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“Non possiamo trasformare noi stessi, possiamo soltanto essere

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“Non possiamo trasformare noi stessi, possiamo soltanto essere
Ivo Lizzola
professore ordinario di Pedagogia Sociale
presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Bergamo
Le virtù della colpa
2.1 educazione come pena e come riscatto
2.2 passare nell’ombra: l’altro, la colpa, il debito
2.3 colpa senza imputabilità e obbligazione
2.4 la colpevolizzazione e il “peccato del giusto”
2.5 padri e figli: dignità e innocenza perduta
2.6 poter essere altro da sé
Le virtù della colpa
Ciò che avviene in un istituto di pena, in un carcere ha una grande rilevanza per chi prova
a guardare la relazione educativa come relazione di cura come incontro nel quale si può
generare una “frattura instauratrice” nella biografia di una persona, o nelle relazioni
familiari, comunitarie. Nel cercere si vive un attraversamento importante dell’avventura
umana, segnato dalla fragilità e dalla colpa, rilevante per la prova cui sottomette l’azione
educativa.
L’esperienza di anni mostra come sia vera quella riflessione attorno alla relazione
educativa che ne sottolinea la dimensione sempre anche “drammatica”, di tensione, di
confronto tra resistenze. L’incontro con l’altro è sempre in qualche misura una ferita. È
una ferita anche perché vi giochiamo un esercizio di forza, mentre ritroviamo anche le
nostre capacità e le possibilità di cura. Non a caso alcuni pedagogisti parlano
dell’educazione come dello sforzo per rompere insieme delle resistenze, per poi insieme
costruire. Tutti e due i movimenti la costituiscono.
2.1 educazione come pena e come riscatto
Nelle relazioni che tra le donne e gli uomini si danno nelle carceri, da dentro il loro
fallimento ed il loro riscatto, c’è comunque vita, può nascere una nuova piegatura del
tempo, un nuovo inizio. Abbiamo incontrato nel lavoro educativo in carcere alcune
resistenze specifiche, come pure alcune linee di costruzione delicatissime e difficili.
La prima resistenza con la quale dobbiamo fare i conti è la resistenza dell’istituzione, della
sua logica, dei suoi paradigmi dominanti. Claudia Mazzucato scrive che in essa
l’astrazione giuridica prende il posto della sostanza del reato: potremmo dire che in
qualche modo la pena sostituisce la colpa. La prima resistenza da rompere per una
azione educativa in un Istituto di detenzione nasce, dunque, dalla sostituzione
dell’astrazione giuridica alla sostanza del reato, alla realtà e alla storia della relazione
ferita. 1
1
I. Marchetti, C. Mazzucato, La pena ‘in castigo’ – un’analisi critica su regole e sanzioni, Vita e Pensiero,
Milano 2006. Vedi in particolare il cap IV “Alla ricerca di sanzioni capaci di non tradire i precetti” pp 107-133.
Vedi anche L. Eusebi, La pena “in crisi”. Il recente dibattito sulla funzione della pena, Morcelliana, Brescia
2
La pena, il tempo della detenzione, quello definito nel dispositivo della sentenza, finisce
spesso per “sostituire” la colpa. E la forma dell’espiazione (lo “scontare la pena”)
sostituisce spesso anche il ripensamento personale, e la ricerca di un “riscatto”. E la
parola “riscatto” può tradurre in modo improprio il termine “rescatar” di María Zambrano,
che indica il movimento profondo, interiore, del “tornare a prendere” parti di sé nel proprio
passato,
“parti” e possibilità ancora non del tutto maturate, ancora in germinazione.
“Riscatto” che rende possibile raccogliere il peso della colpa, e che fa maturare la capacità
di tenere in sé anche la ferita arrecata. Riscatto che impedisce, comunque, di essere
ridotti e sempre ricondotti alla ferita e alla colpa soltanto. Nella esperienza di detenzione
troppo spesso si è, in qualche modo tolti fuori “dal vivo” da quell’esperienza di ingiustizia e
di giustizia che vede protagonisti donne e uomini, detenuti e vittime.
In questo contesto è inevitabile fare i conti con la difficoltà dei detenuti a rendersi
disponibili a farsi carico di se stessi. Eppure, nonostante questo, anche dentro le mura
delle carceri riesce a maturare l’interrogazione su ciò che vale, la maturazione morale, il
recupero della memoria e l’assunzione di un impegno (di una “consegna”) verso i figli,
verso la madre, verso le vittime, l’attesa di comportamenti nuovi per la propria biografia.
Non sappiamo bene, a volte, come nasce tutto questo. E non sappiamo mai dove porterà.
Eppure si dà. Fa parte di quelle realtà che si danno come l’amore, (l’amore si dà, viene a
noi, ci ritroviamo nell’amore) o come il perdono, (si dà, ci accoglie e ci pacifica). Si dà da
dentro forti resistenze, prendendo respiro nel confronto duro con condizioni difficili, che
rischiano di soffocare, la resistenza di mentalità e culture. Quelle dei margini nei quali è
maturato il reato, legittimato da codici e dai bisogni condivisi in comunità chiuse e totali,
quelle di un contesto sociale nel quale “si è fatta giustizia”. La “società dei giusti”, con la
sua retorica del merito e della colpa, costituisce un universo chiuso, con pesanti
esclusioni. Come “attraversare” la colpa perché questa possa essere “il più profondo
appello di sé ad un al di là da sé” e quindi una forza vitale che riapre il tempo e che lo
attraversa con speranza? Per non subirlo come chiuso.
La cultura della “società dei giusti”, della “comunità della colpa e del merito” nella quale
viviamo, dissolve la responsabilità e la prossimità nel giudizio di colpevolezza (o di
1990; “Politica criminale e riforma del diritto penale” in S. Anastasia, M. Palma, La bilancia e la misura.
Giustizia, sicurezza, riforme, Franco Angeli, Milano 2001; “Quale prevenzione dei reati? Abbandonare il
paradigma della ritorsione e la centralità della pena detentiva” in M. L. De Natale, Pedagogisti per la
giustizia, Vita e Pensiero, Milano 2004, pp 65-ss; G Forti, L’immane concretezza, Raffaello Cortina, Milano
2000; “La deviazione giovanile tra controllo penale e comprensione criminologica” in M. L. De Natale,
Pedagogisti per la giustizia, op cit
3
vittimizzazione). È una società, la nostra, che dopo il giudizio non sa volgersi verso il volto
del condannato, e non sa neppure volgersi verso il volto della vittima.2
Claudia Mazzucato e Ilaria Marchetti delineano una impegnativa prospettiva attorno alla
colpa, alla pena, alla riconciliazione nel quadro di “una giustizia penale democratica in
quanto
mai
disgiunta
dall’impegno
a
generare
solide
risposte
educative
alla
trasgressione.3
La “cultura del controllo” e della pena repressiva, che nei nostri tempi si ridiffondono,
richiamano un “punire concepito in termini di ritorsione nei confronti del male commesso”,
e affidano alla punizione il compito di educare e la funzione di prevenire condotte devianti.
Chiudendo nel tempo della espiazione le persone autrici di reato.
Si può sostituire al disumano subire veicolato dalla pena un nuovo darsi da fare nella
riparazione delle conseguenze del reato, nell’assunzione libera di impegni a favore della
vittima, “una apertura propositiva a un fare – del reo in primis, e con lui della collettività e
delle vittime – nel quale ciascuno possa, di nuovo, esprimere con le proprie risorse e
capacità ciò che di buono può (e deve) ancora condividere con gli altri”.4
Claudia Mazzucato propone “una filosofia politico-criminale del fare piuttosto che del
subire”, che con il dischiudersi di “possibilità riparative” consenta all’autore del reato di
giocare ancora “la carta mobilitante delle proprie capacità, conoscenze e competenze”:
sollecitandolo a “mettere di nuovo in campo quelle risorse personali che la pena detentiva
finisce, invece, per rinchiudere (insieme al corpo del condannato)”.5
Un richiamo ad attivarsi volontariamente, con un ragionevole impegno (assunto in modo
libero) “di segno – e di senso – opposto a quello negativo e offensivo espresso con il
reato”, in una “riparazione del danno” riferita alle condizioni soggettive dell’autore (e che
non coincide per forza con un risarcimento oggettivo), nel riconoscimento dell’errore, nella
disponibilità (praticata) a rispettare il bene leso.
La società della colpa e del merito lascia pochissimo spazio al legame e alla
responsabilità, all’assunzione personale della colpa e all’attivazione del riscatto, della
riconciliazione. Esci dalla colpa soltanto col “riequilibrio”, meritandoti qualcosa,
restituendo, pagando. In una logica tutta compositiva, di misurazioni. Ma è lo squilibrio che
resta: la ferita resterà comunque. La tua vita cambia, sia che tu sia vittima sia che tu sia
2
E. Lévinas, Dall’altro all’io, Meltemi, Roma 2002, pp 151-152
G. Forti, “La via dall’errore alla verità: il rispetto delle norme per il ‘difficil mezzo’ dell’educazione” p X,
introduzione a I. Marchetti, C. Mazzucato, La pena ‘in castigo’ – un’analisi critica su regole e sanzioni, op cit
4
I. Marchetti, C. Mazzucato, La pena ‘in castigo’ – un’analisi critica su regole e sanzioni, op cit, pp 123-135
5
ibidem pp 126-127
3
4
colpevole. Dovrebbe cambiare anche per l’operatore che, incontrando il colpevole,
qualche volta la vittima, scopre che può incontrarlo davvero soltanto se non si ritiene
innocente, soltanto se lo muove anche un senso di debito, in qualche modo anche un
certo senso di colpa originaria: quella che non ci fa sentire giustificati, che porta
all’attenzione all’altro, al sentire nel profondo l’altro, e quindi la sua e la nostra avventura di
ricerca della verità. È una resistenza da rompere questa: nella nostra cultura porta a un
cattivo uso del senso di colpa, a un malinteso modo di vivere il rapporto con la colpa.
Servono relazioni con donne e uomini che non dimenticano e che, insieme, “rimettono la
colpa”. Uomini che non fanno finta che nulla sia successo, e non collaborano a creare
rimozioni ma che curano la possibilità di nuovi inizi, ne costruiscono la possibilità, lavorano
per attivare risorse personali. Essi comunicano rispetto: di fronte a loro si è “riportati in
integrità” perché non chiudono nel giudizio, ma aprono le storie a sensi possibili, lasciano
spazio.
Un’altra forte resistenza si incontra nella relazione educativa nelle carceri sulla “soglia del
pentimento”, al confine di una trasformazione personale. Resistenza che impedisce la
conquista di una complessità e di una apertura, la lettura di un tempo altro per sé. Non è
semplice restare nell’esitazione, nel ripensamento, non è semplice rendersi conto di ciò
che vivono gli altri, le vittime. Per capire che si può essere vittima. I costi morali, identitari
sono alti: trasformare il “così è stato” in “così ho voluto” è un passaggio necessario e duro,
per nulla immediato e semplice.
Occorre maturare che contano altre cose nella vita, che la prepotenza è ingiusta, che è
ingiusto violare, recidere legami, ingannare, fare male. Per incontrarsi sulla “soglia del
pentimento”, occorre rompere la mimesi, il contagio tra la violenza del delitto e la violenza
della punizione.
Su questa soglia si registra anche quanto, a volte, lo stesso il pentimento mini la fiducia.
Di chi si pente non ci si fida: avendo svelato la sua ambivalenza, il suo doppio, la sua
ambiguità… cosa prevarrà in lui domani? Anche chi si pente fatica a fidarsi del suo
pentimento, a maturarlo, ad accettarlo; fatica, a volte, a fidarsi del suo sentire. C’è bisogno
di relazione, c’è bisogno che anche altri ci credano con me, c’è bisogno di sentire questo
attorno a sé, altrimenti del pentimento non ci si fida, anche quando lo si prova. Ci si trova
stranieri, ci si trova doppi, ci si trova ambivalenti, troppo svelati nell’essere luce e ombra.
