Libertà come arte. Attilio Penzo a villa Papadopoli 2
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Libertà come arte. Attilio Penzo a villa Papadopoli 2
REM giorno, in uno spazio improprio e destinata a deteriorarsi e a sparire per sempre. In ogni caso,ormai, è solo una questione di tempo, se c’è qualcuno che vuol portarsi a casa alcuni lavori non ha che da chiederlo. E poi, diciamo la verità, ci sono troppi rischi con questa quantità di materiale infiammabile, senza contare le interferenze o le giuste perplessità dei proprietari della villa”. In effetti i proprietari, senza alcun dubbio molto ospitali e generosi con Attilio, forse si aspettavano ben altro da questo artista quando decisero di affidare l’edificio al suo estro. Chissà: bei dipinti, paesaggi, nature morte, ritratti realistici e somiglianti. Avevano conosciuto l’artista quando ancora praticava un realismo oggettivo, classicheggiante. In fondo si trattava dello stesso pittore che aveva dipinto quella bella Deposizione di Cristo per la “Madonna della Navicella”, una chiesetta nei pressi di Chioggia. Adesso era tutto così lontano da quell’opera e ciò che si vedeva in quelle visite saltuarie, era il lento procedere di una cosa che con metodica regolarità si insinuava dovunque negli spazi della villa e cresceva a dismisura. Ogni giorno si arricchiva di una quantità di oggetti, di disegni, di scritture e di mille altre cose. Difficile da comprendere un cambiamento così macroscopico. In verità si trattava di un tracciato poetico orientato in tutte le direzioni dello spazio disponibile, ottenuto con i materiali più diversi, nobilitati e resi organici all’insieme dagli interventi diretti dello stesso artista. Certo un lavoro grande e faticoso che alla dolcezza e alla grazia, talvolta ingenua, di momenti privati alternava, con mezzi molto poveri, contenuti civili di forte impatto critico. Del resto, bastava una semplice occhiata in giro, uno sguardo a certi dettagli come, ad esempio, quella stanza lette- ralmente stipata di barchette di carta dalle quali affiorava, se viste dalla giusta angolazione piccole bandiere Italiane, per intuire quale fosse la strada intrapresa da Attilio, il senso della sua ricerca e si comprendeva facilmente che, arrivato a quel punto, sarebbe stato molto improbabile il suo ritorno verso approdi più tranquilli, convenzionali. A rendere ancor più difficile la permanenza dell’artista in quella casa si era aggiunto, da qualche tempo, il disagio per alcune visite non particolarmente gradevoli dei tutori dell’ordine le quali, anche se rare, lasciavano l’artista in preda ad una forte inquietudine. Non è facile spiegare a persone inclini, per mestiere, alla evidenza dei fatti e alla concreta osservazione della realtà che quanto si poteva vedere intorno non era affatto una “discarica” o la raccolta indifferenziata degli oggetti più impensati. Ciò che si vedeva era semplicemente una grande, complessa installazione, un complicato, intelligente accumulo di “materiali” assemblati. In sostanza quel tortuoso labirinto che occupava gli spazi del vetusto maniero dei Papadopoli, altro non era che un’opera d’arte, almeno nelle intenzioni di chi l’aveva concepita e inoltre, la domanda più imbarazzante era: “ma si vende questa roba?” La risposta Non poteva essere che una e cioè che l’opera non era pensata per la vendita, né intera né a pezzi e infine che quel particolare tipo di artista, cioè lui, Attilio Penzo, non aveva il minimo interesse per il mercato dell’arte o per il denaro in generale visto che, di abitudine, vive con un litro di latte al giorno e “na ciopa de pan”. Anche solo il sospetto di essere coinvolto in qualche avvenimento mondano lo fa scappare a gambe levate. Infatti Penzo rinuncia da tempo a qualsiasi proposta di mostra personale ed evita di partecipare 91 a rassegne, anche importanti. Chi scrive ricorda la fatica e le strategie messe in atto per convincere Penzo a partecipare nel 2009 ad una mostra di alcuni artisti veneti, dal titolo “Gravità” allestita nelle sale dell’Accademia dei Concordi di Rovigo. In quella occasione solo il pressante accerchiamento e la pazienza dei suoi amici ebbero la meglio e Penzo, se pure con riluttanza, allestì in quella occasione una propria sala improvvisando, a suo modo, un’opera molto intensa della quale rimane testimonianza nel catalogo della mostra. In sostanza, i motivi determinanti che indussero l’artista a chiudere l’esperienza “Papadopoli” e smantellare (fino ad oggi solo parzialmente) quella straordinaria installazione furono dunque, da un lato, alcune serie preoccupazioni dei proprietari; dall’altro, le spinte di estimatori e di amici in apprensione per i possibili incidenti: “… non ci sta più nulla qui dentro…, gli spazi sono saturi…, è pericoloso, almeno togli la carta…, e adesso da che parte ti muovi?... Come pensi di procedere?” Queste le obbiezioni più frequenti, purtroppo oggettive e chiunque, mosso dalla curiosità o dalla passione per le “bizzarrie” dell’arte contemporanea, abbia avuto contatti con quell’opera non potrà che trovarsi d’accordo con quei saggi suggerimenti condivisi, del resto, anche se un po’ a malincuore, dallo stesso artista. E così la straordinaria esperienza creativa di Attilio Penzo nella settecentesca villa padronale di “Papadopoli” che sembra andare a braccetto con il piccolo Oratorio di San Faustino, si conclude d’incanto, con dolcezza, come era cominciata otto anni prima. Al principio la coraggiosa avventura ebbe inizio come un’esigenza dell’artista di sperimentare nuovi linguaggi e nuovi materiali, al-