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Attacchi di Panico e Fobie - Associazione INSIEME Onlus

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Attacchi di Panico e Fobie - Associazione INSIEME Onlus
UNIVERSITÀ DI MESSINA
FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE
Corso di Laurea in Scienze dell'Educazione e della
Formazione
Sede di Noto (SR)
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Attacchi di Panico e Fobie
Tesi di Laurea di:
Corradina Triberio
Relatore:
Chiar.mo Preside. Prof. Antonino Pennisi
ANNO ACCADEMICO 2010-2011
I
A San Giuseppe Moscati
ed ai miei cari Genitori
con tanto amore
II
INTRODUZIONE
Inizio la mia Tesi di Laurea dal titolo: “ATTACCHI DI PANICO E FOBIE” raccontandovi il
motivo della mia scelta per questo argomento: Io soffro di DAP.
DAP,cosa significano questa tre lettere ?
Significano: DISTURBO DA ATTACCO DI PANICO.
Era una calda mattina afosa dell’estate dell’anno 2001 quando ad un tratto scendendo le scale di
casa mia che dalla mia stanza portano in cucina chiamavo disperatamente mia madre in preda ad
un malore improvviso e sconosciuto la cui vertigine, il senso di svenimento e la tachicardia mi
stavano inghiottendo in un vortice immaginario con tanta paura di morire che si era impadronita
di tutta me stessa. Per fortuna bastò la presenza amorevole di mia madre ed il susseguirsi di
qualche interminabile minuto per ritornare alla realtà ed al benessere. Sì, proprio alla realtà;
perché quando si ha un attacco di panico la realtà è soffocata dalla paura che si impadronisce di
tutto te stesso: mente e corpo.
Da quell’attacco di panico improvviso la mia vita cambiò.
Ma cosa mi portò a stare così male ? Una notizia per me scioccante il cui protagonista era il
cuore malato di una persona a cui volevo molto bene. Trasferì in modo psicosomatico la
malattia cardiaca in me stessa fino a soffrire di DAP.
Dopo quel primo attacco di panico ce ne furono tanti altri per un intero anno sedando il malore
sporadicamente con un ansiolitico quando era necessario.
Dopo quel periodo la mia vita ricominciò ad essere “normale” in quanto gli attacchi di panico si
erano allontanati, ma gestivo la mia vita non facendo attività in cui sapevo che il mio cuore
avrebbe accelerato il suo battito quindi non facendo più sport e spostandomi solamente con
mezzi di trasporto a motore anche per brevi tratti di distanza.
Vivevo la vita condizionata dal pensiero del cuore .
I miei genitori erano ignari di tutto ed io ne ero poco consapevole per me la cosa principale ed
più importante era non affaticare il mio cuore. Ero diventata cardiopatica nella mia mente
benché il mio organo cardiaco fosse in perfetta salute.
Passarono gli anni vivendo in questo modo.
III
Una sera dei Mondiali di Calcio dell’anno 2006 ero in casa da sola ed avrei dovuto raggiungere
i mie genitori a casa di amici. Mi stavo preparando quando sentì il mio cuore battere più
velocemente, il respiro affannato, il tutto sfociando in tachicardia ed in un attacco di panico
improvviso. Riuscì a telefonare a mia madre che mi raggiunse in fretta e con amorevoli cure e
l’intervento tempestivo del mio medico di famiglia riuscì a stare bene.
La mia vita subì una trasformazione.
Per tre lunghi mesi mi vennero attacchi di panico ogni giorno e spesso mi costringevano a
recarmi al pronto soccorso.
Sono arrivata quasi ad uno stato vegetativo: avevo paura a camminare, mangiavo solo
imboccata da mia madre riuscendo ad inghiottire pochi bocconi di cibo, avevo paura ad uscire,
avevo paura a lavarmi, avevo paura degli specchi, avevo paura a ridere, avevo paura quasi a
parlare lo facevo sottovoce per non sforzarmi; la mia vita si svolgeva coricata a letto e dicendo
in continuo solo una cosa : HO PAURA.
I miei genitori erano disperati, ma nel frattempo non accettavano di portarmi da uno psichiatra
perché i disturbi mentali sono visti come un qualcosa di cui ci si deve vergognare e di cui si ha
paura ad affrontarli, ma poi vista la grave situazione l’hanno affrontata portandomi in ospedale
da uno bravo psichiatra.
Ero arrivata ad avere ventuno attacchi di panico nelle ore solari e durante le ore notturne era un
susseguirsi di attacchi di panico anche mentre dormivo ed ero dimagrita più di dieci Kg,
destando preoccupazione e molto timore ai miei genitori
Nel novembre dell’anno 2006 i miei genitori mi hanno messa in macchina e portata in ospedale
dal mio psichiatra di fiducia e dopo un colloquio e la visione di analisi cliniche e visite
cardiologiche perfette ha diagnosticato il: DISTURBO DA ATTACCHI DI PANICO.
Ho iniziato la cura farmacologica l’indomani del colloquio con lo psichiatra e da quel momento
la mia vita è stata in ascesa perché il mio corpo ha avuto una riposta positiva farmacoterapia,
invece alla psicoterapia non rispondevo in modo positivo ed ho dovuto abbandonare perché mi
sentivo nervosa ed angosciata dopo il colloquio con lo psicoterapeuta.
La mia cura risolutiva è stato l’amore di mia madre che mi ha strappata con forza e volontà alle
mie fobie, la farmacoterapia che mi ha aiutata a non avere il malore degli attacchi di panico, la
mia voglia di vivere che non mi è mai mancata.
IV
Adesso dopo molti anni sono qui a scrivere la mia testimonianza di vita, sto bene, ho ripreso la
mia vita e mi metto in gioco anche se ancora continuo a curarmi con la farmacoterapia con dosi
di mantenimento. Voglio puntualizzare per esperienza personale che per uscire dall’incubo del
DAP non bastano le terapie ma si deve volere, si devono accettare le cure, si deve accettare di
essere aiutati perché se non si è affiancati da tutto ciò è molto difficile uscirne si avranno
sempre delle ricadute come l’ho avuta nel 2006. Consiglio a tutti coloro che ne soffrono di farsi
aiutare da specialisti ed accettare le cure perché senza una cura è solo un cammino in discesa.
La mia tesi si apre con una piccola dedica, seguono il frontespizio, l’introduzione, una poesia
scritta da me dal titolo: “Attacco di Panico”, quindi i capitoli della tesi. I capitoli sono cinque,
all’interno di ciascuno di esso ci sono i vari paragrafi che sviluppano l’argomento trattato in
cadauno. Alla fine della tesi abbiamo la conclusione, l’indice e la bibliografia.
Dedico la mia tesi principalmente a San Giuseppe Moscati il Medico Santo di cui sono diventata
devota non appena l’ho incontrato nella cappella dell’ospedale dove lavora il mio psichiatra di
fiducia ed ai miei meravigliosi genitori che mi hanno dato la vita e sostenuta sempre e che mi
hanno dato la possibilità di studiare. Inoltre al mio amico che non c’è più di nome Davide ed al
mio carissimo psichiatra il Dott.Orazio Antonuccio primario del reparto di Psichiatria
all’Ospedale di Avola (SR). Ancora dedico la mia tesi in modo particolare alla Santissima
Trinità, la Madonna, San Pio da Pietrelcina,San Giovanni Bosco, San Corrado, Santa Lucia,
Santa Rosalia e Sant’Agata che ho pregato tanto ed invocato per aiutarmi negli studi
universitari.
Ringrazio tutti i miei professori del mio corso di Laurea in “Scienze dell’Educazione e
Formazione”, i segretari e tutti coloro che mi sono stati vicini in questo percorso di studi.
Ringrazio per ultimo, ma non per importanza, il mio relatore il Preside Professore Antonino
Pennisi che mi ha dato la possibilità di scrivere la tesi sull’argomento che io desideravo.
Concludo l’introduzione alla mia tesi con una poesia che ho scritto in cui descrivo uno dei mie
tanti attacchi di panico improvvisi augurandovi una buona lettura.
Corradina Triberio
V
Poesia: ATTACCO DI PANICO
Inaspettatamente
I secondi sembrano lunghi anni
sono dentro un vortice
mi gira la testa
mi sento svenire
sono fuori dalla realtà
sento solo vertigini nel mio corpo
la strada succhia
mi agito
tutta me stessa.
non riesco a prendere le medicine
sono lì dentro la borsa che ho tra le mani
Il mio sguardo è alienato
non riesco ad aprirla
il sudore aumenta sempre più
il mio corpo non risponde
AIUTO
il mio cuore è impazzito.
nessuno mi aiuta mi sento svenire
AIUTO
cerco di camminare
mi tremano le mani
il mio respiro è sempre più affannato
mi tremano le braccia
il mio cuore è troppo agitato
mi tremano le gambe
sto perdendo i sensi
non riesco a reggermi in piedi
AIUTO lo grido forte ci sono riuscita
la mia voce è inesistente
ma,
mi manca l'aria
tutti si allontanano
AIUTO
hanno paura del mostro che si è impossessato di me
sto impazzendo
a stenti riesco a camminare
mi trascino a passi lenti
AIUTO
ed arrivo alla soglia della porta amica
che mi salva per l'ennesima volta
sto morendo.
dal pazzesco vortice
che mi stava inghiottendo
Corradina Triberio
VI
CAPITOLO 1
Premessa
La salute della psiche è meno nota alle persone in quanto i mass media dedicano soprattutto rubriche di
medicina informando quasi unicamente sulla salute del corpo e quindi le persone quasi ignorando l’universo
dei disturbi mentali non comprendono l’importanza della salute mentale.
I disturbi mentali evocano ancora tutt’oggi un senso di imbarazzo e di vergogna sia in chi ne soffre, sia nei
familiari che nel contesto sociale in genere.
La medicina si occupa del visibile e dell’oggettivo in quanto cura il corpo, ma l’invisibile cioè la psiche la
cui parola deriva dal greco Psiche che significa “anima” viene curata dalla psicologia.
Diceva Aristole: “ L’anima è ciò che un corpo può fare di un corpo naturale dotato di organi, essa costituisce
l’attività primaria ed intenzionale”.
La nozione di anima però non coincide con quella di mente. La mente è paragonata al software del
computer cioè il programma ossia le giuste informazioni formate da una lista di istruzioni emanate dalla
nostra rete neurale ed è stato scoperto che il corpo umano trasmette in codice binario; il cervello invece è
paragonato all’hardware del computer cioè la parte organica del nostro corpo.
La psicologia sfocia nella psicologia contemporanea o delle scienze cognitive in generale agli odierni
orientamenti di studio e di comprensione delle malattie mentali cioè alla psicopatologia ed alla psichiatria.
La psicopatologia si apre essenzialmente alla filosofia esistenziale di dare una interpretazione del malato e
della malattia mentale quindi della comprensione e descrizione fenomenologica della modalità di esistenza e
dei vissuti dei soggetti malati a svelarne le strutture ontologiche legate all’impossibilità di essere o sentirsi
diversi. La psichiatria indaga i disturbi mentali seguendo un approccio clinico-nosologico con l’obiettivo
della diagnosi e quindi l’attuazione dei protocolli per il trattamento.
Il funzionamento mentale (la memoria, l’intelligenza, il linguaggio, il pensiero, la ragione, la creatività) si
spiega facendo riferimento all’attività dei sistemi di connessione cioè le reti neurali ovvero all’attività del
sistema nervoso centrale (SNC) e del sistema nervoso periferico (SNP) . Il cervello ed il midollo spinale
costituiscono il sistema nervoso centrale, dai gangli del midollo spinale si originano le fibre nervose che
innervano tutti i tessuti degli organi e degli apparati. Questa fitta rete di nervi costituisce il sistema nervoso
periferico (SNP) . Quindi abbiamo due porzioni si sistema nervoso quello centrale e quello periferico.
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Gli orientamenti della psicologia contemporanea o delle scienze cognitive in generale agli odierni
orientamenti di studio e di comprensione delle malattie mentali cioè alla psicopatologia e alla psichiatria
troviamo indizi interessanti a carico dei comportamenti.
Si notano che nelle malattie mentali soprattutto quelle più gravi abbiamo evidenti riferimenti ai processi
informazionali che riflettono nell’anomalia comunicativa dei fenomeni psicopatologici.
Le psicopatologie sembrano oltre che disturbi delle comunicazioni anche disturbi delle relazioni intesi in
duplice dimensione di personale ed interpersonale.
L’aspetto personale è testimoniato dalla difficoltà dei soggetti ad individuarsi ed a riconoscersi come persone
dotate di prerogative personali proprie oppure dall’eccessiva considerazione e focalizzazione su di sé.
L’aspetto interpersonale si riflette nell’autoisolamento dei malati di mente e nella conseguente chiusura in sé
ed all’alterità.
Quindi le psicopatologie si caratterizzano come disturbi delle comunicazioni e delle relazioni .
Nella neurobiologia del cervello il rapporto causale tra gli stati cerebrali e gli stati mentali e tra gli stati
cerebrali e i disturbi mentali basta una minima perturbazione come stress,traumi, lesioni ecc… per
determinare un cambiamento sia degli stati mentali che della personalità nel suo complesso.
Negli ultimi 30 anni è stata apprezzata anche l’attività delle cellule della glia la cosiddetta materia bianca
ritenuta per lungo tempo un tessuto di supporto alla materia grigia, ma adesso se ne apprezza la loro funzione
di ausilio negli scambi sinaptici.
Tutti gli eventi patologici che interessano il sistema nervoso prendono il nome di neuropatie e fondano
l’oggetto della neurologia. Codeste come tutte le altre patologie organiche sono caratterizzate dalla presenza
di una lesione accertata ed accertabile. Le neuropatie sono patologie del cervello.
Abbiamo tesi innatiste sull’eziologia delle malattie mentali per quanto riguarda l’ereditarietà genotipica che
l’ereditarietà ambientale, ma queste indagini al massimo possono dimostrare la familiarità o predisposizione
allo sviluppo in determinate circostanze della malattia mentale.
Le teorie organicistiche sull’eziologia delle malattie mentali più accreditate in ambito clinico individuano il
danno nelle alterazioni biochimiche a carico di alcune proteine e aminoacidi nei neurotrasmettitori quali
dopamina,serotonina,acido glutammico, gaba e negli altri di cui non sono ancora noti gli effetti, oltre che nei
recettori sinaptici. I neurotrasmettitori e i recettori consentono il passaggio degli impulsi nervosi
elettrochimici nel SNC con la funzione di eccitare o di inibire l’ attività dei neuroni , la presunta sede della
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lesione si configurerebbe nel difetto della modulazione biochimica dei neurotrasmettitori e dunque nella
costituzione di nuove connessioni sinaptiche neurali da cui deriverebbero i disturbi psicopatologici.
Le psicopatologie non rispondono a tutt’oggi a una eziopatogenesi palese e condivisa cioè manca la presenza
di una lesione accertata ed accertabile.
Gran parte delle malattie sono diagnosticabili con l’ausilio di indagini strumentali che mettono in evidenza la
localizzazione precisa e l’entità del danno come negli organi, negli apparati e nelle neuropatie.
Le lesioni del cervello sono riscontrabili attraverso una serie di tecniche che prevedono le misurazioni
elettriche o le misurazioni elettromagnetiche.
Le misurazioni elettriche sono quelle ottenute attraverso esami come l’ElettroMioGrafia (EMG) o
l’ElettroEncefaloGramma (EEG) ; esse rilevano e registrano la differenza di potenziale muscolo-tendineo o
delle aree cerebrali e consentono di valutare l’attività elettrica di base ossia quella degli impulsi nervosi
espressa in millivolt (mV) per millisecondi (ms).
Le misure elettromagnetiche forniscono immagini elettroniche e digitali delle strutture anatomiche
superficiali e profonde del cervello e sono la MagnetoEncefaloGrafia (MEG), la
TomoGrafiaAssialeComputerizzata (TAC) , la Risonanza Magnetica Nucleare (MRI), Risonanza Magnetica
Nucleare Funzionale (fMRI).
I disturbi della mente in assenza di lesioni certe ed accertabili rendono vano l’ausilio di stumenti diagnostici
l’unica soluzione è la metodica diagnostica del colloquio clinico strutturato con il DSM-IV.
Il DSM è il Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders (DSM), cioè il manuale diagnostico e
statistico dei disturbi mentali che viene prodotto dall’APA (Associazione degli Psichiatri Americani) dal
1952 è attualmente alla sua sesta versione. Il DSM è quindi il manuale ufficiale che viene usato negli Stati
Uniti dagli psichiatri e da più di 400 mila operatori della salute mentale per effettuare diagnosi psichiatriche,
ma che è largamente in uso anche altrove, Italia compresa. Il suo sistema di classificazione fornisce la
tassonomia psichiatrica standard sulla base della quale possono essere diagnosticati, e di conseguenza curati,
i disordini mentali. Il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali è stato più volte modificato,
includendo ed eliminando malattie. Consiste in una classificazione "nosografica ateorica assiale" dei
disturbi mentali. I disturbi mentali vengono definiti in base a quadri sintomatologici e questi
ultimi sono raggruppati su basi statistiche.[1]
Il DSM-IV è la quarta revisione di un lavoro di ricerca di mezzo secolo da parte dell'American Psychiatric
Association. Parte della popolarità del DSM-IV è dovuta al fatto che esso si basa su una vasta base empirica
ed è ateoretico cioè si è limitato a identificare le tipologie più frequenti di disturbo psichico e a fotografarne
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gli
elementi
associati.
Il manuale, secondo gli intendimenti degli autori e dell'APA, dovrebbe essere:
nosografico: i quadri sintomatologici sono descritti a prescindere dal vissuto del singolo, e sono
valutati in base a casistiche frequenziali.
ateorico: non si basa su nessun tipo di approccio teorico, né comportamentista, né cognitivista,
né psicoanalitico, né gestaltico, etc.
assiale: raggruppa i disturbi su 5 assi, al fine di semplificare e indicare una diagnosi standardizzata.
su basi statistiche: si rivolge ad esse in quanto il sintomo acquista valore come dato frequenziale; i concetti
statistici di media, frequenza, moda, mediana, varianza, correlazione, ecc. giungono ad essere essi stessi il
"solco" mediante il quale si valuta la presenza o meno di un disturbo mentale.
Si tratta di un manuale che raccoglie attualmente più di 370 disturbi mentali, descrivendoli in base alla
prevalenza di determinati sintomi.
Il problema della malattia mentale non è un problema esclusivamente biologico o organicista come si
credeva in passato, l'approccio attuale è necessariamente un approccio “multidisciplinare”: la malattia
mentale è in sé stessa multifattoriale e ciò comporta che si tenga conto di tutti i diversi paradigmi di
spiegazione. Il disturbo mentale è il risultato di una “condizione sistemica” in cui, rientrano: il patrimonio
genetico, la costituzione, le vicende di vita, le esperienze maturate, gli stress, il tipo di ambiente, la qualità
delle comunicazioni intra ed extra-familiari, l'individuale diversa plasticità dell'encefalo, i meccanismi
psicodinamici, la peculiare modalità di reagire, di opporsi, di difendersi.
La struttura del DSM-IV segue un sistema multiassiale: divide i disturbi in cinque Assi, così ripartiti
ASSE I: disturbi clinici, caratterizzati dalla proprietà di essere temporanei o
comunque non "strutturali" e altre alterazioni che possono essere oggetto di
attenzione clinica: lo psichiatra cerca la presenza di disturbi clinici che possono
essere riconducibili non solo al cervello e al sistema nervoso, ma anche a qualsiasi
condizione clinica significativa che il soggetto può avere (per esempio valuterà se il
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soggetto è
sieropositivo, malato cronico, etc.)
ASSE II: disturbi di personalità e ritardo mentale. Disturbi stabili, strutturali e
difficilmente restituibili ad una condizione "pre-morbosa"; generalmente, ma non
necessariamente, si accompagnano a un disturbo di Asse I, cui fanno da contesto.
Questo asse è divisa in sottoparagrafi
corrispondenti ai diversi disturbi di personalità.
ASSE
III:
condizioni
mediche
acute
e
disordini
fisici
ASSE IV: condizioni psicosociali e ambientali che contribuiscono al disordine
ASSE V: valutazioni globali del funzionamento
Generalmente il DSM richiede un cut-off cioè un numero minimo di sintomi raccolti per poter effettuare una
corretta diagnosi.
Di solito il DSM richiede un periodo minimo di presenza dei sintomi per poter effettuare una diagnosi. Altri
criteri di esclusione sono l'età di insorgenza del disturbo ed una diagnosi differenziale rispetto a disturbi che
potrebbero essere accomunati dagli stessi sintomi.
Il DSM è al centro di numerose critiche, dal momento che non a tutti sembra uno strumento adeguato per
valutare la situazione clinica di una persona. Opinioni difformi da quella dell'APA criticano la sua struttura
rigidamente statistica, in particolar modo la scelta dei cut-off che porterebbero a diagnosticare un disturbo
mentale ad una persona con tre delle caratteristiche richieste, allo stesso modo di una persona con sette di
quelle caratteristiche e a scapito di chi ne raccoglie solo due.
Inoltre l'approccio descrittivo del DSM impedisce di individuare qualche riferimento alle caratteristiche
soggettive del paziente, agli effetti della sua esperienza e la sua storia personale.[2]
1.1 L’encefalo
L’encefalo è contenuto all’interno di una solida struttura ossea, la scatola cranica, che lo protegge dagli
agenti esterni e da eventuali traumi. Il suo peso totale è di circa 1350 grammi nel maschio e 1200 grammi
nella femmina, ovviamente ciò non deve far pensare che vi sia una differenza di capacità intellettiva fra i due
sessi, si tratta solamente di uno sviluppo quantitativo diverso in rapporto a una diversa massa corporea totale.
Quest’organo è responsabile del controllo e della regolazione di tutte le attività e funzioni del nostro corpo;
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ad esso giungono gli stimoli (sensazioni e percezioni) raccolti dalla periferia dell’organismo e da esso
partono tutte le risposte motorie trasmesse alla muscolatura. L’encefalo è il centro delle funzioni mentali
superiori, come la memoria ed i processi di ragionamento.
