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TrOppe cOincidenze

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TrOppe cOincidenze
Giuseppe Ayala
Troppe
coincidenze
Mafia, politica, apparati deviati, giustizia:
relazioni pericolose e occasioni perdute
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© 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
I edizione Frecce gennaio 2012
I edizione Oscar bestsellers gennaio 2013
ISBN 978-88-04-62256-7
Questo volume è stato stampato
presso Mondadori Printing S.p.A.
Stabilimento NSM - Cles (TN)
Stampato in Italia. Printed in Italy
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indice
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Premessa
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Introduzione
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stragi e coincidenze
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carta canta
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dalla prima repubblica alla seconda
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la rivincita dell’ulivo
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l’occasione perduta
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la mafia oggi
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Troppe coincidenze
Ai contemporanei che,
come me, vivono a disagio
nella contemporaneità.
Ma non si arrendono
Un ringraziamento
particolare va a mia moglie,
e per molte ragioni.
Lei le conosce
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premessa
Ho vissuto negli ultimi trent’anni una striscia di
tempo che mi sembra ancora appartenere alla cronaca. Alludo ai giorni in cui gli eventi della politica
si intrecciarono con quelli criminali, sino al punto
da marchiare la gran parte dei percorsi che hanno
segnato il destino del paese.
l’attualità ci sorprende spesso per le modalità con
cui si sviluppa. un’analisi attenta dei fatti avvenuti
consente, però, di riportare alcune «circostanze misteriose» alla loro effettiva dimensione di «conseguenze non casuali».
Ho vissuto da testimone diretto molte di queste
vicende.
le più lontane nel tempo nella mia sicilia, dove
un esercito criminale decise di attaccare lo stato costringendolo a uno scontro frontale. la risposta delle istituzioni fu pronta ma, poi, per ragioni solo in
parte chiarite, a rapide avanzate seguirono smarrimenti e ripiegamenti.
si inserirono in quel conflitto anche pezzi deviati
dello stato, apparati malati che, indossando la cravatta di rito, tramavano giocando la loro sporca partita in mezzo alle bombe della devastazione.
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il caso volle che nel 1992, poco prima delle tremende stragi di capaci e via d’Amelio, cambiassi
ruolo. passai da un osservatorio privilegiato a un
altro. non più pubblico accusatore a palermo, ma
membro del parlamento proprio in coincidenza con
una svolta senza precedenti. Travolto dal ciclone di
Tangentopoli, crollava un intero sistema di potere.
usciva di scena la prima repubblica per cedere il
posto alla seconda.
in quella fase l’italia sembrava volersi cancellare
per riscriversi da cima a fondo con un linguaggio
nuovo, ripulito da ogni nefandezza. l’opinione pubblica si mostrava risvegliata e rinnovata in ogni sua
piega. la grande occasione era a portata di mano.
Ma il filo che in quegli anni ha tracciato le sorti del
nostro paese ha finito con il tenere legati gran parte degli slanci e delle speranze.
Mentre la «rivoluzione morale» provava a farsi
largo, altre bombe esplosero nel 1993, lasciando a
terra cadaveri e misteri. non sopravvisse neppure
il rinnovamento politico e istituzionale che sembrava alle porte. la sua energia ripiegò verso un’italia
guidata più dalla pancia che dal cuore.
in realtà, mentre il paese si affaccia a nuovi cambiamenti, l’epoca che ho deciso di analizzare si accinge a diventare storia. un passaggio durante il
quale, però, è più che mai necessario che i buchi
neri che la punteggiano siano finalmente rischiarati dalla luce della verità.
non sarà facile. Ma dobbiamo crederci, tenendo la fiammella della speranza al riparo dal vento
dell’oblio.
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introduzione
l’aeroporto di Fiumicino è un luogo che frequento
molto spesso. sono abituato al brusio che lo attraversa, al susseguirsi degli annunci dei voli in partenza,
all’andirivieni dei passeggeri costretti ad attendere
per un’eternità l’aereo che li porterà a destinazione
o, al contrario, a correre come disperati per raggiungere il gate che li aspetta per l’imbarco.
invece, nella serata del 23 maggio 1992, attraversai il grande salone che mi separava dal club
Freccia Alata senza percepire null’altro che i passi
dei ragazzi della scorta che correvano al mio fianco.
