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genitori e figli: la costante attesa di quel figlio ideale

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genitori e figli: la costante attesa di quel figlio ideale
GENITORI E FIGLI: LA COSTANTE ATTESA DI QUEL FIGLIO IDEALE
A cura dott.sa Santina Portelli
Il silenzio e l’ascolto
Tempo fa, un mio studente di psicologia mi scrisse: “Se non siamo in
grado di ascoltare, tutto il patrimonio di una persona andrà perduto,
impoverendo lui e noi”.
Considerare quindi che una persona sia “un patrimonio”, e lo sia la
persona disabile, pare quindi un punto di partenza per condividere
questa “ricchezza”, invece molto spesso questa è la tappa di un
percorso evolutivo, dove si deve conoscere l’altro, averne curiosità,
rimanere meravigliati delle sue peculiarità, delle sue diversità, dei suoi
percorsi di vita.
Ma per far spazio alla conoscenza è necessario prima e soprattutto
prendere coscienza delle barriere fra noi e vale a dire dei propri
pregiudizi, paure, rigidità, solo così sarà possibile prima cercare e poi
trovare strategie e strumenti per superare queste “barriere” ed aprirsi
quindi all’altra parola chiave di questa frase: ”ascoltare”.
Spesso “ascoltare” è interpretato come una tecnica… ma l’ascolto è un
arte da sviluppare.
La domanda da farsi non è “cosa dire o cosa fare?” bensì “come creare
uno spazio interiore abbastanza vasto da contenere una storia.
Ascoltare quindi è fare silenzio, il silenzio ci aiuta ad entrare in
comunicazione con noi stessi, passo fondamentale per entrare in
comunicazione con gli altri.
Il silenzio predispone tutta la nostra persona (vista, udito, sensi)
all’accoglienza dell’altro, anche di ciò che non c’è familiare, da qui parte
il processo d’ascolto.
Dobbiamo essere consapevoli che anche il silenzio può essere
ambiguo, e sapere distinguer fra un silenzio che dice indifferenza,
chiusura, giudizio, da un silenzio che dice stupore, ammirazione,
conoscenza, condivisione, speranza.
Il vero ascolto dell’altro richiede che noi sappiamo ascoltare noi stessi,
riconoscendo ciò che muove in noi l’ascolto dell’altro.
Inoltre l’incontro con chi vive situazioni di difficoltà è dirompente per un
motivo molto semplice, infatti, è evidente e tangibile ciò che é proprio
della condizione umana e che tutti cercano di nascondere: e cioè la
fragilità, il senso del limite, la paura della malattia e della morte e così
via, proprie a tutto il genere umano quindi anche nostro.
Quindi per iniziare ad intuire come ascoltare l’altro devo iniziare a
capire quale effetto mi fa, cosa scatena in me.
Avendo la consapevolezza che in fondo noi ci conosciamo poco e che
anche quello, che noi non conosciamo di noi stessi, continua a lavorare
dentro di noi.
La relazione con l’altro non si può mai disgiungere da sé.
L’incontro con una persona diversa da me provoca immediatamente
reazioni. E’ fondamentale saper riconoscere ciò che l’altro mi provoca:
rabbia, ansia, paura, gioia.
Le emozioni non sono né negative né positive. Non si è responsabili di
cosa si prova ma di come si agisce.
Ascoltare quindi non è mai un atteggiamento passivo e non è un
atteggiamento d’orecchi.
Dopo di ciò possiamo affermare che entriamo in una relazione.
Diverse disabilità
La disabilità è di tanti tipi, ci sono una gran quantità di fattori che
influiscono:
il
periodo
dell'insorgenza
della
disabilità,
l'origine,
l'incidenza funzionale ed eventualmente l'associazione di differenti
patologie.
Poiché c'è questo discorso di complessità, di molti fattori che
intervengono, che si sovrappongono, che si associano, interagiscono,
un primo errore o pericolo, per chi entra in relazione con la persona
disabile, dal genitore stesso fino ad arrivare a chi opera in questo
settore, è quello della generalizzazione, quello della categorizzazione.
Le generalizzazioni, ad esempio, per quanto riguarda le patologie sono
utili ai fini diagnostici, ma quando poi si va ad instaurare un rapporto
con una persona, la persona dovrebbe avere il sopravvento su tutte le
generalizzazioni e categorizzazioni, a quel punto noi abbiamo di fronte
una persona specifica, unica.
