(100) Tale previsione modifica anche la base giuridica per la disciplina della libera
circolazione delle persone, prevedendosi il coinvolgimento del Parlamento europeo: L.
Marini, La cittadinanza europea, in AA.VV., La cittadinanza. Problemi e dinamiche in una
società pluralistica, a cura di G. Dalla Torre – F. D’Agostino, Torino, 2000, 15 ss. Sulla
concezione storica del diritto di incolato come diritto politico riconosciuto ai soli cittadini,
vedi B. Nascimbene, Lo straniero nel diritto italiano, Milano, 1988, 9 ss.
(101) Si veda L. Cruciani, L’Europa dopo Lisbona: il modello liberista e il modello sociale,
in Riv. crit. dir. priv., 2007, 143 ss.
(102) Si veda G. Vettori, op. ult. cit., 130.
(103) P. De Pasquale, op. ult. cit., 86. Sottolinea anche le finalità dell’Unione di
mantenimento al mercato di una funzione sociale, subordinando i fenomeni che in esso di
possono determinare alla tutela della dignità delle persone, P. Mengozzi, Il contributo del
diritto alla determinazione dell’identità dell’Unione Europea, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
2011, 645 ss.
(104) A.B. Atkinson, La politica sociale nell’Unione Europea nel contesto della
liberalizzazione, in L. Constabile (a cura di), Istituzioni per il benessere sociale. Alternative
per l’Europa, in Studi Economici, 2005, 15 ss.
(105) Si veda la sentenza della Corte di giustizia dell’8 aprile 1976, relativa alla causa C43/75, Defrenne.
(106) Si veda il documento COM (2010) 608.
(107) In base all’art. 9 del TFUE nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e
azioni, l’Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello
di occupazione, la garanzia di un’adeguata protezione sociale, la lotta contro l’esclusione
sociale e un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana.
(108) Il riferimento è alle perplessità che hanno suscitato le note pronunce della Corte di
giustizia dell’11 dicembre 2007, relativa alla causa C-438/05, Viking e del 18 dicembre 2007,
relativa alla causa C-341/05, Laval in tema di bilanciamento tra libertà fondamentali e diritti
dei lavoratori. Per un inquadramento si veda L. Azoulai, The Court of Justice and the social
market economy: the emergence of an ideal and the conditions for its realization, in Common
Market Law Review, 2008, 1335-1356.
(109) M.T. Crotti, I diritti sociali collettivi in Europa nell’intreccio fra Corti, nel susseguirsi
di fonti, in Dir. rel. industr., 2011, 864 e 874.
(110) Si vedano, sul punto, i documenti menzionati nella precedente nota n. 72. A ciò si
aggiunga anche la Comunicazione del 19 ottobre 2010, n. COM (2010) 573, Strategia per
un’attuazione effettiva della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in cui la
commissione delinea un piano di azione volto a rendere il più possibile effettivi i diritti
fondamentali contenuti nella Carta dei diritti, non limitandosi, peraltro, alle sole politiche
interne, ma coinvolgendo altresì la sua azione esterna. Al di là della spiccata
procedimentalizzazione dell’attenzione per i diritti fondamentali all’interno del processo
legislativo, merita evidenziare come la sollecitazione ad introdurre appositi «considerando»
all’interno degli atti normativi dedicati all’esame di compatibilità con i diritti fondamentali
sia altresì idonea ad incidere sul momento interpretativo delle previsioni normative: tenuto
conto della tendenziale centralità del canone teleologico nell’interpretazione delle
disposizioni dell’ordinamento UE, l’interprete ben può annettere rilievo ai «considerando»
introduttivi dell’atto normativo al fine di ricostruire in modo accurato gli obiettivi perseguiti
dalle istituzioni in sede di adozione dell’atto normativo.
(111) Il riferimento è, in particolare, alla terza fase del giudizio applicativo del principio di
proporzionalità; principio che – nell’ambito del diritto dell’UE – si ritiene strutturato secondo
la tradizionale tripartizione elaborata dalla dottrina e giurisprudenza tedesca in riferimento al
Verhältnismäßigkeitprinzip. Ad una prima fase di verifica dell’idoneità della misura adottata
(Geeignetheitsprüfung) segue il controllo di necessità (Notwendigkeitsprüfung), rivolto ad
accertare che la misura esaminata non ecceda quanto srtettamente necessario al
conseguimento del fine. L’ultima fase – Abwägung ovvero Verhältnismäßigkeit im engeren
Sinne – attiene alla ponderazione vera e propria degli interessi in gioco, secondo una
valutazione che tenga conto dei costi e dei benefici connessi ai reciproci sacrifici dei predetti
interessi.