Solo nella relazione si può provare a reggere e a provare qualche passo.
Certamente non aiuta l’isolamento nel quale si trova uno spazio pedagogico in un
penitenziario. L’obiettivo “rieducativo” - anche quando è collegato alla importanza centrale
5
di una presa in cura di sé, fisica e sanitaria, come nel caso di detenuti tossicodipendenti –
risulta per lo più “isolato” all’interno di un contesto “sfavorevole”, anzi quasi
oggettivamente “oppositivo” come quello carcerario definito da rapporti rigidi e formali, da
deprivazione affettiva e relazionale. E anche da scarsità di nuove esperienze ed
opportunità, oltre che da un difficile riconoscimento dell’individuo nella sua interezza e
nella sua storia.
Nelle strategie “trattamentali”, di “rieducazione” e “reinserimento” (per usare i termini della
normativa) ogni operatore deve ben avere presente che si rivolge a donne e uomini autori
di reati, di comportamenti devianti, con un portato di esperienze e di distorsioni relazionali
e nella struttura di personalità, con una debole possibilità di immaginare altri tipi di vita
possibile. A donne e uomini detenuti, in condizioni di segregazione e di costrizione che
rischiano di rendere molto problematico ogni tentativo di sviluppo personale.
Lo “spazio pedagogico penitenziario” pare piegato ad altri paradigmi lontani da quello
pedagogico: quello della sicurezza, quello del trattamento in chiave bio-medica o
psichiatrica, quello delle procedure giuridiche. La progettazione “rieducativa” nel quadro
dell’attività trattamentale dell’adulto detenuto (anche se tossicodipendente o immigrato)
avviene in modo discontinuo, e con una certa carenza di attenzioni pedagogiche.
L’indirizzo e il coordinamento di un piano personalizzato non è in realtà assunto da una
figura educativa ma pare risultare piuttosto da una “composizione” di interventi di figure
diverse (assistenti sociali, psicologi, educatori, medici, insegnanti) con una certa
confusione tra cura educativa e terapia. E, sotto traccia, con intenzione punitiva. Trova,
così, ostacoli una presa in carico globale del soggetto, degli elementi soggettivi ed
esistenziali, della sua rete di relazioni affettive e di prossimità. Il contesto detentivo rende
molto difficile la valorizzazione della persona come protagonista attivo nella costruzione di
un nuovo modello di interpretazione della realtà, di una modifica dei significati disadattivi e
cristallizzati. Il suo reinserimento viene pensato spesso in modo formale e meccanico,
anche per le condizioni sfavorevoli in cui si agisce sul piano organizzativo, culturale e
sociale
L’”osservazione della personalità” del “ristretto” non può che rischiare di raccogliere
informazioni superficiali se è ridotta a procedura burocratica non orientata da criteri psicopedagogici. In questo caso si orienta a cogliere quasi solo regolarità di condotte, adesioni
alle attività trattamentali; atteggiamenti “collaborativi” conformati, omologati, acritici. Propri
di detenuti che “non danno fastidio”.
6
Gli operatori stessi, molti di loro, sono ben consapevoli di questo rischio di rigidità, di
formalismo, di superficialità nelle relazioni: sanno bene che tutto questo va a rinforzare
una certa malafede, una forte funzionalità e strumentalità nei rapporti e nelle
comunicazioni. Allontanando da dimensioni di responsabilizzazione, di cooperazione, di
cambiamento e prova di sé.
Se il detenuto deve diventare protagonista della sua situazione, e della sua strategia di
riscatto, occorre anzitutto contrastare la “cultura della branda”, quella rassegnata abulia,
quell”’atrofia del sentire” che, tra l’altro, porta proprio a eludere il confronto con la colpa, i
rapporti tra sé e il reato.
L’esperienza di detenzione non può essere vissuta come una parentesi che “riporta in
parità i conti”, da chiudere al più presto. Senza un minimo spazio per una risignificazione
del proprio vissuto. Parentesi che viene vissuta come già chiusa durante quella “terra di
mezzo” che è la misura alternativa. Occorre pensare a occasioni precise e impegnative
per progettare il percorso riabilitativo del detenuto insieme a lui, con un “patto” stabilito
con il detenuto stesso, nel coinvolgimento di tutte le aree: educativa, medica, della
sicurezza. Con un forte rapporto tra i “circuiti” negli (e tra gli) istituti di pena, le misure
alternative, le situazioni di messa alla prova, i luoghi della mediazione e della
riconciliazione.
Riportare il senso di colpa nella propria storia personale e nella propria vulnerabilità, nel
gioco tra i limiti e le capacità personali, è utilizzare e canalizzare la sua forza e la sua
capacità di orientamento. È farne premessa per nuovi inizi, per impedirne il dilagare, e
impedirne la rimozione. Questo vale per ognuno: può valere anche per chi, a causa
dell’attribuzione di colpa, si ritrova segregato.
Nella condizione segregativa del carcere, il continuo scontro con le strette limitazioni alle
possibilità di scelta e di espressione di sé, le esperienze della dipendenza da altri sono
una costante, sempre presente in una quotidianità che può assumere i caratteri dell'abulia
e dello svuotamento. Oppure quelli del deserto e del labirinto (ricordiamo le pagine di
Maria Zambrano, che parlano dell'esperienza del tempo della segregazione nell'esilio).6
Deserto perché il tempo ristagna "e il vivere si fa, a volte, irraggiungibile quanto il morire".
Labirinto perché le dimensioni del tempo, passato, presente e futuro, si trovano
aggrovigliate, vanno e tornano confusamente. Perdono trasparenza. Le trame passate
6
M. Zambrano, Delirio e destino, Cortina, Milano 2000, p 18; R. Prezzo, “Il pensare che riscatta il vivere.
Delirio e destino di María Zambrano” in L. Boella, R. De Monticelli, R. Prezzo, M. C. Sala, Filosofia, ritratti,
corrispondenze, Ed Tre Lune, Mantova 2001, pp 126-ss
7
soffocano i fili che tendono al futuro; o sono questi che non reggono (ancora) la riassunzione dei grovigli del passato, insieme a un terreno da riscattare, un terreno di
riscatto.
E si ripropone, ancora, la faglia del punto di partenza, quando abbiamo provato ad aprire
gli occhi e respirare, fuori dal “riparo della verità materna” e nella “fame di tutto”. E nel
rischio di non farcela. Non è il ripetersi della nascita, la prima nascita è nascere senza
passato, ma è piuttosto des-nacer, disnascere, ri-sentimento della vita e sentire ancora
l’originarietà: attenzione e intenzione vengono mobilitate alla ricerca di realtà essenziali, si
è gettati in vita e affidati. O lasciati: la coscienza può prendere la strada dell’origine o
quella della discesa.
Tempo ‘ulteriore’, pare suggerire la Zambrano, in quel fondo di “debolezza di cui avere
cura dentro se stessi, dentro la propria vita”. Accettare di dover nascere, di non essere del
tutto, di andare essendo, col “rischio di essere altro da quanto intravisto”, di essere uno,
solo, e farsi visibile a sé e agli altri. Identificando ciò che va perduto o è andato perso. Sì,
occorre accettare d’essere o di esserci in parte, in alcune parti di sé, perduti.
“Rescatar”: tornare a prendere, tirare allo scoperto ciò che era imprigionato (nell’angoscia
o nell’illusione), guardare nuovamente, attraverso quella perdita e quella frattura che
l’evidenza della vulnerabilità mostra insuperabile: la sofferenza è lo specchio, trovando
tracce e consegne. Senza provare a negare o credere di poter abolire il patire.
Ripensare la propria storia, sé, la propria immagine, le proprie risorse, la loro possibile
ridestinazione. Per altri.
Ma occorre che da una condizione segregativa possa maturare una esperienza
di
avvicinamento a condizioni di bisogno e di limitazione, di dipendenza e non
autosufficienza, di vulnerabilità. Preziosa occasione per una prova di sé, di nuovo inizio, di
scoperta di risorse ancora possedute e d'una inedita, e non ancora provata, dimensione
d'esperienza responsabile, e dedicata, da dedicare, da destinare di nuovo. In dignità.
Non è facile trovare punti di appoggio in relazioni educative dentro queste condizioni.
Come non è facile assumere, lì dentro, un adeguato atteggiamento educativo.
La riflessione attorno a quella complessa, delicata e misteriosa relazione che lega le
donne e gli uomini nel tempo che indichiamo con il verbo educare mette in risalto spesso
la dimensione del contrasto e dell’esercizio della forza. Educare, dicevamo, è “rompere
una resistenza”7, non di rado operare “un’intrusione”8 nel mondo dell’altro, nell’equilibrio -
7
A. Canevaro, A. Chieregatti, La relazione di aiuto, Carocci, Roma 1999
8
solido o precario – che quel mondo ha acquisito. Le riflessioni e le argomentazioni a
giustificazione di questo esercizio della forza sull’altro raggiungono spesso una notevole
ampiezza (ne va della trasmissione culturale, dell’abilitazione di competenze e capacità,
della consegna di identità culturali e tradizioni, del controllo di campi disciplinari e di
paradigmi per la conoscenza e per la ricerca; ne va dello sviluppo e del progresso, e della
selezione/coltivazione delle migliori “risorse umane”…). L’indagine e la riflessione attorno
a come curare il sentire “questo esercizio” della forza sull’altro non giunge che raramente
a una certa profondità.
È prezioso e importante, invece, sentire di questo esercizio della forza (nell’educare, come
nel curare e nel coltivare) le dimensioni di “colpa”, di debito, di responsabilità. Per potere
sorvegliare la forma del proprio porsi di fronte o accanto all’altro, e chiederci cosa di noi è
in gioco, cosa cogliamo, cosa “stiamo diventando” in quella relazione, nell’incontro.
Responsabilità sentita da chi di noi educa e assume cura, chiamando alla relazione e
chiedendo all’altro di esporsi, di seguire, di affidarsi. Debito avvertito verso chi dà fiducia e
si offre, e che insieme chiama a giocare di noi quanto portiamo come risorsa e valore,
riconoscendolo come, all’origine, ricevuto da altri. Educare (e avere cura) si svela sempre
come un ritrovarsi in narrazioni che ci precedono, e che si sono tessute attorno e
attraverso noi.
Ma dentro queste narrazioni, che mostrano fragilità e sofferenze, a volte insuperabili, e
nelle quali si incontrano anche ingiustizie, toccare insieme la propria impotenza
e la
propria forza attiva un sentire particolare: la colpa. Questo sentire è il riflesso della fatica,
del mutismo, dell’incapacità o della disperazione di chi ti sta accanto. Del quale avverti la
intoccabilità profonda, la distanza, il ritrarsi.9
Si sente anche la colpa per una inevitabile “presa” sull’altro: non posso che medicare, non
posso che insegnare e correggere, non posso che indicare e impedire. Questa presa non
si sa se sarà buona, abbastanza feconda, avvertita come attenta e rispettosa. Si può
sentire la “colpa” per la richiesta di esposizione, di fiducia, di apertura al nuovo che si
rivolge. E per non potere assicurare che la fiducia non verrà tradita, che il nuovo sarà
abitabile, che l’esposizione non costerà ferite.
Ma finché si sente, si guarda in faccia, si dà parola a questo sentire si potrà stare nella
relazione educativa serbandone la dimensione della cura.