L’encefalo è diviso in tre parti connesse tra loro:
- Cervello;
- Cervelletto;
- Tronco Encefalico;
Il cervello non è una struttura tutta uniforme, ma è diviso in due parti simmetriche gli emisferi destro e
sinistro la cui superficie è ricca di solchi e scissure disposti nell’uomo secondo un piano uniforme, malgrado
una grande variabilità individuale, e sono connessi da una lamina di fibre nervose chiamata corpo calloso. La
forma del cervello è grossolanamente simile a quella di un ovoide, più espanso posteriormente, convesso
nella parte superiore e con la superficie inferiore appiattita. I due emisferi sono entrambi suddivisi in sottoparti, denominate lobi: il lobo frontale, il lobo occipitale, il lobo temporale e il lobo parietale. La corteccia
cerebrale è costituita da materia grigia, quella bianca centralmente, costituita da fasce di fibre nervose,
presenta nuclei di altra sostanza grigia che sono importanti centri nervosi. Il mantello cerebrale è
suddivisibile dalle scissure, le più importanti sono: la scissura laterale o del Silvio, il solco centrale del
Roland, la Scissura parieto-occipitale, il solco del cingolo e la scissura collaterale in otto lobi, cinque sulla
superficie esterna degli emisferi, uno sulla superficie mediale, e due su quella inferiore.
Nel cervello abbiamo pure i ventricoli cerebrali che sono quattro cavità comunicanti fra loro, i due laterali
comunicano con il terzo attraverso i forami interventricolari di Monro. Il quarto ventricolo comunica con il
terzo attraverso il l'acquedotto mesencefalico del Silvio. In essi viene prodotto e circola il liquido cerebrospinale questo viene prodotto per secrezione dai plessi corioidei. Il liquido dal quarto ventricolo si riversa
nello spazio subaracnoideo attraverso fori: foro di Magendie e forami di Luschka.
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Fig.1 L’encefalo
Le informazioni al cervello e dal cervello vengono trasportate da strutture cellulari il cui prolungamento
assonico entra nella costituzione del midollo spinale.
Il midollo spinale è parte del sistema nervoso, è situato all'interno della colonna vertebrale ed è responsabile
della trasmissione degli impulsi nervosi dal centro alla periferia e viceversa.
Il talamo è il principale centro di comunicazione fra il midollo spinale e gli emisferi cerebrali.
Al di sopra del tronco cerebrale si trova una struttura implicata nel coordinamento motorio, che si chiama
cervelletto.
Il cervelletto rappresenta, dopo gli emisferi cerebrali, la parte dell'encefalo più sviluppata. Al pari degli
emisferi cerebrali esso appare grigio in superficie dove si trova uno spesso strato corticale reso irregolare da
una serie di scissure che lo suddividono in diverse porzioni. L'insieme dei risultati sperimentali ottenuti
nell'animale e nell'uomo sembra giustificare la tendenza attuale a non considerare più il cervelletto come
organo esclusivamente dedicato al controllo dell'equilibrio o dei movimenti volontari. In base all'esistenza di
cospicue connessioni anatomiche con le aree associative e paralimbiche della corteccia cerebrale, entrambe
coinvolte nella organizzazione di funzioni nervose superiori, si è progressivamente consolidata l'ipotesi che il
cervelletto rappresenti una parte importante del sistema distribuito di circuiti neurali dedicati alle funzioni
cognitive.
Il tronco encefalico di forma approssimativamente cilindrica, racchiuso in un canale contenuto all’interno
della colonna vertebrale, contiene numerose strutture e vie nervose molto importanti e connette il cervello al
midollo spinale. Lungo circa 45 cm, ha un diametro di un centimetro circa; è costituito da sostanza grigia
(neuroni) all’interno e da fasci di sostanza bianca situati sulla superficie. La sua funzione principale è quella
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di provvedere all’innervazione del tronco e degli arti; a tale scopo è collegato alla periferia mediante 33 paia
di nervi, detti appunto nervi spinali. Sia l’encefalo sia il midollo spinale sono rivestiti e protetti da membrane
connettivali: le meningi, che possiedono una propria rete di vasi, in cui circola un liquido detto liquor (o
liquido cerebrospinale),che ha la funzione di sostenere e proteggere le strutture nervose; normalmente, il
volume del liquor è di circa 150 cm3.
Fig.2 Midollo spinale
1.2 Le funzioni fisiologiche dell’encefalo
I due emisferi cerebrali non svolgono le stesse funzioni fisiologiche; quello di sinistra è coinvolto nel
linguaggio articolato, nella scrittura, nella memoria delle parole note, nell’associazione tra l’espressione
verbale e le immagini o le idee, quello di destra invece è coinvolto in attività non linguistiche e ha soprattutto
la capacità di cogliere i messaggi visivi nel loro insieme tenendo conto delle valenze emotive. Un ponte di
fibre nervose, che connettono le due metà del cervello, consente lo scambio di informazioni. Per quanto
riguarda ciò che concerne l’attività intellettiva, allo stato attuale delle conoscenze, si ritiene che non esista
un’aria specifica dove insorgano le idee o dove trovi localizzazione la memoria: tali capacità sono piuttosto
ritenute diffuse a tutta la corteccia cerebrale e realizzate attraverso l’associazione tra i diversi centri nervosi
superiori.
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Per comprendere che le nostre facoltà sono localizzate in certe regioni specifiche del cervello ci sono voluti
molti anni di studio.
La prima persona a tentare ciò fu lo scienziato viennese Franz Joseph Gall. All'inizio del XIX secolo, attorno
al 1800, egli fu il primo a cercare di descrivere nei dettagli le suddivisioni del cervello, basandosi su un
approccio sperimentale che oggi si chiama frenologia.
Gall era rimasto colpito dal fatto che i tratti intellettuali di certe persone sembrassero trovare una
corrispondenza nella forma del loro cranio. Ad esempio, alcuni tra i più intelligenti dei suoi amici avevano
una fronte particolarmente prominente. Gall aveva allora immaginato che tale prominenza fosse dovuta al
fatto che l'intelligenza nel cervello fosse localizzata nella regione frontale, e che l'intensa attività intellettuale
dei suoi amici avesse causato il maggiore sviluppo di questa regione del cervello, deformando così il cranio e
rendendo la regione frontale più prominente.
In secondo luogo Gall ha introdotto l'idea che le funzioni sono localizzate. Egli ha proposto localizzazioni di
funzioni cerebrali in modo molto preciso, sostenendo che regioni specifiche controllassero funzioni molto
elaborate, come la riservatezza, l'amore romantico, l'altruismo, la generosità eccetera, essendo ciascuna di
esse associata a una parte diversa del cervello. Aveva costruito una cartografia del cervello nella quale le
tendenze al possesso, a essere parsimoniosi o risparmiatori, tutte questi attributi collegati all'accaparrare,
fossero raggruppati insieme, e che l'idealismo, l'esuberanza, la raffinatezza e il perfezionismo, tutti questi
tratti di ordine superiore, fossero anch'essi localizzati nel cervello.
Così fino a circa il 1860, quando un grande neurologo francese, Paul Broca, riaprì la questione della
localizzazione nel contesto della neurologia del linguaggio.
Broca si imbatté in un paziente con un insolito difetto di linguaggio. Questi problemi del linguaggio sono
chiamati afasie. Sono delle malattie neurologiche che riguardano l'articolazione o l'espressione del
linguaggio, generalmente dovute a incidenti di tipo vascolare. Questo paziente comprendeva perfettamente il
linguaggio, ma era incapace di articolarlo, non riusciva a utilizzare il linguaggio per esprimersi. Aveva
completamente perso la facoltà di esprimersi con il linguaggio, nonostante fosse rimasto capace di
comprenderlo.
Quando questo paziente morì e fu sottoposto ad autopsia, Broca scoprì che questo paziente aveva una lesione
nel lobo frontale. In seguito Broca scoprì altri sette pazienti con un difetto simile: tutti avevano difficoltà a
esprimersi con il linguaggio, ma tutti lo comprendevano perfettamente. Al loro decesso, l'autopsia dimostrò
che ciascuno di essi presentava la stessa identica lesione e che in ciascuno di essi la lesione era localizzata
nell'emisfero sinistro del cervello. Egli annunciò allora uno dei principi fondamentali delle neuroscienze e
cioè che noi parliamo con il nostro emisfero sinistro. La nostra capacità di esprimerci in modo preciso con il
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linguaggio è localizzata nel cervello sinistro. Broca denominò quest'area "area di Broca ", nome col quale
viene tuttora chiamata.
Qualche anno più tardi un neurologo tedesco, Karl Wernicke, compì una seconda scoperta. Scoprì un
paziente che presentava una lesione dell'area parieto-temporale, proprio dove il lobo parietale incontra quello
temporale. Questo paziente aveva un difetto di linguaggio diverso da quello di Broca: i pazienti di Broca
capivano, ma non riuscivano a esprimersi. Questo paziente, invece, era in grado di esprimersi, ma non capiva
niente; quindi quello che diceva aveva ben poco senso.
Al momento dell'autopsia, Wernicke vide che la lesione si trovava ancora una volta nell'emisfero sinistro a
livello del lobo parieto-temporale. Egli chiamò questa zona "area di Wernicke".
Il merito più grande di Wernicke, tuttavia, non si limita a questa scoperta, ma al fatto di aver combinato le
scoperte proprie e quelle di Broca nello sviluppo di una teoria del linguaggio.
La corteccia occipitale è il luogo in cui l'informazione visiva entra nel cervello, mentre l'area temporale è il
luogo d'entrata dell'informazione uditiva. Quando si sente qualcuno parlare, o quando si legge qualcosa, le
informazioni entrano all'interno di sistemi sensoriali specifici e quindi vengono portate nell'area di Wernicke,
dove sono tradotte in una sorta di codice neurale del linguaggio. Questo codice viene poi inviato all'area di
Broca, attraverso una via nervosa nota come fascicolo arcuato. Successivamente, nell'area di Broca, le
informazioni vengono tradotte in linguaggio, che può poi essere articolato e pronunciato.
Wernicke ha dunque ripreso l'idea della localizzazione delle funzioni ed elaborandola sostenne che una
funzione complessa come il linguaggio non è controllata da una sola regione, ma dalla combinazione di più
regioni.
Del cervello abbiamo una buona conoscenza dello sviluppo, abbiamo una buona conoscenza del modo in cui
funzionano le cellule e dei sistemi di cellule, ma quello che ancora non si è riusciti a capire sono i processi
della mente; le neuroscienze cognitive si domandano infatti quale sia la struttura della mente.
Fig.3 Area di Broca e di Wernicke
1.3 Il sistema nervoso
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Il sistema nervoso è costituito da un insieme complesso di organi centrali racchiusi all’interno della cavità
cranica e del canale vertebrale e da organi periferici predisposti alla funzione di raccogliere gli stimoli interni
ed esterni e di inviare gli impulsi alle cellule effettrici.
Le attività degli organi del corpo umano sono regolate da un sistema di cellule dette neuroni. Il sistema
nervoso è suddiviso in sistema nervoso centrale costituito dall’encefalo e dal midollo spinale e in sistema
nervoso periferico che è costituito dai nervi cranici dai nervi spinali e dai gangli.
Fig.4 Il sistema nervoso
Il neurone è l’unità fondamentale del sistema nervoso, il più piccolo elemento capace di generare impulsi
nervosi. Esso è costituito da un corpo centrale dalla cui superficie si dipartono i dendriti e l’assone. Dal
punto di vista fisiologico, invece, rappresenta una cellula in grado di generare e trasmettere un impulso
elettrico. Come tutte le cellule dell’organismo, il neurone, possiede un nucleo ed un citoplasma che gli
permettono di svolgere la sua attività. Il sistema nervoso è formato da circa diecimila milioni di neuroni.
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Fig.5 Il neurone
I neuroni sono cellule specializzate che hanno come proprietà: l’eccitabilità e la conducibilità
eccitabilità: è la capacità in seguito ad uno stimolo di modificare la differenza di potenziale
transmembrana.
conducibilità: è la capacità di condurre gli impulsi elettrici lungo le fibre nervose.
I neuroni hanno forme e dimensioni diverse ma si possono classificare in 3 tipi principali:
neuroni motore: trasmettono gli impulsi dal sistema nervoso agli organi periferici (effettrici)
neuroni associativi: servono a collegare tra loro altri neuroni.
neuroni sensoriali (o cellule bipolari o cellule T): hanno due prolungamenti rivestiti di mielina, uno
dei quali conduce l’impulso verso il corpo cellulare (cioè verso l’interno) e l’altro dal corpo cellulare
verso l’esterno( afferenti).
Lo spazio di comunicazione fra neuroni e fra questi e le cellule effettrici è chiamato sinapsi.
L’impulso per poter essere trasmesso ha bisogno di particolari sostanze chiamate: neurotrasmettitori.
Vi sono diversi tipi di neurotrasmettitori: l’acetilcolina, l’adrenalina, la noradrenalina, ecc…
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Fig.6 La sinapsi
Il sistema nervoso è bipartito in sistema nervoso centrale e sistema nervoso periferico.
Il sistema nervoso centrale è costituito dall’ encefalo e dal midollo spinale.
Il sistema nervoso periferico comprende i nervi cranici che derivano dal cervello e i nervi spinali emergenti
dal midollo spinale con i gangli.
I nervi, cranici o spinali, svolgono una funzione di collegamento trasportano dal centro alla periferia gli
stimoli originati dal sistema nervoso centrale necessari alla contrazione muscolare; in direzione opposta,
ovvero dalla periferia al centro, portano avanti gli stimoli sensoriali raccolti dai recettori, e riguardanti, per
esempio, la posizione del corpo nello spazio, il dolore, la vista, l’udito, l’olfatto, il gusto, il tatto.
Il Sistema Nervoso Periferico si suddivide in due parti principali:
Sistema Nervoso Somatico, responsabile delle risposte volontarie;
Sistema Nervoso Autonomo, o Vegetativo, responsabile delle risposte involontarie.
Il Sistema Nervoso Somatico è costituito da fibre nervose periferiche che inviano informazioni sensitive al
Sistema Nervoso Centrale e fibre nervose motorie che si portano ai muscoli scheletrici.
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Il Sistema Nervoso Autonomo e' suddiviso in due parti ad azione antagonista:
Simpatico (toracico - lombare);
Parasimpatico (craniosacrale).
Il Sistema Nervoso Autonomo è costituito dal sistema nervoso simpatico e dal sistema nervoso
parasimpatico.
Il Simpatico nasce nel midollo spinale. Stimola il cuore, dilata i bronchi, contrae le arterie e inibisce
l'apparato digerente, prepara l'organismo all'attività fisica.
Il Parasimpatico è antagonista al sistema simpatico ed è un sistema che promuove la digestione, la peristalsi,
al sonno e al riposo. sono molto. Nel cuore, il Parasimpatico ha il compito di diminuire i battiti cardiaci, la
pressione, e provocare una vasocostrizione delle coronarie.[3]
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CAPITOLO 2
Premessa: che cosa è l’ ATTACCO DI PANICO
L’ attacco di panico è un episodio di improvvisa ed intensa paura provocato da una forte ansia
accompagnato da sintomi somatici e cognitivi come palpitazioni, tremore, sensazione di soffocamento,
vertigini, dolore al petto, nausea, paura di morire, paura di impazzire, brividi, vampate di calore e nei casi più
estremi svenimento. La durata dell’attacco di panico è di circa trenta minuti.
Chiunque abbia provato un attacco di panico lo definisce come un’esperienza terribile, improvvisa,
indescrivibile che lascia dentro di sè la paura di un nuovo episodio.
L’episodio dell’attacco di panico può rimanere isolato o ripetersi nel tempo, nel secondo caso, possiamo
parlare di disturbo di panico ( DAP ) .[4]
2.1 Il termine “panico”
Il temine panico deriva dal Dio Pan, una divinità ellenica parte uomo e parte capra, che il mito lo vuole
figlio di Zeus e della ninfa Callisto, mentre un’altra versione lo vuole figlio di Penelope e di tutti i suoi
pretendenti, con cui avrebbe avuto rapporti durante l’attesa del marito.
Pan era un Dio solitario non risiedeva sull’Olimpo, ma viveva specialmente nei boschi e con la sua voce
spaventosa incuteva in chi la udiva una grande paura, infatti panico da Pan per questo motivo.
Secondo Omero la versione più accreditata di Pan era che egli nacque dall’unione di Hermes e della ninfa
Driope, ninfa della quercia; la madre lo abbandonò subito dopo la nascita poiché il suo aspetto era talmente
brutto che ne rimase terrorizzata; Hermes allora lo raccolse e dopo averlo avvolto in una pelle di lepre, lo
portò sull’Olimpo per far divertire gli dei, causando così l’ilarità di Dionisio, che lo accolse nel suo seguito.
È raffigurato con gambe e corna caprine, con zampe irsute e zoccoli, mentre il busto è umano, con due corna
in fronte, il naso schiacciato, il volto ornato da una barba caprina e dotato di un’espressione terribile, a
dispetto della quale Pan è un dio gioviale e generoso, sempre pronto ad aiutare quanti chiedono il suo aiuto.
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Fig.7 Dio Pan
Racconta Plutarco che sotto il regno di Tiberio, un vascello romano si trovò a passare nei paraggi di un’isola
del mar Egeo, quando il vento cessò improvvisamente e nel silenzio si udì una voce gridare: "Il Grande Pan è
morto". A quella notizia da ogni parte dell’isola scoppiarono pianti, gemiti e singhiozzi di cui non si seppe
mai la provenienza.[5]
2.2 Che cosa è il disturbo di panico
Il disturbo di panico è incluso nel gruppo dei disturbi d’ansia, la caratteristica principale è la presenza di
attacchi di panico ricorrenti ed inaspettati seguiti dalla preoccupazione persistente di avere un altro attacco di
panico. In genere prima di rivolgersi ad uno psichiatra ci si rivolge a vari medici in primis al cardiologo per
scongiurare problemi cardiaci, quindi al pneumologo e così via finché si arriva come ultima spiaggia allo
specialista. Lo psichiatra dopo un colloquio ed una diagnosi differenziale diagnostica il tipo di problematica
del paziente nel nostro caso si tratta del: disturbo di panico (DAP).
Il soggetto affetto da DAP entra pian piano in un circolo vizioso perché ha sempre paura dell’arrivo di un
nuovo attacco di panico, le relazioni sociali risultano compromesse,è incapace di uscire da solo, incapace di
stare in casa da solo, incapaci di dormire da solo,diventa dipendente dagli altri. A stare male non è soltanto
chi ha il disturbo di panico, ma anche i familiari del soggetto affetto da DAP perché non riescono in un
primo momento a capirlo ed aiutarlo e successivamente devono modificare la loro vita di per aiutare la
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persona che sta male. Il termine specifico della paura perenne di rimanere da soli, di spostarsi, cioè di tutti gli
evitamenti è: agorafobia.
È inevitabile il senso di frustrazione per il soggetto affetto da DAP e ciò deriva dal fatto di dipendere dagli
altri, egli si sente depresso, scoraggiato, sfiduciato, apatico, pessimista, con sensi di colpa, infelice. Questi
stati d’animo vengono definiti demoralizzazione secondaria perché non sono dovuti ad una depressione vera
e propria, ma sono soltanto la conseguenza del fatto che il soggetto che soffre di attacchi di panico ha come
conseguenza una limitazione del suo benessere psico-fisico e nelle relazioni sociali e con l’ambiente. Tutto
ciò scompare quando si guarisce dal DAP ritornando ad essere di buon umore, attivi, fiduciosi, autonomi.
C’è da precisare il significato di due termini cioè guarire ed eliminare. Guarire non significa eliminare del
tutto un problema, ma riuscire a stare bene anche avendolo, convivere con esso, questa fase negli attacchi di
panico è quando si sta bene ma si è ancora in terapia. Eliminare significa proprio il non avere più quel
determinato problema in questo caso degli attacchi di panico quando non si è più in terapia di nessun tipo e
non si hanno ricadute
Esiste anche il DAP che sfocia in vera e propria depressione ed in questi casi la sofferenza e le difficoltà per
chi ne è affetto sono maggiori, ma le terapie usate per il DAP aiutano anche per la depressione.
2.3 Differenza tra paura,ansia e panico
La paura è uno stato d’animo giustificato da situazioni reali che costituiscono un pericolo, essa dipende da
un fattore esterno che se non c’è questo elemento reale non c’è nemmeno essa. Se questa sensazione di paura
si prova quando non c’è un elemento reale o il pericolo è inferiore a ciò che percepisce il soggetto si parla di
ansia. L’ansia invece dipende da un fattore interno ed è molto difficile evitarla, essa è un’esperienza molto
diffusa, ma non sempre patologica. Non tutte le persone che provano ansia si ammalano di questo disturbo o
devono fare una terapia per eliminarla. In alcune situazioni l’ansia può essere utile per migliorare le proprie
prestazioni, se invece essa è troppo bassa si può anche avere una prestazione inferiore alle proprie effettive
capacità. Quando l’ansia invece è eccessiva siamo di fronte alla vera e propria patologia che compromette la
propria vita provocando un forte disagio. Il soggetto ansioso si sente sempre in pericolo: è una percezione
difficile da poter descrivere. Gli stati d’ansia comprendono anche gli attacchi di panico. Una crisi di ansia ha
caratteristiche comuni in varie situazioni quali irrequietezza, indecisione, gesticolazione, tachicardia,
aumento della pressione arteriosa, sudorazione eccessiva, tremore, apprensione, attesa di eventi spiacevoli. Il
soggetto ansioso è sempre angosciato ed ha molta immaginazione e rimugina sempre sulle cose che gli
accadono trasformando un evento reale in immaginario fonte di interrogativi e preoccupazioni. La persona
ansiosa è pessimista e tutto ciò si ripercuote sulla sua visione del mondo e nel suo comportamento sfociando
in ipervigilanza, sfiducia in sé e preoccupazione eccessiva ed ella è consapevole di tutto ciò. Tutto questo si
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manifesta con un comportamento previdente, adotta precauzioni eccessive per tutto ciò che deve fare. La
mente dell’ansioso è in continua “ebollizione” fin dal risveglio pensa agli eventi della giornata, se avrà
abbastanza tempo, se avrà degli imprevisti, se avrà dimenticato a fare qualcosa. Egli per tranquillizzarsi in
genere usa dei mezzi come amuleti, ricordi dell’infanzia, medaglioni o altri oggetti che gli trasmettono
sicurezza e/o conforto. È fondamentalmente superstizioso, si affida a scongiuri, formule magiche, ogni cosa
acquista un significato o diventa un segno.
