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rendere cosciente l`inconscio
Portare alla coscienza l’inconscio? MARIA PONSI 1. Portare alla coscienza l’inconscio Chi inizia un trattamento psicoanalitico si trova spesso a provare una certa apprensiva curiosità per il viaggio interiore che si accinge e compiere. Nell’attesa di scoprire ciò che è sepolto nel misterioso mondo del suo inconscio, è portato a considerare la coscienza come la facciata di una realtà più autentica che alberga in profondità dentro di sé e che grazie al trattamento analitico potrà finalmente conoscere. Un’aspettativa di questo tipo è del tutto giustificata: fin dalla sua fondazione la psicoanalisi si è proposta come lo strumento capace di scoprire gli inganni a cui è soggetta la coscienza, mostrando all’Io cosciente che «non è padrone in casa propria» (Freud, 1915-17, 446; 1916, 663). Accedere al mondo inconscio, acquisire alla coscienza ciò che ne è stato escluso è la finalità specifica che ha connotato la cura psicoanalitica fin dalla sua fondazione: «Dove era l’Es, deve subentrare l’Io» (Freud, 1932, 190), «La psicoanalisi è uno strumento inteso a rendere possibile la conquista progressiva dell’Es da parte dell’Io» (Freud, 1922, 517). Ma oggi è ancora valida questa aspettativa? Anche se portare alla coscienza l’inconscio resta, soprattutto nel largo pubblico, la finalità dell’analisi, non si può dire che questa meta sia oggi condivisa dagli psicoanalisti. Per la verità, è probabile che anche nella prospettiva dei pazienti l’aspetto principale dell’esperienza analitica non sia quello di portare alla coscienza l’inconscio. A un secolo dalla sua nascita la psicoanalisi è molto cambiata. Innanzi tutto conviene abbandonare il termine al singolare: non è più sostenibile parlare di una psicoanalisi, al singolare; è più realistico parlare di più psicoanalisi, al plurale. Sono infatti ormai troppo numerose le questioni intorno a cui si confrontano punti di vista assai diversi fra loro su tematiche teoriche e questioni tecniche: non c’è praticamente concetto della teoria o della clinica su cui si registri un ragionevole consenso, anche se molti ritengono che le vere divergenze della psicoanalisi riguardino più la teoria che l’operatività clinica, dove c’è un maggiore accordo. Una delle molte questioni su cui si confrontano punti di vista diversi riguarda la finalità perseguita dal trattamento analitico. L’obiettivo della cura analitica è (ancora) portare alla coscienza l’inconscio? Per la prospettiva classica la finalità della psicoanalisi è innanzi tutto conoscitiva (rendere cosciente l’inconscio) e solo secondariamente terapeutica: il cambiamento, quello radicale e autenticamente trasformativo, si verifica come conseguenza della conoscenza di sé. Il trattamento analitico non deve essere in prima istanza una terapia: l’effetto terapeutico scaturirà – così predice la teoria – dal rendere cosciente l’inconscio. Alla radice di questa prospettiva c’è il rifiuto di verità scomode, il «non voler sapere», la tendenza all’autoinganno e alla costruzione di illusioni (Jervis 2011, 12). Si tratta di una prospettiva che era, nella originaria formulazione, innovativa e 1 scandalosa, alimentata dall’idea forte e suggestiva che preziose e particolari dinamiche di verità attendessero solo di venire portate alla luce attraverso il lavoro psicoanalitico (ibid., 9). Nelle scuole contemporanee, o post-classiche la priorità data al fine conoscitivo è diventata assai meno rilevante. Rendere cosciente l’inconscio non costituisce più l’elemento propulsivo dell’esperienza analitica. Pur senza mettere in questione il valore della conoscenza di sé, oggi prevale un atteggiamento assai meno fiducioso nelle sue virtù trasformative: ai fini del cambiamento più che chiamare in causa il passaggio inconscio-coscienza è alla relazione analitica, alla dinamica transfert-controtransfert, all’alleanza terapeutica, che si presta attenzione. A dissolvere la visione di una coscienza sede di autoinganni in contrapposizione a un inconscio dove risiede la verità del soggetto contribuisce anche un clima culturale dominato da una concezione debole della verità, intesa come costruzione contingente, funzionale alle esigenze di singoli e specifici contesti. L’ideale di un soggetto che persegue la conoscenza di sé, alla ricerca della sua vera identità, ha lasciato il posto a una pluralità di sé identitari, precari e cangianti, tesi pragmaticamente a trovare comprensione e accoglienza: è in gioco un soggetto per il quale conta più il bisogno di essere capito che il bisogno di capire (Eagle, 2011, 1105). In questa nuova prospettiva né l’inconscio gode del privilegio di conservare realtà più profonde e più vere di quanto la coscienza sia disposta ad accettare né la coscienza gode della capacità di arricchirsi di nuove verità e così promuovere cambiamenti terapeutici. 