8
I. Lizzola “Soglie, fratture, prossimità l’esperienza della cura nelle Terapie Intensive” in G. Bertolini (a cura),
Scelte sulla vita, op cit, pp 52-56
9
A. Cavarero, Orrorismo, ovvero della violenza sull'inerme, Feltrinelli, Milano 2007, pp 46 ss, pp 30 ss
9
La cura è dare tempo alla formazione dell’uomo, alla sua trascendenza, perché la ricerca
di forme umane non si interrompa. Pensare la questione del tempo in questa prospettiva
“non significa addolcire arbitrariamente la realtà della condizione umana, segnata dalle
esperienze del negativo, del dolore, dell’assurdo.”10 Ma è sostenere che nell’avventura
umana il male, il negativo, non è originario, non è atto primo.
Le ferite possono divenire esperienze conoscitive e di approfondimento del sentire, a patto
che non venga rubato il tempo: come spesso avviene per chi è profugo, è carcerato, è
travolto dalla guerra o dal terrorismo. Come è sempre per chi è senza diritti, protezione,
attenzioni educative. Come è rischio per chi è incerto, dipendente, soffocato. Siamo colpiti
e chiamati alla prossimità alla vittima e al colpevole perché noi siamo nati per la pienezza,
per la felicità.11
Il tempo nasce dalla cura, dalla cura nascono e tornano a nascere le donne e gli uomini.
Ritrovarsi chiede, a volte, di fare spazio a, costruire una rottura instauratrice. Che operi
una sorta di riscatto, di riposo, di perdono: “costruiamo” consegnando. Prevale tra noi
un’idea e una pratica del costruire “progettando”, o “realizzando intenzioni”, mentre ci può
essere, a ben vedere (a bene dire) anche un costruire “consegnando”, ”generando”. Un
costruire “lasciando” (lasciando essere), e “custodendo”.
2.2 passare nell’ombra: l’altro, la colpa, il debito
È quando le donne e gli uomini si trovano nella colpa che vivono l’esperienza che Weil
riassume con queste parole: “Non possiamo trasformare noi stessi, possiamo soltanto
essere trasformati, ma lo possiamo soltanto quando lo vogliamo con tutte le nostre
forze”12.
La condizione della ‘vittima’ e quella del ‘colpevole’ appaiono accomunate da questa
impossibilità di iniziativa intesa alla trasformazione di sé. Condizioni che “inchiodano”
entrambi a ciò che è avvenuto, colpevole e vittima,
per la forza senza pietà
dell’impossibile che si è reso reale, dell’ingiusto che si è fatto possibile. Come se quello
che non doveva prendere forma nel tempo – la violenza, l’inganno, l’asservimento, l’abuso
10
R. Mancini , Il senso del tempo, Pazzini, Roma 2005, p 97; Esistenza e gratuità. Antropologia della
condivisione, Cittadella, Assisi 1996, pp 173-ss
11
S. Tomelleri, La società del risentimento, Meltemi, Roma 2005, pp 108-ss
12
S. Weil, L’amore di Dio, Borla, Roma, 1979, p 215
10
– paralizzasse il tempo e paralizzasse nel gesto compiuto o subìto quegli uomini, quelle
donne.
Il tempo preme “imponendo” ormai una forma alla storia personale, una piegatura nuova
al rapporto tra il tempo biografico, il tempo sociale e il tempo storico. Vittima e colpevole
sono trascinati via. Essi si trovano, ad esempio, “ridislocati”, come ricollocati
diversamente, “presi e spostati” a forza, senza possibilità di resistere, all’interno del
disegno delle relazioni nelle quali si svolge la vita comune. I media che li scrutano e li
espongono, l’immaginario sociale, i meccanismi ed i tempi dell’apparato giudiziario li
spingono in un luogo “altro”, quasi in esilio dalla vita comune. Presto chiusi in un cono
d’ombra.
Quelle relazioni della vita comune non hanno saputo difendere la vittima: non è bastata la
forza e la credibilità del patto sociale di convivenza. Non è stata efficace l’educazione, la
cultura, la regola; neppure han fatto argine la sorveglianza, la cura responsabile, gli argini
morali. Ora la vita comune si vede segnata da un debito, comunque irrisarcibile, nei
confronti della vittima. Questo svelamento del limite e dell’ombra che la convivenza porta
dentro di sé, che non riesce, non può riuscire a cancellare né a “controllare”
completamente attraverso le sue norme e le sue strategie educative, di controllo, di
promozione, per lo più non è ben tollerato, né adeguatamente elaborato. La vita comune
viene toccata dalla colpa, e dal debito verso la vittima: reagisce, allora, collocandola in una
situazione ambigua, di marginalità, di vittimizzazione. Anche ben assistita ma certo
“rinchiusa”.13
Ma la vita comune ha pure ospitato il colpevole, il suo tradimento delle norme di
convivenza e la lesione da lui inferta all’altro. Lesione inferta anche a quella ‘fiducia di
base’ che, promossa e garantita nelle relazioni di prossimità e nelle relazioni sociali,
dovrebbe permettere di segnare una certa distanza dall’istintiva guerra di tutti contro tutti
per il possesso. Fiducia che è l’attesa e l’anima della convivenza.
Totalmente addebitata al tradimento del colpevole questa lesione, che rende insicura la
convivenza, fa reagire la convivenza stessa rinchiudendo il colpevole nell’ombra
dell’istituzione di una pena: ancora per non avvertire troppo l’ombra che attraversa e prova
le relazioni tra donne e uomini. Un’ombra verso la quale la società deve esercitare
13
La letteratura attorno alla “vittimizzazione” e alla marginalizzazione delle vittime è estesa e presenta come
preziosi riferimenti i lavori di Foucault e Goffman, gli studi della nuova storiografia francese” di Delumeau e
Le Goff, i lavori di Geremek. In Italia le analisi sociologiche di Tamar Pitch e Carmine Ventimiglia, oltre alle
recenti riflessioni di Adriana Cavarero
11
continuamente una vigilanza e, quando si riaffacci, una ritessitura di umanità, di dignità e
di relazione.
Fragile si fa il futuro della convivenza provata dalla frattura e dalla manifestazione della
sua ombra. Certamente segnato dalla fragilità è il futuro di chi, considerato peso dalla
società, abbandonato fuori dalla fiducia, si chiede: “sarò in grado? saprò giocarmi di nuovo
nel tempo?”
Il tempo sociale pare inaridirsi attorno al ‘colpevole’ ed alla ‘vittima’: li riduce ai margini o
fuori dai luoghi della nascita, dell’inizio, dell’azione. Che sono i luoghi dell’incontro con la
possibilità, l’intrapresa, il legame, la fedeltà e la cura: quelli dove si accoglie la nascita, si
educa, si ama, si costruisce un progetto, si prendono responsabilità. Dove ci si può
scoprire in nuove abilità, e in relazioni nuove. Pur senza “meriti”, e con le proprie fragilità.
Pur nella colpa, e nella rottura di promesse, anche dopo le fatiche, i fallimenti, gli sprechi
dei doni e delle occasioni ricevute.
Sono proprio questi luoghi vitali14 della convivenza che si aprono, quelli in cui le donne e
gli uomini ritrovano e rinnovano se stessi nella loro individualità, nell’identità di genere,
nell’appartenenza generazionale. E sono proprio questi i luoghi che sono impediti ai
‘colpevoli’, e che sono avvicinabili a fatica, o riconquistabili solo con sofferenza dalle
‘vittime’.
Donne e uomini segnati, violati dall’esercizio di una forza che si è fatta violenza possono
volere “trasformare se stessi”. Possono cercare, però, di trasformare se stessi cadendo in
corto circuito: chi è autore di reato può semplicemente cercare di negare le parti oscure di
sé nelle quali non si vuol riconoscere, ridimensionandone forza e portata (è stato “uno
sbaglio”, “un colpo di testa”), cercando di separarsi da ciò che di sé non si vuole accettare,
che si considera estraneo, altro. Una sorta di amputazione. Ma chi si avvia su questo
sentiero rinuncia anche a cercare ciò che in sé porta di non ancora espresso, che non è
negato o compromesso dal reato: “altro da sé” come possibile. Novità ulteriore, e riscatto.
Per cogliere che si è, si può essere, altro dal sé fino ad ora manifestato, occorrono due
condizioni: che si guardi in faccia ciò che si è già espresso; che si colga una attesa su di
sé, una attesa di novità, una fiducia esigente ancora offerta: l’altro dentro di sé non sarà
mai sondato e fatto nascere se non sarà atteso, evocato e richiamato. Questo esige
percorsi nel tempo, ascolto di sé e ascolto di chi “attende” (un figlio, una moglie, un padre,
14
M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Ed Lavoro, Roma 2001, in particolare parte III – “Pratiche di
spazio” pp 143-194. Sui “mondi vitali” vale inoltre la preziosa lezione di Achille Ardigò
12
altri cui “dedicare” attenzione e cura pur se non conosciuti, …). Senza scorciatoie, fughe,
nascondimenti.
Volere trasformare se stessi ricorrendo alla negazione di parti di sé può prendere invece
almeno due diverse strade. La prima strada è quella della negazione di quel che di sé si è
manifestato nell’atto violento, e nei suoi moventi: ecco che si cercano cortine di
giustificazioni, di cause esterne e di pressioni ambientali di cui ci si presenta vittime. Per
riuscirci ci si esercita ad anestetizzare il proprio sentire la presenza dell’altro: questo
resterà ancora, così, un ‘oggetto’ o della propria intenzione o della propria irresponsabilità.
Resterà esposto ad essere ancora vittima.
La seconda strada è quella della riduzione di sé alla maschera assunta nell’atto criminale,
continuamente ribadita dallo stigma sociale e dal dispositivo della sentenza. È una
trasformazione di sé nella cristallizzazione, nella fissazione in una “natura”, in una
determinazione senza libertà. Che esporrà continuamente alla coazione a ripetere.
Procedere su questi due cammini vuol dire stare continuamente attenti a non sentire
l‘altro, a non vedere la sua presenza e la sua domanda, a non ascoltare la sua richiesta di
attenzione e di affidamento. Non sentire l’altro per riuscire a non sentire la colpa, per
sfuggire, sottrarsi, non sentirsi di fronte al suo “chiedere conto” delle nostre scelte e delle
nostre azioni.
Inoltre la tentazione di copiare l’atto colpevole o di accusare altri per liberarsene è sempre
presente, e può assumere anche la forma del “peccato del giusto”:15 chi si pone come
“giusto” mira alla continua giustificazione (il proprio “merito”) e all’accusa dell’altro. Difficile
è il controllo su questo meccanismo interiore: tra colpa e virtù pare esserci
compenetrazione reciproca.
Uomini e donne normali, “di luce ed ombra”, che si fan carico di se stessi assumendo la
cura d’altri, si impegnano invece ad indebolire, a depotenziare il senso di colpa, ad
accomiatarsi da una sua forza esagerata. Luca al capitolo 5 (v 17) ricorda il dire di Gesù:
“ti sono rimesse le tue colpe!” Ma non è semplice “lasciare andare” le colpe, accettare e
sentire la loro remissione; chiede di riprendere creatività e autonomia, chiede di entrare
nella dinamica del riscatto. Rimesse le colpe, ti pesano adesso, come responsabilità.