In famiglia l’ansioso si preoccupa eccessivamente per la salute ed il benessere di tutti.
La persona con ansia patologica si abbandona spesso all’uso di alcool e/o stupefacenti perché egli si sente
inadeguato alla realtà che lo circonda. Infatti sono persone facilmente suggestionabili, vulnerabili e
dipendenti dagli altri. L’ansia è comune alla maggior parte degli uomini e delle donne in egual modo nel
mondo, si manifesta nelle classiche forme di timore ed inquietudine ed è presente a tutte le età dai bambini,
agli adolescenti, agli adulti. Così anche l’attacco di panico è in egual modo distribuito come patologia e ne
soffre una buona percentuale della popolazione mondiale. L’età di insorgenza è in genere intorno ai 25 anni
con casi di deviazioni intorno ai 6-9 anni. La persona colpita da un attacco di panico ne sa riferire l’inizio e
la fine in modo facilmente individuabile, mentre l’ansia ha un inizio ed una fine non precisabili.
Riconosciamo tre tipi di attacchi di panico caratteristici con differenti relazioni tra l’esordio dell’attacco di
panico e la presenza o assenza di fattori scatenanti situazionali:
Attacchi di panico inaspettati (non provocati) nei quali l’esordio non è associato con un fattore
scatenante situazionale cioè si manifesta spontaneamente a “ciel sereno”.
Attacchi di panico causati dalla situazione (provocati) nei quali l’esordio non è associato ad un
fattore scatenante situazionale ma si manifesta subito durante l’esposizione o nell’attesa dello
stimolo o del fattore scatenante situazionale.
Attacchi di panico sensibili alla situazione che hanno più probabilità di manifestarsi in seguito
all’esposizione allo stimolo o al fattore scatenante situazionale, ma non sono invariabilmente
associati con lo stimolo e non si manifestano necessariamente subito dopo l’esposizione.
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L’attacco di panico può anche manifestarsi con modalità atipiche: l’attacco abortivo è caratterizzato da tutti i
sintomi iniziali dell’attacco di panico tipico, la sintomatologia insorge e progredisce con la stessa modalità,
ma si arresta poi in fase precoce, senza raggiungere il picco estremo di gravità che è un genere caratterizzato
dalla paura di morire o di impazzire o di perdere il controllo.
2.4 Definizione dell’attacco di panico
Nella quarta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV) l’attacco di panico
viene definito come un periodo preciso di intensa paura o disagio durante il quale quattro o più dei seguenti
sintomi si sono sviluppati improvvisamente ed hanno raggiunto il picco nell’arco di 10 minuti :
1. Palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia: le palpitazioni fanno temere al paziente di poter avere un
infarto e questo aumenta la paura ed il bisogno di cercare un medico; in realtà il rischio di un infarto
durante una crisi di panico è molto scarso. La tachicardia è provocata da una scarica di adrenalina
che fa aumentare la quantità di sangue che arriva al cuore.
2. Sudorazione: la sudorazione, tipico sintomo ansioso, è abbondante soprattutto al palmo delle mani,
ma anche in altre zone del corpo.
3. Tremori: fini o grandi scosse
4. Dispnea o sensazione di soffocamento: in forma più lieve questo sintomo si può manifestare come
intolleranza per gli ambienti chiusi (claustrofobia), per le finestre chiuse, si ha sempre il bisogno di
tenere un po’ la porta aperta, la finestra o il finestrino della macchina aperti. Anche l’intolleranza ai
vestiti stretti ed attillati può essere interpretata come sintomo agorafobico.
5. Sensazione di asfissia o mancanza d’aria: la sensazione è quella di non riuscire a respirare
profondamente, si tende perciò ad aumentare la frequenza del respiro (polipnea).
6. Dolore o fastidio al petto o sensazione di oppressione toracica: non è causato da un imminente
infarto, ma dalla contrazione dolorosa dei muscoli intercostali.
7. Nausea o disturbi addominali.
8. Sensazione di vertigini, di instabilità, di testa vuota o di svenimento: sono sintomi legati alla
polipnea .
9. Derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da sé stessi).
10. Paura di perdere il controllo delle proprie azioni o di impazzire.
11. Paura di morire.
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12. Parestesie (sensazione di torpore o di formicolio): le parestesie soprattutto intorno alle labbra ed alle
mani, sono provocate dall’aumento della frequenza respiratoria la cosiddetta “sindrome di
iperventilazione”. Questo aggrava ancora di più l’ansia poiché si teme di poter avere una paralisi. E’
sufficiente respirare più lentamente e più profondamente o respirare per qualche secondo in un
sacchetto di carta per far sparire il formicolio.
L’ordine sopra seguito nel riportare i sintomi riflette la frequenza con cui vengono solitamente riferiti.
L’attacco di panico è un sintomo aspecifico cioè può far parte di diversi disturbi. È il sintomo principale del
DAP, ma non è esclusivo di questo.
Dinanzi ad un paziente con un attacco di panico prima di concludere che soffre di DAP è bene fare una
diagnosi, la cosiddetta diagnosi differenziale.
Indipendentemente dall’età del soggetto o dai fattori di rischio deve essere raccolta una storia medica e
devono essere eseguiti degli esami quali ECG ed esami di laboratorio di routine (esami delle urine,
emocromo, glicemia, calcemia, ormoni tiroidei ecc..) per accertarsi dello stato di salute. Nell’esame delle
urine è importante effettuare l’esame della presenza di sostanze psicoattive.
Un disturbo d’ansia con attacco di panico legato ad una condizione medica generale comprende l’attacco di
panico dovuto all’azione di una malattia medica. Esistono numerose malattie mediche che possono
provocare un attacco di panico e questo non significa essere affetti da DAP. Infatti la diagnosi di DAP
richiede che le crisi non siano provocate da una malattia fisica. Le malattie fisiche che possono scatenare un
attacco di panico sono:
L’epilessia temporale che provoca crisi improvvise di attacchi di panico, ma qui l’ECG è
chiaramente alterato, invece nel DAP è normale.
Malattie della tiroide tutte le malattie che provocano ipertiroidismo o ipotiroidismo.
Feocromocitoma è un tumore caratterizzato da crisi improvvise di iperproduzione di adrenalina e
quindi si avverte un sintomo simile ad un attacco di panico.
Altri disturbi endocrinologici, come ad esempio l’ipoglicemia. Queste malattie fisiche vengono
facilmente diagnosticate con gli esami di laboratorio.
Un attacco di panico può essere provocato anche dall’assunzione di sostanze, ma queste non causano il DAP.
Ciò significa che l’attacco di panico è correlato all’uso di una determinata sostanza. Il disturbo è dovuto
all’assunzione o all’astinenza, ma scompare quando termina l’effetto della sostanza. Quindi si prende in
causa l’assunzione e l’astinenza di sostanze.
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Per quanto riguarda l’assunzione possono provocare un attacco di panico sostanze farmacologiche
(cortisonici, tiroxina, insulina in dosi eccessive, broncodilatatori, pillole dietetiche ecc..), sostanze psicoattive
(caffeina, bevande alcoliche, anfetamina e simili, cocaina, cannabis, allucinogeni, inalanti ecc…), sostanze
tossiche (sostanze volatili come vernici, benzina ecc.., anidride carbonica, gas nervini, insetticidi organo
fosforici che si usano in agricoltura).
Invece, per quanto riguarda l’astinenza da quelle sostanze che provocano un attacco di panico si deve
ricordare l’astinenza da sostanze farmacologiche ( sedativi, ipnotici e ansiolitiche) oppure dalle sostanze
psicoattive (bevande alcoliche, cocaina ecc…).
C’è da precisare che le sostanze farmacologiche provocano l’attacco di panico se sono assunte in dosi
eccessive o errate, invece le sostanze psicoattive, il gruppo della caffeina e delle bevande alcoliche, possono
provocare un attacco di panico, ma devono essere assunte a dosi eccessive. Le droghe possono provocare un
attacco di panico anche a dosi non eccessive. Le sostanze tossiche raramente provocano un attacco di panico.
2.5 Fattori di rischio
Un fattore di rischio importante nel DAP è rappresentato dai disturbi del sonno. Di per sé un disturbo di
sonno non può causare il DAP, ma molte persone durante il sonno hanno attacchi di panico della stessa
intensità di quelli diurni. La conseguenza è la difficoltà ad addormentarsi per la paura di avere degli attacchi
di panico. L’insonnia e la deprivazione di sonno, indipendentemente dalla causa, possono provocare nei
giorni successivi un aumento della frequenza e della gravità degli attacchi di panico.
Un altro fattore di rischio per il DAP sono gli eventi stressanti. Essi non causano direttamente il DAP ma
possono facilitarne l’esordio: in modo particolare i gravi eventi drammatici come la morte di una persona
cara, oppure una grave malattia, un grave incidente ecc…
Se questi eventi si verificano quando il soggetto è affetto da DAP la sintomatologia nella maggior parte dei
casi aggrava, ma in molti casi pazienti affetti da DAP riescono a gestire meglio una situazione di un evento
drammatico che quelle obiettivamente non pericolose, ma che essi vivono come tali.
Gli eventi traumatici sono un altro fattore di rischio, come la perdita di un rapporto affettivo o di
separazione. L’evento di separazione o perdita nei pazienti con il DAP non và inteso come evento
traumatico, ma piuttosto come un evento significativo di insicurezza.
I fattori ambientali climatici non causano in sé il DAP, ma può avvenire un attacco di panico in coincidenza
con una determinata condizione climatica. Le possibilità dell’attacco di panico possono essere in coincidenza
casuale o l’evento meteorologico viene vissuto in modo angosciante, capita che in base alla temperatura si
verificano degli eventi corporei come ad esempio l’ipotensione se c’è troppo caldo. La persona accusando
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malore comincia ad agitarsi ed ad avere timore finché non si controlla e si può verificare un attacco di
panico. Invece se si verifica un attacco di panico quando c’è un evento climatico specifico come vento,
fulmini, pioggia si parla di fobia specifica. Per un soggetto che presenta, oltre a queste situazioni altri
attacchi di panico del tutto spontanei, si può parlare di DAP.
Capita spesso che di fronte al DAP nelle famiglie si tende a darsi delle colpe a vicenda o ci si autocolpevolizza. Lo psichiatra dovrebbe far capire che non è colpa di nessuno quando si soffre di DAP, ma che
è un disturbo, come per tutte le altre malattie. Questo per evitare sensi di colpa, in modo particolare da parte
dei genitori. L’unica cosa che un passato burrascoso può provocare nella psiche di una persona è nella
maggior parte dei casi è l’insicurezza.
2.6 Diagnosi differenziale psichiatrica
Nella diagnosi differenziale psichiatrica è importante valutare se l’attacco di panico era inatteso o provocato
da una particolare situazione. Ciò è necessario perché l’attacco di panico inatteso è il segno del DAP, invece
l’attacco di panico legato ad una situazione indica una situazione differente come la fobia sociale, la fobia
specifica, il disturbo ossessivo compulsivo, il disturbo post-traumatico da stress, i disturbi dell’adattamento,
il disturbo depressivo maggiore.
La fobia sociale è la paura di affrontare situazioni sociali come ad esempio una festa, un matrimonio,
un’assemblea ecc… oppure di effettuare una prestazione in presenza di altri come parlare in pubblico,
suonare, cantare ecc… . I sintomi sono come quelli del DAP solo che quando c’è questo disturbo avvengono
sia in presenza di persone che quando si è da soli. Nella fobia sociale l’attacco di panico avviene solo in una
determinata situazione quando ci sono persone e non quando si è da soli. Infatti, la persona che soffre di
fobia sociale evita tutte le situazioni dove ci sono altre persone, invece chi soffre di DAP ha un duplice
rapporto con le persone o le evita perché ha paura di stare con loro e di non poter essere aiutato oppure
preferisce stare in compagnia perché si sente al sicuro ed in caso di malore di essere aiutato.
La fobia specifica è la paura esagerata di un oggetto o una situazione specifica come ad esempio animali,
luoghi, sangue, oggetti appuntiti ecc… . Questo disturbo può provocare attacchi di panico, ma evitando la
causa che fa in modo specifico paura la persona non avrà mai un attacco di panico. Ciò non è così nel DAP.
Il disturbo ossessivo-compulsivo è caratterizzato da ossessioni e compulsioni. Le ossessioni sono idee,
pensieri, impulsi che ritornano o persistono nella mente del soggetto come ad esempio dei numeri, delle frasi,
delle immagini ecc… . Le compulsioni invece sono dei comportamenti o azioni mentali che il soggetto si
sente costretto a ripetere per innumerevoli volte nel tentativo di diminuire l’ansia o un disagio come, ad
esempio, controllare il rubinetto del gas, controllare la serratura, lavarsi le mani spesso, ecc… . Questo
disturbo può provocare nel suo decorso a livelli gravi degli attacchi di panico correlati a situazioni di
ossessioni e/o compulsioni del soggetto. Non è comunque ciò che causa il DAP.
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Il disturbo post traumatico da stress è un disturbo che si verifica in alcuni soggetti che hanno vissuto
un’esperienza gravemente traumatica che non rientra negli eventi stressanti comuni come, ad esempio,
traumi vissuti in guerra, eventi che hanno provocato la morte di una persona cara, catastrofi naturali ecc… .
In seguito al trauma il soggetto ha una serie di sintomi come incubi, angoscia, ricordi, nervosismo, collera,
disturbi del sonno e difficoltà a concentrarsi. Possono verificarsi in quest’ambito anche degli attacchi di
panico, ma anche in questo caso non sono spontanei, né inaspettati come nel DAP, ma sono correlati alla
situazione del grave evento traumatico.
Il disturbo dell’adattamento è caratterizzato da una serie di disturbi contraddistinti da sintomi emotivi o
comportamentali collegati ad eventi stressanti del soggetto come, ad esempio, incidenti, problemi lavorativi,
problemi economici o di salute propri o dei familiari ecc… . Alcune persone reagiscono con sintomatologia
depressiva, altri con ansia, altri con qualche attacco di panico di lieve entità ed isolato che non rientra nei
criteri tipici del DAP.
Per il disturbo depressivo maggiore l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stabilito dei precisi criteri.
Per fare diagnosi di Episodio Depressivo Maggiore secondo il DSM IV è quando ci sono
contemporaneamente presenti, da almeno due settimane, cinque (o più) dei seguenti sintomi:
umore depresso e marcata diminuzione di interesse o piacere per le attività svolte: il soggetto si sente
svuotato e privo di energia;
alterazione dell’appetito, più spesso nel senso della diminuzione, con significativa perdita di
peso (5% del peso corporeo in un mese), oppure aumento dell’appetito e del peso;
alterazione del sonno, più speso sotto forma d’insonnia, con risveglio mattutino precoce;
agitazione o rallentamento psicomotorio;
astenia, cioè senso di spossatezza non motivato da sforzi fisici;
sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati;
riduzione della concentrazione, attenzione e memoria;
pensieri ricorrenti di morte (non solo paura di morire), ricorrente ideazione suicidiaria senza un
piano specifico o con un piano specifico per mettere in atto il suicidio.
Quando sono quindi presenti almeno cinque dei suddetti sintomi per almeno due settimane, si può parlare di
stato depressivo in fase acuta e si rende necessario l’intervento dello specialista.
La possibilità che l’episodio depressivo si manifesti solo una volta costituisce un’evenienza piuttosto rara.
Tuttavia è stato identificato un particolare sottogruppo di pazienti in cui la depressione maggiore è
caratterizzata da un unico episodio ad esordio intorno ai 55-60 anni, circa dieci anni più tardi rispetto agli
altri sottotipi, e decorso frequentemente cronico, superiore ai due anni. Spesso compare in relazione ad
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eventi esistenziali di notevole impatto emotivo o a malattie fisiche. La diagnosi di depressione ricorrente si
pone quando sono presenti almeno due episodi depressivi e sono invece assenti fasi maniacali. Le
caratteristiche psicopatologiche e la gravità dei singoli episodi sono variabili e la gravità dei singoli episodi
sono variabili da soggetto a soggetto. Anche in questi casi può verificarsi la presenza di attacchi di panico,
ma questo disturbo non è la causa e non è il DAP.
2.7 Elenco dei nomi di alcuni tipi di fobia
Acluofobia: intensa ed incontrollata paura del buio.
Acrofobia: paura dell'altezza e dei luoghi alti.
Ailurofobia: paura dei gatti.
Anginofobia: paura di soffocare.
Antropofobia: paura della gente e dei contatti sociali.
Aviofobia: paura di volare in aereo.
Brontofobia: paura dei tuoni.
Cinofobia: paura dei cani.
Criofobia: paura del freddo, del ghiaccio.
Demofobia: paura della folla.
Dismorfofobia: preoccupazione ossessiva per un difetto, vero o presunto, nel proprio corpo.
Ecofobia: paura di rimanere in casa da soli.
Emetofobia: paura di vomitare o di vedere altri farlo. Produce spesso restrizioni alimentari.
Entomofobia: paura degli insetti.
Equinofobia: paura dei cavalli.
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Eritrofobia: paura di arrossire in pubblico.
Gerontofobia: intensa ed incontrollata paura di invecchiare.
Glossofobia: paura di parlare in pubblico.
Idrofobia: intensa ed incontrollata paura dell'acqua. Può manifestarsi sotto forma di ripugnanza verso i
liquidi in generale in soggetti affetti dalla rabbia.
Misofobia: paura di rimanere "contaminati" attraverso il contatto con corpi estranei, o attraverso il contatto
con altri esseri umani.
Monofobia: paura della solitudine.
Musofobia: intensa ed incontrollata paura dei topi.
Ofidiofobia: paura dei serpenti.
Omofobia: paura delle persone omosessuali, di diventare omosessuale o di essere considerato tale.
Patofobia: intensa ed incontrollata paura delle malattie, di ammalarsi.
Rupofobia: paura dello sporco e di ciò che non è igienico, dalla quale spesso deriva l'ossessione a pulire.
Sessuofobia: intensa ed incontrollata paura dei contatti sessuali e di tutto ciò che comportano.
Sociofobia: paura dei rapporti sociali.
Tafofobia: intensa ed incontrollata paura di essere sepolto vivo.
Tanatofobia: paura ossessiva della morte.
Tomofobia: paura dei tagli, delle operazioni chirurgiche.
Toxofobia: paura di essere avvelenati.
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Xenofobia: intensa ed incontrollata paura di ciò che è estraneo, inteso come persona o cultura. Si usa
comunemente per indicare odio fanatico verso tutto ciò che è straniero.
Zoofobia: paura degli animali in genere.
2.8 Disturbi concomitanti al DAP
Il soggetto affetto da DAP in molti casi soffre di ipocondria cioè la preoccupazione eccessiva per la propria
salute e la paura o la convinzione di avere una grave malattia fisica. Al primo sintomo di malessere la
persona ipocondriaca pensa al peggio come ad esempio per un mal di testa pensa ad un ictus o ad un tumore
cerebrale; se avverte tachicardia o extrasistole pensa che gli stia venendo un infarto. Egli si sottopone a visite
mediche ed accertamenti molto spesso. All’inizio si lascia rassicurare, ma dopo un po’ di tempo
ricominciano gli stessi timori.
2.9 Effetti del DAP nella memoria
La memoria subisce una lieve compromissione quando si soffre di DAP. Si hanno difficoltà di
concentrazione, di apprendimento, di attenzione, ma quando l’ansia anticipatoria e gli attacchi di panico
tendono a diminuire e quindi scomparire si ha un ripristino ottimale delle funzioni.
2.10 Diverse forme cliniche del DAP
Esistono diverse forme cliniche del DAP il DSM-IV ne prende in considerazione due forme: disturbo di
panico con agorafobia e disturbo di panico senza agorafobia, come spiegato in precedenza. Oltre a queste
due forme classiche ne abbiamo altri tipi:
Forme classiche di DAP : la sintomatologia è quella classica con attacchi di panico frequenti,
ansia anticipatoria, ipocondria, demoralizzazione secondaria, agorafobia accentuata.
Forme di DAP con attacchi sporadici: questo è il caso in cui sono avvenuti episodi di attacchi
di panico, ma non si sono più ripetuti, sono scomparsi.
Forme pure di DAP: di questo gruppo fanno parte i casi in cui la sintomatologia è
caratterizzata da attacchi di panico ricorrenti e di intensità diversa con frequenza variabile, ma
non sono associati ipocondria o agorafobia ed il soggetto non soffre di ansia anticipatoria.
Forme di DAP con ansia anticipatoria prevalente: questo è il caso in cui il soggetto avverte
sempre ansia anticipatoria ed è molto invalidante ed intensa e crea molto più disagio questo
malessere che un attacco di panico. Gli attacchi di panico sono lievi, ma la paura di stare male
compromette la vita del soggetto che ne soffre.
32
Forme di DAP con demoralizzazione secondaria prevalente: ci si riferisce a quei casi il cui
sintomo predominante è la demoralizzazione secondaria. La persona che ne soffre si sente
sempre triste, scoraggiata, senza iniziativa, si vergogna del suo disturbo e si sente in colpa per
esso. Questo è il caso in cui si deve stare attenti a fare una diagnosi differenziale tra
demoralizzazione secondaria e depressione maggiore.
Forme di DAP con prevalente ipocondria: nel DAP la convinzione di avere una malattia
fisica e la preoccupazione perenne per la propria salute è quasi sempre presente. Però quando
l’ipocondria diventa accentuata e persistente da dominare la vita della persona il disturbo
rientra in questo gruppo.
