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inchiostro - Suor Orsola Benincasa

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inchiostro - Suor Orsola Benincasa
La volgarità è un’emergenza nazionale. Come un terremoto, come un’alluvione
È emergenza turpiloquio, alla stregua di
alluvioni, terremoti e calamità naturali di
vario genere. Parolacce a briglia sciolta
nella politica, nello sport, nel cinema, nella letteratura, con un frequente richiamo
alla comicità e con una comicità che non
sa farne a meno.
Beppe Grillo esordì in politica con il “Vaffa-day” e il famoso “vecchia baldracca” al
premio Nobel Rita Levi Montalcini. Qualche giorno fa il suo parlamentare a Cinque Stelle Massimo De Rosa ha
pronunciato la frase dello scandalo rivolta alle deputate PD: “Siete
qui solo perché fate pompini!”.
Il lessico leghista, naturaliter, è
infarcito di frasi turpi. Renato Brunetta è il “nano di Venezia che rompe i
coglioni” e Pier Luigi Bersani “si prepari
a farsi infilzare le chiappe dallo spadone
della Lega…”
Lo stesso accade nello sport. Il calciatore
palermitano Michel Morganella tweetta:
“Voglio abbattere tutti i coreani, andate a
darvi fuoco, banda di mongoloidi!”.
È del cantautore Franco Battiato la storica frase pronunciata al Parlamento europeo di Bruxelles, nelle vesti di assessore
Valentina Trifiletti CONTINUA A PAG. 4
3 marzo
2014
anno
XIV
n. 3
Periodico a cura della Scuola di giornalismo diretta da Paolo Mieli nell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli | www.inchiostronline.it
Anche i “buoni”
dicono parolacce
di Lorenzo Ena
con Paolo Mieli
“Non c’è un ragionamento
sul turpiloquio se non partiamo dall’analisi del momento in cui
l’abbiamo usato. È un inganno dire
che quelli che non ci piacciono sono
inclini al turpiloquio”. Per Paolo Mieli è
semplice scandalizzarsi del linguaggio
volgare usato da chi ci sta antipatico.
Una parolaccia detta da chi ci piace,
dai cosiddetti “buoni”, susciterebbe lo
stesso scalpore nei nostri confronti?
Mieli ha risposto alle domande dei
praticanti della Scuola di giornalismo
di Napoli, durante un incontro nella biblioteca Pagliara dell’Università Suor
Orsola Benincasa. Dal dibattito sono
emerse riflessioni inedite sul tema
del turpiloquio; un fenomeno che è
sempre esistito ma che nessuno ha
mai analizzato così a fondo come in
questo periodo. Lo storico ha cercato
di fare luce sul tema attraverso il suo
pensiero “fuori dal coro”.
È corretto usare il turpiloquio
nell’informazione? Da quando esiste il giornalista “volgare”?
Il giornalista aggressivo che parla
chiaro, che dice pane al pane e vino
al vino, che va in televisione e provoca una scazzottata o un
incidente, è generalmente
apprezzato dal pubblico.
Non demistifichiamo mai
questo tipo di giornalista.
Quando si tratta di attaccare i “cattivi”, i giornali usano parole
più forti che sconfinano nel turpiloquio. Il modo diretto, brutale, battagliero e irrisorio nei confronti di un
interlocutore è stigmatizzato da tutti
a parole, ma poi viene premiato nei
fatti. Il turpiloquio rivolto ai cosiddetti cattivi passa in cavalleria, mentre
non ci piace quando è usato contro i
“buoni”, quelli che ci stanno simpatici.
Bisognerebbe piuttosto comprendere
quando i buoni hanno usato parole forti o turpi. L’arma
della parolaccia
dovrebbe farci REPORTAGE
effetto
anche I giovani Holden
quando la usa- nei licei di Napoli:
no i nostri e non il Serra (pubblico)
e il Pontano (privato)
solo gli altri.
I talk show e i Cordisco e De Luca
social network a pag. 3
favoriscono la
diffusione del
turpiloquio nella società?
Certo e c’è anche molta ipocrisia in
questi ambienti.
CONTINUA A PAG .16
Ho cominciato io
Toscani “Ma l’ho coperto
con un paio di short”
In principio fu
il culo. Coperto
da un paio di
shorts di jeans
marca Jesus e
accompagnato da una frase
del Vangelo di
1978
Matteo: “Chi mi
ama mi segua”.
Così nacque il
manifesto che
ha cambiato l’Italia, il turpiloquio di una
generazione in rivolta che accostava il
diavolo e l’acquasanta infischiandosi di
incappare nella bestemmia e di attirarsi
le critiche di una società puritana. L’immagine portava la firma di Oliviero Toscani: lui, l’eretico per eccellenza, il primo a
sdoganare il turpe e a innalzarlo sull’altare
dell’arte contemporanea. Quella che non
ha paura di sfruttare espressioni volgari e
immagini ai limiti dell’orripilante per pensare e, soprattutto, far pensare.
Ciriaco M. Viggiano CONTINUA A PAG. 2
Sgarbi “Mi disse asino
E io: stronza. Era vero”
La malaparola
è già malavita
di Anna Dichiarante
con Roberto Saviano
“Si insulta per delegittimare, si insulta per sottrarre
autorevolezza. Si insulta per mancanza di argomenti. Si insulta quando non
si ha nulla da dire. Si insulta per riempire vuoti”. È lucido e appassionato
nell’analisi, come sempre, Roberto
Saviano; in tema di turpiloquio e cultura dell’insulto ha molto da dire perché
ne è stato spesso oggetto e bersaglio,
perché - altrettanto spesso - ha difeso
chi in Italia è stato preso di mira da
gratuite campagne di denigrazione.
Dall’insulto alla delegittimazione il
passo è breve. E dalle accuse reiterate nasce il fango.
Molto è cambiato nell’uso del turpiloquio. L’insulto - che talvolta contempla
anche l’uso disinvolto del turpiloquio
- ormai ha il solo obiettivo di generare confusione, di creare uno stato di
perenne ansia legato al fatto che non
essere sarcastici, non essere offensivi, non denigrare, equivale su determinate piattaforme a non esistere o
a essere meno autorevoli. Le star per
antonomasia sul web, e di rimando in
alcuni ambiti della società civile, sono
sempre più spesso personaggi la cui
cifra è il sarcasmo. La pars destruens
Rossella Grasso CONTINUA A PAG. 2
ha ormai preso a occupare lo spazio
di tutto, anche di quella che, tempo fa,
sarebbe stata la parte propositiva. Il fine non è più la
palingenesi, non si distrugge per costruire meglio,
ma per regnare sulle maA PAG. 4
cerie.
Le organizzazioni mafiose usano il turpiloquio? A chi rivolgono insulti? Anche parole non
insultanti possono avere un senso
distorto?
L’insulto, le organizzazioni criminali,
lo usano per mandare avvertimenti. In
genere non è reiterato, ma lapidario,
conciso: pagliaccio, burattino nelle
mani delle procure, inventore di storie,
copione, denigratore. Sono tutti epiteti che servono a creare il vuoto attorno
a chi racconta e denuncia. Nella mia
“Sei contento di questo sciopero?” “ ‘A
esperienza persofacc ro cazz”- rispondeva ai micronale mi è capitato
foni di un giornalista il bambino naINTERVISTA
di ricevere insulti
non solo da cripoletano divenuto una celebrità di
minali, ma anche
Renzo Arbore
YouTube.
da politici, registi,
e l’educazione
Dietro l’espressione di colore, che ha
scrittori, giornalidel
doppiosenso
regalato al ragazzino più di un milione
sti, da gente codi visualizzazioni, c’è quella che per i
mune di qualsiasi
estrazione socialinguisti va sotto il nome di inversione Fasano a pag. 12
le e di qualsiasi
semantica. Più semplicemente una
colore politico. Prendere posizione
parola volgare o un termine ritenuto offencontro le organizzazioni criminali non
sivo dalla morale comune che si rovescia
è semplice e non è la reazione più imnel suo contrario a seconda del contesto.
mediata.
Lei è stato il
primo a pronunciare una
parolaccia in tv
al Maurizio Costanzo Show
nel 1989.
C’era una preside che aveva
scritto poesie.
Mentre le leggeva avevo fatto qualche smorfia. Raimondo Vianello disse: “Chiedi al dottor Sgarbi
cosa ne pensa”. Risposi che mi sembravano un po’ arcaiche, non riuscite. La signora mi diede dell’asino 5 volte. Replicai:
“Cavallo”. Al quinto “asino” le ho detto
“stronza”. Molti si divertirono, i suoi allievi
soprattutto; qualcun altro, come Beniamino Placido, mi disprezzò. Allo stesso
orario su Rai tre c’era un programma sulla
malavita. Si disse: “Sgarbi fa più notizia
della mafia”. Mi comportavo in tv come
nella vita. Questo mi ha portato la popolarità straordinaria di cui godo.
Eugenio Scalfari Le ‘parole grosse’
ormai entrate nella lingua corrente
Giuliano Ferrara La sola porcheria
è parlare e scrivere male in italiano
R.G. A PAG. 5
Cornuto non ci offende più
La velocità della comunicazione e i cambiamenti dei significati delle cose hanno
come conseguenza anche i cambiamenti
nelle espressioni volgari. Di seguito insulti
non più offensivi: cornuto, in culo alla
balena, vulva, figlio di puttana, cortigiana, minchia, ruffiana, pederasta,
sodomita, pernacchia, fesso, cesso,
mignotta, bastardo, rompiscatole.
Questa parole presto faranno con ogni
probabilità la fine delle seguenti già in
disuso o morte: bagascia, bagasso,
bifolco, bufolone, beota, capre staccio, feccioso, filibustiere, ghiotto, figuro, leccone, lestofante, mammalucco,
manigoldo, pappatore, pitocco, salamista, scrofaccia, sicofante, bagaglione,
traditore, villan fottuto.
Simone Giannatiempo
Figlio di p...
è l’elogio migliore
Paola Marano CONTINUA A PAG .8
CONTINUA A PAG. 4
Ho cominciato io Intervista doppia a Vittorio Sgarbi e Oliviero Toscani
L’arte della
Tanti grillini
tanti sgarbini provocazione
Critico d’arte e polemista, Vittorio Sgarbi
è una delle pietre miliari dell’insulto all’italiana. Protagonista di controversie con
personaggi noti, tra cui Alessandra Mussolini, Antonio Di Pietro, Roberto Benigni
e altri. Su Wikipedia ne sono
elencati solo 35. Dopo aver
dato a Travaglio del “pezzo di
merda puro” e subito dopo,
per “scusarsi” gli aveva detto
“Mi correggo. Travaglio non è
un pezzo di merda. È una merda tutta intera“, querelato, si giustifica
dicendo che l’insulto non è offensivo ma
porta pubblicità a Travaglio. Secondo lui,
grazie all’insulto il giornalista ne aveva
avuto pubblicità indiretta. Inoltre secondo Sgarbi la parola “merda” è una cosa
positiva: “Può essere utilizzata per descrivere gli escrementi animali utilizzabili
anche in senso positivo quale concime”.
Quindi secondo lei il pubblico apprezzò la sua sincerità in televisione?
Può darsi che non sia piaciuto.
A quelli che allora mi rimproverarono per aver detto parolacce
in televisione, ed ero di cattivo
esempio per i bambini, io rispondevo che se i bambini non
conoscevano la parolaccia, per
esempio “finocchio”, non avrebbero capito di cosa stavo parlando, se le
avessero già conosciute non ci sarebbe
stato alcun danno. Il problema è capire
in quale ambito tu diventi negativo.
Un precursore?
Mi pare che quel linguaggio fosse già
stato sdoganato soprattutto da Pasolini
e da Antonio Delfini in “Poesie alla fine
del mondo”, negli anni ’50 definì la sua
donna “stronza nefasta”. Io quindi potevo legittimare la mia parola citando la
fonte poetica. Poi anche il cinema era
già arrivato alle parolacce senza essere
vietato ai minori di 14 anni. I costumi generali erano quelli che io rappresentavo.
E la televisione?
Era un po’ in ritardo. Il galateo era quello
dei Pippo Baudo e dei Mike Buongiorno.
Una volta Mike Buongiorno disse una
parolaccia con me, mentre facevamo un
programma, ma gli stava male perché
non era adatta al suo abito e alla sua età.
Era normale nella vita quotidiana, lo diventò anche nella televisione.
È stato definito “ultimo futurista italiano” per l’abitudine alla “scazzottata”
televisiva.
È una cosa che mi piace. Il futurismo è
stato un movimento culturale importante
e con provocazioni verbali che avevano
dignità estetica.
In che senso dignità estetica?
Pretendo che le mie parolacce abbiano
la stessa dignità che hanno nei romanzi di Pasolini. Se io dico “arrabbiato”, è
meno forte di “incazzato”, se dico “cazzo” è un’esclamazione più forte di “chiribbio!”, se dico “stronza” ha la capacità
di rottura più forte che se dico “cretina!”.
“Stronzo” è una parola che ripete
spesso…
Tutto sommato “stronzo” è una denominazione molto strana che si può coniugare anche al femminile e che non fa
riferimento alla cosa, allo “stronzo”, ma
fa riferimento a un atteggiamento umano generalmente di chi ha potere. Quindi non è un insulto. Se uno non è uno
“stronzo” non è nessuno. Lo “stronzo”
è qualcuno che occasionalmente, e non
in tutta la sua vita, manifesta il suo po-
INCHIOSTRO N. 3
tere su un altro, cioè “stronzo” è quello
che fa gli interessi propri e il danno altrui.
Per cui è “stronzo” il datore di lavoro, il
professore, il preside. Se fanno qualcosa che diventa per te mortificante, sono
stronzi. Quindi la parola “stronzo”
ha un connotato che va separato da
un insulto umiliante perché connota
i poteri di un
altro su di te.
Questa è una
teoria dimostrabile che io ho
elaborato per dire
che nella parola “stronzo” c’è
qualcosa di diverso dalla parolaccia
umiliante
come
“coglione”
che
significa uno che
non conta nulla.
Invece “stronzo” è
uno che ha
una forza a
cui tu reagisci dandogli
dello “stronzo”.
Quando è giusto usare il turpiloquio?
Non c’è un momento in cui è giusto o
sbagliato. Il turpiloquio ha senso solo se
lo si usa di istinto. Io parlo un linguaggio
molto sofisticato e potrei assolutamente bandire le parolacce. Io parlo come la
carta stampata, ma se qualcuno mi interrompe in televisione, mi impedisce di
argomentare o dice una sciocchezza, a
quel punto la mia reazione può scattare.
Se mi impedisci di fare un ragionamento
compiuto ti dico quello che ti meriti: mi
abbasso al tuo livello e ti dico la parolaccia che ti meriti. La parolaccia scappa
come un’emergenza. Posso anche fare
un’intera conferenza senza dire una parolaccia ma se uno alla fine dice qualcosa che ritengo improbabile, sbagliato
o provocatorio, io rispondo a tono mandandolo non al diavolo ma “a cagare”.
Secondo lei è più facile usare il turpiloquio o l’eloquio?
Per me è facile usare entrambe e l’eloquio mi diverte di più. Poi sono sempre
pronto anche al turpiloquio e questo mi
piace.
Qual è l’insulto che ha fatto che le ha
dato più soddisfazione?
Certamente il primo, il più combattivo. Quello che ha avuto
una popolarità sterminata è stato quando ho gridato “capra!”
ad Aldo Busi. È diventato un insulto comico, e i giovani che se
lo lanciano a vicenda. Lui faceva il vanitoso, diceva di essere
artefice della propria fortuna, un
sacco di cretinate insensate. Io
ero stato zitto ad ascoltare e a
un certo punto gli ho detto “capra!” 13 volte. Adesso se mi incontrano per strada mi chiedono di dire “capra!”. Se il primo
insulto che ho fatto in tv ha determinato una rottura, quello ha determinato una ricucitura con il pubblico. In tv
tutti hanno un ruolo. Io sono un polemista e la mia parola distintiva è “capra!”.
Un po’ come per Mike Buongiorno era
“allegria”. Ci sono persone come Pippo
Baudo che non hanno una loro parola e
passano inosservati. Così di loro non ri-
Perché “la provocazione è la parte positiva dell’arte: mette in discussione, fa
capire, cambiare idea, aumenta la cultura, mette in moto cuore, sensibilità e
cervello”. È da qui che sono scaturiti il
suo lungo turpiloquio con l’arte e
le sue campagne più famose. Ma
due bambini nudi, il maschietto
presentato come
“carnefice”
e
la
femminuccia
come “vittima”,
rappresentano un elogio
del turpe o una provocazione intelligente? “Una
foto azzeccata, perché
tutto inizia da lì: la violenza sulle donne nasce
dall’educazione impartita
ai bambini e a quella forma mentis per cui il figlio
sciupafemmine è un motivo di vanto, mentre la ragazza mangiauomini è una
puttana – continua
Oliviero Toscani –
I maltrattamenti nascono da una
mentalità della nonna su cui si innestano l’educazione scolastica e
gli scempi dei mezzi di informazione”.
Per il fotografo più geniale (e più discusso) d’Italia, le immagini forti sono un valore aggiunto: “L’arte diventa mediocre
nel momento in cui sceglie di fermarsi al
culto dei colori, delle forme e dell’estetica – aggiunge Toscani – La vera arte è
quella che immagina la condizione umana, comunica pensieri e stati d’animo, ti
dà la chiave per entrare in luoghi ai quali
altrimenti non avresti accesso. D’altra
parte, Michelangelo Buonarroti scolpì la
Pietà perché seppe ricercare la bellezza
mane niente….
A lei piace essere ricordato perché ha
detto 13 volte “capra!” a Busi?
No, non mi piace. Preferirei essere ricordato per moltissime altre cose, ma la memoria è una sintesi, per cui ognuno è legato a qualcosa. Però se mi dicono “capra!”
per strada io rispondo affettuosamente, è
come un gioco di società, una parola d’ordine… e di questo prendo atto.
Qual è l’insulto più brutto che ha ricevuto?
Difficile a dirsi…ovviamente avendone fatti tanti ne ho avuti altrettanti…e ne prendo
atto. Però non mi sono mai offeso.
Però ha querelato…
Per autodifesa, non perché offeso.
La “scazzottata” in tv più bella che ri-
nella tragedia”. E il “turpiloquio” delle
fotografie che ritraevano una modella
dilaniata dall’anoressia? Un modo per
sbattere in faccia la mercificazione del
corpo femminile sia all’opinione pubblica contemporanea, per la quale
“magro è bello”, sia al mondo della moda, che divora ragazze sacrificandole sull’atroce altare della
sofferenza. “Le indossatrici sono
sempre più brutte, agli stilisti interessa soltanto che siano funzionali
a sfilate e linee di abbigliamento perché
un vestito si nota di più su un corpo
inesistente – continua Oliviero Toscani
– Quella immagine è turpiloquio? Mi ha
consentito di dire basta a una violenza
fisica che massacra corpi solo per rendere gli abiti più vendibili”. E pazienza se
i soliti benpensanti hanno storto il naso,
imputandogli di fregarsene dei malati di
anoressia e di bulimia. O, peggio ancora,
di sfruttare drammi umani a fini
commerciali. Perché, con quella
immagine, l’eretico Toscani ha
fatto saltare il banco e spianato
la strada a una riflessione sulla
condizione delle donne non solo
nel mondo della moda, ma anche in Italia e nell’intero mondo
occidentale. Quello che s’indigna se una
donna araba indossa il burqa o il chador,
salvo poi imporre alle ragazze di essere
avvenenti, scosciate e disinibite. Insomma, senza il gusto per la provocazione
spinta e l’eterna vocazione a fare pipì
nell’acquasantiera, Oliviero Toscani non
sarebbe Oliviero Toscani ma solo uno dei
tanti asini che pretendono di correre più
veloce dei cavalli: “Si diventa qualcuno
solo se si capaci di essere se stessi fino
in fondo”.
Ciriaco M. Viggiano
corda?
Ne ho fatte tante…quella con Busi e certamente quella con Cecchi Paone.
Si è mai pentito di aver insultato qualcuno?
No, perché se l’ho insultato se lo meritava
sicuramente. A volte ho valutato la fragilità e la debolezza del mio interlocutore e
l’ho commiserato, mai pentito. Cioè a volte la mia violenza arrivava contro chi non
ne meritava così tanta, ma magari un pochino di meno. Non che non fosse giusto
insultarlo. Difficilmente io ho reazioni che
non siano razionalmente motivate e irrazionalmente espresse.
Cosa ne pensa delle “scazzottate” in
politica?
C’è molto di me. Questi comportamenti li
ho già inaugurati io…non potrei mai criticarli. La Boldrini mi sembra molto moralista anche su altre questioni, però è stata
direttamente offesa, quindi ha buona ragione di dolersene. Il comportamento dei
Cinque stelle è sgarbiano. C’è qualcuno
che mi ha scritto: “Tanti grillini, tanti sgarbini”. Certo uno può dire di essere d’accordo con loro o no, ma non mi sembra
che nel dire quelle cose ci sia molto di più
di uno sfogo che si altera in turpiloquio di
una posizione politica, morale, culturale,
di contrasto. Semplicemente hanno portato all’interno della Camera il linguaggio
di tutti i giorni, lontano dalla politica tradizionale.
Rossella Grasso
PAGINA 2
Reportage La lingua sporca del giovane Holden nei licei di Napoli, il Serra e il Pontano
I prof tra vaffa Il perbenismo
e premi-poesia dell’intervallo
I ragazzi sono ancora in classe, silenzio tra i corridoi ma se si apre la porta di un’aula si
sentono gli studenti urlare: “André, mocc a mammt, girati”; “Federica si na stronz”. Più
che una scuola sembra un mercato.
Marco, terza liceo, 17 anni, occhi azzurri, capelli ricci e biondi. Un viso da bambino angelico che i primi foruncoli e peli di barba stanno mutando in un volto da uomo. Tutt’altro che angelici i commenti quando gli viene chiesto se a scuola usi le parolacce o se
cerca di assumere un atteggiamento consono a un’istituzione. “Io alla professoressa la
chiamo zoccola – racconta – non proprio esplicitamente ma glielo faccio capire”. Con lo
sguardo furbetto racconta che ha coniato delle bestemmie per non farsi scoprire dalla
professoressa: “Uso O’BED che sta per O’ Bucchino E Dio. Oppure MAM che sta per
Mannaggia A Maronn ”.
Tutti i compagni che gli hanno fatto cerchio intorno ridono fragorosamente ed esclamano: “È vero! È vero”. Tutti ridono tranne uno, Lorenzo. Lui ha già i baffi, i capelli rasati
ai lati della testa e il giubbotto di pelle. Gioca a fare l’uomo forte, è evidente. “Uà certo
che uso molte parolacce anche quando mi rivolgo alle professoresse. Sempre mando
a fanculo le insegnanti, o gli dico mocc a chi t’è muort. Le professoresse a volte se le
tengono, altre volte ci mandano anche loro a fanculo”.