Detto ciò si può capire quanto sia importante la conoscenza della
propria disabilità affinché il disabile possa trovare una strada (la sua) da
percorrere per giungere alla convivenza con il proprio handicap;
affinché tutti coloro che sono in relazione con lui possano instaurare un
rapporto il più possibile corretto e autentico, non invaso ne
condizionato dall’handicap.
Se ogni persona è un patrimonio, unico, da conoscere, ascoltare e
scoprire perché paradossalmente ogni genitore cerca nel proprio figlio,
ciò che lo rende simile a tutti gli altri, che risponda all’immagine che si è
fatta di lui nell’attesa, che rispecchi caratteristiche conosciute e spesso
idealizzate?
Paradossalmente un figlio con handicap risponde in pieno ad attese
culturali e filosofiche di una relazione con una persona unica, diversa
da tutte, da conoscere e da scoprire, fino a riconoscerne il suo
patrimonio, la sua ricchezza.
Perché allora invece il genitore proprio in quest’occasione cerca nel
proprio figlio tutte le somiglianze, rispetto “a tutti i bambini del mondo”,
ai parenti, alla razza, alla storia dei nonni e delle nonne?
GENITORI E FIGLI: LA COSTANTE ATTESA DI QUEL FIGLIO IDEALE
Il figlio ideale
Generalmente cosa può succedere quando il bambino nasce con un
handicap?
Premetto che un figlio disabile può nascere a chiunque, sembra una
frase paradossale, in realtà ormai è solo il pregiudizio che fa credere
che vi siano persone, fasce “protette” o fasce sociali “predestinate”.
Un disabile può nascere in una famiglia borghese che corrisponde ad
un modello di famiglia socialmente e culturalmente equilibrata, quindi
ben integrata nel tessuto sociale, ma anche a chi vive una vita con
difficoltà e/o ai margini ad es.: ad una ragazza madre allontanata dalla
famiglia d’origine, ad una donna in carcere, ad una tossicodipendente e
sieropositiva, oppure ad una coppia non più giovane, ad una donna che
ha subito violenza, ed altri esempi ancora.
In questi casi non è la nascita di un figlio con handicap a mettere in crisi
la famiglia di per sé, considerata “normale” ma, paradossalmente sono
le attese del neonato ad essere infrante da un nucleo famigliare già
“malato”.
Paradossalmente sarà la nascita proprio di un figlio disabile che potrà
portare una motivazione al cambiamento della propria condizione di
disagio individuale, e successivamente rafforzare, nella ricerca di un
unione per i bene del proprio figlio, le dinamiche familiari.
Ma ritornando alla domanda: generalmente cosa può succedere quando
un bambino nasce con disabilità?
Già al momento di portarlo alla madre le situazioni, le emozioni, i
sentimenti sono diversi, e così l'intervallo che intercorre tra la nascita e
il momento di mostrarlo alla madre è considerevolmente più lungo
quando il bambino è "imperfetto".
Nessuno degli operatori se la sente di portarle il piccolo, mentre
quando il bambino è sano lo mostrano con gioia alla madre come se lui
fosse quasi opera loro.
Quando il bambino nasce handicappato, nell'ospedale è come se ci
fosse un lutto.
Questo cosa fa capire alla madre? Che c'è qualche cosa che non va.
Nasce
in
quest'istante,
a
mio
avviso,
il
primo
sentimento
d'emarginazione verso la madre e verso il figlio.
L'affermazione di quasi ogni madre: "la nascita è un dono verso mio
marito, verso la mia famiglia e verso il mondo" si trasformerà in paura e
in senso di colpa "che cosa ha questo bambino?", "è colpa mia?",
quindi da tutto ciò risulta chiaro che l'attenzione principale non è per la
persona che nasce, da subito l'handicap invade e pervade tutto ciò che
circonda il bambino.
Una elemento che caratterizza il rapporto genitori-figlio disabile, deriva
anche dall'impreparazione dei genitori a questa nascita, questi devono
improvvisamente autoeducarsi ad una nuova mentalità e maturare una
nuova sensibilità per prepararsi ad accettare il figlio, ed inseguito
pensare alla sua educazione. Cambiare le proprie attese e parte della
propria personalità è certamente difficile per un genitore educato a sua
volta ad un dato modello culturale.
Ora, la sola presenza di un figlio disabile mette in discussione
l'equilibrio familiare e conseguentemente quello sociale; la comunità si
difenderà emarginando il nucleo familiare che a sua volta identificherà
nell’handicap la causa di tutti i problemi e scaricherà su di lui le proprie
frustrazioni e il senso d'impotenza.