Forme di DAP con agorafobia prevalente: chi ne soffre anche se ha avuto attacchi di panico
in passato continua ad avere comportamenti evitanti, quindi l’agorafobia è prevalente
compromettendo la vita sociale e lavorativa. Questo è il disturbo dell’agorafobia senza
attacchi di panico.
Forme fobico-sociali di DAP: in questo caso è prevalente l’evitamento di situazioni pubbliche
però si distingue dalle fobie sociali perché sono presenti gli attacchi di panico inaspettati
indipendentemente da dove si trova il soggetto.
2.11 Approfondimento del termine agorafobia
La caratteristica essenziale dell’agorafobia è l’ansia relativa all’essere da soli in luoghi o situazioni dai quali
potrebbe essere difficile o imbarazzante allontanarsi o nei quali potrebbe non essere disponibile aiuto nel
caso di un attacco di panico o sintomi tipo panico (es. paura di avere un attacco improvviso di vertigini).
Situazioni tipiche che suscitano timori agorafobici sono: l’essere fuori casa da soli o lo stare a casa da soli,
l’essere in mezzo alla folla o in coda, dover passare sotto un tunnel o sopra un ponte, il dover prendere
l’ascensore, viaggiare in autobus, in metropolitana, in aereo, in treno o automobile, l’essere comunque
lontani da casa. L’ansia, dunque, determina tipicamente l’evitamento della situazione temuta. Alcune persone
sono in grado di esporsi a tali situazioni, ma le sopportano con paura e disagio o comunque viene richiesta la
presenza di un accompagnatore. L’evitamento delle situazioni temute da parte della persona può
compromettere la sua capacità di recarsi a lavoro o di portare avanti le incombenze domestiche, creando
secondariamente peggioramenti o rotture delle sue relazioni interpersonali. Queste persone possono chiedere
insistentemente di essere accompagnati ogni volta che escono da casa e chi ne è affetto gravemente può
anche rifiutarsi di uscire dalla propria casa ed alle volte nella stessa casa trascorrono il loro tempo in una sola
stanza dove si sentono al sicuro. Nonostante l’evidente compromissione della funzionalità psicosociale,
spesso questi soggetti non richiedono un aiuto professionale e ne consegue un netto e progressivo
deterioramento della qualità di vita in quanto l’agorafobia può diventare la più disabilitante tra le fobie.
2.12 DAP e Psicosi
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Il DAP non può mai trasformarsi in una psicosi, cioè in un disturbo psichiatrico caratterizzato da deliri,
allucinazioni ecc…. La paura di impazzire, una diffusissima preoccupazione di chi soffre di DAP è del tutto
infondata. Il problema della psicosi c’è soltanto quando è già presente in un soggetto ed a questo si associa il
DAP. Nessun soggetto che soffre solo di DAP potrà mai impazzire, ma se il disturbo non viene curato
adeguatamente o non curato affatto può solo peggiorare. Il DAP si può curare in due modi: con la
farmacoterapia o con la psicoterapia; è consigliato che entrambe viaggiare si affiancassero per potenziare
l’efficacia delle terapie.Il decorso del disturbo è lungo da un minimo di 5 anni circa, nella maggior parte dei
casi, fino ad arrivare anche a 20 anni. Quando si inizia la terapia farmacologica gli attacchi di panico
spariscono in qualche settimana, ma rimane in genere l’agorafobia. La durata della terapia è comunque
soggettiva per ogni persona. Ci sono persone, in casi molto rari, che riescono a guarire anche senza terapie.
Purtroppo le ricadute sono sempre dietro la porta per il DAP, ma non si deve ricominciare tutto da capo,
perché già il soggetto sa come comportarsi, sa gestire in qualche modo il suo disturbo dall’esperienza
precedente.
Certamente il percorso verso la totale guarigione o eliminazione è lungo e laborioso.[6]
34
CAPITOLO 3
Premessa: eziopatogenesi del DAP
Con il termine eziopatogenesi si definisce l'analisi delle cause e dello sviluppo di una patologia o di una
condizione anomala. Il termine deriva dall'unione di "eziologia" e "patogenesi" che in campo medico
indicano i fattori causali (eziologia) e il conseguente sviluppo di un processo patologico (patogenesi).
3.1 Fattori biologici
Nella comprensione della patofisiologia del disturbo di panico hanno avuto grande importanza gli studi
effettuati attraverso stimolazioni biochimiche sperimentali. Nella maggior parte dei pazienti con disturbo di
panico si è visto la presenza di alcune sostanze in proporzione maggiore rispetto ai soggetti senza tale
disturbo, queste sostanze sono dette panicogene in quanto esse sono in grado di scatenare degli attacchi di
panico.
Le sostanze che causano panico respiratorio sono l’anidride carbonica, il lattato sodico e il bicarbonato.
L’attacco di panico può essere scatenato anche attraverso l’iperventilazione. Le sostanze neurochimiche che
inducono panico, le quali agiscono attraverso specifici neurotrasmettitori comprendono la yohimbina, la dfenfluramina che è un agente rilasciante la serotonina, la m-clorofenilpiperazina che è una sostanza con
molteplici effetti serotoninergici, il flumazenil che è un antagonista benzodiazepinico, la colecistochinina e la
caffeina. Anche l’isoprotenerolo è una sostanza che induce il panico. Queste sostanze esplicano
presumibilmente i loro effetti primari direttamente sui recettori centrali noradrenergici, serotoninergici e
GABAergici.[7]
3.2 Fattori genetici
Il disturbo di panico ha una determinante genetica e appare il più ereditabile tra i disturbi di ansia. Gli studi
sui gemelli finora condotti hanno dimostrato che i gemelli monozigoti hanno più probabilità di concordanza
per disturbo di panico rispetto ai dizigoti. Diversi studi inoltre hanno dimostrato un’elevata predisposizione
familiare: il rischio di ammalarsi è di 4-8 volte superiore nei parenti di primo grado dei pazienti con disturbo
di panico. Le forme ad esordio precoce, in età inferiore ai 20 anni, hanno una più elevata familiarità ed il
rischio di ammalare è alto.
3.3 Fattori psicosociali
L’ansia, secondo la teoria cognitivo-comportamentale, è una risposta appresa attraverso il comportamento
dei genitori o attraverso il processo di condizionamento classico. Nell’approccio al disturbo di panico e
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all’agorafobia basato sul condizionamento classico, uno stimolo nocivo (attacco di panico) che compare
assieme ad uno stimolo neutro (un viaggio in autobus) può determinare l’evitamento dello stimolo neutro. Le
teorie cognitivo-comportamentali possono aiutare a spiegare lo sviluppo dell’agorafobia o l’aumento della
gravità degli attacchi di panico non provocati e inaspettati che un paziente affetto dal disturbo di panico
presenta.
Invece le teorie psicoanalitiche considerano gli attacchi di panico come la conseguenza dell’insuccesso di
una difesa nei confronti di impulsi che provocano ansia che, inizialmente modesta e con la funzione di
segnalare questi impulsi, diventa poi una sensazione opprimente di apprensione associata a sintomi somatici.
Nell’agorafobia le teorie psicoanalitiche mettono in rilievo la perdita di un genitore in età pediatrica e una
storia di ansia da separazione. Le separazioni traumatiche durante l’età pediatrica, influenzando lo sviluppo
del sistema nervoso del bambino, lo renderebbero suscettibile all’ansia infantile del sentirsi abbandonato.
Nonostante molti pazienti descrivono gli attacchi di panico come se comparissero dal nulla, l’esplorazione
psicodinamica spesso rivela l’importante ruolo che fattori ambientali e psicologici hanno nello scatenare il
disturbo di panico. Le ricerche indicano che la causa degli attacchi di panico coinvolge, probabilmente, il
significato inconscio attribuito agli eventi stressanti e che la loro patogenesi può essere correlata a fattori
neuropsicologici scatenati dalle reazioni psicologiche.[8]
3.4 Fattori eziopatogenetici: possibile modello unificatore
Nel tentativo di trovare un possibile filo conduttore per collegare l’evidenze neurobiologiche a quelle
psicosociali riguardanti il disturbo di panico, Pancheri, ha proposto un modello in grado di spiegare
l’insorgenza e l’evoluzione di tale disturbo come un continuo di una serie di eventi concatenanti fra loro.
Sulla base di un determinato assetto genetico, la storia naturale del disturbo si articolerebbe in quattro fasi
successive.
Nella prima fase, definita di sensibilizzazione, un importante ruolo rivestono le esperienze precoci di vita: lo
sviluppo nel bambino di un attaccamento di tipo “ansioso”, come definito da Bolwby, nei confronti delle
figure significative che ostacolerebbero l’acquisizione di una propria autonomia per un’adeguata
esplorazione dell’ambiente.
Bolwby infatti nella teoria dell’attaccamento spiega quanto sia fondamentale per l’istaurarsi di rapporti
“sicuri” nel corso della vita il modello offerto dalla prima relazione significativa per un bambino: quello che
con la propria madre. In questo primo rapporto di attaccamento, per lo sviluppo del bambino e per le sue
future relazioni, sarebbe l’armoniosa coesistenza del bisogno di sicurezza e di protezione da una parte e la
ricerca di autonomia attraverso l’esplorazione dell’ ambiente dall’altra. In Separazione (1973) Bolwby
proponeva una teoria dell’agorafobia, o la fobia scolare, come un esempio di angoscia di separazione e
suggeriva tre pattern interattivi sottostanti alla malattia: l’inversione dei ruoli fra genitore e figlio, paura nel
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paziente che qualcosa di terribile possa avvenire al paziente quando si trova lontano dalla protezione dei
genitori. Bolwby riteneva che nei disturbi fobici, i sentimenti dolorosi e le esperienze terrorizzanti venivano
soppressi ed evitati piuttosto che affrontati e padroneggiati. L’uso della negazione non permette al bambino
di fare esperienza dell’elaborazione emotiva di affetti dolorosi. Inoltre, non elaborando, il bambino
attribuisce significato agli eventi e quando una volta adulti questi individui sperimentano shock o conflitti
essi si focalizzano puramente sui sintomi del panico e non sugli eventi che li hanno scatenati. L’attacco di
panico sarebbe l’esplosiva conseguenza di un lungo e difficile tentativo di controllare e di tenere lontane le
emozioni mai elaborate.
Nella fase successiva di latenza l’ansia di separazione verrebbe adeguatamente compensata attraverso
l’instaurarsi di nuovi rapporti di attaccamento. L’adolescente, tuttavia, cresce senza la spinta all’esplorazione
e all’autonomia.
Nella terza fase, di richiamo, si verifica un evento acuto di separazione-perdita (che solitamente si verifica
nei 6-12 mesi precedenti l’esordio del disturbo) , talvolta eventi implicanti cambiamenti che derivano da
nuovi “attaccamenti” come il matrimonio o l’aggiunta di nuovi membri alla famiglia. Tali eventi potrebbero
essere responsabili della up-regolation dei recettori noradrenergici, già resi instabili durante la prima fase.
Questo comporterebbe un aumento del senso di vulnerabilità individuale e dello stato di allarme. A questo
punto, fondamentale, appare la capacità di elaborazione di tali eventi da parte del soggetto, a sua volta
strettamente legata all’assetto cognitivo individuale. Le teorie cognitive, a tal proposito, enfatizzano la
tendenza, nei soggetti con disturbo di panico, ad interpretare gli eventi come catastrofici.
Nell’ultima fase, definita di scatenamento, si ha esordio clinico del panico.[9]
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CAPITOLO 4
Premessa: trattamento del DAP
Il disturbo di panico è una psicopatologia curabile, in molti casi guaribile e spesso eliminabile. I trattamenti
più efficaci sono la farmacoterapia, la psicoterapia e/o la loro integrazione. Gli obiettivi del trattamento
sono quelli di contenere e migliorare non solo gli attacchi di panico, ma anche i livelli d’ansia, l’evitamento
fobico e la funzionalità sociale e lavorativa del soggetto cercando di effettuare la migliore scelta terapeutica
possibile per poter mantenere nel tempo i risultati terapeutici ottenuti.
Il trattamento farmacologico del DAP è volto al controllo degli attacchi di panico e molto spesso il
miglioramento di questa componente del disturbo determina una catena di rinforzi postivi in grado di ridurre
l’ansia e le condotte di evitamento . In alcuni casi invece il controllo delle crisi di panico non garantisce la
risoluzione delle condotte di evitamento e appare utile affiancare al trattamento farmacologico uno di tipo
psicoterapeutico che in un primo momento può essere un percorso parallelo e poi la psicoterapia può
sostituire il trattamento farmacologico.
Nella scelta terapeutica devono essere considerati i limiti di entrambi i trattamenti. Ci sono infatti diverse
situazioni che limitano la proposta di un intervento psicoterapeutico: la disponibilità, il livello di motivazione
del paziente, la presenza di terapeuti preparati, la lunghezza delle liste di attesa, la distanza dalla propria
abitazione che nei casi di attacchi di panico non è da sottovalutare, il costo delle sedute. Spesso succede che
viene abbandonata la psicoterapia dal paziente perché non riesce a mettersi in esposizione e quindi diventa
insopportabile a differenza della terapia farmacologica che ha un’azione più rapida e non richiede sforzi
particolari o disagi da parte del paziente.
4.1 La farmacoterapia
La farmacoterapia è una terapia a base di farmaci e quella per i disturbi mentali è una delle aree in più rapida
evoluzione della medicina clinica. Le basi biologiche del comportamento stanno diventando sempre più
chiare, in gran parte grazie all'uso di agenti farmacologici che modificano il comportamento e l'umore. La
psichiatria clinica continua a presentare enormi cambiamenti a seguito dell'introduzione di nuovi farmaci e
delle nuove indicazioni per sostanze già esistenti. I medici devono conoscere a fondo gli usi dell'ampio
spettro di sostanze disponibili. Le capacità che stanno alla base del successo di una terapia
psicofarmacologica sono l’ osservazione clinica per giungere a un'appropriata diagnosi, la formulazione di
un piano terapeutico basato sulle conoscenze e le preferenze del medico, la capacità di presentare i rischi e i
benefici di una particolare terapia e lo stretto monitoraggio degli esiti.
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A causa dell'incompleta conoscenza della relazione tra cervello e comportamento, il trattamento
farmacologico dei disturbi psichiatrici è empirico. I farmaci devono essere usati alla dose efficace per periodi
di tempo sufficienti, determinati da precedenti studi clinici. Lo psichiatria non dovrebbe somministrare dosi
subterapeutiche e cicli incompleti solo perché teme eccessivamente l'insorgenza di effetti collaterali. Si
devono monitorare strettamente la risposta al trattamento e l'insorgenza di effetti collaterali. La dose del
farmaco deve essere adattata di conseguenza e si dovrebbero istituire il più presto possibile appropriati
trattamenti per gli effetti collaterali che eventualmente si manifestino.
Per il trattamento farmacologico del DAP i farmaci approvati dalla FDA ( Food and Drug administration)
sono tre: alprazolam, sertralina, paroxetina.
Gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) e la clomipramina si stanno dimostrando più
efficaci e meglio tollerabili rispetto alle benzodiazepine, agli inibitori delle monoaminoossidasi (IMAO) e ai
farmaci triciclici e tetraciclici.
Secondo delle linee guida, gli SSRI, sono considerati di prima scelta, seguiti dai triciclici, dalle BDZ e dagli
IMAO. Un approccio è quello di iniziare con paroxetina, sertralina o fluvoxamina nel disturbo di panico
isolato. Associando agli SSRI un breve ciclo di alprazolam, cha va poi sospeso gradualmente al fine di non
creare delle crisi di astinenza da farmaco.
Se il paziente non risponde ad una delle tre classi di farmaci più usate si dovrebbero provare i farmaci di
un’altra classe. Però si deve sempre tenere presente che un paziente può non rispondere ad un SSRI , ma può
giovarsi di un’altra molecola della stessa classe. Quindi prima di passare ad un’altra classe è consigliabile
fare ciò. È possibile poi tentare l’associazione di un SSRI o di un farmaco triciclico con una benzodiazepina,
oppure di un SSRI con il litio o con un farmaco triciclico. Nel caso di una risposta terapeutica inadeguata o
assente è possibile ipotizzare l’aggiunta di una tripla terapia con tre farmaci appartenenti alle tre classi
diverse. Altri dati presenti in letteratura suggeriscono l’associazione di altri tipi di farmaci: moclobemide
(IMAO reversibile), fluvoxamina, valproato, clonazepam. Gli IMAO irreversibili sono considerati farmaci
rischiosi da gestire per il loro pericolosi effetti collaterali. Alcuni autori riportano l’utilità di associare due
classi di farmaci per poter così utilizzare dosi inferiori rispetto a quelle normalmente utilizzate e per limitare
quindi gli effetti collaterali.
La prima fase del trattamento è caratterizzata da una personalizzazione e da un continuo aggiustamento del
dosaggio del farmaco e non deve durare meno di 12-16 settimane. Se al termine di questo periodo il paziente
manifesta una riduzione-scomparsa della sintomatologia è possibile iniziare una fase di mantenimento di
circa 6-8 mesi durante la quale il paziente deve continuare ad assumere il farmaco a dosaggio pieno per
consolidare il risultato positivo ottenuto per indurre una remissione completa della malattia ed evitare
recidive. Al termine di questo periodo, permanendo il miglioramento, è possibile iniziare a diminuire
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gradualmente il dosaggio e alla fine arrivare alla sospensione del trattamento in un periodo di 4-6 mesi circa.
Nei casi di DAP rispondenti al trattamento, la durata della cura non deve mai scendere al di sotto di 18-24
mesi perché c’è il rischio elevato di una recidiva.
Nonostante l’alta percentuale di efficacia che i farmaci dimostrano nel trattamento iniziale del disturbo di
panico (vicina al 70-80% nel breve e medio termine), il vero problema è costituito dall’alto tasso di ricadute
alla sospensione del farmaco, questo problema è ancora più accentuato quando i pazienti sono trattati con
benzodiazepine.
4.2 Analisi del farmaco
SSRI: sulla base della letteratura esistente, gli SSRI sono considerati i farmaci di prima scelta nel disturbo di
panico. Tutti gli SSRI, a dosi terapeutiche, risultano essere ugualmente efficaci nel trattamento del disturbo
di panico, ma le significative differenze riguardo gli effetti avversi rendono la paroxetina la sostanza meglio
tollerata. La paroxetina, inoltre, per il suo pronto effetto sedativo, migliora la compliance del paziente.
Anche la fluvoxamina e la sertralina sono discretamente tollerate.
I pazienti con disturbo di panico si dimostrano particolarmente sensibili agli effetti di attivazione degli SSRI,
in particolare della fluoxetina, alcuni dei pazienti all’inizio del trattamento può avvertire un aumento di
ansia, agitazione, irrequietezza ed insicurezza. È opportuno quindi iniziare con bassi dosaggi da aumentare
poi gradualmente: per un periodo di 7-10 giorni risulta sufficiente utilizzare un quantitativo di farmaco pari
alla metà o ad un terzo del dosaggio consigliato. Il dosaggio terapeutico dei farmaci serotoninergici, nel
trattamento del disturbo di panico, varia da moleca a molecola e oscilla tra i 20 ed i 60 mg per la paroxetina e
il citalopram; fra 20 e 80 mg per la fluoxetina, fra 100 e 300 mg per la fluvoxamina e fra 50 e 200 mg per la
sertralina.
I principali effetti collaterali degli SSRI consistono in cefalea, irritabilità, nausea ed altri disturbi intestinali,
insonnia, disfunzioni sessuali, aumento dell’ansia, sonnolenza e tremori.
Benzodiazepine: l’attività terapeutica delle benzodiazepine nel panico consisterebbe nella riduzione
dell’ipertono noradrenergico. Esse sono molecole ad azione molto rapida nel controllo acuto dei sistemi
ansiosi.
Possono essere usate per un lungo periodo senza lo sviluppo di assuefazione agli effetti antipanico. Le BDZ
nel DAP vengono utilizzate principalmente per ridurre l’intensità e la frequenza degli attacchi di panico e per
ridurre l’ansia anticipatoria.
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L’alprazolam è stata la BDZ più largamente studiata ed utilizzata per il DAP. Molti studi hanno dimostrato
l’efficacia clinica nel trattamento delle crisi di panico, dell’ansia anticipatoria ed anche dell’agorafobia.
Risulta efficace con una dose giornaliera di 5-6 mg fino ad un massimo di 10 mg. Altri studi hanno
dimostrato che risultano efficaci anche lorazepam 7-12 mg e il clonazepam 3-5 mg .
In genere le BDZ si usano in concomitanza con i SSRI e poi vengono eliminati dopo 4-12 settimane
gradualmente, mentre il farmaco SSRI viene continuato, alcuni pazienti usano le benzodiazepine in caso di
necessità quando si trovano a contatto con uno stimolo fobico.
Riguardo l’utilizzo delle benzodiazepine nel disturbo di panico, tenendo presente gli elevati dosaggi richiesti
in questo disturbo, c’è il rischio di dipendenza, di sedazione, di alterazioni cognitive e psicomotorie e di
abuso soprattutto dopo un uso protratto. Il paziente dovrebbe essere avvisato di non guidare e di non
utilizzare macchinari pericolosi durante l’assunzione di BDZ. Le benzodiazepine suscitano un senso di
benessere, mentre la loro interruzione provoca la sindrome di astinenza, i cui sintomi dovrebbero essere
spiegati al paziente. Esse dovrebbero essere ridotte in modo graduale.
Triciclici e tetraciclici: fra i triciclici la clomipramina e l’imipramina, si sono dimostrati efficaci nel
trattamento del DAP. Molti dubbi però nell’efficacia sull’ansia anticipatoria e sull’ agorafobia. Il beneficio
clinico richiede il dosaggio massimo e può non essere conseguito per 8-12 settimane. Il dosaggio di
imipramina è di 150-300 mg al giorno. Per quanto riguarda la clomipramina il dosaggio è di 100-150 mg al
giorno. È consigliabile iniziare con dosi molto basse ed arrivare al dosaggio terapeutico. Il paziente deve
assumere il farmaco per almeno 6 settimane di cui le ultime 2 settimane a dosaggio pieno, in caso di risposta
positiva è bene continuare a trattare il paziente per altri 2-3 mesi. La durata ottimale della terapia di
mantenimento per i triciclici la letteratura suggerisce 12 mesi.