L’ “Antonio Serra” è un Istituto Statale arroccato tra i vicoli ripidi di Napoli, sul Corso
Vittorio Emanuele. Ai suoi piedi, la veduta più bella della città: il Vesuvio, il porto, il mare,
la Galleria Umberto I, il Maschio Angioino e le migliaia di case e palazzi e strade che
affollano il suolo partenopeo.
È una bella giornata di sole, una di quelle a cui i napoletani sono abituati ma che il maltempo continuo da settimane aveva fatto dimenticare. I raggi penetrano le finestre del
liceo Serra: “Una scuola molto antica”, racconta Angelo, il vicepreside. Per entrare bisogna usare un ingresso secondario, sfruttare le scale antincendio, perché sugli ingressi
principali campeggia il cartello: “Pericolo crolli”.
Le ragazze, invece, atteggiamento civettuolo, visi da bambine ma già ben truccate:
“Noi di parolacce non ne diciamo, almeno non alle prof. Tra noi, a volte, invece, capita.
Quando i nostri compagni le usano, gli facciamo i video, così poi li facciamo vedere alle
loro mamme che credono di avere bravi ragazzi per figli”. E le mamme? “Fanno delle
facce sconvolte, ci restano male per l’atteggiamento del figlio, specialmente la mamma
di Marco” dicono, ridendo fragorosamente. “Lei è un angelo, non le dice le male parole” dice Ciro rivolto a Fabiana, una bella quindicenne bionda che sorride, contenta del
complimento.
Al suono della campanella, oltre ai ragazzi, anche le prof lasciano l’istituto. “Gli alunni
usano le parolacce anche rivolte verso di noi” dice Mariella, un’insegnante che poco
prima era in sala professori a correggere i compiti. “In molti purtroppo non capiscono
neanche che certe parole sono parolacce - aggiunge – e noi a scuola cerchiamo di fare
il nostro dovere, ma non sempre è abbastanza”. Michela, la professoressa d’italiano, fa
un quadro chiaro della platea scolastica: “Questo istituto è frequentato da ragazzi che
vivono contesti difficili, è complicato insegnargli anche l’italiano. In casa sono abituati
a usare il napoletano e un linguaggio scurrile”. La prof ha trovato un modo originale per
“punire” i suoi allievi per il turpiloquio: “A chi dice una parolaccia, parlando tra di loro,
a volte li sgrido ma altre volte chiedo di fare ai compagni un regalo: una rima, un dono
poetico. Attraverso la poesia provo a fargli capire il valore delle parole, specialmente
quelle belle”.
Elisabetta de Luca
Capolavori in volgare
ED È SUBITO SERA
Ed è subito sega
Alle 13.45 suona la campanella dell’istituto Pontano di Napoli. I ragazzi escono.
C’è chi sale sulla macchina dei genitori,
chi accende il motorino, chi si ferma a
fumare una sigaretta. Alla domanda “tu
usi le parolacce a scuola?” Alessandro,
un ragazzo di quindici anni, risponde:
“No, mai successo. Cioè, in classe davanti ai professori mai”.
L’amico Marco si avvicina incuriosito, gli
allunga una mano sulla spalla e conferma: “Tra di noi a volte capita, ma solo
per scherzare. Siamo una classe molto
unita e anche quando litighiamo è difficile che ci prendiamo a parolacce”. Poi
si distrae perché ha altro a cui pensare:
“Oh! c’è quella gran figa di Luana!”.
Sara è una loro coetanea, stringe in
mano il vocabolario di latino ed è ancora più categorica: “Assolutamente no,
mai usate brutte parole in aula”. Rimane
quasi allibita quando le domando se i
docenti dicono parolacce. Nonostante il
tono resti convinto escono fuori i primi
sorrisi dubbiosi: “No, che io mi ricordi
non le ho mai sentite dire dai professori.
Nella mia classe sicuramente no, però
so che in altre è successo”.
“Non mi ricordo”, risponde Paola, diciassette anni, lanciando sguardi di
complicità all’amica. Intanto un gruppo
di ragazzi si allontana. Tenta di calmare
una donna che inveisce contro una signora anziana e che con il turpiloquio
sembra molto più a suo agio: “Come
cazzo si permette di dire che vuole bastonare il mio cane? Io sto qui per cazzi
miei, ho il cane al guinzaglio e lei vuole
fargli male?”. I ragazzi le ricordano che
non c’è bisogno di esprimersi così con
una signora anziana.
Gli adolescenti dell’istituto Pontano si
rivelano una sorpresa. La preside Silvia
Ummarino, signora discreta e presenza
elegante, avverte che, soprattutto tra i
più grandi, il fenomeno del turpiloquio
sta scemando e che sono i più piccoli a
utilizzare inconsciamente parole volgari.
“Noi – dice Vittoria della sezione C, seconda media – le usiamo tanto, però se
ci sono i professori le diciamo a bassa
voce, oppure facciamo qualche gesto
di nascosto”. “La parola che usiamo di
più è ‘cazzo’, le fanno eco due amiche
ridendo tra i denti. “E poi un’altra che
non si può dire”, continua Niccolò che
si aggiunge a tutti i costi per attirare l’attenzione. Giulia gli chiede qual è ma lui
perde improvvisamente coraggio e bisbiglia: “Quella, quella…dilla tu”. E anche l’imbarazzo si rivela una piacevole
sorpresa.
Lorenzo Patrone, professore di matematica e fisica, spiega che si tratta di un
ambiente più controllato dove la parolaccia resta relegata nei momenti ludici
dell’intervallo o nell’ora di educazione
fisica quando i ragazzi si sentono più liberi. “Regna una visione ipocrita – dice
– nel senso che si tratta di un ambiente
privato e selezionato che fa capo a una
certa borghesia napoletana. Ci sono
figli di professionisti, di aziende anche
importanti, che pagano una retta. Di
conseguenza i ragazzi tendono a esercitare quel controllo sulla forma che il
contesto famigliare e scolastico richiedono, ma è ovvio che fuori di qui ne dicono di tutti i colori”.
Fuori, è vero, non mancano comitive di
ragazzi che al contrario di altri si sbilanciano senza timori: “Certo che diciamo
parolacce, ‘cazzo’ e ‘vaffanculo’ soprattutto. Ma l’esperto è lui - indicano Filippo, capelli ricci e occhi chiari - lo chiamiamo Chiavata”. Tra le risate generali
Chiavata spiega perché, modestamente, con le donne riscuote un gran successo. “ ‘A fessa ‘a tene dint’a capa!” gli
dicono. E a quindici anni è comprensibile. Eppure il pudore sembra prevalere.
Sarebbe sensato attribuirlo al naturale
rispetto per un’istituzione che ha il compito di educare. Ma se si chiama in causa l’ipocrisia e il perbenismo di facciata
la domanda è: la vergogna per le brutte
parole è diventata talmente rara da non
poter essere reale? Un’altra sorpresa un
po’ meno piacevole.
Roberta Cordisco
Illustri ex allievi del Pontano
ILIADE
Cantami o Diva, di quel maschione di Achille le corna della Briseide che rotti addusse i coglioni agli Achei, molti prima del tempo alla Morte versò poveri sfigati
senza ambizioni da eroi, e di cani e di augelli schifoso pasto le loro carogne abbandonò (Così che Ade una bella pugnetta si tirò), da quando primamente azzeccaron
le teste il re dei froci Atride e il figlio di papà Achille. E qual di tante troie inimicolli?
DIVINA COMMEDIA
Nel mezzo del cesso di questa nostra vita
Mi ritrovai per una selva oscura
Ché perfino la dritta mazza mia si sentiva smarrita.
Ahi quanto a dir “Oh fica che era” è cosa dura
Esta selva selvaggia e aspra e forte
Che al mio genitale si rinnova la statura!
Franco Roberti
Mario Orfeo
Maurizio De Giovanni
Pappi Corsicato
AMLETO
Fottere o fottersi, questo il dilemma: se sia più nobile d’animo sopportare gli insulti,
i “sei un ricchione” e i “ma vai a fare in culo” di una iniqua puttana, o prender li
cazzi contro un mare di mazzi e combattendo sfondarli. Inculare, incularsi, nulla di
più, e davanti a un buco dirsi che tanto non ti si alza più, vomitevole retaggio della
carne, è soluzione da accogliere un’operazione che ti tiri un po’ su
I PROMESSI SPOSI
Quella merda del lago di Como, che puzza tutto il giorno, tra due catene non interrotte di letamai, tutto a scorie chimiche e monnezzai, a seconda dello sporgere
e del rientrare di quelli, vien su un lezzo, tra un promontorio a destra e un’ampia
costiera dall’altra parte; e la ruspa che ivi congiunge le due rive di spazzatura par
che renda ancor più sensibile al naso questo merdoso lezzo e segni il punto in cui il
lago diventa un vero cesso, e L’Adda ricomincia per ripigliar poi nome di lago dove
le rive, allontanandosi di nuovo, lascian la merda distendersi e rallentarsi tra nuove
scorie chimiche e monnezzai.
Chissà come parlavano ai tempi della scuola
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Fuga dalla La (mala)lingua
mediocrità delle emozioni
CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA
CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA
Chi è cresciuto a Napoli, Aversa, Caserta, Salerno, Casal di Principe, Secondigliano, non ce la fa più a vedere la
propria terra associata a fatti legati alle
organizzazioni criminali e ha spesso la
più comprensibile delle reazioni: prendersela con chi racconta, perché ancora una volta
racconta solo il male. La stanchezza deriva dalla
terribile constatazione che nonostante i libri, i film,
i servizi giornalistici, nulla negli anni è cambiato. Di
tanto in tanto il territorio viene militarizzato, ma poi
nulla cambia. A essere presenti, a garantire occupazione, guadagno e assistenza solo e sempre le
organizzazioni criminali. Chi vive al Nord e non ha
vissuto faide spesso ignora l’orrore dei morti innocenti, dei morti colpevoli. Insomma, chi non conosce l’orrore di una terra perennemente in guerra
penserà sempre che al fondo delle storie di mafia
ci sia qualcosa d’inventato, esagerato, finto. Almeno fino a quando le istituzioni non avranno l’onestà di ammettere che nel nostro Paese le uniche
“aziende” in attivo sono le organizzazioni criminali.
Abbiamo progressivamente assistito, senza essercene accorti, alla “camorrizzazione” della società
civile. Una società civile che ha finito con lo stare,
a sua insaputa, dalla parte delle organizzazioni criminali. Una società civile che insulta chi si oppone
alle mafie esattamente come farebbero i mafiosi. E
tutto questo senza sentirne il peso e la colpa. Tutto
questo senza nemmeno averne consapevolezza.
A proposito di social e internet, tempo fa hai
lanciato allarmi sul dilagare delle male parole in
rete. Da allora che cosa è cambiato?
Non è cambiato nulla. “Se non ci stai, abbandona
i social network”. “Sui social bisogna saperci stare”. Ebbene, io provo a starci senza insultare. Provo a starci per raccontare quello che vedo e quello
che vivo. Per raccontare quello che leggo e come
mi sento. Non mi fa stare meglio insultare chi non
la pensa come me. Non è nella mia formazione,
né sarà il mio futuro sul web. I social occupano
spazi potenzialmente infiniti, questo significa che
può starci di tutto. Possono starci l’insulto e il turpiloquio, così come il loro contrario.
Violenza porta violenza. Anche a livello politico
e istituzionale, la situazione va logorandosi?
Che tutto questo si riflettesse nella vita politica del
nostro Paese era solo questione di tempo. Poco
tempo. Alzare i toni, generare confusione, essere
volgari e avere atteggiamenti sessisti, omofobi o
violenti è solo un modo per evitare di affrontare
temi cruciali. Non si parla di riforme o se ne parla solo come corollario rispetto alle ultime zuffe di
Palazzo. Questo non è tollerabile e non è tollerabile
che trovino tanto spazio sui media. Ma questa è la
nostra realtà. Costruita senza un disegno preciso,
risultante da diverse, privatissime mediocrità. Da
diversi, privatissimi arrivismi. Con la mancanza di
un disegno generale ci tocca fare i conti. E ci tocca
farli per scrollarci di dosso quella tranquillizzante
sensazione di estraneità: non siamo innocenti solo
perché non abbiamo partecipato ai giochi.
Anna Dichiarante
alla Cultura della Regione Sicilia: “Ci
sono troie in giro in Parlamento che
farebbero di tutto, dovrebbero aprire
un casino!”.
Non finisce qui. Famosissimi i siparietti di Luciana Litizzetto: “Torna Berlu, sale lo spread…io non dico il pudore, un sentimento antico, ma una
pragmatica sensazione di aver rotto il
cazzo?”.
E come dimenticare Gregorio De Falco che il famoso 13 Gennaio 2012,
mentre la Costa Concordia affondava
al suo capitano Francesco Schettino,
che pensava bene di darsela a gambe, urlava: “Vada a bordo, cazzo!”. Il
turpiloquio è arte del comando?
Neanche la letteratura è risparmiata.
Impallidisce l’attacco del romanzo
giovanile di Lidia Ravera “Porci con
le ali” (“Cazzo. Cazzo cazzo cazzo.
Figa. Fregna ciorgna. Figa pelosa
bella calda, tutta puzzarella. Figa di
puttanella.”) dinnanzi al turpiloquio di
Alessandro Piperno, Fabio Volo, Paolo
Giordano…
Il vecchio proverbio “un pulito parlare
costa poco e molto vale” nessuno lo
ricorda più. Erano quelli i tempi in cui
la cattiva parola infastidiva, inorridiva,
creava sdegno. A maggior ragione se
pronunciata in contesti formali.
Nel macchinario multifunzione, che è
la lingua, qualche piccolo o grande ingranaggio, in un determinato momento della nostra epoca ha cominciato a
funzionare in maniera diversa. Oggi,
il muro della decenza sembra essere
crollato. Possiamo dire parolacce a
casa, a scuola, al lavoro. Trivialità su
libri e giornali, persino in Parlamento.
Nessuno più prova vergogna.
Ma per quale ragione un linguaggio
turpe attira l’attenzione? Perché la parolaccia suscita sempre e comunque
una reazione, che sia di sdegno, che
sia una risata? Renzo Arbore dichiara
ad Inchiostro: “L’applauso è assicurato ma lo spettacolo è rovinato!”.
La mala parola, la parola andata a
male, è sostanzialmente la rottura di
un tabù.
Secondo Vito Tartamella, che si defi-
Scalfari: “Parole grosse
Fenomeno dialettale”
Cosa ne pensa del turpiloquio utilizzato oggi in Italia?
Il turpiloquio fa parte quasi sempre dei dialetti-lingua che in Italia
sono numerosi e tutti contengono
“parole grosse”. In particolare il
romanesco (vedi addirittura i sonetti di Gioacchino Belli) e il napoletano (vedi alcune
commedie sia dei De Filippo che di Totò e
molti altri). Ma la stessa cosa avviene per i
dialetti veneto, lombardo, genovese, insomma per tutta Italia.
nisce “autore del primo
studio italiano sul turpiloquio”, la parolaccia non
è il solo frutto dei nostri
tempi. Lui le chiama “parole a statuto speciale”
cioè un tipo di linguaggio specializzato nelle
emozioni particolari, nelIl fatto che oggi nei giornali compaiano
le emozioni forti quali la
espressioni volgari che impressione le fa?
Nella lingua dei media (carta stampata e
rabbia, l’ira, il disgusto,
emittenti televisive) le “parole grosse” non
la sorpresa, l’eccitazione
erano mai state usate; talvolta nei giornali
sessuale in alcuni casi.
se ne pubblicava la prima lettera seguita dai
“E a questo punto, fonpuntini. Ma adesso non è più così, come non
damentale diventa la proè così soprattutto nel film proiettati nelle sale
spettiva storica. Poiché,
e riprodotti in televisione. Quelle che lei chiavero è che oggi la paroma “parole grosse”
laccia è fortemente inflasono ormai entrate nella lingua corrente.
zionata, ma non bisogna
pensare che sia solo il
Lei ha mai usato turpiloquio nella vita di tutti
prodotto della nostra
i giorni e nella sua professione?
epoca. Era presente nei
Fin da giovane, quando si parla con amici
geroglifici egizi, in Shakeanch’io le ho sempre usate salvo in presenza
speare e Dante, Mozart,
di donne.
R.G.
Leonardo Da Vinci”.
Qual è il punto d’inizio?
È il ‘68 l’annus horribidue anni che spara cazzate!”.
lis? La rivoluzione sessuale, il crollo
Un altro ingranaggio del macchinadi rigidi schemi figli di sistemi totalitari
rio dell’espressività si è guastato. La
aberranti ha provocato anche la rottuvalvola della riservatezza “svalvola”,
ra degli argini del linguaggio formale?
il valore attribuitole si è notevolmente
E poi c’è la politica che passa dalle
abbassato e non diventa un problema
auliche tribune elettorali ai dibattiti tepostare sulla bacheca più famosa del
levisivi dove la rissa ha un elemento
mondo fatti privati infarciti di paroimportantissimo nell’audience. I talk
lacce, insulti o allusioni sessuali che
show si popolano di uomini che al
probabilmente fino a qualche anno fa
conflitto delle ideologie sovrappongoavremmo pronunciato solo in compano il contrasto tra le persone, poiché il
gnia del più fidato degli amici. “Cosa
modo più veloce per liberarsi dell’avfaresti in macchina con la Boldrini?”
versario è insultarlo piuttosto che arposta Grillo sulla sua pagina di Facegomentare. È il caso di D’Alema che
book. Qualcuno risponde: “La porto in
alla trasmissione Ballarò di Giovanun campo rom e la faccio stuprare dal
ni Floris urlò ad Alessandro Sallusti:
capo del villaggio!”.
“Vada a farsi fottere!”.
Che sia il crollo dei tabù oppure il sinMa non sono solo i salotti televisivi a
tomo di un degrado culturale e dei
trascinare il linguaggio verso il basso.
costumi, la malaparola accende quelAnche reality show e social network
la spia del cervello specializzata nel
l’hanno fatto. I famosi 140 caratteri
produrre e archiviare trivialità, accordevono essere spesi in modo efficaciando la distanza tra gli interlocutori
ce, et voilà la parolaccia rende subito
e facendo scoppiare, il più delle volte,
l’idea. Ecco lo sfogo pubblico di Mario
una sonora risata. Forse quella che ci
Balotelli: “Per favore qualcuno chiuda
seppellirà tutti.
la bocca a Barbara D’Urso che è da
Valentina Trifiletti
Anche Gesù Cristo lo diceva: “Quando ce vò, ce vò”
“Uah uah” fa la scimmia; “cazzo” dice
l’uomo. Cos’è il linguaggio, se non il perfezionamento delle grida degli animali?
Come non citare il turpiloquio del generale napoleonico Pierre Cambronne che
urlò a pieni polmoni “ Merda” in faccia ai
militari inglesi che avevano accerchiato il
suo esercito, intimandogli di arrendersi. Il
generale con quella semplice, ma efficace
parola, rese chiaro il suo intento di preferire la morte alla resa. Dignità, coraggio,
integrità e fedeltà, tutti concetti racchiusi
in un’unica parolaccia. Merda allora.
Le parolacce hanno la forza di sintetizzare
un intero concetto in un unico vocabolo.
La loro capacità di mostrare una persona
priva di maschere fa sì che quando il turpiloquio esce dalla bocca di un potente
o di un importante personaggio pubblico,
diventa un pezzo di storia.
Bettino Craxi nel 1986 rispose a un gior-
INCHIOSTRO N. 3
nalista che gli chiedeva se i socialisti
avessero voluto affondare il Governo con
un: ” Chi lo dice è un coglione”. Il giornalista incalzò affermando che a dirlo era stato Altissimo. Craxi chiuse con un “ allora
è un altissimo coglione”.
Tutti, e nelle più diverse circostanze, fanno
uso di espressioni colorite, un po’ volgari. Fanno parte di noi, vengono fuori nelle
situazioni in cui si è più autentici, meno
costruiti. Scegli di votare, dopo mille dubbi, per il partito che credi ti rappresenti di
più, e dopo qualche mese ti ritrovi un governo tecnico imposto non si sa bene da
chi? Un “cazzo” ci sta tutto. Esci di casa
vestito di tutto punto, con un passo piuttosto brillante, e dopo dieci metri, la suola
della tua scarpa nuova è piena delle feci
del cane del tuo vicino? Un ”vaffanculo” è
comprensibile.
Altro celebre esempio di parolaccia in
bocca al potente, è quello del genero di
Mussolini, Galeazzo Ciano, che nel 1939
definì Achille Starace, un “Coglione che
fa girare i coglioni”. Aveva ragione Galeazzo? A dire il vero anche lui non era
considerato un grande statista dal Duce:
”Quale ministro degli Esteri, quello è mio
genero”. Per tornare a epoche più vicine a
noi, Umberto bossi definì l’ideologo della
Lega Gianfranco Miglio “Una scoreggia
nello spazio”. Se lo diceva il Senatur.
Lo stesso Silvio Berlusconi più volte ha
scelto di usare un linguaggio piuttosto
triviale. Famosissima la sua uscita del
2006, in cui rivolgendosi agli elettori della
sinistra disse: “Ho troppa stima dell’intelligenza degli italiani, per pensare che ci
siano in giro così tanti coglioni”.
Ancora uno scontro, con tanto di parolaccia, che ha fatto storia, è l’alterco avvenuto tra Massimo D’Alema e il direttore
del Giornale Sallusti. “Vada a farsi fottere”
intimò baffetto. Sallusti probabilmente accettò l’invito trascorrendo qualche piacevole notte nella villa di Arcore.
Di pochi giorni fa lo sfogo di uno dei migliori attori italiani, Tony Servillo, non famoso certo per la sua rudezza verbale.
“Ma vattene a fanculo” ha esclamato alla
giornalista di rai news che insisteva sulle
critiche ricevute per il film “ la grande bellezza”. Tony, quando ci vuole ci vuole.
Addirittura nel testo sacro per eccellenza,
la Bibbia, precisamente nel libro di Malachia è presente un passaggio che contiene turpiloquio: “Se non mi ascolterete,
dice il Signore, io spezzerò il vostro braccio e spanderò sulla vostra faccia escrementi”. Se anche il Signore usa le parolacce, ogni tanto può scappare anche a
noi comuni mortali.
Francesco Ungaro
PAGINA 4
L’intervista Giuliano Ferrara, direttore de Il Foglio, racconta la malaparola
“Il turpiloquio di Grillo è da Oscar
La sua politica è un vero orrore”
Giuliano Ferrara, cos’è per lei il turpiloquio?
È parlare male nella propria lingua.
Mi può fare un esempio?
Dire “barbaria” invece di barbarie. Come
ha fatto recentemente l’ex presidente
del consiglio, Enrico Letta.
C’è turpiloquio nei giornali?
Sì, perché sono scritti molto male.
Il turpiloquio sono le parolacce o solo una cattiva
espressione?
Il turpiloquio sono le cosiddette parolacce, che però se
dette bene fanno parte del meglio della lingua, il cosiddetto idiomatico. Il peggio delle parolacce è la cattiva
lingua, la cattiva sintassi, la mancanza di inventiva e i clichè, delle convenzioni lessicali che si incontrano in ogni
angolo di strada.