(112) Nel senso della sostanziale assenza della terza fase del giudizio di proporzionalità nella
giurisprudenza della Corte di giustizia anteriore al Trattato di Lisbona si veda G. Scaccia, Il
principio di proporzionalità, in AA.VV., L’ordinamento europeo, a cura di S. Mangiameli,
Milano, 2006, tomo II, 273-274, il quale, rinviando alla più ampia analisi in G. Scaccia, Gli
strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, 2000, passim, evidenzia
come la non parità tra i valori posti a confronto impedisca un vero bilanciamento tra essi, nel
senso fatto proprio dal giudizio applicativo del principio di proporzionalità.
(113) Si tratta della sentenza 10 maggio 2011, relativa alla causa C-147/08, Juergen Roemer.
(114) Cfr. P. Piciocchi, I recenti orientamenti della giurisprudenza comunitaria in materia di
politiche sociali, in Dir. pubbl. com. ed eur., 2011, 579.
(115) F. Ferraro, L’evoluzione della politica sugli aiuti di Stato a sostegno dell’accesso al
finanziamento nell’attuale situazione di crisi economica e finanziaria, in Dir. un. eur., 2010,
335 ss.
(116) Per tutti, G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2010, 23.
(117) In Riv. dir. trib., 2006, III, 57 ss., con nota di M. Tenore, Agevolazioni fiscali alle
fondazioni bancarie e compatibilità con la normativa comunitaria in tema di aiuti di Stato.
(118) Assolutamente improbabile appare invece invocare la teoria dei cc.dd. «controlimiti»,
potendosi difficilmente ascrivere ai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale i
trattamenti fiscali derogatori accordati ad enti non profit e dovendosi tenere conto del fatto
che gli Stati hanno espressamente aderito ad un Trattato che pone la tutela della concorrenza
tra i suoi obiettivi fondamentali riconoscendo espressamente solo talune deroghe.
(119) F. Ferraro, L’evoluzione della politica sugli aiuti di Stato a sostegno dell’accesso al
finanziamento nell’attuale situazione di crisi economica e finanziaria, cit., 343. Su una
maggiore considerazione degli elementi solidaristici nel contesto delle valutazioni relative ai
servizi di interesse economico generale ed ai loro rapporti con la disciplina della concorrenza,
si veda N. Boeger, Solidarity and EC Competition Law, in European Law Review, 2007,
319-340, la quale evidenzia come gli elementi solidaristici considerati assumano almeno due
forme: una prima forma riguarda l’esigenza invocata (e provata) dagli Stati membri di
procedere ad una distribuzione del bene o servizio considerato secondo criteri non di mercato,
una seconda forma attiene, invece, al carattere sociale e pubblico del settore di riferimento ed
all’inquadramento di una tale connotazione in un più ampio contesto di realizzazione del
programma sociale statale.
(120) Vedi A. Persiani, Le fonti e il sistema istituzionale, in AA.VV., Aiuti di Stato in
materia fiscale, a cura di L. Salvini et al., Padova, 2007, 26. Resta ferma la clausola di
chiusura di cui all’art. 107, § 3, lett. e), che consente di comprendere tra le deroghe anche le
altre categorie di aiuti, determinate con decisione del Consiglio, che delibera a maggioranza
qualificata su proposta della commissione.
(121) Si veda, sul punto, anche l’Editorial Comment, in Common Market Law Review, 2010,
313-318.
(122) P. Marchessou, op. cit., 600.
(123) Si veda W. Schön, Tax competition in Europe – the legal perspective, cit., 90 ss.
(124) Al punto che – parafrasando l’espressione di harmful tax competition – si è parlato di
harmful tax harmonization: così, R.A. Sommerhalder, Harmful Tax competition or harmful
tax harmonization, in EC Tax Review, 1999, 244 ss. Si veda anche R. Perrone Capano,
L’Europa tra debolezza dell’Euro e crisi dello Stato fiscale. Una interpretazione funzionale,
in Rass. trib., 2001, 1321.
(125) S. Cipollina, Armonizzazione vs. competizione fiscale: il trade-off Europa-Italia, in
Riv. dir. fin. sc. fin., 2004, 101.
(126) Emblematica, in tal senso, è la comunicazione della commissione al Consiglio COM
(2001) 260, cit., intrisa di riferimenti al concetto di coordinamento fiscale. Si veda anche la
comunicazione della commissione al Consiglio COM (2003) 726 del 24 aprile 2003, Un
mercato interno senza ostacoli inerenti alla tassazione delle società – risultati, iniziative in
corso e problemi ancora da risolvere.
(127) COM (97) 495 del 1° ottobre 1997. La posizione della commissione è stata
successivamente fatta propria dal Consiglio Ecofin nelle conclusioni al proprio meeting del
1° dicembre 1997 (doc. 98/C - 2/01), nel quale è stata adottata la risoluzione contenente il
«codice di condotta per la tassazione delle imprese».
