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1. Profili evolutivi del giudizio di ottemperanza
IL GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA
ALLA LUCE DEL CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO (*)
Prof. Stefano Tarullo
Seconda Università degli Studi di Napoli
SOMMARIO: 1. Profili evolutivi del giudizio di ottemperanza. – 2. Le scelte di fondo compiute nel
Codice del processo amministrativo. - 3. Funzione e presupposti del giudizio di ottemperanza. –
4. Il petitum, la causa petendi e l’oggetto del processo di ottemperanza. – 5. Le sentenze del
giudice amministrativo suscettibili di ottemperanza. - 6. Le sentenze del giudice amministrativo
insuscettibili di ottemperanza. – 7. Il presupposto dell’inesecuzione. – 8. La nullità dell’atto
violativo o elusivo del giudicato. – 9. La competenza. - 10. La procedura. – 11. Il cumulo di
azioni. - 12. L’estinzione del giudizio di ottemperanza e la sentenza. - 13. Le impugnazioni. - 14. I
poteri del giudice dell’ottemperanza. – 15. Il commissario ad acta. - 16. L’esecuzione delle
ordinanze cautelari. – 17. L’esecuzione delle sentenze non passate in giudicato.
1. Profili evolutivi del giudizio di ottemperanza
L’evoluzione del processo amministrativo è improntata all’affermazione della sua
efficacia quale strumento di effettiva tutela, in armonia con le previsioni costituzionali
(artt. 113, comma 1, 100, comma 1, 103, comma 1 e 24, comma 1, Cost.) le quali impongono la necessità di ordine generale che il mezzo processuale produca quei risultati
sostanziali che si identificano, per la parte vittoriosa, con il conseguimento del bene
della vita in contestazione1.
A dire il vero, nel sistema processuale delle origini (anteriore alla Carta costituzionale), e quantomeno fino alla legge istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali
(legge n. 1034/71) la suddetta esigenza di effettività dei pronunciamenti del giudice
amministrativo, che potremmo definire effettività esecutiva2, non è apparsa adeguatamente presidiata.
Va infatti ricordato che, in virtù dell’art. 88 del regolamento di procedura n.
642/1907 (“l’esecuzione delle decisioni si fa in via amministrativa (…)”) il giudice
amministrativo, a seguito dell’annullamento del provvedimento amministrativo, era
tenuto a rimettere gli atti all’autorità competente quale soggetto abilitato a stabilire,
unilateralmente ed in via discrezionale, il modo di adeguarsi alla decisione.
Diversa era la disciplina inerente alle decisioni del giudice ordinario, rispetto alla
(*) Il presente scritto rappresenta la versione ampliata del contributo redatto per il volume Giustizia amministrativa a cura di F.G. Scoca, IV ed., Giappichelli, Torino 2011.
1
Cons. Stato, Sez. V, 26 novembre 1994, n. 1401, in Cons. Stato, 1994, I, 1599.
S. TARULLO, Il giusto processo amministrativo. Studio sull’effettività della tutela giurisdizionale
nella prospettiva europea, Milano, 2004, 43 nt. 103 e 508 nt. 17.
2
1
cui inesecuzione la legge n. 5992/1889 (art. 4, n. 4) attribuiva la cognizione alla IV Sezione del Consiglio di Stato, contestualmente istituita. Questa scelta rispondeva ad
uno scopo ben preciso: poiché la pubblica amministrazione non aveva l’obbligo di adeguarsi al giudicato ordinario eliminando l’atto, ma conservava viceversa un margine
di apprezzamento discrezionale, si volle consentire ad un organismo in qualche modo
prossimo all’apparato amministrativo, dotato all’uopo di giurisdizione di merito, di valutare se e come l’adeguamento al dictum giudiziale dovesse avere luogo.
Tale assetto venne confermato dall’art. 27, comma 1, n. 4, del t.u. delle leggi sul
Consiglio di Stato (r.d. n. 1054/1924), che affidò alla cognizione del Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale i “ricorsi diretti ad ottenere l'adempimento dell'obbligo dell'autorità amministrativa di conformarsi, in quanto riguarda il caso deciso, al giudicato dei
Tribunali che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico”; ricorsi che,
per la ricchezza dei poteri “anche in merito” attribuiti al giudice (così sempre l’art. 27,
comma 1, t.u. Cons. Stato), vennero inquadrati nella figura del giudizio di ottemperanza.
Sennonché, si evidenziò ben presto nella prassi che l’amministrazione difficilmente
garantiva sua sponte l’esecuzione delle decisioni del giudice amministrativo, frustrando in tal modo il già evidenziato bisogno di effettività (esecutiva) delle stesse;
l’assetto normativo derivante dalla “legge Crispi” si rivelò perciò inappagante, in quanto non forniva alcuno strumento al fine di tradurre coattivamente le statuizioni rese in
una pronuncia pur avente carattere giurisdizionale (alla stessa stregua di quella del giudice ordinario) in mutamenti della realtà giuridica e materiale.
Fu la giurisprudenza a supplire a tale carenza. La IV Sezione del Consiglio di Stato,
a partire dalla decisione 2 marzo 1928, n. 181, ampliò l’ambito operativo del giudizio
di ottemperanza ricomprendendovi l’ipotesi della mancata esecuzione delle sentenze
amministrative. Si riconobbe così la validità dell’opinamento secondo cui pure le sentenze di tale ultimo giudice avrebbero dovuto ricadere nella garanzia di adempimento
dell’obbligo di conformazione gravante sull’amministrazione, mediante l’utilizzo
dell’apposito ricorso consentito per l’esecuzione delle sentenze del giudice ordinario
dall’art. 27, comma 1, n. 4, del t.u. Cons. Stato.
Il rimedio venne poi esplicitamente previsto dall’art. 37 della legge n. 1034/71 istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali come azionabile (oltre che nei riguardi
delle sentenze del giudice ordinario ai sensi dei commi 1 e 2 anche) a fronte delle sentenze del giudice amministrativo (comma 3: “Quando i ricorsi siano diretti ad ottenere
l’adempimento dell'obbligo dell'autorità amministrativa di conformarsi al giudicato degli organi di giustizia amministrativa, la competenza è del Consiglio di Stato o del tribunale amministrativo regionale territorialmente competente secondo l'organo che ha
emesso la decisione, della cui esecuzione si tratta”).
Da questo passaggio normativo possono trarsi rilevanti conseguenze in particolare
per ciò che attiene all’identificazione dell’oggetto del processo amministrativo, non riducibile alla sola cognizione del provvedimento e dei suoi vizi ma riferibile, piuttosto,
al rapporto intercorrente tra amministrazione e privato. Infatti, se il vaglio del giudice
si appunta sulla “legittimità dell’assetto degli interessi che viene determinato
2
dall’amministrazione mediante il provvedimento”3, quest’ultimo viene a configurarsi
quale mero presupposto processuale ed oggetto della pronuncia. Il processo amministrativo tende, così, a divenire uno strumento satisfattorio nel cui ambito il giudice conosce il modo di esercizio del potere e le aspettative tutelate del privato; solo in questa
ottica può spiegarsi e concepirsi, al suo interno, un’azione di ottemperanza4.
Va subito evidenziato che nel sistema delineatosi nel 1971 l’effettività della tutela
(effettività che abbiamo definito “esecutiva”) era assicurata nei riguardi delle sole sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato. Ciò nell’ineccepibile presupposto che, diversamente, il dictum giudiziale, ancorché oramai dotato della consistenza e
della forza di “cosa giudicata”, sarebbe rimasto una vuota statuizione di principio, finendo per esprimere una giustizia meramente formale.
Dunque il giudizio di ottemperanza, così conformato, costituiva una risposta operativa piuttosto limitata, in quanto esclusivamente correlata all’esigenza che la parte
(pubblica) soccombente si adeguasse ad una decisione giurisdizionale (divenuta) incontrovertibile; rimanevano viceversa prive di rimedio esecutivo pronunce pur sempre
(immediatamente) esecutive, per quanto ancora sovvertibili a seguito dell’esperimento
dei mezzi di impugnazione volta a volta consentiti.
Prendendo atto di questa ulteriore esigenza di perfezionamento della tutela la legge
n. 205/2000, sulla spinta della giurisprudenza, segnò una successiva e rilevante tappa
nell’evoluzione normativa, prevedendo la sostanziale estensione delle regole proprie
del giudizio di ottemperanza anche alle sentenze di primo grado soggette ad impugnazione (art. 10 L. 205/2000, di novellazione dell’art. 33 L. T.A.R.), nonché - recependo anche in questo caso una giurisprudenza pretoria frattanto formatasi - alle ordinanze pronunciate dal giudice amministrativo in sede cautelare (art. 3 L. 205/2000, di
novellazione dell’art. 21 L. T.A.R.).
2. Le scelte di fondo compiute nel Codice del processo amministrativo
Nei suoi tratti essenziali quella descritta è la disciplina ancora oggi vigente anche a
seguito del Codice del processo amministrativo adottato con l’Allegato 1 del D.Lgs.
2 luglio 2010 n. 104, pur essendo mutate – ovviamente – le disposizioni di riferimento
con l’abrogazione delle previsioni sopra ricordate.
Ma a ben vedere il Codice, malgrado l’approccio ‘omissivo’ della legge delega sulla
materia5, non si è limitato ad una riedizione dell’esistente: i suoi redattori hanno, invece, operato un significativo sforzo di armonizzazione delle disposizioni previgenti nel
Libro IV (“Ottemperanza e riti speciali”), Titolo I (“Giudizio di ottemperanza”), introducendo un’organica disciplina del giudizio di ottemperanza applicabile a fronte di
3
Così F.G. SCOCA, Interesse legittimo e giudice amministrativo: variazioni in chiave colloquiale,
in Dir. e proc. amm., 2010, 27.
4
Cfr. F.G. SCOCA, op. loc. ult. cit.
5
Cfr. A. ANGELETTI, Riforma del processo amministrativo ed esecuzione della sentenza, in Giur.
it., 2009, 2331.
3
tutti i provvedimenti del giudice amministrativo dotati di esecutività.
Al Codice va inoltre riconosciuto il merito, sempre in nome ed in funzione della effettività della tutela, di aver eliminato la necessità della diffida dapprima prevista quale
passaggio procedurale necessario e preventivo rispetto al ricorso in ottemperanza (v.
infra, sub par. 10); e di aver innovativamente esteso il rimedio del ricorso per esecuzione, nella sistematica dei rapporti tra giurisdizioni, ben oltre l’ambito originario dello
stesso giudizio di ottemperanza, elevandolo a strumento esecutivo ad un tempo residuale e generale, ossia azionabile nei confronti della pubblica amministrazione anche
rispetto ai pronunciamenti dei collegi arbitrali e dei giudici speciali, in mancanza di rimedi specifici.
Di ciò è riprova l’art. 112 del Codice che nel ribadire, al comma 1, l’obbligo della
pubblica amministrazione (e delle altre parti) di eseguire i provvedimenti del giudice
amministrativo, nel suo comma 2 dilata ben oltre tale ambito l’operatività di siffatto
obbligo, poiché ammette la proponibilità dell’azione esecutiva avanti al giudice amministrativo per conseguire l’attuazione:
a) delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato;
b) delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo;
c) delle sentenze passate in giudicato, e degli altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice ordinario, al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica
amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato;
d) delle sentenze passate in giudicato, e degli altri provvedimenti ad esse equiparati, di quei giudici davanti ai quali non sia previsto il rimedio dell’ottemperanza, al
fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato6;
e) dei lodi arbitrali divenuti inoppugnabili al fine di ottenere l’adempimento
dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso
deciso, al giudicato.
Va da sé che, a fronte di sentenze del giudice ordinario o di giudici speciali, ovvero
a fronte di lodi arbitrali, condizione per la proponibilità del ricorso in ottemperanza è
che del giudizio (anche arbitrale) sia stata parte una pubblica amministrazione o un
soggetto ad essa equiparato. Sembra impiegabile, al riguardo, il criterio interpretativo
offerto dall’art. 7, comma secondo, del Codice, a mente del quale “Per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo”.
Occorre poi rimarcare che, a differenza delle sentenze del giudice amministrativo,
quelle del giudice ordinario e dei giudici speciali non consentono il rimedio
dell’ottemperanza se non dopo il loro passaggio in giudicato.
Una particolare sottolineatura merita la prevista esperibilità del giudizio di ottemperanza finalizzato a far eseguire un lodo arbitrale: il Codice del processo amministrativo,
facendo leva sulla perfetta equiparabilità tra sentenza esecutiva e lodo dichiarato esecutivo ai sensi dell’art. 825 c.p.c. e, quindi, confortando la ricostruzione che colloca
6
Il rimedio è espressamente previsto, ad esempio, nel processo contabile ed in quello tributario.
4
l’istituto dell’arbitrato in un quadro giurisdizionale piuttosto che negoziale7, ricompone, in senso permissivo, il contrasto giurisprudenziale in precedenza insorto sulla praticabilità dell’accennata soluzione. Resta inteso che il ricorso in ottemperanza sarà inammissibile in assenza del decreto di esecutività ovvero in pendenza dei termini per
proporre i rimedi di cui all’art. 827 c.p.c. (impugnazioni per nullità, per revocazione e
per opposizione di terzo).
3. Funzione e presupposti del giudizio di ottemperanza
Nell’attuale quadro normativo, come si è visto, il giudizio di ottemperanza si caratterizza quale strumento idoneo a rendere concrete le statuizioni (normae agendi)
contenute nel provvedimento giurisdizionale esecutivo in cui esso trova il suo titolo
e, in definitiva, a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale (effettività “esecutiva”); ciò in doverosa corrispondenza alla fondamentale direttrice espressa nell’art. 1
del Codice, secondo cui “La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed
effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”.
Riprendendo quanto poc’anzi anticipato, dunque, possiamo affermare che tale effettività è oggi realizzabile, attraverso il giudizio di ottemperanza:
- relativamente ai provvedimenti del giudice amministrativo (sentenze passate in
giudicato; sentenze non passate in giudicato ma esecutive ex art. 33, comma 2, del Codice; ordinanze cautelari ex art. 55 del Codice);
- relativamente ai provvedimenti del giudice ordinario (sentenze passate in giudicato e pronunce equiparate, quali ad esempio i decreti ingiuntivi non opposti nell’ambito
del procedimento monitorio) 8;
- relativamente ai provvedimenti dei giudici speciali (sentenze passate in giudicato e
pronunce equiparate) laddove non sia normativamente dato un diverso rimedio esecutivo (tale disposizione sembra oggi da riferire, in sostanza, alle sole decisioni del tribunale superiore delle acque pubbliche);
- relativamente ai lodi arbitrali pronunciati all’esito di procedimenti arbitrali rituali
di diritto vertenti su diritti soggettivi (art. 12 del Codice).
Già ad un primo inquadramento è agevole cogliere che nell’attuale strutturazione
dell’istituto, l’unico presupposto processuale del giudizio di ottemperanza è
l’esistenza di un provvedimento esecutivo del giudice amministrativo (o di altro giudice o del collegio arbitrale, con le precisazioni già dette); mentre - come già anticipato
7
Cfr. anche l’art. 824-bis del c.p.c., secondo il quale “(…) il lodo ha dalla data della sua ultima
sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria”.
8
Si noti che, in base alla giurisprudenza formatasi prima del Codice, il decreto ingiuntivo (emanato dal Giudice amministrativo e) non opposto era equiparato allo stesso giudicato del giudice amministrativo, atteso il comune requisito della incontrovertibilità: cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 24 giugno
1998, n. 4, in Foro it., 1998, III, 480 e Cons. Stato, Sez. V, 5 febbraio 2009 n. 599, in Rivista telematica www.giustamm.it, n.2/2009. Esclude il giudizio di ottemperanza in relazione al decreto ingiuntivo
provvisoriamente esecutivo M. ANTONIOLI, Sub art. 112, in E. PICOZZA (a cura di), Codice del processo amministrativo, Torino, 2010, 206.
5
e come meglio si dirà infra, sub par. 10 - la previa proposizione di una diffida a provvedere inoltrata all’amministrazione inadempiente non costituisce più presupposto processuale, come era invece nella normativa antecedente al Codice.
Contrariamente ad una tesi in passato diffusa, poi, si deve ritenere che non costituisca presupposto processuale l’inadempimento dell’amministrazione di fronte al provvedimento giurisdizionale o, per dirla altrimenti, l’inesecuzione di questo: tale elemento (sui cui infra, sub par. 6) è più propriamente da inquadrare quale parte dell’oggetto
del giudizio, poiché su di esso si appunta una specifica attività di accertamento demandata al giudice.
4. Il petitum, la causa petendi e l’oggetto del processo di ottemperanza.
La causa petendi del giudizio di ottemperanza si identifica con quella medesima situazione giuridica soggettiva che risulta azionata nel processo esitato nel provvedimento ineseguito: solitamente trattasi dell’interesse legittimo, ma, come noto, in ambito di
giurisdizione esclusiva possono venire in rilievo anche diritti soggettivi.
Non sembra viceversa cogliere nel segno l’impostazione che individua la causa petendi, sempre e comunque, in un preteso diritto all’esecuzione (o all’ottemperanza),
nascente
dal
pronunciamento
giurisdizionale
e
speculare
all’obbligo
dell’amministrazione di conformarsi a questo (v. oggi l’art. 112, comma 1, del Codice).
Difatti se, sul piano squisitamente normativo, tale conclusione potrebbe oggi ancorarsi
alla previsione (anteriore al Codice ma da questo recepita nell’art. 114, comma 1) che
ammette la proposizione del relativo ricorso in un termine decennale, in realtà il richiamo al trattamento processuale dell’istituto non sembra affatto probante. Non può
infatti disconoscersi che il ricorrente punta, attraverso il giudizio di ottemperanza, a dare soddisfazione a quella medesima situazione che era stata originariamente azionata
(trovando poi tutela nel provvedimento ineseguito); e che, a causa della indisponibilità
dell’amministrazione, è rimasta frustrata sul piano degli effetti giuridici, attesa
l’assenza di un provvedimento amministrativo conforme all’assetto degli interessi prefigurato nel comando giudiziale 9.
