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Definire il confine
De-finire il con-fine La metafora, come tutte le metafore, è pro-mettente, perché ci apre ad orizzonti letteralmente im-pensati, ci proietta in essi, ‘fuori’ dal solito del mondo: meta – phorein, appunto – oltre e fuori. I giochi di parole possibili che l’astuzia tipografica del trattino ci consente sono in-finiti. E non tutti gratuiti, balocchi intellettuali, giochi di società colta. Proviamo, per cominciare, a de-limitare il campo: una condizione previa per aprirci alla problematica in questione. E ad affrontare alcuni frammenti. De-finire mediante un concetto, una teoria interpretativa, è il principale (anche se non il solo) modo che abbiamo di approssimarci alla verità: nelle scienze naturali come in quelle umane, come in filosofia e anche in teologia. Costruire un concetto è esperienza di costruzione di confini. Senza i quali, tuttavia, non ci sarebbe il salto nell’oltre. Dobbiamo rimpicciolire, semplificare: è il de-finito che ci consente di proiettarci nell’in-de-finito, talvolta nell’in-finito. Un atto creativo, come creativo delle cose è il nominarle (nomina sunt numina), come creativo e relazionale è il nominare gli animali da parte di Adamo: il primo modo che l’uomo impara di mettersi in relazione con essi e, anche, di appropriarsene. “Creare un confine è un atto generatore di realtà, un atto che dà forma al mondo introducendo una discontinuità dove prima c’era omogeneità, è un atto violento, una dimostrazione di forza, una manifestazione di potere”, afferma Enzo Colombo nell’articolo che apre questo quaderno. Confine è, letteralmente, cum-finis, ciò che mi separa e nel contempo ciò che mi unisce, che ho in comune con l’altro, qualunque cosa l’altro o l’oltre sia o significhi. “Un universo nasce quando uno spazio è tagliato in due”, ci dicono Maturana e Varela, nella frase che apre questa riflessione collettiva sul confine, e in qualche modo ne riassume il senso. L’ambiguità del confine, e anche la sua profonda tragicità, è dovuta innanzitutto alla sua artificiosità, alla sua convenzionalità; un dramma che è di tutte le leggi degli uomini, che non a caso hanno spesso cercato di inventarsi la saldezza che non hanno in un’origine divina, la garanzia che non possono produrre in un Dio che a sua volta le garantisca – sapendo tuttavia che di una convenzione, di una invenzione, si tratta (ciò che è precisamente quel che da’ spessore alla tragedia greca). E’ già indicativo, comunque, che il concetto di confine richiami immediatamente il concetto di alterità, e quest’ultimo quello di identità. Una catena logica che dovrebbe farci riflettere. Da un lato, sull’utilità dei confini (logici e materiali), per far avanzare la riflessione, per porre le giuste domande: come faceva Pascal, constatando che ciò che è vero al di qua dei Pirenei non è spesso più vero al di là, ciò che lo spinge e spinge ciascuno di noi a interrogarsi su cosa c’è, se c’è qualcosa, in comune alle due pendici di quella medesima catena montuosa – se c’è, quale è e dove è la verità che sta ‘oltre’, sopra o sotto o intorno poco importa. Dall’altro lato, ci indica già quale rischia di essere la deriva possibile, spesso misurata nella storia, della accettazione del confine, trasformato in de-finizione ultimativa: dentro/fuori, in-group/out-group, e infine amicus/ hostis, come nella riflessione politologica schmittiana. Proviamo a riflettere a partire da un dato di osservazione sull’oggi e sul noi. Quello che ci propone la lettura (non solo sociologica: è un dato persino antropologico di cambiamento nelle società occidentali, e non solo) dei processi di globalizzazione, una delle cui conseguenze, come hanno messo in luce Giddens e Harvey, tra gli altri, è la compressione spazio-temporale: la perdita, diciamo, di confini chiari in questi due ambiti di esperienza, che è utile tenere collegati. I confini spariscono senza scandalo e senza sofferenza apparente, come mostra anche il processo di (faticosa) costruzione europea, e di progressiva unificazione in quella che si chiama appunto, per ora con qualche ottimismo, Unione Europea. Nello stesso tempo internet suscita entusiasmo: e ci buttiamo in felice navigazione nell’ignoto virtuale, nella rete che tutto avvolge, o