Giovanni e Francesca erano morti. e con loro anche
tre «angeli custodi» che conoscevo benissimo. ero
concentrato con tutto me stesso su un solo obiettivo: arrivare a palermo al più presto.
non avevo biglietto, né prenotazione. la prima
voce che sentii distintamente fu quella della hostess,
consapevole del mio problema, ma costretta lo stesso a comunicarmi che il volo era già chiuso e, per
di più, completo. il successivo sarebbe decollato
due ore dopo.
la guardai negli occhi per un po’. non dissi nulla. Avvilito e rassegnato, mi sedetti su un divano.
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dopo qualche minuto fui costretto a rialzarmi. la
hostess aveva lasciato il suo banco e correva verso
di me: «Onorevole, può imbarcarsi. Faccia presto,
il comandante l’attende».
«Ma il volo non era pieno?» farfugliai.
«certo, ma un passeggero ci ha comunicato di rinunciare pur di consentire il suo imbarco. le ha ceduto il posto.»
con l’animo gonfio di gratitudine nei confronti dell’ignoto benefattore raggiunsi di corsa il mio
posto in fondo all’aereo. Allacciai la cintura di sicurezza, alzai lo sguardo e notai una giornalista e un
cameraman del Tg3 avvicinarsi e chiedermi un commento su quanto era avvenuto due ore prima a palermo. «Mafia è poco. non è solo mafia.» sono queste
le parole a cui affidai una sorta di istintivo sfogo del
pensiero che, più di ogni altro, in quel momento mi
martellava il cervello: l’esecuzione della strage è mafiosa; la matrice, però, è più complessa e non fa capo
soltanto a cosa nostra. rivendico di essere stato il
primo a dichiararlo ai mass media, cedendo a una
spinta emotiva, visto il momento, ma ciò non toglie
che non mi pento affatto di aver detto quelle parole.
in quei drammatici momenti avvertivo di essere
preda di due sentimenti fortissimi. dolore, certo, e
tanto. Ma anche rabbia. Molta rabbia. registravo
una frenetica attività del mio cervello. Mi venivano
in mente in modo tumultuoso valutazioni e correlazioni tra fatti che elaboravo alla disperata ricerca di
capire, di inquadrare, di mettere a fuoco le ragioni
che erano concorse a realizzare lo «scenario» che
aveva portato alla tremenda strage di quel giorno.
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stragi e coincidenze
una coincidenza temporale attrasse, a un certo punto, la mia riflessione.
ero stato eletto deputato da poco più di un mese.
l’undicesima legislatura si era aperta con l’elezione
di Oscar luigi scalfaro alla presidenza della camera. poi erano iniziate le votazioni per l’elezione di
un altro presidente, quello della repubblica. Francesco cossiga, infatti, si era dimesso subito dopo la
recente consultazione elettorale. le sedute si susseguivano senza che alcun candidato riuscisse a raggiungere il quorum necessario. nei lunghi intervalli,
passeggiando in Transatlantico, ero stato informato
delle difficoltà che, all’interno della dc, incontrava il
varo della prevista candidatura di Arnaldo Forlani.
il 16 maggio, arrivato in aula, appresi che quelle
difficoltà erano state superate. il voto di quel giorno, quindi, avrebbe riguardato proprio Forlani. Al
termine dello scrutinio, però, contrariamente alle
previsioni dei più, non si passò alla proclamazione
dell’eletto. erano mancati all’appello trentanove
voti, che si ridussero a ventinove nella successiva
votazione pomeridiana. la candidatura di Forlani
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venne ritirata. il Quirinale continuava a rimanere
senza inquilino.
si materializzò, a quel punto, una frenetica attività degli andreottiani. iniziata, per la verità, con tutta la discrezione del caso, sin dalle prime votazioni,
ma rimasta sotto traccia. incassata la bocciatura di
Forlani, i giochi si riaprirono e vennero allo scoperto. i parlamentari furono contattati uno per uno, me
compreso, per saggiare la loro disponibilità a orientare il proprio consenso in favore del «sette volte capo
del governo». cresceva e si diffondeva la convinzione
che a una delle prossime votazioni Giulio Andreotti
sarebbe stato trasferito da palazzo chigi al colle più
alto. probabilmente già da lunedì 25 maggio.
Mentre l’aereo iniziava la sua discesa verso punta
raisi, mi chiedevo: dopo la strage di oggi, rimarrà
in piedi la candidatura di Andreotti? sul candidato
in pectore si addensavano ombre che la drammatica
straordinarietà di quel giorno rendeva assai cupe.