La colpa non è cancellata ma è una via per andare al fondo di se stessi: e qui si scende da
soli, e nell’abbandono ad un certo punto: come è nell’esperienza della terapia, della cura,
15
P. Ricoeur, “Morale sans péché ou péché sans morale?” in Esprit 22, 1954; pp 394-421
13
dell’educazione, della pena, della preghiera. Il passaggio nell’ombra, nel vuoto della
disperazione è solo nostro: come la responsabilità.16
Il senso di colpa, portato in piedi, nella libertà, denuncia la retorica del merito e della colpa
che tutto misura su ciò che si dovrebbe fare o essere. Nell’universo chiuso, proprio di chi
“passa la vita a cercare di meritare d’essere accettabile”, vivendo ogni momento come in
una alternanza continua di condanna e di assoluzione, lottando contro il senso di colpa per
negarlo, o per vederlo “pareggiato” dai meriti. Nessun perfezionismo pratico potrà colmare
il fondo scavato dalla colpa. È un fondo da attraversare, sul quale riuscire a restare con
lucidità e coraggio per poi andare verso chi, ancora, può serbare un’attesa su di noi.
Fosse questo anche un incontro del passato, o la madre; o fossero gli occhi di un figlio che
possono aiutarci ad accettare come non sappiamo, già e del tutto, chi siamo.
Nella cooperativa che dava lavoro ai semi-liberi incontro F, durante uno degli incontri nei
quali periodicamente si riflette insieme sull’esperienza di lavoro e sulle prospettive
riparative e ricostruttive della propria biografia. Ci vediamo da diversi mesi, mi colpisce la
sua sobrietà, e la sua franchezza: ha un figlio, ha sette anni; lui è al sesto anno di
detenzione. La moglie ha caparbiamente tenuto le relazioni con lui e, per quanto possibile,
quella col figlio. Ha cresciuto bene il piccolo, “ha già compiuto più di un miracolo”, mi ha
detto piano F.
Fine pena è vicino ormai: “ho un regalo per loro: me ne andrò lontano. Il mio tesoro non
dovrà vergognarsi o dire bugie sul papà ai suoi compagni, e sua madre potrà rifiatare, sarà
libera. Anche le nostre mogli vivono la prigione, e sperano la fuga”. Così l’ultima volta. Ma
oggi F sta zitto durante il gruppo, con gli occhi assorti. Quando mi saluta mi guarda dritto:
“Torno a casa, devo farlo. Devo dire che ho sbagliato e sono capace di riprendere il filo,
che ho lavorato su di me per sostenere la durezza che chiederà. Che li amo tanto, che si
può amare anche se si è compiuto un reato. Che si può ricominciare: ”Mi lascia in mano
un momento una cartolina: è del figlio, per la “festa del papà”.
Di nuovo “figli dell’uomo”, non già determinati, ma ancora nella possibilità di vedere e di
essere altrimenti: di rimettere, di lasciar andare la colpa, di perdonare, nel presente dei
giorni. In ebraico, e in aramaico, “figlio dell’uomo” significa “essere umano”.
Grazie ad altri siamo nati, grazie ad altri possiamo tornare ad uscire da noi stessi, fuori
dall’universo chiuso della colpevolizzazione e della perfezione, del merito e della colpa.
Certo, in un punto di decisione e di ritrovamento con noi stessi saremo soli: ma non
16
L. Basset, Il senso di colpa, paralisi del cuore, Qiqajon, Magnano (Biella) 2007, p 25
14
perché possiamo da soli salvarci e tornare a nascere, bensì perché con tutte le nostre
forze dovremo lasciarci trasformare.
“Quindi il senso di colpa è il più profondo appello di sé a un al di là da sé, una forza vitale
che produce il tempo e insieme lo domina”,17 così Jean Lacroix in Philosophie de la
coupabilité.18 “Produce” il tempo perché conduce fuori da ciò che si è già dato, a trovare
nuovo senso e nuovo inizio. Provoca, può provocare, una “rottura instauratrice”, un ritorno
su di sé e un nuovo giocarsi. Una capacità di futuro (nella dedizione, nella responsabilità
assunta) che risignifica il lavorio presente e fa riprendere e riaprire il passato.
Anche se - lo abbiamo già
sottolineato - il senso di colpa va “coltivato”, va letto e
impiegato in attraversamenti e narrazioni. Può “sia distruggere che divenire fonte di vita
rinnovata”.
Il confine è incerto, la sfida assunta: trasformare l’”angoscia essenziale” in “desiderio
esistenziale”, in desiderio di superamento attraverso una “confessione etica”.19 In un
passaggio delicato, camminando in crescita e reggendo la vertigine.
Non possiamo affidarci al solo senso di colpa “come criterio di salvezza e di liberazione”:
cosciente e inconscio fanno del senso di colpa un inconoscibile. Dobbiamo maturare una
certa lucidità, e una certa pietà per noi (e per gli altri), e cogliere cosa è messo in
discussione del nostro valore, radicalmente.20
2.3 colpa senza imputabilità e obbligazione
Le donne e gli uomini hanno questa particolare e loro propria capacità di sentire: a volte
sentono in sé la colpa per qualcosa di cui non sono imputabili. Il loro senso di colpa
riguarda eventi e situazioni cui non hanno partecipato, persone distanti nello spazio e
lontane nel tempo.
Questo non si manifesta nella storia e nelle cronache dei giorni secondo modalità tragiche.
Abbiamo nella mente, certo, le vicende di tanti sopravvissuti che non reggono la memoria
di coloro che sono rimasti vittime, e provano un profondo senso di colpa o di indegnità nei
loro confronti. Abbiamo nel cuore le vittime di violenza che maturano dentro di sé un senso
di vergogna e di colpa dal quale non riescono a liberarsi e al quale, a volte, soccombono,
17
L. Basset, Il senso di colpa, paralisi del cuore, op cit, p 68
J. Lacroix, Philosophie de la coupabilité, PUF, Paris, 1977, p 23
19
ibidem, p 22
20
J. Nabert, Eléments pour une étique, PUF, Paris 1943, p 22
18
15
anche a distanza di tempo. Tragiche vittime di un senso di colpa nato dal contagio con la
violenza, e certo senza imputabilità. Sono dinamiche del senso di colpa da conoscere, da
capire e da fronteggiare, per indebolirle.
Certamente i piccoli sono particolarmente esposti alla colpa, anche quando subiscono la
violenza o la durezza dell’indifferenza. Forse per la grande capacità (da cui non sanno
ancora “difendersi” e distanziarsi dandole misura) di sentire il sentire dell’altro. Lytta
Basset ha raccolto i vissuti infantili della colpa: “Quando mi picchiavano sentivo l’infelicità
di chi mi picchiava e pensavo d’essere cattivo”, in qualche modo colpevole.21
Ma cresce e trova espressione nei sentieri della crescita anche un senso di colpa che,
forse, si potrebbe chiamare “orientativo“, o regolativo. Ricordo negli anni diverse occasioni
di riflessione con studentesse e studenti alla fine della scuola superiore, o in università. Lo
studio del Novecento, della Shoah, dei totalitarismi; l’incontro con la profondità delle
disuguaglianze e della miseria, della malattia e delle ferite dei corpi; lunghe e impegnative
esperienze di tirocinio o di volontariato nei campi profughi in Bosnia, Kosovo, Ruanda;
tutto questo porta queste giovani donne e questi giovani uomini a “sentire la colpa” per
quanto vivono o hanno dovuto vivere tante donne e tanti uomini, anche lontani nel tempo,
nello spazio, o non conosciuti. C’è chi afferma: “ora devo raccontare la mia storia, e
prendere le mie decisioni davanti a loro”; e altri che riflettono ad alta voce: “se è stato
possibile, io non ne sono estraneo”; “voglio essere una persona che cerca di nuovo
perdono, riscatto, e che costruisce gratitudine per la vita che ha saputo riaprirsi”.
Anche negli anni dell’infanzia, e certo in quelli dell’adolescenza e della giovinezza questo
particolare sentire può svilupparsi ed essere terreno di coltura di una responsabilità
originaria, universale. Indeclinabile e non delegabile ad altri.
Colpisce l’intensità di questi moventi che ricordano le pagine di Lévinas sul “non potersi
sottrarre”. Per chi li vive non si tratta semplicemente di una presa di coscienza, ma della
rivelazione che “egli è, nella sua stessa posizione, sino in fondo responsabilità”.22 A volte
nessuna imputabilità (storica o giuridica) li tocca, eppure c’è la capacità su questi cammini
di costruzione della propria identità, di assumere la colpa, e di vivere un’azione
responsabile e conseguente, pena il sentirne l’omissione.
21
L. Basset, Il senso di colpa, paralisi del cuore, op cit, pp 68 e ss
E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983, p 99; Scoprire
l’esistenza con Husserl e Heidegger, Cortina, Milano 1998, p 255; L. Sesta “Per tutto e per tutti e io più degli
altri” in M. Durante (a cura), Responsabilità di fronte alla storia. La filosofia di E. Lèvinas tra alterità e
terzietà, Il Melangolo, Genova, 2008
22
16
Già da prima, nella pienezza dell’infanzia, Irene la sera “confessa” con le lacrime agli
occhi, come sua colpa, la morte per fame dei bambini del Darfur o le sofferenze dei
profughi cingalesi abbandonati per giorni in mare, di cui aveva parlato il telegiornale visto e
commentato in famiglia. Sente Irene, bambina, per la prima volta l’impotenza di fronte a
una sofferenza ingiusta, e incomprensibile. Si sente colpevole riverberando il riflesso di
disperazione e di mutismo, di sofferenza e di estraneità di chi, lontano, le é ora presente,
attraverso i telegiornali discussi con i genitori, attraverso i progetti di gemellaggio e di
scambio promossi alla scuola elementare.
Certamente in questi movimenti abita anche l’ambiguità e il tentativo di auto assoluzione.
Come il rischio di restare esposti alla paralisi d’una responsabilità non assumibile. Ma è
una sfida educativa il fare in modo che questa “insostenibile colpa” non diventi senso di
colpa onnipotente, legato a un sottile perfezionismo, che può diventare paralizzante. La
capacità di sentire l’altro e di sentire la colpa per ogni ferita o offesa alla vita o alla dignità,
è ciò che “costituisce” una donna, un uomo. Dostoevskij così lo esprime nei Fratelli
Karamazov: “Ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti, per tutti e per tutto, e io più degli
altri”.23
Tutto mi riguarda: mi abbraccia come dono donato e mi richiama come responsabilità. La
cura dell’universo, e della “famiglia umana”, la responsabilità “che risponde di tutti gli altri e
di tutto negli altri”24, ne compone l’unità ben più che lo sguardo che indaga e conosce.
Non si tratta, certo, di un impossibile concreto rispondere di tutto e di tutti; piuttosto questo
richiama una dimensione interumana e
trascendentale: “io sono: eccomi!”. Che è
condizione di possibilità, è essere disposti a rispondere.
Certamente di molto non abbiamo responsabilità diretta, ma il solo fatto che si dia la
violenza, la mancanza di cibo, l’asservimento di uomini, la distruzione dell’ambiente, …
definisce una colpa da sentire. Colpa imperdonabile e insostenibile perché non c’è
possibilità di una azione risolutiva e proporzionata capace di lenirla, né è richiamabile
un’imputabilità giuridica, specifica. Ambiguità di una colpa non attribuibile e colpa non
espiabile. Eppure tali condizioni di squilibrio e ingiustizia non possono essere del tutto e
semplicemente addebitate all’ordine universale: chiedono risposte. L’io che prova un
senso di colpa verso di esse nasce alla sua unicità nella responsabilità, che gli fa dire
“nessuno può rispondere in vece mia”.25
23
F. Dostoevskij, Fratelli Karamazov, Garzanti, Milano 1979
E. Lévinas, Etica e infinito, Città Nuova, Roma 1984, pp 112-113
25
E. Lévinas, Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova 1985, p 73, p 114
24
17
Il senso di colpa stabilisce un’asimmetria: l’unicità nella responsabilità non è un primato,
ma una dedizione, un’esposizione. Prima i miei doveri, l’”obbligazione” weiliana,26 poi i
miei diritti: come nel gesto di cura e nella relazione educativa. Nell’asimmetria stabilita
dalla colpa, o dal debito, non c’è reciprocità: la si spera, magari, ma non la si chiede come
condizione: è come se avessi a rispondere della stessa responsabilità, o irresponsabilità,
dell’altro. Su questo punto non seguiremo Lévinas che parla della nostra possibilità di
sostituirci a tutti senza che nessuno possa sostituirci. Non possiamo sostituirci all’altro, alla
sua responsabilità, alla sua sofferenza: al più lo possiamo in un compito, al limite in una
pena. Possiamo sentire in noi il suo dolore, o la sua fierezza, “renderci conto” di ciò che
vive, o che lo muove: è empatia, non sostituzione.