Gli effetti collaterali dei farmaci triciclici sono vari infatti vengono utilizzati solo in casi estremi di DAP
dopo aver tentato gli altri farmaci consigliati dalla letteratura. I SSRI alle dosi necessarie per il DAP hanno
gravi effetti collaterali come effetti anticolinergici (secchezza delle fauci, stipsi, ritenzione urinaria,
tachicardia e disturbi visivi), aumento della sudorazione, disturbi del sonno, ipotensione ortostatica (rischio
di cadute nei soggetti anziani) e vertigini, affaticamento ed astenia, disturbi cognitivi, aumento dipeso,
disfunzioni sessuali. Questi effetti però sono destinati a sfumare e a ridimensionarsi durante il proseguimento
della terapia. L’utilizzo di questi farmaci è controindicata in soggetti affetti da ipertrofia prostatica e da
glaucoma per gli effetti anticolinergici e nei pazienti affetti da disturbi della conduzione cardiaca per il
rischio dell’insorgenza di gravi aritmie.
Inibitori delle monoaminoossidasi (IMAO): per questa classe di farmaci ha efficacia la fenelzina da 15 a 90
mg al giorno e meno efficace è la tranilcipromina da 15 a 60 mg al giorno, nel controllo del DAP.
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Gli IMAO determinano meno frequentemente una sovra stimolazione rispetto agli SSRI e ai triciclici, ma è
possibile che sia necessaria una dose completa per almeno 8-12 settimane perché essi siano efficaci.
Gli effetti collaterali degli IMAO sono l’ipotensione, disfunzioni sessuali, disturbi del sonno, aumento
dipeso, secchezza della fauci. Però possono accadere anche episodi di crisi ipertensive dovute all’interazione
con alcuni cibi che contegono la tiramina, come ad esempio in formaggio, o se vengono associati a farmaci
antidepressivi triciclici.
Tra gli inibitori del DAP la brofaromina è la molecola più efficace.
La terapia con gli IMAO non è consigliata perché con il passare del tempo l’efficacia del farmaco
diminuisce.
Altri farmaci : Alcuni studi hanno dimostrato l’utilità, in alcuni casi, di utilizzare come farmaco aggiuntivo
venlafaxina (50-150 mg) e nefazodone (200-600 mg). La venlafaxina è un inibitore della noradrenalina, il
nefazodone è meno efficace della venlafaxina, ma per entambi la letteratura non si pronuncia come farmaci
antipanico.
I Beta-bloccanti come ad esempio il propranolo non si sono dimostrati efficaci nel DAP.
Altri farmaci sono stati sperimentati, ma con nessun effetto curante per il DAP.
4.3 Le tappe della terapia farmacologica
Le tappe più importanti della terapia farmacologica sono le seguenti fasi:
Fase preliminare
Fase iniziale
Fase intermedia
Fase finale
La fase preliminare va dal momento in cui si lo psichiatra ha il primo contatto con il paziente al momento in
cui inizia la terapia farmacologica. Questo è un momento che caratterizzerà tutto il percorso della terapia e
l’efficacia del trattamento dipenderà sia dall’abilità del terapeuta sia dalla collaborazione del paziente. La
terapia farmacologica viene somministrata dopo la diagnosi differenziale psichiatrica. Il trattamento
farmacologico è sempre personalizzato ed è basato su criteri scientifici e la terapia è sempre calibrata per le
caratteristiche del paziente.La durata di questa prima fase è breve dura generalmente solo pochi giorni, ma ci
sono delle eccezioni quando il paziente non riesce a collaborare o il terapeuta ha difficoltà nella diagnosi. Gli
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obiettivi quindi sono una valutazione generale del caso ed avere una diagnosi corretta, elaborare un
programma del percorso terapeutico e stabilire l’alleanza da parte del terapeuta con il paziente.
La fase iniziale va dal momento in cui il paziente inizia a prendere il farmaco al momento in cui scompaiono
i sintomi più acuti ed urgenti e ciò si aggira intorno ai tre mesi circa. L’obiettivo di questa fase è quello di
eliminare tutti gli attacchi panico, l’ansia e successivamente l’ansia anticipatoria e l’agorafobia. Il problema
principale di questa fase sono gli effetti collaterali del farmaco all’inizio dell’assunzione che tendono poi
gradualmente a scomparire oppure spesse volte il fastidio è tale da dover sospendere la terapia perché
difficile il proseguimento.
Gli effetti collaterali possibili sono vari e sono sempre indicati nel foglietto illustrativo del farmaco. Gli
antidepressivi triciclici sono quelli che creano più effetti collaterali quelli più frequenti sono ipotensione
ortostatica, stipsi, secchezza della bocca, diminuizione del desiderio sessuale, difficoltà nell’eiaculazione e
nell’orgasmo, sedazione, sonnolenza e rallentamento dei riflessi. Gli antidepressivi serotoninergici anche
loro nella sfera sessuale con diminuizione del desiderio, ritardo dell’eiaculazione e difficoltà nell’orgasmo
ma sono temporanei e reversibili; nausea sei il farmaco è preso a stomaco vuoto altri effetti possono essere
inappetenza e variazioni del peso corporeo; può capitare di avere irrequietezza e tremori e quindi va
associato un ansiolitico. Gli ansiolitici come effetti collaterali in genere si avvertono a livello del sistema
nervoso con diminuzione della vigilanza e prontezza dei riflessi ciò in genere è dovuto all’errore della dose
che può essere eccesiva e quindi va modificato il dosaggio oppure se vengono associati con altri farmaci o
sostanze come stupefacenti o alcool.
La fase intermedia và dal momento in cui sono stati eliminati i sintomi più importanti del DAP al momento
in cui si ottiene la scomparsa di tutti i sintomi e la durata si aggira intorno agli otto mesi. L’obiettivo di
questa fase è la guarigione ed il ritorno alla situazione preesistente e se questa era caratterizzata da qualche
disagio al passaggio di una fase di vita migliore di quella di prima. In questa fase quindi si deve eliminare
l’agorafobia e tutti i tipi di evitamento che ci sono quando si hanno gli attacchi di panico. Si cerca di
mantenere questa situazione per raggiungere la stabilizzazione del paziente, si cerca di evitare le ricadute e
riottenere una vita sociale soddisfacente. Alle volte sia il paziente che i familiari in questa fase sono
preoccupati dell’assunzione dei farmaci ancora al dosaggio iniziale e chiedono se si potesse eliminare la
farmacoterapia dato che si è guariti, ma questa è una fase molto delicata dove un piccolo errore può fare
ricadere è stato placato ed avere una recidiva degli attacchi di panico in quanto non è stato eliminato, ma il
sintomo dalla farmacoterapia. Il farmaco si riduce gradualmente e con molto cautela all’inizio della fase
successiva. La fase intermedia è quella ideale per poter iniziare una psicoterapia in quanto il paziente non ha
malessere.
La fase finale è quella terminale del percorso, quella che condurrà alle vera guarigione e quindi gradualmente
si eliminerà il farmaco evitando ricadute con l’adattamento delle dosi e quindi dopo un periodo la
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sospensione del farmaco. I controlli continuano costanti anche dopo la sospensione dei farmaci dilazionando
sempre più gli appuntamenti dallo psichiatra perché ci possono essere delle ricadute e quindi si riprende la
terapia farmacologica, ma se non succede si è arrivati al recupero delle funzionalità raggiungendo quindi la
vera guarigione. La durata della fase iniziale è di circa sei mesi e non inizia prima del primo anno di
trattamento farmacologico.
4.4 La psicoterapia
La psicoterapia è una modalità di trattamento in cui lo psicoterapeuta e il paziente lavorano insieme per
cambiare una situazione di sofferenza psicologica. E’ un processo interpersonale ideato per provocare
cambiamenti nelle emozioni, pensieri, atteggiamenti, comportamenti e relazioni che arrecano disagio alla
persona che ha chiesto aiuto. Nella pratica clinica attuale è più facile che una persona richieda una
psicoterapia lamentandosi per la qualità delle sue relazioni piuttosto che per una precisa sintomatologia,
come avveniva invece ai tempi di Freud. Differenziamo infatti la psicoterapia dalla psicoanalisi.[10]
4.5 La differenza tra la psicoterapia e la psicanalisi
La psicoterapia si occupa della cura di disturbi psicopatologici di diversa gravità che vanno dal modesto
disadattamento all'alienazione profonda e possono manifestarsi in sintomi nevrotici tali da nuocere al
benessere di una persona fino ad ostacolarne lo sviluppo causando fattiva disabilità; a tal fine si avvale di
tecniche applicative della psicologia come la : psicoterapia cognitivo-comportamentale, psicoterapia della
Gestalt , ecc.
In Italia professionalmente la psicoterapia è una specializzazione sanitaria riservata a Medici e Psicologi
iscritti ai rispettivi Ordini professionali e si consegue mediante un percorso formativo presso scuole di
specializzazione universitarie. Questo approccio "sanitario" è peculiare del sistema italiano che con la legge
c.d. Ossicini n.56/1989 ha voluto riservarne l'esercizio solo a medici e psicologi specializzati in psicoterapia
in questo modo discostandosi da quanto avviene in tutto il resto del mondo dove la psicoterapia come la
psicoanalisi costituisce disciplina e attività a sé. i La parola psicoterapia significa "cura dell'anima" riconduce alle terapie della psiche realizzate con strumenti psicologici quali la parola, l'ascolto, il pensiero, la
relazione, nella finalità del cambiamento consapevole dei processi psicologici dai quali dipende il malessere
o lo stile di vita inadeguato e connotati spesso da sintomi come ansia, depressione, fobie, etc.
La psicanalisi innanzitutto è una teoria dell'inconscio. Nell'indagine dell'attività mentale umana essa si
rivolge soprattutto a quei fenomeni psichici che risiedono al di fuori della coscienza. La psicanalisi è il
risultato del lavoro svolto da Sigmund Freud tra 1856 ed il 1939, egli sviluppò dei principi basilari che si
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discostavano parecchio dai precedenti metodi di cura; infatti prima dell'arrivo di Freud l'isteria e le nevrosi
erano trattate con l'ipnosi o addirittura con l'elettroshock. Freud introdusse il metodo di cura basato sulla
parola egli permetteva che i pazienti, dopo essersi distesi e rilassati su un divano, divenuto poi il famoso
lettino dell'analista, dessero libero sfogo alle parole e al flusso dei propri pensieri. Si tratta del metodo delle
libere associazioni, il quale prevede che i pensieri scorrano liberamente, senza alcuna logica razionale,
trasformando in parole ciò che è presente nel profondo. Questa parte profonda, denominata da Freud
inconscio, rappresenta la parte più difficilmente accessibile della nostra mente, quella che nasce e continua a
costituirsi nel corso della vita attraverso l'azione della rimozione.
La rimozione è un meccanismo di difesa che agisce sui pensieri dolorosi e inaccettabili, talmente
insopportabili che la psiche li confina nell’inconscio. In questo modo la persona perde la consapevolezza di
tali pensieri e la sua mente non viene più perturbata da essi, almeno temporaneamente. Tuttavia può accadere
che i traumi rimossi, pur non direttamente disponibili alla coscienza, ma comunque presenti nell'inconscio,
generino ansia e sentimenti negativi, i quali esercitano un'azione patologica sul comportamento umano.
Freud introdusse il concetto di transfert, ovvero quel vincolo emotivo che si stabilisce tra paziente e analista,
con il quale il paziente sposta sentimenti e pensieri relativi ad una relazione significativa della sua vita
sull'analista. Nella concezione di Freud il transfert era indispensabile alla guarigione del paziente, in quanto
lo rendeva parte attiva del processo terapeutico, aiutandolo a scoprire da sé il modo migliore per risolvere il
suo trauma. Questo era un concetto nuovo e stupefacente per il tempo, in quanto fino a quel momento il
paziente veniva considerato come parte passiva del processo terapeutico.
Il modello della mente umana sviluppato da Freud è costituito da tre parti fondamentali, dette istanze:
Io: rappresenta il substrato cosciente, ovvero ciò di cui si ha consapevolezza. L'Io ha la funzione di
intermediario tra Es, Super-Io e la realtà esterna;
Es: è la parte inconscia, la quale raccoglie e mantiene un enorme numero di informazioni che
vengono rimosse dalla prima infanzia sino alla morte. L'Es è anche il serbatoio delle pulsioni sia
sessuali che aggressive;
Super-Io: è il "censore" della mente umana. È razionale e contiene tutte le norme morali; si oppone
aspramente ai contenuti dell'Es che sono al contrario irrazionali e istintuali.
In una situazione di normalità i ricordi rimossi che stazionano nell'Es vengono bloccati dal Super-Io e non
sono in grado di raggiungere l'Io. Quando invece un qualsiasi elemento cosciente riesce a risvegliare un
oggetto rimosso si sviluppa un conflitto tra il ritorno del rimosso e le resistenze del Super-Io, Freud chiama
tale situazione nevrosi.
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Nella nevrosi d’angoscia Freud elenca una serie di caratteristiche basate su forme di irritabilità generica
quali l’ipersensibilità ai rumori spesso causa di insonnia, sul nervosismo e sull’attesa angosciosa di un evento
nelle specie della mania del dubbio e dell’ipocondria. Le manifestazioni disfunzionali rispecchiano un
disturbo fisico con sintomi quali sudorazione , tachicardia, nausea, dolori addominali, disturbi digestivi, fame
d’aria, impressione di soffocamento, tremori e scosse; ma anche senso di irrealtà, depersonalizzazione ed
impressione di trovarsi sul punto di impazzire. Un ruolo importante in questa concezione dell’angoscia lo
rivestiva il non soddisfacimento libidico tanto che Freud prendeva come esempio di attività atte a provocare
la nevrosi d’angoscia una serie di pratiche nocive nell’area della vita sessuale. L’idea fondamentale concerne
la trasformazione diretta della libido non giunta ad adeguato soddisfacimento; si forma allora un
sovraccarico che si tramuta in angoscia, ma se lo stimolo viene soddisfatto si ha l’abbassamento del grado di
tensione mediante la scarica di godimento sessuale.
Quindi la fantasia erotica sotto la rimozione permane nell’inconscio tanto da agire come spinta propulsiva
per il soggetto tramutandosi in angoscia. Il rimosso sussiste inalterato nell’inconscio, invece l’angoscia
permane a livello conscio ed il soggetto risulta consapevole della sua angoscia che avverte a livello corporeo
con varie sensazioni somatiche di timore, paura di impazzire, di morire.
Le tematica dell’angoscia è stata studiata nella psicoanalisi che l’ha riconosciuta come parente stretta del
panico anche se abbiamo elementi di distinzione.
Alcuni autori vedono nelle crisi di panico il nome contemporaneo dell’angoscia, altri invece percepiscono
nelle crisi di panico il declino epocale del padre.
Nel tardo 1800 quando Freud elaborò la sua teoria sull’ esistenza dell’inconscio e sul valore di appagamento
del desiderio di esso la società era repressiva. La funzione del padre consisteva innanzitutto nel proibire il
godimento, il NO al piacere sessuale. Il padre nell’epoca freudiana era colui che deteneva lo scettro del
potere e l’ultima parola in famiglia, era il padre forte della tradizione ebraica; i diritti delle donne erano
inferiori ad oggi e quindi pure la funzione della madre. I casi clinici in genere erano provenienti da contesti
sociali quale l’aristocrazia e l’alta borghesia.
Attualmente il ruolo paterno risulta in declino in una società che vede sempre più bilanciate le posizioni fra
madre e padre, fra uomo e donna. La leadership in famiglia può venire gestita in modo paritario e quindi può
risultare un appannaggio del padre.
Quindi il padre forte della teoria dei casi clinici di Freud viene sempre più soppiantato dal padre carente,
fragile, vulnerabile e dal padre che ha timore di questo tipo di responsabilità quindi impacciato nel suo ruolo
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di genitore.
Nella storia delle persone con attacchi di panico infatti si trovano quasi sempre persone con padri piuttosto
deboli e non a caso i pazienti tendono ad avere come figura di riferimento tra i due genitori la madre con cui
hanno più confidenza e complicità. Non tutti i casi clinici però sono uguali.
La figura del padre però non viene vista come figura esclusivamente del genitore, ma come riferimento
simbolico, quindi tutti quei punti fermi che un soggetto può avere in un contesto sociale e culturale come la
chiesa, la religione, le ideologie politiche, lo stato, ecc..
Quindi il panico costituisce una degenerazione dell’angoscia in quanto non si hanno più dei punti fermi di
riferimento perché vanno sempre più in declino lasciando il soggetto allo sbaraglio, indifeso davanti al
proprio terrore, soverchiato dai suoi timori che lo travolgono fino ad avere paura di impazzire, di morire,
quindi il soggetto in quel momento è quando si rende conto dei suoi limiti nell’illimitato.
Infatti nell’epoca del declino del padre e degli ideali si evidenzia un marcato conformismo, fà notare Lacan ,
anche se siamo in un periodo in cui nel contesto socio-culturale abbiamo vasta libertà e possibilità di
espressione l’individuo si trova spesso in un vuoto di valori, di interessi e di desideri incapace di elaborare la
propria posizione di soggetto e sfociando la società in una certa omogeneità.
Ritornando al problema della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia ciò è stato oggetto di infiniti dibattiti
fin dai tempi di Freud, ed è di estrema importanza perché riguarda l’ identità stessa della psicoanalisi. Si è
incominciato a parlare di psicoterapia psicoanalitica solo dopo la nascita della psicoanalisi, dato che Freud
affermò che alcune patologie più gravi non erano trattabili con la psicoanalisi in quanto i pazienti secondo lui
erano incapaci di sviluppare un transfert sull'analista, divenne presto comune l'uso del termine psicoterapie
psicoanalitiche per quelle terapie derivate in un qualche modo dalla psicoanalisi, le quali venivano applicate
a questi disturbi più gravi.
A livello storico, il problema si è fatto più sentire mano a mano che la psicoanalisi veniva tentata per diverse
forme cliniche, quando cioè un numero sempre crescente di terapeuti incominciarono a sperimentare il
metodo psicoanalitico con pazienti che non erano i classici nevrotici, andando contro la direttiva freudiana
secondo la quale la psicoanalisi non era applicabile alle forme più gravi. Tra i primi che tentarono la
psicoanalisi in quadri precedentemente esclusi fù Sullivan, il quale lavorò con gli psicotici e da qui la
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tendenza fu quella di parlare di psicoterapia e non di psicoanalisi. Questo nuovo approccio comportò
necessariamente una diversa tecnica, in cui venne legittimata una modificazione della tecnica classica a
partire da questa nuova impostazione teorica, secondo la quale non erano più i pazienti quelli che dovevano
essere selezionati per la tecnica psicoanalitica, ma era la tecnica quella che doveva essere adattata ai pazienti,
prendendo quindi questi ultimi, non la tecnica, come variabile indipendente. Si può dire che questi studi
sull'Io e sul punto di vista dello sviluppo fornirono le basi concettuali di quello che poi diventò il dibattito
sulla psicoterapia psicoanalitica, cioè sulla possibilità di modificare la tecnica standard a seconda delle
condizioni dell'Io del paziente
A seconda di quale di queste due opzioni teoriche noi seguiamo, possiamo parlare rispettivamente di
psicoterapie psicoanalitiche oppure di psicoanalisi declinata in diverse tecniche:psicoanalisi breve,
psicoanalisi agli psicotici, psicoanalisi di gruppo, ecc.; intendendo con queste ultime accezioni l'applicazione
di una teoria generale a diverse situazioni cliniche a seconda del campo di intervento (istituzioni, gruppi,
emergenze, ecc.), del materiale umano a disposizione (pazienti più o meno gravi), o degli scopi che ci
prefiggiamo (cambiamenti più o meno profondi del paziente).[11]
4.6 Tipologie di psicoterapia
Gli approcci psicoterapici utilizzati nel trattamento del disturbo di panico sono molteplici e tra loro differenti
per base dottrinale, modalità e tecniche operative, frequenze delle sedute e durata del trattamento. Una
differenza fondamentale consiste nel fatto che alcune, come la terapia cognitivo-comportamentale,
focalizzano il loro obiettivo sui sintomi correlati al disturbo di panico, mentre altre, come le terapie
psicodinamiche, sono orientate prevalentemente sulla storia passata e sulla vita attuale del paziente.
Tra le psicoterapie, quelle che si sono dimostrate maggiormente efficaci e pratiche nel trattamento del
disturbo di panico, sono le terapie cognitive-comportamentali. Molti studi hanno dimostrato la loro
superiorità, rispetto ai soli psicofarmaci, nell’indurre una remissione a lungo termine dei sintomi.
Terapia cognitivo-comportamentale
Le terapie ad orientamento cognitivo-comportamentale sono terapie strutturate a breve termine che
utilizzano la collaborazione attiva fra il paziente e il terapeuta. Sono orientate verso i problemi
correnti e la loro soluzione. Al momento attuale sono almeno tre i modelli che possono essere
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individuati nell’ambito dei vari programmi psicoterapeutici messi a punto per il trattamento del
DAP.
La storia della psicoterapia cognitivo-comportamentale è molto lunga; infatti non è nata come orientamento
teorico a sé stante, ma ha fatto propri concetti eterogenei fra loro provenienti da approcci diversi appartenenti
a periodi storici differenti. La seconda parte del nome (comportamentale) deriva dal comportamentismo, una
prospettiva teorica sviluppata agli inizi del ventesimo secolo grazie agli studi di John B. Watson e I.P.
Pavlov. Tale disciplina studiava il comportamento osservabile, ovvero le risposte delle persone a determinati
stimoli ambientali, e come tali risposte potevano essere modificate introducendo dei condizionamenti. Gli
studi svolti in questo ambito si sono rivelati particolarmente fruttuosi nel campo delle fobie, introducendo
tecniche molto efficaci per desensibilizzare un individuo verso un oggetto o una situazione temuti.