pretende di avvolgere, nella connessione globale. Ci limitiamo a ricordare che essa mette in crisi, anche nel nostro immaginario, l’idea di un mondo costruito sulla base del modello centro-periferia, per farci parlare invece in termini di snodi (e non più nodi, che solo una spada è capace di sciogliere), di rinvii (come fa un ipertesto), di links, e soprattutto di una comunicazione che non è più solo o primariamente unidirezionale, ma che è multidirezionale, e consente possibilità di interattività. Lo spazio fisico perde in un certo senso di importanza: si sviluppano le connessioni tra mondi differenti e geograficamente lontani, in un processo di intensificazione delle relazioni sociali su scala globale (world-wide, appunto, come il web). Pensare il mondo come rete non significa naturalmente che non ci siano più dei ‘centri’ (economici, tecnologici, politici, comunque di potere), e nemmeno che spariscano i confini: anzi, forse è vero il contrario, e alcuni centri sono più potenti di prima, e alcuni confini diventano addirittura invalicabili barriere (a cominciare dalla barriera, prima e dirimente, che separa coloro che hanno accesso alla rete e coloro che non ce l’hanno, e i rispettivi mondi di appartenenza – quelli che contano, in un certo ordine delle cose, e quelli che possono solo essere contati). Il tutto, naturalmente, senza illusioni: come è stato notato, la società della interconnesione globale è tanto remota quanto la società senza classi, e allo stesso modo di questa è innanzitutto un prodotto ideologico, come tale probabilmente destinato a compiere la medesima parabola di quell’altra (felice?) utopia. C’è ancora una finis-terrae, in questa situazione? E dove? Nello spazio? Oltre? Sempre più viviamo, come ci ha ricordato Marc Augé, sotto il segno di Hermes, dio della porta, della soglia della città, ma anche dei crocevia, degli incroci. Tra le città, sempre più, ci sono strade e ponti. La pluralità interna è l’effetto di questo processo, e la somiglianza delle città tra loro, come la triste Trude immaginata da Italo Calvino, che il desolato viaggiatore ritrova in ciascun hotel, in ogni aeroporto, in tutte le pubblicità, un possibile esito. Del resto, le città non sono, per il fatto di essere plurali e tra loro simili, prive di ‘muri’: alcuni ‘cadono’, o sono spazzati via; altri, d’altro genere, ma non meno solidi, si vanno erigendo. Se i confini esterni sembrano scomparire, quelli interni non per questo non si riproducono: tra me e l’altro che non conosco; tra me e l’idea stessa di alterità – pure, tuttavia, costitutiva. L’altro, poi: chi è l’altro? Non è appunto il confine che lo determina? Che lo ‘decide’? E l’altro, gli altri, chi sono, rispetto a noi? Talvolta basta un semplice cambiamento di punto di vista, o anche solo di occhiali, per vedere il mondo in maniera diversa. La carta di Peters e la carta di Mercatore sono un buon esempio di questo processo: il confronto tra queste due visioni del mondo, prese in prestito alla geografia ma che hanno determinato una cultura, è un utile indicatore per verificare come sta cambiando la nostra visione del mondo. La carta di Mercatore era consustanziale all’espansionismo europeo, alle ‘scoperte’ geografiche, alla colonizzazione, agli imperialismi – chi era o si credeva ‘centro’, e quindi al centro si poneva (se tracciamo una ‘x’ su una carta di Mercatore troviamo all’incrocio delle due linee la Germania, cioè il centro dell’Europa, in cui egli peraltro viveva), si sentiva in diritto di ‘scoprire’ e colonizzare le periferie, e magari di schiavizzarne gli abitanti. La carta di Peters ci mostra che il mondo è diverso: anche se non descrive nuove centralità e nuovi equilibri, che si fabbricano per così dire altrove, e poco hanno a che fare con lo spazio fisico. Questi nuovi equilibri, questa diversa dislocazione, ce la mostra il processo di globalizzazione, che ha creato un mondo in cui la geografia si è in un certo senso slegata da altre variabili, e lo spazio si è per così dire ‘contratto’, ha perso di importanza. Proprio lei, l’apparente superamento di tutti i confini, o l’estensione e per così dire lo ‘stiramento’ dei confini di uno a ricoprire tutti, fa tornare il bisogno di confini, di piccole patrie: localismi politici, etnicismi, fondamentalismi