2. L’insight sul piedistallo L’inestricabile legame fra conoscenza e cura è l’essenza della psicoanalisi: guardare dentro di sé, fin negli aspetti più reconditi e sgraditi alla coscienza, non è solo la nobile finalità di un percorso di auto-conoscenza, è anche la condizione necessaria per liberarsi della sofferenza nevrotica. Per molto tempo l’insight ha occupato un posto privilegiato nella teoria dell’azione terapeutica della psicoanalisi, qualificandola come la psicoterapia per eccellenza che fa di un’esperienza conoscitiva una trasformazione terapeutica. Malgrado l’importanza che il vedere dentro di sé (in-sight) riveste nel trattamento analitico, Freud ha usato raramente questo termine, e per lo più in modo colloquiale e non tecnico. Nella letteratura psicoanalitica l’uso è invece frequentissimo, sebbene non univoco: talora indica l’esperienza conoscitiva vissuta in prima persona dall’analizzando quando ha una comprensione a tutto campo di una propria verità interiore; talaltra si riferisce in senso più generale al pieno sviluppo delle funzioni simboliche e delle capacità integrative dell’Io (Sacerdoti & Spaçal 1985). La mancanza di chiarezza del concetto, anzi la sua «incerta posizione» nella psicoanalisi (Spaçal 1983), non ha impedito di considerare l’insight – il fare di un’esperienza conoscitiva una trasformazione terapeutica – l’essenza della cura analitica, il suo aspetto specifico e più qualificante: si è così posto l’insight su un piedistallo, come dicono nella loro ricognizione dei fattori terapeutici della psicoanalisi Gabbard & Westen (2003, 822). Questa posizione privilegiata ha cominciato a vacillare man mano che l’esperienza clinica ha messo in evidenza 1) che non sempre all’insight fa seguito un cambiamento terapeutico, 2) che si verificano cambiamenti terapeutici non preceduti da insight, e 3) che ci sono pazienti i quali, pur giovandosi complessivamente della cura analitica, risultano incapaci di insight. A scalzare definitivamente l’insight dal piedistallo su cui era posto è stata l’evoluzione dei modelli psicoanalitici post-classici, che hanno messo in primo piano la dinamica della relazione 2 analitica mettendo in evidenza il ruolo che questo svolge nel cambiamento terapeutico. L’idealizzazione dell’insight ha indubbiamente rallentato il processo che ha portato al riconoscimento della molteplicità dei fattori terapeutici. Ma più che l’insight in sé, è stata idealizzata la coppia interpretazione-insight – ovvero i due versanti (nell’analista e nel paziente) della funzione mentale al lavoro per acquisire l’inconscio alla coscienza. Con l’espandersi dei modelli post-classici si è sviluppata una visione diversa del ruolo dell’interpretazione, che non viene più considerata l’agente fondamentale dell’azione terapeutica della psicoanalisi; non è più «la freccia terapeutica esclusiva nella faretra dell’analista» come dicono Gabbard & Westen (2003, 822). Anche l’interpretazione, come l’insight, non va idealizzata, ha i suoi limiti: con certi pazienti, soprattutto quelli con serie patologie, va usata con molta parsimonia; non raramente può rispondere più a un bisogno dell’analista che essere funzionale alle esigenze del paziente (Manfredi, 1978); e in molti più casi di quanto si creda ha più rilevanza la dimensione relazionale contenuta nell’atto interpretativo che l’elaborazione vera e propria del contenuto comunicato. Spesso l’effetto terapeutico non sta tanto in ciò che l’interpretazione svela quanto nella narrazione che è capace di attivare. Parallelamente al ridimensionamento dell’interpretazione è aumentata la considerazione per l’area clinica «non-interpretativa», e cioè per tutti quegli interventi che nel modello ortodosso venivano considerati secondari e di supporto all’interpretazione; e, va aggiunto, spesso per tale motivo considerati non-psicoanalitici. L’esperienza clinica, in particolare quella con i pazienti più gravi, ha mostrato quanta importanza abbia invece questo tipo di interventi; quanto insomma, per dirla con Bonaminio (1993), sia spesso indicato «non interpretare». È indubbio dunque che i «nuovi stili interpretativi» (Rossi Monti, 2005) prestando maggiore attenzione ai fattori relazionali e agli interventi non-interpretativi collocano l’interpretazione in un ruolo di minor rilievo. Va sottolineato che tale minor rilievo non si traduce in una svalutazione esplicita dell’interpretazione in quanto tale; casomai si auspica che sia «debole», o insatura, affinché il paziente possa contribuire alla costruzione o narrazione che l’analista gli propone (Bezoari & Ferro 1989, 1033). Che l’interpretazione abbia perso rilevanza si coglie anche nella diluizione a cui oggi è andato incontro il significato di questo termine. Accanto al significato classico, secondo cui l’interpretazione indica un atto verbale discreto di decodificazione di un contenuto inconscio nel linguaggio della coscienza, oggi è sempre più frequente riscontrare l’utilizzo indiscriminato del medesimo termine per riferirsi a qualsiasi atto verbale pronunciato dall’analista, anche quando, come è particolarmente evidente in certi approcci narrativisti, viene esplicitamente abbandonata la finalità di traduzione e di decodifica dall’inconscio alla coscienza e si persegue quella della trasformazione narrativa di emozioni e potenzialità mentali inespresse. 