Il cognitivismo, da cui deriva la prima parte del nome, si è invece sviluppato negli anni sessanta, e il suo
interesse è rivolto ai processi mentali che permettono di strutturare le proprie esperienze, di dare loro un
senso e di metterle in relazione le une con le altre. Secondo tale prospettiva alla base di ogni disturbo
psichico vi sono delle distorsioni di pensiero, le quali generano assunti sbagliati e convinzioni irrazionali.
Tali distorsioni si trasformano nel tempo in veri e propri schemi di pensiero relativamente stabili, che
portano l'individuo ad entrare in un circolo vizioso che si autoalimenta.
Un primo approccio, che viene definito psicoeducazionale si basa sulla corretta decodifica dei fenomeni
fisiologici normalmente misinterpretati dal paziente affetto da DAP. I due principali obiettivi nel disturbo di
panico sono le istruzioni a proposito delle false opinioni del paziente e le informazioni sugli attacchi di
panico. L’istruzione sulle opinioni errate s’incentra sulla tendenza del soggetto ad interpretare erroneamente
le lievi sensazioni somatiche come indicative del sopragiungere di un attacco di panico, di qualcosa di
predestinato o della morte. L’informazione sugli attacchi di panico include spiegazioni sul fatto che gli
attacchi di panico, quando si manifestano, sono di natura limitata e non pericolosi per la vita. La
riattribuzione del giusto significato agli stimoli vissuti dal paziente porta frequentemente al miglioramento
dei sintomi.
Un secondo approccio psicoterapeutico in grado di dare soddisfacenti risultati è quello ad impronta
cognitivista pura. La terapia cognitiva, secondo il suo ideatore Aaron Beck, si basa sul fondamento teorico
che la percezione e il comportamento di un individuo sono largamente determinati dal modo in cui egli
struttura il mondo, la strutturazione del mondo si basa su processi cognitivi individuali a loro volta basati su
delle assunzioni. In questo modello quindi l’intervento è basato essenzialmente sul rimodellamento delle
convinzioni irrazionali che sono alla base delle errate interpretazioni che il paziente dà del proprio stato
psichico e dei propri sintomi somatici.
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Un terzo approccio terapeutico di tipo più squisitamente comportamentale si basa sull’ esposizione in vivo.
Essa è caratterizzata da un’esposizione, graduale o massimale (floonding), allo stimolo ansiogeno
temuto, in modo tale che, con il tempo, il soggetto diventa desensibilizzato all’esperienza. Nell’esposizione
graduale il terapeuta lavora con il paziente per identificare una gerarchia di situazioni che evocano paura al
paziente viene successivamente chiesto di affrontare le situazioni, di solito partendo da quelle che si trovano
al livello più basso della gerarchia, con una frequenza regolare fino a che la paura si attenua. Nel
floonding invece non si procede in modo graduale, l’esposizione iniziale è quella agli stimoli più intensi.
Questa tecnica è quella prevalentemente utilizzata nei pazienti agorafobici. In ogni caso la tecnica terapeutica
prevede l’insegnamento di tecniche di coping dei sintomi normalmente costituite da esercizi di
respirazione e di rilassamento.
La terapia cognitivo-comportamentale quindi punta soprattutto sulle capacità relazionali dell’uomo, partendo
da una psicoeducazione sul disturbo e da una ristrutturazione cognitiva orientata a modificare
l’interpretazione catastrofica delle proprie sensazioni corporee o desensibilizzando il paziente allo stimolo
temuto, ha come obiettivo principale quello di modificare i comportamenti e le reazioni patologiche, come
gli attacchi di panico e gli evita menti, utilizzando meccanismi di apprendimento comportamentale di vario
tipo:
-
Rilassamento applicato. Lo scopo del rilassamento applicato è quello di permettere al
paziente di poter sperimentare un senso di controllo rispetto alle proprie manifestazioni
ansiose. Il rilassamento produce effetti fisiologici opposti a quelli che accompagnano uno
stato ansioso: attraverso un buon rilassamento, il battito cardiaco rallenta e aumentano la
circolazione periferica e la stabilità neuromuscolare. Attraverso l’uso di tecniche
standardizzate per il rilassamento muscolare e l’immaginazione di situazioni rilassanti, i
soggetti apprendono tecniche utili per superare un attacco di panico.
-
Addestramento respiratorio. L’iperventilazione accompagna gli stati ansiosi, ed è
responsabile di alcuni sintomi che si manifestano negli attacchi di panico, come vertigini e
lipotimie. Questa tecnica, quindi, insegna al paziente un controllo volontario sulla
respirazione per poter limitare lo stimolo ad iperventilare durante un attacco di panico.
L’efficacia clinica delle diverse tecniche di terapia cognitivo-comportamentale è supportata da un buon
numero di ricerche cliniche, a breve termine l’efficacia clinica della terapia cognitivo-comportamentale è
risultata essere globalmente equivalente a quella farmacologica; sebbene alcuni lavori abbiano documentato
di volta in volta una superiorità della terapia comportamentale su quella farmacologica e viceversa.
Le terapia cognitivo-comportamentale, può essere condotta singolarmente o in gruppo, mediamente una
seduta ogni settimana per circa 12 settimane e con l’assegnazione di esercizi da fare a casa. La terapia
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cognitivo-comportamentale è considerata una terapia ben tollerata e sicura. Tuttavia l’esposizione a stimoli
fobici può aumentare l’ansia e questo risultato potrebbe essere considerato come una reazione avversa. Circa
il 10%-30% dei pazienti non è in grado di affrontare lì esposizione a stimoli fobici fino ad arrivare al droupout dal programma terapeutico.[12]
Terapia familiare e di gruppo.
L'approccio sistemico familiare non ha un punto di origine preciso; le sue radici possono essere fatte risalire
alla fine degli anni '40 e agli anni '50, quando iniziano a sorgere gruppi di lavoro, non necessariamente
coordinati fra loro, che si interessano al rapporto tra malattia mentale e famiglia. Questo interesse si sviluppa
in seguito ad un certo livello di insoddisfazione registrato da alcuni psicologi nell'applicazione del modello
psicanalitico ortodosso nella trattamento dei bambini. Chi lavorava nell'ambito infantile sentiva la necessità
di coinvolgere maggiormente i genitori, cosa non praticabile con la psicanalisi classica che si basa su un
rapporto di tipo paziente-terapeuta.
In questa prospettiva la famiglia viene vista come un sistema, ossia come un'entità che possiede
caratteristiche, regole e norme proprie; diviene così possibile comprendere i meccanismi e le dinamiche di
tale sistema nel momento in cui si analizzano e rendono chiari i criteri alla base del suo funzionamento.
Questo è lo stesso principio che sta alla base della società organizzata all'interno della quale ogni persona
possiede un suo posto, un suo ruolo e interagisce con gli altri. La famiglia, che a sua volta è inserita in un
contesto più ampio che è quello della società, possiede dunque una sua struttura di regole e meccanismi che
la portano ad evolvere in un certo modo e, ogni suo membro, contribuisce al suo sviluppo.[13]
Terapia psicodinamica
Questo tipo di psicoterapia prevede come suo obiettivo primario quello di svolgere un lavoro psicologico su
di sé che permetta una maggior comprensione delle dinamiche psichiche interiori e delle conflittualità interne
che si esprimono attraverso il sintomo e la malattia. Tale lavoro deve essere conseguente alla consapevolezza
di una sofferenza interiore che necessita di una risoluzione. È indispensabile quindi svolgere prima un lavoro
preparatorio e motivazionale a questo tipo di trattamento La frequenza tipica delle sedute è di una o due
sedute per settimana e la durata del trattamento può essere fissata a priori oppure mantenuta aperta per un
periodo di valutazione iniziale. La tecnica psicodinamica contemporanea è in una certa misura differente da
quella formulata da Sigmund Freud cento anni fa. In letteratura è possibile rintracciare sette focus intorno a
cui si sviluppa la psicoterapia psicodinamica:
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1) Il focus sugli affetti e sull'espressione delle emozioni;
2) L'esplorazione dei tentativi di gestione dei pensieri e delle emozioni disturbanti (difese);
3) L'identificazione dei temi ricorrenti e dei pattern caratteristici;
4) Discussione dell'esperienza passata (dal punto di vista dello sviluppo);
5) Il focus sulle relazioni interpersonali;
6) Il focus sulla relazione terapeutica;
7) L'esplorazione delle fantasie e della vita immaginativa.
Il trattamento è volto ad aiutare il paziente a capire il significato inconscio ipotizzato dell’ansia, il
simbolismo delle situazioni evitate, il bisogno di reprimere gli impulsi e i guadagni secondari legati ai
sintomi. Si ipotizza che la risoluzione dei conflitti della prima infanzia ed edipici sia correlata con la
risoluzione degli stress attuali. L’evidenza dell’efficacia di terapie ad orientamento psicodinamico è in
letteratura piuttosto scarsa di dati provenienti da studi controllati.[14]
Terapia della Gestalt
La psicologia della Gestalt (dove la parola tedesca Gestalt significa forma) detta anche psicologia della
forma è una corrente psicologica che nacque agli inizi del XX secolo in Germania e continuò poi negli USA
quando i suoi autori si trasferirono a causa di persecuzioni naziste. Il fondatore della psicologia della
Gestalt fù Kurt Koffka, il fondatore della psicoterapia della Gestalt fù Fritz Perls. Dopo la laurea in
medicina Perls si era trasferito a Francoforte, centro di fermento intellettuale nell’Europa degli anni
'20 del Novecento. Qui venne in contatto con alcuni dei maggiori psicologi della Gestalt di quel
tempo, filosofi esistenzialisti e psicoanalisti. Qui incontrò anche Laura Posner, sua futura moglie,
che molti ritengono essere la cofondatrice della terapia della
Gestalt. In seguito alle
persecuzioni naziste essendo lui un ebreo, emigrò in Sud Africa dove, insieme alla moglie Laura
Posner, fondò l'Istituto Sudafricano di Psicoanalisi. Rimase in Sud Africa fino al 1946 circa, dopo di
che si trasferì a New York e nel 1952 fondò il Gestalt Institute of New York.
Le ricerche della psicologia della
Gestalt in particolare, dimostrarono che ogni individuo è
costantemente bombardato da una serie di stimoli, ma il sistema percettivo ne seleziona solo alcuni e li
organizza.
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In termini psicologici questo significa che come individui percepiamo noi stessi e il mondo, come il risultato
di un insieme di stimoli selezionati dal nostro sistema percettivo, che costruisce una figura definita rispetto
ad uno sfondo indifferenziato; gli stimoli quindi non vengono percepiti in modo disgiunto gli uni dagli altri,
ma vengono ordinati in una unità che risponde al bisogno umano di costruire significati sulla base
dell’esperienza percettiva dell’ambiente. Isolare alcuni elementi di un sistema e attribuirgli un significato
costituisce pertanto un processo di osservazione interpretativa parziale, che non tiene conto dell’interazione
che esiste tra i vari elementi e tra l’individuo e l’ambiente.
La terapia consiste quindi nell’analisi della struttura interna dell’esperienza reale al fine di accrescere la
consapevolezza di questo processo.
Nel testo fondamentale della psicoterapia della Gestalt: Teoria e pratica della terapia della Gestalt
di Pearls, Hefferline e Goodman, il panico viene considerato un un sano e normale adattamento creativo che
l organismo attua in particolari condizioni. Questi autori hanno affermato che durante un attacco di panico
accade un’improvvisa perdita dello sfondo ossia il ground . Il ground scontato è quello familiare che ci
appartiene e ci sentiamo in modo scontato di appartenere. Nell’attacco di panico precipita il ground e si
hanno i sintomi di malessere sia fisico che psicologico un attacco di panico. Cioè che un terapeuta deve fare
dall’inizio della psicoterapia è aiutare a ricostruire il ground ad un soggetto, in primis il terapeuta deve
sapere la storia del ciclo vitale del paziente e quindi procedere nella psicoterapia portando l’attenzione del
paziente alla percezione di sé e del suo ruolo nei vari ambiti della sua vita. La percezione di sé sostenendo
l’assimilazione delle esperienze attraverso la narrazione di sé. In questo modo la trama della vita del paziente
diventa sempre più chiara possedendo senso e continuità nel tempo e tutto ciò diventa una storia che
appartiene al soggetto, un racconto che viene abitato dal paziente in quanto individuo avente un ruolo nel
suo ciclo vitale. Affinchè ciò accada deve esserci un ascolto da parte del terapeuta senza distorcere
l’esperienza narrata e di cogliere e nominare i vissuti che emergono nel racconto. In questo modo può
avvenire la distinzione dei ruoli, dell’aggiornamento a “chi sono” e “chi sono diventato” attraverso le
esperienze di vita, ma molto importante è anche il “chi sarò”. Infatti non è solo la storia trascorsa che
costruisce il ground ma anche il futuro cioè il next che è il punto verso cui si muovono le intenzione del
paziente. Il dispiegarsi dell’intenzionalità nel futuro avviene con la progettualità con la previsione, con la
fantasia, con l’attesa, con la speranza, con il sogno e con la possibilità.
L’uscita dal panico avviene anche attraverso la costruzione o ricostruzione del futuro ed in particolare
attraverso la progettualità e l’appartenenza verso cui la persona si sta muovendo. Il paziente dopo un
trattamento di psicoterapia quando il terapeuta capisce che il ground è formato si inizia ad allentare
l’appartenza terapeutica del paziente per fargli affrontare da solo la propria vita, ma tutto ciò avverrà in
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modo graduale regolando le sedute di psicoterapia a distanza di tempo maggiore fino a scemare del tutto la
psicoterapia e quindi eliminarla.[15]
Terapia integrata
L’integrazione del punto di vista biologico con quello psicosociale, sia nella diagnosi che nella terapia,
rappresenta per la psichiatria una notevolissima sfida. Considerando i vantaggi e i limiti relativi di entrambi i
tipi di trattamento, spesso il miglior piano di trattamento psichiatrico per un dato paziente comporta una
combinazione sinergica di farmaci e psicoterapia. Le terapie combinate tendono a colmare le difficoltà che
entrambe i singoli tipi di trattamento possono presentare. L’integrazione dei trattamenti non va vista però
come l’aggiunta di una terapia ad un’altra con l’aspettativa di ottenere così un maggior beneficio. Il termine
terapia integrata dovrebbe indicare la necessità di un’attenta connessione delle due condizioni terapeutiche
(psicoterapia e farmaci) e non solo la loro associazione. Per fare questo è necessario superare le dicotomie
rigide mente/cervello prendendo come teoria di riferimento un principio organizzatore comune sia della
psicoterapia che della farmaco terapia. Le opinioni riguardanti la terapia integrata sono fra di loro
contrastanti: secondo alcuni psicoterapeuti è inopportuno impiegare l’impiego contemporaneo di farmaci in
quanto ritengono che essi possano interferire con il lavoro psicoterapeutico. Secondo altri invece i farmaci
antipanico permettendo una psicoterapia, infatti i farmaci riducendo la frequenza degli attacchi di panico a
sua volta è più facile mettere in atto la psicoterapia. Attualmente la terapia integrata ha una diffusa
accettazione, non esiste la possibilità di risposte definitive, ma ci sono alcuni studi studi suggeriscono che sia
un buon trattamento per superare il DAP. Ci sono quindi pareri di pro e pareri di contro.
Nella terapia integrata i due tipi di terapia, psicologica e farmacologica, possono essere somministrate o da
un solo psichiatra o da due distinte figure professionali, in questo ultimo caso però è importante non isolare
le due figure professionali ma possibilmente che facciano parte di una stessa èquipe in modo che i
professionisti si possono confrontare e che la terapia integrata viaggi in un unico senso senza pareri
discordati riguardanti il disturbo del soggetto affetto dal DAP, tutto ciò per prevenire un’azione fallimentare
del trattamento.[16]
La terapia di gruppo
Le terapia di gruppo è il gruppo auto-mutuo-aiuto. E’un gruppo composto da persone accomunate dal
desiderio di superare lo stesso disagio psicologico. Tale disagio viene affrontato ed elaborato in prima
persona attraverso il confronto, la condivisione e lo scambio di informazioni, emozioni, esperienze e
problemi. Nel gruppo di auto-mutuo-aiuto si ascolta e si è ascoltati, senza pregiudizi, in un clima
armonioso in cui si scoprono e si potenziano le proprie risorse interiori. Tale gruppo si autogestisce
ma all’interno c’è la figura del facilitante: l'helper. L’helper è un membro del gruppo, con un
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percorso di terapia significativo alle spalle, che ha seguito una specifica formazione, finalizzata a
fornire gli strumenti di gestione della comunicazione, ed ha solo la funzione del facilitatore della
comunicazione stessa. Con questo patrimonio conoscitivo ed esperienziale ed essendo, in più,
portatore dello stesso problema degli altri, l'helper può permettersi di portare, all'interno del gruppo, il
proprio vissuto emotivo e di utilizzare l'esperienza gruppale per la sua personale crescita.
Il gruppo segue un sistema condiviso di obiettivi, regole e valori rivolge una particolare attenzione
alle origini sociali dei problemi senza però trascurare i fattori individuali, incrementando le capacità
relative alla sfera emotiva e interpersonale. Un gruppo di auto-mutuo-aiuto è un gruppo terapeutico
offre sostegno emotivo attraverso la rottura dell’isolamento e la condivisione reciproca. Permette una
crescita personale e l’adattamento a quelle condizioni della nostra vita che percepiamo emotivamente
stressanti. Rende chi vi partecipa protagonista attivo della ricerca del proprio benessere e di quello
degli altri membri del gruppo, perché ognuno mette a disposizione degli altri le proprie capacità ed
esperienza di vita. Aumenta il potere e il controllo su sè stessi e sugli altri perché negli incontri di
gruppo si ha la possibilità di scoprire risorse che non si crede di possedere e quindi di attivarle.
Inoltre il gruppo di auto-mutuo-aiuto è un’esperienza altamente coinvolgente che aumenta la propria
autostima, attiva l’emotività e fornisce gli strumenti per utilizzarla al meglio nei rapporti con gli altri,
favorendo anche la nascita di nuove amicizie. Frequentare un gruppo di auto-mutuo-aiuto è
un’opportunità per stravolgere e modificare la tendenza all’isolamento e alla sensazione di imbarazzo
e soggezione diventando un’occasione ed una risorsa terapeutica.[17]
4.7 Le tappe della psicoterapia e personalità dei pazienti affetti da panico
La psicoterapia risulta efficace nel trattamento del DAP riducendone le ricadute.
La modalità con cui è formulata la prima richiesta di consulenza ed il primo colloquio con il paziente affetto
da DAP sono di estrema importanza per focalizzare i problemi di personalità ed i meccanismi difensivi del
soggetto.
La richiesta di appuntamento fatta da altre persone in genere dalla madre o dal partner rimanda alla
deresponsabilizzazione, al distacco emotivo dalle proprie problematiche o dalla dipendenza emotiva da
queste figure ed è statisticamente il 45% che il primo appuntamento non viene richiesto dall’interessato ed il
psicoterapeuta già inizia a poter capire la personalità del soggetto affetto da DAP. In questi casi lo
psicoterapeuta chiede un contatto direttamente col soggetto affetto da DAP , ma non per atteggiamento
formale, ma proprio come atto terapeutico per sollecitare il paziente a responsabilizzarsi e vedere la realtà.
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La maggior parte dei soggetti risponde alla richiesta in modo positivo mettendosi d’accordo sul primo
appuntamento.
Il primo colloquio è molto importante in quanto rappresenta l’incontro psicologico e fisico tra due entità
diverse che stanno rispettivamente organizzando un rapporto terapeutico.
Generalmente i pazienti presentano due principali tipologie di personalità adulta e realista oppure infantile e
regressiva. Nella personalità adulta e realista il paziente collabora consapevolmente con lo psicoterapeuta
ritenendo la psicoterapia un’ulteriore sviluppo personale in modo da potersi aiutare in modo autonomo.
Invece il paziente con personalità infantile e regressiva il soggetto si comporta come un bambino buono ed
ubbidiente nella speranza che magicamente lo psicoterapeuta lo possa guarire ed in più queste persone
comprendono scarsamente la terapia collaborando in modo inadeguato perché illusi dai poteri magici
attribuiti da loro allo psicoterapeuta.
Alla prima seduta è importante che lo psicoterapeuta noti la postura e l’espressione del viso che la persona
manifesta sia in sala d’attesa che quando entra nello studio dove c’è il terapeuta. Una postura con gambe e
braccia serrate sul corpo ad esempio comunica chiusura, timore della circostanza o aggressività mentre altre
posture più aperte possono comunicare consapevolezza, ma anche mascherare la sofferenza. Chi entra nello
studio dello psicoterapeuta con titubanza dimostra una serie di tratti caratteriali introvertivi, al contrario tipo
entrate plateali con mega sorrisi evidenziano la messa in atto di sistemi difensivi. Nello studio del terapeuta
in genere ci sono due poltroncine ed è di fondamentale importanza quale il paziente sceglie, non deve essere
il terapeuta ad indicare dove sedersi; se il paziente chiederà dopo varie sedute di cambiare posto significa che
sta iniziando un cambiamento. Un’altra importante condizione per il silenzioso reperimento di informazioni
è la modalità che il paziente usa nell’esporre i propri problemi. Si definiscono due modalità di esposizione
giornalistica e personalizzata.
Nell’esposizione dei problemi da parte del paziente in modalità giornalistica il soggetto descrive tutto in
modo chiaro e coinciso dall’esordio del panico alle successive vicissitudini senza coinvolgimento
emozionale. Infatti questo stile comunicativo fà notare la distanza emotiva che il paziente ha messo tra sé e le
proprie problematiche ed è testimonianza della messa in atto di meccanismi difensivi di negazione e
razionalizzazione e sono questi soggetti in genere che si illudono di un potere magico del terapeuta.
