56 cp Tentativo. Idoneità. Univocità. Esemplificazioni. Desistenza
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56 cp Tentativo. Idoneità. Univocità. Esemplificazioni. Desistenza
00. LINEE GENERALI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ (C.D. GIURISPRUDENZA SCIENTIFICA) Cass. pen., sez. II, 15 giugno 2010, n. 28213 Cass. Pen. sez. II, 21 settembre 2011, n. 36536 01. LA SOGLIA DELLA NON PUNIBILITÀ. ESECUZIONE-PREPARAZIONE. L’IDONEITÀ L’IDONEITÀ DEGLI ATTI IN GENERALE Cass. Cass. Cass. Cass. Cass. Pen., Pen., Pen., Pen., Pen., sez. sez. sez. sez. sez. V, 17 maggio 2011, n. 36422 V, 27 maggio 2011, n. 30139 VI, 11 ottobre 2011, n. 40678 II, 7 gennaio 2011, n. 17146 I, 22 settembre 2010, n. 37516 L’ESTREMITÀ INFERIORE DEL CONCETTO DI IDONEITÀ: L’ART. 115 C.P. Cass. Pen., sez. II, 5 novembre 2010, n. 41649 L’ESTREMITÀ INFERIORE DEL CONCETTO DI IDONEITÀ: L’INIDONEITÀ Cass. pen., sez. II, 19 ottobre 2010, n. 41405 L’ESTREMITÀ INFERIORE. L’INESISTENZA DELL’OGGETTO CASS. PEN., SEZ. V, 4 GIUGNO 2010, N. 35827 02. LA SOGLIA DELLA NON PUNIBILITÀ.ESECUZIONE-PREPARAZIONE. L’UNIVOCITÀ Cass. Pen., sez. IV, 17 settembre 2010, n. 36820 (criterio generale) Cass. Pen. sez. II, 21 settembre 2011, n. 36536 (rapina) Cass. Pen., sez. III, 11 maggio 2011, n. 23094 (violenza sessuale – atti osceni in luogo pubblico) ESEMPLIFICAZIONE DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO - ART. 624-625 Il furto nei supermercati. Il criterio della linea di cassa versus quello del controllo Il criterio della linea di cassa Cass. pen., sez. V, 19 gennaio 2011, n. 7086 Cass. Pen., sez. V, 13 luglio 2010, n. 37242 Il criterio del controllo Cass. Pen., sez. IV, 22 settembre 2010, n. 38534 03. DESISTENZA E TENTATIVO Cass. Cass. Cass. Cass. Pen., sez. V, 17 maggio 2011, n. 36422 Pen., sez. VI, 20 dicembre 2011, n. 203 Pen., sez. VI, 11 ottobre 2011, n. 40678 Pen., sez. IV, 24 giugno 2010, n. 32145 Cass. pen., sez. V, 3 giugno 2010, n. 32742 04. DOLO DEL TENTATIVO (EVENTUALE – ALTERNATIVO) Cass. Pen., sez. I, 7 luglio 2011, n. 30466 Cass. pen., sez. V, 31 maggio 2011, n. 32100 Cass. Pen., sez. I, 22 settembre 2010, n. 37516 (dolo alternativo) 00. LINEE GENERALI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ (C.D. GIURISPRUDENZA SCIENTIFICA) Cass. pen., sez. II, 15 giugno 2010, n. 28213 … VIOLAZIONE DELL'ART. 56 C.P. (motivo sub 2): in via di stretto diritto, in ordine ai principi applicabili in tema di tentativo, va affermato quanto segue. L'art. 56 c.p., disciplina il tentativo nei delitti e, essendo una fattispecie autonoma rispetto al reato consumato (ex plurimis Cass. 13/6/2001 riv 220330), richiede, come tutti i reati, la sussistenza sia dell'elemento soggettivo che oggettivo. L'elemento soggettivo è identico al dolo del reato che il soggetto agente si propone di compiere. L'elemento oggettivo, invece, presenta spiccate peculiarità in quanto ruota intorno a tre concetti: - l'idoneità degli atti; - l'univocità degli atti; - il mancato compimento dell'azione o il mancato verificarsi dell'evento. La linea di demarcazione fra la semplice intenzione non punibile (secondo il vecchio brocardo cogitationis poenam nemo patitur) e quella punibile si snoda proprio attraverso l'esatta comprensione dei suddetti principi. Una premessa di natura sistematica: sebbene l'art. 56 c.p. sia l'unica norma che disciplini espressamente il tentativo, tuttavia, utili argomenti si possono trarre, ai fini sistematici, anche dall'art. 115 c.p. a norma del quale "qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso, nessuna di essa è punibile per il solo fatto dell'accordo". La suddetta norma, evidenzia, quindi, in modo plastico, il principio secondo il quale anche un semplice accordo a commettere un delitto (e, quindi, a fortiori, il semplice averlo pensato) non è punibile (salva l'applicazione della misura di sicurezza) ponendosi all'estremo opposto del delitto consumato. Ma è proprio fra questi due estremi, ossia fra la semplice cogitatio o accordo (non punibile) ed il delitto consumato che si colloca la problematica del delitto tentato che consiste, appunto, nello stabilire quando un'azione, avendo superato la soglia della mera cogitatio, pur non avendo raggiunto il suo scopo criminoso, dev'essere ugualmente punibile. Il codice penale del 1889 (cd. codice Zanardelli), influenzato dal codice napoleonico, all'art. 61, punendo "colui che, al fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l'esecuzione", poneva la soglia di punibilità del delitto programmato nel momento in cui l'agente avesse cominciato l'esecuzione dell'azione: da qui, la distinzione fra atti preparatori non punibili ed atti di esecuzione punibili. La distinzione, però, creò notevoli problemi interpretativi tanto che il legislatore del 1930 peraltro anche per precise ragioni ideologiche - abbandonò espressamente il suddetto criterio, introducendo l'attuale art. 56 c.p. che ruota intorno a due criteri: l'idoneità e la inequivocità degli atti compiuti dall'agente, nel senso che solo ove l'azione presenti le suddette caratteristiche, l'agente può essere punito a titolo di tentativo. Il dibattito (dottrinale e giurisprudenziale), però, si è riacutizzato perchè, mentre prima la domanda era quali fossero i criteri per stabilire la differenza fra atti preparatori (non punibili) ed atti di esecuzione (punibili), ora la questione consiste nell'individuare la linea di confine che separa il semplice accordo (o la mera cogitatio), non punibile, dagli atti idonei inequivoci, punibili. In ordine al concetto di idoneità degli atti (e non del mezzo come prescriveva il codice Zanardelli), l'opinione maggioritaria sia della dottrina che della stessa giurisprudenza di questa Corte, è alquanto compatta nel ritenere che un atto si può ritenere idoneo quando, valutato ex ante ed in concreto (cd. criterio della prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze conosciute e conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo (ed criterio di valutazione su base parziale: ex plurimis Cass. 9/12/1996, Tansino, rv 206562), il giudice, sulla base della comune esperienza dell'uomo medio, possa ritenere che quegli atti indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei - erano tali da ledere, ove portati a compimento, il bene giuridico tutelato dalla norma violata: ex plurimis Cass. 40058/2008 riv 241649 (in motivazione) - Cass. 43255/2009 riv 245721 - Cass. 27323/2008 riv 240736 - Cass. 34242/2009 riv 244915. Tanto risulta confermato anche dall'art. 49 c.p., comma 2 che è la norma speculare dell'art. 56 c.p. nella parte in cui dispone la non punibilità per l'inidoneità dell'azione. Più controversa è la nozione di univocità degli atti. Secondo una prima tesi "anche gli atti preparatori possono configurare l'ipotesi del tentativo, allorquando essi rivelino, sulla base di una valutazione ex ante e indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei, l'adeguatezza causale nella sequenza operativa che conduce alla consumazione del delitto e l'attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto, dimostrando contemporaneamente, per la loro essenza ed il contesto nel quale s'inseriscono, l'intenzione dell'agente di commettere il delitto": Cass. 27323/2008 riv. 240736 - Cass. 43255/2009 Rv. 245720 "L'atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo punibile, quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità, sulla base di una valutazione "ex ante" e in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato sia univocamente diretto" - Cass. 40702/2009 Rv. 245123. E' la cd. tesi soggettiva in base alla quale, appunto, la prova del requisito dell'univocità dell'atto può essere raggiunta non solo sulla base dell'atto in sè considerato ma anche aliunde e, quindi, anche sulla base di semplici atti preparatori qualora rivelino la finalità che l'agente intendeva perseguire. Ad avviso, invece, di un'altra tesi, "gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un reato possono essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte, come inizio di esecuzione, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata, in quanto la univocità degli atti indica non un parametro probatorio, ma un criterio di essenza e una caratteristica oggettiva della condotta; ne consegue che non sono punibili, a titolo di tentativo, i meri atti preparatori": Cass. 9411/2010 Rv. 246620 - Cass. 40058/2008 cit. - Cass. 36283/2003 riv 228310 - Cass. 43406/2001 riv 220144. "Se è vero, infatti, che il legislatore del 1930, obbedendo a sollecitazioni politiche dell'epoca, aveva ritenuto di allargare l'area del tentativo punibile redigendo il testo dell'art. 56 c.p., non è men vero che gran parte della dottrina e della giurisprudenza hanno dimostrato l'illusorietà del proposito che, con quel mezzo, si intendeva attuare. Ciò perchè atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto possono essere esclusivamente atti esecutivi, in quanto se l'idoneità di un atto può denotare al più la potenzialità dell'atto a conseguire una pluralità di risultati, soltanto dall'inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione univoca dell'atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall'agente": Corte Cost. 177/1980. E' la cd. tesi oggettiva secondo la quale gli atti possono essere considerati univoci ogni qualvolta, valutati in quel singolo contesto, rivelano, in sè e per sè considerati, l'intenzione dell'agente (ed criterio di essenza). Per questa tesi, quindi, "la "direzione non equivoca" indica, infatti, non un parametro probatorio, bensì un criterio di essenza e deve essere intesa come una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per sè rivelare l'intenzione dell'agente. L'univocità, intesa come criterio di "essenza", non esclude che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, ma impone soltanto che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettività per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e l'id quod plerumque accidit, l'intenzione, il fine perseguito dall'agente": Cass. 40058/2008 cit.. E' evidente il punto di frizione fra le due tesi. Infatti, mentre per la tesi soggettiva, l'univocità va valutata sulla base delle circostanze concrete (con la conseguenza che si determina, sul piano della repressione penale, un arretramento della soglia di punibilità, in quanto anche gli atti in sè preparatori, possono, a determinate condizioni, essere considerati univoci), al contrario per la tesi oggettiva, l'univocità coincide con l'inizio degli atti tipici di un determinato reato (con conseguente spostamento in avanti della soglia di punibilità, escludendosi l'univocità negli atti meramente preparatori). Questa Corte ritiene che la tesi ed oggettiva non sia condivisibile perchè, riproponendo, di fatto, l'antica problematica di cui si discuteva sotto il codice Zanardelli, opera un'interpretazione abrogans della nuova normativa, lasciando insoluti, in specie per i reati a forma libera, quegli stessi interrogativi che avevano indotto il legislatore del 1930 a rivedere radicalmente l'intera normativa. Infatti, nella Relazione al progetto definitivo al codice penale, si trova scritto: "innovazioni radicali sono state introdotte nella disciplina del tentativo, sopprimendo la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi". Si ritiene, quindi, che la tesi più corretta sia quella soggettiva per i motivi di seguito indicati. Il punto di partenza, per una corretta esegesi dell'art. 56 c.p., non può che essere il dato storico: come si è detto, fu proprio per evitare le incertezze interpretative derivanti dall'individuare quali fossero i mezzi che potevano essere considerati inizio dell'esecuzione criminosa (problema che diventava quasi irresolubile nei reati a forma libera) che il legislatore del 1930 s'indusse ad abbandonare la formula che parlava di "cominciamento" "mezzi" "esecuzione". Nel nuovo art. 56 c.p., infatti, non si parla più di mezzi ma di atti idonei (in contrapposizione agli atti inidonei di cui all'art. 49 c.p., comma 2) e di azione che non si compie o di evento che non si verifica. La terminologia adoperata dal legislatore è molto importante: una cosa è parlare di cominciamento dell'esecuzione con mezzi idonei, altro è parlare di azione non compiuta e di atti idonei a commettere il delitto. E' evidente, infatti, l'arretramento della soglia di punibilità, laddove si consideri che i termini "azione" ed "atti", indicano, proprio a livello semantico, una maggiore estensione rispetto alla più ristretta categoria degli atti esecutivi. In altri termini, il legislatore ha focalizzato la sua attenzione non solo sull'esecuzione ma anche sull'azione. Ora, siccome l'azione è quell'attività umana composta da uno o più atti, ne deriva, proprio sul piano logico (oltre che semantico) che il tentativo è punibile non solo quando l'esecuzione è compiuta ma anche quando l'agente ha compiuto uno o più atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo inequivoco, la sua volontà di voler compiere un determinato delitto. Sul punto, è lo stesso art. 56 c.p. che offre utili spunti di riflessione nella parte in cui dispone che il delitto tentato si verifica in due ipotesi: 1) quando l'azione non si compie (cd. tentativo non compiuto); 2) quando l'evento non si verifica (cd. tentativo compiuto). Sebbene si sia soliti attribuire poca importanza alla suddetta distinzione, in quanto la si assimila a quella del codice Zanardelli fra "delitto tentato" e delitto mancato" (peraltro sanzionato più gravemente), il dato di fatto semanticamente rilevante è che non si parla di "delitto tentato o mancato" ma di azione non compiuta e di evento non verificatosi. Il suddetto dato non può non avere una sua rilevanza giuridica. Infatti, quando la legge adopera la locuzione "evento che non si verifica" è chiaro che ipotizza il caso dell'agente che ha compito l'esecuzione degli atti tipici del delitto programmato, ma che questo non si è verificato per un fatto indipendente dalla sua volontà (ad es. l'agente ha sparato a Tizio ma questi, all'ultimo momento, casualmente, si è spostato, facendo, quindi, fallire l'attentato). Se, quindi, la legge ha già previsto la punibilità dell'esecuzione degli atti di un delitto, quando prevede la punibilità anche dell'azione, necessariamente non può che far riferimento ad un qualcosa che precede l'esecuzione vera e propria, ossia quell'insieme di atti (o semplice atto) che, sebbene non esecutivi, valutati unitariamente, abbiamo l'astratta attitudine a produrre il delitto programmato. L'azione, lo si ripete, è un termine molto ampio ed indica il risultato finale del compimento di un atto o più atti, e contiene, in sè, tutti gli elementi che consentono di affermare, sia pure ex posi, che quell'azione era idonea, ove portata a termine (rectius: eseguita) a perpetrare il delitto programmato. Ciò, quindi, permette di affermare che ci si trova di fronte ad un tentativo punibile in tutti quei casi in cui l'agente abbia approntato e completato il suo piano criminoso in ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria ossia alla concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice. Quanto appena detto, trova una conferma negli speculari commi terzo e quarto dell'art. 56 che, ancora una volta, confermano i due livelli del tentativo punibile (sanzionati in modo differente): la desistenza dell'azione nel senso sopra specificato, nel quale caso, la norma prevede che l'agente risponde degli atti compiuti solo se questi costituiscano un reato diverso; l'impedimento, da parte dell'agente, dell'evento determinato dal compimento degli atti esecutivi veri e propri, nel quale caso, l'agente risponde pur sempre del tentativo, sebbene con una diminuzione della pena. E' evidente, quindi, che, anche a livello sanzionatorio, la legge ha voluto distinguere le due tipologie di tentativi che, se non vengono attuati per cause indipendenti