3. La moltiplicazione dei fattori terapeutici La caduta dal piedistallo dell’insight, o meglio della coppia interpretazione-insight, non è l’espressione di una furia iconoclasta che abbatte oggetti idealizzati, ma l’effetto del ridimensionamento a cui quei due principi sono andati incontro via via che la riflessione clinica sull’azione terapeutica della psicoanalisi ha portato l’attenzione su altri fattori di cambiamento che agiscono nei trattamenti analitici; i quali peraltro non sono del tutto equiparabili, perché, al di là del setting che formalmente li accomuna e di modalità tecniche apparentemente simili, hanno però 3 retroterra teorici e concettuali assai diversi. Ne consegue che certi fattori terapeutici siano più rappresentati in alcuni modelli teorico-clinici e meno in altri. Anche i problemi posti dal tipo di patologia trattata hanno avuto un ruolo non secondario nel condurre all’individuazione di fattori di cambiamento diversi dall’interpretazione-insight: affrontare sempre più spesso pazienti poco propensi alla riflessione introspettiva, portati a mettere in atto con azioni e comportamenti le proprie turbolenze emotive, ha indotto tutti gli orientamenti teorici a prendere in considerazione meccanismi di cambiamento, ovvero fattori terapeutici, diversi da quelli postulati precedentemente. Quando la coppia interpretazione-insight era ben salda sul suo piedistallo e chi ne metteva in questione il primato rischiava il declassamento da psicoanalista a psicoterapeuta, il confronto fra chi difendeva il valore del meccanismo d’azione classico e chi sottolineava l’importanza degli aspetti relazionali si svolgeva spesso nei termini di una contrapposizione. «Cambiamento psichico: insight o relazione?» (Pulver, 1992) è stato l’interrogativo su cui si sono confrontati a lungo sostenitori dell’uno o dell’altra. Oggi la contrapposizione è meno netta: Gabbard & Westen, nella loro onnicomprensiva riflessione sull’azione terapeutica della psicoanalisi, rilevano come si sia attenuata una troppo netta demarcazione fra i due meccanismi, riconoscendo che questi operano in maniera sinergica nella gran parte dei casi, con un maggior rilievo dell’uno o dell’altro aspetto a seconda dei pazienti (Gabbard &Westen, 2003, 823). Allargare l’ambito di osservazione all’insieme dei fattori terapeutici attivi nella cura analitica introduce in un terreno assai vasto, in cui i dati da prendere in considerazione sono tanto numerosi quanto condizionati dai vari livelli dei contesti in cui hanno luogo. La prospettiva stessa dentro cui si muovono Gabbard & Westen non è esente dal condizionamento del loro contesto geograficoculturale. Malgrado i due autori abbiano fatto uno sforzo «enciclopedico» e «ecumenico», come nota Bolognini (2008b), per riordinare in modo sistematico e oggettivo le varie prospettive sull’azione terapeutica, il loro ambito di riferimento è decisamente nord-americano. Bolognini rileva che in un’altra costellazione teorico-culturale (europea o sud-americana) si potrebbero proporre panorami e percorsi ricognitivi diversi: egli stesso ha integrato la rassegna americana con un elenco di altri fattori, o «passaggi», altrettanto significativi per la buona riuscita della cura: instaurare il setting – consentire l’esperienza della regressione – costruire una certa alleanza terapeutica e condividere il riconoscimento della realtà psichica – conoscere progressivamente il paziente e imparare a sintonizzarsi con lui – imparare a lavorare insieme – favorire la coesione del Sé se è carente – creare spazio interno se non c’è, acquisire familiarità con il preconscio e con l’area transizionale – fare esperienza dell’esistenza dell’inconscio – riconoscere e bonificare le relazioni con gli oggetti: integrare le scissioni, tollerare le ambivalenze e la separatezza – far percepire come possibile una prospettiva evolutiva personale – accettare progressivamente separazione e perdita, diventando e rimanendo se stessi (Bolognini, 2008b, 34-35). Ripensare l’azione terapeutica della psicoanalisi implica dunque riconoscere che esistono più azioni terapeutiche: azioni terapeutiche al plurale, come dicono Gabbard & Westen. Abbandonare l’idea di un solo meccanismo basato sulla capacità trasformativa della conoscenza di sé, rinunciare all’esistenza di un filo lineare che colleghi teoria e tecnica, strumenti e finalità da perseguire, porta a confrontarsi con una miriade di fattori terapeutici fra i quali ogni psicoanalista può ritrovare quello che gli è più congeniale, ma dove viene a mancare un principio unificatore. Peraltro va notato che per molti di questi fattori il tasso di specificità psicoanalitica è assai basso (Rossi Monti e Foresti, 2005). In uno scenario diventato più complesso, più realistico, ma anche meno soddisfacente dal punto di vista della solidità e coerenza della disciplina, è degno di nota il fatto che i due autori 4 americani a un certo punto abbandonino il linguaggio psicoanalitico e adottino una prospettiva sovra-ordinata, extra-psicoanalitica, quella delle neuroscienze, grazie a cui è possibile fare riferimento a un meccanismo unico. In tal modo il cambiamento clinico – in qualunque modo si manifesti, per qualunque via venga perseguito, in qualunque linguaggio psicoanalitico venga teorizzato o descritto – viene spiegato facendo riferimento al livello di attivazione e disattivazione neurale delle reti associative che collegano i processi cognitivi e affettivi (Gabbard & Westen, 826). Questo sembra al momento l’unico modo possibile per formulare una teoria del cambiamento capace di rendere compatibili, o almeno capaci di convivenza, le formulazioni cliniche espresse da modelli psicoanalitici ormai così diversi. 