Lei pensa di dirle bene, le parolacce?
Io le parolacce penso e spero di averle dette sempre bene. Naturalmente come tutti gli umani sono
anch’io peccatore e penso di avere qualche volta
turpiloquito malamente.
Il turpiloquio secondo lei è utile per comunicare?
Se le cosiddette parolacce hanno un senso allora non è
più turpiloquio. È un turpi-eloquio e serve moltissimo a
comunicare una verità.
Secondo lei questo può sintetizzare meglio una notizia? Può renderla più efficace?
Le faccio un esempio. Un titolo di un mio collega, quan-
Le parolacce in Parlamento
In principio fu
il celodurismo
”Nella nostra deriva di stupidità verrebbe
da pensare, un bel pompino li seppellirà
tutti!”. La voce è di Giuseppe Rippa, ex
segretario radicale, che introduce subito
la stretta attualità senza fronzoli. L’insulto
rivolto alle deputate Pd, accusate di trovarsi in Parlamento per “meriti orali”, rappresenta una novità nel linguaggio politico
italiano. “Nessuno nella prima Repubblica
avrebbe osato non solo dire ma anche
pensare la parola pompino”, commenta
sgomento Raffaele Lauro, dna democristiano, una vita nelle istituzioni.
Fanno quasi tenerezza le parole dei vecchi
comunisti quando
gridavano al “ladro”,
“approfittatore” verso il parlamentare
democristiano
di
turno. “Nella prima
Repubblica c’erano ministri e presidenti del Consiglio
gay della Dc con
l’autista amante ed
esponenti socialisti
che andavano scopando per Roma
senza che nessuno lo sapesse”, ci racconta Lauro, che polemizza con l’avvento dei
nuovi media.
Al professor Gian Enrico Rusconi, politologo ed editorialista della Stampa, abbiamo
chiesto: qual è stato il punto di non ritorno,
in cui il turpiloquio è stato sdoganato?
“Tutto è cominciato con la Lega e il suo
“celodurismo”. Quello che mi colpiva allo-
do Wall Street era appeso alle rivelazioni sullo scandalo
sessuale di Bill Clinton: “Wall Street appesa ad un pompino”. In quel caso era un turpi-eloquio, cioè si esprimeva molto bene la sostanza della cosa.
Ha fatto qualche altro titolo di cui va fiero?
Molto probabilmente sì, ma non li ricordo tutti perché ne
abbiamo fatti anche molti perbenisti, con parole ordinarie.
Secondo lei l’affermarsi del turpiloquio corrisponde ad un cambiamento dei costumi?
In questo sono morettiano. Chi parla male vive
male. E chi parla male non è colui che dice le parolacce, ma dice le cose che dicono tutti in modo
irriflesso, senza spontaneità e vivacità mentale.
Alla leadership politica di solito corrisponde l’eloquio e affascina gli elettori. Nel caso di Grillo vince
invece il turpiloquio. Che ne pensa?
La retorica di Grillo è eloquente. Il suo progetto
politico è totalitario e violento, ma la sua retorica
è da premio Oscar. Il linguaggio medio dei politici è turpiloquente, ancorato al banale e alle zone
basse dell’esperienza linguistica, è una finta semplicità, un cattivo ornamento. La retorica di Grillo
la assolvo, il suo progetto politico mi fa orrore.
Lei varie volte in tv è stato protagonista di “scazzottate” anche verbali. Quale le è piaciuta di più?
Forse quella in cui ho chiesto a Travaglio come mai lo
Stato è colluso con la mafia, visto che ha incarcerato
tutti i mafiosi.
E Travaglio cosa le ha risposto?
ra nel 1990 con l’ingresso dei
‘barbari’ nel panorama politico, era la sottovalutazione
del fenomeno da parte dei
miei amici intellettuali romani”. L’avvento della seconda
Repubblica segna uno spartiacque dal quale non si torna indietro. Le
turpi parole entrano nel linguaggio politico
quotidiano con esiti imprevedibili e paradossali: “Berlusconi usa un linguaggio
politicamente estremo riuscendo a trasformare la parola “comunista” in un insulto”, commenta Rusconi. Parlare per farsi
capire, non parlare più il politichese, era il
dogma della prima ondata berlusconiana.
Parlare come la gente è stato il filo conduttore che da allora, fra alti e bassi, ci ha
condotto fino ai giorni nostri con la “novità
semantica” dei Cinque Stelle.
Esiste quindi un
pericolo per le istituzioni, alle prese
con nuovi codici
comunicativi? “Me
ne frego, l’hanno
scritto per la prima
volta in pubblico
i fascisti. All’inizio
era turpiloquio. Il
tentativo di surrogare una violenza
che non si può più
usare, è un surrogato di violenza”,
rammenta il professor Rusconi, preoccupato dai salti sui banchi parlamentari.
Intanto, nell’attesa di nuovi sviluppi nel linguaggio dei nostri rappresentanti non resta che affidarsi alle parole di un vecchio
politico come Lauro: “Il pompino in Parlamento è un punto di arrivo e di svolta”.
Daniele Gargagliano
Nulla, aspetto ancora la risposta.
Si è mai pentito di qualche altro insulto fatto?
Per fortuna no. Non ho insulti. Ho molte cose di cui pentirmi ma non insulti.
Ha mai subito insulti?
Certamente. Sono stato anche inscritto in un libro insieme a Craxi e Berlusconi, tra i tre top della classifica degli
insultati nell’ Italia degli ultimi 30 anni.
Qual è stato quello che più l’ha ferito colpita?
Sono mitridatizzato fin da ragazzo. Ho cominciato ad essere insultato così presto che la capacità di incassare è diventata una seconda
pelle.
Davvero non ce n’è qualcuno che le ha dato
fastidio?
Gli insulti peggiori sono quelli che riguardano i tuoi genitori, non generici, non “figli di puttana”, insulti veri che
entrano negli interstizi del tuo cuore privato. Si deve incassare tutto senza rispondere
Il linguaggio usato sul suo giornale, “Il Foglio”, che
a volte è colorito, secondo lei rende la notizia più efficace?
Noi facciamo un giornale molto in bianco e nero, privo
di orpelli, con titoli lunghi senza nessuna enfatizzazione.
Naturalmente poi lo scriviamo con il gusto della polemica e della battaglia. A volte per farci capire bene dai
lettori coloriamo, ma sempre con uno sforzo di sobrietà.
Rossella Grasso
Il parere di Antonio Polito
“Prima l’insulto
era educato”
Antonio Polito, 57 anni
da Castellammare di
Stabia, è il nuovo direttore de Il Corriere
del Mezzogiorno
Oggi ci sono ancora parole che non si
possono dire?
Si, ci sono ancora parole che non sono
accettate nella comunicazione pubblica, però non gliele dico per non fare
turpiloquio anch’io.
Ricorda un aneddoto sulla prima Repubblica?
Era tutto più felpato. Craxi
una volta per mandare a quel
paese chi lo criticava usò l’espressione “intellettuale dei
miei stivali”, che oggi potrebbe essere tradotto come
“brutto stronzo”. Prima si usavano formule più sofisticate
per mandare a quel paese la
gente. Il ricorso alla parolaccia era tipico di una parte della politica che era un po’ fuori
dalle istituzioni. Ad esempio
la destra identitaria, postfascista aveva un suo stile
soprattutto nella stampa, che si concedeva al parlare “così come si mangia”.
Quando cadde l’amministrazione Lauro nel 1960, la destra reagì parlando di
“7 puttani” che avevano tradito l’allora
sindaco di Napoli per passare con la
Democrazia Cristiana al Consiglio comunale.
Anche nel giornalismo il linguaggio
è diventato più aggressivo: da Fortebraccio a Travaglio cosa è cambiato?
Nel giornalismo di destra nella prima
Repubblica c’era questa tendenza:
per criticare le tue idee colpisco la tua
persona. Questo tipo di giornalismo è
stato portato oggi nel mainstream da
Travaglio. Un giornalismo che è diventato un grave avvelenatore del discorso
pubblico nazionale. A sinistra è stato
applaudito finché andava a colpire l’avversario politico: Berlusconi. Adesso
che questo stile si sta ritorcendo contro chi l’aveva applaudito ci si accorge
dell’esagerazione e se ne ha paura.
L’eloquio è quindi un valore da
difendere?
Nei paesi anglosassoni e ancora
prima
nell’antichità classica, la
retorica ovvero la
capacità di tenere
discorsi pubblici
era una caratteristica cruciale del
leader politico. Il
successo ancora
oggi di personaggi politici del calibro di Lincoln e Kennedy è in larga parte dovuto al fatto di
essere stati dei grandi oratori. Churchill
vinse il premio Nobel per la Letteratura.
L’eloquio è una caratteristica essenziale della leadership politica. Anche nel
nostro piccolo in Italia persino Berlusconi ha successo perché parla in un
modo che piace alla gente e lo stesso Renzi ha un suo eloquio, seppur un
po’ claudicante, nel convincere il suo
ascoltatore. Quindi bisognerebbe fare
l’elogio dell’eloquio.
Se non c’è leadership senza eloquio
può esserci leadership con turpiloquio, come nel caso di Grillo?
È un eloquio turpe, ma sempre di eloquio si tratta.
D.G.
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Intervista a Camarca
Maleparole per traditori e poliziotti
Claudio Camarca è uno scrittore, giornalista e regista italiano, nonché curatore del Dem: il Dizionario Enciclopedico delle
Mafie in Italia, edito nel 2013. A questa ricerca sul turpiloquio e
le mafie ha dato un sostanziale contributo, esprimendoci il suo
punto di vista, così come emerge dalla trattazione del libro. Ne
viene fuori un’analisi diversa rispetto a quella proposta finora,
che calca la mano sulla natura bestiale delle mafie, alle quali
non può essere attribuita alcuna filosofia di fondo, ma solo
l’esternazione animale dei più beceri istinti dell’uomo. L’interessante testimonianza di chi, con fermezza e precisione, ha
indicizzato le forme e la geometria della criminalità organizzata
territorialmente distribuita in Italia.
Nel libro che ha curato c’è una parte specificatamente dedicata al linguaggio criminale? Si affronta il tema del turpiloquio?
Sì. Ci sono richiami specifici all’insolenza attraverso la quale
alcuni capobastone insultano sia i loro rivali, sia i “nemici” cioè
i magistrati e le forze dell’ordine. Spesso si notano volgarità
infinite verso coloro che per tanti motivi il mafioso ritiene all’inizio degli amici, oppure persone alle quali la mafia ha fatto un
favore e da cui dopo si sentono traditi.
Ci sono delle parole chiave alle quali si ricorre in maniera
privilegiata, proprio come scelta espressiva che sottenda
una filosofia criminale, volta al contagio e
dunque finalizzata a un’accettazione sociale del fenomeno?
Dobbiamo partire da un presupposto. I mafiosi non hanno alcuna aurea di eroi maledetti. Non sono quelli che le fiction televisive ci
hanno propinato in questi anni, svolgendo un
lavoro pessimo da un punto di vista etico e
morale, sia nei confronti di quegli spettatori meno avvertiti, sia
di quelli che hanno operato sul campo e sanno che dall’altra parte ci sono uomini senza alcuna etica, né morale. Farli
passare come se fossero dei Batman senza mantello è stata
un’operazione drammatica e fortemente negativa. Dunque,
tolta quest’aura ai personaggi, rimangono i personaggi stessi, che sono dei furbi, la gran parte di scarsa intelligenza, di
un’ignoranza classa e di volgarità profonda. Gli epiteti riservati
a coloro che ritengono nemici o traditori sono quelli che sentiamo comunemente da persone di bassa cultura, soprattutto
radicata in una sottocultura maschilista. Si va dalla locuzione
di “figlio di…” a “cornuto”. Quest’ultimo epiteto è il concetto
più negativo che riescano a pensare. Al di là delle imprecazioni
da bar, spesso i loro insulti sono a sfondo sessuale. Per uno di
questi imbecilli criminali, il pensare che la compagna del loro
nemico possa tradirli rappresenta il massimo dell’insulto.
C’è una tentata apologia dei loro comportamenti, che passi attraverso scelte linguistiche?
È proprio quello che stavo dicendo. La persona con la quale
hanno avuto a che fare, alla quale hanno fatto dei favori, magari politici o di altro genere, se non si asservisce completamente alla cosca diventa un traditore, quindi un “infame”. Il
reato d’infamità sottende l’allontanamento da quella che loro
chiamano, fuorviandone il significato, “la famiglia”. Le mafie
hanno dei termini che rappresentano valori: l’onore è un valore,
la famiglia è un valore e insieme sono valori importanti. I Paesi
fanno guerre per l’onore, come quella del ‘15-’18. Questo termine, “onore”, che è sacro, viene storpiato, bestemmiato. Lo
traducono a loro uso e consumo e ne fanno non una filosofia,
termine troppo nobile per essere accostato a questa gentaglia, ma il loro movente e cagione delle loro azioni. Il mafioso è
il livello base dell’essere umano, oserei dire è un “subumano”,
non ha niente a che vedere con la contemplazione filosofica.
Possiamo parlare di un vero e proprio stupro delle parole
a opera della mafia?
Assolutamente sì. La cosa preoccupante è che questo stupro
linguistico è stato ormai sdoganato in altri ambienti, basta vedere quello che è successo alla mia amica Laura Boldrini. Il linguaggio usato, ad esempio, in alcune chat o nelle curve dello
stadio, perpetua e ripropone il lessico criminale delle mafie. È
l’equivalente del contenuto dei “pizzini” o delle intercettazioni
telefoniche, un linguaggio basico e carico d’odio. Attraverso la
sicurezza dell’anonimato si da sfogo alla bestialità.
C’è differenza tra i vari tipi di cosche mafiose, tra la mafia
siciliana e le ‘ndrine ad esempio o la Sacra Corona unita,
nel ricorso al turpiloquio?
L’unica differenza si trova nel luogo di nascita e dunque anche
il lessico adottato parte dal linguaggio che si sviluppa in Calabria piuttosto che in Sicilia, ma in realtà gli insulti possono variare già da paese a paese. Il tratto che tutte hanno in comune
è quella bassezza espressiva che abbiamo ribadito finora. La
cosa interessante è che là dove alcuni capobastone sono figure femminili, le stesse donne adottano il linguaggio maschile. Si “mettono i pantaloni” e ricorrono allo stesso linguaggio
sessista degli uomini, fanno propri gli stessi insulti. Quando
si deve attaccare e offendere, non avendo questi personaggi
alcuna fantasia o spirito critico, non fanno che mutuare quelle
stesse locuzioni che assorbono sin dalla nascita, senza mai
“Sì comme o’ zzucchero pe me”, canta il killer romantico Giuseppe Setola, prima d’ammazzare. Il
casalese si prepara all’agguato e canticchia: “ddoce, ddoce, ddoce”. È a bordo dell’auto che insieme
ai suoi fedelissimi lo porta in giro per esecuzioni di
routine. Niente di speciale, si canta e si ride, c’è anche il tempo di un caffè tra un’imboscata e l’altra.
È uno sporco lavoro ma qualcuno dovrà pur farlo.
Ci pensa Setola, che canta ancora “ddoce, ddoce
ddoce”.
Cos’è dolce per un serial killer? La sua bella vrenzola che l’attende a Casal di Principe o forse il sangue
del nemico? La mente va ai versetti 25:17 di tarantiniana sceneggiatura, messi in bocca allo spietato
Jules Winnifield ogni volta che uccide qualcuno in
Pulp Fiction. Eppure, a pensarci bene, non c’è nessun rimando epico o missionario nelle esecuzioni
punitive di Setola. È vita di tutti i giorni, la sua: il
neomelodico a tutto volume nell’utilitaria polverosa,
mentre i fedelissimi ricaricano le armi.
Non è l’ultima sceneggiatura di Saviano, ma il resoconto delle intercettazioni del 2008, ottenute attraverso una microspia piazzata nell’auto del malvivente. Poi si sente una raffica di colpi, novanta in
tutto, tra kalashnikov e pistole, qualche urlo: “Cornuto! Uomo di merda!”. Ecco che si esplicita, in tutta
la sua grossolanità, l’odio mafioso, anche a parole.
Scatta un allarme, probabilmente, perché qualcuno dei loro grida: “Uomo di merda, chi l’ha messo
l’allarme?”. “Quella puttana” gli viene risposto. La
donna dai facili costumi sarebbe la moglie del condannato a morte, che grazie al suo intervento riesce
a salvarsi. “Che puttana a mugliera. Quella mo chiama i Carabinieri”.
E via di corsa dal secondo obiettivo, prima che l’occasione vada sprecata: Giuseppe Falcone è il suo
nome. Non è in casa, ma ai casalesi non sembra
importare granché. E di nuovo spari contro l’abitazione, poi grida. È la vicina di casa rimasta ferita a
un fianco e a una gamba. Gli esecutori strampalati
dovranno accontentarsi di un tentato omicidio, ma
non se ne accorgono subito, pensano di averlo preso. S’innalza una voce: “Cornuto. L’abbiamo ucciso come a un infame”. Già, l’infame. Perché anche
nel ricorso al turpiloquio, la delinquenza organizzata
non rinuncia ai suoi principi. Quello che deve morire è necessariamente un infame e un infame non
è un uomo. Merita di essere eliminato. La retorica
dell’onore non si smentisce neanche in situazioni di
stress. Fa sorridere l’eccezione costituita dal caso
del coraggioso parroco di Sant’Onofrio, in provincia
di Vibo Valentia, che si è visto ricoprire d’insulti e
d’infamie, sta scritto nel verbale, per aver cacciato
dalla processione dell’Arruffata alcuni ‘ndranghetisti del posto.
A sentire giornalisti ed esperti del settore, c’è un’altra circostanza usuale nella quale, in ambienti di
mafia, volano male parole. È il caso in cui uno dei
loro viene ammanettato. I presenti all’arresto, quasi
sempre parenti o vicinissimi all’organizzazione criminale, che si tratti di Mafia o Camorra, ‘Ndranghe-
La mafia stupra Gli insulti della criminalità
il linguaggio
secondo il codice d’onore
INCHIOSTRO N. 3
metterne in discussione i contenuti. C’è una maschilizzazione della donna che diventa capo di un clan.
Secondo un sondaggio pubblicato dalla rivista Focus sembra che l’insulto più accusato dagli italiani
sia proprio la parola “mafioso”. Lei pensa che a
questo corrisponda un risveglio delle coscienze
rispetto al tema mafia?
Distinguiamo. Negli ultimi 30
anni, grazie all’impegno sostanziale di molte organizzazioni di
volontariato, c’è stata da parte
della popolazione italiana una
presa d’atto della situazione. Le
cose non sono più come negli
anni 70, tutti quanti siamo avvertiti rispetto a quanto accade
e questo spiega perché la parola “mafioso” sia sentita come un
insulto. La vera battaglia, però, inizieremo a combatterla quando vedremo che la gente smetterà di andare con le prostitute, quando si smetterà di far uso
di droghe e di varie sostanze psicotrope gestite dalle
mafie, quando non si compreranno più le sigarette di
ta o Sacra Corona Unita, si lasciano andare a ingiurie e imprecazioni di ogni sorta nei confronti delle
forze dell’ordine. Quei guastafeste che gli smembrano famiglia e potere sono sicuro dei “cornuti”, degli
“strunz”, dei “figli di pu”.
Eppure, come ha confermato Giovanni Greco, autore di La Bestemmia come rivolta,“le mafie non usano
il turpiloquio come canale di espressione privilegiata. Piuttosto, ricorrono a locuzioni gergali originarie
della loro terra di provenienza, ma non è attraverso
la “parolaccia” che impongono di soccombere psicologicamente al terrore di cui sono capaci”.
Dalle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta,
riportate nel libro Parole d’Onore di Attilio Bolzoni,
si evince chiaramente come la criminalità organizzata riesca nell’impresa di autorizzare verbalmente la
propria criminogena struttura interna. Dice Buscetta: “La parola mafia è un’invenzione letteraria. I veri
mafiosi sono chiamati semplicemente uomini d’onore o soldati. Ognuno di essi fa parte di una famiglia. Nella famiglia vi sono il capo, eletto dagli uomini
d’onore, che a sua volta nomina il sottocapo e uno
o più consiglieri”. Un’organizzazione da far invidia a
quella statale, con tanto di Commissioni di sovrintendenza, fino ad arrivare a quella Interprovinciale.
Il tutto retto sul principio dell’onore o meglio sulla
sua enunciazione. La parola scarnificata, quella del
disonore, è “infame”. Continua Buscetta: “Quando
gli uomini d’onore parlano fra loro, però, di fatti che
attengono a Cosa Nostra, hanno sempre l’obbligo di
dire la verità. Chi non dice la verità noi lo chiamiamo
tragediaturi e può subire punizioni che vanno dall’espulsione – in tal caso si dice che l’uomo d’onore è
posato – fino alla morte”.
La mancata trasparenza all’interno delle cosche è
già infamia insostenibile. Patti di sangue fatti sulla
chiarezza, sulla verità, sulla sincerità degli affiliati
sono il muro portante della criminalità organizzata.
Al punto che la famiglia di affiliazione prende il sopravvento su quella d’origine e a essa tutto si sacrifica. È il caso di Cetta Cacciola, convinta a tornare
indietro dal programma di protezione testimoni dalla
sua stessa madre e dal suo stesso padre, per finire
ammazzata con l’acido muriatico, fattole ingurgitare a forza. Ogni madre del mondo si starà chiedendo come abbia potuto, quella di Cetta, convincersi
che fosse meglio una figlia infame morta che avere contro tutta la malavita di Rosarno. La famiglia
vera, l’unica famiglia onorata dai Cacciola, è quella
della ‘Ndrangheta. Forse ora si comprende meglio
di cosa sia gravida la parola “infame”. Molto più di
altre, vuote imprecazioni o insulti da cedimento nervoso, resta a far eco a quei 120 colpi sparati quel
giorno da Setola e i suoi scagnozzi. Magra consolazione è sapere che, da una ricerca-sondaggio
che ha coinvolto 2.615 persone e lanciata online dal
settimanale Focus, l’insulto più accusato dal popolo
italiano risulta proprio la parola “mafioso”.
B.G.
contrabbando, quando si smetterà di pagare il pizzo
ecc. Fino ad allora non staremo combattendo la nostra battaglia. Abbiamo lasciato i magistrati e le forze
dell’ordine da soli in trincea e noi stiamo a guardare
dalle poltrone. Non basta di certo non tollerare l’accusa di “mafiosità” per credere di star facendo qualcosa contro la mafia. Se si analizza l’acqua di Milano
o quella del Tevere si scopre che è piena di cocaina.
Questo significa che siamo una popolazione che non
ha fatto sua questa guerra, non sentiamo a livello personale quello che accade. Anche i mass media devono contribuire: ci sono appena stati 40 arresti tra
l’America e la Calabria per cocaina e i giornali italiani
hanno relegato il tutto alla sesta, settima pagina. Vuol
dire che non abbiamo la percezione che la battaglia
di merito importante è questa. Siamo l’unico Paese
dell’area occidentale sotto scacco delle mafie. Non
ce l’hanno né in Francia, né in Germania, né in Inghilterra, siamo un caso unico al mondo. Noi siamo un
narcopaese. Perché non è la battaglia che sentiamo
come primaria? Questa è la domanda da 100 punti.