religiosi, ma anche i neo-tribalismi metropolitani, rispondono, quasi sempre inconsapevolmente, a questo bisogno. Jihad vs. McWorld, come ha sintetizzato Samuel Barber. O più propriamente, Jihad e McMondo, perché l’una è indissociabile dall’altro, in quanto sono l’una l’effetto dell’altro, in un processo di causalità circolare. La globalizzazione infatti divide tanto quanto unisce, e in un certo senso divide proprio in quanto unisce, come ha ricordato Zygmunt Bauman. E un antropologo come Clifford Geertz, abituato a studiare società piccole e de-finibili (per …definizione), costretto per comprenderle veramente a ragionare in termini di globalità, aggiunge: “cosmopolitismo e provincialismo non sono più in contrasto, anzi, sono interconnessi e si rafforzano a vicenda”. E opportunamente ricorda che non si tratta del ‘villaggio globale’, perché del villaggio questo mondo globalizzato non conosce la solidarietà né la tradizione, “non ha un centro né confini e manca completamente di integrità”. Siamo all’interno di quella che è stata definita una ‘rivoluzione mobiletica’, cioè basata sul movimento (di denaro, di informazioni, di merci, di uomini): un continuo attraversare di confini, e anche un continuo re-inventarli. Da un lato si comincia a considerare il mondo come ‘uno’, a percepire la solidarietà intrinseca dello stare sul medesimo pianeta, anche ‘in negativo’: le guerre, o l’inquinamento, hanno conseguenze che non sono contenibili all’interno dei confini di singoli paesi. E’, questa, una ‘scoperta’ recente, diventata shock collettivo con la nube tossica prodotta dall’incidente al reattore atomico della centrale russa di Chernobyl, e visibile nella questione del ‘buco dell’ozono’ o della deforestazione in Amazzonia, o più recentemente con la vicenda della mucca pazza o quella dei proiettili all’uranio impoverito, sparati dai nostri alleati ma che si ritorcono anche su di noi, oltre che sui loro bersagli diretti: chiunque sia a produrre i danni, le conseguenze, ad esempio sul clima, o sulla bio-diversità, le subiscono tutti. Dall’altro si creano o si potenziano istituzioni internazionali di tutti i generi, atte appunto a concertare politiche che rispondano a questi bisogni sovranazionali: dalle Nazioni Unite, che man mano si rafforzano ed allargano la loro sfera di influenza, ad agenzie specializzate che vanno dal controllo del commercio a quello della pesca, fino a movimenti dal basso, per l’estensione dei diritti civili, contro la tortura o lo sfruttamento dell’infanzia, e fino agli stessi movimenti contro la globalizzazione, tutti tendono ad internazionalizzarsi e a globalizzarsi. Persino il diritto si muove in questa direzione, cominciando a costruire strumenti per perseguire ad esempio tiranni e dittatori al di fuori dei propri paesi, e in genere sviluppando appunto il diritto internazionale. Una delle conseguenze dei processi di globalizzazione, è che mettono in contatto società una volta lontane e separate: a seguito di questi ‘contatti’, si ha un sempre maggior livello di multietnicità e di multiculturalità in un numero sempre più alto di società, che a loro volta producono ulteriori legami con e tra società lontane (si pensi ai paesi d’origine degli immigrati stabilitisi in Europa). La com-presenza di culture e identità relativizza infatti quelle in cui siamo cresciuti, ma nello stesso tempo può spingerci a ricercare quella stessa identità e quelle stesse radici andate in crisi, al limite inventandocene di nuove. E’ per questo che spesso questi richiami alle radici, che ci sembrano ‘naturali’ e sprofondati nel tempo, sono in realtà recenti e, appunto, ‘inventati’, nel senso di costruiti: sono, insomma, creazioni culturali, come ci hanno mostrato, ad esempio a proposito dei nazionalismi, libri con titoli significativi, come L’invenzione della tradizione (Hobsbawm) o Comunità immaginate (Anderson). Sono andate in crisi insomma quelle che Peter Berger chiama ‘strutture di plausibilità’: quelle strutture sociali che appunto rendono ‘plausibile’ la vita associata, ripetendone i fondamenti, anche senza spiegarli (anzi, poco importa in questo senso che essi siano ‘veri’ o compresi nel loro esatto significato: lo stesso studioso, insieme a Thomas Luckmann, ha scritto del resto La realtà come