Nella modalità personalizzata i pazienti hanno il desiderio di mettersi in discussione e di collaborare con il
terapeuta, ma è una minoranza dei pazienti .[18]
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4.8 La resistenza ed i meccanismi di difesa del paziente affetto da DAP
La resistenza in terminologia freudiana è una opposizione che può essere conscia o inconscia. Può
manifestarsi come imbarazzo o diffidenza all’inizio della terapia oppure come ansia alla prospettiva di finire
il trattamento. Freud nel 1937 distingue due tipi di resistenza: resistenza di transfert connessa al rapporto fra
paziente e terapeuta e resistenza di rimozione riferita a particolari aspetti della struttura psichica del paziente
che si oppone alla consapevolezza di impulsi o derivati di essi che si manifestano in forma di ricordi o
fantasie avvertendoli come fonti di dolore o di pericolo. Freud afferma che il secondo tipo di resistenza è
quella più difficile da superare nel trattamento, ma l’interpretazione pone il soggetto in condizioni di poter
collaborare con il terapeuta.
Per i meccanismi di difesa è utile definire il concetto di difesa: le difese rappresentano meccanismi e funzioni
che l’apparato psichico può utilizzare per tenere lontani dalla consapevolezza contenuti psichici spiacevoli e
desideri istintuali o loro derivati che l’Io riconosce come contenuto patologico come estraneo e disturbante.
Quindi le difese sono dirette contro le emozioni spiacevoli quali la collera, l’umiliazione, il senso di
inferiorità, la dipendenza, la paura dell’abbandono.
Tra le resistenze e le difese esiste uno stretto legame, infatti, Freud spesso usa i termini come sinonimi. Sia le
difese che le resistenze possono essere conscie o inconscie, cioè il paziente ne può essere consapevole o
meno di attuare una resistenza o una difesa.
I meccanismi difensivi si strutturano nelle primissime fasi della vita in quanto legati all’indifferenziazione
psicosomatica e alla mancanza di differenzazione tra soggetto e realtà; ma durante la crescita le difese
diventano più articolate quali la razionalizzazione e la sublimazione. Quindi è fondamentale nella terapia
individuare il modo in cui sono organizzate le difese e le probabili aree che hanno suscitato il segnale di
pericolo, ma l’identificazione dei meccanismi di difesa durante il colloquio è un’impresa molto difficile.
4.9 I principali meccanismi difensivi dell’Io utilizzati dal paziente con DAP
I principali meccanismi difensivi maggiormente utilizzati dal paziente affetto da DAP sono: proiezione,
negazione, razionalizzazione, onnipotenza ed idealizzazione.
Nel meccanismo di proiezione l’individuo affronta conflitti emotivi e fonti di stress interne o sterne
attribuendo erroneamente ad altri i propri sentimenti, impulsi o pensieri non riconosciuti, il soggetto
rinnega i propri sentimenti, le proprie intenzioni ed esperienza attribuendoli agli altri.
Nel meccanismo di negazione il soggetto lo usa per risolvere un conflitto emotivo e per alleviare
l’ansia tramite il rifiuto di riconoscere consapevolmente gli elementi del conflitto interiore.
Attraverso questo processo è possibile negare un pensiero, un atto, un desiderio ecc…
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Nel meccanismo di idealizzazione , l’idealizzazione è una difesa operante al di fuori della coscienza
attraverso la quale una persona o un oggetto sono sopravvalutati ed emotivamente ingranditi
raggiungendo una posizione irreale.
Nel meccanismo di onnipotenza il soggetto si comporta come se fosse superiore agli altri, come se
possedesse speciali poteri o capacità. Questa difesa protegge il paziente da una perdita di autostima.
Nel meccanismo di razionalizzazione il soggetto fornisce una ragione fittizia, ma plausibile per un
determinato impulso ciò può avvenire sia in modo conscio che inconscio.
Dal momento che il compito principale della psicoterapia del DAP è il progressivo aumento di
consapevolezza circa le ragioni che hanno portato l’individuo alla costruzione di un’immagine
idealizzata di sé, la sua sostituzione con le parti vere dell’identità e meccanismi difensivi più adattivi
ci sarà da parte del paziente una resistenza che opporrà inconsciamente al lavoro terapeutico
facendo assumere alla figura del terapeuta una fisionomia minacciosa ostacolando una
collaborazione terapeutica ed un beneficio. Il soggetto quindi deve essere messo di fronte alla scarsa
consapevolezza che dimostra nei confronti delle proprie problematiche. Il paziente si difenderà in
ogni modo con resistenze e difese e può capitare che abbandoni la terapia. Per questo il tragitto della
psicoterapia è difficoltoso e lungo ed il terapeuta per non subire delle frustrazioni deve tenere in
conto tutto ciò.[19]
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CAPITOLO 5
Premessa: la paura in età evolutiva
Le paure sono episodi frequenti e comuni nella vita dei bambini. Esse accompagnano la loro crescita,
iscrivendosi nel normale sviluppo psichico: anche i bambini più protetti, più accuratamente tenuti al riparo
da ogni pericolo o informazione traumatizzante, nel corso dello sviluppo possono manifestare qualche paura,
per esempio, di un animale, del buio, dei mostri, delle streghe o del temporale Nei bambini le paure
cambiano in base all’età: se nell’infanzia ci si trova di fronte a paure di tipo “irrazionale”(i mostri o i
fantasmi), con la crescita esse divengono sempre più complesse ed articolate, interessando più da vicino la
sfera relazionale e sociale (paura di apparire inadeguati o di essere giudicati).L’atteggiamento dei bambini di
fronte alle paure è variabile: possono esprimersi esplicitamente, lamentarsene violentemente ottenendo
sostegno e consolazione da parte dei genitori oppure tentare di dissimularle come se si vergognassero. Di
norma, con il semplice passare del tempo, le paure tendono a svanire gradualmente infatti si acquisiscono
competenze emotive e cognitive che consentono di superare le paure limitando il loro effetto negativo. Il
bambino crescendo apprende ad affrontare le paure in modo autonomo impara che i genitori possono
allontanarsi, ma ritornano sempre, che i fantasmi e i mostri non sono reali. La recessione di una paura
necessita però anche del sostegno e dell’ascolto degli adulti: genitori, insegnanti ed educatori, sostenendo il
bambino con parole e gesti d’affetto. Non possono essere condivisi atteggiamenti di indifferenza,
negazione,derisione o l’uso di mezzi coercitivi o intimidatori che contribuiscono, invece,ad un rafforzamento
della paura stessa. Se la maggior parte delle paure dei bambini possono definirsi “fisiologiche”,quindi
transitorie e tipiche di un normale sviluppo psicologico, alcune possono trasformarsi in “patologiche”,
quando assumono dimensioni e intensità tali da impedire una vita normale e divengono un ostacolo alla
maturazione del bambino, intralciandone lo sviluppo
5.1 Lo sviluppo delle paure
La presenza delle paure in età evolutiva è stata studiata in numerose ricerche empiriche, le quali hanno
evidenziato come alcune tipologie di paure siano più rappresentative in determinate fasce d’età. Muris e
Merckelbach (2000), oltre ad aver trovato che un nucleo familiare ansioso, aumenta nel bambino il senso di
paura, hanno visto che nei primi anni di vita, è difficile riconoscere le rappresentazioni sottostanti una paura:
solo a partire dai due o tre anni, infatti, i bambini ne comunicano più frequentemente il contenuto.
In effetti, le paure si evolvono insieme allo sviluppo cognitivo e corrispondono per lo più alla percezione di
cambiamenti repentini nell’ambiente in cui si trovano come i rumori, i movimenti improvvisi, una luce
intensa o il rapido avvicinarsi di un oggetto, oltre che la perdita del conforto materno.
Le reazioni di paura di questo tipo si attenuano progressivamente nel corso degli anni, fino a scomparire
verso i tre anni.
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In età prescolare, a partire dal terzo anno d’età, il bambino, si mostra spesso intimorito al momento della
separazione dai suoi genitori. In questa età, le paure possono essere alimentate da alcuni rimproveri, di cui è
un tipico esempio: “se non fai il bravo ti porterà via l’uomo nero”. Il bambino può anche credere alle fiabe,
attribuendo le caratteristiche dei personaggi ad animali e persone sconosciute, iniziando ad avere paura dei
piccoli animali, degli animali che mordono come il lupo, dell’orco,dei fantasmi o di una signora con i capelli
neri che assomiglia alla strega raffigurata sul libro. Le paure nei più piccoli sono spesso irrazionali ed il
bambino può non essere in grado di descriverne il contenuto. Verso i quattro anni sono tipiche le paure per i
piccoli animali come rospi, scarafaggi, topi, con vissuti di ribrezzo e di repulsione; altre paure infantili
riguardano l’ambiente naturale come lampi, tuoni, vento e oscurità, e le persone come la paura dell’estraneo
che è una delle prime a comparire.
De Ajuriaguerra nel 1989 sostiene che verso i quattro anni è molto presente la paura del buio; l’oscurità
sembra essere il fattore che causa molte paure, dato che l’oscurità è spesso l’equivalente della solitudine.
Durante gli anni prescolari, afferma l’autore, vi è un aumento progressivo delle paure per gli animali,
inizialmente di quelli che mangiano e mordono, più tardi, di animali molto potenti e distruttivi. Un gran
numero di paure in questa età, è collegata a possibili annegamenti, incendi e incidenti dovuti al traffico. In
età scolare, si riesce meglio a distinguere tra fantasia interiore e la realtà esterna e si hanno paure più
specifiche e realistiche come la paura scolastica Sempre in tale età è molto frequente la paura per animali
quali serpenti, ragni, uccelli, topi, gatti e cani e può essere vissuta con senso di vergogna, affievolendosi
quando l’animale scompare dalla vista del bambino. La paura per grossi animali come il cavallo o il cane, è
frequente dai cinque anni. Il bambino immagina di essere inseguito o aggredito; contenuti questi che
popolano gli incubi notturni e le fantasie infantili e può svegliarsi in preda al terrore ed aver bisogno della
rassicurazione di un genitore per addormentarsi.
Altre paure sono legate ad esperienze reali, in particolare verso gli otto anni, in seguito all’affinarsi dei
processi cognitivi e relazionali, può comparire la paura della morte, talvolta accompagnata dal timore di
malattie ed incidenti. In questo periodo, come afferma De Ajuriaguerra è comune ai bambini una sorta di
crisi esistenziale, dietro la quale si ritrova l’ansia di separazione; la paura principale è quella della morte
della mamma, successivamente la paura si presenta come una separazione o piuttosto come un abbandono e
più tardi essa viene personificata in una figura temibile che porta via la persona amata.
L’ottavo anno crea una zona di confine tra il bambino egocentrico, con le sue tendenze magiche, animistiche
associate a una modalità di pensiero precausale, pre-logico, ed il bambino operazionale che vede il mondo in
modo logico e razionale.
A partire dal nono anno si possono manifestare paure legate al proprio ruolo sociale e alle situazioni nelle
quali si viene valutati.
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Ciò continua anche durante l’adolescenza, dove le paure sono in rapporto alle imperfezioni e asimmetrie
fisiche, inadeguatezza intellettuale e di funzionamento sessuale. Nel periodo adolescenziale, emerge con
forza il timore di un insuccesso personale o scolastico, la paura di essere derisi o rifiutati dai coetanei, di
sentirsi imbarazzati in relazione alle prime esperienze affettive e amicali. Con lo sviluppo si modificano non
solo i contenuti delle paure, ma anche le modalità per farvi fronte infatti se inizialmente i bambini richiedono
il sostegno dall’adulto e manifestano il bisogno di essere rassicurati, crescendo acquisiscono capacità
cognitive che consentono loro di gestire e dominare una paura in maniera autonoma.
Marks nel 1987 sostiene che le paure sono date dalla relazione con un passato di ansia da separazione e
inoltre, dai contatti con genitori molto ansiosi. Le paure infantili quali l’oscurità o gli animali, diminuiscono
con l’età, eccetto la paura dell’estraneo che persiste insieme alla paura sessuale, al fallimento e all’agorafobia
le quali giungono nell’adolescenza. Le due paure che si ritrovano negli adulti e hanno un’ origine infantile
sono la paura del sangue e delle ferite, mentre le paure animali sono spesso associate a traumi come il morso
di un cane ed iniziano a sette anni. L’autore ha notato che i genitori riportano paure attribuite ai loro figli,
infatti nello sviluppo delle paure è importante una componente genetica che interagisce con quella
ambientale. Alcune paure possono emergere da situazioni innate come l’altezza,l’estraneo, la separazione,
ma possono essere modificate dalla normale esperienza, altre possono essere apprese dall’ambiente come la
paura di essere schiacciato da un trattore per i bambini che vivono in paesi rurali.
Lane e Gullone nel 1999 hanno compiuto uno studio sulle paure comuni nell’infanzia. Gli autori ribadiscono
che la paura è l’esperienza dei normali livelli di sviluppo nel pensiero, promuovendo l’impulso di evitamento
del pericolo con la fuga da circostanze stressanti di vita.
Hanno, inoltre, notato una differenza di genere per i tipi di paure emerse, quelle dei bambini sono: le bombe,
essere invasi, cadere da posti alti, essere puniti dal papà, essere sgridati, essere bruciati, essere schiacciati da
una macchina, i germi, le malattie, non riuscire a respirare, morire e la morte dei genitori. Le paure delle
bambine sono: essere punite dal papà, germi e malattie, morire e morte dei genitori, i serpenti, essere sole in
un posto, il fuoco ed essere bruciate.
Elbedour e colleghi nel 1997 parlano dell’importanza dei fattori culturali nello sviluppo delle paure. Il
contesto nel quale il bambino vive influenza le sue paure; è stato osservato che i bambini urbani hanno meno
paure rispetto a quelli rurali. Lo studio è stato condotto a Israele con un gruppo di Beduini e un gruppo di
Jewish. I primi vivono in una regione arida, in una società patriarcale, il valore e l’obbedienza e il rispetto ai
genitori è massimo; il secondo gruppo vive in Israele, città industrializzata, i valori più importanti sono
l’autonomia e le personali competenze, la società promuove l’individualità tra i cittadini. Quest’ultimo che
ha sviluppato una elevata competenza personale, ha riportato bassi livelli di paura rispetto al primo. Le paure
comuni indagate tra i bambini da otto a dodici anni sono per i Beduini: i serpenti, essere puniti da papà,
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malattie, fantasmi e fallire una prova; per i Jewish: essere schiacciati da una macchina, non riuscire a
respirare, i serpenti, i ladri e le malattie. E’ emerso che la paura può essere una misura adattiva alla cultura,
infatti, la natura e i cambiamenti delle paure dipendono non solo dallo sviluppo, ma riflettono la capacità per
i bambini di capire il mondo e la cultura nella quale essi vivono.
5.2 Le paure più frequenti in età evolutiva
Le paure più frequenti in età evolutiva sono:
La paura del buio è certamente una tra le più frequenti nell’infanzia e può manifestarsi in relazione
alla paura di addormentarsi o comparire in maniera indipendente. Il bambino può iniziare a piangere
nel momento in cui si spegne la luce, chiedendo ai genitori di lasciare la luce accesa per favorire
l’addormentamento. Può capitare che il bambino sviluppi la paura di avere paura, anticipando gli
elementi che, in condizioni di scarsa illuminazione, potrebbero spaventarlo come i vestiti su una
sedia possono evocare una persona.
La paura per gli animali come serpenti, ragni, uccelli, topi, gatti e cani, essa può essere vissuta con
senso di vergogna e può scomparire quando l’animale si allontana. Tra i tre e i cinque anni si
sviluppa la paura dei grandi animali che potrebbero mordere, verso i quattro anni sono tipiche anche
le paure per i piccoli animali come rospi, scarafaggi e topi con vissuti di ribrezzo e repulsione. Le
paure infantili riguardano l’ambiente naturale come lampi, tuoni, vento e oscurità, e le persone come
la paura dell’estraneo che compare attorno agli otto mesi.
La paura della morte compare verso gli otto anni a seguito di un lutto in famiglia o in occasione
della morte di un animale domestico, i bambini di età inferiore percepiscono l’evento come una
separazione temporanea dalla persona cara.
La paura delle malattie è abbastanza frequente, cui può accompagnarsi la paura del dottore.
Quest’ultima può essere meglio spiegata se si pensa che una visita medica può comportare una
separazione dai propri genitori e risvegliare il timore di essere abbandonato oppure il medico,
associato a un estraneo, viene associato a un vissuto di dolore fisico come nel caso di esami medici
invasivi con la conseguenza di provare paura anche delle punture.
In età evolutiva è diffusa anche la paura della scuola. Molti bambini, soprattutto all’inizio del
percorso scolastico, possono piangere lungo la strada o aggrapparsi ai genitori al momento della
separazione, alcuni poi, una volta entrati in classe, sembrano inconsolabili e non partecipano alle
attività proposte .
62
E’ noto anche il disturbo d’ansia da separazione che viene diagnosticato quando i bambini
sviluppano un’ansia intensa ed estrema se vengono separati da un genitore, può ledere la vita
quotidiana del bambino rifiutandosi di uscire di casa solo. Se il disturbo persiste, può sfociare in
quella che viene chiamata fobia scolastica.
Un’altra paura nell’infanzia è la paura sociale. Caplan e colleghi nel 2004 hanno compiuto uno
studio dividendo la paura sociale in due tipologie: una basata sul conflitto di timidezza come paura
di intraprendere relazioni, l’altra basata sul disinteresse sociale teso a non dare una motivazione alla
persona per impegnarsi nelle relazioni interpersonali. Dopo aver analizzato il campione di bambini
dai tre ai cinque anni con le loro madri è emerso che la paura sociale è legata alla paura per
l’estraneo, il timore di creare situazioni imbarazzanti, di essere valutato e alla forte timidezza che i
bambini così piccoli nutrono nei confronti del mondo esterno a loro. Sono da annoverare anche
paure specifiche quali: la paura dell’acqua,dell’altezza, degli incidenti stradali, la paura
claustrofobica, la paura di vomitare, delle malattie, la taijin-kyofu-sho, la paura di volare e la paura
degli spazi chiusi.
La paura dell’acqua appare dopo i cinque anni, essa può diminuire con l’età oppure può portare la
persona al rifiuto di lavarsi. In età adulta, la negazione a fare attività sportive e sociali è il primo
sintomo. Si può affermare che tale paura deriva dal nucleo familiare all’interno del quale è
mantenuta, infatti, la paura dell’acqua, delle altezze, dei ragni sono date dall’assenza di esperienze
negative. L’esperienza familliare è importante e vi è una relazione tra l’intensità delle paure della
mamma e quelle dei figli, ma non con il papà.
La paura delle altezze comprende il timore di salire sui grattacieli, ponti, ascensori e viaggi in aereo.
Inizia a svilupparsi attorno ai sette mesi, dove si assiste ad un aumento del battito cardiaco del
neonato a seguito di un percorso su posti alti. La causa di questa paura può essere una
predisposizione innata.
Le paure degli incidenti stradali normalmente si sviluppano ai sopravvissuti di incidenti in
macchina. Questa paura sembra essere molto razionale rispetto alle altre e l’ansia può manifestarsi
negli anni.
La paura degli spazi chiusi racchiude quella di rimanere chiusi al supermercato, nelle stanze, paura
dei tunnel, ascensori, treni sotterranei, posti affollati. Possono esserci state esperienze traumatiche
passate, le componenti di tali paure sono riferite al timore del piccolo spazio e la paura di soffocare.
La paura di vomitare si riferisce o all’imbarazzo di vomitare in pubblico o alla paura di dover
affrontare una situazione spiacevole, ossia, molte persone si inducono il vomito quando devono
lasciare la propria casa o quando devono separarsi dai genitori.
La paura delle malattie induce la persona ad evitare situazioni nelle quali potrebbe essere esposta a
serie malattie. La paura eccessiva può portare all’ipocondria, ossia la paura totalizzante che germi e
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malattie possano contagiare, si assiste, inoltre, alla presenza di elementi ossessivi e compulsivi e di
rituali
.La Taijin-kyofu-sho, è una sindrome studiata in Giappone caratterizzata dalla paura delle persone
alte e il timore di avere un comportamento che potrebbe imbarazzare oppure offendere tali persone.
La paura inizia in adolescenza e si sviluppa fino ai quaranta anni.
La paura di volare, assieme alla paura degli spazi chiusi e quella dell’altezza, è una tra le più
frequenti nell’infanzia, può essere seguita da attacchi di panico per la perdita del controllo.
La paura degli spazi si riferisce al timore di trovarsi in enormi spazi con una assenza di supporto
visuo-spaziale e con la paura di trovarsi disorientato
5.3 Approfondimento della fobia scolare nel bambino
Un certo grado di ansia e di paura della scuola è normale nei bambini, ma quando è eccessiva può sfociare in
un rifiuto a frequentare la scuola.
La fobia scolare è un disturbo caratterizzato da difficoltà di andare a scuola, ansia e depressione causando al
bambino ed ai genitori molto stress, ma nel bambino può provocare tutto ciò uno sviluppo emotivo e sociale
a rischio per la salute mentale adulta.
In letteratura spesso si usa l’etichetta diagnostica fobia scolare, ma alcuni autori come Kearney e Silverman
nel 1996 suggerivano di utilizzare il temine rifiuto della scuola per identificare il rifiuto a frequentare la
scuola o le difficoltà a rimanervi per un’intera giornata. Questa definizione include ragazzi che sono
completamente assenti da scuola, ragazzi che si recano al mattino a scuola ma poi la lasciano nel corso della
giornata.
Nel 1975 Bowlby quando di riferiva al rifiuto della scuola intendeva un disturbo caratterizzato non solo dal
rifiuto a frequentare la scuola, ma anche della presenza di uno stato di angoscia che si insiste se si costringe il
bambino a recarsi ad essa. Bowlby sosteneva che quello che un bambino teme non è quello che succederà a
scuola, ma il fatto di lasciare la casa quindi l’espressione fobia scolare non era esatta. Infatti nel 1956
Jonhson affermava che la fobia scolare era un’ansia da separazione dalla propria casa e dai propri genitori
da parte del bambino.
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Il DSM-IV non fornisce una diagnosi formale per questo disturbo, ma ha assunto questo comportamento
sotto altre diagnosi: il rifiuto scolare è un disturbo dell’ansia di separazione, mentre l’assenza ingiustificata
da scuola è uno dei sintomi del disturbo di condotta.