Sulla scorta di tale premessa, potrebbe anche sostenersi che il processo di ottemperanza costituisca una sorta di prosecuzione, a seconda dei casi, del giudizio di cognizione o del giudizio cautelare; ma ciò solo a condizione che l’espressione sia intesa in
senso ideale e descrittivo, e non in senso strettamente tecnico. È infatti pacifico, scorrendo le disposizioni del Codice (artt. 112 - 115), che il rimedio esecutivo possiede una
sua spiccata autonomia concettuale e strutturale, rispondendo esso a suoi propri presupposti ed essendo caratterizzato da un particolare iter procedurale, oltre che – come
meglio vedremo infra, sub par. 9 – da una notevole ampiezza dei poteri di “merito” esercitabili dal giudice.
9
Nel senso che il giudicato non valga a trasformare l’interesse legittimo in diritto soggettivo F.G.
SCOCA, Aspetti processuali del giudizio di ottemperanza, in Il giudizio di ottemperanza, Atti del
XXVII Convegno di Varenna (17-19 settembre 1981), Milano, 1983, 205.
6
Ciò premesso in relazione alla causa petendi, l’individuazione del petitum del giudizio appare invece più complessa e richiede un preliminare chiarimento in ordine alla
differenza intercorrente tra il giudizio di ottemperanza disciplinato dal Libro IV, Titolo I, del Codice del processo amministrativo ed il giudizio di esecuzione di matrice civile.
Questo secondo risponde alla esigenza di operare una trasformazione della realtà di
fatto in corrispondenza al comando concreto di legge siccome individuato nella statuizione già contenuta in sentenza: l’esecuzione è, insomma, semplice adeguamento del
fatto al diritto.
Invece il giudizio di ottemperanza disciplinato dal Codice del processo amministrativo si prefigge, nella gran parte dei casi e preliminarmente, proprio ed esattamente
l’identificazione di una volontà di legge non ancora nitidamente emersa; ovvero il
completamento di tale opera di identificazione, ove nel provvedimento ineseguito del
giudice amministrativo permangano, come normalmente accade, ampi spazi di discrezionalità.
Il ruolo del giudice dell’esecuzione amministrativa (che si trovi di fronte ad un
provvedimento giurisdizionale amministrativo ineseguito) si traduce, perciò, in
un’attività complessa, poiché quel giudice dovrà procedere:
- alla verifica della congruità della risposta operativa (ove vi sia stata) fornita dalla
parte pubblica al provvedimento giurisdizionale preesistente, sì da acclarare
l’inadempimento della pubblica amministrazione;
- alla determinazione del comportamento da realizzarsi nella fattispecie concreta, ricavando dalle ragioni che furono alla base del comando giudiziale, arricchite da
un’ineliminabile opera interpretativa, chiarificatrice, specificativa ed integrativa, la regola dell’azione amministrativa a venire;
- all’adozione, anche in via sostitutiva rispetto all’autorità pubblica, dei provvedimenti necessari per realizzare un assetto di interessi conforme al provvedimento giurisdizionale (integrato, specificato e interpretato come sopra); e, comunque,
all’aspirazione del ricorrente appuntata sul bene della vita oggetto della contesa processuale.
Sulla scorta di tali considerazioni possiamo affermare che i compiti del giudice presentano i caratteri dell’attività intellettiva e dell’attività giuridica in senso stretto,
quest’ultima intesa quale produzione di nuovi effetti giuridici nell’ordinamento (creazione, modificazione, estinzione di situazioni giuridiche soggettive); e che tale complessità si riverbera immediatamente sulla perimetrazione dell’oggetto del giudizio di
ottemperanza, il quale investe:
a) l’accertamento dell’inadempimento e la determinazione dell’attività che
l’amministrazione avrebbe dovuto compiere per realizzare concretamente gli effetti
scaturenti dal provvedimento da eseguire (attività di cognizione);
b) l’individuazione di quanto è necessario ai fini del pieno dispiegamento
dell’effetto demolitorio e del ripristino della situazione di fatto antecedente al richiamato provvedimento (attività di esecuzione);
c) l’aspetto della realizzazione in via sostitutiva del comando contenuto in sentenza,
attraverso l’emanazione di nuovi provvedimenti amministrativi attuativi del provvedi-
7
mento giurisdizionale originario (attività di ottemperanza) 10, che rendono plausibile
l’ipotesi secondo la quale la sentenza del giudice amministrativo si tradurrebbe in un
giudicato a formazione progressiva.
L’enucleazione, nell’attività del giudice dell’esecuzione amministrativa, di un essenziale contenuto cognitivo rende preferibile riferire al processo di ottemperanza uno
scopo di “attuazione” del provvedimento giurisdizionale amministrativo anziché di
sua semplice “esecuzione” 11. Quanto sopra non impedisce tuttavia che la pronuncia del
giudice amministrativo sia anche suscettibile di esecuzione in senso stretto, atteso che
la nozione di “attuazione” del provvedimento giurisdizionale esecutivo non esclude affatto la componente dell’esecuzione. Inerenti all’esecuzione, come già detto, sono l’effetto demolitorio e quello ripristinatorio del provvedimento, che potrebbero in ipotesi
essere gli unici risultati perseguibili in sede esecutiva (si pensi alla restituzione di un
terreno espropriato in base a provvedimento annullato dal giudice amministrativo);
mentre certamente esulano dall’esecuzione gli effetti ulteriori, quelli cioè legati allo
sviluppo successivo dell’azione amministrativa12.
Il quadro ricostruttivo si presenta sensibilmente differente quando l’esecuzione verta sulle sentenze, o pronunciamenti equiparati, del collegio arbitrale, del giudice ordinario o di giudici speciali. In tali casi il giudice amministrativo investito
dell’esecuzione deve limitarsi ad esercitare i poteri di “stretta esecuzione”, in quanto
eventuali statuizioni che modificassero (sia pure arricchendola) la pronuncia ineseguita
sarebbero viziate per difetto di giurisdizione. Infatti il giudice amministrativo verrebbe
ad incidere su situazioni giuridiche soggettive estranee alla sua giurisdizione (basti ricordare che, in virtù del criterio della causa petendi, la cognizione sui diritti soggettivi
spetta ordinariamente al giudice ordinario, ferma la possibilità di devolverne la cognizione ad arbitri).
5. Le sentenze del giudice amministrativo suscettibili di ottempe10
Cfr. F.G. SCOCA, Aspetti processuali del giudizio di ottemperanza, cit., 213.
Vale la pena di riportare testualmente il pensiero di M. NIGRO, Giustizia amministrativa, Bologna, 2002, 332: “Spetta al giudice dell’ottemperanza: rendere esplicita la regola, traducendo dal negativo al positivo gli accertamenti del primo giudice sul corretto modo di esercizio del potere; dare un
contenuto concreto all’obbligo della ripristinazione, risolvendo i molti problemi possibili al riguardo;
identificare il vincolo gravante sui tratti di azione amministrativa non incisi direttamente dal giudicato; decidere circa la rilevanza delle sopravvenienze”. Così conclude, dunque, l’illustre giurista, ibidem: “(…) se per ciò che riguarda la prima operazione, si può ritenere trattarsi di mera interpretazione
del giudicato, funzione la quale (…) è sempre di competenza del giudice dell’esecuzione, negli altri
casi il giudice dell’ottemperanza sicuramente concorre (…) ad identificare la volontà concreta della
legge o a formare la normativa del caso concreto: è, quindi, attività di cognizione, pur se la cognizione è compiuta in funzione immediata della sua traduzione in realtà pratica e contestualmente con questa”.
12
In tal senso Cons. Stato, Sez. V, 22 settembre 2008 n. 4563, in Foro amm. – Cons. Stato,
2008, 9, 2489, ove si precisa che il giudice dell’ottemperanza è titolare di poteri congiuntamente sostitutivi, ordinatori e cassatori, il cui esercizio tende ad integrare l'originario disposto della sentenza
con statuizioni che ne costituiscano non già mera «esecuzione», ma «attuazione» in senso stretto, nella prospettiva di un giudicato a formazione progressiva.
11
8
ranza
L’art. 112, comma 2, del Codice, nel richiamare le sentenze del giudice amministrativo suscettibili di ottemperanza, non ne menziona le tipologie in relazione alle diverse
azioni esperibili nel processo amministrativo.
Muovendo dal presupposto che le sentenze eseguibili sono solo quelle contenenti
prescrizioni sostanziali, ossia regole di comportamento e di azione (normae agendi)
che l’amministrazione è chiamata ad osservare, il rito disciplinato dal Libro IV del Titolo I sembra esperibile per far valere le sentenze che accolgano:
- il ricorso per annullamento (art. 29 del Codice), in quanto per pacifica giurisprudenza alla statuizione demolitoria della sentenza (art. 34, comma 1, lett. a), del Codice) si accompagna un effetto conformativo, volto cioè ad indirizzare il successivo
sviluppo dell’azione amministrativa;
- il ricorso per nullità (art. 31, comma 4, del Codice), per ragioni analoghe a quelle
evidenziate sopra;
- il ricorso avverso il silenzio (art. 31 del Codice), poiché la relativa sentenza (ex
art. 34, comma 1, lett. b) del Codice) reca l’ordine all'amministrazione rimasta inerte di
adottare entro un certo termine il provvedimento amministrativo conclusivo del procedimento;
- il ricorso per condanna (art. 30 del Codice), in quanto con esso possono essere
richiesti il pagamento di somme di denaro dovute dall’amministrazione, l’adozione di
misure idonee a tutelare la posizione giuridica soggettiva dedotta in giudizio o l’ordine
di risarcire il danno ingiusto derivante dalla lesione di diritti soggettivi o di interessi
legittimi (a causa dell’illegittimo esercizio o dal mancato esercizio dell’attività amministrativa) anche mediante misure di risarcimento in forma specifica ai sensi dell’art.
2058 c.c. (art. 34, comma 1, lett. c), del Codice).
Maggiori dubbi investono le sentenze di accertamento.
Ipotizzare un giudizio di ottemperanza a fronte di tali pronunce implicherebbe anzitutto postulare che un’azione di accertamento possa comunque ammettersi, in via generale (ossia anche al di fuori del caso contemplato dall’art. 31, comma 4), benché non
menzionata dal Codice; ma il problema è agevolmente superabile considerando che il
contenuto di accertamento è il proprium dell’attività giurisdizionale13, e che comunque
giurisprudenza e dottrina mostrano una decisa apertura rispetto a tale possibilità14.
Più complesso è superare l’obiezione secondo la quale la sentenza dichiarativa non
detterebbe alcun precetto che la pubblica amministrazione sia tenuta ad osservare nel
successivo svolgimento della sua azione. Questa posizione poggia sull’assunto che la
13
M. CLARICH, Le azioni, in Giorn. dir. amm., 2010, 1124.
V. Cons. Stato, Sez. VI, 2 febbraio 2009 n. 717, in Riv. giur. edilizia, 2009, 2, 465, nonché ID.,
15 aprile 2010 n. 2139, in Guida al dir., 2010, 24, 95. L’azione di accertamento era stata in un primo
momento introdotta nella bozza di Codice, ma è stata poi eliminata nella stesura definitiva. Nel senso
della permanente necessità dell’azione di accertamento con riferimento ai rapporti di durata, quali i
rapporti concessori ed il pubblico impiego, v. F.G. SCOCA, Relazione al Seminario conclusivo sul
progetto di Codice del processo amministrativo svoltosi il 21 maggio 2010 presso l’Università degli
studi di Torino; leggine il resoconto in Rivista telematica www.giustamm.it, n. 6/2010.
14
9
pronuncia in questione, nel momento in cui accerta l’esistenza o l’inesistenza di un
rapporto giuridico, con ciò soddisfa appieno il bisogno di tutela esternato dal ricorrente
con il ricorso introduttivo. Sennonché, tale postulato è tutt’altro che solido: è anzi sostenibile che anche la sentenza dichiarativa, in ciò discostandosi notevolmente dal modello delle sentenze autosatisfattive (v. infra, sub par. 6), possa anch’essa contenere
statuizioni rimesse alla successiva attività amministrativa: qualora, ad esempio, la sentenza dichiarasse l’esistenza di un rapporto di durata (ad esempio, di un rapporto concessorio o di pubblico impiego), ovvero appurasse l’insussistenza dei presupposti della
SCIA, l’amministrazione sarebbe tenuta a prenderne atto, emanando le statuizioni conseguenti (ad esempio, ricostituendo i corretti rapporti patrimoniali con il dipendente o il
concessionario, inibendo la prosecuzione dell’attività in capo al presentatore della
15
SCIA, ecc.) .
In ogni caso, a fronte di una sentenza di accertamento nulla osta ad ammettere
un’azione di ottemperanza delucidativa ai sensi dell’art. 112, comma 5, del Codice (v.
infra, sub par. 14), dal momento che l’esigenza di chiarimenti potrebbe ragionevolmente sorgere anche in tale circostanza.
Va peraltro considerata l’evenienza in cui il giudice amministrativo adìto con
l’azione di condanna, in mancanza di opposizione delle parti, si limiti a stabilire i soli
criteri in base ai quali il soggetto tenuto al pagamento deve proporre a favore dell'avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine, ai sensi dell’art. 34,
comma 4, del Codice. Ebbene, è questa stessa norma a prevedere che, qualora le parti
non giungano ad un accordo ovvero non adempiano agli obblighi derivanti
dall’accordo concluso, potrà proporsi il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV al fine
di ottenere la determinazione della somma dovuta o l’adempimento degli obblighi ineseguiti.
Come si vede, nella fattispecie esaminata la definizione concreta dell’importo dovuto può passare attraverso una sorta di tentativo di bonaria composizione della questione
finalizzata al raggiungimento di un accordo tra le parti. Ove il tentativo di accordo, o
l’accordo stesso, dovessero fallire, al giudice dell’ottemperanza viene affidato il compito di liquidare l’importo dovuto (e di sostituirsi, se del caso, all’amministrazione inadempiente).
Le peculiarità di questo giudizio di esecuzione rispetto al modello generale, consistono nel fatto che esso ha come presupposto oggettivo il mancato accordo tra le parti
o il suo mancato rispetto, ed ha come oggetto la quantificazione e liquidazione della
somma. La figura è perciò caratterizzata da una certa distanza dallo schema tipico
dell’ottemperanza, in quanto il giudice non è chiamato a determinare un assetto di interessi in un contesto che contrappone propriamente interesse/i pubblico/i ad interesse/i
privato/i (v. infra, sub par. 9), ma unicamente a regolare i rapporti economici tra le parti, definendo peraltro la stessa domanda che era stata originariamente proposta in sede
cognitoria. Si può allora concludere che nella fattispecie in esame tra il giudizio di ot15
Emblematicamente, nella cit. sentenza n. 717/2009 della Sez. VI del Consiglio di Stato si legge: “Emanata la sentenza di accertamento, graverà sull’Amministrazione l’obbligo di ordinare la rimozione degli effetti della condotta posta in essere dal privato, sulla base dei presupposti che il giudice ha ritenuto mancanti” (corsivi nostri).
10
temperanza e la sentenza (che stabilisce i soli criteri di liquidazione) il legislatore ha
frapposto un tentativo di composizione consensuale degli interessi economici 16; e che
detto giudizio non è strettamente collegato alla sentenza, o meglio al suo inadempimento, quasi fosse una sorta di prosecuzione naturale dell’iter processuale (come è caratteristica del modello tradizionale dell’esecuzione), ma svolge una funzione sua propria,
ponendosi in rapporto di consequenzialità al mancato raggiungimento dell’accordo o
alla sua inesecuzione.
È questione controversa, in dottrina, se per l’esperimento del rimedio in questione si
debba attendere il passaggio in giudicato della sentenza o se, viceversa, sia sufficiente
il verificarsi del presupposto di legge del mancato rispetto del termine giudiziale in ordine alla conclusione dell’accordo o al mancato rispetto dello stesso. Il silenzio del legislatore su questo specifico aspetto suggerisce il ricorso alle regole generali del Codice, che abilitano il ricorrente ad invocare l’intervento del giudice dell’esecuzione a
fronte di qualsiasi provvedimento giurisdizionale esecutivo, a prescindere dalla formazione del giudicato e, quindi, prima ancora di esso.
6. Le sentenze del giudice amministrativo insuscettibili di ottemperanza
In una prima versione del Codice del processo amministrativo erano state espressamente contemplate due ipotesi di esclusione del giudizio di ottemperanza. Esse concernevano:
- le sentenze di condanna al pagamento di una somma di denaro emesse dal giudice
di pace;
- le sentenze emesse dal giudice ordinario di importo inferiore a trentamila euro di
sorte capitale, esclusi gli accessori del credito.
Poiché nel testo finale del Codice tali esclusione risultano stralciate, il giudizio di
ottemperanza è oggi proponibile, senza limiti, anche a fronte delle sentenze “minori”
del giudice ordinario.
Ciò non toglie che si possano ricavare specifiche ipotesi di esclusione dalla sistematica del Codice del processo amministrativo, ovvero all’elaborazione interpretativa
(dottrinale e giurisprudenziale) sviluppatasi nel passato regime normativo.
Un primo ambito di fattispecie abbraccia le sentenze definibili come autoesecutive
(anche dette autoapplicative o autosatisfattive), che si caratterizzano in quanto la loro
capacità esecutiva si esaurisce nell’effetto demolitorio17. Tra di esse possono ricordarsi
anzitutto le pronunce che annullano i provvedimenti negativi di controllo, restituendo
così piena efficacia all’atto controllato, senza che occorra da parte
dell’amministrazione una specifica attività di adeguamento 18. Ma del pari possono ascriversi a tale novero le sentenze che annullano taluni atti sanzionatori (ad esempio, la
sanzione disciplinare dell’ammonimento), quando essi non abbiano prodotto ulteriori
16
S. TARULLO, Il giusto processo amministrativo, cit., 282.
C.E. GALLO, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, 2001, 245.
18
Cons. Stato, Ad. Plen., 4 dicembre 1998, n. 8, in Foro it., 2000, III, 315.
17
11
conseguenze; nonché le sentenze che annullano provvedimenti postulanti una successiva attività materiale (ad esempio, decreti espropriativi), qualora tale attività non sia
principiata. Alla stessa categoria appartengono, poi, le sentenze che, annullando provvedimenti amministrativi di autotutela demolitoria (revoche, annullamenti d’ufficio),
ripristinano gli effetti dell’atto che aveva formato oggetto del procedimento di secondo
grado.