4. Di quale inconscio possiamo diventare coscienti? Un altro motivo per cui la cura analitica non ha più come forza propulsiva centrale la conquista dell’inconscio da parte della coscienza risiede nel fatto che nella psicoanalisi contemporanea si è molto estesa una concezione di inconscio per la quale tale meta è impraticabile. A fronte dell’inconscio rimosso del modello archeologico, e cioè di un inconscio concepito come serbatoio-calderone di derivati pulsionali, tenuti sepolti perché disturbanti, che l’analisi dissotterra e porta alla luce della coscienza, sono diventate più rilevanti nella teoria e nella clinica forme di inconscio riferite a aree mentali situate al di là delle rimozione: aree mentali che già Freud aveva prospettato descrivendo i meccanismi psichici della scissione dell’Io, del rigetto, del diniego della realtà. Questa area psichica rinvia a un’idea di inconscio costituito da atti psichici intrasformati, incompiuti, rappresentazioni e affetti mai pervenuti alla coscienza, mai formulati in pensieri, rappresentazioni rinnegate e scisse, esperienze sensoriali e emozionali non simbolizzate, o desimbolizzate, attraversate da un continuo lavoro di trasformazione dell’esperienza sensoriale, somatica e pulsionale in esperienza psichica (Riolo, 2009, 25): il riferimento è a un’area strutturalmente incapace di coscienza in quanto «incapace di rappresentazioni “legate” (linguistiche) e di pensiero secondario (differenziante)» (ibid., 18). L’interesse per queste aree mentali escluse dalla possibilità di venire rappresentate nella coscienza proviene dall’esperienza clinica con condizioni psicopatologiche nei cui confronti la tecnica classica ha mostrato dei limiti. L’interpretazione e l’insight sono risultati in questi casi strumenti meno efficaci di quanto la teoria avesse previsto e contemporaneamente si è visto che per certe riparazioni dal patologico risulta più efficace seguire vie diverse dal portare alla coscienza contenuti e conflitti inconsci. In questi casi, l’impatto clinico non avviene tanto con una dinamica conflittuale, interpretabile e trasformabile con l’accesso alla coscienza, ma piuttosto con una modalità del funzionamento mentale che è estranea al conflitto: estranea o perché ancora immatura, o perché incapsulata in aree mentali dissociate dal resto della personalità, o perché strutturalmente diversa dalle organizzazioni mentali suscettibili di rappresentazione. Sebbene un po’ in tutti filoni del pensiero psicoanalitico si sia sviluppato un interesse per queste aree mentali escluse dalla rappresentabilità nella coscienza, è soprattutto nei modelli che si sono allontanati dalla metapsicologia freudiana che esse hanno acquisito una particolare rilevanza nella teoria e nella tecnica. Esplorati tanto nella dimensione «verticale», individuale e intra-psichica, quanto nella dimensione «orizzontale», inter-soggettiva e inter-psichica, questi aspetti della vita mentale inconscia sono stati qualificati con vari aggettivi, con significati talora simili ma non 5 sovrapponibili: non rimosso, primario, originario, implicito, procedurale, pre-riflessivo, presimbolico, sub-simbolico, a-simbolico, onirico, irrapresentabile, proto-mentale, pre-verbale, relazionale, bi-personale, strutturale ecc. (Barnà, 2007; Bastianini & Moccia, 2003; Bonfiglio, 2010; Bott Spillius, 2007; Civitarese, 2011; De Toffoli, 2007; Falci, 2009; Ferro, 2010; Fiorentini et al., 2001; Krause, 2011; Lyons-Ruth, 1999; Mancia, 2007; Martini, 2009; Moccia, 2009). L’uso di tanti termini segnala l’esigenza di uscire da una nozione di inconscio che risulta troppo stretta rispetto a ciò che si intende designare. Perciò nel descrivere e concettualizzare queste diverse dimensioni mentali inconsce il vocabolario psicoanalitico si è mescolato con quello delle ricerche neuroscientifiche, che in questi decenni, grazie a nuove tecnologie di indagine, hanno prodotto risultati importanti sul funzionamento mentale e cerebrale. Con la nozione di memorie implicite e procedurali, insieme al vasto repertorio di conoscenze cognitive, affettive e relazionali che non sono rappresentabili nella coscienza ma che ne condizionano i contenuti, è andata definendosi un’area mentale molto ricca e articolata alla quale ci si riferisce con il termine di inconscio cognitivo: un inconscio esplorato con modalità di indagine non cliniche, che si differenzia da quello della tradizione psicoanalitica, l’inconscio dinamico, suscettibile di evoluzione, cambiamento e risoluzione nella misura in cui ne vengono portati i termini alla coscienza. La possibilità di indagare con strumenti sempre più sofisticati il funzionamento mentale inconscio nel suo versante non-dinamico (ma ora anche in quello dinamico, v. Berlin, 2011), ha portato varie correnti psicoanalitiche a importare nel proprio patrimonio concettuale prospettive esterne alla propria tradizione. Il cambiamento di accenti nel modo di concepire l’inconscio in corso nel pensiero psicoanalitico è andato così a saldarsi con dati e concetti provenienti da aree disciplinari poste ai suoi confini, come le neuroscienze e la ricerca sullo sviluppo infantile (Merciai & Cannella, 2009), provviste di modalità di indagine e basi teoriche autonome. Il dialogo interdisciplinare, la possibilità di mettere a confronto, e possibilmente integrare, due prospettive, quella sperimentata nella clinica e quella indagata nel laboratorio, appare a molti una fertile opportunità per la psicoanalisi per uscire dal «suo (non così splendido) isolamento» (Fonagy, 2003); altri la considerano invece un’inopportuna