Barbara Gigante
PAGINA 6
Sbatti la parolaccia in prima pagina
Turpiloquio in libertà per i giornalisti
“Noi scriviamo quel che cazzo ci pare” ha detto Marco “Il Foglio” e “La Padania” che sull’insulto non si tira mai sta del TG regionale del Piemonte fu inviato allo stadio
Travaglio parlando di giornalisti, alla presentazione del indietro. Natalia Aspesi ha raccontato che prima le male a seguire il pre partita Juve-Napoli. Dopo una serie di
suo ultimo libro a Napoli. E poi, “i giornalisti non devo- parole non si scrivevano sui giornali. Poi si è iniziato a insulti registrati tra le due tifoserie, un ragazzo afferno usare il turpiloquio così, tanto per usarlo. Però se parlare di sesso, quindi si mettevano l’iniziale e i puntini. ma: “I napoletani sono ovunque, sono come i cinesi”.
ogni tanto gli scappa una parola perché ci sta bene nel Una sola lettera e quattro puntini. Quindi sono arrivati E Amandola risponde “E voi li distinguete dalla puzza”.
contesto, perché sono particolarmente indignati, allora termini più specifici, “per dire ‘bocchino’ si diceva ‘fel- Fu licenziato. Altre piccole gaffe sono capitate a colleghi
si può fare un’eccezione”. Una. Ogni tanto. Raramen- latio’. Fino al ‘pompino’ di oggi”. Secondo la Aspesi il come Laura Tangherlini di Rai News 24: mentre condute insomma. La realtà non è proprio così.
ceva il tg, dopo aver lanciato la pubblicità
Scrive Michele Serra: “Due righe più in giù
con un cordiale “restate con noi” e tanto di
o più in su – perfino nel web, perfino nel
sorriso, disse “Restatece voi perché io me
blog di Grillo - c’è una parola intelligente
ne vado, po esse, io me so rotta er cazzo”.
e mansueta che passa inosservata perché
Ci sono i giornalisti che in tv partecipano ai
Tu mi accusi di killeraggio a mezzo stampa? E io ti do del fascista. Optutti, compresi noi dei media tradizionali
talk show e gli “scappa” la cattiva parola
pure ti becchi un nomignolo al veleno. Il dibattito giornalistico si gioca
ci facciamo abbagliare da lampi di merda
“perché ci sta bene”. Frequenti le zuffe e
così. Tra insulti, parolacce e soprannomi più o meno odiosi. Aspro nei
dei quali dovrebbero occuparsi solo la pogli insulti sugli argomenti più scottanti. Tra
contenuti e anche nei modi. Togliamoci dalla testa sfide a singolar tenlizia postale, la magistratura, gli assistenquesti, celebri gli exploit di Giuliano Ferrara.
zone tra colleghi gentiluomini, polemiche in punta di penna e “onore
ti sociali, e gli psichiatri che si occupano
“È l’ultima volta che metto piede in questo
delle armi” ai giornalisti più bravi o anziani. Niente più Fortebraccio
del disagio sessuale”. Giusto, peccato
cesso” disse a Enrico Mentana, “mi rompo
contro Montanelli. Il competitor va demolito senza pietà e pazienza
che siamo abbagliati dai lampi di merda,
i coglioni di sentire i comizi di Travaglio…
se è iscritto al tuo stesso ordine professionale. O, meglio ancora, va
in cui sembra incappare anche Michele
che cazzo di conduttore sei…” e via dicendelegittimato: zitto tu, servo del padrone! Il campionario delle invettive
Serra nelle sue “Amache”. Vero è che se
do. Persino Lucia Annunziata si è lasciata
tra colleghi si è enormemente arricchito negli ultimi anni. “Merito” di
in parlamento volano parolacce e gli insulti
scappare in televisione, a una trasmissione
un polemista d’eccezione come Marco Travaglio, che ha sbeffeggiapeggiori, il buon giornalista, che racconta
di Mentana un succulento “sei un perfetto
to e apostrofato decine di colleghi. Qualche esempio? L’ex-direttore
fedelmente i fatti, non può far a meno di
cretino” rivolto proprio a Ferrara.
del Tg1, Augusto Minzolini, è diventato “Scodinzolini” o “Minzolingua”,
scrivere volgari virgolettati con quanto si è
Il turpiloquio è arrivato anche nel giornacolpevole di fedeltà a Silvio Berlusconi. Alessandro Sallusti passerà
detto o fatto. Ma sui giornali non ci sono
lismo radiofonico. Particolare il caso del
alla storia del travaglismo come “Ballusti”, “Mortimer” o “Zio Tibia” per
solo virgolettati, anche turpiloqui in libertà
programma di Giuseppe Cruciani e David
la presunta vocazione al killeraggio mediatico. E via di seguito con Vitdi vario genere, comprese parolacce preParenzo “La zanzara”. In due ore di tratorio “Littorio” Feltri, col “Platinette barbuto” (al secolo Giuliano Ferrase in prestito dai peggiori bar di Caracas e
smissione, tra temi di attualità, argomenti di
ra), per poi finire con Emilio Fede, che Travaglio ha voluto ribattezzare
allegre espressioni colorite che risuonano
cronaca e interviste, talvolta ai due scappa
“Umilio Fido” per la sua vicinanza al Cav. Risultato: il dibattito giornalicome pesanti insulti. “Hanno vinto i gay”,
qualche parolaccia. Cruciani mi ha spiegato
stico di oggi si avvicina sempre di più alla satira.
“vince la lobby gay”, “A noi Schettino a
che questa “non è una ponderata scelta di
Ciriaco M. Viggiano
voi Auschwitz”, sono solo alcuni esempi di
stile, ma un modo per creare clima di fagraziosi titoli che “sono scappati” al Giormiliarità nella trasmissione”. Il conduttore
nale negli anni passati. Ancora più fantasiosi i titoli di giornalismo non è degenerato, si limita solo a raccontare ha affermato di non aver sdoganato le cattive parole in
apertura prodotti dal quotidiano “Libero”. Da una veloce quello che è successo. Per la giornalista il vero problema radio, “questo lo facevano già altri”. “La novità - ha conricerca su internet vengono fuori “Il guaio e la gnocca”, è “la pochezza di contenuti: chi non sa dire qualcosa si tinuato - è quella di utilizzare un linguaggio senza peli
“Prodi: con l’euro ho salvato l’Italia. Bel pirla”, “Maledet- nasconde dietro la parolaccia per avere la prima pagina”. sulla lingua e sboccato nella radio della Confindustria”.
to XVI”, “Monti porta sfiga”, “Vaffanmerkel”e tanti altri. E il turpiloquio è approdato anche in televisione. Persino E conclude “incazzarsi è una parolaccia?”.
Tra i giornali più irriverenti anche “Il Fatto Quotidiano”, nei tg. Qualche anno fa Gian Piero Amandola, giornaliRossella Grasso
Zitto tu, servo del padrone!
Giù la maschera: le intercettazioni
svelano il malcostume nel parlato
Il principino Harry, in vacanza nel continente Africano,
manda un messaggio sul cellulare di suo fratello William:
“Sei la più bella checca che abbia mai visto”. Rincara la
dose “È incantevole qui in Africa, e se tutto va bene spero di vederti presto, grosso grasso irsuto frocio”.
Sul fronte nazionale e meno altolocato l’intercettazione
del camorrista Antonio Parisi è ugualmente esemplare:
“Sta venendo Alberto Bruscagin sul cantiere, devo fargli
uscire la merda dalla bocca. Quel bastardo”.
Oltre l’interesse pubblico di queste conversazioni, l’aspetto più curioso è proprio la totale mancanza di diffe-
renza linguistica tra il reale inglese e il camorrista.
Lo stereotipo dell’imprenditore o del politico che parlano
pulito viene meno ascoltando le conversazioni private.
È nota la trascrizione della telefonata tra il responsabile
della comunicazione Ilva, Girolamo Archinà e l’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso: “Quelli – dice
Archinà riferendosi a una ispezione di Arpa e Asl – con
la sedia legata al culo devono stare. Altro che controlli”.
Anche Ermanno Lisi, assessore ai Lavori pubblici durante l’emergenza ambientale dell’Aquila, ammette al telefono con un suo collaboratore: “Abbiamo avuto il culo
del terremoto”.
Come dichiara Massimiliano Parente, scrittore e giornalista: “Nell’intercettazione chiunque parla come nella vita
di ogni giorno, ormai non esiste nessuna distinzione di
classe”. “Il turpiloquio – continua – è un’invenzione da
galateo, una forma imposta del ‘non si può dire’, in una
società che spesso utilizza il linguaggio turpe come cassa di risonanza”.
Parente, riferendosi all’esposizione del leader pentastellato dichiara:
“Il vaffanculo di Grillo è efficace perché viene percepito
come un’intrusione di campo, un modo di parlare rivoluzionario, perché porta il volgare nei media e nella comunicazione politica. L’effetto però finisce subito, all’ennesima parola fuori posto la gente non lo sente più”. E
infatti il turpiloquio nelle intercettazioni non fa notizia,
non stupisce.
A confermarlo è il procuratore aggiunto di Torre Annunziata, Raffaele Marino, che alla domanda sulle reazioni
alle intercettazioni mi risponde: “Non so cosa dire oltre la
loro rilevanza penale”. Massimiliano Parente aggiunge:
“Le parolacce possono esistere solo dove sono vietate.
Oggi con il linguaggio che non ha più confini, il turpilo-
quio è sempre più debole”. “Un cazzo detto da Benigni
in Rai – conclude – vent’anni fa faceva ridere, oggi nessuno ci farebbe caso”.
Dunque quanti aspetti hanno le intercettazioni?
Ambientali o telefoniche che siano le conversazioni vengono considerate solo come strumenti dell’indagine penale.
Come non ricordare quelle legate all’inchiesta sullo
scandalo Rubygate o l’ultima indagine in corso sulla Asl
di Benevento, in cui l’ex ministro De Girolamo ha dato
sfoggio della sua genuina campanità.
Cammina sulle spalle di tutti la giustificazione della De
Girolamo al linguaggio colorito delle intercettazioni:
“Vabbè, ho usato parole non esattamente consone a una
signora di classe? Stavo a casa mia, potrò parlare come
mi pare a casa mia, sì o no?”
Qualcuno potrebbe non darle torto. Il contesto delle intercettazioni è privato. Rappresenta il noto “retroscena”
di cui parla il sociologo Goffman ne “La vita quotidiana
come rappresentazione”.
Lontani da orecchie e occhi indiscreti gli intercettati rivelano la loro vera personalità.
È il caso di Vittorio Emanuele di Savoia che, intercettato
nel 2006 in un’inchiesta per corruzione e sfruttamento
della prostituzione, non risparmia gli insulti nei confronti
di una giornalista de Il Manifesto: “Quel pezzo di merda
di quella vecchia troia malmestruata”.
“Foemina Erit Ruina Tua” (la donna sarà la tua rovina)
recita il motto di Casa Savoia in una delle più colorite
interpretazioni. Ed è proprio questa traduzione che si
adatta al caso citato. Le donne, e non solo, sono state
la rovina del blasonato Vittorio, simbolo di una rigida etichetta svenduta al turpiloquio più dozzinale.
Rita Murgese
PAGINA 7
PAGINA 7
Se l’insulto
diventa
complimento
CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA
Lo aveva già intuito Cervantes quando
scrisse “O non sa che quando un cavaliere
dà un buon colpo di lancia al toro nel circo, oppure una persona fa qualche cosa
di buono, la gente dice sempre. Oh figlliuol
d’una puttana! Come ha detto nel segno!”.
A parlare è l’alter ego di Sancho Panza nel
secondo volume delle storie di Don Chisciotte.
Così oggi sentirsi dare del “figlio di puttana” diventa gratificante, ed essere definita
“troia” innalza l’autostima.
Basta andare in giro tra locali, bar, pub,
scuole e università per essere catapultato
nel variopinto mondo linguistico dei giovani, esempio calzante del ribaltamento
semantico di alcune espressioni, talvolta
addirittura utilizzate come strumento d’integrazione sociale.
Il ragazzo che all’uscita dal concerto del
suo gruppo preferito afferma che l’evento è stato un “bordello esagerato”, non si
sta affatto riferendo a una casa di tolleranza, bensì al successo dello spettacolo
e alla grande partecipazione del pubblico.
Così come dare del “pazzo” a qualcuno
che si è spinto in un’impresa che richiedeva una grande dose di coraggio, non
vuol dire offendere una persona ritenuta
malata di mente. Chi invece definisce una
persona “cazzuta”, non le sta affibbiando
un soprannome che per qualche ragione
riguardi il suo pene, ma ne sta elogiando
abilità e determinatezza. Il don Giovanni di
turno esclamerà “che figa” al passaggio di
un’avvenente giovane donna, e se questa
ci sta gli amici commenteranno con un sonoro “che culo”.
Un codice condiviso, “che viene utilizzato
per sentirsi parte di alcuni gruppi e tiene
insieme le persone con un effetto socializzante” - afferma Romolo Capuano, sociologo e autore del libro “Turpia. Sociologia
del turpiloquio e della bestemmia” -. Si
pensi alla riappropriazione di epiteti denigratori come negro, utilizzato oggi all’interno di comunità nere con accezione positiva
e un forte senso di appartenenza”, spiega.
Si tratta dello stesso effetto disinnescatore che spinge la femminista convinta, nata
negli anni zero ma nostalgica sessantottina, a indossare con orgoglio magliette sulle quali risalta a caratteri cubitali la scritta
“sono una troia”.
E, d’altra parte, se dicessi a mia sorella che
è una strega perché furba e a mio fratello
che è un pirla perché divertente, non assistereste a nessuna scena di wrestling sul
divano di casa, ma al massimo a due risate
in famiglia. E ridere in famiglia è il massimo
della figata.
Paola Marano
Turpe-eloquio: la finezza dell’offesa
Mughini “Offendere con classe è possibile, ma non per tutti”
Cara amica non vuol dire brutta zoccola. Al telefono, Giampiero Mughini mi risponde con un elegante “Cara amica”.
Certo, se mi desse della “brutta zoccola, le porte della tv si
spalancherebbero per entrambi”. Ma per chi, come lui, ragiona in eloquio - o più semplicemente ragiona - l’ipotesi non
sussiste. In fondo per lui neppure Moana Pozzi è una pornostar ma “una gran bella ragazza che s’era guadagnata un
pane che sapeva di sale, che frequentava personaggi pubblici non certo per simpatia o affinità intellettuale e che per una
serata in un localino richiedeva un cachet,
quattro o cinque volte superiore a quello delle consorelle”.
Il punto è questo: bestemmie e parole turpi richiamano alla vita o alla morte del linguaggio? Accade che quando la mala parola
emerge in superficie, il pensiero affonda. Tanto chiasso e nessun contenuto. Grillo, per esempio, disse che Giuliano Ferrara era un “container di merda”, chiamò Veronesi “cancronesi”
e “assassino”, e diede della “vecchia puttana” a Rita
Levi Montalcini. Se è improbabile che l’ascoltatore riesca a capire il senso di questo turpiloquio, qualora
esso lo abbia, nelle sue orecchie rimbomberà solo il
flusso di male parole, la cui portata rivoluzionaria non
sarà nelle parole stesse quanto nel chiasso che faranno. “Bisognerebbe ignorarle - sostiene Mughini - e
invece i giornali di oggi sono altamente complici della diffusione del turpiloquio”.
Occorre un grande impegno e un’ironica maestria per riuscire nell’operazione del 9, nel tradurre cioè il turpiloquio in un
fluente eloquio che, con un po’ di chiasso in meno, possa
persino offendere di più. Se oggi si scegliesse di imboccare
questa via Ruby sarebbe una puttana o – come dice Mughini-“la ragazza che esercita il mestiere più antico del mondo,
Lucia Francesca Trisolini
“Sei un ebreo, un rume
Lo stretto confine tra parolaccia e razzismo. L’oltraggio
“Porti la Boldrini in un campo rom e
la fai trombare con il capo villaggio”.
Chiedo a Moni Ovadia chi è più offeso in questa frase: i rom o la Boldrini?
“Il rom diventa una bestia e la Boldrini
una poco di buono – risponde l’attore e attivista per i diritti umani -. Come
dire: ti butto nella gabbia del gorilla e ti
faccio violentare dal gorilla”.
Il turpiloquio è di un certo Guido Candela, autore di questo commento al
post che Beppe Grillo ha lanciato la
settimana scorsa sulla presidente della
Camera. Di questa frase che contiene
in sé ben due stereotipi, nessun rom
ha potuto dire di essere stato “umiliato” e “offeso”, a differenza di
quanto ha
fatto Laura Boldrini.
Eppure, da
un lato c’è
una sola
persona,
nonostante si tratti
Quello che le donne
pensano e dicono
“Questa mattina ho l’interrogazione di matematica ma
faccio sega, non me ne fotte nulla di quella stronza, che
vada a farsi fottere”. Il turpiloquio è ovunque.
Ogni giorno, come se nulla fosse, usiamo queste parole,
durante un tragitto in metro, all’università o semplicemente per strada ci capita di ascoltare discorsi di ragazzi
INCHIOSTRO N. 3
colei che è grottesco definire minorenne con il curriculum di
esperienze che ha all’attivo?”. La scelta sta a noi. Qualcuno
obietterà che l’eloquio altro non è che ipocrisia. Se così fosse,
oggi sarebbe certamente più diffuso. È invece il parlar sporco a essere più usato per dar
suono e corpo al nulla assoluto. Un esempio? Prendiamo il costante “dai cazzo!” degli sketch de I soliti idioti o l’infinito repertorio
di parolacce, peti e gag incomprensibili dei
tipo: “Gianluca mi so dimenticato de dirti na
cosa/cosa?/vaffanculo”. Nel XXI canto dell’Inferno Dante traduce la flatulenza del diavolo Barbariccia con l’espressione
“avea del cul fatto trombetta”. La differenza è netta. Quella,
cioè, tra chi usa le male parole per la povertà di idee, l’impaccio mentale che ostruisce la riflessione approfondita e chi le
usa per versare una goccia di vino bianco su un condimento
già squisito. In mezzo ci sono i “diafasici”, giocolieri con la
lingua capace di variarla a seconda delle necessità e delle
situazioni. E così che un giornalista come Travaglio,
fermo restando l’abilità dei suoi ragionamenti, sceglie
di usare il turpiloquio per insaporire il suo Fatto Quotidiano, e che un critico d’arte come Sgarbi in tv, osserva Mughini, “sceglie di passare dal violino al tamburo
djembe”. È il bisogno di cercare ciò che fa più rumore. D’altra parte la nostra è l’epoca del chiasso e le
parole turpi, come avviene nella fisica, non si creano e non si
distruggono. Ma c’è chi può trasformarle in musica penetrante, in poesia. Come quella di Benigni che, nell’ “Inno del corpo sciolto”, consigliava di “cacare parecchio..e colla merda
poi far la rivoluzione”. E liberare il pensiero dalla stitichezza.
della terza carica dello Stato, e dall’altro un popolo, 100 mila persone solo in
Italia e 11 milioni nel mondo.
Ma i rom non sono un popolo come
tutti gli altri. Sono “pre-giudicati”. Lo
dicono le parole-condanna emesse
sulla loro testa: “Rom bastardi”, “ladri”,
“sporchi”, “zingari di merda”. Queste,
come “sporco ebreo”, sono frasi in cui
il turpiloquio diventa ancella del razzismo. Tante sono le parole che portano
in grembo la violenza, ma solo alcune
partoriscono l’odio.
Per Moni Ovadia è difficile dire “stronzo ebreo”, ma piuttosto “porco o sporco ebreo”. Stronzo è debole rispetto
a porco? “Lo stronzo è solo uno che
ti ha rubato un parcheggio, non uno
che vuole dominare il mondo. Quello è
sporco ebreo”.
Tutti i razzisti usano il turpiloquio? “Lo
utilizzano anche quelli che vanno allo
stadio, ma solo i più ignoranti e incolti
– spiega Moni Ovadia –. Il teorico del
razzismo, invece, usa un linguaggio
meno rozzo.”
Il razzista “d’elite” è quello che ricorre
poco al turpiloquio, ma molto alle pe-
molto coloriti, e fin qui nulla da dire. Ma quando a parlare
in questo modo è una donna, le cose cambiano e il moralismo incombe.
Fino a qualche anno fa era improbabile e impossibile
pensare che le donne potessero parlare in questo modo,
ancora meno in televisione.
Facendo un giro all’Università Suor Orsola Benincasa,
ne abbiamo approfittato per fare quattro chiacchiere (registrate) con Anna, iscritta al secondo anno di Psicologia capelli mori lunghi e occhi scuri: “A volte si utilizza
questo linguaggio per esibizionismo, in alcune persone
è normale parlare così e la televisione non dà il buon
rifrasi: “Sono tutti ladri, sono quelli che
rapinano, sono sudici, rubano i bambini”.
Poiché il concetto offende più della
forma, l’odio che deve colpire con le
parole “è espresso molto più con un
pensiero”, spiega l’attore, per il quale
“i rom sono i nuovi ebrei”, quelli che
esempio, anche trasmissioni normali diventano arena di
discussione”. Monica, anche lei studentessa di Psicologia, bionda e con grandi occhiali neri interviene: “Oggi
giorno se parli bene le persone non ti capiscono e quindi
hai il bisogno di esprimerti in maniera diversa, ti adegui
alla massa, ci sono persone che si fanno influenzare e
usano il turpiloquio anche con insegnanti o per mandare a quel paese i genitori, senza rispetto. Chi si trova a
ragionare, con una educazione buona sa quale linguaggio usare”. “È anche vero - ribadisce Anna - che ci sono
ragazze educate, che frequentano scuole private, università prestigiose, ma alla fine usano questo linguaggio.
PAGINA 8
Web 2.0
Chi più ne ha, più ne metta
L’evoluzione della volgarità è l’online
Enrico Mentana ha conosciuto il turpiloquio molto prima
dell’esplosione del web: “La rete non ha inventato niente
– dice -, ha solo cambiato le modalità del turpiloquio. La
mia generazione ha conosciuto il linguaggio scurrile nei
bar e nel mondo reale. Già allora a questo linguaggio,
in Italia, non venivano posti dei limiti. Questo fenomeno
è tipico di una cultura becera del nostro Paese che è
sempre esistita”. Il direttore di La 7 si è visto costretto,
come Fiorello, a eliminare il suo account Twitter perché
semplicemente “se un posto non mi piace - afferma non lo frequento”.