(128) Le misure vengono considerate potenzialmente dannose quando determinano livelli
effettivi di imposizione nettamente inferiori al livello generalmente applicato nel Paese
interessato e, inoltre, 1) sono riservate ai non residenti, 2) sono completamente isolate dal
resto dell’economia nazionale, 3) sono attribuite senza che si sia svolta alcuna attività
economica, 4) implicano criteri di determinazione dei profitti che si discostano dalle norme
internazionali, 5) difettano di trasparenza nell’applicazione o nella definizione delle
fattispecie. Cfr. T. Rosembuj, Harmful Tax Competition, in Intertax, 1999, 316 ss.; F.
Bolkestein, Taxation and Competition: The Realization of the Internal Market, in EC Tax
Review 2000, 78 ss.
(129) Viene dunque mantenuto in tali Stati il segreto bancario e l’anonimato del percettore, il
quale, se ritiene, può tuttavia rinunziare a tale anonimato e chiedere la tassazione nel proprio
Stato di residenza, ovvero scomputare in esso, senza alcun limite, la ritenuta subita nello
Stato della fonte.
(130) Al codice di condotta fece seguito la nomina di una commissione (cosiddetta
«Primarolo») incaricata di individuare nei singoli ordinamenti degli Stati membri le misure
tali da falsare il libero gioco della concorrenza; la commissione pervenne, nel mese di marzo
del 2000, all’approvazione di un dettagliato rapporto che, su duecentottantadue misure
esaminate, ne considerava dannose dal punto di vista della concorrenza ben sessantasei. Per
l’Italia, l’unica misura contestata era quella relativa alle agevolazioni concesse alle imprese
svolgenti servizi finanziari e assicurativi nella zona offshore di Trieste, peraltro mai entrata in
vigore.
(131) Così è avvenuto per il centro offshore di Trieste e per altre tre misure, tra cui i centri di
coordinamento belgi (si veda il documento della commissione n. IP/01/982 dell’11 luglio
2001). Si assiste, in tal modo, alla trasformazione della soft law in hard law: si veda, infra, §
4.
(132) Si veda A. Vargas Llosa, Addosso all’Irlanda!, reperibile all’indirizzo internet
http://www.brunoleoni.it/nextpage.aspx?codice=9881. L’Autore richiama anche un lavoro
dello studioso dell’università di Oxford Dalibor Rohac, pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni e
intitolato Tax Competition: A Curse or a Blessing? che dimostra che, in presenza di una
crescente mobilità di capitale e lavoro, la concorrenza tra diversi regimi fiscali porta benefici
a tutti i paesi. Alcuni degli Stati dell’Europa centrale – che hanno adottato imposte ad
aliquota unica relativamente leggere a dispetto delle proteste in ambito nazionale e
internazionale – sono proprio tra quelli che mostrano una ripresa ragionevolmente solida
dopo la grande crisi. Nel mondo reale – conclude Rohac – la concorrenza fiscale si profila
come un mezzo per assoggettare i governi a una maggiore disciplina e permettere agli
individui di sfuggire al peso di una tassazione eccessivamente elevata.
(133) Cfr. A. Carinci, La questione fiscale nella Costituzione europea, tra occasioni mancate
e prospettive per il contribuente, in Rass. trib., 2005, 545 ss.
(134) Cfr. I. Begg, Future fiscal arrangements of the European Union, cit., 775 ss.
Attualmente, le risorse destinate al finanziamento della Comunità provengono dai prelievi
agricoli, dai dazi doganali, da una quota percentuale dell’Iva e da una quota del prodotto
interno lordo/prodotto nazionale lordo degli Stati membri.
(135) Sul punto, F. Fichera, Gli aiuti fiscali nell’ordinamento comunitario, in Riv. dir. fin. sc.
fin., 1998, 87.
(136) Ritiene anche R. Lupi, Concorrenza tra ordinamenti, Comunità europee e prelievo
tributario, in Rass. trib., 2004, 997, nt. 14, che l’importo relativamente modesto del budget
comunitario, rispetto a quello dei singoli Stati provvisti di una amministrazione attiva, rende
superflua la creazione di tributi comunitari ulteriori, rispetto a quelli (dogane e IVA) il cui
gettito è in tutto o in parte attribuito alla Comunità. Va al riguardo sottolineato che il budget
della Comunità europea ammonta a circa l’uno per cento del prodotto nazionale lordo degli
Stati membri: di esso, circa la metà è destinato alle politiche agricole comuni, e circa un terzo
a politiche strutturali a favore di regioni o gruppi sociali svantaggiati.
(137) Sui termini del dibattito, vedi G. Vettori, I principi comuni, cit., 119.
(138) Su cui vedi J. Luther, Il processo di Karlsruhe al Trattato di Lisbona: alla ricerca di
interpretazioni ragionevoli, in Giur. cost., 2011, 925 ss.