Possiamo piuttosto sentire la colpa originaria, insieme al disvelamento del debito pure
originario d’essere (stati) grazie ad altri, figlie e figli della cura. Possiamo, certo, muoverci
verso l’altro anche nonostante la sua ingratitudine, e nella non corrispondenza: rispondere
dell’altro è una esposizione incondizionata: non è una sostituzione. Forse è “prendere su
di sé”.
È cura, la più alta “possibilità” dell’umano, vocazione umana per eccellenza. Anche
quando ha la forma estrema della “responsabilità per il persecutore”, dell’”espiazione per
altri”.27
“Io non ho fatto niente e sono sempre in causa, perseguitato”28: il volto dell’altro mi fa
appello a essere per l’altro, precede la libertà mia, così con forza afferma Lévinas. Io sono
ostaggio senza scelta, eletto in responsabilità senza possibilità di sottrarmi. L’altro è “già
là” prima della mia venuta al mondo, non posso sottrarmi al passato immemoriale da cui
proviene la responsabilità verso l’altro. Dall’esposizione sua nel tempo, dal suo essere
stato violato e negato, fino all’apoteosi della sua cancellazione rappresentata dai genocidi.
Sentire la colpa, sentire l’altro diviene “costitutivo” per ogni uomo e ogni donna.
Ci si sente colpevoli di sopravvivere, coupable de survivre, alle vittime e piegati a
risponderne, a lavorare intensamente su di sé, e con altri, nello spazio pubblico. Se ne
soffre il limite ma continuando nell’impegno; l’ampiezza trascendentale della responsabilità
non paralizza, anzi può divenire la trama di gesti, stili di vita e di relazione. Che divengono
capaci di ospitare la dimensione dell’annuncio, dell’attesa. Quasi “caparra sul tempo” per
le generazioni a venire, come disse Albert Camus di Etty Hillesum.
26
S. Weil, La prima radice – Preludio a una Dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, Ed di Comunità,
Milano 1980
27
E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983, p 141, p 139
28
E. Lèvinas, Etica e infinito, Città Aperta, Troina (Enna) 2008, p 99
18
Cercando la giustizia nella convivenza: “la giustizia rimane giustizia solo in una società in
cui non c’è distinzione tra vicini e lontani, ma in cui rimane anche l’impossibilità di passare
al fianco del più vicino”.29 Eroismo del sacrifico con un profumo di narcisismo? Forse no:
senso dell’attesa e dell’incompiutezza, del cammino attento e umile, della dedizione, del
“tempo dato”. Sì, figli del tempo, che ci è stato dato nel corpo nato, da figli del dono
ricevuto, “grazie a Dio”, e della benedizione.
Benedizione è ciò che ti coglie, precedendoti. E orienta alla profondità il tuo sentire: sentire
origine e attesa, sentire l’altro; il suo e il tuo mistero. Il palmo della mano: non siamo noi
(non è il soggetto) ad accogliere la benedizione, né a benedire; é nella benedizione che
nasciamo, e ci ritroviamo. Possiamo riuscire a trovare di nuovo noi e la vita, quando
questa si fa difficile ed entra nella nebbia.
Si può tornare a sentire una benedizione sul tempo, anche quando tutto sembra finire.
Quando la storia che proviamo, o ci troviamo a raccontare nel tempo dato, si spezza o
sfinisce, e pare emergere l’abbandono, anche allora un incontro nella cura riesce a far
sentire la prossimità e con essa il tempo condiviso.
Anche nella solitudine il tempo può essere abitato da un dire buono, nell’incontro con altro.
Il tempo in fine può serbare delle ricapitolazioni della memoria, preziose come il
disvelamento d’una verità e di una pietà originarie. Può anche ospitare una benedizione
sul futuro, in comunicazioni tese nella forma della consegna, dell’eredità per altri.
Consideriamo infatti – noi padri e madri – una benedizione che le figlie ed i figli ci
sopravvivano, e speriamo di lasciare loro una buona consegna: il sentire la vita come un
dono, come un invito a “entrare nel dialogo”, nella benedizione appunto.30
Nella prospettiva della benedizione il tempo non è lineare, non va solo dal passato al
futuro. Non è tempo (solo) di progetti e di realizzazioni, tempo dell’intraprendenza e del
portare a termine. Chi vive e lavora a contatto con la malattia psichica, o con la terminalità
vede bene che i tempi non sono già dati una volta per tutte 31. Racconta, perché ha visto,
che possono essere di nuovo detti i tempi, con parole buone, come fossero aperti e in
attesa: i giorni di adesso, nonostante la ripetitività e i fantasmi della mente che li rendono
duri e fragili, e i giorni ormai dati, che possono essere “ridati” in nuove parole e nuovi
gesti.
29
E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op cit, p 199; Dall’altro all’io, Meltemi, Roma 2002
I. Lizzola, “Ritrovare l’infanzia” in AAVV, Non tradire l’infanzia, Ed Esperia, Roma, 2006
31
G. Bertolini (a cura), Scelte sulla vita – l’esperienza di cura nei reparti di terapia intensiva, Guerini, Milano,
2007, p 52 e ss; E. Borgna, L’attesa e la speranza, Feltrinelli, Milano, 2005; I. Lizzola, V. Tarchini, Persone e
legami nella vulnerabilità, Unicopli, Milano, 2006
30
19
Ci può essere resistenza alla benedizione. Chi è consumato e sfinito, chi ormai porta in sé
la cristallizzazione di un paesaggio interiore chiuso, nel ripiegamento dell’estrema
resistenza al dolore, a ferite subite o inferte, a dolori esistenziali e relazionali,
all’abbandono, chi è sulla soglia estrema dell’aridità (con le “ragnatele negli occhi”): chi è
così può non voler sentire la benedizione. Può temerla, temerne il tradimento, e
dileggiarla.
Vi sono persone che vivono come ultima strategia di resistenza del sé quella di non far
entrare nessuno, di non farsi aiutare, decise a restare nel dolore, quasi fosse l'ultimo
contatto
che
hanno
con
sé;
rifiutano
di
farsi
curare,
come
se
vedessero
nell'autodistruzione l'ultima possibilità di salvaguardare una parte di libertà. Com'è giusto
agire in questi casi? È giusto intromettersi e distruggere l'ultima salvaguardia che una
persona riesce ancora a immaginare e a rappresentare per sé? O è più rispettoso stare in
attesa, provando delle delicatissime risonanze, per quanto riescano a darsi?
Ci sono donne e uomini che accettano di stare sulla faglia anche se le scosse non sono
finite: il loro compito è essere lì per favorire delle occasioni di reinterpretazione, di
ripensamento: per aiutare a costruire case provvisorie e qualche attesa. Si tratta di ripari
che non sono ancora la casa, ma rifugi provvisori in vista di un assestamento del
paesaggio, e del senso.32
“Io sono: eccomi!” da figlio, nella gratitudine. Anche il senso di colpa è da vivere nella
finitezza, pena un impotente moralismo e un “cattivo infinito”.33 Solo da figlio resterò sulla
faglia che scompone la vita, la speranza, le relazioni. Reggendo la resistenza, “obbligato”.
2.4 la colpevolizzazione e il “peccato del giusto”
Il senso di colpa va ben indagato e va letto nella trama delle relazioni e delle
rappresentazioni sociali e culturali, oltre che nel contesto di formazione delle identità: nella
trama di quelli che possiamo ben chiamare processi di colpevolizzazione.
Pensiamo ai processi alle streghe e alle dinamiche sociali di colpevolizzazione che
nell’occidente europeo toccano il culmine tra XVI e XVII secolo.34 Molte “streghe”
giungevano a non avere alcun dubbio sulla loro colpa, come anche i giudici più benevoli.
32
G. Bertolini (a cura), Scelte sulla vita, op cit, pp 79-ss
L. Sesta “Per tutto e per tutti e io più degli altri”, op cit 52
34
J. Delumeau, Il peccato e la paura: l’idea di colpa in occidente dal XIII al XVIII secolo, Il Mulino, Bologna,
1987
33
20
Eppure non vi era colpa!35 Vergote anni fa annotava con chiarezza che “per molto tempo
la colpevolizzazione è rimasta alla base dell’educazione e delle società occidentali”, al
punto che la patologia della colpa è apparsa come “una delle malattie congenite del
Cristianesimo.”36 Anche se il Cristianesimo (forse sarebbe meglio dire la cristianità, la
societas Christiana distinguendola dalla professione di fede) ha trovato e “utilizzato” una
dinamica umana profonda e ricorrente: quella che porta a ribaltare il senso di colpa in
accusa degli altri, a produrre riti di purificazione, capri espiatori, eliminazione dei colpevoli.
Si fa il male per liberarsi da un senso di colpa “ben anteriore”. A livello collettivo la storia
del Novecento e la nostra ne mostrano pagine tragiche, e versioni sempre nuove e
ricorrenti.
Anche a livello individuale si può provare a “sfuggire” al senso di colpa “anteriore”,
cercando una colpa reale, per “contenere”, per “scaricare” una colpa che assume forme
amplificate, immaginarie, insostenibili, a volte come effetto di traumi passati come mostra
Theodor Reick.37 Finisce la vitalità del soggetto, a volte la sua vita stessa: non si sa più
“se la sofferenza o la colpa imputabile è prima causata o prima subita”.38
Le scienze psicologiche ed umane hanno ampiamente sondato e colto anche i
meccanismi che generano i sensi di colpa nella sfera interpersonale e nelle dinamiche
socio-culturali. I sensi di colpa che nascono dall’evidenza del limite, quelli che generano
dall’idealismo inconscio, oppure da un bisogno d’amore non soddisfatto; i sensi di colpa
legati alla vergogna e al fallimento, all’odio o alla tensione della vita pulsionale... tutto
questo ed altro si intreccia certamente al senso di colpa come fonte dell’atteggiamento
morale e della cura responsabile di cui abbiamo parlato. Ognuno di questi elementi può
distorcere il senso di colpa, può piegarlo alla rinuncia a se stessi, alla propria vita di
desiderio, di possibilità, di nuova nascita.
La propensione a prendere su di sé la colpa dell’altro può avere la funzione di proteggere
la convivenza da quelle colpe, di preservare le relazioni,39 oppure di non farsi trascinare
nella spirale di odio che il contagio del male avvia. Ma il costo è troppo alto, molte volte!
Così i bambini si sentono colpevoli della separazione dei genitori se non è dato loro di
manifestare la ribellione e l’impotenza nel passaggio sofferto. Mentre per le vittime di
abuso e violenza sessuale è importante esternare i sentimenti negativi che le abitano,
35
F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1984, p 123
A. Vergote, Dette e désir, Seuil, Paris 1978, p 64; sulle “fratture e i transiti del cristianesimo” vedi il denso
scritto di M De Certeau, Debolezza del credere, Città Aperta, Troina (Enna) 2006
37
T. Reick, L’impulso a confessare, Feltrinelli, Milano 1967
38
L. Basset, Il senso di colpa, paralisi del cuore, op cit, p 56
39
ibidem, p 78
36
21
altrimenti possono essere rose dalla colpa e dalla vergogna. Così i prigionieri impediti di
urlare e manifestare i residui della loro dignità possono confessare ogni cosa.