L'ignoranza è un fattore strettamente collegato a ciò che ho detto
finora, infatti, dal fattore ignoranza, cui si accompagnano spesso forti
pregiudizi, derivano i comportamenti errati dei genitori: sfiducia,
disistima, iperprotezione, segregazione, sopravvalutazione, rifiuto del
figlio.
Un altro fattore rilevante per la comprensione della difficoltà dei
rapporti tra i genitori e i figli disabili è il senso di colpa.
Molti genitori, almeno a livello inconscio, si sentono eccessivamente
responsabili della malattia o del trauma che ha colpito il loro figlio e si
difendono attraverso meccanismi di difesa come l'iperprotezione, la
sopravvalutazione, oppure il diniego.
Dell'iperprotezione leggeremo più avanti, per "sopravvalutazione"
intendo l'attribuire al figlio doti considerate comunemente "elevate":
bontà, sensibilità, generosità, coraggio, disponibilità, come se alla
nascita l'handicap gli togliesse ma allo stesso tempo gli conferisse
qualità umane particolari.
Per "diniego" intendo negare a se stessi e agli altri l'evidenza; in
questo caso i genitori negano l'esistenza dell'handicap del proprio
figlio, negano quindi i suoi limiti reali e si aspettano che egli viva come
loro pensano viva un ragazzo "normale". Il loro atteggiamento vuole
mantenere un relativo equilibrio familiare, anche se ciò impedirà al figlio
l'accettazione del proprio handicap.
L'iperprotezione, la negazione e la sopravvalutazione sono tutte forme
di meccanismi di difesa che si mettono in atto per imparare a convivere
con la disabilità.
Credo non si debbano sottovalutare gli atteggiamenti dei genitori
soprattutto quando l'handicap si manifesta fin dalla nascita: se è
desiderio dei genitori che il loro figlio si sviluppi in adolescente e poi in
adulto
ben
inserito,
essi
devono
ricordare
che
non
esiste,
probabilmente fattore più importante del loro atteggiamento verso
l'handicap, in quanto lo dovranno educare a non odiarlo, ma al contrario
ad interiorizzare una buon’immagine di sé, reale e non distorta dalla
disabilità.
E' raro il caso in cui, alla nascita di un figlio handicappato, la vita di
coppia si consolidi, o continui a percorrere i binari della normalità,
almeno nell'essenza dei rapporti; mentre è solo rimanendo veramente
uniti che i coniugi potranno aiutare se stessi e il loro bambino.
La tendenza da parte dei genitori ad isolarsi nel proprio dolore è molto
forte, ma non aiuta a superare questo momento difficile; un valido
contributo potrebbe essere la condivisione dei propri stati d'animo,
delle loro emozioni (paure, dolori, gioie).
Una delle paure più forti tale da assorbire tutte le energie dei genitori è
quella del futuro, soprattutto del “dopo di loro”, che si potrebbe
sintetizzare in “chi li amerà dopo di noi?”, anche in questo caso
l'handicap del figlio può prendere il sopravvento, come se il figlio non
fosse parte attiva, unico protagonista della sua vita, e non potesse
elaborare strategie e percorsi di vita propri.
Questo sgomento può generare diverse reazioni: l'iperprotezione che
tende a fissare in un'infanzia perpetua il bambino, quasi come se fosse
rimasto nel grembo materno; oppure è possibile che si tenda a
"bruciare" tutte le tappe evolutive del bambino in modo tale che egli
cresca in fretta, diventi grande e consapevole sia dei suoi limiti dovuti
alla disabilità sia delle sue eventuali capacità residue.
In altri casi può accadere che l'amarezza e la sfiducia dei genitori
mortifichino il significato di maturazione e preparazione alla vita delle
tappe evolutive: la disillusione dei genitori tenderà a sottrarre ogni
spazio "all'imprevisto", rendendoli incapaci di immaginare "un futuro e
un senso" per la vita del figlio.
Un fattore predominante in questa situazione è la confusione, numerose
volte i genitori si chiedono: "cosa devo fare?"
In realtà, io credo, come numerosi studi confermano, ed anche
testimonianze autobiografiche di persone disabili, che i genitori
cerchino, attraverso un meccanismo di difesa, di razionalizzare
l'handicap, perseguendo la guarigione anche là dove non ci sono
speranze.
Il genitore non si rassegna e continua ad attendere "quel figlio sano
che non é mai nato". Spesso questo sentimento d'attesa accompagna
per tutta la vita il rapporto con il loro figlio disabile.