In tutti questi casi il giudizio di ottemperanza è stato costantemente ritenuto inammissibile, non ravvisandosi una necessità di ulteriore attività esecutiva da parte
dell’amministrazione. Tale conclusione conserva anche oggi la sua validità, dal momento che in tutte le ipotesi divisate la sentenza resa dal giudice amministrativo è idonea di per sè a soddisfare compiutamente l’interesse del ricorrente.
Del pari, la inammissibilità del giudizio di ottemperanza è sempre stata riconosciuta
relativamente ai ricorsi in ottemperanza proposti in esito a decisioni aventi carattere
meramente processuale e prive, come tali, di statuizioni di merito19. Anche questa soluzione sembra da condividere in vigenza del nuovo Codice, anche se alcune perplessità possono avanzarsi in ordine alla sentenza dichiarativa della cessata materia del contendere di cui all’art. 34, comma 5, del Codice. Per quanto si tratti, indubbiamente, di
una sentenza “in rito”, è per altro verso evidente che essa ingloba un accertamento sul
rapporto tra amministrazione e ricorrente; per poterla pronunciare, infatti, il giudice
deve accertare la sussistenza di un provvedimento (pienamente) satisfattivo della pretesa del privato. Da ciò discende che, a seguito della sentenza, l’amministrazione non potrebbe poi comportarsi, nel suo successivo agire provvedimentale, come se quel provvedimento non esistesse o non avesse carattere di satisfattività, emergendo altrimenti
una violazione della sentenza stessa. In questo quadro, non sembrerebbe peregrino elevare il giudizio di ottemperanza a sede idonea per accertare violazioni di tal genere onde assicurare la conformità dell’azione amministrativa alla statuizione già resa in sede
cognitoria.
Va poi osservato che in passato, muovendo dall’assunto che l’obbligo
dell’amministrazione di ottemperare al giudicato fosse configurabile solo in presenza di
statuizioni contenute in una sentenza di accoglimento, si è ritenuta inammissibile
l’ottemperanza promossa avverso le sentenze di rigetto, destinate a lasciare immutato
il preesistente assetto giuridico dei rapporti così come delineato dagli atti e dai provvedimenti anteriori 20. Quest’ultima concezione non è però apparsa pacifica in dottrina,
essendosi autorevolmente ritenuto che anche nella sentenza di rigetto potesse identificarsi un contenuto ordinativo sufficiente per la proposizione del giudizio di ottemperanza, ovviamente da parte dei controinteressati 21. Ne consegue, riportando tale prospettazione al giudizio oggi disciplinato dagli artt. 112 e seguenti del Codice del processo amministrativo, che il corrispondente ricorso introduttivo dovrebbe rimanere
precluso, ed inficiato da inammissibilità, nel solo caso in cui la sentenza o la misura
cautelare ineseguita, siano esse di accoglimento o di rigetto, risultino prive di prescrizioni sostanziali 22.
19
Cons. Stato, Sez. IV, 30 novembre 1982, n. 788, in Foro amm., 1982, 1831.
Cons. Stato, Sez. V, 15 luglio 1998, n. 1060, in Foro amm., 1998, 2083.
21
Così F.G. SCOCA, Aspetti processuali del giudizio di ottemperanza, cit., 203.
22
Così F.G. SCOCA, op. ult. cit., 215.
20
12
Altra delicata questione attiene all’esperibilità del giudizio di esecuzione allorché a
rimanere inattuata sia non già una sentenza passata in giudicato, bensì un decreto del
Presidente della Repubblica avente funzione decisoria di un ricorso straordinario al
Capo dello Stato.
Dopo qualche oscillazione 23 è prevalso l’orientamento teso ad escludere
l’ammissibilità del giudizio di ottemperanza 24, ancorché la recente legge 18 giugno
2009 n. 69, avendo accentuato l’assimilazione del ricorso amministrativo in parola al
rimedio giurisdizionale, sia sembrata poter riaprire il dibattito25.
Guardando alla sistematica del Codice, si registra che l’art. 112, comma 2 non menziona esplicitamente il decreto decisorio presidenziale tra i provvedimenti per i quali
possa essere richiesta l’attuazione nelle forme del processo di ottemperanza; né potrebbe negarsi l’elevato grado di arbitrarietà di una tesi che volesse collocare tale decreto,
formalmente adottato dal Capo dello Stato (benché su parere conforme e vincolante del
Consiglio di Stato), tra gli “altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo” ai
sensi della lett. b) del citato comma 2. Un diverso indizio potrebbe rinvenirsi nella successiva lett. d) che fa richiamo, accanto alle “sentenze passate in giudicato”, anche agli
“altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell'ottemperanza”, riproponendo nella sua parte finale l’obbligo dell’amministrazione di
conformarsi alla “decisione” (termine astrattamente comprensivo anche del d.P.R. emanato a definizione del ricorso straordinario) anziché alla “sentenza”. Si tratta, tuttavia, di argomenti di estrema opinabilità che devono confrontarsi con la natura indubbiamente amministrativa del procedimento di ricorso straordinario e dell’atto che ne
costituisce l’esito formale26.
Resta fermo, in attesa di una futura sistemazione degli orientamenti giurisprudenziali, che il vuoto di tutela esecutiva potrà essere agevolmente colmato ammettendo la
proponibilità del rito del silenzio disciplinato dagli artt. 31 e 117 del Codice.
7. Il presupposto dell’inesecuzione.
L’obbligo di esecuzione dei provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo è
posto dall’art. 112, comma 1, del Codice non solo a carico dell’amministrazione, ma
anche delle altre parti del giudizio. Per quanto la statuizione si presti ad una lettura riduttiva, incentrata sulla sottolineatura dell’ovvio obbligo della parte soccombente (anche privata) di prestare esecuzione alla sentenza, non può escludersi un’interpretazione
23
In senso favorevole Cons. Stato, Sez. IV, 15 dicembre 2000, n. 6695, in Giur. it., 2001, 842.
Cass. civ., SS.UU., 18 dicembre 2001, n. 15978, in Foro it., 2002, I, 2447; Cons. Stato, Sez. IV,
5 luglio 2002, n. 3699, in Foro amm.-Cons. Stato, 2002, 1640.
25
L’art. 69 della legge n. 69 del 2009, novellando gli artt. 13 e 14 del d.P.R. 1199/71, ha infatti
ammesso la proponibilità della questione di legittimità costituzionale da parte del Consiglio di Stato
in sede consultiva, rendendo altresì vincolante il parere di questo in sede di adozione del decreto presidenziale decisorio.
26
Difatti, nel senso che il Codice risulti allineato alla giurisprudenza della Cassazione sulla non
esperibilità del ricorso in ottemperanza, essendo state respinte le proposte orientate in senso diverso,
v. A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, IX ed., Torino, 2010, 165.
24
13
più avanzata, tesa a sostenere l’esperibilità del giudizio di ottemperanza anche nei confronti delle parti private, in connessione all’ampliamento della giurisdizione amministrativa; si può pensare, ad esempio, alla inesecuzione della sentenza di condanna al
risarcimento del danno27.
In tale direzione sovviene peraltro un argumentum a contrario: l’art. 112 del Codice, relativo alla proponibilità del giudizio di ottemperanza, fa espresso richiamo alla
finalità di ottenere l'adempimento dell'obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi al giudicato solo nelle lett. c), d) ed e), concernenti le pronunce dei giudici
diversi da quello amministrativo e degli arbitri; dunque solo in tali ipotesi la legittimazione passiva del giudizio viene espressamente circoscritta all’amministrazione pubblica. Viceversa, tale precisazione non compare nelle lett. a) e b) inerenti ai vari tipi di
provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo, lasciando così supporre una possibile legittimazione anche di soggetti privati.
L’evenienza più rilevante, riaffermata come tale anche dall’art. 88, comma 2, lett. f)
del Codice28, resta comunque quella tradizionale, nella quale cioè il provvedimento
giurisdizionale esecutivo debba essere eseguito dalla pubblica amministrazione. In tale
situazione, essa potrebbe scegliere (o comunque incorrere nel)l’ipotesi dell’inerzia, ossia della mancata osservanza del comando impartito dal giudice amministrativo; o potrebbe persino dichiarare esplicitamente di non voler dare esecuzione al dictum giudiziale. Entrambe tali fattispecie - in armonia con l’indirizzo giurisprudenziale già consolidatosi in passato - concretizzano la trasgressione dell’obbligo sancito dall’art. 112,
comma 1, del Codice del processo amministrativo e quindi integrano il presupposto
della insecuzione, o inottemperanza, al provvedimento giurisdizionale esecutivo, in
presenza del quale è apprestata l’azione di cui al successivo art. 114.
Parimenti, quando l’esecuzione del giudicato risulti solo parziale, tale azione sarà
sempre esperibile per conseguire l’attuazione delle statuizioni rimaste inosservate 29.
Dai casi di inesecuzione vera e propria vanno tenute distinte le fattispecie di c.d. inesecuzione giustificata; infatti, secondo la giurisprudenza formatasi in passato, sia
l’amministrazione che il giudice (dell’ottemperanza) devono tener conto delle sopravvenienze di fatto e di diritto (ius superveniens) intervenute durante l’esplicarsi del ricorso originario e fino alla notifica della sentenza da eseguire 30. Il ricorrente non potrà, in tale eventualità, pretendere una piena esecuzione del provvedimento giurisdizionale la cui attuazione sia impedita dalle sopravvenienze, ma avrà titolo a vedersi risto27
Cfr. R. DE NICTOLIS, I riti speciali, in Giorn. dir. amm., 2010, 1153. V. anche A. TRAVI, Lezioni, cit., 365, che rinviene un margine di efficacia del giudizio di ottemperanza nei riguardi dei privati
in relazione alla misura disciplinata dall’art. 114, comma 4, lett. e), di cui si dirà infra, al par. 14.
28
La norma individua quale contenuto necessario della sentenza del giudice amministrativo “l'ordine che la decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa”, senza fare menzione dell’obbligo di
esecuzione delle altre parti.
29
Giurisprudenza da tempo pacifica: cfr. Cons. Stato, Sez. V, 24 ottobre 1980, n. 875, in Cons.
Stato, 1980, I, 1358; Id., 27 gennaio 1978, n. 103, in Cons. Stato, 1978, I, 72; Cons. Stato, Sez. IV, 13
luglio 1982, n. 463, in Cons. Stato, 1982, I, 824; Id., 6 marzo 1979, n. 170, in Cons. Stato, 1979, I,
338; Id., 27 febbraio 1979, n. 157, in Cons. Stato, 1979, I, 178.
30
Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 8 gennaio 1986, n. 1, in Cons. Stato, 1986, I, 1, poi ribadito da
Cons. Stato, Ad. Plen., 10 dicembre 1998, n. 9, in Giorn. dir. amm., 1999, 161. Cfr. anche Cons. Stato, sez. IV, 11 giugno 1997, n. 638, in Foro amm., 1997, 1636.
14
rati gli eventuali danni subiti per effetto dell’illegittimo comportamento
dell’amministrazione 31.
Infine, va aggiunto per completezza che il principio generale del “ne bis in idem”
impedisce la riproposizione di un ricorso di ottemperanza già esperito ed esitato in una
sentenza non rivelatrice di alcun profilo di inottemperanza32.
8. La nullità dell’atto violativo o elusivo del giudicato.
Il presupposto dell’inesecuzione può ravvisarsi anche nel caso in cui
l’amministrazione adotti un provvedimento in diretto contrasto con le statuizioni contenute nel pronunciamento giudicato (violazione del giudicato), ovvero incorporante un
adempimento solo apparente e fittizio al giudicato stesso, ma in realtà finalizzato a rinviare la definizione dell’assetto degli interessi (c.d. atto soprassessorio o dilatorio) o
comunque ad aggirare la portata precettiva del pronunciamento (elusione del giudicato;
pensiamo al caso in cui l’amministrazione sottoponga ad un organo consultivo la medesima questione sulla quale esso si era già favorevolmente espresso in precedenza,
all’evidente fine di provocare un suo ripensamento).
Il primo comma dell’art. 21-septies della legge 7 agosto 1990 n. 241, introdotto dall’art. 14 della legge 11 febbraio 2005 n. 15, ricomprende tra le diverse ipotesi di nullità
del provvedimento amministrativo anche quelle, ora viste, dell’atto adottato in violazione o elusione del giudicato. Il successivo comma secondo prevedeva espressamente che le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi emanati in violazione o elusione del giudicato fossero attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Tale ultima previsione è stata abrogata dall’art. 4, comma 1, n. 14
dell’Allegato 4 al D.Lgs. 104/2010 (“Norme di coordinamento e abrogazioni”), in
quanto doppiato dall’art. 133, comma 1, lett. a), n. 5, del Codice del processo amministrativo.
La novella del 2005 ha recepito un orientamento giurisprudenziale incline a qualificare come nullo l’atto difforme dal giudicato; la regola, dunque, è stata positivizzata e
di ciò occorre prendere atto, anche se – a dire il vero – la dottrina non a torto ha dubitato che la descritta evenienza possa determinare addirittura una carenza di potere, come
in passato da più parti sostenuto 33.
31
Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 6 agosto 2001, n. 4239, in Foro amm., 2001, 2008.
Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 7 maggio 2009 n. 2841, in Foro amm.– Cons. Stato, 2009, 1340.
33
Nel senso della nullità v. per tutte Cons. Stato, Sez. IV, 6 ottobre 2003, n. 5820, in Foro amm.Cons. Stato, 2003, 2915; Cons. Stato, Sez. V, 11 ottobre 1996, n. 1231, in Foro amm., 1996, 2886;
Id., 13 febbraio 1998, n. 166, in Foro amm., 1998, 420. Cfr. altresì, con alcuni distinguo, Cons. Stato,
Sez. IV, 24 febbraio 2000, n. 1001, in Foro amm., 2000, 411, nonché Cons. Stato, Sez. V, 6 febbraio
1999, n. 134, in Foro amm., 1999, 349. Secondo un’interessante lettura, la norma dell’art. 21-septies
recherebbe una duplice ipotesi di nullità testuale (o nominativa) ed al contempo di difetto assoluto di
attribuzione, venendo in rilievo un atto emanato in violazione delle norme che assegnano al potere
giurisdizionale (e non più alla pubblica amministrazione) la definizione della lite: così S. DE FELICE,
Della nullità del provvedimento amministrativo, in Rivista telematica www.giustamm.it. Contra v.
però L. MAZZAROLLI, Il giudizio di ottemperanza oggi: risultati concreti, in Dir. proc. amm., 1990,
32
15
Nella sostanza, l’operazione legislativa del 2005 ha puntato a rivitalizzare la categoria della nullità, ma è sembrata travisare l’obiettivo ultimo (meramente processuale)
verso il quale tendeva la giurisprudenza pregressa; la quale, a ben vedere, mirava esclusivamente ad estendere il rimedio del giudizio di ottemperanza oltre i confini
dell’inerzia amministrativa di fronte al giudicato, onde renderlo invocabile pure in presenza di atti che, in quanto tali, avrebbero altrimenti richiesto un’iniziativa ben meno
satisfattiva (atteso il necessario rispetto del termine decadenziale e la ristrettezza dei
poteri del giudice di legittimità), quale quella del ricorso ordinario di annullamento 34.
Ad ogni modo, con il menzionato art. 21-septies un dato rilevante era balzato
all’attenzione degli interpreti: il legislatore del 2005, senza prevedere una specifica azione di nullità del provvedimento amministrativo e senza fare menzione del giudizio
di ottemperanza quale sedes della cognizione del vizio inficiante il provvedimento violativo o elusivo del giudicato, aveva semplicemente demandato alla giurisdizione amministrativa esclusiva la cognizione del vizio medesimo.
Tale vaghezza nella previsione normativa aveva sollevato problemi ricostruttivi non
indifferenti, potendosi astrattamente ipotizzare che - discostandosi dalla giurisprudenza
surricordata - il legislatore avesse inteso imporre al privato l’onere di contestare il
provvedimento non già mediante il ricorso in ottemperanza, ma (sia pure in sede di giurisdizione esclusiva) con il rito ordinario di cognizione e nel rispetto dell’ordinario
termine decadenziale35. E tale conclusione appariva di non poco momento atteso che,
245-246, il quale nega che l’atto viziato perché contrastante con un giudicato possa ritenersi nullo per
carenza di potere. In effetti il potere sembrerebbe ancora sussistere, ancorché con marcati connotati di
vincolatività: sul punto F. FRACCHIA, Violazione di giudicato e nullità del provvedimento, in Foro it.,
1993, III, 213 ss. D’altra parte il fenomeno della produzione degli effetti dell’atto, ravvisabile sino al
momento della rimozione di questo per mano del giudice, sembra costituire ulteriore argomento di
perplessità sulla configurazione in termini di nullità: v. R. VILLATA, Riflessioni in tema di giudizio di
ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in Dir. proc. amm., 1989, 383; cfr.
anche G. SCIULLO, Il comportamento dell’amministrazione nell’ottemperanza, in Dir. proc. amm.,
1997, 74.
34
F.G. SCOCA, Esistenza, validità ed efficacia degli atti amministrativi, in G. Clemente di San
Luca (a cura di), La nuova disciplina dell’attività amministrativa dopo la riforma della legge sul procedimento, Torino, 2005, 172.