costruzione sociale, il libro di sociologia contemporanea più citato al mondo, proprio per dimostrare quanto le cose che crediamo ‘vere’ siano appunto costruite, e costruite socialmente, attraverso il processo di interazione e di riproduzione sociale). ‘Il mondo’ è diventato dunque un concetto più presente, come tale, nella mente di molti suoi abitanti: anche se questo non significa che esso sia più pacificato, e nemmeno più integrato, come un certo funzionalismo naif potrebbe farci credere, e come una certa ideologia liberista, che cerca di legittimare soprattutto i processi di globalizzazione economica, spesso ripete. La società globale infatti non è diventata un solo sistema sociale, ma semmai un campo in cui è possibile instaurare relazioni sociali a livello globale: che sono due cose molto diverse. C’è un aspetto drammatico, in questo, sottolineato ancora da Bauman: “l’idea di universalizzazione racchiudeva in sé la speranza, l’intenzione e la determinazione a creare un ordine” – non così la globalizzazione. Ciò che accomuna questo mondo è il principio sincronico, privo come tale di radici, di profondità diacronica, come ricorda Agnes Heller, a proposito di una manager globale incontrata su un aereo, vero simbolo di questo modo di vita: “il tipo di cultura cui partecipa non è la cultura di un luogo dato; è la cultura di un tempo. È la cultura dell’assoluto presente”. E non è la cultura solo di una classe sociale, la ‘borghesia globale’, la ‘superclasse’, come la chiama qualcuno: che secondo Christopher Lasch, a causa dei processi di progressiva mobilità e correlativamente di sradicamento, starebbe assumendo una “visione turistica” anche delle norme morali. In questa è solo più visibile che altrove, ma il processo è generale: stiamo vivendo un processo di ‘presentificazione’, di schiacciamento della storia nell’indifferenziato del con-temporaneo. Chi, come chi scrive, si trova ad insegnare, a fare esami, se ne accorge continuamente, e sa quanto spesso ci prenda la sensazione che, per lo studente, tutto ciò che precede la sua data di nascita sia, in definitiva, preistoria, tutta collocabile più o meno nello stesso indifferenziato, indistinguibile periodo. E’ vero, i confini tra epoche, tra secoli, erano convenzioni, spesso devianti (più spesso di quanto ci siamo accorti studiandone i contenuti), ma con una funzione almeno strumentale, didattica. La sparizione della convenzione fa perdere anche la sua funzione, perché nulla la sostituisce. La progressiva abolizione dei confini spaziali e temporali vanno insieme: non ha senso analizzare l’uno dimenticando l’altro. Non sembra esserci più un progetto di lungo periodo, né con radici profonde nel tempo (“l’autorità dell’eterno ieri” di cui parlava Weber, che almeno si incarnava in alcune istituzioni, non foss’altro che nelle burocrazie, ivi comprese quelle religiose): e se c’è, non è sociale, ma rigorosamente individuale. Percorso di carriera, autogratificazione, non mondo nuovo. E riguarda ego, eventualmente allargato agli stretti prossimi e familiari, non un sempre più indefinito noi, men che meno alter, singolare o plurale che sia. Una visione meno pessimistica ci viene dall’approccio antropologico di Hannerz. Per lui la globalizzazione è innanzitutto la creazione di un “global ecumene”, che definisce come una regione di persistente interazione e scambio culturale, in cui anche alla produzione culturale delle periferie è consentito di transitare, e questo flusso è anzi in qualche modo la risposta alla dominanza politica ed economica del centro. Aggiungiamo che spesso la conoscenza delle culture periferiche è più facile in centro (siamo noi a guadagnarci anche in questo…), e tuttavia è vero che il traffico culturale è comunque più transnazionale che internazionale: ignora, sovverte e svaluta piuttosto che celebrare i confini nazionali, tra stati. Non sembrino, queste, divagazioni, o indebiti …sconfinamenti. Sono, invece, altrettante sfaccettature di che cos’è un confine, e come cambia. Finora abbiamo accennato ad aspetti macrosociali, a cambiamenti di sistema. Il significato dei confini, la nuova logica, e direi il sempre più diffuso gusto di attraversarli, ha tuttavia un significato anche micro, individuale. Si ha spesso la sensazione che vi sia