Tra le tante, l’antica accusa di eccessiva prossimità politica con l’onorevole salvo lima, da sempre ritenuto contiguo agli ambienti mafiosi. non c’erano
processi a suo carico, è vero. Ma gli atti della commissione antimafia che lo riguardavano pesavano
come macigni.
lima era stato ucciso il 12 marzo di quell’anno.
cosa nostra gli aveva presentato il conto del promesso, ma mancato, «aggiustamento» del Maxiprocesso che aveva superato indenne il vaglio della cassazione il 30 gennaio. condanne pesantissime, tra
le quali l’ergastolo per tutti i capi di cosa nostra,
erano ormai definitive.
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sTrAGi e cOincidenze
A quel punto, anche Andreotti agli occhi della
mafia era diventato un traditore. il potere che lima
si era impegnato a far pesare sul verdetto della cassazione non era certo quello suo personale, di sicuro non sufficiente, ma quello del suo dante causa
politico. non c’era neanche bisogno di esplicitarlo. Quel potere, però, era rimasto inerte. e la mafia ne aveva tratto già una prima conseguenza con
l’uccisione di lima. Figurarsi se poteva restare indifferente all’ascesa del «dante causa» al Quirinale. un’onta, uno sfregio: così sarebbe stata vissuta
dai mafiosi la sua elezione. e non solo da loro, ma
anche dai «settori contigui» del potere.
l’interrogativo che ponevo a me stesso sugli effetti di quella «coincidenza temporale» risultò più
che giustificato. in quel momento non potevo saperlo, ma la risposta era già arrivata mentre volavo verso palermo e si materializzò nell’immediata
rinuncia da parte di Andreotti a ogni ambizione
quirinalizia.
nella stessa serata del 23 maggio, infatti, claudio
petruccioli, che aveva curato le trattative politiche
per l’elezione del presidente della repubblica per
conto del pds, ricevette una telefonata dall’andreottiano nino cristofori, sottosegretario alla presidenza
del consiglio, che gli chiedeva un incontro urgente.
ricorda petruccioli nel suo Il Rendiconto che «quel
sabato pomeriggio piombò la notizia dell’attentato a Falcone». e soggiunge: «l’impressione fu enorme. lo sbandamento anche. Mi telefonò cristofori:
voleva parlarmi. Andai da lui. Mentre percorrevo
i pochi metri che separano palazzo chigi da Mon-
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tecitorio cercavo di immaginare cosa mi avrebbe
detto. pensavo all’ennesima versione del discorso
dell’emergenza: “siamo a un punto gravissimo, dobbiamo trovare l’unità di tutti, chi meglio di Giulio
può renderla possibile, ecc. ecc.”. sbagliavo. Trovai
cristofori pallidissimo, prostrato. Quel che mi disse non lo dimenticherò mai.
«lui – e il suo capo – interpretavano la strage
di capaci come un attacco diretto per sbarrargli la
strada del Quirinale. Mi impressionò che la terribile
analisi fosse svolta a caldo, con certezza assoluta e
una certa rassegnazione, come se il messaggio fosse talmente chiaro da indurli subito a rinunciare a
un obiettivo coltivato per tanto tempo, con pazienza e accortezza.»
e ancora: «non ci fu il più vago accenno al ragionamento dell’emergenza. Fu la seconda volta, dopo il ritiro di Forlani (ma dovrei dire la terza perché anche craxi non aveva mai osato uscire
allo scoperto), in cui avvertii aleggiare lo spirito
dell’abdicazione. come se ciascuno dei componenti del potentissimo caf avvertisse che la situazione
era sfuggita di mano; come se si fossero mosse forze potenti, che essi erano perfettamente in grado
di valutare, ma non potevano più controllare. una
sensazione.
«Mi venne tuttavia rafforzata quando, rientrato
da palazzo chigi a Montecitorio, nella sede del nostro gruppo, Violante mi disse che l’addetto stampa di Andreotti (Andreani, giornalista ex radicale) gli aveva fatto lo stesso discorso. sembrava una
spiegazione per l’uscita di scena.»
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in un recente colloquio petruccioli mi ha confidato di avere omesso, per mera distrazione, nel
suo racconto un particolare tutt’altro che irrilevante: l’incontro con cristofori avvenne quando ancora non era giunta conferma della morte di Falcone.
le «forze potenti» di petruccioli fanno pensare ai «centri occulti di potere» di cui aveva parlato
Falcone all’indomani dei fatti dell’Addaura. dov’è
la differenza?