35
In argomento v. M. SANINO, Il giudizio di ottemperanza, in G. Pellegrino (a cura di) Verso il
Codice del processo amministrativo, Roma, 2010, 191 ss.; A. MANTERO, Nullità ed elusione del giudicato sospesi tra giudizio di legittimità e giudizio di ottemperanza: l’art. 21 septies della l. 241/1990,
in Dir. proc. amm., 2007, 1209, ha posto in evidenza come la disposizione del 2005 complicasse non
poco il sistema, accreditando l’impressione (contrastata tuttavia dall’A.) di una doppia giurisdizione:
“esclusiva” (introdotta con il giudizio ordinario di impugnazione, per far valere la nullità per violazione o elusione del giudicato) e “di merito” (introdotta con il rito dell’ottemperanza, per ottenere
l’esecuzione della sentenza). Secondo altra ricostruzione il rito dell’ottemperanza (nell’ambito del
quale la questione pregiudiziale della nullità sarebbe dovuta essere decisa incidenter tantum) e quello
ordinario (inteso a far valere la nullità in via principale e con efficacia di giudicato) si sarebbero dovuti considerare rimedi concorrenti: così L. MAZZAROLLI, Sulla disciplina della nullità dei provvedimenti amministrativi (art. 21 septies della l. n. 241 del 1990, introdotto con la l. n. 15 del 2005), in
Dir. proc. amm., 2006, 563 – 567. Il quadro era reso comunque nebuloso dalle incertezze circa
l’effettiva esperibilità dell’azione dichiarativa della nullità, che reclamava decisamente un’espressa
presa di posizione del legislatore: cfr. P. SALVATORE, Riflessioni minime sulla patologia dei provve-
16
quale sua conseguenza, al giudice amministrativo sarebbe stato precluso l’esercizio dei
poteri di merito tipici del giudizio di ottemperanza, pur essendo esperibili i poteri istruttori più ampi riconosciuti in sede di giurisdizione esclusiva rispetto alla giurisdizione di legittimità (il riferimento è ai mezzi di prova previsti dal c.p.c., richiamati
dall’abrogato art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 80/1998, come novellato dal pure abrogato
art. 7 della legge n. 205/2000) 36.
Sennonché, questo approccio ermeneutico non solo era apparso sconsigliabile sul
versante per così dire teleologico, comportando un evidente decremento di tutela per il
cittadino, ma non poteva neppure dirsi obbligato dalla littera dell’art. 21-septies. La
circostanza, infatti, che tale disposizione facesse richiamo alla nozione di “giurisdizione esclusiva” non evidenziava alcuna contraddizione con l’individuazione di un ambito
cognitorio che, collocandosi ancora nell’alveo dell’ottemperanza al giudicato, abilitasse
l’organo giurisdizionale alla pienezza dei poteri sostitutori e di merito.
Difatti la nozione di “giurisdizione esclusiva” testualmente richiamata dal legislatore del 2005 si riferiva, e si riferisce, alla natura delle situazioni giuridiche soggettive
azionabili (di talché la utilitas che si richiede in sede di ottemperanza atterrà al diritto
soggettivo o all’interesse legittimo a seconda della natura della situazione azionata nel
giudizio a monte); ma ciò non poteva ex se negare l’applicazione delle forme e della
procedura tipiche del processo di ottemperanza, con la consequenziale operatività di
tutti i poteri intestati al giudice amministrativo 37. In senso convergente si era peraltro
osservato come nella disposizione dell’art. 21-septies potesse essere colta la ratio di
escludere la giurisdizione del giudice ordinario sulle questioni relative alla nullità di
provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del giudicato (che si sarebbero
in tal modo volute riservare al giudice amministrativo, senza denegare la sede
dell’ottemperanza già assodata in giurisprudenza) 38.
Allo stato l’art. 114, comma 4, lett. b) del Codice del processo amministrativo sembra risolvere definitivamente il problema, disponendo che il giudice dell’ottemperanza,
nel caso di accoglimento del ricorso, “dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o
elusione del giudicato”. La controversia attinente alla nullità in questione, pertanto, non
solo ricade nella giurisdizione amministrativa esclusiva (cfr. il già nominato art. 133,
dimenti amministrativi: art. 21 septies della legge 11 febbraio 2005 n. 15, in Cons. Stato, 2005, II,
826.
36
Sul punto v. l’accesa critica di F. SATTA, La riforma della legge n. 241/1990: dubbi e perplessità, in Rivista telematica www.giustamm.it, il quale giudica il comma secondo dell’art. 21 septies “una
disposizione gravissima, la cui portata è chiaramente sfuggita al legislatore”. Argomenta infatti Satta:
“Se i provvedimenti sono nulli quando violano o eludono il giudicato, e devono essere impugnati in
sede di giurisdizione esclusiva, questo significa che è stato cancellato il giudizio di ottemperanza ex
art. 27, n. 4, t.u. Cons. Stato, per il quale era data la giurisdizione di merito, con i ben noti, vastissimi
poteri che aveva il giudice amministrativo: nulla di paragonabile con quelli che ha nella giurisdizione
esclusiva, forma particolare della giurisdizione generale di legittimità”. Conclude l’A. nel senso che
“Con queste parolette, sfuggite dalla penna del legislatore (…) uno strumento essenziale per garantire
l’effettività della tutela giurisdizionale è stato dimidiato”.
37
Nel senso che anche prima della legge n. 205/2000 potessero riconoscersi nel giudizio di ottemperanza i caratteri della giurisdizione esclusiva v. F.G. SCOCA, Aspetti processuali del giudizio di
ottemperanza, cit., 205.
38
Cfr. N. LONGOBARDI, La legge n. 15/2005 di riforma della legge n. 241/1990. Una prima valutazione, in Rivista telematica www.giustamm.it.
17
comma 1, lett. a), n. 5), del Codice)39, ma segue senza ombra di dubbio le regole
dell’ottemperanza a partire dal relativo termine di proponibilità, che è quello decennale
proprio dell’actio iudicati. A scanso di residui equivoci, peraltro, l’art. 31, comma 4,
del Codice precisa che l’azione generale di nullità, da proporre, invece, entro il termine
di decadenza di centottanta giorni, non trova applicazione in ordine alle nullità di cui
all’art. 114, comma 4, lettera b), “per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I
del Libro IV”.
Tali previsioni determinano perciò una profonda divaricazione tra il regime processuale della nullità per violazione o elusione del giudicato e quello concernente le altre
ipotesi di nullità di cui all’art. 21-septies della L. 241/90 (mancanza degli elementi essenziali, difetto assoluto di attribuzione, sussistenza di altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge), che rimangono assoggettate al rimedio di cui al precitato art.
31, comma 4, del Codice. Rimane peraltro aperto un ulteriore fronte di indagine, relativo all’ipotesi in cui il ricorrente intenda sì far valere la nullità dell’atto violativo o elusivo dal giudicato, ma non abbia interesse - o non abbia più interesse - all’esecuzione
della sentenza. Pur nel silenzio normativo sul punto, appare evidente che l’applicazione
del regime processuale proprio del giudizio di ottemperanza costituirebbe un fuor
d’opera, stante la natura meramente dichiarativa dell’azione.
Circa i poteri del giudice dell’esecuzione di fronte all’atto nullo per contrasto con
una sentenza passata in giudicato o per elusione di essa, l’art. 114, comma 4, lett. b),
del Codice è inequivocabile nel riconoscere alla pronuncia di accoglimento del ricorso
un contenuto meramente dichiarativo della nullità.
È però possibile che il contrasto o l’elusione insorga rispetto ad un altro e diverso
provvedimento giurisdizionale esecutivo, quale una sentenza non passata in giudicato o
un’ordinanza cautelare: in tal caso si ravvisa non già una nullità, bensì una inefficacia
dell’atto. Difatti, secondo quanto dispone l’art. 114, comma 1, lett. c), del Codice, il
giudice, nel caso di ottemperanza di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti, determina le modalità esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in
violazione o elusione; egli, inoltre, “provvede di conseguenza, tenendo conto degli effetti che ne derivano”. La previsione sembra sottendere un potere di disapplicazione
del giudice amministrativo non dissimile da quello assegnato al giudice ordinario
dall’art. 5 della l. n. 2248/1865, All. E, e dall’art. 63, comma 1, del D.Lgs. n.
165/2001.
Resta fermo, esaminando l’ambito della cognizione del giudice, che nei casi di elusione o violazione del provvedimento giurisdizionale pregresso, quale esso sia, il
giudizio di ottemperanza è destinato ad arricchirsi nella sua parte “di cognizione”: la
pronuncia avrà anzitutto un contenuto di accertamento della ricorrenza delle cause di
nullità (o di inefficacia) onde pervenire alla relativa declaratoria; essa poi, prendendo le
mosse dal provvedimento giurisdizionale originario (eluso o violato) disporrà quanto
necessario per fissare i parametri dell’azione amministrativa (con l’ulteriore contenuto
cognitorio proprio dell’attività determinativa) al fine di perseguire la effettiva attuazio39
Contestualmente il Codice (All. 4, art. 4, n. 14) abroga l’art. 21-septies, comma 2, della legge
241/90 (“Le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione
del giudicato sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”).
18
ne del comando in esso contenuto.
9. La competenza.
In ordine al regime della competenza per il giudizio di ottemperanza, dall’art. 113
del Codice del processo amministrativo si ricava il seguente quadro ricostruttivo:
A) nei casi di cui all’art. 112, comma 2, lettera a) (esecuzione delle sentenze del
giudice amministrativo passate in giudicato) e lettera b) (esecuzione delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo), il ricorso va
proposto al giudice che ha emesso il provvedimento della cui esecuzione si tratta; in
tali evenienze la competenza è del tribunale amministrativo regionale anche quando
l’esecuzione investa suoi provvedimenti confermati in sede di appello con motivazione
avente lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado;
B) nei casi di cui all’art. 123, comma 2, lettera c) (esecuzione delle sentenze passate
in giudicato, e degli altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice ordinario), lettera d) (esecuzione delle sentenze passate in giudicato, e degli altri provvedimenti ad esse
equiparati, dei giudici davanti ai quali non sia previsto il rimedio dell’esecuzione) e lettera e) (esecuzione del lodo arbitrale inoppugnabile), il ricorso si propone al tribunale
amministrativo regionale nella cui circoscrizione ha sede il giudice (ovvero il collegio
arbitrale) che ha emesso il provvedimento di cui è chiesta l’esecuzione40.
Il principio che ha orientato il legislatore nel porre la disciplina sub A), in continuità
con il passato, appare evidente: il miglior interprete ed esecutore della decisione non
può che essere lo stesso giudice che l’ha adottata, a lui spettando specificare ulteriormente e progressivamente le regulae juris e le normae agendi cui l’amministrazione è
chiamata ad attenersi nella riedizione del provvedimento amministrativo.
Ciò spiega perché, in virtù delle disposizioni richiamate, il tribunale amministrativo regionale è competente per l’esecuzione delle proprie pronunce confermate
in grado d’appello solo a condizione che esse siano state “ratificate” nella loro portata sostanziale, ossia sul piano motivazione e conformativo, dal Consiglio di Stato;
mentre quest’ultimo rimane competente, per analoghe ragioni, ogniqualvolta, indipendentemente dalla formale conferma del dispositivo del primo giudice, il decisum
sostanziale si rinvenga integralmente nella pronuncia di secondo grado; nonché nelle
ipotesi in cui quest’ultima sia anche solo parzialmente modificatrice, innovatrice o
integratrice della sostanza della motivazione contenuta nella decisione del T.A.R.41.
Occorre rilevare che ai sensi dell’art. 14, comma 3, del Codice la competenza per il
giudizio in parola, quale disciplinata dal precedente art. 113, costituisce un’ipotesi di
competenza per materia o funzionale. Pertanto, qualora il ricorso venga proposto innanzi a giudice incompetente, in violazione delle regole appena esposte, trova applicazione il regime della competenza inderogabile di cui all’art. 16 del Codice.
40
Ciò esclude la competenza del Consiglio di Stato, al contrario di quanto prima avveniva in base
all’abrogato art. 37, comma 1, della l. 1034/71.
41
Cons. Stato, Sez. V, 27 gennaio 1978, n. 101, in Cons. Stato, 1978, I, 69.
19
10. La procedura
L’interesse concreto a ricorrere in sede di ottemperanza va riconosciuto in capo ai
soggetti sui quali il provvedimento giurisdizionale esecutivo spiega i suoi effetti immediati; essi sono normalmente individuabili in coloro che hanno partecipato al giudizio all’esito del quale il provvedimento è stato pronunciato. Se, però, la pronuncia è efficace ultra partes, la legittimazione a chiederne l’attuazione può ricondursi a ciascuno
dei soggetti interessati, anche se rimasti estranei al processo.
Riguardo al termine per proporre il giudizio, opera - come detto - la prescrizione di
dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza tradizionalmente valevole per
l’actio iudicati, giusta la previsione dell’art. 114, comma 1, seconda parte del Codice
del processo amministrativo.
Da tale norma si desume che:
- il ricorso per esecuzione della sentenza passata in giudicato sarà tardivo ed irricevibile in caso di già intervenuta maturazione del suddetto termine prescrizionale;
- il ricorso per esecuzione della sentenza esecutiva sarà esperibile per tutta la durata
del giudizio di impugnazione eventualmente proposto (e fino alla pubblicazione della
relativa sentenza), non essendo neppure iniziato a decorrere il termine prescrizionale;
- il ricorso per esecuzione della misure cautelare sarà esperibile fintantoché essa resti in vita; e perciò, tendenzialmente, per tutta la durata del giudizio nell’ambito del
quale essa sia stata emanata e fino alla pubblicazione della sentenza, salvo non intervengano una sua revoca o modifica ex art. 58 del Codice, ovvero una sua riforma a seguito di impugnazione.
È oramai assodato che, nel caso di contestazione in sede esecutiva di provvedimenti
amministrativi, non opera il termine decadenziale di sessanta giorni previsto per
l’azione di annullamento (art. 29 del Codice). V’è poi da notare che la domanda di accertamento della nullità del provvedimento amministrativo violativo o elusivo del giudicato non è assoggettata, dal Codice, ad alcun termine (avendo il Legislatore fissato il
termine di centottanta giorni solo per altre ipotesi di nullità, ex art. 31, comma 4). Ciò
non implica, tuttavia, che la domanda di nullità fatta valere mediante il rimedio
dell’ottemperanza sia imprescrittibile, dovendo piuttosto ritenersi che essa sia attratta
nel termine decennale proprio dell’actio iudicati.
Egualmente il ricorrente, qualora nell’ambito del giudizio di ottemperanza o successivamente al suo incardinamento intenda avanzare domanda di risarcimento del danno
derivante dall’inerzia amministrativa o dall’emanazione del provvedimento contrastante con le statuizioni esecutive del giudice, dovrà attenersi al termine di centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, secondo il disposto dell’art. 30, comma 5,
del Codice.
Come dianzi accennato, nella disciplina antecedente al Codice del processo amministrativo era pacifico che prima della proposizione del ricorso in ottemperanza
l’interessato avesse l’obbligo di notificare all’organo dell’amministrazione tenuto
all’adempimento, e quindi a pena di inammissibilità del ricorso stesso, un atto stragiu-
20
diziale di diffida ad adempiere al giudicato, entro un termine non inferiore a trenta
giorni (art. 90, comma 2, reg. proc. 642/1907). Tale atto di messa in mora, che seguiva
le formalità della notifica tramite ufficiale giudiziario, cessava di essere presupposto
processuale essenziale all’introduzione del giudizio solo quando l’amministrazione avesse dichiarato di non voler adempiere o tale rifiuto fosse risultato da un comportamento concludente; o, ancora, quando dal giudicato fossero discesi vincoli puntuali già
apertamente disattesi dall’amministrazione dopo il passaggio in giudicato della sentenza.
Oggi l’art. 114, comma 1, del Codice del processo amministrativo depone inequivocabilmente, nel suo incipit (“L’azione si propone, anche senza previa diffida …”) per
la facoltatività della diffida, che non può più qualificarsi, pertanto, alla stregua di presupposto processuale dell’azione esecutiva. Come già anticipato (supra, sub par. 2)
l’innovazione, emblematica di una tensione verso un tutela più celere e quindi più effettiva, in coerenza con gli artt. 1 e 2 del Codice, è da salutare con estremo favore.
Sul piano sistematico, dalla relazione governativa illustrativa del Codice si evince
che la necessità della diffida è venuta meno a seguito del mutamento dello schema processuale, che impone oggi la notifica del ricorso in ottemperanza (come già previsto, in
realtà, relativamente all’esecuzione delle misure cautelari) in luogo del suo deposito.
Se, infatti, l’amministrazione è avvertita dell’iniziativa assunta dal ricorrente direttamente con l’atto introduttivo del giudizio, difficilmente si giustificherebbe
l’appesantimento costituito dalla messa in mora preprocessuale, che rivestiva, nel regime previgente, una valenza quasi sostitutiva della vocatio in ius.
Sul piano dell’opportunità, tuttavia, si è rilevato che la conservazione dell’istituto
della diffida, per quanto fortemente ridimensionato, all’atto pratico, dall’elaborazione
giurisprudenziale42, avrebbe potuto esplicare una qualche efficacia in termini di deflazione del contenzioso, tanto più considerando la tensione legislativa verso la creazione
di paradigmi extra-giurisdizionali di risoluzione delle controversie43.
Per quanto concerne la garanzia del contraddittorio nel processo di ottemperanza, in
coerenza con i dettami costituzionali (art. 111, comma 2, Cost.) e con la propria impostazione di fondo (art. 2, comma 1, ed art. 27), il Codice del processo amministrativo
supera provvidenzialmente le perplessità sorte in passato.
Va infatti ricordato che il regolamento n. 642/1907, all’art. 91, prevedeva che il ricorso di ottemperanza fosse soggetto non già a notifica, ma direttamente a deposito presso
l’organo giurisdizionale competente; di tale deposito il segretario era tenuto a dare immediata comunicazione alla (sola) pubblica amministrazione interessata, la quale, entro i
venti giorni successivi, poteva trasmettere le proprie osservazioni alla Segreteria del giu-
42
La giurisprudenza riteneva potersi prescindere dalla previa messa in mora laddove l'amministrazione avesse esplicitamente dichiarato di non voler adempiere al giudicato, ovvero quando un tale
rifiuto fosse emerso da un comportamento chiaro ed inequivocabile della stessa, oppure, ancora,
quando essa avesse posto in essere attività elusive del giudicato o con esse contrastanti, così da rendere palesemente inutile la formale contestazione dell'omissione dell'attività dovuta: così TAR Campania, Sez. III Napoli, 8 giugno 2010 n. 13043, in Foro amm. – T.A.R., 2010, 2114.
43
M. ANTONIOLI, Sub art. 114, in E. PICOZZA (a cura di), Codice del processo amministrativo,
cit., 212.