(139) Vedi anche S. Mangiameli, Il disegno costituzionale dell’Unione Europea dopo il
Trattato di Lisbona, in Dir. Un. Eur., 2011, 377 ss., ove considerazioni sulla successiva
sentenza Mangold del 6 luglio 2010, la quale, pur riconoscendo la possibilità della Corte
costituzionale tedesca di decidere, anche in contrasto con la giurisprudenza della Corte di
giustizia, la non applicazione del diritto europeo, ha tuttavia affermato il ruolo di
coordinamento del giudice europeo nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto
europeo al fine di assicurare l’unità e la coerenza dell’ordinamento sopranazionale. Si tratta
dunque di un sostanziale restraint da parte del Bundesverfassungsgericht, che afferma altresì
che il controllo ultra vires (relativo al rispetto delle competenze) debba essere esercitato
secondo il canone della Europarechtsfreundlichkeit. Sul fatto, pertanto, che dopo la sentenza
Mangold la sensazione che la categoria dei controlimiti venga più predicata che praticata, si
veda M. Raveraira, L’ordinamento dell’Unione europea, le identità costituzionali nazionali e i
diritti fondamentali, in Riv. dir. sic. soc., 2011, 332 ss.
Si tratta, se vogliamo, di un’esperienza simile a quella che ha caratterizzato la giurisprudenza
costituzionale italiana. È noto, al riguardo, che la Corte costituzionale italiana, ricostruendo il
suddetto rapporto in termini dualistici, si è riservata di assicurare la tutela dei «principi
fondamentali del nostro ordinamento costituzionale» (Corte cost., 27 dicembre 1973, n. 183,
in Giur. cost., 1973, 2401 ss.) e i diritti inalienabili della persona umana (Corte cost., 8
giugno 1984, n. 170, in Giur. it., 1984, I, 1521 ss.). Il principio è ribadito in Corte cost., 18
aprile 1991, n. 168, in Giur. cost., 1991, 1409 ss.), con un’impostazione sostanzialmente
corrispondente a quella adottata dalla Corte costituzionale tedesca (BVerfG 29 maggio 1976
(c.d. «Solange I»), in BVerfGE, XXXVII, 271). La natura di tali principi e diritti –
comunemente denominati «controlimiti» in coerenza con l’idea che il diritto europeo
costituisca non il fondamento bensì un insieme di limiti al diritto italiano – non è mai stata
precisata dalla Corte costituzionale. Anzi, nel caso Fragd, essa si era trovata dinanzi al
possibile conflitto tra una pronunzia di invalidità della Corte di giustizia di un regolamento
comunitario e il diritto costituzionalmente garantito alla difesa, atteso che la Fragd aveva
versato degli importi compensativi monetari come stabiliti dal regolamento Cee della
commissione 19 giugno 1980, n. 1541/80, i quali erano stati calcolati secondo lo stesso
procedimento previsto in un precedente regolamento già dichiarato illegittimo in parte qua;
sennonché la Corte di giustizia, nella sentenza resa ai sensi dell’ex art. 177, § 1, lett. b) del
Trattato CE, aveva ritenuto di applicare analogicamente l’ex art. 174, § 2 del Trattato CE,
delimitando gli effetti della propria pronunzia soltanto pro futuro e dunque escludendo dal
rimborso tutti i tributi versati anteriormente ad essa. Tale pronunzia veniva confermata dalla
Corte di giustizia nella sentenza emessa sul regolamento Cee n. 1541 del 1980, cit., sia in
ordine all’illegittimità dei criteri di determinazione degli importi, sia in ordine alla portata
temporale della decisione, così determinando la remissione al giudice delle leggi della
questione di legittimità costituzionale sull’art. 267 del TFUE, come interpretato dalla Corte di
giustizia, in quanto ritenuto lesivo della garanzia del poter agire in giudizio per la tutela dei
propri diritti e interessi legittimi assicurato dall’art. 24 Cost. Si veda M. Carducci,
L’interpretazione dell’art. 177 del Trattato CEE come «oggetto» e «fattore di
condizionamento» del sindacato di costituzionalità, in Diritto comunitario e degli scambi
internazionali, 1992, 107 ss. La Corte ha tuttavia eluso la domanda dichiarando la questione
irrilevante, per essere la controversia dinanzi al giudice a quo non [...] quella che ha
provocato la declaratoria del regolamento contestato e non ponendosi, pertanto, con essa nella
relazione necessaria che intercorre tra giudizio principale e giudizio incidentale (Corte cost.,
21 aprile 1989, n. 232, in Giur. cost., 1989, I, 1001 ss.).
(140) Si veda M. Raveraira, L’ordinamento dell’Unione europea, le identità costituzionali
nazionali e i diritti fondamentali, cit., 332 ss.
(141) In senso conforme, Boria, Diritto tributario europeo, cit., 138 ss.