Prima che la società si immergesse nel web 2.0, al punto
da confondere la sfera materiale con quella immateriale, le persone non scendevano ogni giorno nelle piazze delle loro città per urlare al mondo
le proprie frustrazioni: “Letta, fatti non pugnette”,
oppure “quella puttana idiota e inutile del ministro”, o ancora “che giornata di merda, non ho
voglia di fare un cazzo” e chi più ne ha più ne
metta. Con Facebook, Twitter e i social network
in generale, ciò accade quotidianamente. Il linguaggio
si serve di cinguettii e post che suonano come le pernacchie. Gli utenti possono utilizzare una piazza immateriale come contenitore di rabbia spesso ingiustificata
ed esagerata, della quale ognuno vuole rendere partecipe gli altri. Un sito francese, “Vie de merd”, si propone
come valvola di sfogo per coloro che vogliono condividere le sfortune quotidiane che la vita riserva. Ogni post
pubblicato viene firmato con l’acronimo “VDM”, vita di
merda appunto: “Aujourd’hui, dans le bus, una bambina
di 3 anni prendeva a calci la mia sedia. Je lui demande
gentiment d’arrêter. Sul richiamo della madre, lei mi ha
risposto: “Ta gueule, salope. Zitta zoccola”. VDM”, o ancora “Aujourd’hui, il mio coinquilino, qui ne fait jamais la
cuisine, mi ha chiesto se fare i cordons bleus in padella
o al forno. Io gli ho risposto entrambi. Lui ha messo la
padella dentro al forno. VDM”.
Secondo Mentana “chi gestisce i social network dovrebbe imporre dei limiti. Il problema, oltre all’anonimato degli utenti, è che non esistono leggi che possano punire i
trasgressori. Comunque, non so se sia giusto proibire il
libero pensiero. Ognuno dovrebbe seguire la sua morale
indipendentemente dal rischio di sanzioni”.
Gli “eroi da tastiera” possono, ad esempio, rivolgersi direttamente alla presidente della Camera e ricoprirla di insulti di ogni tipo: “Isterica,
bigliarda, femminista”, “nn è che devono bloccà
a camera ve devono buttà fora a calci”. Ma
c’è anche chi rassicura la Boldrini: “Tranquilla
Bold...non la inculerei neanche con il cazzo di
un altro!”. Il vantaggio è che oggi, rispetto al passato,
l’istituzione può replicare direttamente alle offese con lo
stesso canale utilizzato dagli utenti: “I frequentatori del
blog di Grillo sono stupratori”. Come se ci fosse una sfida a chi la dice più pesante. Forse 20 anni fa sarebbe
stato impossibile offendere in maniera così diretta un’alta carica dello Stato come Laura Boldrini. Grazie al web
si può tendere a qualcosa che il mondo reale impedisce
di toccare con mano: colpire direttamente la persona bersaglio, che sicuramente leggerà. Con un semplice
clic e la velocità doppia della rete rispetto alla realtà, il
turpiloquio regna sovrano e garantisce la “democrazia
virtuale”.
Verba volant, scripta manent: oggi una parolaccia postata su un social network può essere letta e “condivisa” da
milioni di persone. L’offesa virtuale, secondo Mentana, è
naturale perché “a ogni opinione sensata corrispondono
delle risposte dettate dalla cafonaggine”.
Jaime D’Alessandro, esperto del web, pensa che la libertà di espressione sia fondamentale e che “nessun
altro strumento può garantirla come la rete”. Secondo
D’Alessandro “la rete è un miracolo. Se gli avessero dato
il Nobel non sarebbe stato un danno”. Internet, consentendo il libero pensiero senza filtri, ha lo svantaggio di
ospitare anche i più estremisti: “Nel mio blog
– continua D’Alessandro – ogni tanto qualcuno
mi minaccia di morte per una semplice critica
a un videogioco. Spesso, quando rispondo e
spiego il perché di ciò che ho scritto, gli utenti
sono i primi a scusarsi”.
Gli insulti non colpiscono solo personaggi famosi; gli ossessionati compulsivi dell’offesa attaccano indistintamente coloro che hanno opinioni differenti. Caterina, la ragazza affetta da 4
-. Fra poco non si potrà neanche dire
malattie rare, ha affermato di essere favorevole
clandestino, si dirà sua eccellenza.”
alla sperimentazione animale. Subito su FaceBorghezio non sa che invece la carica
book gli “animalisti” non hanno perso tempo:
violenta contenuta nelle parole ha tra“Per me puoi morire domani, non sacrificherei
sformato semplici attributi di nazionalinemmeno il mio pesce rosso per te”.
tà in turpiloquio.
L’anonimato degli “eroi da tastiera” consente
Dire “ebreo”, “albanese”, rumeno”,
anche di creare gruppi Facebook a sfondo raz“marocchino”, non è lo stesso che dire
ziale per colpire direttamente le “popolazioni
“inglese”, “americano”, “tedesco”,
inferiori” che abitano il nostro Paese. Ci sono
“finlandese”. Nessuno si sentirebbe
diversi gruppi che promuovono l’unità d’Italia,
offeso se fosse chiamato “inglese”,
come “Sardegna bagnata, Sardegna fortunamentre lo sarebbe se fosse chiamato
ta” che “sostiene” le “pecore” sarde colpite
“rumeno”.
dall’alluvione. Non mancano le minacce per i
Per non parlare del termine “zingaro”,
“munnezzari” o “napoleCani” che, secondo gli
che carico di violenza più di ogni altro,
utenti più originali, dovrebbero essere “lavanon identifica gli abitanti di nessuna
ti col fuoco” dal Vesuvio. Naturalmente sardi
e napoletani non hanno perso tempo nell’abnazione e nessun popolo, ma è divenbassarsi allo stesso livello degli insulti ricevuti:
tato l’unico modo in cui viene chiama“Mamma tua si faidi coddai in cu de su pato il popolo rom. Ancora oggi il turpilostori fill’e bagassa” (Tua mamma si fa scopaquio più violento resta quello classico:
re in culo dal pastore figlio di puttana), oppure
l’attacco all’identità nazionale.
“chella’ zoccola e mammt”.
“Quando ero giovane – racconta OvaMeno male che ci sono dei guastafeste che
dia - c’erano certe persone che sapenrovinano l’atmosfera del web, come Claudio
do che ero ebreo, facevano fatica a
da Cagliari che su Twitter scrive: “Dopo l’alludire la parola “ebreo”. Per non offenvione da noi, il terremoto da voi. La Sardegna
dermi”.
abbraccia Napoli e Campania”.
Lisa D’Ignazio
Lorenzo Ena
meno o uno zingaro?”
più violento è ancora l’attacco all’identità nazionale
prima della Shoah erano l’“usuraio”,
la “sanguisuga”, il “parassita”. Moni
Ovadia racconta la storia di una sua
amica che nei campi di concentramento subiva oltre alla violenza diretta
quella verbale. Le dicevano: “Puttana
ebrea”. Ma spiega Ovadia: “Il termine
più violento era ebrea”.
Oggi basta dire “hai visto quanti pensieri ebrei” oppure “la finanza è nelle mani di quattro banchieri ebrei”. È
un’offesa ragionata che non ha bisogno del turpiloquio. Diverso il trattamento riservato ancora oggi a marocchini, tunisini, albanesi, rumeni e altri
migranti che in Italia ricevono come
accoglienza sempre le stesse parole
andate a male, da destra come da sinistra. Come quelle di Caterina Marini,
consigliere di circoscrizione del Pd di
Prato, che il 21 giugno dell’anno scorso, dopo un furto subito dalla sorella,
scrisse su Facebook: “Extracomunitari
ladri e stronzi dovete morire subito”.
“Io la chiamo negra. Altrimenti come
vuoi chiamarli?”. Così ha parlato
dell’ex ministra per l’Integrazione Cecilie Kyenge, persino, Paolo Villaggio
lo scorso 27 maggio a La Zanzara su
Radio 24.
“La parola “negra” in Italia non si può
dire, ma solo pensare. – Si era sfogato
il leghista Mario Borghezio mentre si
insediava la nera Kyenge al ministero
Il punto focale è la famiglia, a volte la loro è solo una
ribellione. Tutto dipende dalla persona, sta a lei decidere
come e se farsi influenzare”.
Siamo riusciti ad attirare la loro attenzione vedendole coinvolte e anche interessate all’argomento, ma un
certo punto spostando lo sguardo notiamo un gruppetto di suore che stava tranquillamente studiando per un
esame di religione qui al Suor Orsola Benincasa. Ci siamo avvicinati e abbiamo chiesto cosa ne pensavano del
turpiloquio e delle donne. Timidamente Suor Giovanna,
originaria di San Paolo con un accento tra il brasiliano e
il portoghese, risponde: “Bisogna stare attenti alle parole
che si dicono e non basta solo attirare l’attenzione su di
sé. La televisione, così come la radio e il giornale, sono
mezzi potenti anche e soprattutto per i ragazzi, e molte
volte la famiglia non è attenta a loro”. Interviene poi suor
Antonia, molto più grande di suor Giovanna, che ribatte
duramente: “Dipende dai contesti. Non sempre questo
linguaggio è un modo di apparire. È importante capire
l’ambito in cui viene usato. Io credo che la cultura non
abbia bisogno di scendere a questi livelli. Un linguaggio
colorito e irriverente non serve a dimostrare che la donna
può essere all’altezza degli uomini e rivestire come loro
ruoli politico - istituzionali. Per me è puerile. Chi non è
capace di usare parole adatte a contesti adatti è solo
il bambino, perché non ha le strutture mentali per poterlo fare. Un adulto che si comporta così, sia esso politico, giornalista, uomo o donna, sbaglia”. Sembra chiaro
capire da questi discorsi che non si può parlare più di
linguaggio sessista o di genere, e che ormai la donna si
comporta come l’uomo, parla come lui e agisce come
lui. Ma è davvero questo che le donne vogliono?
Diletta Della Rocca
PAGINA 9
Il vignettista maleducato illustra la malaparola istituzionale senza peli su lingua e matita
Vauro, il “sermo cafonis” dei politici
Sta girando il Paese per presentare il
suo nuovo libro, “Storia di una professoressa”, Vauro. Ma il vignettista più linguacciuto d’Italia non smette di stupire
e scandalizzare con i suoi disegni, nei
quali adopera un lessico tutt’altro che
professorale, probabilmente molto lontano da quello
dei suoi genitori. E della stessa Ester, protagonista del
romanzo. Qualche sera fa l’abituale protagonista dell’ultimo capitolo di “Servizio Pubblico”, dopo aver battibeccato con Flavio Briatore, che intanto raccoglieva
applausi nella fossa dei panda collettivisti, ha proposto
una vignetta autoironica, nella quale compare in mezzo
a un Santoro sospettoso e a un Travaglio spocchiosetto,
col pugnetto appoggiato al cinto pelvico. Titolo del disegno: “Cinquestelle: insulti sessisti. Travaglio minimizza”.
E al centro, l’autore stesso, che esclama: “E grazie! Non
ha la minima idea di cosa sia un pompino!”. Poi subito
dopo mostra una vignetta ritraente il grillino Di Maio, che
a dispetto della faccia da bravo ragazzo, torna a casa e
grida al suo gatto: “Boia, zombie, vaffanculo!”.
Il geniale disegnatore umoristico non aveva peli sulla lingua già nel ’78, quando fu cacciato dopo soli tre numeri
de “Il Male” per le sue provocatorie prese di posizione sul caso Moro. Nel ’94, Vauro fu querelato da Maria
Elisabetta Alberti Cesellati, segretaria di Forza Italia al
Senato, per una sua vignetta uscita sul Venerdì di Repubblica. Nel dicembre dell’anno seguente, prendendo spunto dall’invito della rockstar Zucchero a praticare l’autoerotismo, disegnò un Cristo in
croce che rispondeva all’esortazione
del cantante con un: “Io, nemmeno volendo…”. Un lettore de “Il Manifesto”
più cattivo e cattocomunista del solito
lo denunciò, e il vignettista riuscì a evitare tre mesi di carcere solo grazie alla
condizionale. Nel 2009 fu sospeso dalla Rai per una vignetta sul terremoto dell’Aquila, le cui ripercussioni, il
cipiglio della censura, riuscì a rendere ancora più rimbombanti. Per stigmatizzare le promesse mancate di
Berlusconi sulla ricostruzione del capoluogo abruzzese,
l’umorista toscano scrisse, con punteggiatura giornalistica: “Aumento delle cubature. Dei cimiteri”.
La sua vena corrosiva si è sempre prestata a reazioni
non meno contundenti delle sue frecciate polemiche.
Già prima del ventennio-cafonal, nel ’91, settuplicò la
silhouette andreottiana in “Mafiolo, Pidduolo, Rubolo,
Bugiardolo, Corrottolo, Ricattolo, Stronzolo”. E sarà
Una vignetta di Vauro pubblicata su “il Manifesto”
proprio con l’appellativo di nano, o di “Batnan”, che designerà Berlusconi. Quando nel 2008 il leader del Centrodestra definì “coglione” chi avesse votato per il PD,
lui scrisse: “Noi coglioni? Berlusconi fuori dai coglioni”.
Cinque anni prima, in seguito all’affermazione del Cavaliere: “Prenderò le generalità di chiunque m’ingiuri”,
Vauro riportò la frase del premier, a fianco alla quale
aggiunse un sonoro “stronzo”. Assieme
alla trascrizione fedele delle sue generalità (codice fiscale incluso). Non solo, ma
quando Berlusconi definì il presidente
del Consiglio tedesco, Angela Merkel,
“una culona inchiavabile”, lo rappresentò come uno gnomo che rischiava di affondare nello
spugnoso fondoschiena della cancelliera. Nel 2011, poi,
in pieno scandalo “olgettine”, raffigurò Emilio Fede che
porge al suo nume tutelare una bambola gonfiabile, dicendo: “Spiacente capo, ma le donne vere sono tutte in
piazza”. Con lo scoppio del fenomeno-Grillo il suo linguaggio sboccato ha continuato a ricevere ispirazione
a getto continuo. Nel giorno del Vaffa-day ha realizzato
una vignetta in cui raffigurava due pupazzetti dagl’occhi sferoidali e la palpebra pigra. Il primo domanda: “I
ministri sono liberi di parteciparvi?”. E l’altro: “Non so,
ma siamo liberi di mandarceli”. In un’altra vignetta, intitolata “Vaffanculto”, rappresenta un pugno con il dito
medio levato, simile alla scandalosa scultura milanese
di Maurizio Cattelan. Qui però la falange più lunga della
mano diventa un cero prossimo a consumarsi. In un’altra vignetta, ai tempi di un timido tentativo di dialogo
del Cavaliere, scrive: “Berlusconi ha chiesto aiuto pure
a Grillo”, e un alterego pupazzato dell’autore risponde
perentorio: “Perché, non riesce a mandarsi affanculo da
solo?”. Sempre su questo calco, il 3 maggio del 2013,
dopo la sparatoria fuori Palazzo Chigi, un primo personaggio dice all’altro: “Dicono che Grillo è il mandante
morale”. E il secondo: “Cazzate, lui al massimo è il mandante affanculo!”. E’ insomma un turpiloquio artistico,
quello di Vauro, che si limita sempre più spesso a riportare il “sermo cafonis” di un ceto politico incapace di
trovare parole convincenti.
Diego De Carlo
Comicità è mai cadere nel volgare
“E ci si pulisca il culo, va bene?!”. Cosi rispose Totò, vari modi di definire l’organo genitale femminile: da “gat- va dal bambino al nonno. Nel nostro mestiere è normale
nei panni del colonnello Antonio Di Maggio, al maggiore tina” a “passerottina”, fino al celebre termine napoletano dire parole spinte, che si basano sulla trasgressione. Si
Kruger che gli intimava: “Attento, io ho carta bianca!”. “pucchiacca”. Una gag che è rimasta nella memoria di sono sempre usate e si utilizzeranno sempre. L’imporIn quella espressione, usata nel
tante è il modo in cui si dicono.
film “I due colonnelli”, si racchiuÈ fondamentale per non cadere
de la ribellione degli italiani al renella volgarità”. Anche un volto
gime tedesco. Totò rappresenta
nuovo come Mino Abbacuccio,
l’esempio di come una parolactra i protagonisti del programcia, detta da un comico e insema “Made in Sud”, si tiene sulrita nei modi e nei tempi giusti,
la stessa linea: “Personalmente
Quel “Porco…”, detto a gola chiusa, lascia sgo- e spaccio di stupefacenti. Le sue conversazioni
possa non risultare volgare.
non ne faccio un grande uso. Mi
menti i fedeli in processione a Palagiano, in pro- sono bestemmie elevate al quadrato, quelle di
vincia
di
Taranto.
Don
Aldo
è
inciampato
e
avenun
prete
che
utilizza
il
turpiloquio
e
che
lo
fa
abPensiamo a un altro nome storipiace soffermarmi più sulla sido un megafono vicino la bocca, quella frase che binando volutamente, come fosse uno sfogo, la
co, Lino Banfi, e al suo modo di
tuazione comica che sulla paroattribuisce sembianze ‘suine’ al Nostro Signore sacralità della religione alle più triviali oscenità.
trasformare le parole sostituenlaccia. Però la seconda non è da
si è diffusa come una novena. C’è chi crede di Come quando, confidandosi col suo amico: “Me
do la “a” con la “e”. Con questa
escludere e sicuramente, messa
aver sentito male, chi s’indigna e chi invece re- lo vorrei…. sull’altare”, diceva riferendosi a un mitecnica alcune espressioni dial punto giusto, risulta efficace
sta senza parole. A Norcia, invece, tutti ricordano norenne.
Il punto è che c’è una linea di confine
ventavano comiche, senza risule non rende sporco il risultato
che padre C. non potendo per sua indole, fare a neanche troppo sottile tra i servi di Dio e i servi di
tare volgari: “porca puttana” difinale”. Celebre grazie a “titi”, il
meno di bestemmiare, aveva l’accortezza di le- Satana. Tra chi porta la tonaca e ogni tanto si abvarsi il collare da prete tutte le volte che il sangue bandona a qualche volgarità e chi cela la propria
venta “porca puttena”, “cazzo”
suo inseparabile orsetto, l’artista
raggiungeva
i
suoi
nervi.
volgarità
sotto
la
tonaca.
diventa “chezzo”. Questo gergo
arriva alla parolaccia nella parte
D’altra parte in Veneto, in Toscana e in Emilia Ro- Alla giovane ragazza accanto a lui, suscita ilarità
ha rappresentato la chiave del
finale dei suoi spettacoli: “La uso
magna, è sempre stato molto comune ascoltare don Carlo Verdone che, nel film “Acqua e saposuo successo.
come rafforzativo di una situaziole colorite espressioni dei preti. In queste regioni, ne”, impreca contro un pasticcino che ha sporE che dire di Gigi Proietti con il
ne legata alle continue ramanzine
infatti, la bestemmia spesso è parte della sintassi cato la sua veste. La pasticcera al massimo può
suo celebre “nun me rompe er
che una mamma fa al proprio fidialettale ed esistono persino frasi che sarebbe- stupirsi un po’: “Hai sentito il padre che ha detto?
ca’!”. Tutto nasce dalla storia
glio per ottenere ordine e disciro impossibili da dire senza. Come quel parroco Ha detto porca puttana e pure Eva?”.
veneziano che al termine di ogni liturgia era so- Ma a parte un po’ di stupore, quell’espressione
di un immaginario cantante di
plina. Per quanto speciale possa
lito salutare i suoi fedeli dicendo loro “buso de non indigna. Le battute blasfeme nella tradizione
night club costretto, a una ceressere la figura materna, non si
cueo”(buona
fortuna)
o
quel
frate
toscano
che
italiana,
sono
tipiche
delle
sacrestie,
forse
perché
ta ora della notte, a cantare in
può non dire che “romp o’ cazz!”.
con assoluta disinvoltura, uscendo fuori dalla sua nella bestemmia pretesca c’è, sia pure al negafrancese. Accompagnato dalla
L’utilizzo dell’espressione non
chiesa, gridava “maremma maiala” o “maremma tivo, il riconoscimento dell’assoluto, c’è la Fede.
musica giusta, riusciva a ripetere
mi ha mai creato problemi, forse
bucaiola” (Maria madre di Gesù), tutte le volte che Insomma solo il servo di Dio, in presunzione di
l’espressione, per tutto il monoperché tutti condividono questo
il tempo pareva incerto. Certo, le loro impreca- familiarità, può permettersi di prendere per il balogo, senza risultare mai volgare
modo di dire”.
zioni non hanno nulla in comune con il “che Sa- vero il Dio “che atterra e suscita, che affanna e
tana sia con te” di don Riccardo Seppia, parroco che consola”.
o noioso. Un francesismo alla
Mino non crede che l’uso di pa50enne di Sestri Ponente accusato di pedofilia
Lucia Francesca Trisolini
romana che ancora oggi, per
role volgari rappresenti lo specsua stessa ammissione, è tra gli
chio dei nostri tempi, e aggiunge:
sketch più richiesti.
“Penso piuttosto che si tratti di
Un altro caso è quello di Roberto Benigni. Ospite del tutti gli italiani. Sul legame tra turpiloquio e comicità gli una sorta d’incapacità di portare il pubblico alla risata in
programma “Fantastico ‘91”, condotto da Raffaella Car- artisti napoletani hanno le idee chiare. Così Biagio Izzo: maniera pulita”.
rà, il comico e attore toscano improvvisò una parodia sui “Mi sono sempre rivolto a un pubblico trasversale, che
Vincenzo Nappo
Blasfemia in sacrestia: la trivialità tra gli uomini di fede
C’è fede nell’insulto a Dio?
INCHIOSTRO N. 3
PAGINA 10
Il turpiloquio nello spettacolo quando faceva scandalo: Pippo Baudo e il caso Zavattini
La tv delle
parolacce
“Non nominare il nome di Dio invano, scegli il momento
più opportuno per l’effetto” scriveva nel 1911 il giornalista
statunitense Ambrose Bierce. Quel momento, per molti,
è la luce dei riflettori. La notte del turpiloquio nel mondo
dello spettacolo è costellata, soprattutto oggi, da parolacce, bestemmie e imprecazioni d’ogni tipo. Sono trascorsi
anni da quando la parola “cazzo” pronunciata con vigore
da Cesare Zavattini fece scandalo. Era il 1976 e lo sceneggiatore di “Ladri di biciclette”, durante la trasmissione
“Radio Anch’io” che conduceva dallo studio di casa sua,
pronunciò sapientemente quella parola. Pippo Baudo confessa: “Il termine utilizzato da Zavattini non
è un caso di turpiloquio volgare, è un’altra
storia. Lo disse apposta, non gli scappò in
uno scatto d’ira. E poi spiegò perché l’aveva detto, lo argomentò, è quindi un episodio emblematico. Avvisò che stava per pronunciare una parola che avrebbe suscitato
sicuramente una reazione negativa; disse la parola “cazzo”
e anche il significato che aveva e perché l’aveva adoperata.
Fece un discorso filosofico, sociologico molto importante.
D’altra parte era Cesare Zavattini”.