Quello che è certo è che la strage di capaci ebbe
l’effetto di fermare la corsa di Andreotti verso il
Quirinale e di aprire le porte di quel palazzo a Oscar
luigi scalfaro, che con quella corsa non c’entrava
un bel niente, essendo stato eletto presidente della
camera il 24 aprile.
una coincidenza, ripeto. Ma che coincidenza! destinata, tuttavia, a rimanere ancora tale, posto che
da nessuna indagine sono emersi elementi idonei
a stabilire un volontario nesso tra l’attuazione della strage e i suoi innegabili effetti sulla successiva
elezione del presidente della repubblica.
ciò non toglie che l’univoca «lettura» dell’attentato
effettuata nell’immediatezza da Andreotti e dai suoi
più stretti collaboratori si rivela più che inquietante.
le stragi del 23 maggio e 19 luglio 1992 sono state volute dalla mafia. su questo non ci piove. Ma è
ragionevolmente possibile escludere a priori che vi
siano stati coinvolti anche «pezzi deviati», come si
suol dire, dello stato?
Ho sempre pensato che la risposta non può che
essere positiva. la mia convinzione non è frutto né
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di pierinismo, né di furia dietrologica, ma, più semplicemente, della piena condivisione delle convinzioni di Falcone.
Giovanni, com’è noto, scampò a un attentato ordito ai suoi danni il 21 giugno 1989. su uno scoglio
a pochi metri dalla villetta all’Addaura dove si era
trasferito quell’estate era stata collocata una grande borsa da sub contenente ben cinquantotto candelotti di dinamite. un uomo della scorta la notò,
si allarmò, avvertì gli altri suoi compagni, i quali
prelevarono Giovanni e lo portarono immediatamente al sicuro, all’interno del suo ufficio bunker
al palazzo di giustizia.
ricevetti poco dopo una telefonata. Falcone mi
chiedeva di raggiungerlo al più presto. Accadeva
spessissimo, quindi non mi preoccupai più di tanto. né il tono della sua voce mi era apparso diverso dal solito. Quando ci trovammo di fronte, mi
raccontò l’accaduto con ostentata pacatezza e senza tradire alcuna particolare emozione. era lucido,
come al solito. Ma non freddo. il suo self control,
come sempre, teneva a bada l’emotività.
parlammo a lungo. la sua analisi fu puntualissima e dettagliata. la condivisi in pieno: non faceva una grinza, purtroppo.
l’ho sempre tenuta per me per la semplice ragione
che Giovanni Falcone è morto e, quindi, potrei fargli dire quello che voglio. non mi sfiora neanche la
tentazione di farlo. Ma non rischio l’accusa di reticenza, perché il succo del suo ragionamento comparve pochi giorni dopo in un’intervista che decise di rilasciare alla «stampa».
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ecco le sue parole: «ci troviamo di fronte a menti
raffinatissime che tentano di orientare certe azioni
della mafia. esistono forse punti di collegamento
tra i vertici di cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che
sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono
capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi … sto assistendo all’identico
meccanismo che portò all’eliminazione del generale dalla chiesa … il copione è quello. Basta avere
occhi per vedere».
segnalo il ricorso al «forse», tipico della cautela
di Falcone. non amava apparire depositario di certezze, e proprio per questo le sue affermazioni risultano più forti. provengono, infatti, da un uomo
che le parole non le contava, le soppesava.
Appresi dell’intervista, la lessi subito e chiesi a
Falcone come mai si era deciso a compiere quel passo. A nessuno poteva sfuggire la gravità del suo pensiero e, ancor di più, della scelta di renderlo pubblico.
la sua decisione era stata, come al solito, meditata. una sorta di reazione a una campagna di disinformazione che era stata subito veicolata dai media,
secondo la quale «l’attentato se l’era fatto lui». per
non dire di un’altra scuola di pensiero, più cauta,
che ridimensionava l’accaduto a semplice atto intimidatorio e non a un attentato vero e proprio.
rispose alla mia domanda precisando: «con tutto
il rispetto per i lettori della “stampa”, non è a loro
che ho voluto rivolgermi, ma ai centri occulti. così
sanno che ho capito. la soddisfazione è magra, lo
so, ma è l’unica di cui disponevo».