(142) Osserva infatti Boria, op. cit., 177 ss., che non soltanto negli Stati regionali, ma anche
negli Stati tradizionalmente orientati verso modelli costituzionali di pronunciato federalismo,
le imposte sul reddito delle persone fisiche e quelle sul reddito delle società sono regolate
attraverso atti normativi di pertinenza delle istituzioni dello Stato.
(143) Le possibilità sono molteplici e tutte da verificare. La relazione su «Il finanziamento
dell’Unione europea» presentata dalla commissione in data 14 luglio 2004, indica tra le
possibilità quella della tassazione dei prodotti energetici, l’addizionale comunitaria sull’Iva o
una addizionale sull’imposta sul reddito delle società, applicando un’aliquota comune ad una
base imponibile armonizzata. Si tratta, dunque, di una proposta assai prudente, che ipotizza
non già l’introduzione di nuovi tributi, ma solo l’assegnazione alla Comunità di una quota di
quelli già esistenti. Il dibattito ha tuttavia avuto ulteriori sviluppi, essendosi introdotte altre
opzioni, quali un prelievo sulle speculazioni finanziarie, sui trasporti aerei e marittimi e sul
tabacco: per i termini del dibattito, v. l’articolo Riappare la tassa europea, in Il Sole 24 Ore,
20 gennaio 2006, 11. L’ipotesi della compartecipazione al gettito dell’imposta sulle società è
peraltro frequentemente sostenuta anche in sede dottrinale, sulla base dell’esperienza degli
Stati federali (o confederali), in cui tale gettito è sempre presente nel finanziamento del
livello di Governo più elevato, in maniera esclusiva ovvero in partecipazione con i livelli
inferiori di Governo: si veda A. Di Majo, Il ruolo dell’imposizione societaria nella Cee, in
AA.VV., Le imposte del 1992: aspetti fiscali del completamento del mercato unico europeo,
Milano, 1990, 191.
(144) Commissione Europea, Staff Working Document on the Taxation of the Financial
Sector, COM (2010) 549, 2010.
(145) Vale la pena rilevare che al momento non sembra possibile il raggiungimento di un
consenso unanime dei 27 Stati membri sull’introduzione di una Tobin tax a livello europeo, e
pertanto sta prendendo sempre più piede l’idea di utilizzare la procedura della cooperazione
rafforzata. Si veda la Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 23 maggio 2012
sulla proposta di direttiva del Consiglio concernente un sistema comune d’imposta sulle
transazioni finanziarie e recante modifica della Direttiva n. 2008/7/CE, P7_TA(2012)0217
nonché i recenti documenti citati nella precedente nota n. 63.
(146) A. Šemeta, Una Tobin tax per la crescita, in Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2012.
(147) Commissione europea, Financial Transaction Tax: Making the financial sector pay its
fair share, 28 settembre 2011; Commissione europea, Proposta di Direttiva del Consiglio
concernente un sistema comune d’imposta sulle transazioni finanziarie e recante modifica
della Direttiva 2008/7/CE, COM(2011) 594; Parlamento europeo, Risoluzione legislativa del
Parlamento europeo del 23 maggio 2012 sulla proposta di direttiva del Consiglio concernente
un sistema comune d’imposta sulle transazioni finanziarie e recante modifica della direttiva
2008/7/CE, P7_TA(2012)0217.
(148) Commissione europea, Proposta di Direttiva del Consiglio concernente un sistema
comune d’imposta sulle transazioni finanziarie e recante modifica della Direttiva 2008/7/CE,
COM(2011) 594; Parlamento europeo, Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 23
maggio 2012 sulla proposta di direttiva del Consiglio concernente un sistema comune
d’imposta sulle transazioni finanziarie e recante modifica della direttiva 2008/7/CE,
P7_TA(2012)0217.
(149) Per quanto concerne la tipologia di tributo che si vuole introdurre, la proposta di
direttiva della Commissione europea presentata il 28 settembre 2011, e approvata, con
emendamenti, il 23 maggio 2012 dal Parlamento europeo, intende introdurre un tributo
esigibile per ogni transazione finanziaria nel momento in cui la stessa avviene. La proposta si
applica a tutte le transazioni finanziarie – ossia l’acquisto e la vendita di uno strumento
finanziario, come azioni delle società, obbligazioni, strumenti del mercato monetario, quote
di organismi d’investimento collettivo, prodotti strutturati e derivati, e la conclusione o la
modifica di contratti derivati – a condizione (i) che almeno una delle parti coinvolte nella
transazione sia stabilita in uno Stato membro e che un ente finanziario stabilito sul territorio
di uno Stato membro sia parte coinvolta nella transazione, agendo per conto proprio o per
conto di altri soggetti oppure agendo a nome di una delle parti della transazione; o (ii) che la
transazione riguardi uno strumento finanziario emesso da persone giuridiche registrate
nell’Unione (questo secondo punto è stato aggiunto da uno degli emendamenti proposti dal
Parlamento europeo, v. Emendamento 13, Parlamento europeo, Risoluzione legislativa del
Parlamento europeo del 23 maggio 2012 sulla proposta di direttiva del Consiglio concernente
un sistema comune d’imposta sulle transazioni finanziarie e recante modifica della direttiva
2008/7/CE, P7_TA(2012)0217).