contaminazione da parte di discipline che «utilizzano altri metodi di indagine, non […] comparabili a quelle ottenute usando lo studio della fantasia inconscia con transfert in atto» (Maldonado, 2011, 424). Che fare dunque di questo inconscio non rimosso, procedurale, di questa «conoscenza relazionale implicita» (Lyons-Ruth, 1998) che non può avere accesso alla coscienza tramite quel lavoro di decodifica che si applica alla fantasia inconscia strutturata intorno a una dinamica conflittuale? Come pensare questa area inconscia della mente e come averci a che fare nella situazione clinica? E – corrispondentemente – come ripensare la funzione della coscienza al di là del ruolo di schermo difensivo, di «falsa coscienza», eretto contro le verità relegate nell’inconscio? La risposta è in buona misura già contenuta nell’abbandono di alcune coordinate teoriche e tecniche da parte dei modelli teorico-clinici post-classici, nell’assunzione di una maggiore consapevolezza nei confronti «dell’ineludibile aspecificità tecnica degli strumenti di lavoro dello psicoanalista» (Rossi Monti & Foresti, 2005) e nella tendenza a integrare il sapere pratico della psicoanalisi clinica con i dati di altre discipline scientifiche. Ma si può fare un ulteriore passo avanti nella direzione del rinnovamento dell’apparato concettuale della psicoanalisi andando a interrogare, seguendo la lezione di Sandler (1983; v. anche Canestri, 2006), la pratica clinica degli psicoanalisti: è nella clinica infatti che sono all’opera le cosiddette «teorie implicite» – quegli abbozzi di teoria che restano a lungo inespressi nel pensiero teorico ufficiale perché con esso dissonanti, e che per questo impiegano del tempo a uscire allo 6 scoperto. Una di queste linee di pensiero implicito riguarda l’area dell’ascolto-interazione con il vissuto e l’area, a questa connessa, degli interventi non-interpretativi. 5. Interpretazione dell’inconscio e comprensione del vissuto Se da più parti viene da tempo invocata l’integrazione della psicoanalisi con le neuroscienze, minore risonanza ha un altro tipo di integrazione altrettanto necessaria – l’integrazione con la psicopatologia fenomenologica. Uno dei pochissimi autori che ha messo in evidenza la difficoltà, non meno che la necessità, di questa integrazione è M. Rossi Monti, uno psicoanalista con un retroterra clinico e concettuale nella psicopatologia fenomenologica; oppure uno psicopatologo arricchito di cultura e tecnica psicoanalitiche. In un articolo del 2005 sui nuovi stili interpretativi che caratterizzano i modelli teorico-clinici post-classici, Rossi Monti avanza l’ipotesi che la tendenza a fare un uso assai più cauto dello strumento interpretativo e a prestare corrispondentemente una maggiore attenzione ai vissuti consapevoli, sia il frutto non solo di un riaggiustamento interno alla psicoanalisi nel doversi confrontare con pazienti gravi (organizzazioni borderline di personalità e psicosi), ma anche dell’influenza che la psicopatologia fenomenologica ha esercitato sotterraneamente sulla psicoanalisi clinica. Perché le due aree disciplinari si sono sempre praticamente ignorate, se non addirittura anche reciprocamente squalificate? Perché la curiosità, il profondo rispetto, la finissima attenzione per tutte le pieghe del sentire e del pensare che gli autori dell’indirizzo fenomenologico praticano nell’ascolto della persona non sono apparsi preziosi a chi, come gli psicoanalisti, trascorre tanto tempo a contatto con la mente umana? Perché il patrimonio di comprensione di cui è tanto ricca la psicopatologia fenomenologica non ha trovato risonanze nella psicoanalisi? Alla psicopatologia fenomenologica nel suo complesso è stata da sempre rivolta l’accusa di essere incapace di mettere a frutto sul piano della terapia la profondità della sua comprensione delle vicende umane, non andando oltre un’esercitazione di carattere contemplativo-estetizzante, praticata da clinici più catturati dal fascino della astrazione filosofica che solleciti nel prendersi cura della sofferenza mentale. La mancata assunzione di responsabilità terapeutica non è tuttavia casuale: l’individuazione stessa di un metodo terapeutico è distante dalla impostazione metodologica dell’indirizzo fenomenologico in psicopatologia, non dovendo la comprensione essere vincolata a un progetto, a uno scopo (Rossi Monti, 2005, 1012-1013). La psicoanalisi, pur non avendo una finalità primariamente terapeutica, persegue invece uno scopo ben preciso: la conoscenza dell’inconscio. E a tal fine si è dotata di uno specifico metodo di ascolto e di una specifica tecnica interpretativa. Sono queste le caratteristiche che ne definiscono l’identità. A una disciplina che ambisce a uno statuto scientifico in virtù della specificità del suo oggetto e del suo metodo di indagine, quel tipo di apertura all’incontro con l’altro e di comprensione dell’essenza del suo modo di essere nel mondo che sono l’elemento fondante della psicopatologia fenomenologica è apparso come una deviazione rispetto ai capisaldi della sua identità. In questo senso non sorprende che la psicoanalisi abbia mantenuto un atteggiamento guardingo verso una disciplina che porta l’attenzione sul vissuto conscio-preconscio e abbia aderito rigorosamente al mandato iscritto nelle sue origini tenendo ben saldo il timone sul suo oggetto specifico: l’inconscio. Al quale in