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Pagano - Mimmo Franzinelli

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Pagano - Mimmo Franzinelli
Giuseppe Pagano, l’intellettuale (in)attuale
Deportato nel Lager di Mauthausen, a metà aprile 1945 Pagano sente vicina la morte
e raccoglie le ultime energie per inviare l’estremo messaggio alla moglie Paola, al
fratello Zanetto e all’amico Giancarlo Palanti. I due lati di un foglietto, riempito in
ogni spazio, raccolgono il testamento morale e professionale di tutta una vita. «Non
piangere troppo e sii fiera della mia vita generosa. Pago di persona», scrive alla
moglie, in parole che sintetizzano l’itinerario esistenziale intenso e variegato di un
intellettuale che si era speso senza risparmio nella vita pubblica, in un trentennio di
vicende culturali, professionali, politiche e militari trascorse su vari fronti, in
posizioni via via differenziate: dall’irredentismo al nazionalismo, dal fascismo al
socialismo. «Ricordatemi bene uomo vivo e pieno di volontà. Sono stato stroncato di
violenza» confida al fratello, mentre il tempo gli sfugge tra le dita: «Non posso né
voglio scrivere di più». All’architetto Palanti affida la propria eredità spirituale. Le
righe finali sono sbiadite e interpretabili solo a tratti; i brani mancanti non
impediscono tuttavia la comprensione complessiva dell’ultimo messaggio, nel quale
Pagano ribadisce la sua fede socialista e precisa – a onta del tracollo fisico che lo
trascina anzitempo alla tomba – di serbare dignità e convinzioni interiori («Me ne
vado fiero»). Nell’imminenza del tracollo il morituro guarda fiducioso all’avvenire,
verso un futuro in cui immagina l’azione dei suoi compagni e riconosce in essa il
segno del comune impegno: «Ho dato la vita per il Partito e ne sono fierissimo.
Avevo tanti sogni, tanti progetti e tante speranze quasi certe. Finito! A Voi continuare
bene e meglio. Addio». Pochi messaggi di condannati a morte e di deportati della
Resistenza dispiegano, a oltre sessant’anni di distanza, eguale forza evocativa e
lucidità, con la capacità di proiettarsi oltre il proprio arco esistenziale con un tale
bagaglio di ricchezza umana.
Spessore morale e carica utopica delle ultime lettere riflettono la peculiarità di un
approccio esistenziale, che si è riverberato nei vari campi in cui l’intellettuale istriano
si è di volta in volta impegnato nei quarantotto anni della sua intensa esistenza. La
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biografia di Giuseppe Pagano Pogatschnig, straordinariamente avventurosa e
significativa, si dipana in un percorso arrischiato dalla grande guerra al fascismo,
dalla politica dell’architettura e dell’urbanistica alla guerriglia partigiana, segnato da
linearità e da discontinuità, da compromessi anche dolorosi per la sua coscienza – in
particolare il rapporto con Marcello Piacentini – caratteri in parte connaturati al suo
temperamento irruente e in parte condizionati dai processi storici.
Le straordinarie capacità innovative dimostrate nel campo dell’architettura e
dell’urbanistica hanno segnato, nella seconda metà del Novecento, la fortuna di
Pagano, conosciuto – essenzialmente grazie ai numerosi saggi di Cesare de Seta, che
ne ha curato l’edizione dei principali scritti – sul piano professionale, mentre sono
rimasti parizialmente in ombra gli aspetti della sua eclettica personalità di operatore
culturale e di politico. A pesare negativamente sugli studi è intervenuta la dispersione
del suo archivio, da ultimo segnata da deprecabili forme di appropriazione delle carte
depositate dalla famiglia alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli nel lontano 1976 e
inspiegabilmente «ritirate» da un privato col pretesto di valorizzarle e mai rese né alla
famiglia né alla Fondazione. Oggi la mostra a lui dedicata in terra di Spagna
evidenzia lo status di straniero in patria, che rende Pagano un personaggio per certi
aspetti poco noto e indecifrabile, sul quale da un trentennio non sono usciti nuovi
contributi e i cui scritti non vengono rieditati dai grandi editori.