Una distinzione, quella cui accenna Baudo, molto interessante. La parolaccia può diventare ricca provocazione,
strumento attraverso il quale abbattere barriere culturali,
ma la sua forza, proporzionale allo scalpore che emana,
resta quella dell’estemporaneità. Così una bestemmia dettata dal nervosismo può cambiare la vita di un uomo allontanandolo a lungo dalle telecamere. Accadde a Leopoldo
Mastelloni trent’anni fa durante la trasmissione di Rai 2
“Blitz” condotta da Gianni Minà. L’aver associato Dio al più
rozzo degli animali non fu perdonato al noto attore teatrale,
e per anni scomparve dai palinsesti televisivi. Non bastò
neanche l’assoluzione del tribunale di Viareggio dell’anno
successivo a placare gli animi. Mastelloni non l’ha ancora
mandata giù. L’ho chiamato al telefono: “Non mi pare proprio sia il caso. Buona giornata” e mette giù la cornetta.
Già nel 1974 il pluripremiato apneista Enzo Maiorca si era
lasciato andare a una serie lunghissima di imprecazioni:
molti nomi del calendario furono scomodati. In diretta tv il
sub si preparava a raggiungere il record mondiale di apnea
a 90 metri di profondità. Riemerse infuriato per essere stato casualmente strattonato dal fotografo subacqueo Enzo
Bottesini, inviato lì proprio dalla Rai. I registi riuscirono a
interrompere le trasmissioni troppo tardi e i telespettatori
non fecero in tempo a tapparsi le orecchie. Maiorca non fu
più invitato a viale Mazzini per molto tempo.
Le turpitudini linguistiche di quegli anni spinsero un parroco
romano, don Pasquale Casillo, a scrivere un vademecum
di termini da utilizzare al posto delle bestemmie, ma i suoi
“corbezzoli”, “perbacco”, “acciderbolina” e “perdindirindina” non ebbero grande successo. D’altronde i tempi stavano cambiando molto velocemente e il linguaggio della vita
quotidiana con tutto il turpe del reale avrebbe riempito, a
distanza di pochi anni, i canali del piccolo schermo. Mastelloni è tornato alle luci della ribalta televisiva partecipando a un reality, e a numerosissime ospitate in talk di vario
tipo; addirittura Maiorca, asciugatosi dalle acque dell’imprecazione, è diventato senatore della Repubblica nelle liste di Alleanza Nazionale a inizio anni Novanta. C’è anche
la lingua biforcuta. Un duplice aspetto della personalità,
questo, ben esemplificato dall’ondata di insulti, blasfemie e
bestemmie del solitamente sobrio e forbito Carlo Freccero
che travolse il giornalista di Libero Francesco Borgonovo
che registrava segretamente la telefonata e ne ha poi diffuso la registrazione. Spiega Baudo: “Stiamo attraversando
un momento in cui parliamo un brutto linguaggio, parliamo
una brutta lingua italiana, piena innanzitutto di parole straniere, a volte messe lì a casaccio solo per dimostrare di
saperle. In aggiunta a questo usiamo un italiano pedestre
ricco di turpiloqui. Abbiamo assistito all’accelerazione di un
linguaggio che man mano ha perso il suo valore estetico.
La tv privata ha foraggiato certamente l’uso di espressioni volgari. Inoltre, nell’ultimo decennio, aver dato la parola
al telespettatore, con format che lo vedono protagonista o
entrando in casa sua, avere allargato la platea insomma,
ha aumentato i rischi. Per quanto mi riguarda, non sono un
abitudinario di questo tipo di linguaggio e mi è ostile, quindi
la gente che viene da me sa come deve comportarsi e usare le “buone creanze”, come si diceva una volta. Non hanno
mai nemmeno provato a fare un discorso volgare. Consapevoli del fatto che li avrei bloccati subito e li avrei cacciati
via dallo studio”. Se oggi tutti i conduttori facessero come
Baudo, forse in tv resterebbero solo loro.
Gianmarco Altieri
Gregoretti, è mio il primo
vaffa nel cinema italiano
“Io ho 83 anni. In tutta la mia vita credo di aver bestemmiato, proprio esagerando, sei volte. Tutte litigando con mia moglie! E non so cosa possa significare”. Nell’ironia con cui pronuncia questa frase, Ugo
Gregoretti, grande regista, giornalista, drammaturgo
e presentatore televisivo, anticipa ciò che pensa sul
turpiloquio.
“Oggi non sono assolutamente contento di questa
degenerazione linguistica e dell’uso così comune del
turpiloquio, però non ammetterei mai e poi
mai la censura, contro la quale ho combattuto negli anni ‘50 e ‘60 e che colpì anche
me come autore cinematografico. In nome
della libertà d’espressione, anche la parolaccia ha diritto di cittadinanza nei prodotti
della creatività. A me è successo nel film “I
nuovi angeli” del 1962. Un personaggio a
bassa voce, anzi quasi solamente muovendo le labbra, disse “vaffanculo” a un anziano che lo
rimproverava. Questa parola mi fece etichettare negativamente come quello che aveva inserito il “vaffa”
nel cinema italiano. I censori me lo vietarono. Erano
magistrati in pensione, moralisti, personaggi generici
che accettavano di fare i censori probabilmente per
intascare un gettone. Ricordo un deputato democristiano, sottosegretario al ministero dello Spettacolo
(che era anche la sede delle turpitudini censorie) che
fece uno sfogo perché De Sica continuava a rincor-
rerlo chiedendogli il permesso di inserire la parola
“stronza” ne “La Ciociara” che considerava insostituibile. Sempre nel mio film “I nuovi angeli” c’era un
pappone che diceva a una donna “puttana”. Mi fu
proibito. Raggiunsi un compromesso con la censura: la donna era inglese, lui l’avrebbe dovuta chiamare “donnaccia” e lei avrebbe detto: “io pùttana, tu
pùttano, tutti maschi italiani pùttani!”. Ecco, bastava
spostare l’accentazione sulla prima sillaba e la parolaccia poteva essere inserita.
Vivevamo situazioni incredibili e rapporti grotteschi con la censura. Io sostengo
che, come insegna Dante, il turpiloquio
serve se è necessario espressivamente e
poeticamente. Nessuno nel 1300 censurò
“ed elli avea del cul fatto trombetta”.
La parolaccia è polivalente, quelle delle
fiction contemporanee sono insopportabili, trasmettono l’ansia di rifarsi di tanti anni nei
quali era proibito inserirle. Poi non sopporto che venga usata dai giornalisti. Trovo orrendo tutto questo,
maschera la povertà della lingua. Alla Rai, ad esempio, c’era un vademecum dell’annunciatore o del
giornalista. Non facevamo errori, le parolacce erano
inconcepibili, figuriamoci le bestemmie che, pur non
essendo credente, trovo odiose”.
G. A.
Quando “fuck” arriva agli Oscar
“Porca Troia, Jordan! 430,000 dollari del cazzo, in un solo mese del
cazzo!”.
La pellicola di Scorsese, con le
sue oltre cinquecento parolacce,
detiene il record del cinema-turpiloquio. Fino al 1990 era “Scarface” a detenere la palma del film
più volgare, con 206 parole oscene, battuto poi in questa corsa
all’insulto da “Quei bravi ragazzi”,
“Pulp Fiction” e giù in una discesa
senza fine verso l’abisso del turpe.
I tempi corrono, cambiano, e il linguaggio cinematografico sembra
adattarsi sempre di più alla realtà di oggi. E non solo per quanto
riguarda le tecniche. “È come se
mancasse un filtro. Siamo nella
pornografia della rappresentazione”, dice Silvio Orlando. Ed è una
condanna senza possibilità di ritorno. “Al cinema - continua - si
ha sempre più la sensazione di essere davanti ad una brutalità senza senso. Chi fa film ha il dovere
di tentare uno sforzo, di fare una
sintesi tra il linguaggio comune e
ciò che va sullo schermo”.
La volgarità invade qualsiasi genere cinematografico. Le paro-
le si trasformano in riempitivi dei
dialoghi; un ‘fuck’ sarà quindi solo
un intercalare, privo di significato
e un ‘figlio di puttana’ dedicato a
un broker diventa un complimento
particolarmente espressivo.
“Oggi è fin troppo facile usare il
turpiloquio nelle rappresentazioni
artistiche, bisognerebbe riscoprire il linguaggio del vecchio cinema, quello di Charlot
e delle grandi pellicole d’autore”, propone
Benedetto Casillo, attore comico partenopeo.
Qual è allora il confine
tra la volgarità del ‘cinepanettone’ di casa
nostra o del b-movie di turno, che
attira il pubblico più facile, e quella
di una pellicola osannata dalla critica e premiata con statuette prestigiose? I dialoghi di “The Help”,
uno dei film rivelazione degli ultimi
anni, contengono una parolaccia
ogni 42 secondi.
“Se c’è un’idea dietro la parola più
sciolta, la comunicazione con un
linguaggio semplice può aiutare
la diffusione del messaggio - dice
Enzo Decaro, attore, sceneggiatore e docente di scrittura creativa
- , c’è differenza tra un cinema che
usa parole forti per far passare un
contenuto altrettanto incisivo e chi
si preoccupa solo di avere successo”.
L’attenzione al linguaggio e al significato
quindi, sono al centro
di tutto. L’attore de “La
smorfia” è convinto
che “bisogna saper distinguere, è il compito
di chi guarda. Il pubblico, spesso affascinato
da alcuni tipi di film,
dopo poco li dimentica”.
Si sopporta un ‘vaffa’ di troppo
e ci si ricorda del film quando è
all’interno di un linguaggio adatto
alla rappresentazione.
Se invece serve a raccontare il
mondo allora, come sostiene Orlando, anche ‘coglione’ può essere un momento d’arte.
Lara De Luna
PAGINA 11
L’ illusione
dell’allusione
di Alfonso Fasano
con Renzo Arbore
Un innovativo conservatore. Conservatore delle
buone maniere. Uno che
ha cambiato l’Italia senza
“parascandali” dialettici e
morali, camminando come
un acrobata sul filo sottile dell’allusione: “Noi eravamo quelli del doppiosenso velato, delicato.
Meglio il non detto che il detto, crea
complicità con chi ti ascolta da casa,
a cui lasci il compito di interpretare.
Oggi, invece, la parolaccia è il primo
espediente per l’applauso”. Parole
di Renzo Arbore, abituato a stupire
senza inquietare, a colpire senza turbare. Il mattatore foggiano rimpiange
l’elegante malizia delle sue geniali
trovate, ancora oggi viste come una
vera e propria rivoluzione copernicana dell’intrattenimento. Trent’anni fa
i suoi storici programmi della notte.
Adesso, volgarità a raffica.
“Sono inorridito per quello che sento,
oggi, tra canzoni e trasmissioni televisive. Ricorrere alla parolaccia gratuita
è un trucco bieco, crea l’ovazione immediata ma azzera il rapporto di fiducia tra artista e pubblico”.
Non solo showbiz, però. Arbore vede
una nuova “cultura della parolaccia”
anche in altri settori del vivere civile,
politica e giornalismo in testa: “Le ultime vicende in Parlamento, una stampa che non virgoletta, non censura e
non si censura, non mette i puntini
nelle parole da bollino rosso. Roba
da mitomani, inconcepibile una volta.
Un’esplicazione chiara e malinconica
dei nostri tempi. Manca la
satira sulla parola, la capacità di stupire attraverso
una metafora allusiva”.
Un Arbore nostalgico, che
ripercorre, attraverso i ricordi di una
carriera, un modo italiano di fare intrattenimento che non contemplava
scurrilità: “Le sorelle Bandiera, il Clarinetto, un filù filà con occhio furbetto.
Tante chicche da goliardi che sfidano
i tabù, giocano, sottintendono, alludono. Esempi sul fare show e tendenza
senza scandalizzare. Non come oggi:
affoghiamo nella parolaccia e poi ci
facciamo anche i programmi televisivi. ‘Lo diceva Neruda, che di giorno si
suda’. In una frase, tutto un modo garbato di divertirsi con le parole di cui i
miei programmi e la mia musica erano
e sono dipinti”.
Oggi, potere del tempo che passa, non
è più così. Niente spazio per Neruda,
e neanche per un semplice Cocorito,
“vecchio pappagallo cu na’ scella de
lignammo” protagonista di uno storico
successo di Arbore. Per lui c’è l’esilio.
Ma pure dall’esilio, ne siamo certi, Cocorito non sa e non vuole usare i vaffa.
Parolacce in musica per essere contro
Squallor, Elio, Federico Salvatore: quando il turpiloquio finisce anche nelle canzoni
In principio erano in quattro. E vollero diventare cavalieri dell’A- menziale italiano, sottogenere che tanto sotto non è. Il primo
pocalisse perché si annoiavano. Anzi, si “sfasteriavano”, per dir- esperimento è quello degli Skiantos, gruppo bolognese che già
la con un idioma, quello napoletano, che divenne lingua ufficiale dal nome assonante si pone come erede diretto del gruppo apridel gruppo nonostante la provenienza geografica mista. Quattro pista. Freak Antoni, voce del gruppo, ci ha lasciato pochi giorni
tra i personaggi più autorevoli della musica italiana insieme in fa dopo una lunga malattia. Primo grande frontman del turpiloun progetto folle, che Michele Rossi, regista di un documentario quio musicale italiano, ha ispirato una generazione di emuli e ha
dedicato a questa avventura, definisce così: “Prendete il meglio avvicinato il genere alla politica, inclinandolo verso convinzioni
in Italia nel campo musicale, dalla scrittura di note e parole fino sinistrorse. Sempre al Nord, nascono e crescono gli Elio e le
alla distribuzione. Metteteli insieme, sciogliete ogni freno inibi- Storie Tese, sulla cresta ancora oggi. Meno parolacce pure, ma
torio e avrete il gruppo musicale più pazzo della storia italiana. il (doppio)senso resta quello. Il nome viene da un successo proEcco come nacquero gli Squallor”. Bigazzi, Savio, Pace e Cerru- prio degli Skiantos, “Eptadone”: nel bolognese, storie tese è un
ti, in pieni anni Settanta, decidono all’improvviso di rompere: gli modo di dire per definire momenti caldi della vita. Elio, al secolo
schemi, i tabù, le “palle”. Proprio “Palle” è il titolo del secondo Stefano Belisari, è un mito per le ultime tre generazioni, e col
album, un anno più vecchio del primogenito “Troia”. Bastano i suo gruppo stupisce e quasi trionfa a Sanremo per due volte.
titoli per capire. Parolacce e dissacrazione a mitraglia, un vero Il fatto che non compaia nell’albo d’oro ufficiale fa ancora oggi
ciclone. È un trionfo di immagini sessuali esplicite, uno sfogo discutere.
di “cazzi”, “bucchini” e “puttane”. Ma è anche satira, mai così Poi c’è il Sud, dove gli Squallor hanno forse attecchito di più,
diretta e violenta. Ancora Michele Rossi, da poco nei negozi nonostante un successo che non conosce latitudini. Migliaia di
specializzati con il dvd del docufilm “Gli Squallor”: “Volevano “guaglioni” si sono fatti incantare con le loro hit gonfie di pasmascherare e sputtanare i sistemi italiani. Sistema politico, si- rolacce, e provano a seguire la cometa: Gianfranco Marziano
stema sociale, persino quel sistema musicale che alimentavano è satira con turpiloquio allo stato puro, il montese Pino Scotto
dal ventre, di cui erano importanti esponenti. Tutti sotto tiro. Il “getta merda” su tutto e tutti. Poi ci sono quelli che sfruttano il
loro turpiloquio esprimeva la totale mancanza dell’ipocrisia che mainstream per dissacrarne i testi. In breve divengono un cult:
invece era propria ai divi musicali di allora. E allora giù parolacce, il pugliese Leone Di Lernia, il “Re dei Tamarri” Tony Tammaro e
giù insulti. Contro le strutture e per avvicinarsi ai giovani. Contro i “frizzantini” Mimmo Dany e Gigione. Ne dimentichiamo sicuragovernanti, cantanti e televisione. Ma soprattutto, per divertirsi mente qualcuno.
e spezzare la monotonia”. Gli Squallor sono i primi a scardinare L’esplosione delle televisioni private porta alla ribalta tanti nomi
la Porta Pia della musica con le parolacce. Ancora Rossi: “Un nuovi, e da Napoli piomba all’improvviso al Maurizio Costanzo
evento irripetibile. La loro carriera vera, quella seria, sfolgorante Show un ragazzo di Santa Teresa degli Squallor. Pardon, degli
e remunerativa, gli permetteva di provare a restare anonimi, a Scalzi, ma l’amore per la band che ha rotto gli argini spesso fa
confinare gli Squallor nell’angolo goliardico. Ci hanno provato confondere. Lui c’è cresciuto, con le improvvisazioni in sala dei
in tanti a portarli allo scoperto, ma non c’è stato verso. Dopo quattro dell’Apocalisse. È mancino, suona la chitarra e all’inizio
di loro, tutti quelli che ci hanno provato sono stati apprezzabili degli anni novanta si fa conoscere in Italia con un suono guttutentativi di emulazione, ragazzi in cerca di visibilità e successo”. rale che diviene una canzone. Un inno alla e della napoletanità.
Gli Squallor tirano i buoi, e tirano avanti per un bel po’. L’ultimo “Azz”, semplicemente. Lui è Federico Salvatore, e ha d’improvalbum del 1994 si intitola “CambiaMento” e vede Gigi Sabani viso rinverdito la tradizione della canzone cabarettistica partealla voce perché il maestro Savio non può più cantare. In mezzo nopea. Con un po’ di turpiloquio, si capisce. Perché? L’abbiamo
e dopo, ci si comincia a prendere gusto.
chiesto direttamente a lui:“La parolaccia nelle mie canzoni ha
Le parolacce nelle canzoni fanno scandalo, discutono, dividono. una valenza culturale. È importante scindere: non parliamo di
Uno dei primi “culi” lo mette De Andrè nella sua “Un giudice”, volgarità gratuita, ma di un’oscenità diretta che incuriosisce e
poi tocca ai primi Stadio, con “Gran figlio di puttana” che entra non offende. È una provocazione per attirare l’attenzione, oltrein classifica e nel film “Borotalco” di Verdone. Siamo ancora alle ché una ribellione a poteri precostituiti, come la scuola, la reliprime schermaglie. Vengono poi gli anni Novanta, con gli exploit gione o la famiglia”.
di Marco Masini: da “Vaffanculo” a “Bella stronza”. Il cantautore Le sue canzoni, tra un “E che sfaccimma” e un “Vaffanculo”,
fiorentino si fa ascoltare, conoscere e insieme scandalizza.
raccontano storia e storie della vecchia Partenope: “Il peto nel
Oggi, il turpiloquio nella musica d’autore o leggera, è accettato regno di Napoli parla di tutti i re che hanno governato la capitale
un po’ dovunque. C’è la zona franca del rap, dell’hip pop. Di- borbonica, mentre le varie “Azz” e i vari “Incidenti” ci dipingono
rettamente dai colleghi made in Usa, anche gli italiani si adat- gli infiniti distacchi di una città piena di contraddizioni. Ci sono le
tano. Le rime melodiche di Jovanotti sono un lontano ricordo: parolacce? Trovo molto più offensivo un insulto gratuito, un invioggi Fabri Fibra, Nesli e tanti altri hanno fatto della parolaccia di to al Vesuvio a esplodere, i cori sul colera. Quello è il vero turpicontestazione il loro “must”. Napoli non sfugge all’onda lunga: loquio”. L’ultimo singolo di Salvatore si intitola “Lato B”, e vede
i ragazzi di oggi ascoltano innumerevoli rapper di casa nostra. I come unico protagonista il fondoschiena: “Ma quale deretano?
testi non mancano di trivialità varie. Lucariello, ex frontman degli Il culo resta culo. De Andrè diceva che chi è basso ha il cuore
Almamegretta, definisce la parolaccia come “un metodo diretto, vicino al buco del culo. E non parliamo ovviamente di altezza,
immediato, chiaro e provocatorio di rivolgersi ai giovani. Un stru- ma di statura morale. Io aggiungo il mio pensiero, e denigro la
mento di comunicazione, ormai”. Clementino, altro enfant prodi- censura che mette le mutande alla cultura. Perché solo il culo ha
ge dell’hip pop nazionale, circoscrive l’identità della malaparola l’osso sacro. Vi basta per capire come la penso?”. Sorridiamo,
al contesto: “Il rap vive di scontri, in una gara di rime freestyle annuiamo. Ci basta.
insultare il proprio avversario è il minimo. Da qui, è facile passare
A.F.
all’insulto a chi, come i politici di oggi, ti mette il
bastone tra le ruote. In ogni caso, la cultura rap
in senso stretto è contro la parolaccia fine a se
stessa”. E ci mancherebbe altro.
In tanti, una volta costruita la ferrovia, decidono
DA LEGGERE
poi di prendere il treno diretto. Non musica con le
Aretino Pietro, Sonetti lussuriosi e altri scritti, Sonzogno, Milano 1986.
parolacce, ma parolacce in musica. Nasce il deEditio princeps 1527
Consigli di lettura
Rabelais Francois, Gargantua e Pantagruele, a c. di Mario Bonfantini, Einaudi,
Torino 1993.
Editio princeps: 1532
Boccaccio Giovanni, Decameron, a cura di Vittore Branca, Einaudi, Torino
1992
Sartre Jean-Paul, La nausea, Mondadori, Milano 1958 (trad. Bruno Fonzi)
Sartre Jean-Paul, Il muro, Einaudi, Torino 2005 (trad. Elena Giolitti)
Miller Henry, Il Tropico del Cancro, Feltrinelli, Milano 1962 (trad. Luciano Bianciardi)
Salinger J.D., Il giovane Holden (Vita da uomo), Casini, Roma 1952 (trad.
Jacopo Darca)
Aldo Busi, Sodomie in corpo 11. Non viaggio, non sesso e scrittura, Milano,
Mondadori, 1988.
DA NON LEGGERE
Moravia Alberto, Opere complete, Bompiani, Milano 1952.
Bukowski Charles, Storie di ordinaria follia, Feltrinelli, Milano 1989.
Bukowski Charles, Musica per organi caldi, Feltrinelli, Milano 2003.
INCHIOSTRO N. 3
PAGINA 12
Letteratura Bestemmie e maleparole nel mercato editoriale. Sono diventate un’abitudine?
Anche Dante scriveva
Rea: “Il turpiloquio sta
in volgare. In tutti i sensi nell’uso che se ne fa”
“Svegliati! Svegliati, cazzo! Lo sai che devi
dormire con un occhio solo…è nel sonno
che t’inculano”. Con queste “brillanti” parole Nicolò Ammaniti introduce uno dei suoi
ultimi romanzi, riproponendo un turpiloquio
che non è certo una novità nel linguaggio.
Partendo da Omero, la letteratura è piena di
espressioni volgari. Il più “colorito” tra i greci
era Aristofane, tra i latini Plauto e Giovenale.
Ma c’è chi non è d’accordo. Secondo Raffaele La Capria, una delle penne più raffinate
della cultura napoletana, “la letteratura italiana non ha nulla a che fare con il turpiloquio,
può usarlo solo quando c’è la necessità di
far parlare alcuni personaggi in determinate situazioni. In questi casi il turpiloquio fa
parte del realismo descrittivo di particolari
ambienti”.