un vantaggio soggettivo, diremmo una rendita di posizione, dovuta precisamente al fatto che la posizione è cangiante, in chi è capace di attraversare i muri, in chi esce dai confini (ad esempio degli specialismi). Non è un caso che sempre più venga premiata la mobilità rispetto alla stabilità, la discontinuità rispetto alla continuità. Ma oltre a questo, più un epifenomeno che una causa profonda, ci viene una ulteriore riflessione. In un certo senso i confini sono anche, come noto, ‘il confino’. Opposto al con-fine, l’in-finito: il conosciuto e il familiare contro l’universo delle possibilità. La sensazione è che, almeno nell’occidente che se lo può permettere, le possibilità si siano moltiplicate. E sia chi è capace di cogliere l’opportunità di ‘entrare’ nelle une o nelle altre, scavalcando i confini che le separano, a guadagnarci di più: proprio sul piano dell’arricchimento, e non intendiamo necessariamente quello materiale. Anche quello spirituale non ci pare escluso da questa dinamica, come mostra il processo di pluralizzazione religiosa dell’Europa, e le dinamiche che ha messo in gioco. Se ne vedono, o si ha interesse a enfatizzarne soprattutto, per ora, quelle negative: in particolare da parte delle istituzioni religiose, che hanno il loro concretissimo ruolo e il loro concretissimo potere da difendere. Abbiamo la sensazione che si sottovalutino i frutti che se ne potranno raccogliere, e che stanno già maturando: nei rapporti tra noi, tra diversi sul piano religioso, e in noi. I confini ci attraversano, mutano e si confondono anche dentro di noi, infatti. E non è, questo, l’ultimo dei loro effetti, sempre bifronti: destabilizzanti, e aperti all’infinito delle potenzialità. Un’epoca di confine, allora? Forse. Proviamo a sondare l’ipotesi. Con qualche autoironia: “Siamo in un’età di transizione, come sempre” diceva Ennio Flaiano. Certo, la situazione per l’individuo si fa complessa. Sappiamo dall’analisi innanzitutto della nostra storia personale quale sia l’utilità del porre confini, limiti, per la costruzione dell’identità: problema educativo (“i no che aiutano a crescere”), e etico in senso forte. Durkheim arrivava a dire che a livello individuale come sociale, il ‘mestiere’ principale della religione sia appunto di pro-porli, e di de-finirli, questi confini: sacro/profano, bene/male, questo sì/questo no. D’altro canto, constatiamo la sparizione dell’esperienza di confine ‘forte’ nella vita individuale: basti pensare ai riti di passaggio studiati da van Gennep. Anche il matrimonio, ad esempio, che pure in parte resta, ha sempre più fasi intermedie, si diluisce, trova paralleli e sostituti, e ha perso comunque molto della sua ‘inesorabilità’ – è reversibile, come tutti i percorsi. Davvero sembra di essere entrati in quella liquid modernity che da’ il titolo all’ultimo libro di Bauman. Questo ci costringe a metterci in gioco al di là dei confini. Anche quelli dell’identità, che cambia, che sempre più diventa a sua volta plurale, che ormai non si sa nemmeno più come definire, al punto che un attento osservatore di queste dinamiche, come Melucci, comincia ad abbandonare il termine, parlando di un processo di identizzazione, continuo, in-finito, continuamente rimesso in discussione, ri-progettatto, ri-contrattato, o per sviluppi endogeni, o perché messo in questione dai cambiamenti sociali. Quella che si tende a chiamare riflessività, assumendola come caratteristica fondamentale delle società postmoderne e degli individui che le compongono, è dopo tutto proprio questo. Talvolta ne troviamo tracce solo apparentemente eccentriche, di questa voglia di superamento di confini. Pensiamo alla sparizione dei confini come volontà prometeica: alla popolarizzazione dei ‘no limits’ e degli sport estremi, cui si dedicano riviste, trasmissioni tv, concorsi, e un cospicuo settore economico. Non c’è nulla di nuovo, in questo fenomeno, antico come Ulisse. Quello che forse è nuovo è la sua democratizzazione, la sua diffusione, le forme di ‘desiderio sociale’ che assume. Anche qui, gioca – e impressiona – l’effetto-massa, la pervasività del mito della trasgressione, del superamento quindi: dei confini di tutti i tipi – dunque, incidentalmente, anche dei tabù. Cos’è l’estremo limite? C’è? Dov’è? Più ancora: perché