prima e esclusiva istanza rivolge lo strumento atto a rivelarne il significato: l’interpretazione. Indugiare su altri aspetti, portarli da un ruolo di contorno a un ruolo di 7 primo piano, si configura per chi tutela quel mandato come un perdere la bussola che guida verso l’inconscio; farsi distrarre, o tentare, dalla comprensione empatica, significa finire fuori strada rispetto al proprio compito specifico. Perciò soffermarsi sulla dimensione del vissuto appare come un rischio, una tentazione: di «tentazione fenomenologica della psicoanalisi» ha parlato uno dei più importanti psicoanalisti francesi, A. Green: «Che cosa intende Green con questo termine? Si riferisce alla messa in crisi di quell’assetto metodologico e tecnico per il quale Freud aveva ritenuto che fosse esigenza imprescindibile della psicoanalisi non lasciarsi catturare nella trappola del vissuto» (ibid., 1016). Lo spostamento dell’attenzione sul vissuto e sull’esperienza emozionale, in cui la dimensione del conscio prevale su quella dell’inconscio, rischia di far precipitare l’analista e l’analisi verso il soggettivismo, prestando il fianco alla critica e estromettendo la psicoanalisi dal novero delle discipline che adottano un metodo scientifico (ibid., 1016). Il vissuto è insomma una trappola da cui non lasciarsi catturare, pena lo snaturamento del metodo psicoanalitico e il sacrificio dell’analisi all’empatia fenomenologica (ibid., 1017). Per una psicoanalisi fedele seguace del dettato freudiano indugiare sul vissuto è una «tentazione», una «trappola»: è qualcosa che attrae e al contempo inganna, qualcosa a cui si può rischiare di dedicare troppa attenzione. In sostanza è come se si temesse che la comprensione del vissuto, che pure è parte ineliminabile della relazione psicoterapeutica, allontanasse dal lavoro analitico vero e proprio, quello diretto a scoprire le cause inconsce del conflitto. E tuttavia, nel concreto della pratica clinica, gli psicoanalisti hanno sempre prestato molta attenzione alla comprensione del vissuto – un’attenzione maggiore di quanto la teoria della tecnica prevedesse e prescrivesse; un’attenzione che è diventata ancora maggiore, oltre che espressamente dichiarata, nei trattamenti dei casi più gravi e, in generale, negli sviluppi psicoanalitici post-classici, dove hanno preso forma i nuovi stili interpretativi: «I cosiddetti nuovi stili interpretativi in psicoanalisi non sono forse il migliore esempio del fatto che una “tentazione” fenomenologica ha già pervaso la psicoanalisi?» dice Rossi Monti (ibid., 1017). È dunque quando entra in crisi il primato dell’interpretazione che diventa possibile portare in primo piano ciò che fino ad allora la tecnica aveva trattato come aspetti di sfondo o di contorno. È come se i cambiamenti avvenuti nella stanza d’analisi – lo spostamento di interesse sull’area della relazione, sugli interventi non-interpretativi, sulla dimensione narrativa, sulla sintonizzazione empatica – nel dare sempre più valore all’ascolto partecipe della condizione esistenziale dell’altro avessero portato in primo piano quella dimensione del vissuto che è fondante per la psicopatologia fenomenologica. Come leggere questa contiguità fra le due discipline, la psicoanalisi e la psicopatologia fenomenologica, che storicamente si sono tenute a distanza l’una dall’altra, nutrendo talora anche una reciproca diffidenza? Si tratta di una consonanza casuale e senza particolare significato oppure di una contaminazione fra discipline che solo un’accurata ricognizione storica dei concetti psicoanalitici potrebbe testimoniare? (Una ricognizione di questo tipo è stata proposta da Rossi 8 Monti stesso in un testo del 2006 dedicato alle innovazioni introdotte da P. Heimann nel modo di concepire il controtransfert negli stessi anni in cui Rümke, uno psicoanalista e psichiatra a orientamento fenomenologico, sottolineava la funzione cruciale svolta dai sentimenti del clinico come strumento per la diagnosi). Quello che è certo è che certi modi di pensare e di agire riemergono: «… perché la specificità dell’oggetto di studio impone, alla fine, proprio quella via di approccio, in un processo di carattere simil-darwiniano. Si torna così a scoprire, in forma nuova, cose vecchie. Ma di cosa si tratta? Dei progressi della psicoanalisi? Senza dubbio. Di contaminazioni con altre discipline? Anche, in forma diretta o attraverso la riemergenza di concetti che continuano a mostrare la loro validità anche in contesti differenti da quelli in cui sono nati. Poco importa che molti psicoanalisti facciano un uso diverso della interpretazione nelle patologie gravi e privilegino l’attenzione ai vissuti consapevoli perché sono venuti a conoscenza dei contributi della psicopatologia fenomenologica o perché è sembrato loro di “scoprire” che con quel tipo di pazienti non si può fare diversamente, che è necessario incontrarli lì, sul piano del loro vissuti, almeno in prima istanza. Quella che allora Green considerava una pericolosa deriva, una “tentazione” dalla quale guardarsi, pena lo snaturamento del metodo, diventa in questo caso un elemento capace di guidare l’esplorazione psicoanalitica in territori altrimenti di difficile accesso» (ibid., 1024). 