dalla volontà dell'agente, vengono puniti allo stesso modo (primo comma), mentre se il delitto non si verifica per la resipiscenza dell'agente, vengono sanzionati diversamente rendendo, pertanto, palese che l'azione che non si compie (o dalla quale l'agente desiste) è un qualcosa che precede l'evento che non si verifica (o compie). Ed ulteriore conferma può trarsi dall'art. 49 c.p., comma 2 (che rappresenta, per così dire, il lato speculare e contrario dell'art. 56 c.p.) che esclude la punibilità per "l'inidoneità dell'azione" non degli atti esecutivi: il che significa che, per stabilire se ci si trova di fronte ad un tentativo punibile, a parte l'ipotesi del compimento degli atti esecutivi veri e propri (ipotesi considerata espressamente, come si è detto, dall'art. 56 c.p., comma 1, ultima parte), occorre aver riguardo più che all'idoneità dei singoli atti, all'idoneità dell'azione valutata nel suo complesso così come appare cristallizzata in un determinato momento storico, tenuto conto di tutti gli elementi esterni ed interni, conosciuti e conoscibili. Solo se l'azione viene valutata unitariamente, può aversi un quadro d'insieme dei singoli atti che, se valutati singolarmente, possono anche sembrare in sè inidonei, ma che se inseriti in un più ampio contesto, appaiono per quelli che sono, ossia dei singoli anelli di una più complessa ed unica catena, l'uno funzionale all'altro per il compimento dell'azione finale destinata a sfociare nella consumazione del delitto programmato. Si può, quindi, concludere affermando che il legislatore del 1930, arretrando la soglia di punibilità del tentativo, ha completamente ribaltato l'impostazione del codice Zanardelli in quanto ora sono punibili non solo gli atti di esecuzione veri e propri ma anche gli atti ad essi antecedenti che, per comodità descrittiva, si possono continuare a chiamare ancora atti preparatori, a condizione però che posseggano quelle caratteristiche si cui si è detto. Si deve, pertanto, affermare il seguente principio di diritto: "ai fini del tentativo punibile, assumono rilevanza penale non solo gli atti esecutivi veri propri del delitto pianificato, ma anche quegli atti che, pur essendo classificabili come atti preparatori, tuttavia, per le circostanze concrete (di luogo - di tempo - di mezzi ecc.) fanno fondatamente ritenere che l'azione - considerata come l'insieme dei suddetti atti - abbia la rilevante probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che l'agente si trovi ormai ad un punto di non ritorno dall'imminente progettato delitto e che il medesimo sarà commesso a meno che non risultino percepibili incognite che pongano in dubbio tale eventualità, dovendosi, a tal fine, escludere solo quegli eventi imprevedibili non dipendenti dalla volontà del soggetto agente atteso che costui ha solo un modo per dimostrare di avere receduto dal proposito criminoso: ossia la desistenza volontaria (art. 56 c.p., comma 3) o il recesso attivo (art. 56 c.p., comma 4)". … P.Q.M. RIGETTA il ricorso e CONDANNA il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Si provveda ai sensi dell'art. 94 disp. att. c.p.p.. Così deciso in Roma, il 15 giugno 2010. Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2010 Cass. Pen. sez. II, 21 settembre 2011, n. 36536 Con sentenza del 1/12/2010, la Corte di Appello di Bari, in riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale di Foggia in data 2/12/2002, dichiarava n.d.p. per prescrizione nei confronti di D.M. in ordine ai reati di porto e detenzione di una pistola con matricola abrasa (capo sub b), ricettazione della suddetta arma (capo sub e) e resistenza nei confronti di agenti di P.G. (capo sub d) e rideterminava la pena per il residuo reato di tentata rapina in anni tre di reclusione ed Euro 1.000,00 di multa. p. 2. Avverso la suddetta sentenza, l'imputato, in proprio, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi: 1. violazione degli artt. 56 - 628 c.p.: sostiene il ricorrente che la ricostruzione della Corte territoriale sarebbe del tutto illogica e meramente ipotetica essendo "ben lontana dal rappresentare l'unica direzione finalistica degli atti compiuti dal ricorrente e dagli altri imputati". In altri termini, ad avviso del ricorrente, gli atti compiuti non avrebbero nè il requisito dell'idoneità nè quello della univocità rispetto al ritenuto delitto di tentata rapina aggravata, laddove tutto conclamava che, in realtà, era stato perpetrato un semplice furto o, addirittura un semplice danneggiamento come ritenuto dalla sentenza del Tribunale di Foggia - confermata dalla stessa Corte di appello di Bari con sentenza passata in giudicato - nei confronti dei complici giudicati separatamente. … Violazione degli artt. 56 - 628 c.p.: il fatto è stato ricostruito dalla Corte territoriale nei seguenti termini: nella notte del 7/6/1995, i C.C. di Cerignola predisposero "un servizio di appostamento ed osservazione dopo che il direttore del locale Ufficio postale aveva denunciato di avere trovato le sbarre della finestra della sua stanza, dove era custodita la cassaforte,segate e riposte in stato da sembrare integre tramite l'apposizione di stucco e nastro adesivo dello stesso colore giallo dell'inferriata. Costoro notavano che la notte del 7/6/95, successiva all'effrazione, tre giovani, riconosciuti poi negli imputati per gli stessi fatti il D'. ed il M. venivano condannati in separato giudizio - e ben noti alle forze dell'ordine che li avevano controllati più volte mentre erano in reciproca compagnia, arrivavano nei pressi dell'ufficio postale a bordo di un'autovettura Mercedes e, dopo aver aperto un cancello scorrevole e scavalcato un muro alto circa due metri portando con sè due buste di plastica bianche del tipo di quelle usate per la spesa, si avvicinavano alla finestra in questione e cercavano (proprio il D.) di divellerla; in quel momento i C.C. intervenivano e, mentre gli altri due si davano a precipitosa fuga abbandonando le buste di plastica, riuscivano invece a bloccare l'odierno appellante che veniva immediatamente tratto in arresto". La Corte territoriale ha ritenuto che, nella suddetta condotta fossero ravvisabili gli estremi del tentativo di rapina aggravata sulla base della seguente motivazione: "Ed invero, il possesso delle due pistole, di cui una giocattolo ma priva del tappo rosso, dei due passamontagna, della scatola di vernice gialla (del medesimo colore dell'inferriata) e dello stucco, unitamente alle due spatole per posarlo, non trova altra diversa spiegazione se non nella ricostruzione dell'accaduto operata dal Tribunale. I tre si recarono sul posto in piena notte e procedettero a tirare l'inferriata, che essi stessi in precedenza avevano segato, in modo che due di loro potessero penetrare all'interno della stanza del direttore dove, all'apertura dell'Ufficio postale, travisati con i passamontagna ed armi in mano, lo avrebbero costretto ad aprire la cassaforte ed a consegnare loro il denaro ivi contenuto; lo stucco colorato, gli arnesi necessari ad applicarlo e la vernice dello stesso colore giallo dell'inferriata dovevano servire all'altro complice a richiuderla dall'esterno per dare ai condomini che si affacciavano in quel cortile l'apparenza che tutto fosse in ordine. Tutta l'operazione era stata congegnata nei termini suesposti, perchè altrimenti non si spiegherebbe logicamente perchè tre noti malviventi si fossero avvicinati all'ufficio postale tutti insieme muniti dell'armamentario che fu sequestrato loro ed il D. stesso avesse tirato (o tentato di tirare quando intervennero i CC) l'inferriata della stanza del direttore. La condotta dell'imputato, quindi, non solo era idonea ma altresì era univocamente orientata a commettere la rapina, che l'intervento dei C.C. valse ad impedire". p. 2.1. Il ricorrente censura la suddetta motivazione osservando che: "in realtà, tali osservazioni sono del tutto illogiche e non danno atto delle possibili ricostruzioni alternative, molto più plausibili, degli accadimenti svoltisi nella notte del 7 giugno '95. Innanzitutto, va rilevato che è stato accertato che le sbarre della finestra della stanza del direttore dell'ufficio postale furono tagliate la notte precedente a quella in cui avvenne l'arresto del sottoscritto e dei propri correi. Non si comprende, pertanto, perché l'odierno ricorrente e i propri complici non avrebbero dovuto effettuare l'ipotizzata rapina il giorno precedente ma, nell'impostazione accusatoria accolta dall'impugnata sentenza, abbiano aspettato non una ma ben due notti per tentare di porre in essere l'ipotizzata rapina. E', invece, logicamente infinitamente più plausibile che il sottoscritto e i propri correi si siano recati la mezzanotte del 7 giugno 1995 presso l'ufficio postale di Cerignola al fine di effettuare un furto, anzichè attendere otto ore l'arrivo del direttore dell'ufficio postale per rapinarlo. E' davvero incredibile, inoltre, ipotizzare che dei rapinatori, dopo aver posto in essere il contestato reato, possano perdere tempo a richiudere le sbarre segate della finestra e a riverniciarle, invece di fuggire a gambe levate E', invece, di evidenza lampante che lo stucco colorato, gli arnesi necessari ad applicarlo e le vernice dello stesso colore giallo dell'inferriata dovessero servire sì a richiudere la finestra dall'esterno, ma dopo che il sottoscritto e i propri complici avessero posto in essere il furto in tutta tranquillità nella notte del 7 giugno". Aggiunge il ricorrente che il possesso delle armi e di strumenti di camuffamento non erano sufficienti a connotare l'azione come diretta al compimento di una rapina in presenza di quegli evidenziati elementi fattuali che deponevano nel senso del furto. p. 2.2. In via di stretto diritto, in ordine ai principi applicabili in tema di tentativo, va affermato quanto segue. … La linea di demarcazione fra la semplice intenzione non punibile (secondo il vecchio brocardo cogitationis poenam nemo patitur) e quella punibile si snoda proprio attraverso l'esatta comprensione dei suddetti principi. Una premessa di natura sistematica: sebbene l'art. 56 c.p. sia l'unica norma che disciplini espressamente il tentativo, tuttavia, utili argomenti si possono trarre, ai fini sistematici, anche dall'art. 115 c.p. a norma del quale "qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso, nessuna di essa è punibile per il solo fatto dell'accordo". La suddetta norma, evidenzia, quindi, in modo plastico, il principio secondo il quale anche un semplice accordo a commettere un delitto (e, quindi, a fortiori, il semplice averlo pensato) non è punibile (salva l'applicazione della misura di sicurezza) ponendosi all'estremo opposto del delitto consumato. Ma è proprio fra questi due estremi, ossia fra la semplice cogitatio o accordo (non punibile) ed il delitto consumato che si colloca la problematica del delitto tentato che consiste, appunto, nello stabilire quando un'azione, avendo superato la soglia della mera cogitatio, pur non avendo raggiunto il suo scopo criminoso, dev'essere ugualmente punibile. Il codice penale del 1889 (cd. codice Zanardelli), influenzato dal codice napoleonico, all'art. 61, punendo "colui che, al fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l'esecuzione", poneva la soglia di punibilità del delitto programmato nel momento in cui l'agente avesse cominciato l'esecuzione dell'azione: da qui, la distinzione fra atti preparatori non punibili ed atti di esecuzione punibili. La distinzione, però, creò notevoli problemi interpretativi tanto che il legislatore del 1930 - peraltro anche per precise ragioni ideologiche abbandonò espressamente il suddetto criterio, introducendo l'attuale art. 56 c.p. che ruota intorno a due criteri: l'idoneità e la inequivocità degli atti compiuti dall'agente, nel senso che solo ove l'azione presenti le suddette caratteristiche, l'agente può essere punito a titolo di tentativo. Il dibattito (dottrinale e giurisprudenziale), però, si è riacutizzato perchè, mentre prima, la domanda era quali fossero i criteri per stabilire la differenza fra atti preparatori (non punibili) ed atti di esecuzione (punibili), ora la questione consiste nell'individuare la linea di confine che separa il semplice accordo (o la mera cogitatio), non punibile, dagli atti idonei inequivoci, punibili. In ordine al concetto di idoneità degli atti (e non del mezzo come prescriveva il codice Zanardelli), l'opinione maggioritaria sia della dottrina che della stessa giurisprudenza di questa Corte, è alquanto compatta nel ritenere che un atto si può ritenere idoneo quando, valutato ex ante ed in concreto (cd. criterio della prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze conosciute e conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo (ed criterio di valutazione su base parziale: ex plurimis Cass. 9/12/1996, Tansino, rv 206562), il giudice, sulla base della comune esperienza dell'uomo medio, possa ritenere che quegli atti indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei - erano tali da ledere, ove portati a compimento, il bene giuridico tutelato dalla norma violata: ex plurimis Cass. 40058/2008 riv 241649 (in motivazione) - Cass. 43255/2009 riv 245721 - Cass. 27323/2008 riv 240736 - Cass. 34242/2009 riv 244915. Tanto risulta confermato anche dall'art. 49 c.p., comma 2 che è la norma speculare dell'art. 56 c.p. nella parte in cui dispone la non punibilità per l'inidoneità dell'azione. Più controversa è la nozione di univocità degli atti. Secondo una prima tesi "anche gli atti preparatori possono configurare l'ipotesi del tentativo, allorquando essi rivelino, sulla base di una valutazione ex ante e indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei, l'adeguatezza causale nella sequenza operativa che conduce alla consumazione del delitto e l'attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto, dimostrando contemporaneamente, per la loro essenza ed il contesto nel quale s'inseriscono, l'intenzione dell'agente di commettere il delitto": Cass. 27323/2008 riv. 240736 - Cass. 43255/2009 Rv. 245720 "L'atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo punibile, quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità, sulla base di una valutazione "ex ante" e in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato sia univocamente diretto" - Cass. 40702/2009 Rv. 245123. E' la cd. tesi soggettiva in base alla quale, appunto, la prova del requisito dell'univocità dell'atto può essere raggiunta non solo sulla base dell'atto in sè considerato ma anche aliunde e, quindi, anche sulla base di semplici atti preparatori qualora rivelino la finalità che l'agente intendeva perseguire. Ad avviso, invece, di un'altra tesi, "gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un reato possono essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte, come inizio di esecuzione, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata, in quanto la univocità degli atti indica non un parametro probatorio, ma un criterio di essenza e una caratteristica oggettiva della condotta; ne consegue che non sono punibili, a titolo di tentativo, i meri atti preparatori": Cass. 9411/2010 Rv. 246620 - Cass. 40058/2008 cit. - Cass. 36283/2003 riv 228310 - Cass. 43406/2001 riv 220144. "Se è vero, infatti, che il legislatore del 1930, obbedendo a sollecitazioni politiche dell'epoca, aveva ritenuto di allargare l'area del tentativo punibile redigendo il testo dell'art. 56 c.p., non è men vero che gran parte della dottrina e della giurisprudenza hanno dimostrato l'illusorietà del proposito che, con quel mezzo, si intendeva attuare. Ciò perchè atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto possono essere esclusivamente atti esecutivi, in quanto se l'idoneità di un atto può denotare al più la potenzialità dell'atto a conseguire una pluralità di risultati, soltanto dall'inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione univoca