Le aliquote saranno fissate da ogni Stato membro ma non possono essere inferiori allo 0,1%
per le transazioni finanziarie non relative a contratti derivati e allo 0,01% per i contratti
derivati (art. 8 della proposta di direttiva, Commissione europea, Proposta di Direttiva del
Consiglio concernente un sistema comune d’imposta sulle transazioni finanziarie e recante
modifica della Direttiva 2008/7/CE, COM(2011) 594).
(150) G. Bizioli, La disciplina europea della finanza pubblica. Origine, evoluzione e crisi del
Patto europeo di stabilità e crescita, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2012, 121-135.
(151) F. Gallo, Le ragioni del Fisco, cit., 129.
(152) Si veda, al riguardo, M. Alberton - M. Montini, Le novità introdotte dal Trattato di
Lisbona per la tutela dell’ambiente, in Rivista giuridica dell’ambiente, 2007, 506 e ss.
(153) In questo senso, M. Alberton - M. Montini, Le novità introdotte dal Trattato di Lisbona
per la tutela dell’ambiente, cit., 514-515 sottolineano che il mancato riconoscimento ai
cittadini europei di un diritto all’ambiente salubre costituisce la lacuna più grave del Trattato
di Lisbona, almeno con riferimento alla materia ambientale. Va rilevato, d’altra parte, che il
diritto all’ambiente salubre quale portato del diritto alla salute costituzionalmente tutelato è
stato da tempo configurato dalla giurisprudenza interna di legittimità – si veda la storica
sentenza della Cass. n. 1152 del 1979 ove si precisava che dovendo preservarsi le condizioni
indispensabili o anche solo propizie alla salute dell’uomo, anche nei luoghi in cui si
articolano le comunità sociali nelle quali si svolge la sua personalità, il diritto alla salute,
piuttosto e oltre che come mero diritto alla vita e all’incolumità fisica deve configurarsi come
diritto ad un ambiente salubre – e, in tempi più recenti, risulta «rafforzato» dal sostegno alla
tutela ambientale proveniente dalle interpretazioni rese dalla Corte europea dei diritti umani
in relazione agli artt. 8 e 10 della CEDU. Si vedano, in proposito, le pronunce della Corte di
Strasburgo del 9 dicembre 1994, n. 16798/90, Lopez Ostra v. Spain; 19 febbraio 1998, n.
116/1996/735/932, Guerra et autres c. Italie; dell’8 luglio 2003, n. 36022/97, Hatton and
others v. The United Kingdom.
(154) Al riguardo, si veda la Comunicazione della commissione al Consiglio e al Parlamento
europeo del 25 ottobre 2005, n. COM n. (2005) 532, Il contributo delle politiche fiscali e
doganali alla strategia di Lisbona, § 3.2. Quanto alla preferenza per lo strumento tributario,
questo, quale strumento di mercato, consente di rimediare al fallimento del mercato riferito ai
beni ambientali in modo più efficiente rispetto agli strumenti normativi. Come evidenziato
dalla Commissione europea, gli strumenti di mercato si riflettono in modo diretto sul prezzo
del prodotto, in tal modo non solo rendendo immediatamente percepibile il valore dei costi e
dei benefici esterni, ma stimolando anche le imprese ad impegnarsi verso un miglioramento
dell’efficienza della produzione sotto il profilo ambientale, in modo da acquisire un
vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti.
(155) Si tratta della Direttiva 27 ottobre 2003, n. 2003/96/CE.
(156) È sufficiente porre mente, al riguardo, alla recente conferenza internazionale ONU
sullo sviluppo sostenibile Rio+20 tenutasi a Rio de Janeiro dal 20 al 22 giugno 2012, in cui le
istituzioni comunitarie si sono direttamente impegnate per la promozione della qualità
dell’ambiente e, sia pur in un contesto decisionale complesso, hanno ottenuto l’inserimento
nel documento finale di specifici commitments da parte degli Stati partecipanti. Si veda, in
proposito, il discorso tenuto dal Commissario europeo per l’ambiente Janez Potočnik il 5
luglio 2012 dinanzi al Parlamento europeo a proposito dell’esito della menzionata conferenza
ONU; discorso in cui si opera ripetuto riferimento all’attività svolta dalle istituzioni
comunitarie in seno alla conferenza internazionale nel senso di proporre – e, in parte, ottenere
– una maggiore chiarezza degli impegni assunti dagli Stati partecipanti su tematiche
ambientali. Lo stesso Commissario riconosce, peraltro, che le istituzioni comunitarie non
sono riuscite ad ottenere la fissazione di scadenze precise per tali impegni, eccezion fatta per
l’impegno alla riduzione entro il 2025 dell’inquinamento marino.