Un primo motivo dell’inattualità di Pagano è consistito nella tendenza a presentare in
luce esemplare le biografie dei caduti antifascisti, in un’operazione di semplificazione
e – in definitiva – di deformazione, che ignora o quanto meno sottovaluta l’adesione
al regime di persone che credettero in Mussolini, tranne poi maturare un distacco
irrimediabile dalla dittatura e dedicare l’esistenza alla lotta contro il fascismo e il
nazismo. Rimozioni e accenni impacciati, persino diffamazioni che vorrebbero
offuscarne la moralità, impediscono di capire le ragioni del consenso prestato al
fascismo da una consistente parte di italiani, come pure di comprendere come mai
una parte ragguardevole di intellettuali abbia rivisto criticamente le proprie posizioni
e sia passata all’opposizione, spesso (ed è il caso di Pagano) con un attivismo
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interpretabile come bisogno di riguadagnare il tempo perduto, ben sapendo di mettere
a repentaglio la propria esistenza, poiché il regime non perdonava i «traditori». Ai
silenzi imbarazzati degli antifascisti hanno fatto riscontro – specie in anni recenti –
campagne scandalistiche di matrice anti-antifascista, per squalificare come
opportunisti quanti dopo avere militato con le camicie nere ne sono poi divenuti
avversari: approccio superficiale e moralistico, che pone al di sopra dei grandi
mutamenti storici un fattore soggettivo di coerenza, ritenuto la sola bussola di
riferimento. Queste banalizzanti interpretazioni perdono di vista lo sviluppo degli
eventi e delle persone. L’elemento decisivo per il distacco dal fascismo è
rappresentato dalla guerra, che ha aperto gli occhi a molti sul tragico bluff
rappresentato dalla dittatura. Non vi è peraltro automatismo tra la consapevolezza
delle conseguenze del bellicismo mussoliniano e il passaggio sulle barricate
dell’antifascismo. Vi è chi, come il giornalista Niccolò Giani, già promotore e
direttore della Scuola di mistica fascista «Sandro Italico Mussolini» (fondata a
Milano nel 1930), si immola sul fronte albanese, per non assistere al tramonto dei
propri riferimenti esistenziali. Giuseppe Terragni, altro innovatore dell’architettura,
smarrisce la fede fascista nella disastrosa campagna di Russia e, rimpatriato a inizio
1944, muore qualche mese più tardi per un’improvvisa trombosi, conseguenza del
crollo psico-fisico determinato dal crollo del mito mussoliniano.
Il rapporto di Pagano col fascismo passa dall’adesione giovanile all’impegno politico
che durante gli anni Trenta veicola battaglie culturali coniugate con una forte
sensibilità sociale; alla disillusione segue – su una linea consequenziale – l’arrischiata
lotta aperta.
Il dato di partenza per la comprensione del personaggio consiste nella sua origine
istriana (è nato a Parenzo il 20 agosto 1896) e nell’irredentismo di ascendenza
mazziniana che lo porta a battersi per il compimento dell’unità nazionale, nella
posizione di «traditore» vissuta da Cesare Battisti e da altri intellettuali di nazionalità
austro-ungarica arruolatisi volontari nell’esercito italiano. Conclusi gli studi liceali a
Padova, nei primi giorni del 1915 passa illegalmente il confine con l’intenzione di
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arruolarsi nell’esercito italiano, in previsione dell’intervento militare; in quella
circostanza italianizza il cognome da Pogatschig in Pagano. L’impeto con cui
partecipa alla guerra è attestato dalle ferite in combattimento, dalla duplice cattura e
dalle due fughe dalla prigionia austriaca, esposto al rischio dell’impiccagione in caso
di scoperta della sua identità. Decorato con quattro medaglie al valore, una volta
smobilitato si getta nella mischia per affermare i valori nazionali vissuti in modo
totalizzante ed è tra i fondatori del fascio del suo paese natale, Parenzo. La
partecipazione all’occupazione di Fiume con i legionari dannunziani è l’ulteriore
riprova della decisione di restare sulle linee avanzate della battaglia per l’italianità.