Scrive Miller in La souffrance muette de l’enfant: “La violenza subita può essere sentita
come perfettamente legittima. Il bambino crede d’aver meritato le botte, idealizza il suo
carnefice e in seguito cerca degli oggetti che possano fare da supporto alle sue proiezioni,
per scaricarsi su altri esseri, o altri popoli della sua pretesa colpevolezza. È così che
diviene a sua volta colpevole”.40
Allora il senso di colpa diviene “un verme roditore del cuore”, come scrive Françoise
Dolto41, e un bambino, una donna, un uomo cercano nell’autoaccusa quel che resta di un
esercizio di potere, vissuto nell’impotenza. E può portare, poi, a pensare di aver pagato
abbastanza per essere ora ‘purificato’, ‘perfetto’.42
Serve presidiare una barriera di salvaguardia, ricollegandosi al più originario debito
dell’innocente, e al senso di intoccabilità dell’altro: occorre rompere il meccanismo della
colpevolizzazione. Come occorre ritrovare la fecondità di un sentire la colpa che apra alla
relazione con l’altro, la ristabilisca. Occorre rinunciare allo sforzo di “mantenere il controllo
sulla colpa”, presidiando la ricerca del proprio essere, di sé. Tutto questo vien messo a
rischio di smarrimento nei processi di colpevolizzazione e nel confuso intreccio di colpa e
autogiustificazione.
Sentire l’altro, sentire la colpa, sentire il debito. Un senso di colpa di carattere
individualistico, figlio del deliro di perfezione e del merito, è proprio di chi vuol farsi “figlio a
se stesso” secondo l’indicazione sociale prevalente, per non riconoscersi “figlio dell’uomo”,
nel limite e nella riconoscenza, nell’obbligo e nella cura. Atteggiamento che la società del
merito e della prestazione considera dei deboli e dei perdenti.
Questo senso di colpa avvelena, impedisce di vedere il volto dell’altro, la relazione di
fiducia. Fa ricadere nel “peccato del giusto”. Peccati dei figli della coazione sociale, della
convivenza del disprezzo e del misconoscimento.43
La psicoanalisi e la psicologia sociale e dinamica si sono ampiamente occupate della
colpa, del senso di colpa, del meccanismo della colpevolizzazione. La psicologia dinamica
distingue anzitutto tra la colpa come attribuzione, il giudizio di colpa, e il sentimento di
colpa, il senso di colpa. Del senso di colpa, di cui pure coglie una sorta di “dimensione
40
A. Miller, La souffrance muette de l’enfant. L’expression du refondement dans l’art et la politique, Aubier,
Paris 1990, p 61
41
F. Dolto, G. Sévérin, La libertà d’amore, Rizzoli, Milano 1979, p 101
42
L. Basset, Il senso di colpa, paralisi del cuore, op cit, p 83
43
A. Honneth, La lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, Il Saggiatore, Milano 2002
22
originaria”, non legata a imputazioni specifiche, e che viene anche riconosciuto come “una
delle componenti del senso morale”, uno studioso acuto come Giovanni Jervis sottolinea
prevalentemente le dimensioni negative, patologiche e regressive. Mette in luce il nesso
tra il senso di colpa e l’irrazionalità, l’immaturità, la mancata maturazione dell’autonomia
personale.
Il senso di colpa è, per lo più, “tormentoso ed oscuro”, spesso non permette neppure di
“mettere a fuoco se vi sia qualcosa di cui si è realmente colpevoli”.44 Jervis sostiene che
mentre è molto facile sentirsi in colpa, è “molto difficile sentirsi in colpa in modo sano”. Per
lo più i sensi di colpa, a suo giudizio, sono eccessivi e paralizzanti; la ricerca di vie d’uscita
da questo tormento può portare su percorsi pericolosi. Non è raro, infatti, che gli individui
cerchino qualche cosa di cui essere colpevoli per “spiegare” il perché del loro sentire, e
così si puniscono per “risolvere” il loro stato di tensione. Come capita, a volte, che i
meccanismi di colpevolizzazione portino alla delega ad altri del potere di punire, di
sottoporre a espiazioni, di assolvere. Creando e legittimando pesanti dipendenze.
“Sentire la colpa per nulla”, per nulla di distinto e specifico, si lega per questa linea di
analisi o a stati di depressione: la persona “tende a sentirsi in colpa per tutto, addirittura si
sente in colpa di esistere, deve chiedere scusa perché c’è”, o a una cattiva educazione del
bambino (reagire reiteratamente ai suoi errori sottolineando le sue mancanze, umiliandolo
e chiedendogli pentimento crea una personalità insicura, dipendente, preda dei sensi di
colpa). Il senso di colpa è scivoloso, va superato.
Alla colpa-sentimento deve sostituirsi la maturazione di responsabilità, definite e ampie: “il
problema della colpa non è più un problema di tormento interno, diventa un problema
operativo (…): cosa imparare a fare per comportarsi meglio”.45 Il senso di responsabilità a
differenza di quello di colpa è, secondo lo psicologo, un senso sereno, costruttivo “non è
basato sulla paura, è basato sulla soddisfazione”.
Sul piano educativo occorre condurre il bambino a fare delle cose, a prendersi cura e a
maturare il senso della soddisfazione per le cose che fa. È proprio la catena che porta
all’umiliazione ed a comportamenti espiativi che va interrotta, perché si possa tornare ad
agire sulla realtà in maniera attiva e operativa, “riparando” il comportamento inadeguato. I
sensi di colpa abnormi portano, invece, al senso di indegnità e ad un’ansia che fa restare
prigionieri del timore di sbagliare.
44
G. Jervis, “Colpa e responsabilità individuale”, trasmissione sul tema La forma del male, EMSF-RAI,
02.02.1988, www.emsf.rai.it, -d 175, p 16
45
ibidem, p 7
23
Rispetto alla costituzione del senso morale, Jervis parla del sentimento di colpa come di
uno dei suoi numerosi elementi. Alla costituzione di un’etica personale e civile partecipa
“sempre qualche cosa di molto emozionale, che ci riporta alle prime esperienze di rapporto
con i nostri genitori, ci riporta al problema dell’amore, come tematica spontanea, ci riporta
alla tematica della gratitudine, ci riporta alla tematica della sofferenza dell’altro”.46
Proviamo alcune riflessioni critiche. Una contrapposizione così netta tra il senso di colpa e
il senso di responsabilità come quella proposta (che riconduce il primo a dipendenza e
irrazionalità, il secondo a autonomia e razionalità; il primo a indegnità, il secondo a dignità
personale) fa riferimento a una concezione della responsabilità disegnata nel circuito
chiuso del “rispondere dei propri gesti”, del “portare le conseguenze delle proprie azioni”,
del “costruire se stessi in libertà e autonomia”, “nello scambio e nella competizione”.
Responsabilità che lascia l’io autoreferenziale solo, e la convivenza senza legami, senza
consegne e cura del futuro. Non spiega la forza della convivenza, della fraternità e del
legame tra le generazioni. Questa forza, questo legame hanno a fondamento l’intreccio tra
senso di colpa e senso di debito, tra senso di responsabilità e attenzione alla cura e alla
dedizione.
Il rapporto tra le generazioni, l’amore, il debito e la gratitudine, come pure la sofferenza
avvertita empaticamente, sono tutte dimensioni che mettono al centro l’esperienza
dell’altro, dell’alterità. Anzi, che riconducono alla dimensione originaria, per il costituirsi del
nostro rapporto col tempo e col mondo, del sentire l’altro. Altro da riconoscere superando
la pulsione che ci spinge a possederlo, a “ridurlo” a noi; oppure a negarlo e distruggerlo.
Pulsione che è nel piccolo dell’uomo, per il quale si parla di un progressivo
“decentramento” dell’io.
Il senso di colpa dilagante e non elaborato può sicuramente indirizzare verso chine
pericolose. Un’azione che non vogliamo accettare come nata da noi, che pensiamo
estranea alla nostra personalità, proprio perché non è elaborata rischia di essere ripetuta.
Solo se accolta come nostra, come colpa specifica, può divenire un “terreno di lavoro”
ricompositivo e riconciliativo, orientando la dimensione espiativa in termini di costruzione
e di relazione. Ciò è importante specie quando gli effetti delle azioni sono irreparabili.
Offrire e orientare scelte e impegni di vita, in modo anche inedito, è un movimento che può
permettere, come bene annota Jervis, di “inglobare l’insieme delle nostre contraddizioni in
qualche cosa che per noi ha un senso: la nostra vita e la nostra identità”. 47 Ma “inglobare”
46
47
ibidem, p 11
ibidem, p 13
24
è un frutto dell’incontro con l’altro, che è sempre sia ferita che benedizione. Ed è frutto di
ciò che l’incontro svela di noi stessi, dei nostri moti profondi; e delle nostre potenzialità di
intelligenza e di sollecitudine, di significazione e di cura, non ancora colte.
2.5 padri e figli: dignità e innocenza perduta
Un senso di colpa che nasca dal riconoscerci portatori di un impulso al possesso esclusivo
dell’altro, che maturi legato al senso di debito e di riconoscenza è forse quel sentire che
porta ad emergere il “non ucciderai” di cui parla Emmanuel Lévinas. E a provare la verità
(antica) nel suo dire “la parola Io significa eccomi, rispondente di tutto e di tutti”.48 Su
questa linea di riflessione si prende una certa distanza dalla tradizione prevalente della
modernità occidentale, e ci si riconnette a elementi della sapienza antica, greca ed
ebraica. Pensiamo, appunto, al tema della dignità, della possibilità di incontrare donne e
uomini in dignità.
A porre la questione della dignità umana sono, in primo luogo, le condizioni di vita fisiche,
relazionali, comunicative, di chi vive nel suo corpo deficit permanenti, a volte progressivi.
Condizioni “indegne”, come pare sostenere un certo senso comune diffuso, per alcune
condizioni di invalidità grave.
Incontriamo in queste condizioni di vita donne e uomini che vedono irrimediabilmente
compromessa la loro dignità umana? Al punto da legittimare un riconoscimento solo
parziale – richiamando volta a volta il loro bene, la qualità difettosa della loro vita, la dura
legge delle risorse limitate - dei diritti, delle attenzioni, delle cure? La dignità umana così
come è pensata da filoni forti del pensiero occidentale, si esprime ed è riconoscibile nella
libertà, nella autenticità, nell’autonomia, nella razionalità dell’individuo.
Non può certo, così intesa, rispecchiarsi nella figura di donne e uomini segnati da limiti,
imprevedibili, dipendenti, difficili da capire, inaffidabili. Donne e uomini nei quali vengono
letti moventi da “istinti bassi” o “gregari”, o riconosciuti colpevoli, quindi e per questo
inaffidabili, incapaci di buon uso della ragione, di buon governo di sé; donne e uomini dalla
vita non degna o di scarsa “qualità” agli occhi di molti. A volte anche ai propri occhi,
segnati dalla fatica, dall’insostenibile colpa, dal dominio della forza. Fatica, forza e colpa
che chiudono il sentire.
48
E. Lévinas, Altrimenti che essere, op cit, p 146
25
I corpi degli uomini e delle donne possono atrofizzarsi, non sentire più la loro capacità di
portare violenza, la loro “misura” nel sopportarla. Pietre senza canto e senza gemito. Non
vogliono più sentire la vulnerabilità e la cura, l’incontro con l’altro. Ultima linea di
resistenza, vicina all’annichilimento: il corpo non parla più, cosa inerte, quasi incapace di
farsi di nuovo sensibile. Togliere la parola al corpo è quasi interrompere la possibilità sua
di farsi presente a sé e all’altro. Delirio di vittoria sulla morte. “Perché ci usano così tanta
violenza? Non sconfiggeranno la morte” ci diceva l’anziana profuga di Srebreniça con
occhi come pozzi profondi.