6. Profondità e superfici Con una semplificazione giustificata dall’esigenza di riassumere quanto detto fin qui, con l’espressione «comprensione del vissuto» si può designare in senso lato l’area della situazione analitica diversa da quella trattata con l’interpretazione, e cioè non finalizzata direttamente a tradurre l’inconscio nella lingua della coscienza. È un’area che ha assunto un ruolo di maggior rilievo nella psicoanalisi contemporanea per vari ordini di motivi: innanzi tutto per l’esigenza di adattare il metodo psicoanalitico a tipi di patologie e di funzionamento mentale che non beneficiano di interventi interpretativi; secondariamente perché si sono affinati gli strumenti clinici con i quali avvicinarsi a aree mentali che non vengono raggiunte dalle interpretazioni finalizzate alla decifrazione dell’inconscio; e infine perché nei modelli teorici-clinici si sono innestate concezioni dell’inconscio e dello sviluppo mentale diverse dall’originaria metapsicologia freudiana. In un ulteriore esigenza riassuntiva, si potrebbero rappresentare queste due dimensioni con la metafora della verticalità – orizzontalità: mentre l’inconscio classico è ritagliato sulla metafora spaziale della verticalità (Bohleber, 2011), in quanto rimanda a un serbatoio di desideri pulsionali e di fantasie inconsce che stanno sotto, in profondità, l’«orizzontale» rimanda a qualcosa che sta «accanto» o «fra» (… piuttosto che «sotto»), che sta cioè negli interstizi della coscienza, nelle interconnessioni fra le persone: come ad esempio la «conoscenza relazionale implicita» (LyonsRuth K., 1998) o l’«inter-psichico» (Bolognini, 2008a, 74 e sgg.) o il «pensiero onirico della veglia» (Ferro, 2002). Nella misura in cui una parte significativa del lavoro analitico si allontana dalla direttrice interpretazione versus insight, ossia dal «portare alla coscienza» inteso come approdo finale di un processo conoscitivo di contenuti e processi mentali a cui il soggetto oppone resistenza, si pongono alcune domande: in quale dinamica si sostanzia questo diverso aspetto del processo terapeutico? 9 Quali sono le trasformazioni che persegue? Quale ruolo gioca la coscienza (la coscienza intesa come capacità di insight) in tali processi trasformativi? Certamente la coscienza intesa come «prendere coscienza di» non è in primo piano. Ciò che conta è piuttosto la capacità di evocare esperienze trasformative, che permettano a emozioni disperse di trovare una via espressiva: l’importanza dell’esprimere è pari, se non superiore, a quella del «prendere coscienza». La dimensione «trasformativa» è massimamente valorizzata rispetto a quella «interpretativa» nella versione narrativista del pensiero bioniano, come ad esempio, qui in Italia, quella di N. Ferro e della sua scuola: «Oltre al sogno della notte, la nostra mente produce continuamente grazie alla funzione, una continua operazione di alfabetizzazione di tutti gli stimoli sensoriali, protoemotivi che ci arrivano. Il punto di arrivo di questa operazione è la formazione di elementi che messi in sequenza producono per l’appunto il sogno dello stato di veglia. […] Ciò sposta l’attenzione dello psicoanalista dai contenuti a ciò che genera il sogno stesso. Non è più in gioco un’analisi che guarda a togliere il velo dalla rimozione o ad accostare le scissioni, è una psicoanalisi che guarda allo sviluppo degli strumenti, direi dei tools che consentono lo sviluppo e la produzione stessa del pensiero, cioè gli apparati per sognare e per pensare» (Ferro et al., 2007, 21-22). «Il luogo specifico della cura diviene la funzione della mente dell’analista; ma si potrebbe dire a questo punto, la funzionedel sistema costituito dalla diade paziente-analista […] cui essi contribuiscono in misura diversa. […] Per casting in analisi intendo (con Ferro, cui si deve la prima formulazione di questo concetto, 2007) il fatto di individuare una figura del discorso dell’analisi come attore e assegnargli il compito di veicolare una certa emozione che svolge la funzione nodale ma non riconosciuta nelle trame di vita del paziente e nella relazione terapeutica» (Civitarese, 2011b, 76). È evidente come in questo approccio l’idea di trasformazione divenga centrale e assorba in larga misura quella di interpretazione. Lo spiega bene C. Neri, un altro bioniano: «Sciogliere le emozioni in narrazioni significa operare una trasformazione attraverso cui emozioni e vissuti troppo addensati vengono espressi in parole, scene e narrazioni. La messa in parole di scene e narrazioni […] non coincide con l’interpretazione classica, ma piuttosto ne rappresenta un precursore o un sostituto. Essa è caratterizzata dal fatto di essere, per alcuni aspetti (spontaneità, immediatezza, vicinanza alla dimensione del preconscio), simile ad una libera associazione ed è caratterizzata, inoltre, dalla forma narrativa e per immagini; […] l’emergere e l’esprimersi di nuove forme di sentimento è fondamentale nel processo di conoscenza che si attua in analisi» (Neri, 2010). Una finalità analoga – che l’analisi debba primariamente favorire il contatto con quanto è indicibile, impensabile e inimmaginabile – emerge dalla prospettiva di un seguace di tutt’altra scuola, che dichiara fin dal titolo del suo scritto quale sia la direzione da prendere: «Contro il capire: perché capire non dovrebbe esser visto come un obiettivo essenziale del trattamento psicoanalitico» (Fink, 2010). 