Laureatosi nel 1924 al Politecnico di Torino, intraprende un’attività professionale che
dal 1927 – con la nomina a capo dell’Ufficio tecnico dell’Esposizione internazionale
di Torino – lo vede rivestire un ruolo di primo piano a livello pubblico, nell’impegno
per un’architettura razionale. Un’intensa attività che, affiancata alla collaborazione
alla rivista «La Casa Bella» (di cui è redattore dal 1930 e direttore dal 1939), gli vale
ampia notorietà come alfiere della battaglia contro monumentalismo e accademia, per
un’architettura aperta alla grande tradizione modernista europea e al servizio delle
esigenze sociali, quale strumento essenziale del miglioramento della qualità della
vita. In campo politico si fa guidare dalla fiducia in Mussolini – in un rapporto
personale col duce allacciato nel 1919 – quale artefice del rinnovamento nazionale e
riveste l’incarico di consultore della Scuola di mistica fascista. L’interesse politico è
peraltro in funzione dell’attività artistica, in un contesto di modernizzazione
dell’architettura e dell’urbanistica secondo criteri di funzionalità e razionalità. Il più
giovane collega Ernesto Nathan Rogers ne inquadrerà l’adesione al regime attraverso
una riflessione generale: «Gli architetti italiani moderni, dal più al meno, passarono
per il fascismo; anche quelli che non aderirono, vi collaborarono con qualche opera:
le mostre, gli edifici, le riviste». Valutazione valida per i musicisti e per i giuristi, per
i giornalisti e per i poeti, per gli atleti e per i religiosi in un imponente fenomeno di
adattamento – per alcuni convinto, per altri conformistico – favorito dai tratti
totalitari del regime, che utilizzò con gli intellettuali la strategia del bastone e della
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carota. Secondo Rogers, «La fede nell’architettura spinse e guidò Pagano nella
pericolosa strada del collaboratore prima, del dissidente poi e infine dell’avversario».
Lo scollamento dal regime è preparato dai contatti stabiliti nella seconda metà degli
anni Trenta con intellettuali europei d’avanguardia (ad esempio con Le Corbusier) e
da un illuminante viaggio in Svezia e Finlandia dove conosce Alvar Aalto. Sul piano
artistico le polemiche col monumentalismo piacentiniano – con particolare
riferimento all’E 42 – lo portano a contrapporsi alla visione mussoliniana
dell’architettura fin dal 1937 dopo l’infelice compromesso della collaborazione alla
Città universitaria di Roma con Piacentini, che ebbe lo scaltro interesse a coinvolgere
Pagano e Michelucci, alfieri del fronte modernista. Il 19-20 febbraio 1940 partecipa
al Convegno nazionale di mistica fascista: mentre nell’anno accademico 1938-39
aveva relazionato su La funzione rivoluzionaria dell’arte, stavolta non tiene alcun
discorso. Legato all’architetto romano Amedeo Luccichenti nel comune impegno per
un’architettura svincolata dai «maneggioni» di Stato, vorrebbe convincere il duce
dell’esigenza di una radicale svolta sul terreno dell’urbanistica, dell’edilizia popolare
e più in generale dell’architettura razionalista «come arte di Stato», ma alla richiesta
di udienza gli si risponde di inviare un memoriale: «Come vedi – scrive a Luccichenti
– siamo fregati in pieno e non credo che sia il caso di insistere oltre»; Pagano evoca
«una dignità umana che non può essere superata» e indica la via di una battaglia di
testimonianza, per «cercare ancora di creare una minoranza moralmente pura,
vigilissima e piena di fede in modo di salvare, per la storia, il buon nome
dell’architettura italiana», senza speranze di vittoria: «moriremo sulla breccia con la
bandiera dell’architettura moderna» (lettera del 1° gennaio 1940). Non si tratta di