Se però ascoltiamo le grandi tradizioni sapienziali e morali conservate nei testi e nei miti
antichi della nostra cultura sentiamo richiamare a una dignità degli uomini e delle donne
che va rispettata e riconosciuta non tanto (certo non in primo luogo) là dove questi
presentano le qualità e i tratti più elevati e nobili. Lì già rifulge. La sapienza antica chiede
piuttosto di serbarla, di ricercarla, di richiamarla con forza proprio là dove donne e uomini
perdono la loro “altezza”, proprio nei momenti in cui perdono la “forma umana”, dove sono
deturpati dalla miseria o dallo smarrimento esistenziale, o dal reato commesso, dove sono
prostrati dalla malattia o resi incapaci dalla invalidità. Lì non c’è autonomia e
autosufficienza; non c’è abilità dei gesti o capacità della mente che “manifesti”, che faccia
risplendere la dignità umana. Queste condizioni sono avvicinate o attraversate da molti, se
non da tutti, nell’arco della vita. Queste condizioni sono specchio della nostra costitutiva
vulnerabilità.49
La “forma umana” quando si sfigura è del tutto affidata: alla sollecitudine di altri uomini e
altre donne, e alle istituzioni di convivenza che essi si danno per la cura e per la giustizia.
L’Edipo di Sofocle afferma alla fine della sua parabola: “è proprio quando io non sono
niente che divento veramente un uomo”. È questa anche l’indicazione del “servo
sofferente” di Isaia.
È la nostra “comune indegnità”. La debolezza e il degrado che sono nelle nostre possibilità
e, in momenti e con intensità diverse, nella nostra realtà: è questo che ci può fare
incontrare in una relazione che riconosce, e manifesta e dà dignità. Degno di qualcuno,
degno con qualcuno, se così si può dire. La dignità è una relazione.50
Ma dalla parabola del samaritano (Luca, 10) ci viene anche un’altra indicazione: chi
incontra lo sconosciuto “senza qualità” e ne ha cura in nome dell’umanità vinta e sfigurata,
49
I. Lizzola, V. Tarchini, Persone e legami nella vulnerabilità, op cit, pp 89-90
P. Valadier, “Dignità della persona e diritti dell’uomo” in A. Pavan (a cura di), Dire persona. Luoghi critici e
saggi di applicazione di un'idea, Il Mulino, Bologna 2003, pp 399-416; “La persona nella sua indegnità”,
Concilium, 12, 2003
50
26
diventa allora portatore di dignità. Noi ci onoriamo riconoscendo un uomo, una donna, in
chi è sofferente e sfigurato nel corpo, nella psiche, nelle scelte senza ridurlo alla sua
sofferenza; in chi è nella miseria fisica, psicologica, morale senza ridurlo alla sua
condizione, alla sua deficienza. O riconoscendo un uomo, una donna nel criminale, in chi
ha fallito, senza inchiodarlo alla sua colpa, al suo delitto.51 La dignità viene a noi, in essa ci
riconosciamo, ci incontriamo. È una relazione.
La dignità umana è da vedere e sostenere in, e tra, donne e uomini non perfetti, non “puri”
nei gesti, non del tutto limpidi nelle intenzioni, vulnerabili e colpevoli. Occorre vederla e
sostenerla, richiamarla operosamente, in responsabilità. In ciò onoriamo noi stessi
serbando memoria e fedeltà a quanto dobbiamo ad altri d’esserci, d’esser formati in
identità, in sapere e in dignità.52
I fratelli portano dentro di sé i passaggi del sentire l’altro come sentire risentito,
minaccioso, negatore, possessivo. Sentono la colpa e sentono però anche la forza
generativa di quanto si muove in questo legame che la colpa sostiene e supera, attraversa
e perdona.
Da qui nasce la capacità di un sentire ampio e grande, fraterno, appunto. Come il sentire
l’intollerabilità e l’inaccettabilità del male: “no, non deve essere”. È questo che fa dire “non
siamo responsabili di tutto il male del mondo, ma siamo responsabili di fronte a tutto il
male del mondo”, perché il male ci rende tutti solidali nella colpa, come direbbe
Dostoevskij. Questo è anche il messaggio della tragedia greca.53 Siamo chiamati a
responsabilità universale, “davanti a tutti” e ad ognuno. 54
Sentire la fraternità, e la colpa che la lavora, sentire il legame tra esseri vulnerabili eppure
chiamati a (e capaci di) una prossimità responsabile trova un altro luogo “costitutivo” della
dignità umana nella relazione tra le generazioni.
C’è un legame profondo tra sentire la colpa e sentire la paternità, un legame non semplice,
lavorando nel tempo sul senso di colpa i padri possono sentire ad un certo punto “rimesse”
le loro colpe, e “sostenibile” la paternità, la responsabilità. Questo lavoro a se stessi e sulla
relazione con i figli ha la forza delicata di una fioritura in identità, in un tempo nuovo. In
questo legame, e in questo scioglimento si gioca molto del provare a dare forma buona –
possibile e reale – al potere di disporre della vita, al possesso, al controllo “competente”, al
51
P. A. Sequeri, L’umano alla prova. Soggetto, identità, limite, Vita e Pensiero, Milano 2002
I. Lizzola, V Tarchini, Persone e legami nella vulnerabilità, op cit, pp 104-105
53
S. Givone, “Che cos’è il male?”, trasmissione sul tema Le forme del male, EMSF-RAI, 02.02.1988,
www.emsf.rai.it
54
E. Lévinas, Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, Città Aperta, Troina (Enna) 2008, p 98, p 100,
52
27
dominio sull’altro. E il provare insieme - inevitabile e reale -
la nostra soggezione,
“l’impotenza” nostra davanti all’altro, al suo mistero: quello che si svela e insieme si cela
nel suo slancio di vita e quello che si svela e insieme si cela nella sua sofferenza.
Come Abramo che, nella salita al colle di Moria, trova la sua paternità, e non sa se il
sacrificio di Isacco si compirà: può solo credere o sperare che sia sospeso, ogni padre
sente ad un certo punto di esporre il proprio figlio, la propria figlia, al sacrificio mentre lo
dona accompagnandolo alla vita.55 E lo cresce, nelle prove e nella abilità, avvertendo
presto che non è suo, non lo controlla, resta impossibile da proteggere pienamente: è
esposto. A un sacrificio che, anche se non si darà sul colle e su quella fascina che Abramo
gli carica sulle spalle, si darà comunque: nei giorni della malattia e del fallimento, della
ingiustizia e della fatica, della vergogna e del riscatto.
Il padre, Abramo, sa che questo è inevitabile, e che il figlio, ogni figlio di generazione in
generazione, questo attraversamento lo condurrà in solitudine, quasi in abbandono. Di
fronte a se stesso, a ciò che troverà nel suo cuore. E a ciò che serberà della consegna
ricevuta.
Il padre sente, insieme, colpa e debito, timore e speranza. E apprende, insieme, rispetto e
cura del figlio: apprende ad accompagnare e a lasciare. Dal Moria, il colle del sacrificio
sospeso e dell’offerta a Dio, Abramo scende verso i servi solo, senza Isacco, come
l’avesse lasciato nel tempo suo e nel suo cammino. Lo rincontrerà solo successivamente.
La colpa ora è sostenibile, è impegno alla dedizione ed alla buona consegna.
Responsabilità e libertà.
Anche secondo un’altra lettura di Genesi 22 é suggerito un legame tra la prova della
paternità e il confronto con la colpa. Abramo che porta il figlio al sacrificio è colui che
possiede un bene prezioso e lo usa per ingraziarsi la divinità, per “negoziare” con la vita e
la morte, come fa chi usa il figlio per protendere sé nel tempo, nelle possibilità oltre il
limite. Senza senso della consegna, e del simbolo, del debito e del valore dell’offerta vera.
Che è offerta di sé nel tempo. Dimensioni che possono essere solo di uomini e donne che
vivono libertà e vincolo “di generazione in generazione”.
Di fronte al sacrificio predisposto, agli occhi del figlio, ecco il risvegliarsi del senso di colpa
che impedisce il sacrifico. Forse è il ricordo “riemerso” del proprio essere (stati) figli grazie
a un padre, forse è la propria esposizione di fronte alla fragilità: forse insieme emergono
55
Per un confronto tra alcune letture della prova di Abramo ed Isacco vedi: S. Petrosino, Il sacrifico sospeso,
Jaca Book, Milano 2000; C. M. Martini, Abramo nostro padre nella fede, Borla, Roma 2000; H. Baharier, La
Genesi spiegata da mia figlia, Garzanti, Milano 2006
28
senso di debito, di gratitudine e di colpa, a generare il riconoscimento del proprio figlio.
“Altro me stesso”, ma altro, vita nuova, tempo ulteriore. Segno del nascere.
Una paternità, quella paternità, ne è trasformata: non è signoria, né opera che plasma. È
tensione al compimento di una buona consegna, di un indirizzo di giustizia e di
benedizione. È offerta. Nel limite evidente, anche nel non portare a termine i progetti; anzi
sempre in un certo insuccesso nei progetti. Tutto ciò è accettato e portato da uomini
vulnerabili, comunque esposti.
Non di questo limite e di questo insuccesso va portata la colpa, e la vergogna: il senso di
colpa trova, invece, la sua origine nel mancato riconoscimento, per qualche momento, del
dono ricevuto, nella rottura dell’affidamento, nel non corrispondere alla promessa e al
legame originario.
Il confine tra il giusto e l’ingiusto, tra l’amico e il nemico, dopo sarà meno definito, meno
rassicurante: sentire la colpa è scoprire e abitare l’ambivalenza e la complessità. Anche
nelle condizioni estreme. Primo Levi ne I sommersi e i salvati si chiede: “vivo invece
d’altri?”, e nega a sé l’innocenza56. E del campo ricorda che il nemico “era intorno ma
anche dentro di noi”; e che il “noi” dei prigionieri perdeva spesso i suoi confini: la frontiera
era “tra ciascuno e ciascuno” e “all’interno di ciascuno”. “Non è mia colpa se vivo e
respiro”,57 eppure un senso di colpa mi coglie: non siamo innocenti. Il giusto non è il
giustificato, sente invece la colpa, il male. Più di altri.
Il carnefice è possibilità immanente in ciascuno, e non è concesso il sollievo del
pentimento, perché la colpa è solo ipotetica, è “oggettiva”, senza imputazione. Innocenza
e colpa non si “risolvono” nel pentimento, nell’assoluzione, nel condono: restano una
coppia tragica. Non c’è uno spazio vuoto tra loro ma una “zona grigia”.
Non si può tradurre nel giuridico l’incommensurabilità di questa tragedia, non vi è
riequilibrio, o “restituzione” possibile. Non c’è un sistema di misura capace di definire
“proporzionalità”. Il giuridico è necessario, sicuramente, per disinnescare la dimensione
tragica della vita comune, delle relazioni, ma non può certo nasconderla, né “sostituirla”.
Prima e oltre la necessaria dimensione giuridica ci incontriamo nel debito e nella colpa.