In questa situazione essi non cercano un reale rapporto con il figlio,
ma uno ipotetico con "il figlio che dovrà guarire".
Il tempo libero che il genitore dedicherà al figlio sarà occupato, il più
delle volte, da esercizi fisioterapici, dalla continua educazione del figlio
ad assumere posizioni corrette, da progetti volti ad un futuro dove il
figlio sarà esteticamente sano.
Così facendo i genitori vogliono ricreare quel rapporto coniugale e
filiale che vivevano durante il periodo della gestazione, continuando ad
attendere ancora "quel figlio ideale".
La solitudine accompagna buona parte dell'infanzia, dell'adolescenza e,
in numerosi casi, dell'età adulta dell’individuo disabile.
Il bagaglio di frustrazioni che un bambino si porta appresso
nell'adolescenza deriva proprio dall'impossibilità che il disabile ha
nell'infanzia di guarire e rendere felici i suoi genitori: di dare a loro ciò
che si aspettavano da lui.
Il desiderio d'indipendenza che ad un certo punto può animare il figlio
disabile e che potrebbe aiutarlo a maturare attraverso personali
esperienze, stupisce e sgomenta i suoi genitori che hanno raggiunto
negli anni un certo "equilibrio illusorio", quindi hanno la tendenza a far
rimanere bambino più possibile "il ragazzo", quasi a voler gustare la
loro "giusta e meritata serenità".
I genitori si aspettano gratitudine dal figlio per averlo tenuto con loro,
assistito, accudito, educato e amato "nonostante tutto"; una scelta di
vita che la persona disabile può intraprendere, per manifestare la sua
gratitudine, potrebbe essere quella di rinunciare all’indipendenza, alla
sua crescita e ad una propria vita, perpetuando un rapporto infantile
con i genitori.
Per questo motivo può accadere che il figlio, pur desiderando una
maggiore autonomia senta messo in pericolo il suo rapporto con i
genitori: la famiglia è vissuta, in questo caso, come unico e sicuro
punto di riferimento. Allora egli, per far fronte alla paura, può, ad
esempio, manifestare in più occasioni possibili la sua fragilità, fisica,
ma soprattutto psicologica, rassicurando attraverso questo suo nuovo
meccanismo i genitori, e di conseguenza se stesso.
Amore o accettazione: mete da raggiungere?
Ho cercato di dimostrare come i sentimenti all'interno della famiglia
possano essere alterati, disturbati o confusi.
Il rapporto genitori e figli disabili necessita durante il percorso evolutivo
di continui adeguamenti e aggiustamenti.
Partendo dal presupposto che è abbastanza difficile che i genitori
accolgano ed amino il bambino handicappato fin dalla nascita, si può
capire com'egli reagirà al loro atteggiamento: cercando di conquistarsi
l'attenzione, la considerazione e quindi il loro amore.
L'amore familiare diverrà allora una meta da raggiungere. Non importa
se per raggiungerla il disabile dovrà alterare, anche inconsciamente, la
propria personalità, diventando "buono, il più mite, sempre sorridente,
un angelo", oppure aggressivo, cinico, villano, vittima... E non importa
se egli deve scegliere di non avere opinioni personali, aderendo
completamente al comportamento e al pensiero del padre e della madre;
tutto serve ad essere al centro dell'attenzione familiare, perché avere la
loro attenzione equivale ad avere il loro amore.
Ci
sono
poi
quegli
handicappati
che
sentono
fortemente
l'inadeguatezza dei loro genitori, di conseguenza si sentono insicuri,
interiormente impotenti, fragili "come canne al vento".
Non desiderano "essere amati troppo", desiderano solo essere
accettati.
L'accettazione diviene una diversa ma ugualmente importante meta da
raggiungere.
Se da un lato è importante che il figlio disabile sia amato per quello che
è e non per quella persona che sarebbe dovuta essere, dall’altro lato è
anche vero che egli non dovrebbe rendere i suoi genitori completamente responsabili delle sue inadeguatezze e frustrazioni.
Questa presa di coscienza lo dovrebbe aiutare a ristabilire con loro dei
rapporti più sereni tali da costruire alleanze necessarie ad affrontare la
vita.
LA SCUOLA
Nella scuola il bambino seguirà un percorso evolutivo a più livelli e ed
instaurerà altre relazioni, mi chiedo: quale ruolo può avere un
insegnante di un bambino con handicap?