dispute teoriche ma di questioni legate alle condizioni di vita di milioni di persone e
alla credibilità del regime, ovvero alla sua capacità di fronteggiare le sfide
dell’urbanesimo: «L’80% della popolazione italiana lavora, fatica e produce per
pagare l’affitto a chi specula sul fatto che l’uomo non può vivere all’aperto. Può dirsi
veramente rivoluzionaria e vicina al popolo una organizzazione politica che accetta
questa situazione?». Una denuncia – quella sviluppata sul n. 148 (agosto 1940) di
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«Costruzioni-Casabella» – cui segue, sul numero 157 del gennaio 1941 la
contestazione del concetto di «romanità», nel saggio Potremo salvarci dalle false
tradizioni e dalle ossessioni monumentali?, definito scaramanticamente «un bel
testamento» nel momento in cui presenta con altri colleghi della Scuola di mistica
fascista domanda di arruolamento ed è assegnato al fronte greco-albanese col grado
di maggiore di fanteria. In trincea «l’aria è molto più pura» che a Roma, dove le
posizioni rinnovatrici sono combattute con provvedimenti quali il sequestro del
numero di febbraio (158) di «Costruzioni-Casabella» a causa dello scritto Occasioni
perdute.
Il 30 marzo 1942 Pagano inaugura all’Accademia di Brera la mostra dello scultore
Salvatore Fancello, caduto nel 1940 in Albania. L’oratore descrive l’arte di Fancello
come «così poco rettorica, così contraria alle roboanti adulazioni, così estranea a quel
conformismo sindacale che tanto piace alle ufficialità delle autorevoli commissioni di
stato». Il discorso – che sancisce il dissenso di Pagano dal regime – culmina
nell’invettiva contro «le altissime gerarchie ufficiali», responsabili di una
degenerazione
irreversibile,
caratterizzata
dall’«invadente
disprezzo
per
l’intelligenza, per la personalità e per la competenza che il costume italiano sempre
va ostentando; la tracotante prepotenza dell’utilitarismo, dell’affare e del
compromesso contro ogni ragionata difesa delle superiori ragioni dell’arte e delle sue
necessarie libertà».
Richiamato alle armi nel dicembre 1942 col grado di colonnello, si dimette dal Partito
nazionale fascista e dalla Scuola di mistica fascista. É la formalizzazione della fine
del lungo viaggio dentro il fascismo. Poco portato alle mediazioni e alle mezze
misure, da quel momento è tra i più decisi oppositori del regime, con una forza via
via accumulata in anni di frustrazioni per un fiancheggiamento sempre più
insoddisfacente.
Intellettuali non opportunisti quali Giuseppe Pagano, Teresio Olivelli e Giacomo
Cappellini (per affiancargli due appartenenti alla generazione successiva)
comprendono grazie alla guerra che la salvezza della Patria esige l’abbattimento del
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fascismo. Al distacco critico da istituzioni e personaggi in cui si era creduto segue,
sin dall’8 settembre 1943, l’azione di coordinamento e di direzione di soldati
sbandati, per trasformare la renitenza in resistenza. Pagano organizza in Lombardia le
Brigate Matteotti, Olivelli è tra i promotori del foglio clandestino «il Ribelle»,
Cappellini diviene il comandante di una formazione di Fiamme Verdi attestata nella
media Valcamonica. Olivelli – insegnante universitario e rettore del Collegio
Ghislieri di Pavia – muore il 12 gennaio 1945, nel Lager di Hersbruck, percosso da
un guardiano che lo punisce per la solidarietà verso un deportato ebreo. Cappellini –
maestro elementare, già istruttore della Gioventù italiana del littorio – viene catturato
il 21 gennaio 1945 dai fascisti, condannato a morte e fucilato alla schiena il 22 marzo
nel castello di Brescia.