dovremmo accettarlo? La differenza con il passato forse sta qui: che l’onere della prova si è rovesciato. Perché, per esempio, dovrei accettare di morire? Appunto, la morte. “Incerta omnia. Sola mors certa”, diceva Agostino di Ippona. Oggi ne siamo già molto meno sicuri. Persino questo confine sembra non tanto valicabile (anche se la diffusione delle credenze nella reincarnazione aiuta anche in questo, togliendoci un po’ dell’effetto-stress che ci attanaglia, a causa della nostra vita sempre incompiuta), quanto rinviabile quasi all’infinito. La scienza ce l’ha promesso, e sta mantenendo molte delle sue promesse, basti pensare alla tecnologia dei trapianti. Se un organo non funziona più, si cambia. Cosa ci impedisce di immaginare che tutti siano intercambiabili? “No limits”. Certo, questo ci pone un sottile problema filosofico, interrogativo che lasciamo aperto: se quando muore un pezzo di me, lo cambio, quando muore ‘io’? E chi è, o chi diventa, ‘io’, in questa situazione? D’altro canto, l’invenzione di tecnologie che consentono il mantenimento della funzione circolatoria e respiratoria hanno dato luogo a quell’impensabile che è “una persona morta con un corpo vivo”. Superamento dei limiti della natura, anche in questo caso. Il linguaggio comune è del resto rivelatore: si muore sempre meno di ‘morte naturale’, ma piuttosto di qualcosa, cioè per colpa di qualcosa o di qualcuno. Come se, altrimenti, si fosse destinati a rimanere in vita per sempre… Scopriamo, insomma, che della morte non ignoriamo solo il giorno e l’ora, il perché e il come, come ci ha tramandato la saggezza tradizionale: ne ignoriamo anche l’essenza, e persino i confini. In pratica, non sappiamo davvero cosa sia, e tanto meno, quindi, come affrontarla. Dove inizia infatti la morte? e dove finisce veramente la vita? L’odierno dibattito bioetico, e la conseguente difficoltà di una definizione giuridica condivisa di vita e morte, è in fondo tutta qui. Che senso ha il diffondersi dell’esperienza della dissoluzione dei confini? Dobbiamo solo subirla? O considerarla positiva? In che senso? In che modo? Proviamo, senza ambizioni riassuntive, a chiudere il cerchio, tornando al punto da cui eravamo partiti: il senso del confine, nel rapporto tra noi e l’altro. C’è una riflessione di Edmond Jabès, avanzata in un prezioso libretto (Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato), che ci sembra non inutile riprendere qui. “L’albero è straniero all’albero ma, con questo, partecipa all’estensione della foresta”. L’alterità, oggi più di ieri, ci rinvia all’interdipendenza. Crediamo che non sia un caso che ampie correnti del pensiero filosofico occidentale del Novecento siano tutte orientate a scavare il senso di questa relazione: la fenomenologia, l’esistenzialismo, fino a Lévinas, a Ricoeur, e a Jabès appunto. E un discorso analogo vale anche per l’antropologia (per definizione una scienza, o almeno una ricerca, dell’altro), per la psicanalisi, per non poca sociologia, per non parlare di molta letteratura. E l’identità dell’altro rinvia alla nostra: “L’étranger? L’étrange-je”, scrive ancora Jabès, in un gioco di parole intraducibile nella sua pienezza. Il traduttore italiano ci ha provato con “estran-io”. Potremmo dire, letteralmente, alter ego: riferendoci a noi, e non più all’altro. Dove, in questo caso, il confine? Alcuni dei temi qui accennati, ed altri ancora, li troviamo affrontati in questo quaderno. Tra gli articoli, il già citato testo di Enzo Colombo ci introduce ottimamente in quella che definisce la ‘fabbrica dell’Altro’ e nelle sue logiche, individuali e sociali: nei confini che essa, in quanto fabbrica, per l’appunto, ‘produce’, tra ego e alter, e tra identità culturali. Ivan Fassin, viaggiando tra etimologie e terminologie, dopo aver analizzato la ‘esasperazione del confine’ che ha caratterizzato alcuni recenti processi sociali, propone un passaggio dalla nozione chiusa di confine a quella aperta e dinamica di soglia. Tocca al testo di Gustavo Guizzardi gettare uno sguardo sul cambiamento del significato di confine tra religioni oggi, sul ruolo delle istituzioni religiose nel determinarli (la cui definizione classica sta nell’extra ecclesiam nulla salus), e su quella sussunzione, all’interno del mondo cattolico, del