21
dice 44. In parallelo con il progressivo riconoscimento al giudizio di ottemperanza del carattere della controvertibilità (discendente dal compimento dell’attività cognitoria indispensabile a determinare la portata sostanziale del giudicato e gli appropriati atti di esecuzione e di ottemperanza), la giurisprudenza iniziò ad imporre al ricorrente l’obbligo
della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio sia all’amministrazione inottemperante che ai controinteressati, in precedenza pretermessi ed opportunamente individuati
nei soggetti che in dipendenza dell’attuazione del giudicato potessero ricevere pregiudizio nella propria sfera giuridica 45.
Per quanto la Consulta, con una lettura correttiva, avesse avallato il regime previgente della comunicazione46, il Codice del processo amministrativo, nell’art. 114,
comma 1, ha scelto di allineare la disciplina dell’ottemperanza alle regole generali,
prevedendo che il ricorso debba essere notificato alla pubblica amministrazione ed alle
altre parti del giudizio definito dalla sentenza o dal lodo “della cui ottemperanza si tratta”. La formulazione normativa lascia intendere che la notificazione sia da ritenere correttamente effettuata alle parti in senso formale, ossia a prescindere dalla rispettiva legittimazione (attiva o passiva).
Permane il dubbio se la notifica debba avvenire presso il domicilio reale
dell’amministrazione, ovvero presso quello eletto o ex lege.
L’autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella di cognizione porta a prediligere, in linea di principio, la prima soluzione, corroborata anche dal rinvio esterno alle
norme del c.p.c. di cui all’art. 39 del Codice del processo amministrativo47. Basti in
proposito rammentare l’art. 479 c.p.c., secondo il quale la notificazione del titolo esecutivo e del precetto deve essere fatta alla parte personalmente, nonché il successivo
art. 489, che designa quale luogo delle notificazioni e delle comunicazioni ai creditori
pignoranti, in sede espropriativa, la residenza dichiarata o il domicilio eletto nell’atto di
precetto.
Sennonché, la seconda soluzione potrebbe accreditarsi nei casi di azione di ottemperanza delucidativa su ricorso delle parti (art. 112, comma 5) o del commissario (art.
114, commi 6 e 7)48.
Sempre secondo le regole generali (cfr. art. 27, comma 2, del Codice, ma v. anche
gli artt. 41, comma 2, e 49, comma 1), il ricorso potrà essere notificato anche ad uno
soltanto dei controinteressati, salva l’eventuale successiva integrazione del contraddittorio disposta dal giudice.
Il regime dell’incardinamento del ricorso viene così “normalizzato” e reso armonico
44
Il suddetto temine di venti giorni era peraltro ritenuto non perentorio: Cons. Stato, Sez. IV, 19
aprile 1977, n. 391, in Cons. Stato, 1977, I, 225.
45
Cons. Stato, Sez. V, 27 maggio 1993, n. 643, in Cons. Stato, 1993, I, 677.
46
Corte Cost., 9 dicembre 2005 n. 441, in Giur. cost., 2005, 6, ove si assume la compatibilità dello strumento della comunicazione con le norme costituzionali sulla difesa in giudizio, sul contraddittorio e sul giusto processo, a condizione che il relativo obbligo sia rapportato all’atto nella sua interezza e sia interpretato come incombente da espletare in tempo utile ed in modo da consentire
all’amministrazione l’effettiva conoscenza della domanda e l’articolazione tempestiva dei mezzi di
tutela.
47
In quest’ultimo senso G. FERRARI, Il nuovo codice del processo amministrativo, Roma, 2010,
361.
48
Cfr. M. ANTONIOLI, Sub art. 114, cit., 213.
22
con il modello sposato dal Codice nel Libro II. Permane tuttavia qualche dubbio circa
la possibilità d convenire in sede di ottemperanza un’amministrazione diversa da quella
rimasta soccombente nel pregresso giudizio di cognizione. Non è chiaro se il silenzio
dell’art. 114 al riguardo sia da intendere quale implicito avallo dei precedenti orientamenti favorevoli49.
Al ricorso per esecuzione fondato su precedente sentenza va allegata in copia autentica la sentenza stessa, con l’eventuale prova del suo passaggio in giudicato (art. 114,
comma 2, del Codice). Nulla è previsto per il caso in cui il ricorso riguardi
un’ordinanza cautelare o altro provvedimento esecutivo, ma esigenze sistematiche impongono di seguire, in tali eventualità, analoga formalità di estrazione di copia autentica e di deposito.
La prassi giurisprudenziale ha sempre ammesso, nell’ambito del processo di ottemperanza, la proposizione di istanze cautelari, a recepimento dell’orientamento della
Consulta che assume l’intima ed inscindibile compenetrazione della tutela cautelare
con il processo di merito50. L’odierna, ampia, formulazione del’art. 55, comma 1, del
Codice non fa che rafforzare la validità di questa impostazione anche nell’attuale disciplina positiva. Devono perciò ritenersi esperibili tutte le forme di tutela cautelare oggi
contemplate del Codice, collegiali e monocratiche, ante causam e post causam (cfr.
artt. 55, 56 e 61).
Per quanto sia in concreto difficile che una simile ipotesi possa verificarsi, almeno
quando a monte del giudizio esecutivo vi sia una sentenza (e quindi un giudizio di cognizione nel quale le parti hanno avuto modo di delibare la sussistenza della giurisdizione amministrativa), in sede di ottemperanza sembra anche proponibile il regolamento preventivo di giurisdizione, cui consegue la sospensione del processo esecutivo (art. 10 del Codice).
Il processo di ottemperanza sfocia nella celebrazione non già di un’udienza pubblica, bensì di una camera di consiglio, o adunanza camerale (art. 87, comma 2, lett. d),
del Codice).
49
Si è ad esempio ritenuto che, qualora un giudicato abbia condannato l'autorità amministrativa a
corrispondere all'avente diritto una prestazione pecuniaria che deve essere erogata da altra pubblica
amministrazione, l'autorità soccombente deve assicurare che l'amministrazione tenuta all’erogazione,
ancorché formalmente estranea al giudicato, corrisponda le somme dovute (Cons. Stato, Sez. IV,
17.4.1990, n. 268, in Foro amm., 1990, 885). Inoltre, secondo un indirizzo non isolato, il ricorso per
ottemperanza può essere esperito anche nei confronti di un soggetto pubblico che sia stato estraneo al
giudizio di merito, quando tale soggetto venga chiamato a porre in essere un'attività vincolata o adempitiva in fase di esecuzione del giudicato, avuto riguardo al carattere peculiare del rimedio, preordinato a garantire la completa attuazione del contenuto decisorio della sentenza (Cons. Stato, Sez.VI,
6.5.1997, n. 690; recentemente TAR Campania, Sez. II Napoli, 30 settembre 2009 n. 5127 in
www.giustizia-amministrativa.it). Contra v. tuttavia Cons. Stato, Sez. VI, 31 maggio 2006 n. 3320, in
Foro amm. – Cons. Stato, 2006, 5, 1584, per il quale deve considerarsi “inammissibile il ricorso per
l'esecuzione del giudicato, quando sia stato proposto nei confronti di un'amministrazione che non sia
stata parte nel giudizio conclusosi con la sentenza di cui si deduca il mancato adempimento”. Ciò in
quanto “il giudizio di ottemperanza presuppone che l'amministrazione, cui si rivolge la statuizione
giudiziale, non abbia soddisfatto la pretesa di colui che abbia conseguito la sentenza favorevole e può
essere proposto solo quando l'amministrazione non abbia dato esecuzione ad un dictum giudiziale,
contenuto in una sentenza che abbia disposto la sua soccombenza”.
50
In questo senso Corte cost., 16 luglio 1996, n. 249, in Foro it., 1996, I, 2607.
23
Valgono perciò per il giudizio di ottemperanza le regole caratterizzanti i riti camerali (art. 87, comma 3):
tutti i termini processuali sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, tranne quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e
dei motivi aggiunti (ad esempio, il termine di deposito del ricorso è di quindici giorni
decorrenti dal momento in cui l'ultima notificazione dell'atto si è perfezionata anche
per il destinatario);
la camera di consiglio è fissata d'ufficio alla prima udienza utile successiva al
trentesimo giorno decorrente dalla scadenza del termine di costituzione delle parti intimate;
nella camera di consiglio sono sentiti i difensori che ne fanno richiesta.
Trova applicazione, nel rito qui in esame, l’art. 45, comma 2, del Codice, che ammette il deposito del ricorso, anche se non ancora pervenuto al destinatario, sin dal
momento in cui la notificazione del ricorso si perfeziona per il notificante. Tuttavia, il
compiuto adeguamento del rito al principio del contraddittorio poc’anzi ricordato dovrebbe escludere la possibilità di celebrare l’adunanza camerale prima che il ricorrente
abbia fornito la prova dell’effettiva ricezione della notificazione da parte dei legittimi
contraddittori51.
Nel precedente regime normativo era consentita, a domanda, la trattazione del ricorso in pubblica udienza (ex art. 27, ultimo comma, legge n. 1034/1971). Oggi tale facoltà non è più prevista; tuttavia, vale il principio secondo cui l’assunzione della decisione
a seguito di pubblica udienza non costituisce motivo di nullità della decisione stessa
(art. 87, comma 4, del Codice).
Peraltro, ai sensi dell’art. 112, comma 4, del Codice, la trattazione in pubblica udienza (sia in primo grado che in sede di eventuale impugnazione) sembra ineludibile
nel caso, poc’anzi richiamato, di cumulo dell’azione esecutiva con l’azione risarcitoria
di cui all’art. 30, comma 5, atteso l’obbligo di osservare le forme del rito ordinario.
11. Il cumulo di azioni
L’art. 112 del Codice individua, nei commi 3 e 4, alcuni casi di cumulo dell’azione
di ottemperanza con l’azione di condanna. Detti commi prevedono infatti che contestualmente al ricorso per esecuzione possano essere proposte:
a) azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi
maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza (comma 3, prima parte);
b) azione di condanna al risarcimento allorché siano derivati danni dalla mancata
esecuzione, violazione o elusione del giudicato (comma 3, seconda parte);
c) azione di condanna al risarcimento ai sensi dell’art. 30, comma 5, diretta cioè al
risarcimento del danno derivante dall’emanazione o esecuzione del provvedimento
amministrativo illegittimo (comma 4).
51
Per tale notazione, in relazione al giudizio di appello, v. A. POLICE, Le impugnazioni, in Giorn.
dir. amm., 2010, 1172.
24
Il caso sub a), pur sfociando in una pronuncia di condanna, presenta una teleologia
perfettamente armonica con lo schema generale dell’azione esecutiva, in quanto le domande rivolte al giudice hanno ad oggetto statuizioni che derivano proprio ed esattamente dalla mancata esecuzione della precedente sentenza, laddove impositiva di obblighi pecuniari in capo alla pubblica amministrazione nel contesto di un rapporto di
tipo obbligatorio (si pensi alle controversie in tema di pubblico impiego c.d. non contrattualizzato).
In relazione alle ipotesi sub b) e sub c), concernenti invece azioni (di condanna) a
fini risarcitori, non v’è dubbio che il Codice riconosca al giudizio di ottemperanza la
funzione di ristorare i danni nel modo più estensivo. La domanda risarcitoria potrà, così, proporsi congiuntamente ad un’esigenza strettamente esecutiva, afferente ai capi
della sentenza rimasta ineseguita (ad esempio, reintegrazione del pubblico dipendente
in un certo incarico o qualifica, in relazione ai quali siano rivendicati i compensi non
percepiti). Ma tale rimedio, come subito diremo, sembra da ammettere anche in relazione ai pregiudizi non direttamente discendenti dalla mancata o incompleta attuazione
dell’originario provvedimento giurisdizionale esecutivo.
In ambedue i casi sembra applicabile l’art. 90 del Codice, che assegna alla pubblicità della sentenza la valenza di mezzo atto a “contribuire a riparare il danno”. In presenza di tale presupposto, anche il giudice dell’ottemperanza, su istanza di parte, può ordinarla a cura e spese del soccombente, mediante inserzione per estratto, ovvero mediante comunicazione, nelle forme specificamente indicate, in una o più testate giornalistiche, radiofoniche o televisive e in siti internet da lui designati. Qualora l'inserzione non
avvenga nel termine stabilito dal giudice, può procedervi la parte a favore della quale è
stata disposta, che matura il diritto a ripetere le spese dall’obbligato.
Venendo ad una disamina più analitica, si osserva che la fattispecie sub b) presenta
caratteristiche di coerenza con l’azione esecutiva piuttosto marcate. Infatti il ricorrente,
nel momento in cui punta a realizzare l’assetto di interessi prefigurato nel giudicato o a
soddisfare la pretesa che in esso ha trovato tutela, ha altresì interesse a rivendicare i
danni originati dalla difformità dell’operato dell’amministrazione rispetto al giudicato
medesimo. Siamo quindi in presenza di un’ipotesi di cumulo: il ricorrente, accanto al
ristoro del pregiudizio, cercherà anche di ottenere l’esecuzione ancora possibile della
pronuncia inottemperata. È pertanto corretto, nella prospettiva della concentrazione
delle azioni, che tale possibilità gli sia offerta nell’unica sede dell’ottemperanza.
In un’ottica ulteriormente ampliativa potrebbe ammettersi il rimedio
dell’ottemperanza anche per rivendicare i danni derivanti dalla preclusione a realizzare
il giudicato, ove ciò risulti impedito de iure o de facto, o la situazione di fatto sia tale
per cui l’esecuzione risulterebbe eccessivamente onerosa. Tuttavia siffatta ipotesi, pur
prevista in una prima versione del Codice, è stata poi eliminata. Si è generato, così, uno
stato di incertezza; non è infatti chiaro se l’azione risarcitoria da mancata, impossibile,
o eccessivamente onerosa esecuzione possa essere proposta – oltre che autonomamente – anche congiuntamente all’azione di ottemperanza.
Valutati i pro e i contro, sembra preferibile la tesi negativa. Oltre alla già rilevata riformulazione dell’originario testo normativo, che evidentemente non può ritenersi del
tutto casuale, in tal senso depone un’ulteriore notazione: nelle evenienze da ultimo indicate l’azione sottende un’esigenza di monetizzazione dei vantaggi non più consegui-
25
bili attraverso l’esecuzione della sentenza (si pensi al caso in cui l’amministrazione appaltante, violando il giudicato, lasci eseguire le prestazioni del contratto pubblico, nella
loro totalità, all’aggiudicatario-controinteressato soccombente in giudizio). L’apertura
all’esperimento del rimedio dell’ottemperanza, dunque, verrebbe a collocarsi al di fuori
della cornice del cumulo di azioni, disattendendo la logica della concentrazione delle
tutele (esecutiva e risarcitoria) che sembra invece costituire la filosofia portante della
norma.
Peraltro, non è questa l’unica criticità dell’art. 112, comma 3, seconda parte, del
Codice. La disposizione fa espresso riferimento alla sola azione di danni in qualche
modo collegata al precedente giudicato, sicché il cumulo parrebbe prima facie escluso
in relazione ad un’azione risarcitoria che si radichi sulla mancata esecuzione, violazione o elusione di altro provvedimento giurisdizionale esecutivo (sentenza non passata in
giudicato o ordinanza cautelare), ovvero sulla circostanza che l’esecuzione di siffatto
provvedimento risulti impossibile o eccessivamente onerosa. Non v’è dubbio, tuttavia,
che una siffatta impostazione presenterebbe profili di irragionevolezza, poiché farebbe
dipendere il cumulo dalla circostanza estrinseca che la pronuncia giurisdizionale abbia
(acquistato) o meno il carattere del giudicato.
Ulteriori motivi di perplessità sono poi legati all’ipotesi divisata sub c) (art. 112,
comma 4). Essa ammette in sede di ottemperanza, mediante il richiamo all’art. 30,
comma 5, del Codice, il ristoro del danno nascente dall’intervenuta emanazione o esecuzione di un provvedimento amministrativo. Il legislatore non chiarisce, però, se si
tratti del solo danno “originario” derivante dal provvedimento annullato dal giudice
(nel rito ordinario), ovvero anche del danno “nuovo” provocato dal provvedimento violativo o elusivo del giudicato e contestato mediante il ricorso di ottemperanza. Anche
sulla scorta della relazione illustrativa, che fa riferimento alla possibilità di promuovere
l’ottemperanza “per la prima volta” onde ottenere il “risarcimento del danno derivante
dall’illegittimità del provvedimento”, sembra preferibile la prima ricostruzione. Diversamente non si riuscirebbe a distinguere con nettezza l’azione che ne occupa
dall’azione dianzi ricordata sub b) (art. 112, comma 3, seconda parte), la quale pare tesa a soddisfare un’esigenza di ristoro correlata alla mancata, incompleta o elusiva esecuzione della pronuncia giurisdizionale riveniente, oltre che dall’inerzia, anche
dall’azione provvedimentale della pubblica amministrazione.
In ogni caso, la disciplina dell’art. 112, comma 4, segna un avanzamento ragguardevole della tutela, tenuto conto delle forti resistenze giurisprudenziali in passato emerse rispetto all’idea che nel giudizio di ottemperanza potessero fare ingresso domande
implicanti un’attività cognitoria radicalmente nuova e diversa rispetto a quella già espletata nel primo giudizio, quale necessariamente è quella intesa all’accertamento dei
presupposti del risarcimento52. Sembra inoltre da condividere lo spirito della disposizione, informato - così come la stessa previsione dell’art. 30, comma 553 - alla più libera espressione della strategia processuale del ricorrente.
52
Cons. Stato, Sez. V 27 aprile 2006 n. 2374, in Foro amm.-Cons. Stato, 2006, 4, 1201; Sez. VI,
14 novembre 2003 n. 7292, in Foro amm.-Cons. Stato, 2003, 3412.
53
R. CHIEPPA, Il Codice del processo amministrativo, Milano, 2010, 488.
26
Né l’innovazione sembra avulsa dal sistema, stante da un lato la “connessione” che
comunque riallaccia i vari petita alla vicenda sostanziale, come peraltro la stessa disposizione del comma 4 sottolinea (“Nel processo di ottemperanza può essere altresì proposta la connessa domanda risarcitoria (…)”); e dall’altro la componente cognitoria “a
geometria variabile” che informa tradizionalmente il giudizio di ottemperanza.