Il colonnello Pagano, trasferito in Toscana, a Carrara, presso l’Istituto sperimentale
della Marina, allaccia contatti segreti con nuclei di oppositori e matura posizioni
socialiste. A Firenze incontra il suo amico Carlo Ludovico Ragghianti, collaboratore
autorevole di «Casabella» e tra i dirigenti toscani del Comitato di Liberazione
Nazionale. Nel periodo badogliano diffonde il giornale clandestino «Avanti!» e
svolge azione propagandistica nell’esercito. L’8 settembre 1943, quando la
divulgazione dell’armistizio senza direttive chiare getta le forze armate italiane nel
caos, Pagano si trova a Milano e propugna l’azione armata contro i tedeschi.
L’esperienza si dimostra poco produttiva, in quanto il comandante della Piazza,
generale Vittorio Ruggero, tradisce gli antifascisti e – dopo avere loro promesso la
distribuzione delle armi – le consegna ai tedeschi. Pagano preferisce operare in una
realtà da lui ben conosciuta: quella di Carrara, dove ha prestato a lungo servizio
militare e conta di porre a buon frutto le conoscenze in area antifascista, realizzando
ciò che a Milano si è rivelato impossibile. Allestisce una rete clandestina nelle
caserme ma la sera del 9 novembre viene catturato all’esterno di una postazione della
Milizia, armato di una pistola. Deferito al Tribunale speciale, nell’attesa del processo
è trasferito al carcere di Brescia. Si tratta di una prigionia di otto mesi, segnata dalla
fame e insolitamente attiva, nella quale il recluso stabilisce un canale di
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comunicazione con la rete clandestina socialista. Il curriculum combattentistico, la
trascorsa militanza fascista e la notorietà di intellettuale potrebbero ottenergli la
liberazione, al prezzo di un adattamento opportunistico per mascherare il suo status
resistenziale, tanto più che qualche gerarca – segnatamente l’ex segretario fascista
Scorza – vorrebbe giovargli in nome della vecchia amicizia (differentemente da
Mussolini che, a conoscenza della detenzione di Pagano, evita qualsiasi intervento in
suo favore). Questa comoda via d’uscita viene da lui respinta, per non tradire la scelta
antifascista e ricadere in una dimensione di ambiguità: «Non posso né voglio
assolutamente nessuna soluzione di compromesso. Preferisco prendermi i miei
trent’anni di galera piuttosto che dichiararmi pentito o magari filofascista. Ormai
Basta! con queste porcherie!»; così scrive ai «carissimi Giancarlo [De Carlo] e
Zanetto» il 22 marzo 1944. Imprigionato nel Castello di Brescia, studia un sistema di
prefabbricazione della casa e documenta con tre rullini fotografici la condizione
carceraria, segna in acute pagine diaristiche il giudizio sul tentativo di rilegittimare il
fascismo di Salò con l’appello ai programmi socialistoidi del 1919: «Chi comanda ha
confusa la responsabilità morale del potere con la libidine di un arbitrio assurdo,
pazzescamente illusi di essere investiti da un destino grottesco di dominio su tutti e su
tutto, come se non bastasse l’evidente sfiducia di tutta la maggioranza degli italiani
per questo regime di volta-gabbane che si trasforma adesso in un grande stato
socialista e repubblicano, copiando come gli scolaretti testoni quel che non vollero
capire in tempo utile».
All’occasione opportuna, durante un bombardamento notturno, alle 3 di mattina del
13 luglio 1944, evade con oltre duecento detenuti ed è l’ultimo a lasciare la fortezza,.
Tornato a Milano, riprende la direzione delle Brigate Matteotti e la vita cospirativa.