La tradizione continua fino alla letteratura italiana del Trecento. Boccaccio parlava
di “troiate” nel Decamerone e Dante si abbandonava a turpiloqui nella Divina Commedia, utilizzando termini come “puttana” e “merda”. Nel canto XVIII dell’Inferno, ad
esempio, il sommo poeta parla di una prostituta che “si graffia con le unghie merdose”. Più noto è il verso “Per l’argine sinistro volta dienno, ma prima avea ciascun la
lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno; ed elli avea del cul fatto trombetta”.
Pietro Aretino nel Cinquecento preferiva invece le parole “cazzo” e “fica”. Nel Seicento, Tommaso Stigliani scriveva il poema Merdeide, dal sottotitolo Stanze in lode
delli stronzi della Real Villa di Madrid. L’autore, rivolgendosi ai reali spagnoli, diceva:
“V’han li stronzi e la merda albergo e letto”.
Questo “colto” turpiloquio destava scalpore: “Dante, Boccaccio e l’Aretino quando
usavano parole colorite lo facevano per dire pane al pane e vino al vino. Loro non facevano complimenti”, aggiunge La Capria. Oggi, invece, l’uso di parolacce e bestemmie è diventato un’abitudine. Giovani scrittori emergenti cercano di inserirsi nel mercato editoriale utilizzando un linguaggio semplice e accessibile a tutti, ma scadono
spesso nel volgare nel timore che “non se li caghi nessuno”. In questo atteggiamento
non c’è alcun rispetto nei confronti del lettore. C’è da chiedersi allora: è lo scrittore a
confondere il lettore o è la società a imporre categorie linguistiche che sono difficili
da eliminare? Cesare Pavese aveva già risposto da tempo a questa domanda: “Nulla
è volgare di per sé, ma siamo noi che facciamo la volgarità secondo come parliamo
o pensiamo”. “Penso che Pavese avesse ragione –continua La Capria- mantenere il
senso della misura anche nelle parole è sempre un buon segno”.
Mariana Cavallone
Curiosità giornalistica e ricercatezza letteraria. Ermanno Rea torna a
Napoli, la sua città natale, per presentare il suo ultimo libro Il sorriso di
don Giovanni. Classe 1927, Rea ha collaborato con numerose testate
giornalistiche. Nel 1990 ha pubblicato il suo primo romanzo, Il Po, si
racconta: uomini donne paesi e città di una Padania sconosciuta. Con
Mistero napoletano ha vinto il Premio Viareggio 1996, con Fuochi
fiammanti a un’hora di notte il Premio Campiello 1999. Oggi a 87 anni “ancora non
compiuti” –scherza lo scrittore- Ermanno Rea parla con preoccupazione del rapporto
dei giovani con la lettura. La società propone nuove forme di interazione con precisi
codici linguistici, da cui deriva una letteratura al limite tra la povertà lessicale e il turpiloquio…
I giovani scrittori emergenti utilizzano un linguaggio semplice e colloquiale, ma
spesso intriso di turpiloquio, perché?
Sulle corruzioni della lingua italiana è stato scritto e si scrive in continuazione. La nostra lingua oggi è molto mortificata, non solo nel linguaggio dei giovani,
e certo le parolacce non mancano. Ma non voglio fare del moralismo.
Non ci sono giudizi positivi o negativi sul turpiloquio. Tutto dipende
dall’uso che se ne fa. Alcuni termini, ad esempio, vengono utilizzati per
dare maggior realismo alla storia. È chiaro che la letteratura sta subendo notevoli cambiamenti ma non solo nel linguaggio. Anche i temi, le
tecniche, i personaggi sono diversi.
È per questo che lei ha scelto, nel suo libro, di mettere in secondo piano la cronaca e fare spazio all’invenzione artistica?
Il riferimento alla realtà non manca, ma Il sorriso di don Giovanni sostanzialmente
è un libro sull’immaginazione. Nella vita di una persona che scrive ci sta anche una
trasgressione rispetto alle esperienze passate.
E trasgressioni nel suo linguaggio?
Non sono necessarie.
Perché i ragazzi si interessano poco alla lettura e quando lo fanno
preferiscono storie semplici, caratterizzate da un lessico povero e
a volte volgare?
Credo che tutto il mondo in cui viviamo sia un invito a deviare dalla lettura. Quando ero ragazzo leggevo fino a sera tarda, oggi i giovani fanno
le ore piccole andando in giro per pub e birrerie. Non hanno tempo per
leggere! C’è una società che spinge verso altre forme di passatempo. La televisione,
il computer. Una volta il racconto ti faceva vedere personaggi, volti, situazioni. Oggi
l’immagine ruba spazio alla pagina scritta. Questo modo di vivere influenza anche il
modo di scrivere e di parlare.
C’è ancora speranza per la letteratura?
Viviamo una fase di transizione, non so verso dove stiamo andando. Siamo consapevoli della perdita che stiamo subendo proprio come esseri umani, come uomini
e come scrittori. Quello che sarà domani nel mondo della creazione artistica è una
grossa incognita.
M. C.
“Merda” e si va in scena. Teatro tra abuso e censura
Come poter scindere il teatro dal turpiloquio? Basti
ricordare il “merda”, l’augurio che si dà a un teatrante per la buona riuscita dello spettacolo. Quel merda
è legato a un’immagine ancora più turpe ossia alla
quantità della suddetta che i cavalli delle carrozze
lasciavano davanti ai teatri, a suggello della minore
o maggiore quantità di spettatori. Il turpiloquio non
riguarda solo il “parlare sporco” ma anche un’azione turpe secondo quelli che sono i canoni della pubblica morale sistematizzati nella legge. Il teatro che
da sempre è l’arte in cui la società si riflette da essa
prende consuetudini e nuovi costumi. Come nella
vita comune così in teatro il turpiloquio e la blasfemia
hanno assunto diverse sembianze perché cambiata
è la morale pubblica. Da attori quali Totò ed Eduardo
e le loro pernacchie sempre usate per mortificare il
Potere fino all’indimenticabile pisciata in Cristo ‘63,
ingiustamente addebitata a un giovanissimo Carmelo
Bene che era si attore in quello spettacolo nei panni
di Cristo ma non reo della dorata doccia di cui fu vittima per mano (si fa per dire) di un giovane compatriota l’ambasciatore argentino a Roma. La blasfemia
di Dario Fo e Franca Rame, lo scandaloso Pier Paolo
Pasolini fino al corpo blasfemo anch’esso di Ryszard
Cieslak nel Principe Costante di Grotowski. Abbiamo
chiesto a Domenico Polidoro, regista e già maestro di
Regia dell’ Accademia nazionale d’Arte drammatica
Silvio D’Amico, una riflessione sul tema.
Qual è il rapporto tra il turpiloquio nel teatro e nella vita comune?
Se intendiamo il turpiloquio come una “rottura” del
normale codice di comunicazione per provocare lo
smontaggio dell’ideologia dell’uomo per bene, nessuna. Certamente, nella vita comune la comunicazione
tra simili non è sempre strategicamente controllata e
c’è, quindi, maggiore spazio per lo sfogo immediato
di sentimenti immaturi.
C’è una funzione drammaturgica del turpiloquio?
La funzione ricorrente è legata alla rappresentazione
dello spirito “infantile”, del dionisiaco in chiave aristofanesca. Ma anche il teatro moderno e contemporaneo ha usato il turpiloquio per destrutturare l’ideologia piccolo-borghese dominante, basti pensare
al paradigma dell’Ubu roi per comprendere quanto
sia stato importante lo sconvolgimento delle regole e
delle convenzioni del dramma borghese per la ricerca artistica delle Avanguardie Storiche e del Secondo
Novecento. Ma in questi nostri giorni presenti la riflessione andrebbe, forse, spostata su cosa vuole dirci
Shakespeare nel Giulio Cesare, che fa parlare Bruto
secondo il linguaggio del popolo e Antonio in versi.
Qual è il limite tra l’uso e l’abuso del turpiloquio in
teatro?
L’unico limite che so riconoscere in teatro è la qualità.
Non ci sono soglie standardizzate, in teatro quando si
abbassa la qualità è sempre un abuso.
Vi è una necessità civile di sottrarre il turpiloquio
al teatro?
Ripeto, quando in teatro viene a mancare qualità ed
eccellenza vi è sempre una necessità civile di sottrarre quella produzione al teatro.
Cosa è il turpiloquio in teatro e quale il rapporto
con la censura?
L’unica forma di “censura” tollerata dal teatro è quella
esercitata dallo spettatore, che in piena coscienza e
liberamente decide se partecipare o no a quel determinato evento teatrale.
Ci può raccontare un aneddoto?
Anche l’aneddotica è un abbassamento di qualità, il
gossip non dovrebbe far parte di una riflessione sul
teatro.
Eppure vi è un paradosso che può appartenere solo al
teatro. Sul palco si ha la libertà di dire tutto, ma con la
stessa facilità con cui ci si può avvalere di tal diritto si
può cadere nella censura più intransigente e bigotta.
Questione di fortuna, del resto, dall’Amleto, la fortuna
è una puttana, parola di William Shakespeare.
Simone Giannatiempo
Trash-movie
Se i capolavori si intitolassero così
Gli Aristocazzi
Figa da Alcatraz
L’importanza di chiavarsi Ernesto
Ventimila seghe sotto i mari
A volte ritrombano
Banana meccanica
Erezioni di piano
Zinna Bianca
Anal dai capelli rossi
Calimembro
Quattro matrimoni e un foro anale.
Biancaneve sotto i nani
Tutti i cazzi per Mary
Il Conte Ejacula
Qualcuno volò nel buco del culo
Eiaculazione da Tiffany
Arma rettale
PAGINA 13
Noi, praticanti del turpiloquio
Gianmarco Altieri nasce a Napoli il 24
Agosto 1987. Si laurea in Comunicazione d’impresa all’Università Cattolica di
Milano. Nel 2011 viene scelto per partecipare al Programma Internazionale in
Studi Cinematografici, frequenta quindi
per un anno la Sorbonne Novelle e la Nanterre di Parigi.
I suoi campi d’interesse spaziano dal cinema alle problematiche legate ai conflitti sociali.
Mariana Cavallone è una ragazza di 28
anni, appassionata di cinema e letteratura. Nata il 9 novembre 1985, vive fino
all’età di 18 anni a Sala Consilina (SA).
Nel 2004 si laurea in Scienze della Comunicazione. Nel 2011 consegue la laurea specialistica in Teoria della Comunicazione con una
tesi in storia contemporanea. Ciò che le piace di più
però, fin da bambina, è scrivere.
Roberta Campassi, 24 anni, donna bionica, metà umana metà telecamera. Laureata in Scienze della Comunicazione e
specializzata in Comunicazione Multimediale dell’Enogastronomia. Amante
di Londra e dei cappelli della Regina, è
aspirante giornalista e sogna di viaggiare “verso l’infinito e oltre”.
Roberta Cordisco, nata a Foggia il
26/03/1986. Ha frequentato l’Università
degli studi di Siena e ha conseguito la
laurea specialistica in Filologia moderna con una tesi su Pier Paolo Pasolini e
Franco Fortini. Successivamente lavora
come tirocinante presso la biblioteca della Facoltà di
Lettere dell’Università di Siena. Da sempre appassionata di cinema e letteratura.
Il mio nome è Diego De Carlo, sono nato
a Sorrento il 10/03/82 e mi sono laureato in Lettere e Filosofia col massimo dei
voti, presso l’Università Federico II di Napoli. Nello stesso istituto ho poi svolto il
“Master di scrittura, letteratura e critica
teatrale” e il Tirocinio Formativo Attivo, superandoli col
massimo dei voti. Ho vinto nel 2010 il Premio Romano
con un dramma in tre atti intitolato “Dienneà”.
Elisabetta de Luca. Laureata in Lettere
alla Federico II. Sogno nel cassetto: diventare giornalista. Fu pubblicista, ora
praticante. Con la scuola di giornalismo
forse il sogno diventerà realtà.
Lara De Luna nasce a Napoli il 18 febbraio 1988. Dopo il liceo Classico, si
laurea in Lettere e Conservazione dei
Beni culturali nel 2013. La passione per
il giornalismo nasce oramai dieci anni fa,
dopo la vittoria di un concorso dedicato
alla ricerca di “ giovani cronisti di strada”.
Diletta Aurora Della Rocca nasce a Maratea (Pz) 06/08/1985. Si laurea in Lettere Moderne e Giornalismo, all’Università “La Sapienza” di Roma con una tesi
sulla “Disinformazione Giornalistica”.
Decide di diventare giornalista e da novembre 2013 frequenta la Scuola di Giornalismo al Suor
Orsola Benincasa.
Gianmarco Della Ragione, 23 anni. Partenopeo di nascita ma da sempre di
fede laziale, è un grande appassionato
del mondo del calcio. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato
in Sociologia alla “Federico II” di Napoli
e attualmente lavora per il giornalista sportivo Alfredo
Pedullà, con l’obiettivo di diventare un giorno un topplayer del calciomercato proprio come lui.
Anna Dichiarante è nata in provincia di
Bergamo, nel 1986. Dopo il liceo classico, si è laureata in Giurisprudenza presso
l’Università degli Studi di Pavia, con una
tesi su processo penale e criminalità mafiosa. Ora frequenta il Master in giornalismo dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.
Lisa D’Ignazio è nata nel 1987 nella
campagna abruzzese, ha studiato Lettere all’Università dell’Aquila. Dopo il terremoto del 6 aprile del 2009 ha deciso
di iniziare a fare la giornalista nella città
terremotata, lavorando presso giornali on
line e tv locali. Dal 19 settembre 2013 è giornalista pubblicista.
Sono Lorenzo Ena, 24enne sardo, fiero di
esserlo. Vivo a Villaspeciosa, provincia di
Cagliari. Amo De André e su Casteddu.
Contorto, paranoico e diffidente nei confronti del genere umano. Per difendermi
dalle mie convinzioni spesso risulto asociale. Laureato in Scienze della Comunicazione, faccio
questa scuola nella speranza di migliorarmi e diventare
una firma quantomeno “decente”.
Daniele Gargagliano, palermitano di 27
anni, laurea specialistica a Bologna in
Italianistica. Apprendista giornalista e
divoratore di libri e musica. Ultimo desiderio? Pasta alla norma, rigorosamente
con la ricotta salata.
Rossella Grasso. È nata a Napoli nel
1987. Si è laureata all’ Università La
Sapienza di Roma in Editoria e Giornalismo. È molto curiosa e le piace raccontare: quindi poteva fare la parrucchiera
o la giornalista, ha optato per la seconda, per inabilità con spazzola e phon. Ha scritto per
“Il Roma”, “Napoli.com”, e per l’agenzia “Adnkronos”. È
profondamente orgogliosa di essere napoletana.
Alfonso Fasano è nato il 20 Gennaio
del 1991. È napoletano di cittadinanza e fede calcistica, ne è felice e se ne
vanta. Occupa il suo tempo a guardare
il pallone e a parlarne. Non solo quello,
ovviamente: finge di lavorare nei villaggi
turistici d’estate, finge di essersi laureato e di essere un
aspirante giornalista.
Barbara Gigante è timidamente spudorata nel parlato, filosofa metropolitana nella
vita e sobriamente indiscreta nella scrittura. La passione per il sapere la guida
nella vita e nel weekend. È importante
sapere sia cosa succede nel mondo, sia
dove si deve andare a bere il sabato. Del resto, questa
vita è chiaroscuro e contrasti, come insegna Caravaggio. Ma anche il biscotto Ringo. Sempre Forza Lazio.
Nicola Lo Conte, nato a Napoli il 26 agosto 1985, si laurea (per miracolo) in Relazioni Internazionali all’Università “Federico II” di Napoli. Pubblicista dal 2008 e
fancazzista da sempre, è un malato terminale di tifo per il Napoli, appassionato
di sport e assatanato per le donne, birra-dipendente.
Paola Marano, classe 1990, cresce a Castellammare di Stabia e si laurea nel 2013
in Scienze della Comunicazione presso
l’università Suor Orsola. Si avvicina presto al giornalismo, collaborando con una
web-tv e curando la rubrica “La parola ai
cittadini”, appuntamento di cultura e società. Attenta ai
cambiamenti sociali e alle tendenze, tenta di conciliare
queste attitudini con la passione per la scrittura.
Rita Murgese nata a Taranto il 29 dicembre 1988 si laurea a Roma in Editoria
Multimediale. Durante gli anni dell’università si interessa di comunicazione politica. Intraprende un percorso di ricerca
sugli attuali movimenti bottom up. Il suo
lavoro si traduce nel libro “Se Non Ora Quando. Il movimento femminista nell’era 2.0”, nel quale approfondisce
i metodi comunicativi utilizzati dal movimento femminile.
Ciao a tutti! Sono Vincenzo Nappo e
vengo da Pomigliano D’Arco. Mi sono
laureato in Editoria e Pubblicistica presso l’Università degli Studi di Salerno. Mi
piace la musica e il calcio, ma la mia più
grande passione è mangiare bene! La
mia squadra del cuore è il Napoli! E a chi non ha l’azzurro nel cuore dico “pazienza”, non sa quello che si
perde!
Roberto Panetta nasce in Umbria 9333
giorni orsono. Cresce a Costacciaro,
paesino umbro sperduto nelle affascinanti pendici del Monte Cucco. Decide
sin da piccolino di buttarsi nel mondo del
giornalismo, famose le sue telecronache
di biliardino al bar del paese, all’età di 5 anni. Laureato
in Editoria, Media e Giornalismo ad Urbino, sogna di
diventare lo speaker da stadio della ‘magggica’ Roma.
Claudio Pellecchia, appassionato di
sport e delle storie che vi ruotano attorno. Ama andare oltre la notizia, indagando sul contesto umano che ruota intorno
ad ogni evento. Sopravvissuto con successo a 6 anni di studi giurisprudenziali
presso l’Università Federico II di Napoli, segue ora la
sua vocazione di giornalista fatta di tanto idealismo e
poco guadagno. Pubblicista dal dicembre 2013.
Germana Squillace, 24 anni. Dottoressa
magistrale in Lingue Moderne per la Comunicazione e Cooperazione internazionale, appassionata di opere teatrali e di
classici della letteratura inglese. Adora
viaggiare e in particolare ama la Francia.
Aspirante giornalista come inviata all’estero, con l’obiettivo di diventare una cosmopolita Doc.
Sono Valentina Trifiletti, ho 26 anni e vengo dalla più bella delle isole: la Sicilia.
Mi sono laureata in Comunicazione e
Marketing presso l’Università Cattolica
del Sacro Cuore di Milano. Curiosa e intraprendente, amo viaggiare e non smetterò mai di farlo. Adesso mi trovo a Napoli, una delle
città più belle d’Europa.
Lucilla Trisolini è una manipolatrice sincera che muove la sua vita tra palco e
retroscena. Sempre tesa alla ricerca di
novità, si serve di una scrittura teatrale e convincente per esorcizzare i suoi
lapsus istrionici. È allergica alla noia e ai
suoi derivati ed è convinta di viaggiare sul giusto treno.
Francesco Ungaro è nato a Ischia il 30
giugno 1984. Si è laureato in Scienze
Politiche presso l’università di Bologna.
Appena laureato è partito per l’Australia
dove ha vissuto per quasi due anni. Tornato in Italia si è dedicato al suo sogno,
iscrivendosi alla scuola di giornalismo dell’università
napoletana Suor Orsola Benincasa. Segni particolari:
LIBERO.
Ciriaco Maria Viggiano non si riconosce
in alcun partito, casta o tribù. Detesta i
diktat culturali e gli apostoli del pensiero
conforme. Personaggio borderline, ama
definirsi apolide di un mondo che non
c’è più. Nato per dare fastidio al prossimo, pratica il giornalismo come unica religione possibile.
INCHIOSTRO N. 3
PAGINA 14
Sport Il terzo tempo dell’insulto
Parola d’ordine? “Vaffanculo”. Sarà forse questione di adrenalina in circolo,
ma di bestemmie e parolacce assortite, nel mondo dello sport, se ne sentono davvero tante. In una dimensione
che si caratterizza per l’evasione, lo
svago e lo sfogo, probabilmente non
c’è da stupirsi. Uno degli antesignani
del genere fu Giorgio Chinaglia. Essere sostituito non gli andò giù, e il
“vaffanculo” indirizzato al suo allenatore Valcareggi fece il giro del mondo.
Andrea Carnevale avrebbe poi fatto lo
stesso con Vicini ai mondiali del ’90.
Quisquiglie. Marco Tardelli ci andò
molto più pesante quando, all’ingresso di Matarrese in spogliatoio per festeggiare la vittoria col Brasile nell’82,
disse: “Apriamo la finestra, che puzza
di merda che c’è”. Il pensiero corre poi
ad Antonio Cassano, protagonista a
più riprese di autentici show a danno
degli arbitri con tanto di corna e insulti
di vario genere, e a Salvatore Soviero, il cui sfogo contro un guardalinee
e sua madre (“Stu figlio ‘e ‘na granda
troia”, “Mammeta chesto fa’, aiza ‘a
bandierina”) è da tempo un cult su
Youtube. C’è chi va oltre, scomodando
il divino, anche se cerca di non farsene accorgere. Come Gigi Buffon, che
sorpreso dalle telecamere si giustificò
dicendo “Ho uno zio un po’ porcellino…”. In onore al politically correct, il
calcio vieterebbe nel suo regolamento
le espressioni blasfeme salvo sanzionarle raramente nella pratica, quasi a
tutelare la bestemmia libera dei suoi
adepti. Qualcuno però ha pagato a
caro prezzo le inappropriate invocazioni a Dio: per esempio, Claudio Correnti, capitano del Como anni ’70, il cui
moccolo causò una punizione dal limite con tanto di pareggio della Juventus
a tempo scaduto.
Non si parla di turpiloquio in senso
stretto, ma l’esultanza di Josè Altafini,
autore di un presunto gesto dell’ombrello in un Palermo - Napoli del ‘69,
fece discutere. L’ex calciatore ha più
volte, in passato, spiegato il malinteso,
e, interpellato, non ha voluto parlarne:
“Mi hanno già rotto abbastanza le palle per quella storia!”. In questo caso,
effettivamente, ci vuole. Turpiloquio
esclusiva dei calciatori? Niente affatto. Gli scambi verbali tra Niki Lauda e
James Hunt, piloti di F1 negli anni ’70,
erano un tripudio di “stronzo”, “cazzone” e altri nomignoli affettuosi; con la
stessa eleganza Lauda, svegliandosi
dal coma ad un passo dall’estrema
unzione, scandì: “Dite al prete di andare a fare in culo”. Jean Alesi fece
teneramente notare a Jean Todt, nel
momento del suo addio alla Ferrari,
che gli aveva rotto le palle. Il tennista
Fabio Fognini è entrato nella storia di
Wimbledon lo scorso anno chiedendo
al giudice di sedia “Ma come cazzo
fai?” dopo una chiamata contraria. E
negli sport americani, il “trash-talking”
(a fianco, ndr) è sostanzialmente una
disciplina a sé stante. Nemmeno i giornalisti sportivi sono dei campioni di
bon ton. Un’indagine del 2005, pubblicata da Eta Meta Research, spiegava
che nelle trasmissioni sportive partiva un insulto in media ogni 3 minuti.