dell'atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall'agente": Corte Cost. 177/1980. E' la cd. tesi oggettiva secondo la quale gli atti possono essere considerati univoci ogni qualvolta, valutati in quel singolo contesto, rivelano, in sè e per sè considerati, l'intenzione dell'agente (ed criterio di essenza). Per questa tesi, quindi, "la "direzione non equivoca" indica, infatti, non un parametro probatorio, bensì un criterio di essenza e deve essere intesa come una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per sè rivelare l'intenzione dell'agente. L'univocità, intesa come criterio di "essenza", non esclude che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, ma impone soltanto che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettività per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e l'id quod plerumque accidit, l'intenzione, il fine perseguito dall'agente": Cass. 40058/2008 cit.. E' evidente il punto di frizione fra le due tesi. Infatti, mentre per la tesi soggettiva, l'univocità va valutata sulla base delle circostanze concrete (con la conseguenza che si determina, sul piano della repressione penale, un arretramento della soglia di punibilità, in quanto anche gli atti in sè preparatori, possono, a determinate condizioni, essere considerati univoci), al contrario per la tesi oggettiva, l'univocità coincide con l'inizio degli atti tipici di un determinato reato (con conseguente spostamento in avanti della soglia di punibilità, escludendosi l'univocità degli atti meramente preparatori). Questa Corte ritiene che la tesi ed oggettiva non sia condivisibile perchè, riproponendo, di fatto, l'antica problematica di cui si discuteva sotto il codice Zanardelli, opera un'interpretazione abrogans della nuova normativa, lasciando insoluti, in specie per i reati a forma libera, quegli stessi interrogativi che avevano indotto il legislatore del 1930 a rivedere radicalmente l'intera normativa. Infatti, nella Relazione al progetto definitivo al codice penale, si trova scritto: "innovazioni radicali sono state introdotte nella disciplina del tentativo, sopprimendo la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi". Si ritiene, quindi, che la tesi più corretta sia quella soggettiva per i motivi di seguito indicati. Il punto di partenza, per una corretta esegesi dell'art. 56 c.p., non può che essere il dato storico: come si è detto, fu proprio per evitare le incertezze interpretative derivanti dall'individuare quali fossero i mezzi che potevano essere considerati inizio dell'esecuzione criminosa (problema che diventava quasi irresolubile per i reati a forma libera) che il legislatore del 1930 s'indusse ad abbandonare la formula che parlava di "cominciamento" "mezzi" "esecuzione". Nel nuovo art. 56 c.p., infatti, non si parla più di mezzi ma di atti idonei (in contrapposizione agli atti inidonei di cui all'art. 49 c.p., comma 2) e di azione che non si compie o di evento che non si verifica. La terminologia adoperata dal legislatore è molto importante: una cosa è parlare di cominciamento dell'esecuzione con mezzi idonei, altro è parlare di azione non compiuta e di atti idonei a commettere il delitto. E' evidente, infatti, l'arretramento della soglia di punibilità, laddove si consideri che i termini "azione" ed "atti", indicano, proprio a livello semantico, una maggiore estensione rispetto alla più ristretta categoria degli atti esecutivi. In altri termini, il legislatore ha focalizzato la sua attenzione non solo sull'esecuzione ma anche sull'azione. Ora, siccome l'azione è quell'attività umana composta da uno o più atti, ne deriva, proprio sul piano logico (oltre che semantico) che il tentativo è punibile non solo quando l'esecuzione è compiuta ma anche quando l'agente ha compiuto uno o più atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo inequivoco, la sua volontà di voler compiere un determinato delitto. Sul punto, è lo stesso art. 56 c.p. che offre utili spunti di riflessione nella parte in cui dispone che il delitto tentato si verifica in due ipotesi: 1) quando l'azione non si compie (cd. tentativo non compiuto); 2) quando l'evento non si verifica (cd. tentativo compiuto). Sebbene si sia soliti attribuire poca importanza alla suddetta distinzione, in quanto la si assimila a quella del codice Zanardelli fra "delitto tentato" e delitto mancato" (peraltro sanzionato più gravemente), il dato di fatto lessicalmente rilevante è che non si parla di "delitto tentato o mancato" ma di azione non compiuta e di evento non verificatosi. Il suddetto dato non può non avere una sua rilevanza giuridica. Infatti, quando la legge adopera la locuzione "evento che non si verifica" è chiaro che ipotizza il caso dell'agente che ha compiuto l'esecuzione degli atti tipici del delitto programmato, che, però, non si è verificato per un fatto indipendente dalla sua volontà (ad es. l'agente ha sparato a Tizio ma questi, all'ultimo momento, casualmente, si è spostato, facendo, quindi, fallire l'attentato). Se, quindi, la legge ha già previsto la punibilità dell'esecuzione degli atti di un delitto, quando prevede la punibilità anche dell'azione, necessariamente non può che far riferimento ad un qualcosa che precede l'esecuzione vera e propria, ossia quell'insieme di atti (o semplice atto) che, sebbene non esecutivi, valutati unitariamente, abbiano l'astratta attitudine a produrre il delitto programmato. L'azione, lo si ripete, è un termine molto ampio ed indica il risultato finale del compimento di un atto o più atti, e contiene, in sè, tutti gli elementi che consentono di affermare, sia pure ex post, che quell'azione era idonea, ove portata a termine (rectius: eseguita) a perpetrare il delitto programmato. Ciò, quindi, permette di affermare che ci si trova di fronte ad un tentativo punibile in tutti quei casi in cui l'agente abbia approntato e completato il suo piano criminoso in ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria ossia alla concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice. Quanto appena detto, trova una conferma negli speculari commi terzo e quarto dell'art. 56 che, ancora una volta, confermano i due livelli del tentativo punibile (sanzionati in modo differente): la desistenza dell'azione nel senso sopra specificato, nel quale caso, la norma prevede che l'agente risponde degli atti compiuti solo se questi costituiscano un reato diverso; l'impedimento, da parte dell'agente, dell'evento determinato dal compimento degli atti esecutivi veri e propri, nel quale caso, l'agente risponde pur sempre del tentativo, sebbene con una diminuzione della pena. E' evidente, quindi, che, anche a livello sanzionatorio, la legge ha voluto distinguere le due tipologie di tentativi che, se non vengono attuati per cause indipendenti dalla volontà dell'agente, vengono puniti allo stesso modo (primo comma), mentre se il delitto non si verifica per la resipiscenza dell'agente, vengono sanzionati diversamente rendendo, pertanto, palese che l'azione che non si compie (o dalla quale l'agente desiste) è un qualcosa che precede l'evento che non si verifica (o compie). Ed ulteriore conferma può trarsi dall'art. 49 c.p., comma 2 (che rappresenta, per così dire, il lato speculare e contrario dell'art. 56 c.p.) che esclude la punibilità per "l'inidoneità dell'azione" non degli atti esecutivi: il che significa che, per stabilire se ci si trova di fronte ad un tentativo punibile, a parte l'ipotesi del compimento degli atti esecutivi veri e propri (ipotesi considerata espressamente, come si è detto, dall'art. 56 c.p., comma 1, ultima parte)" occorre aver riguardo più che all'idoneità dei singoli atti, all'idoneità dell'azione valutata nel suo complesso così come appare cristallizzata in un determinato momento storico, tenuto conto di tutti gli elementi esterni ed interni, conosciuti e conoscibili. Solo se l'azione viene valutata unitariamente, può aversi un quadro d'insieme dei singoli atti che, se valutati singolarmente, possono anche sembrare in sè inidonei, ma che se inseriti in un più ampio contesto, appaiono per quelli che sono, ossia dei singoli anelli di una più complessa ed unica catena, l'uno funzionale all'altro per il compimento dell'azione finale destinata a sfociare nella consumazione del delitto programmato. Si può, quindi, concludere affermando che il legislatore del 1930, arretrando la soglia di punibilità del tentativo, ha completamente ribaltato l'impostazione del codice Zanardelli in quanto ora sono punibili non solo gli atti di esecuzione veri e propri ma anche gli atti ad essi antecedenti che, per comodità descrittiva, si possono continuare a chiamare ancora atti preparatori, a condizione però che posseggano quelle caratteristiche di cui si è detto. Si deve, pertanto, affermare il seguente principio di diritto: "ai fini del tentativo punibile, assumono rilevanza penale non solo gli atti esecutivi veri propri del delitto pianificato, ma anche quegli atti che, pur essendo classificabili come atti preparatori, tuttavia, per le circostanze concrete (di luogo - di tempo - di mezzi ecc.) fanno fondatamente ritenere che l'azione considerata come l'insieme dei suddetti atti - abbia la rilevante probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che l'agente si trovi ormai ad un punto di non ritorno dall'imminente progettato delitto e che il medesimo sarà commesso a meno che non risultino percepibili incognite che pongano in dubbio tale eventualità, dovendosi, a tal fine, escludere solo quegli eventi imprevedibili non dipendenti dalla volontà del soggetto agente atteso che costui ha solo un modo per dimostrare di avere receduto dal proposito criminoso: ossia la desistenza volontaria (art. 56 c.p., comma 3) o il recesso attivo (art. 56 c.p., comma 4)". … P.Q.M. RIGETTA il ricorso e CONDANNA il ricorrente al pagamento delle spese processuali. 01. ESECUZIONE-PREPARAZIONE. LA SOGLIA DELLA NON PUNIBILITÀ Cass. Pen., sez. V, 17 maggio 2011, n. 36422 Ai fini della punibilità del tentativo, ciò che rileva, dunque, è l'idoneità causale degli atti compiuti al conseguimento dell'obiettivo delittuoso nonchè l'univocità della loro destinazione, da apprezzarsi con valutazione ex ante in rapporto alle circostanze di fatto ed alle modalità della condotta, al di là del generico - e tradizionale - discrimen tra atti preparatori ed atti esecutivi. Di talchè, anche l'atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo punibile nel caso in cui, sul piano oggettivo, abbia la capacità e l'attitudine anzidette (cfr. Cass. sez. 2, 15.6.2010, n. 28219, rv. 247680; id. Cass., sez. 1, 15.1.2010, n. 19511, rv 247197; id. sez. 5,24.9.2009, n. 43255, rv. 245720). Siffatti connotati sono stati, positivamente, riscontrati nella fattispecie in questione ed il relativo apprezzamento, in quanto corretto, supera largamente lo scrutinio di legittimità. Inoltre, il fatto che l'asserita presenza di Carabinieri, cui sarebbe dovuta la mancata attuazione del progetto omicidiario, non risulti confermata da apposite relazioni di servizio o da altra analoga documentazione non assume decisiva rilevanza in favore della tesi difensiva, risultando dallo stesso ricorso che, dei due sottufficiali esaminati come testi sul punto, uno (il m.llo Al.) aveva dichiarato soltanto di "non ricordare" specifici interventi, del cui eventuale svolgimento avrebbe comunque dovuto esservi traccia documentale; e l'altro (il m.llo Be.) aveva riferito che la vittima designata era stata allertata del pericolo che correva e, per questo, i militari avevano prestato particolare attenzione, senza che però notare alcunchè di sospetto giacchè, diversamente, sarebbe stata redatta apposita relazione; il che, a ben vedere, non esclude certamente che i Carabinieri si fossero davvero trovati sul posto (per una qualche ragione del loro servizio, non soggetta a tracciatura) e fossero stati notati dai killer, senza però che della loro presenza i militari avessero avuto percezione tanto da dover effettuare specifici interventi o adottare particolari misure da annotare, poi, in apposita relazione. … P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 maggio 2011. Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2011 Cass. Pen. sez. V, 27 maggio 2011, n. 30139 FATTO Con la sentenza di cui in epigrafe, la CdA di Torino ha parzialmente riformato la pronunzia di primo grado, nei confronti di A. F.. Si legge in sentenza che il predetto, in data (OMISSIS), presso la stazione FFSS di (OMISSIS) si rivolse ad alcuni tassisti chiedendo di essere accompagnato a (OMISSIS). Poichè i suoi interlocutori gli avevano chiesto il pagamento anticipato della corsa, l' A. dette in escandescenze ed, estratta una siringa, eseguì un prelievo del suo sangue venoso, quindi, asserendo di essere affetto da epatite C, minacciò i presenti, punse ad un dito della mano il tassista S.F., puntò la siringa contro il tassista B.S., finendo per imbrattare, con il suo sangue, la vettura di quest'ultimo rivolto ad altro tassista ( Sa.Gi.), esclamò: "ti brucio la macchina", quindi gli sputò addosso e scaraventò un borsone sulla vettura del predetto, danneggiandone il cofano, infine, prese a calci il taxi di Se.St.. DIRITTO Premesso che non esiste un capo D) e che quindi il riferimento a tale capo da parte dell'impugnante è da considerare un mero lapsus calami, va subito detto che la prima censura è infondata; la seconda inammissibile perchè articolata in fatto. Il ricorso pertanto merita rigetto e il ricorrente va condannato alle spese del grado. In tema di tentativo, la idoneità dell'atto non va valutata con riferimento al criterio probabilistico di realizzazione dell'intento delittuoso. Invero, la idoneità altro non è che la possibilità che alla condotta consegua lo scopo che l'agente si propone. Dunque, ferire intenzionalmente la vittima con una siringa contenete sangue infetto, perché prelevato da un soggetto affetto da una malattia - appunto - infettiva, e propagabile attraverso contatto ematico, costituisce atto idoneo a cagionare lesioni. Il fatto che l'evento non si sia verificato, certo, non è dipeso dalla volontà dell'agente, ma da un fattore "esterno", che, nel caso di specie, è riconducibile alla scarsa probabilità che l'infezione si propaghi. Ma, come correttamente ha affermato la CdA, i concetti di probabilità e di possibilità non devono essere sovrapposti. E, per quel che si è detto, la idoneità ha correlazione con il secondo, non con il primo. L'assunto non contraddice affatto il dictum della Corte cost.le, come riportato dal ricorrente, in quanto è di tutta evidenza che l'azione in questione non è "assolutamente inidonea" a cagionare l'evento. D'altra parte, se il contagio vi fosse stato (verificandosi l'eventualità che si realizza -come si apprende- solo nel l'1,8% dei casi), nessuno avrebbe dubitato della sussistenza del nesso causale. Ma ammettere la possibilità della consumazione di un reato di evento ed escludere, in radice, la ipotizzabilità del tentativo rappresenta una contraddizione. …. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Così deciso in Roma, il 27 maggio 2011. Depositato in Cancelleria il 28 luglio 2011 Cass. Pen. sez. VI, 11 ottobre 2011, n. 40678 FATTO 1. Con la ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Palermo, in accoglimento dell'appello proposto da R.G., annullava l'ordinanza del G.i.p. del medesimo Tribunale che, in data 3 giugno 2011, aveva rigettato la richiesta di revoca della misura cautelare degli arresti domiciliari. Il R. era stato sottoposto, con ordinanza del 28 marzo 2011, alla suddetta misura cautelare, perchè gravemente indiziato, in concorso con G.F., del delitto di cui agli artt. 56, 110, 669 c.p. e D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7 conv. L. 12 luglio 1991, n. 203, per aver compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere M.A., amministratore unico della "Supermercati (OMISSIS) s.r.l." a pagare una somma imprecisata di denaro a titolo di "pizzo". In particolare, il R. ed il G. si erano presentati in due occasioni presso il suddetto esercizio commerciale, qualificandosi come "gli amici dell'Acquasanta", così palesando l'interesse di Cosa Nostra, chiedendo di incontrare i titolari e mandando a dire loro che se non volevano incontrarli "stavano commettendo un errore". … Il Tribunale, con il provvedimento indicato in epigrafe, accoglieva il gravame dell'indagato, facendo propri gli argomenti già sviluppati dalla precedente ordinanza del 4 maggio 2011. In particolare, il Tribunale rilevava che la condotta, oggetto di provvisoria contestazione, limitata a richieste di incontri senza ulteriori atti di intimidazione nei successivi 16 mesi, appariva non idonea a sfociare nel reato estorsivo, in base ad una valutazione effettuata sulla scorta del "criterio di prognosi postuma", e comunque non inequivoca espressione della volontà di assoggettare i gestori dell'esercizio commerciale ad estorsione. Il Tribunale aggiungeva che, in ogni caso, anche a voler ravvisare il tentativo di estorsione, doveva ritenersi non punibile la condotta per l'esimente di cui all'art. 56 c.p., comma 3, poichè, dopo gli episodi denunciati risalenti all'ottobre-novembre 2009 - erano trascorsi sedici mesi prima dell'applicazione della misura cautelare nei quali non era stato registrato alcun comportamento di rilevo da parte degli indagati o di altri che potesse essere inteso come pressione funzionale alla realizzazione dell'estorsione. Secondo il Tribunale, la desistenza degli indagati doveva ritenersi volontaria, non rilevando a tal fine la presentazione da parte del M. di una denuncia, posto che non era risultato che i predetti ne avessero avuto conoscenza, il Tribunale riteneva infine che gli atti compiuti fino al momento della desistenza non erano inquadrabili in un reato che legittimasse l'applicazione della misura cautelare coercitiva, anche se aggravato ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7. 2. Avverso la suddetta ordinanza, ricorre per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, denunciando: - l'inosservanza e l'erronea applicazione degli artt. 56 e 629 c.p. e del D.L. n. 152 del 1991, art. 7. L'Ufficio ricorrente contesta le argomentazioni del Tribunale quanto alla valutazione della insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. - la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. Si deduce che il Tribunale avrebbe adottato due motivazioni che si elidono a vicenda: da un lato, ha ritenuto insussistenti i requisiti della idoneità e della univocità degli atti a commettere il delitto di estorsione e quindi gli indizi di colpevolezza; dall'altro, ha qualificato la condotta nell'ipotesi prevista dall'art. 56 c.p., comma 3. - l'inosservanza e l'erronea applicazione degli artt. 56 e 629 c.p. e del D.L. n. 152 del 1991, art. 7. L'Ufficio ricorrente deduce l'errore di diritto, nella parte in cui l'ordinanza impugnata avrebbe ravvisato l'attenuante ad effetto speciale della desistenza volontaria in un'ipotesi di tentativo "compiuto". l'inosservanza e l'erronea applicazione degli artt. 56 e 629 c.p. e del D.L. n. 152 del 1991, art. 7. Si deduce che erroneamente il Tribunale avrebbe ritenuto la volontarietà della desistenza, per il solo fatto della mancanza di nuovi atti intimidatori. - l'inosservanza e l'erronea applicazione degli artt. 56 e 629 c.p. e del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, art. 275 c.p.p., comma 3, e art. 51 c.p.p., comma 3 bis. Si denuncia che erroneamente il Tribunale ha ritenuto che la fattispecie de qua non si inquadrasse in un reato legittimante l'applicazione di una misura cautelare coercitiva, posto che la desistenza volontaria non poteva essere considerata equivalente o prevalente rispetto all'aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, elidendone le conseguenze che il legislatore prevede in ordine alla presunzione di adeguatezza della misura cautelare della custodia in carcere. DIRITTO 1. Il ricorso è fondato nei termini di seguito indicati. 2. Fondato è il primo motivo. Quanto alla configurabilità del tentativo, va ribadito il principio di diritto, secondo cui "l'idoneità degli atti, richiesta per la configurabilità del reato tentato, deve essere valutata con giudizio ex ante, tenendo conto delle circostanze in cui opera l'agente e delle modalità dell'azione, in modo da determinarne la reale adeguatezza causale e l'attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto" (da ultimo, tra le tante, Sez. 1^, n. 27918 del 04/03/2010, Resa, Rv. 248305). Il Tribunale ha erroneamente applicato quello che la giurisprudenza ha definito come criterio della "prognosi postuma", che richiede che la prognosi sull'idoneità degli atti, ancorchè ex ante, non sia considerata in astratto, ma sia rapportata alle circostanze esistenti al momento della condotta (Sez. 1^, n. 10845 del 16/01/1976, Severi, Rv. 134642). Orbene, il Tribunale, anzichè esprimersi sulla reale adeguatezza causale del comportamento sino ad allora tenuto dall'indagato, considerate le circostanze esistenti al momento della condotta e il contesto in cui la stessa veniva a realizzarsi, ha invece valorizzato essenzialmente la circostanza postuma che nessun atto di intimidazione e costrizione era stato posto in essere nei successivi 16 mesi, così operando un giudizio ex post sull'idoneità della condotta, inconciliabile con la struttura normativa del tentativo punibile. … P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Palermo. Così deciso in Roma, il 11 ottobre 2011. Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2011 Cass. Pen. sez. II, 7 gennaio 2011, n. 17146 FATTO Nel pomeriggio dell'(OMISSIS) C.R. faceva ingresso all'interno della filiale di (OMISSIS) della Banca di Credito Cooperativo Santa Maria Assunta, e impugnando una mitraglietta, probabilmente giocattolo, chiedeva i soldi al cassiere, e, dopo che lo stesso gli aveva risposto di non averne, si allontanava. Con sentenza del 5.5.2010, il giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Rovigo ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti di C.R. per il reato di tentata rapina aggravata, ritenendo che "se non paiono esserci dubbi circa la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato e della inequivocità dell'azione, non altrettanto può dirsi del requisito della idoneità degli atti", in quanto il cassiere della banca aveva dichiarato di non aver avuto alcun timore ad allontanare l'imputato, singolarmente impacciato e in possesso di un'arma giocattolo riparata con nastro adesivo. Evidenziava infine il Gup la circostanza che il rapinatore, "ottenuto in risposta alle proprie "minacce" un irridente diniego" non aveva in alcun modo insistito o tentato di fare ulteriori pressioni, e si era dato subito a maldestra e precipitosa fuga. Ricorre per cassazione, il Procuratore Generale deducendo la manifesta illogicità della motivazione e l'erronea interpretazione della legge penale; la sentenza impugnata, con motivazione non condivisibile per l'inconciliabile ed inaccettabile contrasto tra premesse di fatto e conclusioni, pur ritenendo che le modalità della condotta dell'imputato integrassero sia l'elemento soggettivo del reato che quello oggettivo della in equivocità dell'azione, ha posto in dubbio che nella fattispecie concreta potesse essere ravvisabile l'ulteriore requisito della idoneità degli atti necessari per ritenere integrato il tentativo. L'assunto del primo giudice, a parere del ricorrente, non è condivisibile in quanto l'accedere in banca, impugnando un'arma (poco rileva se si trattasse di arma giocattolo) contro il cassiere intimandogli di consegnare il danaro, integra il delitto di tentata rapina aggravata atteso che per "idoneità degli atti" deve intendersi la loro capacità a produrre in concreto l'evento antigiuridico previsto dalla norma e voluto dall'agente. La circostanza che il cassiere della banca abbia, in un certo senso, "spiazzato" il rapinatore asserendo di non aver denaro in cassa, e forse anche sorridendo, nel contesto dei fatti nulla toglie - ad avviso del ricorrente - all'antigiuridicità del fatto, posto che gli atti devono essere ritenuti idonei, con un giudizio "ex ante" ogni qualvolta gli stessi siano, in concreto, adeguati alla realizzazione dello scopo che il soggetto agente si è prefisso. Chiede pertanto l'annullamento dell'ordinanza. E' noto che, per il reato tentato, l'art. 56 c.p., richiede la commissione di atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto. L'idoneità dell'atto è, quindi, la sua capacità causale, cioè la suscettività di produrre l'evento che rende consumato il delitto voluto, considerata nella sua potenzialità, e valutata con giudizio "ex ante", che tenga conto delle circostanze in cui opera l'agente e delle modalità dell'azione, si da determinarne la reale ed effettiva adeguatezza causale e l'attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice, al momento in cui l'agente ha posto in essere la sua condotta (cfr. Cass. Sez. 2^, sent. n. 21955/2005 Rv. 231966; Sez. 5^, sent. n. 23706/2004, Riv. 229135; Sez. 2^, sent. n. 7630/2004 Riv. 228557; Sez. 2^, sent. n. 40343/2003, Riv. 227363). Premesso che il giudizio sull'idoneità del mezzo implica la risoluzione di una questione di fatto, incensurabile dalla Corte di Cassazione, ove siano applicati esatti criteri giuridici, rileva il Collegio che la sentenza impugnata, facendo corretta applicazione dei suddetti principi giurisprudenziali alla fattispecie in esame, con motivazione incensurabile, siccome conforme ai canoni della logica e della non contraddizione, ha ritenuto, nella condotta del C., il difetto di capacità potenziale a produrre l'evento. Nessun dubbio che l'accedere in una banca, impugnando un'arma contro il cassiere e intimandogli di consegnare il danaro ù così come rilevato dal ricorrente - sia atto idoneo a produrre l'evento antigiuridico previsto dalla norma e voluto dall'agente, e ciò a prescindere dal fatto che l'arma impugnata sia o meno un'arma giocattolo. Nella fattispecie, però, siffatta capacità potenziale è stata correttamente esclusa dal Tribunale, in quanto il comportamento dell'imputato, definito "singolarmente impacciato" e maldestro dal cassiere della banca (che ha immediatamente percepito l'arma impugnata, e riparata con nastro adesivo, come un giocattolo), lungi dall'incutere timore era tale da suscitare unicamente ilarità. Che il piano d'azione predisposto dal reo, nel momento in cui è stato intrapreso, non presentasse pertanto alcuna possibilità di successo, difettando del carattere di "serietà", risulta poi evidente dal fatto che, al diniego irridente del cassiere, il C. non solo non ha avuto alcuna reazione violenta o minacciosa, nè ha in alcun modo insistito nella richiesta, ma si è immediatamente allontanato dai locali della banca. Il ricorso è infondato, e va pertanto rigettato. P.Q.M. Rigetta il ricorso.Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 gennaio 2011.Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2011 Cass. Pen., sez. I, 22 settembre 2010, n. 37516 Fatto … Secondo la ricostruzione del fatto operata nella sentenza gravata B.S., nel corso di un alterco con il proprio convivente M.F., facendo uso di un coltello da cucina, lo attingeva con un colpo penetrante all'addome della lunghezza di cm. 10. Il giudice di merito richiamava, onde pervenire alla formulazione del giudizio di responsabilità, il dato probatorio consistito dalle dichiarazioni della parte offesa, dalle dichiarazioni dei testimoni escussi, nonché dalla certificazione medica attestante le lesioni inferte alla vittima e dagli accertamenti tecnici disposti. … Il primo motivo di gravame (erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 56 c.p.) non è fondato e deve essere respinto. Per giurisprudenza costante di questa Corte, ai fini della diversa definizione del fatto materiale nel reato di lesione personale e in quello di tentato omicidio ‒ così come avviene in genere per tutti i casi di reato progressivo ‒ deve aversi riguardo sia al diverso atteggiamento psicologico dell'agente, che alla differente potenzialità dell'azione lesiva. Nel primo reato l'azione esaurisce la sua carica offensiva nell'evento prodotto, mentre nel secondo vi si aggiunge un quid pluris che, andando al di là dell'evento realizzato, tende ed è idoneo a causarne uno più grave in danno dello stesso bene giuridico o di un bene giuridico superiore, riguardanti il medesimo soggetto passivo, non riuscendo tuttavia a cagionarlo per ragioni estranee alla volontà dell'agente (Cass., Sez. 1, 20 maggio 1987, Incamicia, rv. 177610). Il giudice di secondo grado è stato ossequioso di questi principi avendo esaustivamente dato conto delle ragioni della diversa qualificazione del fatto, giuste le considerazioni esposte in punto di sede corporea attinta dal prevenuto e dell'idoneità dell'arma impiegata e della profondità della ferita inferta, elementi particolarmente pregnanti e significativi di per sè soli, nella non spiccata incidenza degli altri (quale ad esempio la posizione degli antagonisti necessariamente ravvicinata visto il tipo di arma utilizzata), per la valutazione di sussistenza di indici sufficienti per ritenere sussistente l'animus necandi. Già il primo giudice aveva posto in debito risalto che la fuoriuscita di visceri da parte della vittima, significativa non solo della profondità della lesione ma anche della sua ampiezza, resa possibile per la scelta del coltello utilizzato. È irrilevante il fatto poi che fosse stato inferto un solo colpo in quanto, per giurisprudenza costante di questa Corte, è sufficiente anche un solo atto lesivo quanto potenzialmente letale come quello inferto. Possono essere del resto diverse le motivazioni che possono aver indotto l'imputata a non reiterare la propria attività lesiva (e nessuna di esse può avere a che fare con la sua volontà di solo ledere), una delle quali ben può essere quella, implicitamente considerata dal giudice di merito, di aver ritenuto che la propria azione, per le modalità espletative adoperate e lo strumento utilizzato, fosse stata di per sè sufficiente a rendere definitivamente inoffensivo il proprio avversario, con raggiungimento conseguente della consapevolezza di averlo eliminato. È ben vero che il fendente nella fattispecie non era stato tale da abbattere d'un sol colpo la vittima (Cass., Sez. 1, 7 dicembre 1987, n. 5274, Pesenti, rv. 178273) ma è anche certo che l'agente era stato in grado di rendersi fin da subito conto della possibile esizialità del colpo inferto (fuoriuscita copiosa di viscere) tale, in altri termini, da poter non lasciare scampo alla propria vittima nell'ipotesi che i soccorsi non fossero stati tempestivi. … P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 22 settembre 2010. Depositato in Cancelleria il 20 ottobre 2010 L’ESTREMITÀ INFERIORE DEL CONCETTO DI IDONEITÀ: L’ART. 115 C.P. Cass. pen., sez. II, 5 novembre 2010, n. 41649 … Questi i fatti secondo quanto ricostruito in sede di merito: in concorso fra loro i predetti imputati, ispettori del Ministero del Lavoro (oggi Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali), nel trovarsi in missione avevano insistentemente chiesto ai titolari dell'albergo ove avevano soggiornato e del ristorante ove avevano consumato i pasti di emettere nei loro confronti ricevute fiscali superiori al prezzo effettivo delle prestazioni erogate (oltre che per pasti non fruiti), non realizzando il proposito a cagione del rifiuto loro opposto dai gestori degli esercizi commerciali, che – anzi – avevano poi provveduto a denunciare l'accaduto al Ministero. Su appello dei soli prevenuti la Corte territoriale, pur confermando la ricostruzione dei fatti accolta in prime cure, escludeva però che fosse stata superata la soglia di punibilità di cui all'art. 56 c.p. e, ravvisando un'ipotesi di