Scrive per la stampa clandestina Reazione artistica in berretto frigio, violento attacco
a Ugo Ojetti (vicepresidente dell’Accademia d’Italia) e in genere agli intellettuali
collaborazionisti, suggellato da una frase emblematica: «Ormai tutto è chiaro: da una
parte il nazismo con la sua corte di sguatteri nostrani; dall’altra la gente che non
vende la propria coscienza e che lavora e sogna e opera “come ditta dentro”». Si
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tratta di un breve quanto intenso interludio di libertà. La sera del 5 settembre
partecipa a una riunione del Partito socialista, nella quale concorda per l’indomani
mattina un appuntamento cospirativo, ma tre traditori informano la Banda Koch –
formazione di polizia speciale al servizio dei nazisti – che cattura Pagano e lo
imprigiona in una palazzina denominata Villa Triste.
Durante la dura prigionia, intervallata da torture e percosse di cui riferiranno
diffusamente Mino Micheli e altri reclusi, anima il collettivo dei detenuti con
utopiche descrizioni della città del futuro, in conversazioni che si sviluppano col
contributo dei compagni di pena, molti dei quali sono professionisti (avvocati,
insegnanti ecc.) di fede socialista. Uno di questi, il bresciano Guglielmo Ghislandi,
che come Pagano era stato volontario nella prima guerra mondiale ed era infine
approdato al socialismo, ha descritto in tinte vivide quei momenti di vita comune
sospesa tra l’incertezza del presente e la fiducia nell’avvenire:
L’architetto amava portare la conversazione sulla sua arte e descrivere a se stesso e a noi la visione di un’Italia nuova e
rinnovata anche nelle sue esigenze edilizie ed urbanistiche. Ci parlava di un suo progetto di città-giardino, a immagine e
somiglianza di quanto egli aveva visto ed ammirato nei suoi viaggi nei più progrediti paesi di Europa, specialmente in
Svezia: case ampie, chiare dipitture esterne ed interne, con locali razionalmente disposti, secondo la tecnica più
moderna, accoppiata a opportuni ma non ristretti criteri di economia, finestre amplissime da cui entrasse il beneficio
dell’aria purificata dal verde tutt’attorno e dove la luce, la luce, la luce dominasse risanatrice sovrana.
Egli aveva chiamato quel suo progetto Città Verde; qualcuno di noi disse: «Meglio forse Città Luce, perché, ancora più
del verde, pur tanto necessario ed augurabile, la luce costituirebbe la caratteristica più significativa in quelle case e città
di un’Italia futura, finalmente libera e redenta». «Luce» aggiunse altri «che non sarà dunque soltanto di sole, ma di
nuova civiltà e di nuova storia». «Luce» concludemmo quindi, tutti o quasi tutti, «di socialismo, perché soltanto in una
società socialista sarebbero possibili iniziative tanto grandiose e concrete di rinnovamento della nostra terra e della
nostra gente».
Ed ecco Città Luce significare per noi, dopo di allora, qualche cosa di assai più vasto che non il geniale, ma limitato,
progetto di un architetto urbanista, e cioè la visione non di una sola città-modello, ma di tutta una nazione risorta sulle
vie del più luminoso progresso e benessere civile e sociale; la realizzazione concreta di un ideale e, in definitiva,
l’ideale stesso della nostra fede, della nostra lotta, del nostro sacrificio. Insomma: Cuttà Luce = Socialismo.
Nel dopoguerra Ghislandi, divenuto sindaco della Liberazione di Brescia,
commenterà quei momenti indimenticabili con parole commosse e pietose:
Sì, Città Luce, povero Pagano, sarà; ma non così presto né così facilmente come animi fondamentalmente romantici
come il tuo e di non pochi dei tuoi ascoltatori di allora potevano, fin da allora, sperare. Il socialismo, sogno di ieri e
speranza di oggi, sarà la realtà inarrestabile e insopprimibile di domani. Ma prima di quel giorno, quante lotte ancora, e
lacrime e sangue, e vite anzitempo stroncate! E, fra le tante, anche la tua, o generoso nostro compagno di fede e di
azione.