Come può sostenere bambino e famiglia, anche verso il gruppo sociale
di riferimento?
Credo che compito principale dell’insegnante di un bambino disabile sia
quello di conoscere al meglio l’handicap del suo allievo, sia
clinicamente sia psicologicamente e successivamente individuarne
tutte le potenzialità per aiutarlo a sfruttarle al massimo, ricorrendo a un
metodo pedagogico “artistico”.
Mi spiego: ogni insegnante ha una sua formazione, che passa non solo
attraverso le nozioni acquisite ma anche il proprio vissuto, la propria
storia, il bagaglio di curiosità e di voglia di sapere che ha ancora dentro
di sé, gli affetti, le passioni e gli interessi che coltiva al di fuori del
lavoro, tutto ciò è un bagaglio al quale egli potrebbe fare riferimento per
metterlo a disposizione del proprio allievo con generosità, a maggior
ragione se egli ha qualche difficoltà come ad esempio un bambino
disabile.
A differenza dei genitori l’insegnante potrà individuare meglio le sue
residue, anche se scarse, potenzialità, valorizzarle in un rapporto di
formazione e d’affetto, privo di tutti quei sentimenti e meccanismi
psicologici
come:
rabbia,
angoscia,
ingiustizia,
mortificazione,
depressione e sensi di colpa, rimozione, negazione, formazione reattiva
ed altri.
L’insegnante nel rapporto con il proprio allievo disabile non avrà quei
carichi emotivi familiari che spesso invece immobilizzano la relazione e
bloccano la sua crescita.
Il metodo educativo non sarà quindi improntato ad apprendere come
dovere, come riscatto verso i proprio familiari o ricompensa, per non
corrispondere a quel figlio mai nato, ma un metodo legato alla gioia
della scoperta di sé e delle proprie risorse.
Ci sono casi dove gli insegnanti sentono fortemente la necessità di fare
appello alla categorizzazione del loro allievo, di inserirlo in uno schema
d’informazioni e conoscenze, che loro possono affrontare e utilizzare al
meglio nel rapporto che sperano di creare.
Io credo che SOTTOVALUTINO in maniera pesante le potenzialità del
loro allievo, la sua “diversità”, che in questo caso intendo come
caratteristica positiva, “diversità” che già lo rende esperto nel come
utilizzare le sue risorse, anche quelle minime, rispetto al suo
insegnante.
Il disabile ricorre molto spesso a risorse importanti, alle volte
sottovalutate, come: la fantasia, l’invenzione, il paradosso, il racconto,
l’autoironia
e
non
meno
importante,
l’esperienza
inusuale
già
conquistata, mi riferisco all’esercizio di “addomesticare” il proprio
handicap e così via.
Un ulteriore compito dell’insegnante sarebbe di portare alla luce le sue
capacità, aiutarlo ad esprimerle e a svilupparle in un percorso di
crescita evolutiva, d’emancipazione ed integrazione.
In questo caso sarebbe utile quindi proporsi un cambiamento di ruolo
nella relazione insegnante-allievo, essere “allievo del proprio allievo”
diventerà un percorso “formativo”, per conoscerli ed imparare da loro,
la loro esperienza di vita, seppur breve, la loro diversità, potrebbe
essere essa stessa uno strumento didattico.
Il bambino si sentirebbe appoggiato, sostenuto, capito, parte attiva e
protagonista del proprio percorso di crescita e soprattutto non
emarginato.
Essere complice dei propri allievi, studiare il modo per aiutarli ad
inserirsi nell’ambito scolastico, con i compagni, nel gioco e in un
apprendimento, che proprio perché inconsueto ha di per sé un valore
aggiunto anche per i compagni.
Un altro aspetto importante che ha il ruolo dell’insegnante e che io
desidererei sottolineare, è quello della sua mediazione fra bambino e
famiglia; il bambino starà molte ore a scuola, in un contesto di relazioni,
con altri bambini, altri adulti e altri momenti diversi da quelli familiari;
quando ci si andrà a relazionare con la famiglia, per informarla sulla vita
scolastica del figlio, sarà importante insistere proprio sulle scoperte
fatte con il bambino all’interno del percorso didattico, ma anche delle
sue relazioni e dei comportamenti all’interno della classe.
A maggior ragione si sottolineeranno le sue conquiste, tenendo sempre
presente la sua disabilità, che farà parte di lui, come tante altre sue
caratteristiche.
dott.sa Portelli Santina
Via Monte Rotondo, 21
Milano
e-mail: [email protected]
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