istigazione non accolta a commettere un delitto, ai sensi dell'art. 115 c.p., ult. comma, applicava a ciascuno degli imputati la misura di sicurezza di cui sopra. Il PG presso la Corte d'Appello di Genova ricorreva contro detta sentenza, di cui chiedeva l'annullamento perché i giudici del gravame, pur affermando che gli imputati si stavano adoperando per precostituire i documenti necessari a consumare la frode e che la loro richiesta di ricevute recanti importi superiori al prezzo effettivo non poteva che essere finalizzata ad indurre in errore la P.A. al momento del rimborso delle spese di missione, tuttavia, con un vero e proprio salto logico inteso quasi a ripristinare quella distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi ormai pacificamente estranea al disposto dell'art. 56 c.p., erano giunti alla conclusione che il rifiuto, opposto dagli esercenti, di rilasciare ricevute per somme maggiorate rispetto al vero aveva evitato che gli atti posti in essere dagli imputati potessero considerarsi idonei al superamento della soglia di punibilità ex art. 56 cit.; in tal modo la gravata pronuncia aveva finito con il valutare ex post anziché ex ante il requisito in discorso, nonostante che esso, per costante giurisprudenza, dovesse apprezzarsi a prescindere da interventi esterni (il rifiuto degli esercenti, nella specie) impeditivi dell'evento: a riguardo – proseguiva il PG ricorrente – l'importante era che gli atti de quibus avessero l'attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice, indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei posteriormente intervenuti. … 1 - Il ricorso del PG territoriale va respinto perché infondato. La giurisprudenza di questa S.C. – che qui merita di essere ribadita – è da lungo tempo largamente prevalente (rispetto all'isolato precedente della Sez. 1 n. 40058 del 24.9.08, dep. 28.10.08, rv. 241649) nello statuire che l’art. 56 c.p. ha abbandonato la vecchia distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi (questi ultimi intesi come atti tipici corrispondenti, anche solo in minima parte, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata), richiedendosi – invece – per l'esistenza d'un tentativo punibile l'idoneità e l'univocità degli atti posti in essere dal soggetto agente. L'idoneità è intesa come potenziale attitudine a produrre l'evento, da valutarsi ex ante con cd. prognosi postuma, mentre l'univocità va apprezzata nelle caratteristiche oggettive degli atti, così da rivelarne le finalità secondo regole di comune esperienza, in rapporto alla loro natura e al contesto in cui si inseriscono (cfr., ad es., Cass. Sez. 2 n. 40702 del 30.9.09, dep. 22.10.09, rv. 245123). Nel caso di specie, premesso che nemmeno l'impugnata sentenza, nega l'univocità degli atti, ma soltanto la loro idoneità, deve rilevarsi che la mera richiesta del rilascio di ricevute mendaci non era ancora idonea, neppure con valutazione ex ante, a produrre l'evento (vale a dire l'induzione in errore dell'amministrazione circa l'ammontare delle spese di missione, con conseguente danno erariale ed ingiusto profitto per i soggetti attivi), id est non era idonea ad innescare quella serie causale che, in ipotesi, avrebbe potuto portare l'amministrazione ad esaminare le spese di missione dei prevenuti e a considerarle come veritiere, conseguentemente disponendone il rimborso. In altre parole, la condotta degli odierni prevenuti non era, neppure con giudizio ex ante, idonea a realizzare la frode ai danni della P.A. fino a quando sul proposito delittuoso non si fosse ottenuto il consenso dei titolari degli esercizi commerciali interpellati e non si fosse conseguita la formazione di ricevute ingannevoli: prima di allora si era ancora in una fase di mera ideazione e verifica della altrui disponibilità a concorrere in un reato di truffa ai danni dello Stato. Nello specifico di tale delitto, i comportamenti fraudolenti devono essere astrattamente capaci di trarre in inganno e oggettivamente adeguati all'attivazione del procedimento contabile in vista di un ingiusto vantaggio (cfr., ad es., Cass. Sez. 2 n. 20975 del 6.5.08, dep. 23.5.08), il che non è a fronte della pura e semplice istigazione (non accolta) a commettere un reato, istigazione che, fatte salve specifiche eccezioni legislative (v., ad es., il caso dell'istigazione alla corruzione), non è punibile, nemmeno a livello di more ipotesi delittuosa tentata (cfr., ad es., Cass. Sez. 1 n. 49975 del 1.12.09, dep. 30.12.09). Si introduce così l'esame della questione anche sotto ulteriore visuale, che conferma la soluzione qui accolta. L'art. 115 c.p. individua (insieme con l'art. 56 c.p.) il limite della rilevanza penale del tentativo; la norma si era resa opportuna una volta abbandonata la distinzione fra atti preparatori ed atti esecutivi per delimitare la soglia di punibilità. L'art. 115 c.p., comma 1, dispone: "Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell'accordo"). A sua volta il comma 3 prevede che "Le stesse disposizioni si applicano nel caso di istigazione a commettere un reato, se la istigazione è stata accolta, ma il reato non è stato commesso". Ciò significa che l'art. 115 c.p., affermando l'irrilevanza tanto del mero accordo quanto della pura e semplice istigazione, statuisce che tali comportamenti, ove pure - in ipotesi - considerati in concreto idonei a commettere un reato ed univocamente diretti a tal fine, del pari resterebbero non punibili in virtù - appunto - dell'espressa previsione legislativa in tal senso. A maggior ragione, dunque, non è punibile l'istigazione non accolta ed infatti l'art. 115 c.p., ult. comma ,consente in tal caso solo l'applicazione di una misura di sicurezza. … P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale, rigetta il ricorso del PG territoriale di Genova" dichiara inammissibile il ricorso di P.S., L.L. e F. C., che condanna al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa Ammende.Così deciso in Roma, il 5 novembre 2010.Depositato in Cancelleria il 25 novembre 2010 L’ESTREMITÀ INFERIORE DEL CONCETTO DI IDONEITÀ: L’INIDONEITÀ Cass. pen., sez. II, 19 ottobre 2010, n. 41405 … Il R. deduceva l'insussistenza della tentata truffa, per inidoneità dell'azione in quanto la stessa persona offesa aveva avuto dei dubbi in relazione all'ordinativo di 220 mq. di parquet indirizzato all'esercizio commerciale di A.M.; per la precisione, costei non aveva dato seguito all'ordinativo non già perché allertata dalle forze dell'ordine (che, nel corso di intercettazioni telefoniche riguardanti altri soggetti, avevano avuto contezza della truffa che il R. si apprestava a perpetrare e di tanto avevano informato la A.), ma perché, ancor prima, ella stessa aveva nutrito dubbi circa la serietà dell'ordinativo, vuoi per la facilità della trattativa e della sua conclusione, vuoi perché l'ordinativo medesimo era stato confermato da un fax proveniente da una sede diversa da quella della asserita società committente. Pertanto, ad avviso del ricorrente, la semplice truffaldina proposta contrattuale non accettata non integrava condotta idonea al raggiungimento dello scopo. Per costante giurisprudenza di questa Corte Suprema, di cui lo stesso ricorrente si mostra consapevole, l'inidoneità dell'azione va valutata ex ante in relazione alla condotta originaria dell'agente la quale, per inefficienza strutturale o strumentale del mezzo usato e indipendentemente da cause estranee e estrinseche, deve essere priva in modo assoluto di possibilità di determinazione causale nella produzione dell'evento (cfr., ex plurimis, Cass. Sez. 2^ n. 36295 del 22.9.2005, dep. 6.10.2005, rv. 232529). Nel caso di specie l'impugnata sentenza ha escluso la pretesa assoluta ed originaria inidoneità ingannatrice della proposta contrattuale proveniente dal R. e ha altresì sottolineato che, sebbene avesse sollevato delle perplessità nella destinataria (la A.), era stata definitivamente respinta solo dopo l'intervento delle forze di polizia, che avevano avvertito la persona offesa che si trattava di un tentativo di truffa. Altrettanto antico e pacifico è l'insegnamento giurisprudenziale (cfr., ex aliis, Cass. Sez. 5^ n. 9365 del 13.5.98, dep. 13.8.98), secondo cui non si versa mai in ipotesi di inidoneità dell'azione quando la stessa non possa raggiungere il proprio obiettivo sol per l'intervento di circostanze impreviste come l'intervento delle forze di polizia. L'impostazione di cui al ricorso, secondo cui la A. avrebbe autonomamente deciso di non dare seguito all'ordine ancor prima di essere messa sull'avviso grazie all'intervento dei militi, oltre ad essere preclusa perché presuppone una nuova e diversa lettura in punto di fatto delle risultanze processuali (operazione non consentita in sede di legittimità), è comunque manifestamente infondata in quanto, per consolidata giurisprudenza di questa Corte Suprema in tema di truffa, per ritenere l'idoneità degli artifici e raggiri basta che essi risultino, ex ante, astrattamente tali da poter trarre in inganno e oggettivamente adeguati all'attivazione del consenso della vittima in vista dell'ingiusto vantaggio che il soggetto attivo si propone di raggiungere. Dunque, correttamente i giudici del merito – con esatta valutazione ex ante – hanno statuito che il formulare sotto falso nome una proposta contrattuale e l'accompagnarla con una conferma scritta dell'ordinativo trasmessa via fax sono atti idonei diretti in modo non equivoco alla commissione del delitto p. e p. ex art. 640 c.p.. 3 - L'intervenuta remissione di querela della A. nei confronti del R. è ininfluente, trattandosi di reato tentata truffa aggravata ex art. 61 c.p., n. 7 - procedibile d'ufficio (ai sensi dell'art. 640 c.p., ult. comma). A riguardo è appena il caso di rammentare che, per costante giurisprudenza di questa S.C., la circostanza aggravante dell'art. 61 c.p., n. 7 è configurabile rispetto al tentato delitto contro il patrimonio qualora risulti che, ove l'evento si fosse verificato, il danno patrimoniale sarebbe stato di rilevante entità (cfr. Cass. Sez. 5^ n. 17275 del 26.11.08, dep. 23.4.09, e numerose altre conformi). P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale, dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, il 19 ottobre 2010. Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2010 L’ESTREMITÀ INFERIORE. L’INESISTENZA DELL’OGGETTO Cass. Pen., sez. V, 4 giugno 2010, n. 35827 … Con sentenza in data 18 maggio 2009 la Corte d'Appello di Bari, confermando la decisione assunta dal locale Tribunale in esito al giudizio abbreviato, ha riconosciuto B.V. responsabile del delitto di tentato furto aggravato ai danni di N.R., tenendo quindi ferma la sua condanna alle pene di legge. In fatto era accaduto che il B. fosse colto dai carabinieri nell'atto di introdurre la mano nella tasca sinistra dell'impermeabile della N., dopo averla seguita all'uscita da un ufficio postale. Ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, per il tramite del difensore, deducendo censure riconducibili a tre motivi. Col primo motivo il ricorrente impugna, sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, il diniego di applicazione dell'art. 49 c.p., comma 2, reso a suo dire operante dall'assenza di denaro, e di qualsiasi altro oggetto di interesse, dalla tasca della N.. … Col terzo motivo impugna, ancora sotto il duplice profilo della violazione di legge e della carenza motivazionale, l'aprioristico giudizio di inapplicabilità al furto tentato dell'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4. Il ricorso è privo di fondamento e va disatteso. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte Suprema, la causa di non punibilità costituita dall'inesistenza dell'oggetto del reato ricorre soltanto quando l'inesistenza sia assoluta, cioè quando manchi qualsiasi possibilità che nel contesto temporale in cui l'azione si svolge la cosa possa trovarsi in quel determinato luogo; e non quando, invece, la sua mancanza sia puramente temporanea e accidentale (Cass. 8 gennaio 2009 n. 3189; Cass. 6 marzo 2007 n. 22722; Cass. 6 dicembre 2002 n. 3854/03; Cass. 11 marzo 1996 n. 8171); nel caso di specie l'entità alla cui sottrazione il B. mirava (denaro o altri oggetti di valore) non era inesistente in rerum natura, ma si trovava evidentemente in un luogo diverso dalla tasca dell'impermeabile della N.. E nell'apprezzare l'occasionalità di tale mancanza occorre tener presente che il giudizio di impossibilità del reato ex art. 49 c.p., comma 2 - sia per inidoneità dell'azione, sia per inesistenza dell'oggetto - deve basarsi su una valutazione ex ante, dovendosi a tal fine considerare l'uso frequente delle tasche per riporvi il denaro contante o altri oggetti. … Per quanto si riferisce all'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4, invocata dal ricorrente, la Corte P.Q.M. la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 4 giugno 2010. Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2010 02. ESECUZIONE-PERFEZIONE LA SOGLIA DELLA NON PUNIBILITÀ. LA UNIVOCITÀ DEGLI ATTI Cass. Pen., sez. IV, 17 settembre 2010, n. 36820 In tema di univocità è stato ribadito che (sez. 4, 29.1.2007 n. 7702, Alasia ed altro rv. 236110) tale requisito va accertato ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell'agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile alla individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo. A tali principi il Tribunale si è adeguato, facendone buon governo. E' infatti pacifico che uno dei due giovani era stato colto nell'atto di introdursi nell'abitazione della persona offesa, mentre l'atro restava di guardia, comportamento che correttamente è stato valutato quale tentativo di furto avendo lo stesso reso palese una chiara volontà di introdursi nella proprietà altrui per impossessarsi di oggetti o valori ivi custoditi e che l'interruzione dell'azione, dovuta a mere ragioni di opportunità, non comporta desistenza volontaria. P.Q.M. La Corte: - dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al versamento di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende. La Corte dispone inoltre che copia del presente provvedimento sia trasmessa, a cura della cancelleria, al Direttore dell'Istituto Penitenziario competente perchè provveda a quanto stabilito nell'art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter. Così deciso in Roma, il 17 settembre 2010. Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2010 ESEMPLIFICAZIONE - ART. 624-625 Il furto nei supermercati. Il criterio della linea di cassa versus quello del controllo Il criterio della linea di cassa Cass. pen., sez. V, 19 gennaio 2011, n. 7086 Ricorre per Cassazione il competente PG, deducendo violazione di legge, atteso che la condotta dell'imputato andava correttamente qualificata come furto consumato, atteso che lo stesso fu bloccato dopo la linea delle casse del supermercato e trovato in possesso di merce sottratta dagli scaffali. Il ricorso è fondato e merita accoglimento. Ha ritenuto questa sezione (ASN 200823020-240493) che costituisce furto consumato, e non tentato, quello che si commette all'atto del superamento della barriera delle casse di un supermercato con merce prelevata dai banchi e sottratta al pagamento, nulla rilevando che il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del supermercato, incaricato della sorveglianza. Invero, il momento consumativo del reato, in tal caso, è ravvisarle all'atto dell'apprensione della merce, che si realizza certamente quando l'agente abbia superato la barriera delle casse senza pagare il prezzo, ma - a ben vedere - anche prima, allorchè la merce venga dall'agente nascosta in tasca o nella borsa, in modo da predisporre le condizioni per passare dalla cassa senza pagare (ASN 200407235-RV 227347). Invero, oltre alla amotio, la condotta sopra illustrata determina l'impossessamento della res (non importa se per lungo tempo o per pochi secondi) e, dunque, integra, in presenza del relativo elemento psicologico, gli elementi costitutivi del delitto di furto. Il superamento delle "linee di cassa" non rappresenta, - come, non senza polemica, si è sostenuto - una sorta di profanazione di un inesistente limes sacrale, ma semplicemente rende manifesta la volontà dell'agente di non pagare le cose che, operando nel sistema c.d. a self service, ha prelevato dagli scaffali. Detto superamento, insomma, opera più sul piano della prova, che su quello della integrazione degli elementi tipici. Conclusivamente: il fatto va riqualificato come furto consumato aggravato, la sentenza impugnata va annullata limitatamente al trattamento sanzionatolo, con rinvio ad altra sezione della CdA di Torino per la concreta rideterminazione della pena. P.Q.M. Riqualificato il fatto come furto consumato, annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Torino per la rideterminazione della pena. Così deciso in Roma, il 19 gennaio 2011. Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2011 Cass. Pen., sez. V, 13 luglio 2010, n. 37242 1.- La Corte di Appello di Torino ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa Città che aveva dichiarato il N. e la U. colpevoli del reato di furto, in concorso, per essersi impossessati di un televisore LCD di 14 pollici e del relativo alimentatore, sottraendoli all'esercizio commerciale Ipercoop, avendo, il N., occultato il televisore sotto il giaccone … … Legittimamente, poi, è stato qualificato il fatto come furto consumato sia perchè gli imputati erano riusciti a oltrepassare la barriera antitacheggio con il televisore nascosto sotto il giubbotto, a nulla rilevando che il fatto fosse avvenuto sotto il controllo degli addetti alla sicurezza (ad es. Cass., sez. 5^, 9 maggio 2008, n. 23020) sia perchè la U. come risulta dalla sentenza appellata era riuscita a portare fuori dal supermercato l'alimentatore, recuperato solo dopo opportune ricerche. P.Q.M. La Corte rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 13 luglio 2010. Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2010 Il criterio del controllo Cass. Pen., sez. IV, 22 settembre 2010, n. 38534 … Avverso detta sentenza ricorrono per cassazione le imputate, con unico atto di impugnazione, denunziando vizio motivazionale e violazione di legge in ordine al diniego della derubricazione del fatto in furto tentato: a sostegno della propria tesi difensiva, le ricorrenti evocano l'indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità secondo cui, in tema di furto di merce prelevata dai banchi di vendita dei grandi magazzini, il delitto deve ritenersi non consumato, bensì tentato, quando l'avente diritto o persona da lui incaricata sorvegli le fasi dell'azione furtiva, si da poterla interrompere in ogni momento; ad avviso delle ricorrenti, nella concreta fattispecie l'attività furtiva sarebbe avvenuta sotto il controllo del personale incaricato della sorveglianza, ed a nulla rileverebbe che l'addetta alla vigilanza abbia perso di vista le imputate nel periodo intercorrente tra il prelevamento della merce ed il mancato pagamento al momento di superare le casse. … La dedotta censura è fondata. Nel caso in esame, invero, la condotta contestata alle ricorrenti non può essere qualificata come furto consumato quanto, piuttosto, come furto soltanto tentato: alla fattispecie concreta, infatti, deve essere applicato il consolidato indirizzo interpretativo affermatosi nella giurisprudenza di legittimità secondo cui "Il prelevamento della merce dai banchi di vendita di un grande magazzino a sistema "self service" e l'allontanamento senza pagare realizzano il reato di furto consumato, ma allorché l'avente diritto o persona da lui incaricata sorvegli l'azione furtiva, si da poterla interrompere in ogni momento, il delitto non può dirsi consumato neanche con l'occultamento della cosa sulla persona del colpevole, perché la cosa non è ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto dell'offeso (Sez. 5, n. 21937 del 06/05/2010 Cc. - dep. 08/06/2010 - Rv. 247410 Imputato: P.G. in proc. Lazaar e altri). Tanto premesso, va osservato che il ragionamento della Corte di appello bolognese, secondo cui nel caso di specie le tre imputate non sarebbero state tenute costantemente sotto controllo, non può trovare condivisione alcuna; la stessa ricostruzione del fatto compiuta dalla Corte di merito, anzi, da atto che le tre imputate furono osservate dall'addetta all'antitaccheggio sia al momento nel quale costei fu insospettita dall'osservare che le tre donne avevano riposto nelle loro borse parte della merce ritirata dal banco della gastronomia, sia nel momento nel quale le stesse si presentarono alle casse laddove la sorvegliante si recò, a sua volta, proprio al fine di verificare i comportamenti delle tre imputate, perdendo il contatto visivo delle stesse solo in un arco temporale ed in una contingenza spaziale irrilevanti: sicchè costituisce un argomento privo di apprezzabile senso logico, al fine di qualificare il fatto come furto consumato, quello per il quale le medesime tre imputate non sarebbero state tenute costantemente sotto sorveglianza sol perchè la condotta dell'addetta all'antitaccheggio fu quella prudenziale testè descritta. Ogni altra considerazione svolta in sentenza in ordine alla possibilità che le tre imputate potessero provvedere ad un "passamano" tra loro della merce sottratta costituisce una mera congettura, descrittiva di accadimenti non verificatisi, dunque non incidente sulla necessaria ricostruzione della fattispecie. Ne segue che è errata l'asserzione della decisione impugnata che sminuisce illogicamente il fatto della presenza di personale di vigilanza che aveva tenuto sotto controllo tutta l'azione furtiva. Deve pertanto annullarsi l'impugnata decisione relativamente alla qualificazione giuridica del fatto, con trasmissione degli atti alla Corte di merito ai fini della rideterminazione della pena, la cui fissazione discrezionale impedisce a questa Corte di procedere a norma dell'art. 620 c.p.p., lett. l). P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata, qualificando il reato come reato tentato di furto, con trasmissione degli atti alla Corte d'appello di Bologna. Così deciso in Roma, il 22 settembre 2010. Depositato in Cancelleria il 2 novembre 2010 03. DESISTENZA E TENTATIVO Cass. Pen., sez. V, 17 maggio 2011, n. 36422 … Per quanto riguarda, infine, la quarta censura, riguardante il mancato riconoscimento della desistenza volontaria, è sufficiente osservare che la presenza dei Carabinieri sul posto dell'agguato, anche nell'occasione indicata dal collaborante m., è stata riferita dal Ta. e, indirettamente, confermata dallo stesso m. nella parte in cui ha riferito che l'omicidio non era stato eseguito non solo perchè la vittima era insieme con la moglie e con i bambini, ma anche perchè il Ta. avvisò che in giro c'erano i Carabinieri. Le circostanze anzidette integravano certamente imprevisti fattori esterni tali da rendere particolarmente rischiosa l'impresa omicidiaria o da comportare un inutile e non voluto travalicamento del mandato di morte conferito (soppressione anche di moglie e figli e non solo di C.F.), per l'ovvio diverso impatto che, nell'ambiente anche criminale, avrebbe avuto l'inutile soppressione di minori. Al riguardo, va certamente ribadito il principio di diritto secondo cui la desistenza dall'azione delittuosa può ritenersi volontaria quando la prosecuzione non sia impedita da fattori esterni che renderebbero estremamente improbabile il successo di essa e la scelta di desistere sia, pertanto, operata liberamente (cfr., da ultimo, Cass. sez. 4, 24.6.2010, n. 32145, rv. 248183). E' evidente, pertanto, che la desistenza non possa essere configurata in caso di compimento di attività idonea, diretta in modo non equivoco a commettere il delitto, in quanto, in tale ipotesi, si rientra nell'area di operatività di altro istituto, ossia il cd. recesso attivo, qualora il soggetto tenga una condotta attiva che valga a scongiurare l'evento (cfr., tra le altre, Cass. 23.9.2008, n. 39293, rv. 241340). Nel caso di specie, il giudice del gravame ha adeguatamente spiegato che si trattava di tentativo compiuto che escludeva l'applicabilità della desistenza, in quanto l'appostamento ben strutturato (con disponibilità di armi e di mezzi di fuga) costituiva condotta caratterizzata dall'idoneità e dall'univocità richieste per la configurazione del tentativo di omicidio. E' appena il caso di soggiungere che, comunque, la prova della riconducibilità della desistenza volontaria alla volizione dell'agente nonchè della non dipendenza dell'avverarsi dell'evento da fattori esterni grava su chi la sostiene (cfr. Cass. sez. 1, 2.2.2010, n. 21955, rv. 247402), prova che, nel caso di specie, non risulta neppure offerta. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 maggio 2011. Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2011 Cass. Pen., sez. VI, 20 dicembre 2011, n. 203 FATTO D.G.A. ricorre per cassazione contro la sentenza in data 4/6/2010, con la quale la Corte di Appello di Palermo ha confermato la decisione in data 21/11/2008 del Tribunale di Trapani, che lo aveva dichiarato colpevole del reato di tentato furto aggravato in appartamento, ex artt. 110 - 56 - 624 bis art. 625 c.p., n. 2 e condannato alla pena di giustizia. Il predetto aveva fatto da palo al figlio, introdottosi in una abitazione, previa forzatura della finestra, e ne era uscito, dopo avere rovistato all'interno, senza asportare alcunchè. A sostegno della richiesta di annullamento dell'impugnata decisione il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della norma penale in riferimento all'art. 56 c.p., comma 3, e sostiene che l'imputato avrebbe dovuto essere mandato assolto per desistenza volontaria, avendo arrestato la sua condotta prima del compimento dell'azione esecutiva, interrotta da motivi di ordine pratico, legati alla circostanza del mancato rinvenimento di beni da asportare, per cui o si versava nell'ipotesi del reato impossibile ex art. 49 c.p., comma 2, ovvero doveva ritenersi che l'agente non abbia voluto, pur potendolo fare, impossessarsi di beni di cui valeva la pena asportare. Il ricorso è fondato sia pure nei limiti e con le precisazioni, che seguono. La giurisprudenza di questa corte, che qui pienamente si condivide, ha chiarito che, perché possa essere ritenuta sussistente la causa di non punibilità prevista dall'art. 56 c.p., comma 3 è necessario che la volontà di desistere si sia formata per motivi di una qualsiasi natura, anche pratici, pur se si prescinde da quelli ideologici o dall'autentico pentimento, ma in maniera del tutto libera, non quando i motivi di desistenza prevalgano su quelli di persistenza nell'iter criminoso a cagione di fattori esterni, che coartino la volontà del reo, la quale in -tal modo è viziata nella sua formazione (Cass. Sez. 2^ 29/9-28/10/2009 n. 41484 Rv.245233; Sez. 4^ 24/6-20/8/2010 n. 32145 Rv.248183; Sez. 1^ 21/3-27/6/1989 n. 8864 Rv. 181644). Nel caso in esame non è condivisibile la decisione del giudice di merito, che nella condotta dell'imputato, che si era allontanato dall'abitazione, dopo averne forzato la porta di ingresso e rovistato all'interno di essa e messo tutto a soqquadro, senza avere asportato nulla, pur correttamente escludendo l'ipotesi del reato impossibile, non ha ravvisato comunque l'esimente della desistenza volontaria. Non ha valutato la corte di merito che tra le tante cose presenti, che potevano essere asportate, pur se di scarso valore, trattandosi di una abitazione rurale, l'imputato ha preferito non persistere nel suo proposito criminoso e di non asportare niente, determinandosi liberamente a tale scelta senza che intervenissero fattori esterni, a nulla rilevando che tale volontà si sia formata per l'assenza di oggetti di suo gradimento. Non corrisponde ai criteri della logica e alle regole del diritto punire colui, che abbandona volontariamente il proposito criminoso e di conseguenza nella specie anche il corresponsabile dell'azione criminosa, attuale ricorrente. Va da sè che negli atti già compiuti è ravvisabile l'ipotesi del reato di concorso in violazione di domicilio aggravata, procedibile di ufficio, onde qualificata la condotta criminosa ex art. 110 - art. 614 c.p., comma 4, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Palermo, che nel demandato nuovo giudizio proceda a carico dell'imputato in ordine a tale ipotesi di reato. P.Q.M. Qualificato il fatto come violazione di domicilio aggravata dall'art. 614 c.p., comma 4, annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di - Palermo. Così deciso in Roma, il 20 dicembre 2011. Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2012 Cass. Pen. sez. VI, 11 ottobre 2011, n. 40678 … Deve osservarsi che l'esimente della desistenza volontaria è un istituto che trova giustificazione in ragioni di politica criminale: il legislatore, pur a fronte di atti già compiuti e volti alla consumazione di un determinato delitto, ha ritenuto opportuno privilegiare il momento di utile volontario ripensamento prima del definitivo compimento dell'azione che mette in moto l'autonomo sviluppo causale che conduce all'evento, sui presupposti della ridotta volontà criminale dimostrata da chi volontariamente desista e dell'attenzione alla tutela dell'effettivo interesse delle vittime (Sez. 1^, n. 5037 del 08/04/1997 Sannino, Rv. 207647). … La desistenza attiva, per assumere giuridico rilievo, presuppone che l'azione sia penalmente rilevante. Pertanto, si richiede che la fattispecie sia pervenuta alla fase del tentativo punibile; diversamente, la disposizione sarebbe inutile. In tal senso, questa Corte ha affermato che la desistenza volontaria è compatibile con la già avvenuta piena consumazione di un tentativo punibile (Sez. 6^, n. 24711 del 21/04/2006, Virgili, Rv. 234679, in un caso di tentata concussione; Sez. 2^, n. 8031 del 24/06/1992, Porcari, Rv. 191291, relativa a ritenuta desistenza volontaria dal tentativo di estorsione). In ogni caso, la desistenza volontaria presuppone - al pari del recesso attivo la costanza della possibilità di consumazione del delitto. Pertanto, qualora tale possibilità non vi sia più, ricorre, sussistendone i requisiti, l'ipotesi del delitto tentato (Sez. 1^, n. 9015 del 04/02/2009, Petralito, Rv. 242877). L'individuazione del momento entro il quale può ancora intervenire la desistenza ha trovato soluzioni ermeneutiche differenti, di cui sono esempio la distinzione tra "tentativo incompiuto" e "tentativo compiuto", con diverse ricostruzioni a seconda che l'azione tipica si caratterizzi per il compimento di un unico atto o di una pluralità di atti, con l'ulteriore evidenziazione dei tra loro autonomi connotati oggettivi e soggettivi della desistenza. Autorevole dottrina ha indicato il criterio della "continuità temporale" e del "dominio diretto" dell'azione intrapresa, quale idoneo a individuare il momento ultimo in cui la desistenza è ancora configurabile, a prescindere dalla eventuale pluralità di atti che possono essere posti in essere: la differenza tra desistenza volontaria e recesso attivo andrebbe quindi colta nel fatto che la prima è un abbandono dell'azione, quando ancora l'agente ne domina in modo diretto e immediato il divenire, mentre il secondo è caratterizzato da un intervento postumo, quando tale dominio è ormai cessato. Giacchè in realtà ciò che rileva sarebbe la sostanziale continuità temporale con il permanente dominio dell'azione in atto opposta ad una discontinuità, o distacco o rottura temporale - rispetto all'azione prima intrapresa - che determinerebbe la perdita di tale dominio diretto dell'azione, in definitiva idonea a produrre i propri effetti quali determinatisi a quel momento. In definitiva, ciò che rileva per configurare la desistenza volontaria nei casi in cui già la parte di condotta compiuta presenterebbe i requisiti per la configurabilità degli elementi costitutivi del delitto tentato è che - in termini di sostanziale continuità temporale - l'autore inverta con modalità inequivoche la situazione, di cui ha ancora la piena disponibilità, il pieno dominio, sicchè quella situazione già concretizzatasi e penalmente rilevante non sia, per sè, inevitabilmente suscettibile di muovere autonomamente verso la piena consumazione del delitto. Venendo al caso in esame, il Tribunale, nel ravvisare nella fattispecie gli estremi della desistenza volontaria, non ha fatto buon governo dei principi ora ricordati, in quanto, dando per scontato che un tentativo di estorsione ci sia stato, si è limitato a rilevare che gli indagati avevano rinunziato al proposito criminoso, valorizzando soltanto il mero decorso del tempo senza ulteriori iniziative violente o minacciose. Il Tribunale doveva invece verificare se, al momento in cui la desistenza sarebbe volontariamente intervenuta, vi fosse ancora la "oggettiva possibilità" della realizzazione del delitto di estorsione e comunque il "permanente dominio" da parte dell'indagato dell'azione in atto, che costituisce il presupposto necessario perchè rilevi la desistenza stessa. Risulta infatti che, a distanza di pochi giorni dall'ultimo episodio contestato, la parte offesa aveva denunziato i fatti alle forze dell'ordine. … P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Palermo. Così deciso in Roma, il 11 ottobre 2011. Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2011 Cass. Pen., sez. IV, 24 giugno 2010, n. 32145 Infondato è anche il terzo motivo di ricorso di S.F. con il quale si chiede venga ravvisata, alternativamente, l'ipotesi della desistenza volontaria o del recesso attivo. Il motivo di ricorso richiama, a sostegno della sua tesi, il disposto dell'art. 56 c.p., comma 3 ("Se il colpevole volontariamente desiste dall'azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sè un reato diverso"). Come è stato affermato dalla giurisprudenza di legittimità la desistenza ha natura di esimente speciale (v. Cass., sez. 1^, 8 aprile 1997 n. 5037, Sannino, rv. 207647; sez. 6^, 10 marzo 1995 n. 7937, Monaco, rv. 202577) e, per assumere giuridico rilievo, presuppone che l'azione sia penalmente rilevante per cui si richiede che la fattispecie sia pervenuta alla fase del tentativo punibile (v. Cass., sez. 6^, 24 settembre 2008 n. 42688, Caridi, rv. 242417; 21 aprile 2006 n. 24711, Virgili, rv. 234679; sez. 2^, 3 marzo 1998 n. 10795, Bakhshkon, rv. 211656; sez. 1^, 8 aprile 1997 n. 5037, Sannino, citata); diversamente, si è affermato in dottrina, la disposizione sarebbe inutile. La desistenza si differenzia dal recesso attivo, previsto dall'art. 56 c.p., comma 4 e parimenti invocato dal ricorrente, perchè, in questo secondo caso (recesso attivo), l'azione esecutiva è interamente realizzata e non si è ancora verificato l'evento mentre, nel caso della desistenza, l'azione esecutiva è ancora in corso quando l'agente volontariamente l'interrompe (v. Cass., sez. 2^, 22 dicembre 2009 n. 2772, Gulli, rv. 246267; sez. 1^, 23 settembre 2008 n. 39293, Di Salvo, rv. 246267; sez. 1^, 2 ottobre 2007 n. 42749, Pepini, rv. 238112; sez. 2^, 24 giugno 1992 n. 8031, Porcari, rv. 191291). Ciò giustifica anche il più grave trattamento sanzionatorio previsto per il recesso attivo: nel primo caso, infatti, la dottrina parla di tentativo "incompiuto" (anche se pervenuto alla fase del tentativo punibile) mentre, nel caso del recesso attivo, il tentativo è "compiuto". E' da rilevare che la giurisprudenza di legittimità esclude che, nei reati a forma libera, possa aversi desistenza quando siano stati compiuti gli atti dai quali origina il meccanismo causale capace di produrre l'evento (tentativo compiuto); nel qual caso può solo eventualmente configurarsi il recesso attivo (v. Cass., sez. 1^, 23 settembre 2008 n. 39293, Di Salvo, rv. 241340; 2 ottobre 2007 n. 42749, rv. 238112). Altra importante conclusione, cui pervengono uniformemente giurisprudenza e dottrina, è che la "volontarietà" della desistenza non deve essere confusa con la "spontaneità" della medesima nel senso che la desistenza è volontaria anche quando non è spontanea perchè indotta da ragioni utilitaristiche o da considerazioni dirette ad evitare un male ipotizzabile o dalla presa di coscienza degli svantaggi che potrebbero derivare dal proseguimento dell'azione criminosa (cfr., nella giurisprudenza di legittimità, Cass., sez. 5^, 7 dicembre 1999 n. 1955, Maravolo, rv. 216438; sez. 6^, 21 aprile 1989 n. 14024, Gottardo, rv. 182313; 21 marzo 1989 n. 8864, Agostani, rv. 181644). La legge non prende in considerazione le intime ragioni che inducono l'agente a desistere dall'azione criminosa ma richiede invece, con la previsione del requisito della volontarietà, che la desistenza non sia rinconducibile a cause esterne che rendano impossibile, o gravemente rischiosa, la prosecuzione dell'azione. Insomma, seppur non spontanea, tale prosecuzione non deve essere impedita da fattori esterni che renderebbero estremamente improbabile il successo dell'azione medesima; la scelta deve quindi essere operata in una situazione di libertà interiore indipendente dalla presenza di fattori esterni idonei a menomare la libera determinazione dell'agente (in questo senso v. la già citata sentenza Cass. 5037/1997, Sannino, nonchè, più di recente, sez. 2^, 29 settembre 2009 n. 41484, Aloisio; sez. 1^, 26 febbraio 2009 n. 11865, Fondino, rv. 243923; 4 febbraio 2009 n. 9015, Petralito, rv. 242877; 2 dicembre 2005 n. 46179, Plivia, rv. 233355; sez. 5^, 3 dicembre 2004 n. 17688, Dominaci, rv. 232124). Tra i fattori esterni, idonei ad escludere la volontarietà della desistenza, la giurisprudenza di legittimità (e alcune delle sentenze ricordate) hanno ritenuto corretto individuare, da parte del giudice di merito, le minacce all'associato per delinquere provenienti dall'interno dell'organizzazione; la presenza, nel tentativo di evasione, di condizioni oggettive in precedenza sconosciute, che avrebbero reso l'evasione di improbabile riuscita; nel tentativo di furto il prospettato intervento di terze persone, la reazione della vittima, la resistenza alla forzatura opposta da una serratura o da una finestra, il sopraggiungere del derubato). Va ancora ricordato che la valutazione sulla volontarietà della desistenza - e quindi l'accertamento se la desistenza, ancorchè non spontanea, sia stata provocata da fattori esterni che rendevano il compimento dell'azione estremamente difficoltoso o rischioso - costituisce una valutazione riservata al giudice di merito che deve dare conto delle circostanze che lo inducono, ove ravvisi la volontarietà, a ritenere che la desistenza sia stata una scelta operata in base ad una libera determinazione dell'agente in assenza di ragioni idonee a rendere invece questa scelta obbligata non in senso assoluto ma riferibile anche ai casi nei quali la prosecuzione dell'attività criminosa appariva particolarmente rischiosa. 7^) Nel caso in esame la sentenza impugnata si è attenuta a questi criteri. E' da premettere che il ricorrente non pone in discussione che gli atti da lui compiuti integrino il tentativo punibile del reato contestato; deduce però il vizio di motivazione laddove la sentenza impugnata ha ritenuto che la desistenza non fosse stata volontaria ma resa necessaria dalla circostanza che S. era venuto a conoscenza di essere stato ripreso dalle telecamere installate in prossimità dell'esercizio nei confronti del cui titolare veniva esercitata l'attività estorsiva. Secondo il ricorrente con questa valutazione la Corte di merito avrebbe operato una confusione tra volontarietà della desistenza e spontaneità della medesima: anche se non spontanea la desistenza può essere volontaria quando difetti l'intervento di terzi che ostacolino il raggiungimento dell'obiettivo che l'agente si è proposto. Questa impostazione del problema non è però condivisibile anche se il presupposto interpretativo (distinzione tra volontarietà e spontaneità della desistenza) è da ritenere corretto. Si è visto che l'ipotesi della desistenza volontaria riguarda il tentativo "incompiuto" ma anche che la prosecuzione dell'azione non deve essere impedita da fattori esterni che renderebbero estremamente improbabile il successo dell'azione medesima; la scelta, in base alla giurisprudenza citata, deve quindi essere operata in una situazione di libertà interiore indipendente dalla presenza di fattori esterni idonei a menomare la libera determinazione dell'agente. Esente da alcuna illogicità è dunque la valutazione della Corte di merito che ha escluso la volontarietà (non la spontaneità) della desistenza perchè l'uso delle telecamere aveva reso estremamente rischioso il proseguimento dell'azione estorsiva escludendo quindi motivatamente che la desistenza sia stata volontaria. Fermo restando che la condotta di S. aveva integrato gli estremi del tentativo punibile (ciò che non viene contestato dal ricorrente) è parimenti da escludere che, nel caso di specie, sia ipotizzabile il recesso attivo: anche questa ipotesi è da escludere perchè S.F. non ha posto in essere alcuna condotta diretta ad impedire volontariamente il verificarsi dell'evento. … P.Q.M. la Corte Suprema di Cassazione, Sezione Quarta Penale, rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 24 giugno 2010. Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2010 Cass. pen., sez. V, 3 giugno 2010, n. 32742 Con sentenza in data 13 maggio 2009 la Corte d'Appello di Messina, in ciò confermando (salvo esclusione della continuazione) la decisione assunta dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, ha riconosciuto A.T. responsabile del delitto di tentata estorsione aggravata in danno dell'imprenditore F.C.; ha quindi tenuto ferma la sua condanna alla pena di legge e al risarcimento dei danni in favore della parte civile. .. Col terzo motivo invoca l'applicazione dell'istituto della desistenza, rilevando non essere seguiti altri incontri fra lui e il F. dopo quello in cui, secondo l'accusa, sarebbe stata formulata la richiesta estorsiva. Col quarto motivo il ricorrente ripropone la tesi difensiva facente riferimento al recesso attivo. Col quinto motivo deduce vizio di motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche. Nei motivi a propria firma, presentati in forma manoscritta di ardua lettura, l' A. si diffonde in una ricostruzione dei fatti dai quali dovrebbe emergere, nelle sue intenzioni, la propria innocenza. … Gli istituti della desistenza e del recesso attivo, invocati col terzo e col quarto motivo, non sono richiamati a proposito. In ordine al primo va detto che l'azione estorsiva intrapresa dall' A. nei confronti del F., per quanto si trae dall'accertamento in fatto scaturito dal giudizio di merito, non era destinata a compiersi in un unico contesto temporale; tant'è vero che l'approccio alla persona offesa, finalizzato alla reciproca conoscenza e alla successiva introduzione di argomenti di conversazione nei quali innestare la richiesta di denaro, si è sviluppato in più fasi progressive. E indubbiamente l'invito a corrispondere la somma di 1.500,00 Euro, così ridotta "per intercessione" dello stesso A. a fronte di un'originaria pretesa di 18.000, secondo il convincimento della Corte di merito era destinato ad essere seguito da altre più pressanti iniziative (in applicazione, va osservato, dello schema tipico del metodo mafioso), al fine di indurre la vittima a cedere alla richiesta. Orbene, quando l'azione intimidatoria non si realizza in modo continuativo, ma attraverso il succedersi di contatti verbali distanziati nel tempo, non è possibile riconoscere la desistenza nella pura e semplice inattività dell'agente nei periodi intermedi, se non quando essa si sia protratta per un tempo sufficiente a dimostrare che vi sia stato un vero e proprio abbandono del progetto estorsivo. Nel caso di specie la Corte d'Appello, nell'esercizio della facoltà di apprezzamento che è propria del giudice di merito, ha giudicato che l'arco temporale di circa un mese, decorso fra l'ultimo atto propedeutico all'estorsione e l'arresto dell' A., non fosse sufficiente a far ritenere abbandonato il proposito criminoso. E la conclusione così raggiunta, quale risultato di un processo logico ineccepibile, si sottrae a censura in sede di legittimità. In ordine al recesso attivo va detto che alla sua configurabilità si oppongono due ordini di ragioni: 1) il mancato completamento dell'azione criminosa, tale da rendere operante il meccanismo causale capace di produrre l'evento - cioè la consegna del denaro - senza il compiersi di ulteriori atti ad opera dell' A. (sarebbe stata necessaria, quanto meno, una sollecitazione della risposta, oltre alle indicazioni sulle modalità del passaggio di mano della somma estorta); 2) la mancanza di una condotta attiva diretta a impedire che l'estorsione venisse portata a termine, non bastando a tal fine la mera inerzia dell'agente. P.Q.M. la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese a favore della parte civile costituita, che liquida in Euro 1.600,00 oltre accessori come per legge. Così deciso in Roma, il 3 giugno 2010. Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2010 04. DOLO DEL TENTATIVO (EVENTUALE – ALTERNATIVO) Cass. Pen., sez. I, 7 luglio 2011, n. 30466 Fatto 1. Il 21 maggio 2010 la Corte d'appello di Roma confermava la sentenza del locale Tribunale, appellata dagli imputati, che, in data 25 settembre 2009, all'esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato M.D. e Q.M. colpevoli dei delitti di resistenza a pubblico ufficiale, lesioni volontarie aggravate in danno del Carabiniere S.A., tentato omicidio in danno dei Carabinieri D.P. e S.O.A. e, ritenuta la continuazione fra i reati, con la diminuente per il rito, li aveva entrambi condannati alla pena di cinque anni e quattro mesi di reclusione, oltre alle pena accessorie; aveva, inoltre, condannato il solo M. alla pena di quattro mesi di arresto per guida in stato di ebrezza. 2. Da entrambe le sentenze emergeva la seguente ricostruzione dei fatti. Il 5 giugno 2009, verso le ore 2,30, i Carabinieri I., S., D., liberi dal servizio, entravano nel bar "supergelo" di Roma, ove, poco dopo sopraggiungevano, a bordo di una "BMW" decappottabile, i due imputati che, riconoscendo i presenti come appartenenti alle forze dell'ordine, li apostrofavano con espressioni gravemente offensive. Per evitare che la situazione degenerasse, i Carabinieri uscivano dal locale, ma, ciò nonostante, venivano seguiti da M. e Q. che indirizzavano loro altri epiteti ingiuriosi e li spintonavano. Alla richiesta formulata dai Carabinieri di fornire loro i documenti di identità, Q. reagiva colpendo con un calcio al petto il Carabiniere S.. Quindi i due imputati salivano a bordo dell'auto e cercavano di darsi alla fuga. Il Carabiniere I. li rincorreva e, prima che l'auto fosse messa in moto, poggiava le mani sulla portiera, lato passeggero, intimando ai due ricorrenti di scendere dal mezzo. Per tutta risposta Q. bloccava le mani del Carabiniere e, contestualmente, incitava M. a partire e a investire gli altri due Carabinieri, postisi davanti al veicolo, pronunciando la frase: "metti sotto questi due Carabinieri di merda". M. partiva a forte velocità, sgommando, e trascinava per circa dieci metri il Carabiniere I., le cui mani erano trattenute da Q. e il cui corpo urtava ripetutamente contro la carrozzeria dell'auto fino a quando il militare non riusciva a liberarsi, cadendo a terra. Mentre trascinava I., immobilizzato alle mani, l'auto, anzichè immettersi sulla carreggiata, si dirigeva a tutta velocità contro gli altri due appartenenti all'Arma dei Carabinieri. D., investito, riportava ferite ad una gamba, mentre S. evitava l'impatto tuffandosi lateralmente. L'auto si dava quindi alla fuga, inseguita dai militari che, poco dopo, riuscivano a bloccarla con l'aiuto di altri colleghi nel frattempo intervenuti. I giudici ritenevano provata la responsabilità degli imputati sulla base delle testimonianze delle parti offese, dei referti medici attestanti le lesioni da essi subite, della deposizione di A. V. e E.M.M., entrambi dipendenti del bar "super gelo", delle parziali ammissioni di M. che dichiarava che, davanti al locale, Q. aveva iniziato a insultare i Carabinieri in borghese, qualificatisi come tali solo in un secondo momento, nonchè degli accertamenti svolti in merito all'assunzione di alcolici da parte dei due ricorrenti. 3. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione Q.M., personalmente, e M., tramite il difensore di fiducia. Entrambi lamentano l'assenza degli elementi costitutivi del tentativo di omicidio, mancando l'univocità e l'idoneità degli atti, da apprezzare alla luce delle emergenze processuali acquisite e della condotta posta in essere dai due imputati, il cui intento, considerato anche lo stato di ebrezza alcolica in cui versavano, era soltanto quello di darsi alla fuga e non di provocare lesioni ai due Carabinieri nè, tanto meno, la loro morte. II solo M. formula anche le seguenti, ulteriori doglianze. Denuncia contraddittorietà della motivazione in ordine all'asserito consapevole contributo fornito dall'imputato alla consumazione del delitto di lesioni volontarie in danno dei Carabinieri S. e I., considerato che l'imputato era rimasto del tutto estraneo alla fase antecedente alla partenza dell'auto e che il fatto si era svolto in maniera improvvisa e concitata in un breve lasso di tempo. Lamenta, quindi, inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche. Deduce, poi, mancanza e illogicità della motivazione in ordine alla confisca dell'auto, disposta ai sensi dell'art. 240 c.p.p., comma 1, in assenza di una richiesta specifica del pubblico ministero e dei relativi presupposti. 4. L'udienza del 26 maggio 2011, originariamente fissata per la trattazione del ricorso, veniva rinviata alla data odierna, in accoglimento dell'istanza formulata dal difensore di M., legittimamente impedito per malattia, debitamente certificata. Diritto I ricorsi sono manifestamente infondati. 1. Con riferimento alla prima censura, prospettata da entrambi i ricorrenti, il Collegio osserva che la prova del dolo di omicidio o di tentato omicidio deve essere desunta attraverso un procedimento inferenziale, analogo a quello utilizzabile nel procedimento indiziario, da fatti esterni e certi, aventi un sicuro valore sintomatico, che, con l'ausilio di appropriate massime di esperienza, consentano di inferire l'esistenza del dolo. Pertanto, per stabilire se il colpevole abbia effettivamente voluto la morte del soggetto passivo, è necessario affidarsi ad una serie di regole di esperienza, la conformità alle quali - quando non sussistano circostanze di fatto che lascino ragionevolmente supporre che le cose sono andate diversamente da come vanno le cose materiali ed umane - è sufficiente per dimostrare l'animus necandi (Sez. 1^, 27 novembre 1991, ric. Terranova). La valutazione circa l'esistenza o meno dell'animus necandi - che rifiuta ogni presunzione che, oltre a contrastare con al personalità della responsabilità penale, non si concilierebbe con l'essenza del dolo costituisce il risultato di un'indagine di fatto, rimessa all'apprezzamento del giudice di merito, a base della quale può essere posto qualsiasi dato probatorio acquisito al processo, che appaia rilevante per tale profilo. In mancanza di attendibile confessione, la prova del dolo omicida è normalmente e prevalentemente affidata alle peculiarità estrinseche dell'azione criminosa, aventi valore sintomatico in base alle comuni regole di esperienza, quali il comportamento antecedente e susseguente al reato, la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima attinte, la reiterazione dei colpi, nonchè tutti quei dati che, secondo l'id quod plerumque accidit, abbiano un valore sintomatico. 2. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, laddove ha valorizzato, con motivazione compiuta e logica, quali elementi sintomatici della volontà omicidiaria la qualità del mezzo usato (un'autovettura di grossa cilindrata quale una "BMW Z 24"), caratterizzato da elevata potenza e notevole peso, l'alta velocità con la quale l'auto, una volta messa in moto, partì dirigendosi contro i Carabinieri D. e S., la traiettoria della macchina che puntò direttamente contro gli appartenenti all'arma dei Carabinieri che si trovavano a poca distanza in corrispondenza della parte anteriore destra della "BMW", la complessiva condotta di guida di M. che, incitato da Q. a investire le parti offese, non pose in essere, pur avendone la possibilità, alcuna manovra di emergenza per evitare l'impatto, ma anzi puntò decisamente a velocità sostenuta contro D. e S.. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, ciascuno, al versamento della somma di mille Euro alla cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 7 luglio 2011. Depositato in Cancelleria il 1 agosto 2011 Cassazione penale, sez. V, 31 maggio 2011, n. 32100 C.G.A. era chiamato a rispondere, innanzi al Tribunale di Sondrio, dei reati di minaccia, porto ingiustificato di coltello da cucina, dalla lama lunga 16 cm. e tentato omicidio, perchè, armato di coltello di cui sopra, compiva atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la morte di M.P. R., in particolare lo attingeva con una coltellata in zona addominale provocando una lesione alla parete addominale, all'intestino tenue e ad un ramo arterioso principale addominale, non riuscendovi tutta via nell'intento per cause indipendenti dalla propria volontà (tempestivo intervento dei sanìtari e delle Forze dell'Ordine, con l'aggravante della premeditazione e dell'avere commesso il fatto per motivi abbietti e futili. … 1. - Con il primo motivo d'impugnazione parte ricorrente deduce erronea applicazione dell'art. 56 c.p., nonchè difetto di motivazione al riguardo. Il secondo motivo deduce identico vizio di legittimità, con riferimento all'elemento psicologico del reato e manifesta illogicità di motivazione sul punto. 2. - All'esame delle due censure - esaminabili congiuntamente stante l'identità di ratio contestativa che le ispira - giova premettere un sintetico riferimento alla vicenda processuale. Orbene, la sentenza in esame è stata emessa in sede di rinvio, dopo che questa Corte Suprema aveva annullato una precedente pronuncia di appello che aveva confermato la qualificazione giuridica del fatto in termini di tentato omicidio. La ragione dell'annullamento risiedeva nella contraddittorietà di motivazione in ordine all'elemento psicologico, posto che quella pronuncia, nel confermare la configurabilità del tentato omicidio, aveva qualificato come dolo eventuale l'intento dell'imputato di cagionare la morte della persona offesa e, contestualmente, aveva richiamato l'insegnamento di questa Corte regolatrice, che escludeva la compatibilità del dolo eventuale con il tentativo, ammettendola solo per il dolo alternativo. Il giudice del rinvio, riesaminata la questione di diritto, con riferimento al profilo psicologico, rispetto all'ipotesi delittuosa più grave, ha qualificato l'elemento soggettivo in termini di dolo alternativo, e dunque in forma diretta e non più eventuale. Avuto riguardo alle peculiarità della fattispecie, alla potenzialità lesiva dello strumento usato (un coltello con lama lunga 16 cm e larga 4 cm), alla localizzazione del colpo inferto (parte addominale), alla sua intensità (profondità della ferita e suoi esiti che avevano messo in pericolo la vita dello stesso offeso), il giudice del rinvio - richiamando l'insegnamento di questa Corte Suprema, nella sua più autorevole espressione, in ordine alla distinzione tra dolo eventuale e dolo diretto (cfr. Sez. Un, 12.4.1996, n, 3571, rv. 204167) - ha ritenuto che il C., nello sferrare la coltellata, avesse agito con l'intento di cagionare, indifferentemente, lesioni personali o la morte del suo antagonista e fosse dunque animato, rispetto al più grave evento, da quella forma di dolo diretto che è il dolo alternativo, reputando che quell'evento fosse stato voluto (sia pure alternativamente a quello meno grave) e non semplicemente previsto nell'eventualità del suo verificarsi. La conclusione, in termini di piena compatibilità dell'elemento psicologico così qualificato con la fattispecie del tentativo, è giuridicamente corretta e deve essere, dunque, confermata, ribadendosi il principio di diritto secondo cui è configurabile l'ipotesi del tentato omicidio ove l'agente abbia agito accettando - e quindi volendo - indifferentemente l'evento meno grave (lesione personale) e quello più grave (morte dell'offeso), in termini di dolo diretto (quanto meno in forma alternativa) e non eventuale (cfr., da ultimo, Cass. 31.3.2010, n. 25114, rv. 247707). 3. - Il rilievo che precede non può che condurre al rigetto del ricorso, che va, dunque, dichiarato nei termini di cui in dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 31 maggio 2011. Cass. Pen., sez. I, 22 settembre 2010, n. 37516 … Secondo la ricostruzione del fatto operata nella sentenza gravata B.S., nel corso di un alterco con il proprio convivente M.F., facendo uso di un coltello da cucina, lo attingeva con un colpo penetrante all'addome della lunghezza di cm. 10. Il giudice di merito richiamava, onde pervenire alla formulazione del giudizio di responsabilità, il dato probatorio consistito dalle dichiarazioni della parte offesa, dalle dichiarazioni dei testimoni escussi, nonché dalla certificazione medica attestante le lesioni inferte alla vittima e dagli accertamenti tecnici disposti. … Anche il secondo motivo di gravame (mancanza di motivazione in merito all'elemento soggettivo del reato) è privo di pregio e va rigettato. Esaustiva è stata infatti la motivazione del giudice in relazione alla valutazione della qualità del dolo, individuato in quello del dolo alternativo. È pacifico, secondo arresti consolidati di questa Corte di legittimità, che ha natura di dolo diretto ed è compatibile con il tentativo di omicidio quella particolare manifestazione di volontà dolosa definita dolo alternativo, che sussiste quando il soggetto attivo prevede e vuole, con scelta sostanzialmente equipollente, l'uno o l'altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria (cfr. S.U. n. 748 del 12 ottobre 1993, Cassata, che richiama S.U. n. 3428 del 6 dicembre 1991, e alla quale si rifanno S.U. n. 3571 del 14 febbraio 1996, Suraci e S.U. n. 3286 del 27 novembre 2008, Chiodi). Occorre tuttavia chiarire che, come notava già Cass., Sez. 1, 23 ottobre 1989, n. 671, Ditto, rv. 183095, alla base di tali precedenti giurisprudenziali vi è la piana osservazione che, avendo l'ordinamento ricollegato una responsabilità penale al compimento di atti finalizzati ("diretti in modo non equivoco") alla commissione di un delitto, la specifica ed autonoma figura di reato prevista dall'art. 56 c.p. non può ricomprendere atti rispetto ai quali un evento delittuoso si prospetta solo come un accadimento possibile o probabile non preso direttamente in considerazione dall'agente. Sicchè se il dolo cosiddetto "eventuale" o per "accettazione del rischio" può costituire il fondamento di una responsabilità dolosa per eventi determinati non intenzionalmente e imputabili all'agente a titolo di dolo generico, nel caso in cui l'evento rispetto al quale è stato corso il rischio non si è verificato, discende dalla specifica previsione dell'art. 56 c.p. che gli atti posti in essere devono avere concretezza tale da risultare inequivocamente diretti all'evento specificamente richiesto per la realizzazione della fattispecie delittuosa di riferimento. L'affermazione giurisprudenziale che tale forma dolosa è compatibile anche con una volontà "alternativa", nulla toglie dunque alla necessità che risulti una inequivoca direzione della condotta: non superabile mediante la sola astratta assunzione a regola della dicotomia "accettazione del risultato" (dolo alternativo) - "accettazione del rischio del risultato" (dolo eventuale), assolutamente ambigua se priva di adeguato supporto fattuale. … P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 22 settembre 2010. Depositato in Cancelleria il 20 ottobre 2010 Cass. Pen., sez. V, 4 giugno 2010, n. 35827 … Con sentenza in data 18 maggio 2009 la Corte d'Appello di Bari, confermando la decisione assunta dal locale Tribunale in esito al giudizio abbreviato, ha riconosciuto B.V. responsabile del delitto di tentato furto aggravato ai danni di N.R., tenendo quindi ferma la sua condanna alle pene di legge. In fatto era accaduto che il B. fosse colto dai carabinieri nell'atto di introdurre la mano nella tasca sinistra dell'impermeabile della N., dopo averla seguita all'uscita da un ufficio postale. Ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, per il tramite del difensore, deducendo censure riconducibili a tre motivi. Col primo motivo il ricorrente impugna, sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, il diniego di applicazione dell'art. 49 c.p., comma 2, reso a suo dire operante dall'assenza di denaro, e di qualsiasi altro oggetto di interesse, dalla tasca della N.. … Col terzo motivo impugna, ancora sotto il duplice profilo della violazione di legge e della carenza motivazionale, l'aprioristico giudizio di inapplicabilità al furto tentato dell'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4. Il ricorso è privo di fondamento e va disatteso. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte Suprema, la causa di non punibilità costituita dall'inesistenza dell'oggetto del reato ricorre soltanto quando l'inesistenza sia assoluta, cioè quando manchi qualsiasi possibilità che nel contesto temporale in cui l'azione si svolge la cosa possa trovarsi in quel determinato luogo; e non quando, invece, la sua mancanza sia puramente temporanea e accidentale (Cass. 8 gennaio 2009 n. 3189; Cass. 6 marzo 2007 n. 22722; Cass. 6 dicembre 2002 n. 3854/03; Cass. 11 marzo 1996 n. 8171); nel caso di specie l'entità alla cui sottrazione il B. mirava (denaro o altri oggetti di valore) non era inesistente in rerum natura, ma si trovava evidentemente in un luogo diverso dalla tasca dell'impermeabile della N.. E nell'apprezzare l'occasionalità di tale mancanza occorre tener presente che il giudizio di impossibilità del reato ex art. 49 c.p., comma 2 - sia per inidoneità dell'azione, sia per inesistenza dell'oggetto - deve basarsi su una valutazione ex ante, dovendosi a tal fine considerare l'uso frequente delle tasche per riporvi il denaro contante o altri oggetti. … Per quanto si riferisce all'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4, invocata dal ricorrente, la Corte non condivide il giudizio di astratta incompatibilità col delitto tentato, espresso dal giudice di merito in base ad enunciazioni giurisprudenziali tutt'altro che unanimi (in senso contrario vedasi, tra le più recenti, Cass. 22 maggio 2009 n. 39837). Va detto piuttosto che l'applicazione di detta attenuante al tentativo presuppone che il giudice, avuto riguardo alle concrete modalità dell'azione e a tutte le circostanze di fatto desumibili dalle risultanze processuali, accerti che il reato, qualora fosse stato consumato, avrebbe cagionato alla vittima un danno di speciale tenuità; ciò richiede, evidentemente, che l'apprezzamento del giudice si appunti su un bene di valore particolarmente tenue, il quale sia specificamente individuato quale unico oggetto del tentato furto: il che non è dato nel caso di specie, sicché l'attenuante non può essere applicata in concreto. La decisione assunta sul punto dalla Corte di merito va perciò confermata, sia pur correggendosene la motivazione nei modi suesposti. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 4 giugno 2010. Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2010