Non da ultimo, appare necessario valorizzare il principio della concentrazione delle
tutele, che porta senza dubbio ad individuare nel giudice dell’esecuzione il migliore arbitro della scelta tra tutela esecutiva (eventualmente idonea a ripristinare lo status quo
ante senza lasciar residuare margini di danno ristorabile) e tutela risarcitoria. Piuttosto
si porrebbe il problema di conciliare tale componente con l’osservanza del principio del
doppio grado di giurisdizione ogniqualvolta il ricorso di ottemperanza investisse direttamente la competenza del Consiglio di Stato54. Se, infatti, il ricorrente può anche decidere di rinunciarvi, proponendo l’azione risarcitoria nella sede dell’ottemperanza anziché in via autonoma, come pure potrebbe, non è agevole comprendere per quale motivo le altre parti del giudizio dovrebbero subire una siffatta scelta. A meno di non voler intendere l’espressione utilizzata dall’art. 112, comma 4 (“In tal caso il giudizio di
ottemperanza si svolge nelle forme, nei modi e nei termini del processo ordinario”) alla
stregua di un’indicazione in favore dell’osservanza dei due gradi cognitori, e perciò
come vincolo anche per lo stesso ricorrente, in deroga al riparto di competenze sancito
successivo art. 113, comma 1.
Ma tornando alla disciplina positiva dettata dal Codice, è chiaro che l’azione di condanna al risarcimento di cui all’art. 112, comma 4, potrà sempre essere proposta in via
autonoma, secondo le coordinate tracciate dal precedente art. 30, comma 1. Ove il ricorrente intenda proporla - sussistendone la possibilità e l’interesse - nel corso del giudizio esecutivo, potrà farlo; ma in tal caso l’art. 112, comma 4, gli impone il rispetto
del termine di centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento, stante il richiamo al comma 5 dell’art. 30 ed al “termine ivi stabilito”. Resta
fermo che, in caso di reiezione della domanda di risarcimento in sede cognitoria, questa
non potrà essere riproposta in sede esecutiva, ostandovi il principio del “ne bis in idem”55.
È inoltre prescritta l’osservanza, per l’intero giudizio, delle forme e dei termini del
processo ordinario, a mente dell’art. 32, comma 1, del Codice. Ciò significa che qualora la domanda risarcitoria sia introdotta contestualmente alla domanda di ottemperanza,
il rito applicabile sarà ab initio quello ordinario. Viceversa, qualora la prima domanda
sia introdotta in via successiva, ossia nel corso del processo di ottemperanza, si avrà
una conversione del rito.
Si noti che, nel caso di provvedimento dannoso in quanto elusivo o violativo del
giudicato, l’art. 112, comma 3, non impone un termine specifico per l’esperimento
dell’azione di danno. Se ne dovrebbe concludere che l’unico limite sia quello decennale dell’actio iudicati. Tale soluzione, però, richiede di essere attentamente meditata,
poiché contrasta con l’esigenza che l’amministrazione (e quindi l’Erario) non sia espo54
Per questo aspetto Cons. Stato, Sez. VI 18 giugno 2002 n. 3332, in Foro amm.-Cons. Stato, 2002, 1505. Per una significativa apertura TAR Lazio, Sez. III, 5 dicembre 2006 n. 13805, in Giur.
merito, 2007, 2, 523.
55
Cons. Stato, Sez. V, 21 maggio 2010 n. 3218, in Foro amm. – Cons. Stato, 2010, 1051.
27
sta per tempi troppo prolungati ad aggressioni creditorie dei danneggiati. Essa, inoltre,
pare dissonante con il termine generale di cui all’art. 30, comma 3, che è di centoventi
giorni dalla conoscenza del provvedimento lesivo.
12. L’estinzione del giudizio di ottemperanza e la sentenza
L’estinzione del giudizio di ottemperanza ha luogo – di regola – solo a seguito di
sopravvenuta integrale esecuzione del provvedimento giurisdizionale che ne costituisce
presupposto 56.
Si noti che, secondo l’orientamento prevalente formatosi in materia, la proposizione
del giudizio, e persino l’intervenuta nomina del commissario ad acta, non spogliano
l’amministrazione del potere di porre in essere atti che costituiscano effettivo adempimento dell’obbligo di conformarsi al comando giudiziale 57. Questa tesi ha trovato un
addentellato testuale nell’art. 21-bis, comma 3, della legge n. 1034/1971, introdotto
dall’art. 2 della legge n. 205/2000, ove si prevedeva – sia pure in relazione al diverso
ambito dell’esecuzione delle sentenze “sul silenzio” – che all’atto dell’insediamento “il
commissario, preliminarmente all’emanazione del provvedimento da adottare in via
sostitutiva, accerta se anteriormente alla data dell’insediamento medesimo
l’amministrazione abbia provveduto, ancorché in data successiva al termine assegnato
dal giudice amministrativo (…)”.
Detta norma è stata abrogata, senza sostituzione con previsione analoga, dal Codice
del processo amministrativo, ma la solidità teorica e dogmatica su cui si fonda la tesi
della inesauribilità del potere amministrativo consente riconoscerne l’attualità anche
prescindendo dalla carenza di un appiglio letterale.
Sul versante processuale, la permanenza del potere in capo all’amministrazione
comporta che l’adozione di atti adempitivi del provvedimento giurisdizionale esecutivo, indipendentemente dalla soddisfazione dell’interesse del ricorrente, provochi
l’improcedibilità del giudizio di ottemperanza per sopravvenuta carenza di interesse
in base all’art. 35, comma 1, lett. c), del Codice.
Si ha invece improcedibilità per cessazione della materia del contendere (art. 34,
comma 5, del Codice) quando gli atti adempitivi producano la piena soddisfazione
dell’interesse del ricorrente58. Se, infatti, lo scopo del giudizio di ottemperanza è quello
di consentire alla parte vittoriosa di ottenere la soddisfazione concreta e completa del
suo interesse, una volta intervenuto un provvedimento effettivamente favorevole
dell’amministrazione tale giudizio avrà esaurito la sua funzione.
L’art. 114, comma 3, del Codice, dispone che il giudice dell’esecuzione decide con
sentenza in forma semplificata. Conformemente all’art. 74 del Codice, pertanto, la
56
Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 18 marzo 1964, n. 258, in Cons. Stato, 1964, I, 587.
In questa direzione v. Cons. Stato, Sez. V, 13 marzo 1973, n. 259, in Cons. Stato, 1973, I, 423.
Più recentemente, Id., 6 ottobre 1999, n. 1329, in Foro amm., 1999, 2069, nonché Id., 21 novembre
2003, n. 7617, in Foro amm.-Cons. Stato, 2003, 3391, la quale ultima ha ipotizzato una competenza
concorrente del commissario ad acta e dell’amministrazione.
58
Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 23 ottobre 1963, n. 792, in Cons. Stato, 1963, I, 1464.
57
28
decisione dovrà essere succintamente motivata e tale motivazione potrà eventualmente
consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo,
ovvero ad un precedente conforme. Queste indicazioni, e la stessa forma succinta della
motivazione, appaiono di non agevole trasponibilità alla sentenza di ottemperanza; il
relativo giudice, essendo vocato ad integrare e precisare i precetti che serviranno per la
corretta riedizione del potere (art. 114, comma 4, lett. a), ovvero a chiarire le precedenti
statuizioni giudiziali (art. 114, comma 7), non potrà certamente indulgere ad
un’eccessiva compressione della parte motiva.
Se è chiesta l’esecuzione di un’ordinanza cautelare, l’art. 114, comma 5, dispone
che il giudice provveda con ordinanza.
Non è dubbio, in ogni caso, che nel momento in cui definisce il giudizio di ottemperanza - con sentenza o con ordinanza - il giudice debba anche provvedere sulle spese di
lite, secondo la previsione generale dettata dall’art 26 del Codice; tale obbligo è infatti
riconnesso all’emanazione di una qualunque “decisione” (comma 1 dell’art. 26 cit.),
non escluse pertanto quelle rese ai sensi dell’art. 114, commi 3 e 5, del Codice. Nulla
osta peraltro ad ammettere che, in sede di ottemperanza, il giudice amministrativo, nel
pronunciare sulle spese, possa condannare, anche d'ufficio, la parte soccombente al
pagamento in favore dell'altra parte di una somma di denaro equitativamente stabilita come previsto dall’art. 26, comma 2, del Codice; ciò può ad esempio accadere
quando l’amministrazione esegua in modo volutamente erroneo o incompleto il
provvedimento giurisdizionale esecutivo pur in presenza di orientamenti consolidati che ne avrebbero potuto indirizzare correttamente l’azione.
L’art. 115, comma 1, del Codice prevede che le pronunce del giudice amministrativo che costituiscono titolo esecutivo sono spedite in forma esecutiva se una o più delle parti ne facciano richiesta. A norma del successivo comma 2 del Codice i provvedimenti del giudice amministrativo che dispongano il pagamento di somme di denaro
(pensiamo alle sentenze di condanna ex art. 30 del Codice ed ai provvedimenti ingiuntivi di cui al successivo art. 118) costituiscono titolo anche per l’esecuzione nelle forme
disciplinate dal Libro III del c.p.c. e per l’iscrizione di ipoteca, secondo la regola generale dell’art. 2818 c.c. (“Ogni sentenza che porta condanna al pagamento di una somma
o all'adempimento di altra obbligazione ovvero al risarcimento dei danni da liquidarsi
successivamente è titolo per iscrivere ipoteca sui beni del debitore. Lo stesso ha luogo
per gli altri provvedimenti giudiziali ai quali la legge attribuisce tale effetto”).
La vigente disciplina autorizza quindi l’esecuzione a norma del codice di procedura
civile in via alternativa rispetto al giudizio di ottemperanza, ma unicamente per i
provvedimenti che dispongano il pagamento di somme di denaro. Per ottenere
l’adempimento degli obblighi di facere la strada dell’ottemperanza rimane obbligata.
Da notare, comunque, il netto superamento della disciplina in precedenza dettata dal
regolamento di procedura, che ammetteva la spedizione in forma esecutiva unicamente
per il capo di sentenza inerente alle spese (art. 89 del r.d. 642/1907); naturalmente,
proprio perché tale capo dispone il pagamento di una somma di denaro (v. art. 26 del
Codice), la fattispecie sopravvive in quanto assorbita dalla nuova formulazione.
Rimangono ovviamente ferme tutte le disposizioni che prevedono limiti, sostanziali
o procedurali, all’esecuzione forzata civile. Pensiamo alla necessità di attendere i centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo che l’art. 14, comma 1, della L.
29
69/2009 assegna alle amministrazioni dello Stato ed agli enti pubblici non economici
per completare “le procedure per l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei
lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l'obbligo di pagamento di somme
di danaro”59; nonché alla minuta disciplina dettata per gli enti locali dall’art. 159 del
D.Lgs. 267/2000.
Il comma 3 dell’art. 115 chiarisce che, ai fini del giudizio di esecuzione avanti al
giudice amministrativo, non è necessaria l’apposizione della formula esecutiva.
13. Le impugnazioni
In merito alle impugnazioni avverso le pronunce (sentenze o ordinanze) del giudice
dell’ottemperanza, l’art. 114, comma 8 si limita a stabilire che le disposizioni del Titolo I del Libro IV “si applicano anche alle impugnazioni avverso i provvedimenti giurisdizionali adottati dal giudice dell’ottemperanza”, mentre il successivo comma 9, precisa che i termini per la proposizione delle impugnazioni sono quelli previsti nel Libro
III del Codice.
Ne consegue da un lato che, fatti salvi i termini di ciascuno specifico mezzo di impugnazione, le regole del processo esecutivo si estendono in toto al giudizio di impugnazione (a partire dalla dimidiazione generale dei termini propri del rito camerale)60; e
dall’altro che, in caso di assorbimento del rito esecutivo nel rito ordinario ai sensi
dell’art. 112, comma 4, del Codice, il relativo regime processuale opera anche nel giudizio di impugnazione.
Il Codice del processo amministrativo non prevede limiti all’appellabilità delle
sentenze emesse dai tribunali amministrativi regionali in sede di ottemperanza, apparentemente superando i distinguo del passato imperniati sull’atomistica ascrizione alle
varie statuizioni giudiziali di una natura cognitoria piuttosto che strettamente esecutiva.
Giova ricordare che, secondo il monolitico indirizzo affermatosi in precedenza, la sentenza di ottemperanza resa in primo grado, nella parte in cui non avesse inteso dettare
mere misure attuative della pronuncia giurisdizionale ineseguita, bensì definire questioni attinenti alla ritualità del giudizio, alle condizioni soggettive ed oggettive dell'azione nonché alla fondatezza della pretesa, era considerata impugnabile in grado di appello; sicché per la pronuncia non avente carattere meramente preparatorio o istruttorio
e non contenente statuizioni puramente esecutive, valeva la regola generale dell'appellabilità, anche in ossequio al principio costituzionale del doppio grado di giudizio ex
art. 125 Cost.61.
59
Infatti prima di tale termine, secondo la richiamata disposizione, il creditore non può procedere
ad esecuzione forzata né alla notifica dell’atto di precetto.
60
L’art. 114, comma 9, del Codice estende al giudizio di ottemperanza i “termini per la proposizione delle impugnazioni” di cui al Libro III, da intendersi quali termini di notificazione dei mezzi di
impugnazione. Il rinvio va perciò limitato al solo art. 92 del Codice e non anche all’art. 94, sul termine di deposito.
61
Cons. Stato, Sez. IV, 16 giugno 2008 n. 2986, in Foro amm.-Cons. Stato, 2008, 1725 ; Id., Sez.
VI, 29 luglio 2004 n. 5353, in Foro amm.-Cons. Stato, 2004, 2260; Id., Sez. IV, 17 giugno 2003, n.
30
Oggi il silenzio del Codice potrebbe far immaginare un complessivo ripensamento
di questo approccio in funzione della semplificazione dei compiti del giudice d’appello
(e prima ancora dei patrocinatori, per l’innanzi sempre esposti ad errori nella separazione e qualificazione delle varie statuizioni della sentenza appellata), del concepimento della sentenza di prime cure quale mixtum compositum spesso inestricabile di cognizione, esecuzione ed ottemperanza, nonché della massima espansione della garanzia
del doppio vaglio giurisdizionale in fase esecutiva.
Del resto, se l’art. 114 comma 8 del Codice implicitamente - ma senza deroghe ammette l’impugnazione dei “provvedimenti giurisdizionali adottati dal giudice
dell’ottemperanza”, pare difficile negare il rimedio impugnatorio anche relativamente
alle statuizioni meramente attuative della precedente sentenza, poiché esse partecipano
pur sempre della natura giurisdizionale. Né può disconoscersi l’utilità di proporre un
appello che ad esempio, pur a fronte di un contenuto “certo” della sentenza ineseguita,
valga a consentire una rimeditazione del percorso esecutivo rimesso
all’amministrazione, anche solo per motivi di opportunità, convenienza, economicità ed
efficacia della sua azione.
Avverso la sentenza pronunciata in sede di esecuzione si deve comunque ritenere
ammissibile senza limiti, proprio per la componente cognitoria che connota tale giudizio, l’opposizione di terzo. La relativa legittimazione dovrà riconoscersi in capo al titolare di una posizione autonoma e incompatibile che, per via della sentenza, abbia subito un pregiudizio in una propria situazione giuridica soggettiva, ovvero agli aventi
causa ed ai creditori di una delle parti, quando la decisione sia effetto di dolo o collusione a loro danno (art. 108, commi 1 e 2, del Codice).
Le sentenze rese dal Consiglio di Stato in sede di ottemperanza sono soggette a ricorso per Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione. Opera dunque la regola
generale sancita dall’art. 110 del Codice per quanto, in verità, appaia assai arduo ravvisare una violazione dei “limiti esterni” della giurisdizione amministrativa in un contesto di giurisdizione di merito. I soggetti legittimati a proporre ricorso per Cassazione
sono, comunque, il privato e l’amministrazione soccombente, anche se diversa da quella competente ad emettere l’atto dovuto in esecuzione del giudicato.
14. I poteri del giudice dell’ottemperanza
Il giudizio di ottemperanza tende all’attuazione del comando giudiziale evidenziando caratteri sui generis e natura mista; in esso coesistono infatti, come già rilevato, le peculiarità del processo di cognizione (riferite all’accertamento
dell’inadempimento imputabile all’amministrazione ed all’attività determinativa del
giudice) e del processo di esecuzione (riferite all’attività di realizzazione del precedente comando giudiziale sotto l’aspetto strettamente esecutivo); ad essi si aggiungono i
caratteri propri della componente che nel previgente regime processuale veniva ricondotta all’ottemperanza, essendo il giudice autorizzato alla produzione di nuovi effetti
3443, in Foro amm.-Cons. Stato, 2003, 1855; Id., Sez. VI, 10 aprile 2003, n. 1918, in Foro amm.Cons. Stato, 2003, 1389; Id., Sez. V, 8 luglio 2002, n. 3789, in Foro amm.-Cons. Stato, 2002, 1716.
31
giuridici anche in via sostituiva rispetto alla pubblica amministrazione inadempiente.
Va a questo punto precisato, tuttavia, che a tali coordinate solo in parte appare improntata l’azione esecutiva delucidativa di cui all’art. 112, comma 5, del Codice, a
mente del quale “L’azione esecutiva può essere proposta anche al fine di ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza”. In questo ambito, infatti, la componente cognitoria appare decisamente assorbente, mentre scompaiono le componenti
dell’esecuzione e dell’ottemperanza.
Si deve peraltro notare, a scanso di equivoci, che la “chiarificazione”, correttamente
identificata quale fine dell’azione delucidativa, non produce alcuna limitazione quanto
all’ambito dei poteri cognitori e decisori del giudice investito della controversia. Pertanto l’espressione impiegata dall’art. 114, comma 7, del Codice, secondo cui “Nel caso di azione di cui al comma 5 dell’articolo 112, il giudice fornisce chiarimenti in ordine alle modalità di esecuzione (…)”, va interpretata cum grano salis: i poteri del giudice interpellato per i “chiarimenti” non devono ritenersi confinati alla mera interpretazione e pedissequa esplicazione del precedente provvedimento, potendo egli, nella delineata ottica di delucidazione e di miglior dispiegamento del comando giudiziale, procedere ad una specificazione ed integrazione dei precetti di condotta ivi contenuti; ciò,
evidentemente, anche al fine di precostituire una più precisa cornice di normae agendi
per l’amministrazione.