I problemi associati al rifiuto della scuola sono vari come i disturbi dell’apprendimento
(dislessia, disgrafia, ecc..) che portando a ripetuti insuccessi scolastici il bambino di conseguenza ha un
comportamento di evitamento nei confronti della scuola che lo protegge dalla svalutazione di sé e dall’ansia
di prestazione scolastica. Sovente ci sono bambini che non riescono a tollerare le regole scolastiche perché
hanno disturbi di comportamento e quindi evitano la situazione scolastica.
L'ansia da separazione fa riferimento ad uno stadio dello sviluppo infantile durante il quale il bambino
sperimenta ansia quando viene separato dalla principale figura che si prende cura di lui (in genere la
madre).Il periodo in cui questo accade normalmente è collocabile tra gli otto mesi e può durare fino ai
quattordici mesi. Nei bambini, la riluttanza a lasciare un genitore o un'altra persona di riferimento è il segnale
che l'attaccamento tra bambino e caregiver è avvenuto. Essi stanno cominciando a comprendere che ogni
oggetto (incluse le persone) che si trova nell'ambiente è diverso e permanente. Non possono ancora
comprendere il concetto di tempo, tuttavia non sanno quando, e se, chi se ne sta andando tornerà. I bambini,
a questo stadio, stanno lottando tra i sentimenti di voler esplorare da soli e contemporaneamente di stare al
sicuro sotto l'ala protettrice di un genitore o del caregiver. Sebbene le ansie da separazione siano normali
tra gli infanti o i bambini ai primi passi, non sono invece appropriate per fanciulli più grandi o adolescenti e
potrebbero rappresentare sintomi del disturbo d'ansia da separazione. Per raggiungere la soglia diagnostica
per questo disturbo, l'ansia o la paura deve causare stress o disagi di tipo sociale, scolastico, lavorativo e tali
sintomi devono durare almeno un mese. I bambini con ansia da separazione possono letteralmente
aggrapparsi ai propri genitori e avere difficoltà ad addormentarsi da soli durante la notte. Quando si trovano
soli, potrebbero mostrare terrore che i propri genitori siano stati coinvolti in un incidente o stiano male, o in
ogni modo che l'abbiano abbandonato per sempre. Hanno bisogno di stare sempre vicini ai propri genitori o a
casa e potrebbero avere difficoltà a frequentare la scuola o partecipare a un campeggio, stare a casa di amici
o in una stanza da soli. La paura della separazione può condurre a senso di vertigine, nausea o tachicardia.
L'ansia da separazione è spesso associata a sintomi della depressione, come tristezza, isolamento, apatia,
difficoltà di concentrazione e paura che i propri familiari muoiano. Spesso soffrono di incubi o terrore
durante la notte.
Il tasso di remissione del disturbo d'ansia da separazione è alto.
Tuttavia si alternano periodi in cui il disagio diventa più grave e periodi in cui diminuisce.
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Talvolta, tale condizione può durare anche molti anni e diventare un precursore del disturbo da attacchi di
panico con agorafobia. Gli individui adulti, che soffrono di tale disturbo, potrebbero avere difficoltà a
spostarsi o sposarsi e, a loro volta, potrebbero essere terrorizzati dalla separazione dai loro stessi bambini e
dal partner.
I sintomi e i modi in cui il disturbo si manifesta sono i seguenti:
-
Eccessivo disagio quando il bambino viene separato dalla figura di riferimento che si prende
cura di lui
-
Preoccupazione rispetto alla perdita del caregiver o danni al suo ritorno
-
Ricorrente riluttanza ad andare a scuola o in altri luoghi a causa del terrore della separazione
-
Riluttanza ad andare a dormire senza avere vicino il genitore
-
Incubi
-
Disturbi fisici
-
Sintomi per almeno quattro settimane o più
-
Inizio dei sintomi databile prima dei 18 anni di età
-
Difficoltà scolastiche, nel funzionamento individuale o interpersonale come risultato
dell'ansia
La causa del disturbo d'ansia da separazione non è conosciuta, sebbene alcuni fattori di rischio siano stati
identificati. I genitori dei bambini che presentano tale disturbo sono fortemente invischiati.
Il disturbo potrebbe svilupparsi in seguito a un evento traumatico e stressante, come la morte o la malattia di
un familiare o un trasferimento. Talvolta è presente in più familiari, ma il preciso ruolo della genetica o dei
fattori ambientali non è ancora stato stabilito. La remissione totale dell'ansia da separazione dipende dallo
sviluppo di un adeguato senso di sicurezza e fiducia nelle persone che non fanno parte del nucleo familiare,
nell'ambiente, e nel ritorno dei propri genitori dopo l'allontanamento.
Anche dopo che il bambino ha con successo superato questo stadio dello sviluppo, l'ansia da separazione
potrebbe far ritorno durante periodi di stress. La maggior parte dei bambini sperimenteranno un qualche
grado d'ansia quando si troveranno in situazioni poco familiari.
Quando i bambini si trovano in determinate situazioni (come l'ospedale), in cui sperimentano stress (come
per la malattia o il dolore), ricercano il senso di sicurezza, la consolazione e la protezione dei propri genitori.
Quando questi ultimi non possono essere presenti con il bambino in questo tipo di situazioni, il bambino
sperimenta profondo disagio. È utile, ove possibile, che il genitore accompagni il bambino durante le visite
mediche o il trattamento. Qualora ciò non sia possibile, è utile una anteriore esposizione alla situazione.
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Per i bambini più grandi, trattamenti efficaci possono comprendere sostegno psicologico e trattamento
psicoterapeutico per il bambino e i propri genitori e sviluppo del cambiamento nelle tecniche educative.
Per i bambini più piccoli, esistono una serie di azioni che un genitore o il caregiver possono intraprendere.
-
Dal momento che il bambino è più suscettibile ai sintomi dell'ansia da separazione, quando è
stanco, affamato o ammalato, è utile che il genitore programmi i suoi allontanamenti dopo
l'ora dei pasti o i sonnellini.
-
È utile che il genitore prepari il bambino prima di separarsi da lui e lo rassicuri sul fatto che
farà presto ritorno. Trattare l'ansia con serietà e reagire ad essa con comprensione, pazienza
e sicurezza ("so che non vuoi che me ne vada, ma tornerò dopopranzo), invece di canzonare
il bambino ("sei così sciocco quando piangi così) o mostrare irritazione ("tu mi fai diventare
matta quando piangi così). Mantenere la calma ed essere realistici e comprensivi. "So che
sei a disagio per il fatto che devo andare in cucina, ma è necessario che io tagli le carote per
preparare la cena". Se si rende necessario, andare ugualmente in cucina con il bambino
attaccato alle gambe.
-
Suscitare sentimenti di sicurezza per il bambino, offrendogli molto amore e molte attenzioni.
I bambini imparano più velocemente quando ricevono l'affetto necessario piuttosto che
quando i genitori assumono stili di educazione severi e duri.
-
Effettuare "separazioni a breve termine", all'interno della casa. È utile che il genitore, appena
va in un'altra stanza fuori dalla vista del bambino, dica "Dove è andata mamma?". Quando
poi ritorna, potrebbe dire "Eccomi! Sono qui!". Queste brevi separazioni ripetute potrebbero
aiutare il bambino ad imparare che l'allontanamento del proprio genitore è solo temporaneo.
-
Non allontanarsi di nascosto o furtivamente dal bambino. Questo modo di approcciare il
problema può solo avere come risultato il fatto che il bambino sia più guardingo e opponga
maggiore resistenza alla successiva separazione.
-
Mantenere il controllo delle proprie ansie; se il bambino percepisce o nota il disagio del
proprio genitore nel momento in cui egli si allontana, arriverà alla conclusione che ci deve
essere in questo qualcosa di sbagliato o che non va.
5.4 Chi è il Caregiver ?
Caregiver è un termine inglese che indica coloro che si occupano di offrire cure ed assistenza ad un'altra
persona. Il caregiver può essere un familiare, un amico o persone con ruoli diversi, che variano a
seconda delle necessità dell'assistito.
67
5.5 Manifestazione del disturbo del rifiuto della scuola
Le manifestazioni del disturbo di rifiuto della scuola sono vari:
-
Presenza di una reazione di ansia al momento dell’uscita di casa o all’ingresso della scuola il
bambino si agita, piange, ha nausea, scappa, vomita e promette che andrà a scuola il giorno
successivo.
-
Se accetta di lasciarsi condurre a scuola sarà colto da panico e si agiterà insistendo di
ritornare a casa
-
I sintomi somatici sono: dolori addominali, inappetenza, cefalea, dolore agli arti.
-
Presenza dei sintomi somatici e/o di angoscia alla sera precedente
-
Al di fuori del contesto scolare i disturbi fobici scompaiono ed il bambino appare sereno.
5.6 Le cause ed i fattori scatenanti del rifiuto della scuola
Le cause del rifiuto della scuola sono varie e molteplici la letteratura riporta una notevole variabilità di
situazioni familiari senza che ci sia un fattore comune per questo disturbo.
Tra le cause annoveriamo la dipendenza del figlio dalla madre che è la riluttanza a crescere, relazioni
conflittuali intrafamiliari, incoerenza educativa tra i genitori, scarsa intimità nei rapporti familiari,
antecedenti ansiosi con crisi di panico e/o agorafobia, depressione nei genitori in particolare nella madre.
Il problema del figlio frequentemente influenza l’equilibrio familiare con conseguente conflittualità
all’interno del nucleo passando quindi ad un circolo vizioso.
Trai i fattori scatenanti del rifiuto della scuola di trovano eventi di vita stressante che causano l’esordio di
difficoltà a frequentare la scuola come la malattia propria del bambino o di un familiare, momentanea
separazione dalla famiglia, ripresa scolastica dopo un’interruzione, cambio di residenza, incontro con un
insegnante particolarmente rigido e vincolante.
5.7 Lo sviluppo del rifiuto scolare
Lo sviluppo del rifiuto scolare colpisce il 5% dei soggetti in età scolare ugualmente ripartito tra maschi e
femmine.
Il disturbo può comparire lungo per tutto l’ arco degli anni scolastici o con periodi di picchi e fasi di
transizione. Esso può comparire già in età prescolare, ma è da distinguere dall’ansia di separazione che è
passeggera nei bambini ed esperiscono quando vengono inseriti per la prima volta alla scuola materna.
68
Tendenzialmente le difficoltà a frequentare la scuola tende a cronicizzarsi in presenza di cambiamenti
all’interno della frequenza scolastica come il cambio della scuola, cambio dell’insegnante o l’introduzione di
un argomento didattico complesso.
5.8 L’assessment, la psicoterapia ed il trattamento
Prima di una terapia è bene eseguire nel bambino un assessment psicologico.
L’assessment psicologico è la raccolta e l’integrazione di dati ai fini di una valutazione, decisione o
indicazione per l’intervento Nell’età evolutiva, permette l’individuazione di disturbi dello sviluppo, di
presenza di ritardo mentale o di un disagio comportamentale o emotivo che il bambino (o l’adolescente) può
manifestare a scuola o in famiglia. Se l’assessment è precoce, è spesso possibile attivare interventi educativi
e terapeutici efficaci.
Strumenti di assessment sono questionari e scale psicometriche, schede di osservazione, test proiettivi
interviste strutturate rivolte a genitori, insegnanti e care-giver.
Un esempio di assessment è l’intervista diagnostica semistrutturale nella versione per bambino, l’intervista
viene condotta prima al bambino e poi ai genitori prendendo in considerazione tutto l’anno precedente
all’esordio del disturbo; una sezione è dedicata alla raccolta di informazioni con il bambino e con i genitori
circa la storia scolastica ed il rifiuto scolastico. In questa seconda sezione le domande fatte al bambino sono:
-
Tu vai a scuola?
-
Ti piace la scuola?
-
Quali sono i tuoi voti?
-
Sei molto nervoso o spaventato quando devi andare a scuola?
-
Sei terrorizzato o molto nervoso quando sei a scuola?
Ai genitori si può anche richiedere di compilare un diario quotidiano del comportamento problematico del
figlio, con particolare attenzione all’esordio ed alle manifestazioni del disturbo, l’intensità, la frequenza e la
durata.
Un buon lavoro di assessment deve essere realizzato anche con la scuola, attraverso sia un colloqui di
approfondimento che con la proposta di compilazione di un diario quotidiano del comportamento del
problematico del bambino.
La valutazione diagnostica è utile nel focalizzare il disturbo clinico specifico associato al comportamento di
rifiuto della scuola, al termine di questo processo deve essere stipulato con entrambi genitori, che devono
essere d’accordo ed in sintonia tra loro, una terapia per il loro figlio.
69
La terapia usata come intervento psicologico per i bambini con rifiuto da scuola è generalmente la: terapia
cognitivo-comportamentale con due tipi di tecniche esposizione graduata e desensibilizzazione.
-
L’esposizione graduata da parte del psicoterapeuta viene negoziata con il bambino e consiste in un
approccio step-by-step per ripristinare gradatamente il ritorno a scuola del bambino. Durante la
prima sessione del trattamento viene costruita una gerarchia delle paure del bambino e degli evita
menti usando le informazioni fornite dal bambino e dai suoi genitori. All’inizio si parte dal livello
più basso della gerarchia per aumentare progressivamente la difficoltà. Il terapeuta mantiene un
contatto con il bambino ed i genitori anche telefonicamente in modo da monitorare nel migliore dei
modi il progresso del piccolo paziente. Durante la seconda sessione il bambino deve identificare i
suoi pensieri mal adattivi che anticipano o si sviluppano di fronte a situazioni che producono ansia e
devono rimpiazzarli con un fronteggia mento maggiormente adattivo. Tutto ciò per aiutare il
bambino a ridurre l’ansia anticipatoria e decrescere sempre più il rifiuto della scuola con lo scopo
dell’inserimento scolastico.
-
La desensibilizzazione sistematica invece implica la presentazione di immaginazione di stimoli
provocanti l’ansia, partendo da quello che ne provoca meno allo stimolo più disturbante. Quando
abbiamo un rifiuto della scuola è l’esposizione ripetuta come fare una domanda in classe, telefonare
ad un compagno di classe, unirsi ad un piccolo gruppo della classe per giocare insieme, fargli vedere
del materiale scolastico illustrato per aiutare il bambino. Lo scopo finale è l’inserimento scolastico.
Quando il bambino però rifiuta la scuola allo scopo di ottenere attenzioni fisiche e verbali dagli altri in modo
particolare dalla madre da cui non riesce a separarsi, deve essere utilizzato specificamente un approccio
basato sul trattamento con i genitori. Lo scopo è quello di incrementare le abilità dei genitori in comandi,
regole, routine di casa, privilegi, ricompense per la frequenza scolastica da parte del bambino se la frequenza
è normale. I genitori in generale vorrebbero risolvere il disturbo in modo veloce ma è un processo lento e ci
vuole pazienza. Il terapeuta agisce da mediatore tra il bambino ed i genitori. Lo scopo finale è sempre quello
della frequenza regolare scolastica da parte del bambino.
Le due tecniche di trattamento nella pianificazione del trattamento terapeutico sia come frequenza sia come
ritorno a scuola da parte del bambino non ha particolari differenze, il terapeuta deve capire quale è più
confacente alla situazione.[20]
70
CONCLUSIONE
a) Curiosità da Panico !!!
Anche le star come i comuni mortali soffrono di molte fobie e di attacchi di panico
Matthew Mcconaughey ha il terrore delle porte girevoli.
David Beckham invece soffre di ataxofobia.
Pamela Anderson ha la fobia dello specchio.
Britney Spears, Federica Pellegrini, Jessica Simpson, Karina Cascella e Madonna soffrono di attacchi di
panico.
Soffrivano di attacchi di panico anche Alessandro Manzoni e Luigi Pirandello.
La celebre cantante Madonna in un’intervista ha confessato di soffrire di attacchi di panico con queste
parole:
“Ci sono momenti in cui mi sento incredibilmente invincibile e sono capace di tenere il pubblico in pugno.
So che tutto è assolutamente perfetto. Poi ci sono momenti in cui sono presa da attacchi di panico, mi manca
l’aria, ho paura di non essere all’altezza e mi sento morire in scena. A quel punto dò la schiena al pubblico,
faccio un bel respiro e ricordo a me stessa che è tutta una sensazione passeggera. E’ difficile da descrivere.
Quando hai un attacco di panico non riesci ad essere razionale. Mi sento soffocare, ovviamente so che c’è
abbastanza ossigeno per tutti ma è come se la gente mi rubasse l’aria. Mi sento claustrofobica.”
b) Concludendo
Concludo la mia tesi ringraziando ancora una volta il mio Relatore, il Preside Professore Antonino Pennisi e
tutto il personale docente e non docente dell’ Università degli Studi di Messina e coloro che mi sono stati
vicini : GRAZIE.
71
INDICE
Pag
Introduzione ……………………………………………………………………
I
Poesia: “Attacco di Panico” di Corradina Triberio …………………………….
IV
CAPITOLO 1
Pag
Premessa: Universo Psiche …………………………………………………………
1
1.1 L’Encefalo ……………………………………………………………………… 6
1.2 Il Sistema Nervoso ……………………………………………………………… 12
CAPITOLO 2
Pag
Premessa: Che cosa è l’Attacco di Panico …………………………………………. 16
2.1 Il termine “Panico” ……………………………………………………………... 16
2.2 Che cosa è il disturbo di panico ………………………………………………… 17
2.3 Differenza tra paura, ansia e panico ……………………………………………. 18
2.4 Definizione dell’attacco di panico ……………………………………………… 20
2.5 Fattori di rischio ………………………………………………………………… 23
2.6 Diagnosi differenziale …………………………………………………………... 24
2.7 Elenco dei nomi di alcuni tipi di fobia ………………………………………….. 26
2.8 Disturbi concomitanti al DAP ………………………………………………….. 29
2.9 Effetti del DAP nella memoria …………………………………………………. 29
2.10 Diverse forme cliniche del DAP ………………………………………………. 29
Pag
2.11 Approfondimento del termine agorafobia ……………………………………. 30
2.12 DAP e Psicosi ………………………………………………………………… 31
72
CAPITOLO 3
Pag
Premessa: Eziopatogenesi del DAP ……………………………………………….. 32
3.1 Fattori biologici ……………………………………………………………….. 32
3.2 Fattori genetici ………………………………………………………………… 32
3.3 Fattori psicosociali …………………………………………………………….
33
3.4 Fattori eziopatogenetici: possibile modello unificatore ………………………. 33
CAPITOLO 4
Pag
Premessa: Trattamento del DAP …………………………………………………… 35
4.1 La Farmacoterapia ……………………………………………………………… 35
4.2 Analisi del farmaco …………………………………………………………….. 37
4.3 Le tappe della terapia farmacologica …………………………………………… 40
4.4 Psicoterapia …………………………………………………………………….. 42
4.5 La differenza tra la psicoterapia e la psicanalisi ………………………………... 42
4.6 Tipologie di psicoterapia ……………………………………………………….. 47
4.7 Le tappe della psicoterapia e personalità dei pazienti affetti da panico ………… 55
4.8 La resistenza ed i meccanismi di difesa del paziente affetto da DAP …………... 56
4.9 I principali meccanismi difensivi dell’Io utilizzati dal paziente con DAP ……… 57
CAPITOLO 5
Pag
Premessa: La paura in età evolutiva ……………………………………………….. 59
5.1 Lo sviluppo delle paure ………………………………………………………… 59
5.2 Le paure più frequenti in età evolutiva ………………………………………… 62
73
5.3 Approfondimento della fobia scolare nel bambino …………………………….. 65
5.4 Chi è il Caregiver ........................................................................................... 69
5.5 Manifestazione del disturbo del rifiuto della scuola ……………………………. 69
5.6 Le cause ed i fattori scatenanti del rifiuto della scuola ………………………… 69
5.7 Lo sviluppo del rifiuto scolare …………………………………………………. 70
5.8 L’Assessment, la psicoterapia ed il trattamento ………………………………... 70
CONCLUSIONE
Pag
a) Curiosità da PANICO !!! …………………………………………………… 73
b) Concludendo ………………………………………………………………… 74
INDICE …………………………………………………………………………….. 76
BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA………..……………………………………………………………… 79
74
BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA
[1] Antonino Pennisi; Antonino Bucca; Alessandra Falzone. Trattato di Psicopatologia del Linguaggio.
Edizioni Edas 2004
[2] DSM-IV°. Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali. Masson Editore
[3] Castano P; Donato R.F. Anatomia dell’Uomo. Edizioni Ermes 2006
[4] Nicola Ghezzani. Uscire dal Panico. Ansia, fobie, attacchi di panico, Nuove strategie nella gestione e
nella cura. Edizioni Franco Angeli 2009
[5] www.wikipedia.org/wiki/Pan
[6; 9;10;16] Vittorio Cei. Disturbo di Panico e Agorafobia. Volumi 1 e 2. Edizioni Pharmacia & Upjohn
1999
[7] Letteratura Mondiale. Attacchi di Panico. News Letter 1-2000. Edizioni Mosby-Italia.
[8;12;19] Roberto Infrasca. Il disturbo da Attacchi di Panico. Dalla comprensione alla Terapia. Edizioni
Franco Angeli 2006
[11;14;18] Roberto Infrasca. DAP. Inquadramento psicopatologico e approccio psicoterapeutico nel
disturbo da Attacchi di Panico. Edizioni Magi 2006
[13;17] Gabriella Ba. Strumenti e Tecniche di riabilitazione psichiatrica e psicosociale. Edizioni Franco
Angeli 2010
[15] Gianni Francesetti. Attacco di Panico e Postmodernità. La Psicoterapia della Gestalt fra clinica e
società. Edizioni Franco Angeli 2009
[20] Giovannella Guasco; Paolo Meazzini. Le Paure Infantili. Edizioni Bulzoni 20 ottobre 1988 ÷21 marzo
1989. Trimestrale di Terapia del Comportamento. Giornale Italiano di Scienza e Terapia del comportamento.
Il meglio della Terapia del comportamento : italiana ed internazionale.
[Figure 1;2;3;4;5;6] Immagini dal web.
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