Non male. Ricordando trasmissioni
come Controcampo e il Processo di
Biscardi, non sorprende. Per arginare
il fenomeno, dal 2009 il decalogo del
giornalista sportivo (anche a seguito
della tragedia Raciti) prescrive l’obbligo di astenersi da espressioni volgari
e minacciose, per non esacerbare gli
animi. Nel passato recente, i giornalisti sportivi sono stati soprattutto vittime
degli insulti, come Paola Ferrari, che
subì un autentico linciaggio su Twitter
durante gli Europei del 2012. La querela al social network le garantì il diritto
all’oblio, caso raro su internet. Se gli
addetti ai lavori sboccano, il campionario di spettatori e soprattutto tifosi è
praticamente sconfinato. La creatività
e volgarità dei singoli e dei gruppi organizzati negli striscioni ha fatto la storia (“Giulietta è ‘na zoccola”, “Kitemmuorten”, “Sky inquadra ‘sta minchia”,
e miliardi di altri ancora) e la fortuna di
un giornalista come Cristiano Militello,
autore di vari libri sull’argomento e di
un’apposita rubrica in “Striscia la notizia”. E pazienza se ormai anche i più
piccoli sono contagiati dal virus. La Juventus, orfana dei curvaioli squalificati, aveva pensato di riempire il settore
con 12mila bambini, ma niente paura: i
giovani virgulti avevano imparato bene
la lezione da genitori e fratelli maggiori, urlando angelicamente “Merda”
a ogni rinvio dal fondo del portiere
serbo Brkic. Si sconfina facilmente
nel razzismo: triste esempio ne sono i
cori, come si usa dire attualmente, di
discriminazione territoriale, e la sfilza
di “buu” e di “negro di merda” che ancora nel 2014 si sentono su qualsiasi
campo di qualsiasi sport. Solo sfottò,
dicono. Perché una parolaccia in libertà non si nega a nessuno, suvvia. Stiamo al gioco. Chi se ne f…
Nicola Lo Conte
Trash-talking: vincere con ogni mezzo
E se stessimo diventando come le leggende dello sport
americano? “I kill you! You’re out sucka!” (Ti ammazzo! Sei
finito stronzo!), sono gli ultimi memorabili fotogrammi di
uno spot televisivo di grande impatto. Protagonista il grande Mohammed Alì, fu Cassius Clay, autentico luminare di
quello che in America chiamano “trash talk”, il fondamentale principe di ogni sport. Che sia di squadra o individuale
poco importa. Non si tratta di una banale serie di insulti
pronunciati con l’intento di offendere l’avversario: è un’arma formidabile a disposizione degli atleti, un fine strumento
psicologico per avere la meglio non solo sul fisico, ma anche sulla psiche di chi si frappone sulla strada della vittoria.
E poco importa che dal punto di vista etico sia una strategia
criticabile: tutti coloro che hanno fatto la storia dello sport
made in Usa sono stati dei formidabili “trash talkers”, capaci di annientare sotto ogni aspetto i propri deuteragonisti.
Tutto, rigorosamente, in perfetto stile yankee.
Alì, dicevamo. Non c’è rivale che non abbia deriso e insultato prima di mandarlo al tappeto sul ring. Sonny Liston,
suo primo grande avversario, fu più volte definito un “orso
grasso e brutto”. Il palcoscenico preferito erano le conferenze stampa: maggiore visibilità aveva l’evento, più il
pubblico ludibrio sortiva l’effetto desiderato sulla psicologia del nemico. Resta leggendaria la “performance” offerta
al Waldorf Astoria di New York, nel settembre del 1974, in
occasione della presentazione del “Rumble in the jungle”,
l’incontro (vinto, ovviamente) valido per il titolo mondiale dei
pesi massimi, disputato in Zaire contro George Foreman
e che lo avrebbe consegnato all’immortalità pugilistica. In
rete è possibile trovare ancora qualche spezzone: si vede
Alì che, ad ogni singola domanda dei giornalisti, non fa altro che ribadire quanto sia grosso e stupido il suo rivale,
che lui non ha paura di quel “bestione che combatte come
una mummia”, e Foreman li ad abbozzare, quando invece avrebbe voluto ucciderlo in quel preciso istante. Come
andò alla fine è facilmente intuibile. Lo spot di cui sopra
riprende, appunto, alcune sequenze degli allenamenti nelle
strade polverose della periferia di Kinshasa.
Anche Michael Jordan, probabilmente il più grande sportivo di tutti i tempi, non ha mai fatto mistero di apprezzare
le sfide verbali con gli altri giocatori sul parquet. Per uno
come lui, abituato a vincere sempre, comunque e contro
chiunque, costituivano una dose ulteriore di motivazioni:
“Fa parte del gioco, devi dimostrare al tuo avversario che
sei in grado di dominarlo sotto ogni punto di vista. Adoro
far capire a chi mi sta marcando che contro di me non ha
una sola possibilità: dirgli due paroline a corredo aiuta allo
Fenomenologia
del tifo “jastemmato”
Per l’animale tifoso, in special modo quello
napoletano, le parolacce altro non sono che
un mezzo per esprimere sentimenti e pensieri
profondissimi.
Il tifoso è innanzitutto uno sportivo, e come
tale rispetta gli avversari. “V’amma mettere ‘e
palle ‘ncapa” è un chiarissimo attestato di stima, ancor più se si parla di rivali forti e temuti
come “Sti piezze ‘e mmerda d’e romanisti”.
Allo stesso modo, c’è la consapevolezza dei
limiti della propria squadra: “Vedite ‘e nun ce
fa’ scennere ‘a guallera pure stasera”.
Il tifoso è un amante del gioco, non sopporta
chi perde tempo o fa sceneggiate: “Sta sempe ‘nterra, sta latrina”. Crede nell’agonismo e
incita i suoi a dare il massimo e a non mollare:
“Scetate, me pari ‘o cazzo allerta”.
Se la sua squadra subisce gol, la prende con
filosofia: “Ih, che spaccimma!”. Ammette i
meriti dell’altra squadra: “Totti, una cosa tieni
bona, chella zoccola ‘e mugliereta”. Rimprovera bonariamente gli sbagli dei suoi beniamini come farebbe un padre: “Te facesse magnà d’e cane”.
Quando la partita si mette male, il tifoso non
si perde d’animo, mantiene il suo spirito cordiale, ed è pronto a farsi sempre nuovi amici:
“Va a fa’ ‘e bucchini, lota!”. La sua anima caritatevole emerge quando, vedendo un avversario a terra, vorrebbe non farlo soffrire: “Ma
perché nun muori, chiavica?”.
La palla è rotonda, e il Napoli recupera. La
spiritualità di ogni supporter è cosa nota, e
così un’invocazione al regno dell’aldilà è
d’obbligo: “Vafammocc a chivemmuorto!”.
Ma si può sempre fare meglio: “V’è asciuto ‘a
culo, finalmente!”.
Purtroppo la sconfitta arriva nel finale. Ma c’è
sempre la gara di ritorno. L’ospite è sacro, e
così si preannuncia agli avversari un’accoglienza adeguata: “Tanto ‘a Napule ve rumpimmo ‘e pacche!”.
Insomma, poche storie: il tifoso ha davvero un
animo nobile e puro. Non si capisce proprio di
cosa si possa accusarlo.
N. Lo C.
scopo”. Kobe Bryant, che di Jordan è considerato l’erede,
dall’idolo d’infanzia ha ereditato anche la verve linguistica.
Le leggende (che hanno sempre un fondo di verità) narrano che, durante gli allenamenti Kobe fermi all’improvviso la
palla e si metta a “interrogare” uno per uno i suoi compagni
sullo schema da eseguire. A chi si dimostra impreparato,
giù di insulti e umiliazioni: “Stronzo, sei in
questa lega. Impegnati di più! Ma sei un
bambino, cazzo!”. Rick Fox, suo compagno ai Los Angeles Lakers e tre volte campione Nba, ha ricordato più volte come
Anno XIV numero 3
le vittime preferite di Bryant fossero i più
3 marzo 2014
giovani della squadra o i nuovi arrivati: “Ci
www.unisob.na.it/inchiostro
trattava come fossimo dei giocatori della
juniores. Sempre alla ricerca dello sconPeriodico a cura della Scuola
tro fisico e verbale. Una provocazione
continua”. Bisogna dimostrare la giusta
di giornalismo
durezza mentale se si vuol sopravvivere
diretta da Paolo Mieli
in questo contesto simil militaresco. Lo sa
bene Rasheed Wallace che, fin dai temDirettore editoriale
pi di North Carolina University, ha dovuto
Lucio d’Alessandro
imparare a farsi rispettare. Al terzo allenamento con i “Tar heels” due compagni
Direttore responsabile
cominciano a parlargli dietro dopo averlo
Pierluigi Camilli
stoppato. Tempo trenta secondi e, l’azione successiva, Sheed schiaccia in testa
Coordinamento scientifico
a entrambi:”Motherfuckers! (diciamo BirArturo Lando
bantelli va) Your job is mine!”, levatevi di
mezzo che ora qui comando io.
Coordinamento redazionale
Ma questo è niente rispetto a quello che
Alfredo d’Agnese
accade nel football, lo sport americano
Carla Mannelli
per eccellenza. “Any given sunday”, meAlessandra Origo
morabile pellicola di Oliver Stone, ricostruGuido Pocobelli Ragosta
isce perfettamente un mondo in cui dominano la sopraffazione fisica e la voglia di
Questo numero è il frutto
umiliare l’avversario. Basta ascoltare un
di un laboratorio diretto
“wired” (audio dal vivo) di un time out che
da Francesco Merlo,
precede l’huddle: insultare la squadra aveditorialista de la Repubblica
versaria è l’unico modo in cui questi superuomini riescono a caricarsi e a dare il
Caporedattore
meglio di sé. Perché, alla fine, “sacrifice
Rossella Grasso
don’t give up the fight, everything will be
all right on any given Sunday”.
Vi sembra eccessivo? Fatevi un giretto nel
variopinto mondo del web italiano. Potreste ricredervi.
Claudio Pellecchia
Inchiostro
Capi servizio
Lorenzo Ena
Alfonso Fasano
Daniele Gargagliano
Grafica
Biagio Di Stefano
Spedizioni
Enrico Cacace,
tel. 081.2522232
Editore
Università degli Studi
Suor Orsola Benincasa
80135 Napoli
via Suor Orsola 10
Partita Iva 03375800632
Redazione
80135 Napoli
via Suor Orsola 10
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fax 081.2522212
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2/5/2001
Stampa
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di Elisabetta Prozzillo
Napoli 80123
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PAGINA 15
Mieli: “Se ora ci svegliamo
c’è qualcosa che non va”
CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA
Tutti dicono di non sopportare le trasmissioni gridate, poi invece se andate a
vedere l’audience di questi programmi scoprirete che sono i più
seguiti, sia in tv che su You Tube.
Personaggi come Sgarbi, Busi
hanno semplicemente capito che
nella stigmatizzazione del turpiloquio c’è un’ipocrisia diffusa, utile
al consenso. Molti dicono “cazzo” semplicemente per rafforzare il loro pensiero,
ma allo stesso modo lo tradiscono per
dire che “quando ci vuole ci vuole”. Per
rafforzare un’idea si ricorre al turpiloquio
fisiologico, che esiste da sempre. Poi c’è
quello dei buoni da cui bisognerebbe partire per un’analisi. Conta di più il linguaggio di un filosofo che una volta nella sua
vita ha detto “cazzo”, o Sgarbi che lo dice
tutti i giorni?
Pensando ai recenti attacchi del Movimento 5 stelle nei confronti della presidente della Camera Laura Boldrini,
cosa pensa del linguaggio utilizzato
oggi in Parlamento?
Se lei mi fa una domanda in questo modo,
io sono costretto a rispondere che tutto
ciò è orribile, che non è corretto usare
il turpiloquio e così via. Tutta retorica. Il
punto centrale non sono i Cinque Stelle. Parolacce in Parlamento se ne sono
sempre dette. Ogni stagione politica ha
avuto dei gruppi populisti che ricorrono
al turpiloquio. Si insospettisca se usano
un linguaggio volgare solo persone di cui
pensava male già in precedenza. Vada a
vedere se non hanno mai detto parolacce
persone di cui pensa bene.
A voi sembra terribile che abbiano detto
delle frasi offensive contro la presidente
della Camera. Quelle stesse parole sono
state dette da Sabina Guzzanti all’indirizzo di tutte le deputate.
Dove eravate quando questo è
successo? Perché non avete fatto
le stesse riflessioni sull’uso del turpiloquio nella politica? Le parolacce sentite in Parlamento sono una
cosa grave, ma bisognerebbe provare lo
stesso sdegno anche se queste vengono
utilizzate dalla stampa, nei teatri e in televisione.
Noi non siamo schierati dalla parte di
nessuno.
Questo lo capisco. Ma da questo tipo di
domande mi rendo conto che non vi chiedete “ma siamo proprio sicuri che quelle stesse parole compaiono per la prima
volta nel discorso pubblico?”. A me sembra di ricordare che nei confronti delle
parlamentari del centrodestra siano state
usate le stesse parole ma non hanno fatto
così scandalo. Allora come mai quando i
buoni dicevano parolacce nessuno sentiva che queste turbavano il senso comune
della morale?
I media sono responsabili di questo?
No. La responsabilità non è dei media in quanto tali, ma è dei singoli,
di noi osservatori. In Parlamento
un certo linguaggio dà uno sdegno
pari a 100, in teatro 10 e così via.
Il fatto è che se noi usiamo il turpiloquio tutto va bene, se invece lo
usano gli altri ci sorprendiamo. Questo
dà un senso insincero alle battaglie.
Cambronne, quando la “merde” fulmina il nemico
È noto (pressoché) a tutti come il Maresciallo di Francia Pierre Jacques Ètienne
Cambronne, pari dell’Impero, vero eroe di Waterloo, sia passato alla storia piuttosto che per le sue (non poche) imprese belliche, per una sola parola, in lingua
francese, ma inequivocabile, “merde”, pronunciata proprio alla fine della grande
battaglia, quando la sconfitta delle armi napoleoniche fu irreversibile.
Il Maresciallo, che sopravvisse altri 28 anni alla battaglia, durante i quali sposò una
Lady inglese, fu nominato visconte e Cavaliere di S. Luigi da Luigi XVIII, trascorse
la maggior parte di quel tempo a negare di avere pronunciato la famosa parola,
anche se poi, alla fine della vita, ammise di aver commentato la sconfitta “con
alcune parole…di una naturale energia”.
A dispetto delle reticenze del protagonista, la prefata parola gli procurò un’immensa notorietà e, perfino, parecchia gloria, al punto che Victor Hugo dedicò a
Cambronne l’intero capitolo XV° del suo capolavoro, i Miserabili, nel quale scrisse:
“Colui che ha vinto la battaglia di Waterloo è Cambronne. Poiché fulminare con
una tale parola il nemico che vi annienta, vuol dire vincere”.
È facile capire come la memorabilità, plurisecolare, della merde di Cambronne
derivasse dalle medesime ragioni della sua reticenza: si trattava di un termine del
tutto inusuale per un personaggio e per un’occasione storica di quella fatta. Fu
proprio questa “rarità” a consentirle di “bucare” e, quasi, lacerare il muro della
comunicazione del tempo.
E oggi? Che possibilità, si domandano i giovani che firmano questo numero di
Inchiostro, vi sono che l’uso di un gergo “alla Cambronne” buchi il muro della
comunicazione e conferisca notorietà ai suoi (fini?) dicitori? La risposta è alquanto
semplice. Le parole, certe parole, sono come la moneta: quando ce n’è troppa, si
inflaziona e vale molto meno. Il risultato è che quanti nei talk show et similia infiorettano i loro discorsi di merde (e dintorni) riescono, forse, ad elevare di qualche
0,01 l’agognato share e ad abbassare (con certezza) di parecchio il tasso di educazione nazionale. Comunque (al contrario di Cambronne) non passano alla storia;
tutt’al più, passano alla cassa per incassare un cachet, sempre più modesto.
Il fratello di Abele
Perché non tutte le parolacce hanno la
stessa importanza?
Perché non guardiamo mai alle
cose per come si presentavano
una volta a parti invertite, quando ad usare il turpiloquio erano gli
altri. Io le assicuro che per Berlusconi sono state dette delle parole molto più gravi. Lo dico da non simpatizzante dell’ex premier. Non bisogna
stupirsi solo oggi del linguaggio che si usa
in Parlamento.
Dunque non c’è nulla di nuovo rispetto
al passato?
La novità è che oggi la nostra sensibilità è
maggiormente turbata rispetto al passato.
Se ci siamo svegliati solo ora c’è qualcosa
che non va.
Lorenzo Ena
Parolacce “di classe” ai clienti: il caso di Nennella
“Vattenne guagliò, c’hai scassato ‘o cazzo. C’hai abbuffato ‘a guallera”. Lo ripetono tutti in coro e si conclude così la mia splendida serata da “Nennella”, storica
trattoria napoletana dal 1949, sita “n’gopp” ai Quartieri
Spagnoli.
Qui funziona così, prendere o lasciare. D’altronde non
poteva essere altrimenti, con un “cacacazzi” come me
attorno ai piedi per due ore, per di più sottoponendo i
proprietari del locale ad un’intervista fiume, senza respiro. Da Nennella nulla si prende sul serio, ci si diverte, si
mangia bene e si spende poco, con uno stile del tutto
personale che ha contraddistinto negli anni questa trattoria, attirando ogni tipo di cliente.
Lo stile è quello del turpiloquio, ma un turpiloquio di
classe, una raffica di insulti
detti talmente con simpatia
che è impossibile prendersela e non riderci su, con il
fascino del dialetto napoletano a fare da contorno al
tutto.
Ma come nasce questa
geniale idea di creare un
posto ad hoc dove regna
l’insulto?
Il nome prende l’origine da
Elisabetta, la vera Nennella, chiamata così perché
da ragazza era piccola di
statura. Suo figlio Pasquale, “‘o burbero”, era solito
insultare in tutte le maniere
i suoi figli, un sermone che
si ripeteva di volta in volta: “Mio padre quando stava ai
fornelli ci riempiva di parolacce per farci sbrigare. I clienti
sentivano e ridevano, ma papà faceva sul serio – racconta Ciro, il figlio più piccolo, uno dei proprietari del locale
-. Chi t’è muorto, a papà. Chella bucchina ‘e mammeta,
a papà”. Abbiamo cominciato anche noi a rispondergli a
tono, ad usare parolacce e toni scherzosi con i clienti, a
raccontare barzellette, così da far sembrare che anche
papà scherzasse e che fosse fatto tutto in allegria. È ca-
INCHIOSTRO N. 3
pitato casualmente ed è stata una trovata eccezionale”.
Tutto ribadito anche dal fratello Mariano, lo chef della
famiglia. “Papà era molto stressato nel lavoro e diceva
tante parolacce a noi figli. ‘Chella bucchina ‘e mammeta,
fa’ ambresso. Chella cessa ‘e mammeta, t’he a movere’. Provavamo vergogna verso i clienti e allora è iniziato così, con noi che rispondevamo a nostro padre e ci
giocavamo su: “Papà passa ‘a pasta, nun ce rompe ‘o
cazzo. I clienti si divertivano, allora abbiamo cominciato
ad insultare anche loro”.
Gli fa eco Concetta, la ‘nuova’ Nennella, moglie di Pasquale e madre di Ciro e Mariano, che tutti i giorni alle 7 di
mattina apre la trattoria ed inizia a cucinare. “Mio marito
insultava sempre anche a
me. ‘Vafammocca ‘a soreta’, allora io
gli rispondevo
‘A soreta e a
mammeta’.
Mi trovavo a
disagio con i
clienti quando
diceva le parolacce ai nostri figli, allora
facevo
finta
di non essere
la loro madre:
‘Questi
non
so figli a me,
l’aggio trovate. Ciro l’aggio
trovate dentro ‘na sporta ‘e cipolle. Pasquale era tutto
fumo, sembrava burbero ma era un buono. Così a poco
a poco tutti i figli hanno cominciato a rispondere, sfottevano i clienti che a loro volta si divertivano ed è nata
una immagine simpatica che si è mantenuta negli anni”.
Insulti a volontà, ma con il massimo rispetto per il cliente,
soprattutto per quelli più ‘freddi’ che non stanno molto
al gioco: “Dobbiamo attenerci sempre al tipo di cliente
che abbiamo di fronte. A pranzo usiamo meno sfottò per-
ché c’è gente più impostata che viene dal lavoro, ma nel
complesso qualche battuta non la risparmiamo a nessuno. La sera poi ci scateniamo, soprattutto sul tardi. Gli
insulti dipendono soprattutto dal tipo di confidenza che
abbiamo con la gente”, spiegano Ciro e Mariano.
Si balla, si scherza, si rompono i piatti a terra, insomma
di tutto e di più, con le ottime performance canore di Salvatore, un altro dei figli di Concetta, che di tanto in tanto
allieta le serate anche con le sue barzellette.
Gente comune, vip, snob, ce n’è per tutti e chi passa da
‘Nennella’ non lo dimentica più. “Trattiamo tutti allo stesso modo, senza distinzione, in questi ultimi anni sono venuti a cena Lavezzi, Cavani, De Sanctis, e anche loro li
abbiamo apostrofati con parolacce”.
Quando ti portano il pasto sbattono il piatto sul tavolo e
tutti si spaventano, ma il momento più buffo è all’arrivo
della frutta, servita su un recipiente a forma di bidet.
Gli insulti più usuali per chi frequenta il posto piovono
soprattutto al momento di lasciare liberi i tavoli, con gente che mangia e perde tempo mentre tanti aspettano in
fila fuori. “Jamme guagliò, susete, fa’ ambresso. Nun ce
scassà ‘o cazzo, servono i tavoli”. Il tutto con una bella
strattonata alla sedia per farti sbrigare.
Quando c’è una bella ragazza, nessun cameriere si tira
indietro dall’osservarla e dal fare battutine spinte, in maniera particolare se è una conoscente e magari un po’
più scollata: “Chiure sto vasce che tiene ‘e zizze ‘a fora.
Io tengo ‘a faticà, ce devo sta con la capa. C’avete scassato ‘o cazzo”. Qualche ragazza si difende dicendo “Che
guardi, guarda annanze” e la risposta arriva secca “Io sto
guardanno annanze”.
Se qualcuno ha fretta perché deve prendere l’aereo o il
treno e vuole passare, arriva pronta la replica: “Beato a
te, io non c’ho neanche la macchina. ‘Mmocca ‘mmocca
te mando ‘o spitale, te mando a piglià ‘e pummarole”.
Altri dicono di avere la moglie incinta per fare prima e
allora: “Tu te sei arrecriato e a me rumpe ‘o cazzo? Assettate, ricchiò. C’hai abbuffato a guallera”.
Insomma ce ne è per tutti, nessuno esente, ma il turpiloquio usato da Nennella è di classe, nessuno se ne va
senza il sorriso sulla bocca. Provate per credere. Senza
rompere il cazzo.
Roberto Panetta
PAGINA 16
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