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Trasferito nel carcere di San Vittore, Pagano chiede di partire per la Germania come
lavoratore volontario: egli ha in animo di fuggire durante il trasporto ferroviario,
grazie ad un seghetto e ad alcuni strumenti preparati per la circostanza. Il 9 novembre
viene internato nel campo di Gries, alla periferia di Bolzano, e il 22 novembre è
deportato a Mauthausen. Dopo un paio di settimane è assegnato al sottocampo di
Melk. Il lavoro coatto nelle miniere è inasprito dalle percose di un guardiano, che
provocano broncopolmonite traumatica e febbre alta. Muore il 22 aprile 1945, a una
dozzina di giorni dal decesso – in un altro sottocampo di Mauthausen: Gusen –
dell’architetto Gian Luigi Banfi, suo amico e collaboratore; nel gennaio dello stesso
anno si era spento a Gusen il critico Raffaello Giolli, lui pure esponente di spicco
dell’impegno politico della parte migliore degli artisti italiani.
Ricoverato nell’infermeria, a pochi giorni dalla fine Pagano ha scritto un lucido addio
alla vita sui due lati di un foglietto, ricoperto con grafia fitta e irregolare, affidato a
Alessandro Nardini che lo ha nascosto nella sua cintura tubulare e al termine della
guerra lo ha consegnato ai familiari. Un testamento nel solco della fedeltà a quanto
egli aveva preannunciato sul numero dell’agosto 1943 di «Costruzioni-Casabella»,
nella conclusione del messaggio agli artisti italiani, invitati «a quell’azione pratica e
personale che si svolgerà in circostanze certamente eccezionali e che richiederà ad
ognuno di noi un impegno morale elevatissimo, un’obbedienza assoluta alla voce
della coscienza, una coerenza rigorosa con la missione che ognuno di noi si è
prescelta, impegnando tutta la nostra vita e la nostra arte a quel bel modo di pagar di
persona che i nostri uomini del risorgimento, da Cattaneo e Pisacane, ci hanno
opportunamente insegnato». Una consegna cui Pagano rimarrà fedele sino
all’estremo e che – nell’esortazione alla presa di coscienza, alla coerenza interiore e
alla disponibilità a pagare un prezzo per i propri ideali – riassume le ragioni della sua
(in)attualità.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Giancarlo Palanti, Notizie biografiche, e Ernesto N. Rogers, Catarsi, in «Costruzioni Casabella» n. 195-198, fascicolo speciale dedicato all’architetto
Giuseppe Pagano [ristampa anastatica allegata a «Casabella» n. 764, febbraio 2008], pp. 3-17 e 41-42
Guglielmo Ghislandi, Città Luce, in «Brescia Nuova», maggio 1953 (riedito in G. Ghislandi, Socialismo e ricostruzione, Brescia, Vannini, 1957, pp.
31-42)
10
Cesare de Seta, La cultura architettonica in Italia tra le due guerre, Napoli, Electa, 1972 (VI ed. riveduta e aggiornata 1998)
Id., Introduzione a Giuseppe Pagano, Architettura e città durante il fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1974 (ried. 1990, pp. XI-LXXI e ora la ristampa
aggiornata presso Jaca Book, 2008)
Riccardo Mariani, Giuseppe Pagano architetto fascista, antifascista, martire, in «Parametro» n. 35, aprile 1975, pp. 4-36
Giuseppe Pagano fotografo, a cura di Cesare de Seta, Milano, Electa, 1979
Cesare de Seta, Il destino dell’architettura. Giolli Persico Pagano, Roma-Bari, Laterza 1985
Giuseppe Pagano, Lettere ad Amedeo Luccichenti (1941-1943), a cura di Furio Luccichenti, Roma, 1987
Alberto Bassi e Laura Castagno, Giuseppe Pagano. I designer, Roma-Bari, Laterza
Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza, a cura di Mimmo Franzinelli, Milano, Mondadori, 2005, pp. 279-281
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