concetto stesso di confine (nel mescolarsi di realtà e visione) che sembra implicita in quella che viene chiamata ‘fatimizzazione della realtà’. La sezione ‘Note e commenti’ propone alcuni approfondimenti dei temi affrontati. E’ nota alla dinamica interna al fenomeno religioso la distinzione tra religioni, spesso anche troppo attente nel produrre e riprodurre i confini reciproci e rispettivi, e spiritualità, spesso assai simili in termini di linguaggio e di vissuto. Le mistiche di diversa provenienza mostrano spesso sintonie che, tuttavia, non dovrebbero sorprendere; e potremmo applicare ad esse, con altro significato, il ‘convergere in alto’ di Teilhard de Chardin. La nota immagine della ruota proposta da Doroteo di Gaza, il cui centro, il mozzo, è Dio, e i raggi gli uomini (o le diverse vie religiose), per cui più questi sono vicini a Dio, più si ritrovano vicini tra loro, ne è una espressione paradigmatica, intorno a cui ci fa riflettere Ivan Nicoletto, la cui analisi non è tuttavia ignara del fatto che le religioni possono essere usate e strumentalizzate tanto per separare come per unire. In una chiave interpretativa non dissimile si pone Angelo Casati, nella riflessione che propone a partire dall’episodio biblico della torre di Babele, e della sua interpretazione alla luce della Pentecoste. Forse potremmo aggiungere che il superamento dei confini, persino quelli posti dalla legge, può essere interpretato come un implicito cristiano: “Sta scritto, ma io vi dico…”, le cui declinazioni sociali e politiche sono notoriamente impegnative, anche solo a livello di interpretazione, quando in gioco c’è appunto la dimensione collettiva. A questo aspetto più politico, in termini diversi, è dedicato l’intervento di Salvatore Scaglione, che indugia sulle implicazioni geopolitiche del concetto di confine, e sulla diversa dislocazione che assumono concetti come potere e territorialità. Ricco e stimolante il settore dedicato alle esperienze. Cominciamo da una constatazione spesso dimenticata: il concetto, la definizione, sono prima di tutto un tentativo di scoprire la verità – questo nella scienza, come in filosofia, come in teologia. Ma questo procedimento intellettuale è possibile solo, appunto, delimitando il campo. Ecco dunque un ambito in cui il concetto di confine sembra fruttuoso e indispensabile. Andrea Girardi ci propone una riflessione su questo aspetto, e sul fatto che, tuttavia, queste de-finizioni sempre meno riescono appunto a racchiudere. La fisica di questo secolo si mostra sempre più impotente nel definire confini che, dalle particelle elementari all’universo, sembrano non esserci più, nella misura in cui queste stesse particelle entrano l’una nell’altra, si con-fondono. E questo apre a una concezione meno ‘dogmatica’ della stessa idea di definizione: si passa da una fisica del certo a una fisica del probabile e del possibile, aprendosi a inediti orizzonti, e a sintonie impreviste con il pensare religioso. A partire da un luogo comune (ma un luogo comune è appunto un luogo frequentato, attraversato, che unisce e non separa), la frase “non stavo più nella pelle”, cui sono compagne altre, come “sperimentare sulla propria pelle” o “mettersi nella pelle di un altro”, Giovanni Benzoni propone una variazione sul tema della pelle come confine corporeo: una lettura che passa attraverso un luogo topico dell’odierno uscire dal corpo, invece – quell’esperienza così ‘oltre la pelle’ che è la navigazione in internet, il proiettarsi nella rete. Riccardo Calimani esamina un interessante esempio specifico: quello del ghetto, indagandone il significato, la sua ambivalenza per non dire la sua ambiguità; esso infatti è un esempio di confine spaziale, che ha una primaria funzione negativa, segregativa, e che tuttavia può assumere funzioni di valorizzazione identitaria. Bernardo Antonini propone invece una interrogazione sulla morte, estremo limite per definizione, che tuttavia ci rinvia un interrogativo sulla vita, sull’oggi, sul qui, sul noi. Tocca a Enrico Peyretti chiudere con un richiamo a diversi interrogativi sollevati, evocando uno dei possibili significati del confine, di tutti i confini, profeticamente proiettato in avanti: la fine della fine – in un’altra, possibile lettura, il nuovo inizio. Stefano Allievi