(157) Così la Comunicazione della commissione 3 marzo 2010, n. COM (2010) 2020, Una
strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, 5.
(158) Si tratta dei cc.dd. obiettivi «20/20/20», in quanto le istituzioni comunitarie si sono
impegnate entro il 2020 a ridurre le emissioni di gas a effetto serra almeno del 20% rispetto ai
livelli del 1990 (o del 30%, se sussistono le necessarie condizioni su scala internazionale), a
portare al 20% la quota delle fonti di energia rinnovabile nel consumo finale di energia e a
migliorare del 20% l’efficienza energetica. Si veda, al riguardo, la Comunicazione della
Commissione europea 3 marzo 2010, COM (2010) 2020, Una strategia per una crescita
intelligente, sostenibile e inclusiva, 12.
(159) Così la Comunicazione della Commissione europea 3 marzo 2010, COM (2010) 2020,
Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, 17: se conseguiamo i nostri
obiettivi in materia di energia, risparmieremo 60 miliardi di euro di importazioni petrolifere e
di gas da qui al 2020. Non si tratta solo di un risparmio in termini finanziari, ma di un aspetto
essenziale per la nostra sicurezza energetica. Facendo ulteriori progressi nell’integrazione del
mercato europeo dell’energia si potrebbe aggiungere uno 0,6% supplementare allo 0,8% del
PIL. La sola realizzazione dell’obiettivo UE del 20% di fonti rinnovabili di energia potrebbe
creare oltre 600.000 posti di lavoro nell’Unione che passano a oltre 1 milione se si aggiunge
l’obiettivo del 20% per quanto riguarda l’efficienza energetica.
(160) Si veda la Comunicazione della commissione 13 aprile 2011, n. COM (2011) 168,
Un’imposizione fiscale più intelligente dell’energia nell’UE: proposta di revisione della
direttiva sulla tassazione dei prodotti energetici.
(161) Si fa riferimento, in particolare, alle scelte dei diversi Stati membri in punto di
ripartizione del peso fiscale tra le componenti dell’imposta (tassazione delle emissioni di
CO2 da un lato e tassazione del contenuto energetico dall’altro lato) e, ovviamente, di
aliquote applicabili in ciascuna ipotesi.
(162) In questo senso, si veda anche il parere del Comitato Economico e Sociale Europeo
relativo alla proposta di modifica della Direttiva n. 2003/96/CE elaborata dalla commissione.
Il parere è pubblicato in G.U.U.E. 28 gennaio 2012, serie C, n. 24, 70 e ss.
(163) Si veda, in particolare, la citata Comunicazione n. COM n. (2005) 532, 15-16.
(164) Si veda, in proposito, il rapporto 9 maggio 2010 del prof. Mario Monti al Presidente
della Commissione europea Barroso, Una nuova strategia per il mercato unico al servizio
dell’economia e della società europea (c.d. Rapporto Monti), 84-88. Nella medesima
direzione – e in sostanziale attuazione del rapporto Monti – si veda l’indicazione contenuta
nel documento della commissione n. COM (2012) 173, 4 ove si auspica la riduzione del
cuneo fiscale che grava sul lavoro senza incidere sul bilancio orientandosi [tra l’altro] verso
imposte ambientali.
(165) Si veda, in particolare, il documento della commissione n. 2008/C 82/01, Disciplina
comunitaria degli aiuti di stato per la tutela ambientale, in G.U.U.E. n. C 82 del 1° aprile
2008, 1 e ss.
(166) Si veda, in particolare, il citato documento della commissione n. COM (2011) 168, 1213, ove si precisa che la revisione della direttiva sulla tassazione dell’energia nei termini
proposti dalla commissione ristrutturerà il regime fiscale attualmente applicabile all’energia,
al fine di renderlo più efficiente e coerente. Oltre a migliorare il funzionamento del mercato
interno, creando pari condizioni di concorrenza per le imprese, che saranno trattate su un
piano di parità sia che consumino petrolio, gas naturale o biomassa, produrrà soprattutto
incentivi positivi in campo ambientale e concorrerà quindi alla realizzazione degli obiettivi
della strategia Europa 2020. In prospettiva, questo nuovo quadro dell’UE permetterà agli
Stati membri di attuare a livello nazionale politiche più ambiziose, forgiate sia dalla necessità
di conseguire gli obiettivi ambientali sia da ragioni di bilancio, motivo per cui si può
affermare che la proposta è in grado di generare guadagni di efficienza che superano di gran
lunga gli effetti/i benefici riscontrati al momento dell’attuazione. Essa permette in tal modo
agli Stati membri di onorare i propri impegni derivanti dalla strategia Europa 2020 in maniera
conveniente in termini di costi e offre loro la certezza del diritto necessaria nel momento in
cui, per uscire dalla crisi economica e finanziaria, stanno affrontando le riforme strutturali
delle loro politiche di bilancio e dei regimi tributari. Il nuovo quadro, nel contempo,
promuoverà una crescita economica sostenibile e favorirà la creazione di posti di lavoro. In
breve, una tassazione più intelligente dell’energia andrà a beneficio sia dell’ambiente che
dell’economia.