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non ho mai coltivato il mito dell’infallibilità di
Falcone. era un uomo e, in quanto tale, poteva anche sbagliare. Ma ritengo improbabile che possa avere fallito proprio sulla materia che più di chiunque
altro al mondo padroneggiava.
e allora la mia deduzione risulta assai semplice.
se lo scenario del giugno 1989 è stato effettivamente
quello disegnato da Falcone, qualcuno mi deve dimostrare che, invece, quello delle stragi del 1992 sia
stato diverso. nessuno a tutt’oggi l’ha fatto. Ma non
mi nascondo una circostanza innegabile: vent’anni
di indagini non hanno consentito il reperimento di
seri elementi di conferma dello «scenario» immaginato da Falcone; la mia convinzione rimane, tuttavia, ferma. e comincia a trovare, sia pure a distanza di molti anni, qualche spiraglio di conferma in
due importanti novità giudiziarie. l’ipotesi investigativa – diversamente non la si può definire – rimane dunque in piedi.
sono state di recente riaperte le indagini sull’attentato dell’Addaura. sono emersi, infatti, elementi
tali da rendere concreto il collegamento tra quell’attentato e gli omicidi degli agenti di polizia Agostino
e piazza, quest’ultimo inserito nei servizi, consumati poco tempo dopo quel 21 giugno. il movente, infatti, potrebbe essere unico, in quanto ricollegabile
all’attività che i due avrebbero svolto per impedire
che l’esplosivo contenuto nella borsa da sub piazzata davanti alla villa di Falcone esplodesse.
Ma c’è dell’altro. le scrupolose e pazienti indagini condotte dalla procura di caltanissetta porteranno alla revisione dei processi per la strage di via
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d’Amelio, conclusi da tempo con sentenze passate in giudicato. la verità processuale accertata è risultata falsa. il collaboratore di giustizia Gaspare
spatuzza ha smentito clamorosamente il racconto
dei pentiti posto a suo tempo a base delle indagini
che condussero all’individuazione dei presunti colpevoli della strage.
spatuzza ha riferito, infatti, di essere stato egli
stesso l’autore del furto della Fiat 126 che fu imbottita di tritolo e parcheggiata sotto l’abitazione della madre di paolo Borsellino. lui e nessun altro. A
riprova ha precisato che, dopo il furto, si accorse
che i freni di quella macchina funzionavano male,
per cui li fece sostituire. un accertamento tecnico
disposto sui resti dell’auto ha confermato il particolare decisivo. un riscontro monumentale, sufficiente da solo a demolire la costruzione processuale
realizzata sulla versione dei fatti a suo tempo fornita da pentiti certamente inattendibili. A proposito
dei quali va osservato che non avevano alcun interesse a mentire. non rischiavano severe condanne,
per cui sembra da escludere che possano essere stati indotti a fornire false informazioni pur di ottenere sconti di pena.
eppure mentirono. Ma chi li ha indotti a farlo e
perché? errore giudiziario o depistaggio?
il primo è sicuro. che possa essere frutto del secondo è più che verosimile.
la relazione del procuratore della repubblica di
caltanissetta, infatti, dopo aver dato atto che «una
complessa valutazione dell’attività di riscontro alle
dichiarazioni di spatuzza consente di affermare che
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questi è un collaboratore di giustizia dotato di piena
attendibilità intrinseca ed estrinseca», prosegue precisando che adesso «non si tratta soltanto di trovare
le tessere mancanti del mosaico non reperite nelle
indagini e nei processi precedenti, ma occorre uno
sforzo di ben maggiore portata consistente, anche e
soprattutto, nella individuazione delle tessere false
che qualcuno aveva quasi certamente inserito nel
mosaico». Bisogna, cioè, individuare «possibili interessi oscuri» che hanno ispirato «le dichiarazioni
false e depistanti» che hanno inquinato quei processi, per «comprendere se con i depistaggi si volevano coprire le responsabilità di soggetti esterni
a cosa nostra riconducibili ad apparati deviati dei
servizi segreti, ovvero ad altre istituzioni o a organizzazioni terroristico-eversive». più chiaro di così.
s’impone, in proposito, una fondamentale precisazione: il coinvolgimento nelle stragi del 1992 dei
«centri occulti di potere» è «certificato», in ogni caso,
da due circostanze inoppugnabili, ossia la cancellazione delle annotazioni contenute nel computer di
Falcone e la scomparsa dell’agenda di Borsellino.
né l’una né l’altra, infatti, possono ragionevolmente essere attribuite a uomini di cosa nostra, come,
per altro, confermato dal filmato, agli atti della procura di caltanissetta, che ritrae il capitano dei carabinieri Arcangioli mentre, poco dopo la consumazione della strage, si allontana dall’auto blindata di
Borsellino tenendo in mano la borsa chiusa di paolo.
ribadita la «certificazione», non ci resta che attendere con fiducia l’evolversi della nuova vicenda giudiziaria.
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