10 «Capire», vedere «cosa c’è sotto»: anche se in proporzioni diverse nei vari filoni del pensiero psicoanalitico, questa meta analitica è andata progressivamente riducendosi, mettendo in evidenza, come rileva Eagle: «una crescente disgiunzione fra la psicoanalisi e la “visione illuministica”, così come si manifesta nel rilievo sempre minore assegnato al valore terapeutico dell’interpretazione, dell’insight e della conoscenza di sé, […] e nel crescente scetticismo nei confronti anche solo della possibilità di scoprire le verità sul paziente» (Eagle, 2011, 1099). La meta da perseguire sembra essere innanzi tutto intercettare le esigenze evolutive, i movimenti di crescita e le potenzialità inespresse di un soggetto che alberga dentro di sé potenzialità di cambiamento che hanno bisogno di un ambiente appropriato e di qualcuno che ne faciliti la realizzazione: l’altro, l’analista, è un facilitatore, non un «lettore di menti», un «rivelatore di verità». Ciò viene promosso non tanto da un lavoro di scavo alla ricerca di verità occultate nell’inconscio quanto dall’attivazione di una funzione narrativa e dal praticare una modalità di pensiero associativo (Ponsi, 2012). È lo sviluppo di questa capacità di raccontare e raccontarsi che, al di là di quanto viene via via compreso di sé e della propria storia, alimenta il processo di soggettivazione (Civitarese, 2011b, 50; Ferruta, 2008, 912). La meta è imparare a nuotare, come dice Bolognini in una felice metafora in cui paragona il paziente che intraprende un’analisi a un individuo che, stando in spiaggia, non ha mai messo un piede in acqua. Entrare in acqua, lasciarsi andare, fidarsi di poter galleggiare con l’assistenza di un istruttore gli consente di giungere a una certa confidenza con la praticabilità del mezzo acquatico. Se il corso ha successo, l’allievo dopo un po’ è in grado di nuotare, di immergersi e di esplorare l’ambiente subacqueo. Non tutti scenderanno alle stesse profondità, osserva Bolognini, e comunque nessuno potrà, senza attrezzature particolari, penetrare nell’inconscio profondo, peraltro inaccessibile esperienzialmente e in presa diretta (Bolognini, 2008b, 45); ma tutti potranno fare l’esperienza della complessità e profondità del mondo interno e acquisire la capacità di muoversi in quell’area di sé, né propriamente esclusa dalla coscienza né ad essa del tutto estranea, che Freud aveva chiamato preconscio (Filippini & Ponsi, 1992) e sulla quale Bolognini ha a più riprese portato l’attenzione: «la familiarizzazione con il preconscio è una meta fondamentale dell’analisi» (Bolognini, 2008b, 44). La capacità di «nuotare» nel preconscio, di addentrarsi in zone situate nella penombra della coscienza e di acquisire familiarità con questi percorsi, prospetta un’attività della coscienza che si svolge in orizzontale più che in verticale, in aree di superficie più che negli abissi, per penetrare nei quali bisogna essere talmente equipaggiati di strumenti idonei all’immersione – fuori di metafora: di ipotesi, inferenze, teorie – che la possibilità di farne un’esperienza libera e piena, non troppo condizionata da quell’equipaggiamento teorico, è fortemente limitata. Concludendo, si può allora dire che l’inconscio rimosso, l’inconscio «metapsicologico», l’inconscio freudiano per eccellenza, è oggi diventato un oggetto privo di referente? Nella misura in cui la pratica di «portare alla coscienza l’inconscio» cade in disuso, sì, si può dire che quell’inconscio diventa un oggetto privo di referente. In realtà l’inconscio per il quale è appropriata 11 l’espressione di «portare alla coscienza l’inconscio» non scompare nella gran parte dei trattamenti analitici odierni: semplicemente gli viene destinato un posto assai meno privilegiato che nel passato perché altre sono le formazioni inconsce che occupano la scena dell’osservazione clinica e delle ricerche scientifiche. SINTESI Fin dalla sua fondazione il legame fra conoscenza e cura ha qualificato la psicoanalisi come la psicoterapia per eccellenza che fa di un’esperienza conoscitiva una trasformazione terapeutica: rendere cosciente l’inconscio è tanto un percorso di auto-conoscenza quanto la condizione fondamentale per liberarsi della sofferenza psichica. Nella psicoanalisi contemporanea il legame fra conoscenza e efficacia terapeutica si è allentato: ai fini del cambiamento viene dato più rilievo alle vicende relative alla relazione analitica che alla classica coppia interpretazione-insight. A questa nuova prospettiva hanno contribuito sia l’esperienza clinica con patologie in cui prevalgono aree mentali inconsce non rappresentabili alla coscienza sia i dati sul funzionamento mentale inconscio acquisiti dalle discipline neuroscientifiche. PAROLE CHIAVE: Coscienza, inconscio, fattori terapeutici, insight, interpretazione, vissuto. BIBLIOGRAFIA Barnà C.A. (2007). L’inconscio tra natura e cultura. Psiche 1, 51-68. Bastianini, T. & Moccia, G. (2003). Riflessioni sulle attuali evoluzioni dei concetti di affetto, memoria e azione terapeutica. Riv. Psicoanal., 49, 529-549. Berlin H.A. (2011). The neural basis of the dynamic unconscious. Neuropsychoanalysis, 13, 5-31. Bezoari M. & Ferro A. (1989). Ascolto, interpretazioni e funzioni trasformative nel dialogo analitico. Riv. Psicoanal., 35, 1015-1051. Bohleber, W., (2011). Alcune considerazioni sul concetto di inconscio. Riv. Psicoanal., 57, 389-394. Bolognini S. (2008a). L’intrapsichico e l’interpsichico. Cap. 4. 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