(167) Si veda infra, § 3 e, in particolare, la giurisprudenza citata nella precedente nota n. 31.
(168) Si veda infra, § 6.
(169) Volendo riprendere il titolo della recente ed interessante proposta di riforma del sistema
fiscale francese – ma con considerazioni estensibili a molti dei Paesi europei, compresa
l’Italia – di C. Landais - T. Piketty - E. Saez, Per una rivoluzione fiscale, Brescia, 2011.
(170) Contraddizioni sottolineate da A. Algostino, Costituzionalismo e Trattato di Lisbona:
l’insostenibile pesantezza del mercato, in Diritto pubblico, 2009, 835-853, che giunge a
ritenere le modifiche rivolte alla valorizzazione dei profili sociali come meramente formali,
non risultando scalfita, a suo avviso, la centralità dei valori economici.
(171) È sufficiente porre mente, al riguardo, al disposto dell’art. 3, § 3, del TUE dedicato agli
obiettivi dell’Unione, ove all’instaurazione del mercato interno si accompagnano una serie di
corollari che fanno esplicito riferimento, tra l’altro, allo sviluppo sostenibile dell’Europa,
basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia
sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso
sociale.
(172) Si vedano, in proposito, le affermazioni dell’Avvocato generale Villalòn nelle
conclusioni del 5 maggio 2010 relative alla causa C-515/08, Santos Palhota e altri, ove, con
riferimento alla tutela delle condizioni di lavoro, precisa, al § 53, che l’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona implica che, qualora le condizioni di lavoro si presentino come motivi
imperativi d’interesse generale che giustificano una deroga alla libera prestazione dei servizi,
esse non devono più essere interpretate restrittivamente. Nella misura in cui la protezione del
lavoratore diventa un fattore meritevole di essere tutelato direttamente dai Trattati, non ci
troviamo più dinanzi ad una mera deroga ad una libertà, né, tantomeno, dinanzi ad una deroga
non scritta e ricavata dalla giurisprudenza. Il nuovo sistema del diritto primario, imponendo
obbligatoriamente un elevato grado di protezione sociale, sta facendo sì che gli Stati membri,
in nome della salvaguardia di un determinato livello di protezione sociale, possano giungere a
porre limiti ad una libertà, e li autorizza a ciò senza che il diritto dell’Unione consideri
siffatta limitazione atto straordinario e, in quanto tale, soggetto ad una valutazione restrittiva.
Nella relativa sentenza – va rilevato – la Corte di giustizia non ha ribadito le precisazioni
dell’Avvocato generale, adottando un approccio più cauto, che lascia aperto a future
riflessioni sul rapporto tra diritti di natura sociale e libertà fondamentali.
(173) Profilo, questo, a proposito del quale non può trascurarsi l’attenzione riposta dalla
commissione sulla verifica di compatibilità delle iniziative legisaltive con i diritti
fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti. Si vedano, al riguardo, le precedenti note nn. 72 e
110.
(174) Tra le poche eccezioni possono annoverarsi la citata pronuncia relativa alla causa C112/00, Schmidberger e la sentenza del 14 ottobre 2004, relativa alla causa C-36/02, Omega,
in cui i giudici comunitari hanno proceduto ad un vero bilanciamento dei valori di carattere
economico sottesi alle libertà di movimento con i diritti fondamentali – nella specie, la libertà
di riunione ed il rispetto della dignità umana – intendendo questi ultimi in un’accezione non
restrittiva e meramente derogatoria dei primi. Va rilevato, peraltro, come taluni autori – F.
Sorrentino, La tutela multilivello dei diritti, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario,
2005, 91 – in sede di valutazione della pronuncia Schmidberger abbiano comunque sollevato
dubbi sul bilanciamento tra libertà personali e diritti economici, evidenziando come
normalmente nelle costituzioni degli Stati membri la libertà di riunione viene limitata e
bilanciata non dalle libertà economiche, ma da interessi attinenti alla pacifica convivenza,
quali l’ordine pubblico o il buon costume. Ad una tale prospettazione si è replicato – G.
Morbidelli, Corte costituzionale e Corti europee: la tutela dei diritti (dal punto di vista della
Corte del Lussemburgo), in Diritto processuale amministrativo, 2006, 300-301 – come non
solo la nostra Corte costituzionale abbia da sempre effettuato un bilanciamento tra iniziativa
economica privata e libertà personali, ma anche che tali diritti si devono situare ad un grado
pari nell’ordinamento dell’Unione europea, non essendone dunque precluso il bilanciamento.
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