Occorrerebbe anzi chiedersi se, in vista di tale finalità, non sia da riconoscere quale
legittimata all’azione, accanto al ricorrente ed al commissario ad acta (rispettivamente
legittimati in base agli artt. 112, comma 5, e 114, commi 6 e 7), anche la stessa amministrazione, privilegiandosi ad un tempo la duplice esigenza di evitare errori - e quindi
un vano dispendio di energie amministrative - in fase esecutiva e di prevenire nuove
contestazioni ed impugnazioni ad opera del ricorrente vittorioso. Sembra doversi privilegiare la tesi positiva, non potendo opporsi in contrario la circostanza che l’art. 114,
comma 1, del Codice prescriva la notificazione alla sola pubblica amministrazione: la
disposizione sembra infatti costituire null’altro che una presa d’atto dell’id quod plerum accidit, né reca alcun indizio ermeneutico che faccia ipotizzare un’esaustiva enucleazione, in essa, del novero dei legittimati passivi.
Appare nondimeno evidente che, a fronte della mera richiesta di chiarimenti da parte del ricorrente, il giudice non potrà spingersi sino al punto di esercitare i poteri sostituivi nei riguardi della parte pubblica, direttamente o tramite la nomina di un commissario ad acta (beninteso, ove non ancora nominato). Tale approccio sarebbe infatti contrario al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c.
che, in quanto principio generale, è certamente applicabile al processo amministrativo
in generale, ed al processo esecutivo in particolare, in virtù del “rinvio esterno” disposto dall’art. 39 del Codice del processo amministrativo.
Tralasciando tale peculiare ipotesi, sul cui ambito operativo e sui cui confini molto
potrà dire la giurisprudenza a venire, l’ampiezza dei poteri del giudice
dell’ottemperanza, giustificata dalla funzione che il giudizio, come si è visto, ha acquistato nel tempo, è scolpita nella disposizione che ricomprende il giudizio stesso tra i
casi della giurisdizione “estesa al merito” (art. 134, comma 1 lett. a) del Codice; ma v.
32
già, relativamente al giudizio di ottemperanza, l’art. 27, n. 4, t.u. Cons. Stato)62.
Occorre peraltro intendersi proprio sulla diversa connotazione che assume,
nell’attuale contesto, il riconoscimento di una giurisdizione di merito, che a ben vedere
sopperisce oggi ad una funzione ben diversa da quella delle origini. La conservazione
di tale tipo di giurisdizione, infatti, non appare più strumentale all’esercizio dei poteri
di cognizione del giudice amministrativo (concentrati sull’obbligo di conformarsi al
provvedimento giurisdizionale esecutivo), ma piuttosto a quelli di decisione, dovendosi garantire a tale giudice la disponibilità di una gamma di mezzi di intervento più ampia di quella che informa la giurisdizione generale di legittimità: si pensi, emblematicamente, proprio al qualificante potere sostitutivo o al potere di nomina del commissario ad acta, sul quale tra breve si tornerà.
Al di là dei casi - già esaminati supra, sub par. 8 - inerenti alla dichiarazione di
nullità degli atti adottati in violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma 4,
lett. b), o di inefficacia degli atti inadempitivi di provvedimenti diversi dalle sentenze
passate in giudicato (art. 114, comma 1, lett. c), il Codice prevede che il giudice, in caso di accoglimento del ricorso per esecuzione:
- ordina l’ottemperanza del provvedimento giurisdizionale originario, prescrivendo
le relative modalità, anche mediante la determinazione del contenuto del (futuro)
provvedimento amministrativo o l’emanazione dello stesso in luogo
dell’amministrazione (art. 114, comma 4, lett. a);
- nomina, ove occorra, un commissario ad acta (art. 114, comma 4, lett. d);
- salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e non sussistano altre ragioni ostative,
fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’amministrazione per ogni
violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo (art. 114, comma 4, lett. e);
Rispetto al precedente quadro normativo, il Codice ha inteso specificare maggiormente i poteri del giudice dell’ottemperanza attribuendogli espressamente il compito di
prescrivere le modalità attuative della pronuncia da eseguire. Come però ben si vede,
anche nell’attuale contesto processuale l’aspetto saliente dello strumento di tutela esecutivo risiede nel potere di sostituzione del giudice; il quale, al fine di rendere effettiva la tutela del ricorrente, può giungere fino all’adozione di atti amministrativi che
comportino uso di discrezionalità amministrativa. A meno che, ovviamente, non gli
venga rivolta un domanda esecutiva meramente delucidativa (art. 112, comma 5, del
Codice), valendo in tal caso i limiti già individuati più sopra, pur nell’ampiezza non
comprimibile dei poteri cognitori.
L’estensione dei poteri giudiziali così come disegnati dall’art. 114, comma 4, del
Codice è del resto coerente con le previsioni dettate dall’art. 34, comma 1, lett. d), secondo cui il giudice amministrativo, “nei casi di giurisdizione di merito, adotta un
nuovo atto, ovvero modifica o riforma quello impugnato”.
I modi di esercizio dei poteri sostitutivi sono liberamente stabiliti dal giudice
dell’ottemperanza. Questi ha facoltà di adottare direttamente i provvedimenti neces62
Storicamente il giudizio di ottemperanza rappresenta l’unica ipotesi in cui la nozione di giurisdizione di merito ha assunto, nella giurisprudenza, una qualche pratica rilevanza. Peraltro il Codice
del 2010 sembra voler rivitalizzare tale ambito di giurisdizione.
33
sari al fine della integrale attuazione del provvedimento giurisdizionale ineseguito; potrebbe cioè, dopo aver eventualmente assegnato all’amministrazione un termine per
adottare il provvedimento, specificandone il contenuto, sostituire de plano la propria
decisione sull’assetto degli interessi all’omesso (ovvero nullo, o ancora inefficace)
provvedimento dell’amministrazione63.
15. Il commissario ad acta
Prima dell’emanazione del Codice, e particolarmente nei casi in cui l’attuazione del
giudicato avesse comportato esercizio di potere discrezionale, si è riscontrata una certa
propensione dei giudici amministrativi a rifuggire dall’ipotesi della sostituzione diretta
per fare invece luogo alla nomina (anche nella medesima sentenza recante il termine di
adempimento) di un commissario ad acta, figura di stretta costruzione giurisprudenziale abilitata a provvedere in luogo dell’amministrazione dopo il decorso del termine.
E’ ragionevole immaginare che tale prassi, per quanto non imposta del Codice che anzi
lascia ampio margine di scelta al giudice (la nomina del commissario è solo una delle
molteplici opzioni decisionali possibili in sede di esecuzione), si perpetuerà anche in
futuro.
L’art. 114, comma 4, nelle lett. a) e c), viene peraltro ad esplicitare il potere del
giudice di prescrivere le modalità di esecuzione del dictum giudiziale, onde chiarificare
la cornice contenutistica all’interno della quale il successivo agire provvedimentale
dell’amministrazione dovrà collocarsi e prevenire, in tal modo, la necessità di un nuovo
intervento della giurisdizione finalizzato a nominare il Commissario ad acta. Non
sfugga al riguardo che il Commissario viene nominato soltanto “ove occorra”: tale espressione normativa indubbiamente conferma che la nomina commissariale è una
semplice facoltà – e non un obbligo – del giudice, cui attingere in vicende complesse
ed involgenti atti ampiamente discrezionali64; essa, però, potrebbe sottendere l’auspicio
che l’efficacia direttiva della sentenza di esecuzione, compatibilmente con la forma
succinta prescritta per la relativa motivazione (art. 114, comma 3), possa evitare di
giungere alla sostituzione giudiziale, che costituisce sempre un’avocazione di potere
amministrativo e, pertanto, una conseguenza da circoscrivere ad ipotesi limite.
63
Emblematiche dell’ampiezza dei poteri del giudice dell’ottemperanza sono Cons. Stato, Ad.
Plen., 30 luglio 2008 n. 9, in Foro it., 2008, III, 549 e Id., 21 novembre 2008 n. 12, in Foro amm. –
Cons. Stato, 2008, 11, 2964. In base a tali decisioni, a fronte di una sentenza di annullamento
dell’aggiudicazione di una gara pubblica (e nonostante l’intervenuta stipula, medio tempore, del contratto), il giudizio di ottemperanza consente di procedere alla reintegrazione in forma specifica
dell’originario ricorrente ed alla sua sostituzione all’aggiudicatario. Nell’attuale quadro normativo
(art. 122 del Codice) il previsto subentro – ove possibile – del ricorrente al primo contraente riconduce all’alveo del giudizo di cognizione i poteri in precedenza esercitabili in sede di ottemperanza: sul
punto E. FOLLIERI, I poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e
negli artt. 120 – 124 del Codice del Processo Amministrativo, in Rivista telematica www.giustamm.it,
n.9/2010, 45 e 46.
64
M. CLARICH, L’effettività della tutela nell’esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo,
in Dir. proc. amm., 1998, 540.
34
Verso lo stesso obiettivo sembrerebbe peraltro convergere la previsione inerente alla determinazione giudiziale della somma di denaro dovuta dall’amministrazione per
successive violazioni o ulteriori ritardi (art. 114, comma 4, lett. e).
Questa disposizione, concepita sulla falsariga delle astreintes del diritto francese al
fine di debellare i non infrequenti atteggiamenti tentennanti delle amministrazioni (che
non di rado preferiscono attendere la nomina del Commissario per non assumersi la responsabilità di decisioni ‘scomode’) punta ad incrementare il livello di effettività della
tutela e ad indurre l’amministrazione a prestare osservanza ‘spontanea’ al provvedimento esecutivo. Essa presenta però alcune criticità che spetterà alla giurisprudenza a
venire risolvere.
Ad esempio, si pensi ai possibili riflessi prodotti in termini di responsabilità amministrativa: la fissazione preventiva della somma dovuta dovrebbe essere un deterrente
concepito perché l’amministrazione, adoperandosi per l’attuazione del giudicato, eviti
l’insorgere di successive pretese risarcitorie in capo al ricorrente, prevenendo così
l’intervento della Corte dei Conti sul funzionario che ha cagionato il danno; ma in effetti tale intervento non è affatto scongiurato, ed anzi rischia persino di essere amplificato, ove si considerino gli esborsi correlati alle effettive violazioni via via riscontrate,
che costituiscono altrettante fattispecie di danno erariale.
Ovviamente, poiché la previsione in parola trova la sua matrice nell’art. 614-bis
c.p.c. , relativo all’attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare, i problemi
ermeneutici irrisolti inerenti a tale disposizione processualcilvistica vengono importati
nel nuovo Codice del processo amministrativo; tra di essi risaltano in particolare quelli
inerenti alla definizione di ciò che è “manifestamente iniquo”, tenendo soprattutto conto che nel campo del diritto pubblico le nozioni di equità ed iniquità non attengono ad
un mero conflitto di interessi interprivato, ma devono fare i conti con l’interesse generale. Si noti poi che a tale espressione la norma del Codice aggiunge, innovativamente
rispetto al c.p.c., il riferimento alle “altre ragioni ostative”: si tratta di una locuzione
quanto mai indeterminata che chiama in causa un’ampia discrezionalità del giudice e
che, se parametrata al ruolo, alla funzione ed al patrimonio dell’amministrazione pubblica, i cui esborsi ricadono in fin dei conti sui cittadini e quindi sulla collettività, assume un rilievo di estrema delicatezza.
La scelta della persona del commissario non è legata, dall’art. 114 del Codice, a
vincoli precisi. Lo stesso dicasi in ordine all’art. 21 del Codice, ove si dispone laconicamente che “Nell’ambito della propria giurisdizione, il giudice amministrativo, se deve sostituirsi all’amministrazione, può nominare un commissario ad acta”. Dunque il
legislatore rimette al giudice dell’ottemperanza un ampio spazio valutativo
nell’individuare la persona più idonea a ricoprire il diverso incarico commissariale; ciò
distingue profondamente la figura del commissario da quella del verificatore e del consulente tecnico che, secondo le previsioni dell’art. 20, comma 1, del Codice, vengono
scelti in alcune specifiche categorie di soggetti dotate di competenza tecnica. In effetti,
nel commissario – come è esperienza quotidiana – non si postula, in genere, il possesso
di nozioni equiparabili a quelle richieste per l’esercizio delle funzioni peritali. Nulla
osta, peraltro, a nominare - come in passato spesso è avvenuto – dipendenti pubblici
particolarmente versati nella materia oggetto di causa, dirigenti dello stesso ufficio
amministrativo adito in sede di ottemperanza, ovvero magistrati amministrativi a ripo-
35
so.
Frequente è stata, in passato, anche la nomina a commissario di un soggetto facente
parte della stessa amministrazione inadempiente; questa possibilità è ora implicitamente avallata dal Codice, posto che l’art. 21 non la vieta. Esigenze di imparzialità suggerirebbero tuttavia, ove la nomina investisse la dirigenza pubblica, di affidare l’incarico a
soggetto appartenente ad un’amministrazione diversa da quella inottemperante, quale
ad esempio quella dotata di poteri di vigilanza su quest’ultima.
La giurisprudenza ammette da tempo che il Commissario ad acta possa avvalersi di
collaboratori per lo svolgimento dei propri incombenti, riconoscendogli una certa autonomia di scelta (salvo vaglio del giudice dell’ottemperanza sulla scelta stessa, ove non
previamente autorizzata dal collegio)65.
Il compito del commissario ad acta consiste nell’adozione di quei provvedimenti
amministrativi che si rendano necessari o per riempire il vuoto conseguente all’inerzia
dell’amministrazione o per sostituire l’attività posta in essere da quest’ultima, quando
non corrispondente alla piena ed esatta realizzazione del dictum sostanziale contenuto
nel provvedimento giurisdizionale ineseguito, così come eventualmente specificato nella pronuncia di esecuzione.
A tale fine il commissario segue le direttive del giudice dell’esecuzione, potendo ricavare le prescrizioni operative sia dal provvedimento giurisdizionale rimasto ineseguito sia dal provvedimento (sentenza o ordinanza) che chiude il giudizio di esecuzione.
Correttamente, quindi, all’attività del commissario si riconosce la funzione strumentale
di adeguamento della realtà materiale e giuridica alle statuizioni contenute nel provvedimento esecutivo; trattasi, infatti, di quella stessa attività che il giudice
dell’esecuzione, in via di sostituzione dell’amministrazione, avrebbe avuto il potere di
porre in essere direttamente 66. Il costante orientamento qualifica il termine assegnato
dal giudice al Commissario ad acta per dare concreta attuazione al giudicato come non
perentorio, sicchè il suo eventuale spirare non provoca decadenza del nominato dai poteri commissariali67.
Le premesse poste inducono a riconoscere al commissario non già la natura di organo straordinario dell’amministrazione (come pure da alcuni sostenuto in passato), bensì
quella di organo ausiliario del giudice, in quanto è il giudice che nomina il commissario, dal giudice questi deriva i propri poteri di sostituzione, ed è sempre il giudice, investito del compito di dirigere l’esecuzione, ad indirizzare ed orientare la sua attività.
Siffatta qualificazione del resto, già avallata dalla Corte Costituzionale 68, appare adesso pacifica stante la collocazione dell’art. 21 del Codice nel Libro I, Titolo I, Capo VI
(“Ausiliari del giudice”).
65
Cons. Stato, Sez. IV, 20 giugno 1994 n. 525, in Foro amm., 1994, 1404.
Al commissario non è, però, demandata un’attività di mera esecuzione della sentenza, dovendo
tale organo ricercare un contemperamento tra l’interesse pubblico e quello privato: in tal senso v. G.
BERTI, Corso breve di giustizia amministrativa, Padova, 2004, 263.
67
Cons. Stato, Sez. V, 18 gennaio 2010 n. 136, in Foro amm – Cons. Stato, 2010, 128, ove si
specifica che tale impostazione è coerente con la funzione affidata al Commissario di far conseguire
all'interessato il bene della vita; funzione che perciò cessa solo con la piena ed integrale attuazione del
comando contenuto nella sentenza ottemperanda.
68
Corte cost., 12 maggio 1977 n. 75, in Foro amm., 1979, I, 875.
66
36
Il ricorrente, laddove intenda impugnare gli atti commissariali, potrà certamente
continuare a giovarsi, come in passato, dello strumento del ricorso (o reclamo) al giudice dell’ottemperanza, per il principio generale secondo il quale l’organo legittimato
ad avere cognizione sugli incidenti verificatisi in sede di esecuzione è lo stesso che la
dirige; questa conclusione appare necessitata, oggi, dalla previsione dell’art. 114,
comma 6, del Codice, a mente del quale “Il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta ottemperanza, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario”. La
disposizione - che all’evidenza postula l’applicazione della disciplina processuale propria del ricorso in ottemperanza, stante l’assenza di una diversa regolamentazione ad
hoc - costituisce un’ennesima conferma circa l’interconnessione tra funzione commissariale e giurisdizione, escludendo definitivamente la tesi della natura amministrativa
del commissario.
Sembrerebbe respinta, dal nuovo Codice, l’ipotesi che degli atti commissariali possa conoscere un giudice diverso da quello dell’ottemperanza69; e ciò sebbene gli effetti
di quegli atti abbiano a manifestarsi integralmente nell’ambito circoscrizionale di un
Tribunale amministrativo diverso da quello che cura l’esecuzione. Il rilievo appare significativo poiché in passato, quando la contestazione degli atti commissariali fosse
stata imputabile a soggetti terzi rispetto alle parti del giudizio, si richiedeva
l’instaurazione di un nuovo processo di cognizione di fronte al Tribunale amministrativo regionale che risultasse di volta in volta territorialmente competente 70.
Rimane però dubbio il regime applicabile in presenza di atti dell’amministrazione o
del commissario i cui vizi non si identifichino con profili di contrasto rispetto alle pregresse statuizioni giurisdizionali. L’art. 114, comma 6, a ben vedere, non esclude affatto che le relative censure, in quanto esulanti dalle “questioni relative all'esatta ottemperanza” e quindi non rapportabili all’ambito della conformazione alla sentenza, possano proporsi in sede di ordinario giudizio di legittimità.