Ci siamo presi il mondo per sopravvivere, in modo egocentrico, maturando solo dopo il
rispetto e il riconoscimento dell’altro; abbiamo pensato di sostenere da soli la promessa
buona della vita pensando di dare, o chiedere per noi, la vita. Toccati dal male,
l’incompiutezza, la violenza, la frattura, la malattia, ci siamo trovati nella sfida inedita di
56
57
P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p 25
P. Levi, “Il superstite” in Ad ora incerta, Opere, Einaudi, Torino 1997, p 76
29
operare (o ritrovarci in) uno “scarto”, ci troviamo in una rottura instauratrice di senso e di
relazione con l’altro e con il tempo. Possibilità di un tempo nuovo, perdonato. Alla fine è
una grazia, non un’espiazione, che libera dal male. 58
Il senso di colpa segna la fine dell’innocenza, o del presumersi innocenti, dell’autocentratura e dell’irresponsabilità; l’uscita dalla stagione del solo affidamento alle cure e al
dono, quasi della loro pretesa. Un passaggio dal senso di protezione al senso di debito.
Siamo chiamati a rispondere, da dentro la nostra vulnerabilità. E, via via, possiamo
maturare la consapevolezza del fatto che nella nostra vulnerabilità coesistono, insieme,
impotenza verso il male e possibilità di ferire l’altro, e coesistono volontario e involontario,
come direbbe Ricoeur59.
Negare a sé l’innocenza permette di entrare nella vita comune, di assumere parte, di
uscire dall’egocentrismo. Di prendere cura.
Il legame tra colpa e perdono, allora, non è di successione temporale, o di “sostituzione”
(per cui l’uno cancellerebbe l’altra o viceversa): colpa e perdono sono compresenti,
maturano l’una grazie all’altro, nella simmetria di relazioni in cui ci si affida e si dipende
reciprocamente. La colpa non avvelena proprio grazie al perdono: si attenua, si svolge nel
sentire responsabilità e debito, diviene fonte di libertà e di nuovo inizio. Il perdono è
trovato e provato grazie al senso di colpa che impedisce il giudizio sommario (dei puri
contro gli impuri), e che traccia qualche linea di riconoscimento. Che non cancella, non
assolve, non è facile oblio o amnesia.
Lavorano insieme senso di colpa e perdono, si limano e si chiariscono, riaprono i legami
come vitali, oltre le cristallizzazioni. Ma non c’è connessione “automatica”, ricomposizione
del bene, restauro di un equilibrio, di una pienezza. C’è, piuttosto, dramma e tensione,
anche sacrificio e sofferenza. Le cicatrici restano più sensibili, le fratture dolgono: a lungo
sembrano insopportabili. Non si tratta di buoni sentimenti, o di buona volontà, bensì
d’entrare, a fondo, nel fondo di ombra e di luce che abita l’umano e le relazioni. Si tratta di
cercare un “nuovo inizio”, di cercare la nascita.
Nessuno si libera da solo della colpa, incamminati fuori dall’innocenza. Occorre che
vegliamo gli uni sugli altri, e ci richiamiamo oltre reciprocamente, sostenendo una presa di
distanza costosa e impegnativa dal male compiuto. Presa di distanza e ricomposizione
che non si risolvono nella condanna, nell’apparato della sentenza e nella pena scontata
58
59
S. Levi Della Torre, Zone di turbolenza. Intrecci, somiglianze e conflitti, Feltrinelli, Milano 2004, pp 155-ss
P. Ricoeur, Filosofia della volontà – 1 - Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova 1990
30
conseguentemente; anche perché, a monte, vi è una chiara inattingibilità del “grado di
colpevolezza” di un comportamento. Come è per altro inattingibile il grado di “virtù”.
2.6 poter essere altro da sé
L’atrofia del sentire permette di violare il corpo dell’altro, guardato senza risonanza come
fosse un oggetto estraneo, oggetto di piacere o di sfogo e padroneggiamento. Ma così si
riduce anche il proprio corpo a un meccanismo, e il sé è negato come essere vivente
capace di amore e libertà, capace di “rendersi conto” dell’altro.
Simone
Weil
chiamava
questa
facoltà
“sperimentazione
dell’estraneo”:
diverso,
radicalmente altro e distinto, eppure avvertito nel suo sentire. Su un altro cammino Edith
Stein scriveva della “esperienza d’empatia”.
Nell’estraneità c’è un punto cieco nel quale si nasconde la germinazione della violenza,
quella che può portare a cercare il grido di dolore dell’altro. Occorre andare a vedere cosa
succede su questo snodo che soffoca il senso di colpa e la capacità di sentire l’altro. E che
insieme soffoca la presenza a sé, rendendoci ciechi. Come riconquistare il senso di quella
zona cieca, del vortice profondo e scuro? Come rompere l’anestesia del corpo e della
mente?
Simone Weil in L’Iliade, il poema della forza parla della capacità di “de-realizzazione” che
possiede la violenza,60 de-realizzazione che porta all’annientamento di chi è toccato. Solo
il riaffermarsi della realtà, il ritrovarsi faccia a faccia, gli uni nelle mani degli altri nei luoghi
della vita reale. può, forse, rompere l’incantamento duro della violenza.
La sensibilità per la vittima, che può essere avvertita anche come senso di colpa, oggi non
riguarda solo le vittime della mia parte, “dei miei”, ma anche con forza sorprendente le
vittime degli altri, dei conflitti lontani. E riguarda anche le indirette e “lontane” vittime delle
mie inattenzioni, delle mie “complicità”, delle condizioni e delle strutture dell’ingiustizia e
della disuguaglianza cui io partecipo dalla parte del privilegio e del vantaggio.
A questa sensibilità cresciuta negli ultimi decenni si contrappone una rinforzata “genesi
dell’inattenzione” e della durezza del sentire. Genesi che produce atti di rimozione, di
60
S. Weil, “L’Iliade – Poema della forza” in La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, Roma 1984.Rachel
Bespaloff annota in Dell’Iliade, (Città Aperta, Troina 2004) “La guerra consuma l’indifferenza fino
all’umiliazione totale dell’unico (…). Il vincitore somiglia a tutti i vincitori, il vinto a tutti i vinti (p 30) la forza “è
la suprema realtà e la suprema illusione” (…) “l’Uccisore ridiventa un uomo carico d’infanzia e di morte” (p
66)
31
cecità morale. Seguendo la lezione di Edith Stein, si può parlare oggi di un modo di vedere
la realtà evitando di “accoglierla”, di un modo di costruire conoscenza evitando di
assumere le sue conseguenze e le sue implicazioni, evitando di lasciare che “prendano
piede” nella propria vita, nella interiorità, negli orientamenti alle scelte.61 Neutralizziamo
così la conoscenza delle “situazioni”: esse non muovono, non motivano più il nostro
sentire, non motivano il nostro decidere ad agire. Non viene accecata la mente, ma il
cuore sì. A volte le persone non hanno le emozioni chiare, oltre che le idee. Manchiamo di
profondità affettiva.
Roberta De Monticelli nota come l’accesso alla conoscenza di situazioni, di cose, di storie
“cariche di valore e disvalore”, “pregne di esigenze cui rispondere” (la sofferenza, la
dignità in gioco, l’ingiustizia, …) è dato dalla capacità di sentire in profondità.62 Non
arrivare al fondo delle cose è non conoscere il fondo di se stessi. Non osare guardare a
fondo se stessi è “lasciar morire la propria anima”. Si può far deriva in quella “assenza di
pensiero libero e responsabile” che, come ha mostrato in pagine fondamentali Hannah
Arendt, conduce al “funzionariato della perversione”. Affettività impersonale, posizioni
fredde, moralità e rancori diffusi, si legano a lucide intelligenze irresponsabili.
Occorre essere avvertiti di fronte ai giusti che disprezzano, alla “società dei giusti” che
considera “estranei” i colpevoli. E prendere sul serio e combattere le teorie “neoretributive” che vogliono soddisfare bisogni di punizione nei confronti di agenti di reato per
reprimere psicologicamente gli impulsi aggressivi e criminosi ritenuti operanti in ognuno.
La tentazione del “riequilibrio” assegna alla pena il compito di esprimere e rendere
percepibile la gravità della colpa. Ma è evidente che la pena produce altro: produce
insoddisfazione nelle vittime, e produce vittimizzazione negli attori di reato. Produce
smarrimento quando la pena è sospesa, o non è comminata.63
Ma, più a fondo, la “restituzione proporzionale” del negativo chiude, o riduce di molto, lo
spazio per il “lavorio” della colpa. Rischia di farla evaporare. “Il riequilibrio” è avvenuto: “ha
pagato il debito”: eppure è soprattutto chi commette un reato che viene ferito, che fa agire
il male, che entra in condizione di fallimento. Ed è la vittima che rischia lo schiacciamento
e l’abbandono nel suo dolore, nella sua ferita. E questo avviene anche quando se ne fa
l’eroe della vendetta, della restituzione; o quando se ne “soddisfa” la domanda di sanzione
61
E. Stein, L’empatia,Franco Angeli, Milano 2002
R. De Monticelli, L’allegria della mente. Dialogando con Agostino, Mondatori, Milano 2004; L’ordine del
cuore. Etica e teoria del sentire, Garzanti, Milano 2003
63
L. Eusebi, “Tesi per la riforma del codice penale” in Cappellani delle carceri della Lombardia, Caritas della
Lombardia, Colpa e pena – per una nuova cultura della giustizia, Bergamo, Comitato Giubileo 2000
62
32
esemplare, o si offre alla vittima di agire il “riequilibrio” con la ritorsione (anche giuridica)
del negativo subito.64
Solo se il colpevole è protagonista, e non oggetto passivo, della vicenda sanzionatoria
(con riguardo al contenuto concreto dei rapporti su cui ha inciso), solo se si apre nel tempo
la possibilità di ritrovare se stessi nella forza e per la forza della colpa, si evita quella
astrattezza e impersonalità, quella solitudine passiva che cristallizza e svuota le persone
autrici di reato e il loro tempo di vita. È dentro questo svuotamento che il “castigo” produce
infamia, come afferma ironicamente Borges. Quella infamia che vorrebbe punire e
cancellare!
Da giusti e giustificati non costruiamo fraternità; da donne e uomini con il senso di colpa
una qualche, remota, possibilità di bene e di prossimità sì. Come fa Lorenzo, ricordato da
Primo Levi nel campo di concentramento: una gratuità originaria, non da giusto.65
È una fraternità, questa, umile e dimessa, il cui codice non sta scritto nella “positività” o
nella “negatività” della natura umana (secondo cui si sarebbe fratelli per virtù, o per forza e
convenienza), bensì nella comune fragilità che, amata, può portare alla consegna
reciproca, all’affidamento e alla cura.
Nella fraternità abita, certo, anche l’inimicizia e si dà il conflitto; ma anche quando
inimicizia e conflitto distruttivo siano agiti, resta pur sempre origine e attesa di fraternità.
Non si è, o si può essere fratelli da innocenti; si può anche tornare ad esserlo, perduta
l’innocenza con una nuova attenzione, entrando in un nuovo tempo della vita. Il tempo
dell’attenzione, diceva Simone Weil, è “miniatura d’eternità”, “punto d’eternità”.66
64
Vedi: Atti del convegno “I crimini dell’obbedienza. Giustizia penale internazionale: riconoscere l’altro,
ricostruire l’umano” in Dignitas 12, Milano 2007 (in particolare i contributi di P. Gaeta, M. Magatti, L. Boella);
L. Eusebi, “Quale prevenzione dei reati? Abbandonare il paradigma della ritorsione e la centralità della pena
detentiva” in M. L. De Natale (a cura), Pedagogisti per la giustizia, op cit, pp 65 ss
65
S. Levi Della Torre, Zone di turbolenza. Intrecci, somiglianze e conflitti, op cit, pp 142 ss
66
M. Minervini, Da una giovinezza lontana, Città Aperta, Troina (Enna) 2007
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