Allo stato, il perentorio tenore del richiamato comma 6 sembra sgomberare il campo da tali soluzioni, poiché il giudizio esecutivo, nella sua indeclinabile configurazione
di giurisdizione di merito, viene elevato a sede propria ed unica del sindacato sugli
atti commissariali, senza apparenti eccezioni. Non mancano tuttavia opinioni di segno
contrario, che privilegiano la soluzione del ricorso in sede di cognizione ordinaria da
parte del terzo pregiudicato dagli atti commissariali; e ciò a dispetto alle esigenze di
concentrazione pur contemplate dal Codice71.
Per parte dell’amministrazione, è noto che ad essa è precluso di rimuovere in via di
autotutela i provvedimenti commissariali; restando dunque inservibile l’art. 21-octies
della legge n. 241/90, la contestazione degli atti commissariali dovrà svolgersi interpellando il collegio investito dell’esecuzione72.
69
Ipotesi già rifiutata dalla costante giurisprudenza, la quale ha ritenuto incongruo che il sindacato sull'operato dell'ausiliario di un giudice sia demandato ad un giudice diverso da quello che ha pronunciato l’ordine da eseguire: ex plurimis Cons. Stato, Sez. V, 15 aprile 2010 n. 2153, in
www.giustizia-amministrativa.it.
70
Cons. Stato, Sez. IV, 3 aprile 2001, n. 1999, in Foro it., 2001, III, 474.
71
R. CHIEPPA, Il Codice del processo amministrativo, cit., 493.
72
Per questo orientamento, prima del Codice, v. Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 1995 n. 298, in
Cons. Stato, 1995, I, 232.
37
Ma non solo: il comma 6 ora riportato, ispirandosi ad un notevole tasso di informalità del rito, sembra voler avallare la possibilità, in passato accreditatasi presso alcuni
tribunali amministrativi regionali, di fissare - pur senza contestazione di parte - apposite camere di consiglio all’esito delle quali, nel contraddittorio delle parti, fornire al
commissario le direttive ed i chiarimenti da questo richiesti circa il modus procedendi
operativo. Tale ricostruzione trova peraltro avallo nel successivo comma 7, secondo il
quale i chiarimenti forniti dal giudice in ordine alle modalità di ottemperanza, a seguito
del ricorso di cui al comma 5 dell’art. 112, possono essere resi “anche su richiesta del
commissario”.
Ovviamente, stante la carenza, in capo al Commissario, di una situazione giuridica
soggettiva di diritto sostanziale, la soluzione ora detta rende necessario riconoscere a
tale figura una legittimazione straordinaria73. Ma essa non potrebbe dirsi inappropriata o decontestualizzata, considerando la sua evidente consonanza con lo strumento già illustrato - dell’azione esecutiva delucidativa (art. 112, comma 5, del Codice) mediante il quale le parti perseguono, in fin dei conti, lo stesso obiettivo di chiarezza proprio avvalendosi della sede camerale.
Va da sé che il finalismo precipuo del rimedio esecutivo, posto a presidio del supremo valore dell’effettività esecutiva della tutela giurisdizionale, merita di essere perseguito anche al cospetto di un’eventuale inerzia serbata dal Commissario ad acta. Ne
consegue, in armonia con il comma 6 più volte menzionato, l’attivabilità del reclamo al
collegio anche in tale eventualità, se del caso su iniziativa della stessa amministrazione,
alla quale la situazione di stallo potrebbe nuocere non meno che al ricorrente. Inoltre
una simile condotta del commissario potrà essere anche valutata ai fini di una sua sostituzione; potere rispetto al quale il giudice dell’esecuzione, anche se non sollecitato dalle parti, non sembra incontrare specifici limiti normativi.
Pur se l’ipotesi appare meramente teorica, non può escludersi che gli atti del commissario siano radicalmente nulli ovvero inefficaci se violativi o elusivi del pregresso
pronunciamento giurisdizionale. Si applicheranno allora le regole ed i termini propri
della domanda di accertamento della nullità già visti supra, sub par. 8.
16. L’esecuzione delle ordinanze cautelari
Secondo quanto dispone l’art. 59 del Codice, qualora i provvedimenti cautelari non
siano eseguiti, in tutto o in parte (dalla pubblica amministrazione), l’interessato, con
istanza motivata e notificata alle altre parti, può chiedere al Tribunale amministrativo
regionale le opportune misure attuative. La medesima disposizione precisa che il Tribunale “esercita i poteri inerenti al giudizio di esecuzione di cui al Titolo I del Libro IV
e provvede sulle spese”.
I provvedimenti cautelari rientrano perciò, a pieno titolo, tra le pronunce esecutive
del giudice amministrativo in relazione alle quali il Codice consente l’esperimento
dell’azione di ottemperanza (cfr. l’art. 112, comma 2, lett. b), del Codice, che impiega
l’ampia formula “altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo”). In termini
73
M. ANTONIOLI, Sub art. 112, cit., 203.
38
generali, la necessità del rimedio esecutivo è da tempo riconosciuta, considerando che
l’adozione di una misura interinale postula spesso un’attività in positivo
dell’amministrazione al fine di realizzare quanto prescritto nel dictum interinale: pensiamo alla sospensione di un provvedimento di occupazione di un terreno, che richiede
la restituzione di questo al privato; o la sospensione di un licenziamento, che impone la
reintegrazione del dipendente sino all’esito del giudizio di merito. In questi casi, ed innumerevoli altri, le esigenze di tutela del ricorrente verrebbero frustrate ove a questi
non fosse consentito, attraverso la giurisdizione, ottenere quanto, sul piano fattuale e
giuridico, è conseguenza della misura adottata.
Non è stato però chiarito da Codice per quali tipologie di provvedimento cautelare
tale azione sia esperibile, ed il problema è di non poco momento atteso il riordino della
materia al quale lo stesso Codice ha dato corso.
E’ stata costantemente ritenuta pacifica, anche prima della riforma (vale a dire, sotto la vigenza dell’art. 21, comma 14, legge n. 1034/1971, come novellato dall’art. 3
della legge n. 205/2000, e persino in epoca antecedente), l’azionabilità del rimedio esecutivo a fronte delle misure cautelari collegiali; ossia delle ordinanze cautelari adottate incidentalmente dal collegio in corso di giudizio (art. 55 del Codice). L’art. 114,
comma 5, del Codice, secondo il quale “Se è chiesta l’esecuzione di un’ordinanza il
giudice provvede con ordinanza” suona dunque come un’implicita conferma degli indirizzi tradizionali.
Tuttavia, stante la genericità della formulazione dell’attuale art. 59 del Codice, che
fa riferimento ai “provvedimenti cautelari” senza ulteriore specificazione, sorge questione se il giudizio di esecuzione possa altresì impiegarsi per conseguire l’esecuzione
delle misure cautelari monocratiche post causam di cui all’art. 56 del Codice e delle
misure cautelari monocratiche ante causam di cui all’art. 61 del Codice.
Pur con tutta la doverosa prudenza derivante da un quadro normativo non ancora
assimilato nelle elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali, al quesito sembra doversi
dare risposta negativa; ciò, perlomeno, se si muove dalla duplice premessa:
- che le due tipologie di misure ora dette risultano prive di stabilità effettuale in
quanto, sia pure con modalità differenti, destinate ad essere sostituite dalle misure cautelari collegiali post causam.;
- che l’art. 114, comma 5, del Codice non prende neppure in considerazione
l’ipotesi in cui il provvedimento giurisdizionale da eseguire sia rappresentato dal decreto monocratico.
Tuttavia la soluzione anzidetta non sembra del tutto univoca per le due fattispecie.
Più precisamente, per quanto riguarda il decreto monocratico pronunciato post causam (o meglio, in corso di causa), esso è efficace sino alla prima camera di consiglio
utile, che è la prima camera di consiglio successiva al ventesimo giorno dal perfezionamento dell’ultima notifica per il destinatario (art. 56, comma 4, del Codice); in quella sede il collegio conferma, revoca o modifica il decreto. Tale regime induce
senz’altro a ritenere che l’esecuzione non possa ragionevolmente ricadere, anche data
la ristrettezza dei tempi a disposizione, su un provvedimento passibile di essere ribaltato, nell’immediatezza, dal vaglio collegiale.
Per quanto invece riguarda il decreto monocratico pronunciato ante causam, esso
perde effetto con il decorso di 60 gg. dalla sua emissione, dopodiché restano efficaci le
39
sole misure cautelari che siano confermate o disposte in corso di causa (art. 61, comma
5, del Codice). Pertanto in questa seconda ipotesi la tesi negativa sopra accennata non
può dirsi del tutto scontata, considerando che l’arco di tempo di efficacia del provvedimento ante causam è sufficiente affinché l’interessato si attivi utilmente per portare
ad esecuzione la misura concessagli mediante il ricorso ex art. 112, comma 2, del Codice, senza alcuna necessità - ove i suoi interessi risultino così soddisfatti - di introdurre il giudizio di merito.
Per il resto, l’esegesi dell’art. 59 del Codice non presenta profili di particolare perplessità.
La procedura da seguire per la richiesta d’esecuzione è quella generale del giudizio
di esecuzione. L’interessato, cioè, dovrà far valere la propria pretesa esecutiva con ricorso (non necessariamente preceduto da diffida), con l’obbligo di notificarlo ai contraddittori necessari, ma con possibilità di integrare il contraddittorio a tutti i soggetti
qualificabili come parti in senso lato del giudizio.
Quanto all’individuazione del giudice competente per la domanda di esecuzione,
valgono le regole dettate dall’art. 113, del Codice; conseguentemente l’esecuzione sarà
possibile anche innanzi al Consiglio di Stato, quando sia stato quest’ultimo, in sede di
appello, ad accogliere la misura cautelare in riforma dell’ordinanza impugnata, ovvero
quando l’ordinanza di primo grado sia stata confermata in appello, ma con diversa motivazione quanto a contenuto dispositivo e conformativo.
La previsione non è andata esente da critiche, dal momento che il radicamento della
competenza sulla “interpretazione”, non di rado opinabile, della parte motiva della pronuncia costituisce fonte di incertezze e di possibili errori nell’incardinamento del giudizio di ottemperanza74; la scelta legislativa, tuttavia, si inserisce saldamente nella tradizione della giurisprudenza, al cui prudente apprezzamento spetterà la risoluzione dei
casi dubbi, anche mediante il ricorso all’errore scusabile di cui all’art. 37 del Codice.
Secondo la formulazione testuale dell’art. 59 del Codice, il ricorrente ha facoltà di
“chiedere al tribunale amministrativo regionale le opportune misure attuative”: il giudice adìto potrà pertanto disporre l’esecuzione dell’ordinanza cautelare mediante l’indicazione delle relative modalità e potrà operare in via sostituiva rispetto
all’amministrazione inadempiente, se del caso facendo luogo alla nomina di un commissario ad acta.
Giova sottolineare che la formulazione ora ricordata, imperniata sulla enucleazione
di “disposizioni attuative”, non deve intendersi in senso limitativo, apparendo coerente
con il quadro generale che possano invocarsi, in presenza di una misura cautelare inattuata, tutte le potenzialità delucidative, coercitive e sostitutive del giudizio di ottemperanza di cui all’art. 114 del Codice. Ne discende che il giudice amministrativo, ferma la
possibilità di nominare un commissario, risulta abilitato: a rendere i chiarimenti eventualmente resisi necessari in ordine alla modalità di esecuzione; a determinare il contenuto del provvedimento amministrativo; ad emanare lo stesso in luogo
dell’amministrazione; a dichiarare inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione
dell’ordinanza; ad indicare, ove richiestone, la somma di denaro dovuta
74
M. ANTONIOLI, Sub art. 113, in E. PICOZZA (a cura di), Codice del processo amministrativo,
Torino, 2010, 209.
40
dall’amministrazione per ogni violazione o inosservanza successiva.
Per quanto concerne le spese, l’art. 59 del Codice ne prevede senz’altro la liquidazione, quale obbligo del giudice, all’esito del giudizio di esecuzione (in parallelo con la
regola generale della fase cautelare dettata dall’art. 57), precisando, nella sua ultima
proposizione, che “La liquidazione delle spese operata ai sensi del presente comma
prescinde da quella conseguente al giudizio di merito, salvo diversa statuizione espressa nella sentenza”. Viene così riaffermata l’autonomia del giudizio esecutivo cautelare
rispetto al processo di merito, anche nel presupposto dell’autonoma eseguibilità del capo di ordinanza relativo alla condanna alle spese ai sensi dell’art. 115 del Codice.
17. L’esecuzione delle sentenze non passate in giudicato
L’art. 112, comma 2, lett. b), del Codice riconduce alle forme generali del giudizio
di ottemperanza anche l’ipotesi della mancata attuazione, da parte della pubblica amministrazione, delle sentenze esecutive del giudice amministrativo.
Considerando che la precedente lett. a) richiama esplicitamente le “sentenze del
giudice amministrativo passate in giudicato”, appare evidente che il riferimento della
lett. b) si appunta sulle sentenze del giudice amministrativo non ancora passate in
giudicato, siano esse di primo grado ovvero emesse a seguito di impugnazione75.
Presupposto del giudizio di ottemperanza è che la sentenza da eseguire sia realmente “esecutiva” al momento della proposizione del ricorso, vale a dire che l’esecuzione
non sia stata sospesa a seguito di impugnazione (cfr. artt. 98 e 111 del Codice). Tale
presupposto era stato reso ben palese dalla legge n. 205/2000 (art. 10, comma 1, modificativo dell’art. 33 della legge n. 1034/1971: “Per l’esecuzione delle sentenze non sospese dal Consiglio di Stato il tribunale amministrativo regionale esercita i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza al giudicato (…)”) ma è evidentemente implicato dalla
natura del rimedio, e quindi sempre valido ancorché non ribadito dalla recente codificazione.
Come è noto, la legge n. 205/2000 aveva posto fine ad un lungo periodo di incertezza originatosi sin dal 1971, allorquando la legge n. 1034, istituendo i Tribunali amministrativi regionali, al fine di assicurare l’efficacia delle sentenze di primo grado ne aveva stabilito “l’esecutività” (art. 33); come infatti subito emerso nel dibattito scientifico, la portata garantistica della disposizione risultava fortemente compromessa dalla
mancata contestuale indicazione dello specifico strumento processuale da utilizzare in
caso di mancato, spontaneo adempimento da parte dell’amministrazione.
Dopo un faticoso ed oscillante percorso giurisprudenziale, il Consiglio di Stato aveva precisato, in una importante pronuncia del 1999, che l’esecutività della decisione
imponeva all’amministrazione di assicurare, nelle more, l’effettività della situazione
giuridica del ricorrente come definita dalla pronuncia giudiziale; in quella sede era stato altresì chiarito che, ove ciò non fosse accaduto, l’interessato avrebbe potuto adire
75
L’art. 33, comma 2, del Codice prevede che le sentenze pronunciate dal giudice amministrativo
in primo grado sono immediatamente esecutive; tale esecutività sorge con la loro semplice pubblicazione mediante deposito il Segreteria (art. 89, comma 2, del Codice).
41
nuovamente il giudice per ottenere provvedimenti idonei ad assicurare l’esecuzione interinale della sentenza76.
La legge n. 205/2000, come accennato, aveva reso di diritto positivo l’istituto, già
forgiato dalla giurisprudenza, del “giudizio di esecuzione delle sentenze non sospese
dal Consiglio di Stato”.
Il Codice del 2010 ha ora riaffermato, nella sostanza, lo stato dell’arte, aggiungendo
qualche elemento di chiarificazione in termini di operatività dell’istituto stesso.
In particolare, la precisione tecnica ed il carattere onnicomprensivo dell’espressione
“sentenze esecutive” impiegata dall’art. 112, comma 2, lett. b), del Codice spinge ad
ammettere il ricorso per esecuzione sia per le pronunce non (ancora) impugnate, sia per
quelle (impugnate ma) delle quali non sia stata chiesta, o ancora ottenuta, la sospensione cautelare, sia infine per quelle (impugnate ma) la cui sospensione sia stata negata
dal giudice competente. Sembra in tal modo possibile superare, accedendo alla soluzione più estensiva, il dibattito sorto in passato circa il significato della ben più ambigua locuzione “sentenze non sospese” che compariva nell’art. 33, comma 5, l. 1034/71,
sebbene ancora riecheggiata nell’art. 34, comma 1, lett. e) del Codice (in cui si legge
l’espressione “pronunce non sospese”). Il successivo art. 114, comma 4, lett. c), del resto, abbandona la dizione letterale ora detta riferendosi in senso più generale alle “sentenze non passate in giudicato”.
Rimane la constatazione che l’esecuzione viene richiesta, all’evidenza, in relazione
a sentenze ancora passibili di ribaltamento in caso di loro sospensione cautelare e/o di
accoglimento dell’impugnazione nel merito; e ciò ha riflessi significativi sul giudizio di
ottemperanza, poiché l’assetto di interessi determinato dalla sentenza che ne costituisce
l’esito non potrà non assumere il carattere della precarietà.
In proposito l’art. 114, comma 4, lett. c), del Codice si limita a demandare al giudice dell’ottemperanza, a fronte di sentenze non passate in giudicato, la determinazione delle relative modalità esecutive. Appare evidente la scelta del recente codificatore
di non normare diffusamente questo aspetto dell’istituto, che è apparso preferibile affidare al prudente apprezzamento giurisprudenziale senza l’imposizione di vincoli stringenti sul piano dei contenuti delle misure adottabili.
In termini ricostruttivi è però possibile immaginare l’accostamento del giudizio di
esecuzione delle sentenze non sospese al giudizio di esecuzione delle ordinanze cautelari, che parimenti manifestano un’elevata componente di provvisorietà effettuale, ipotizzando perciò che il giudice debba anche nel primo caso farsi carico di dettare le “opportune misure attuative”, in consonanza con l’art. 59 del Codice, tenendo conto della
necessità di non pregiudicare una possibile diversa configurazione degli interessi in
gioco.
Questo rilievo pone in luce la profonda differenza che, sul piano decisionale ed operativo, intercorre tra il giudizio di esecuzione delle sentenze esecutive ed il giudizio di
esecuzione vertente sul giudicato. Solo in tale ultima evenienza, infatti, il regolamento
del rapporto cristallizzato nella sentenza divenuta incontrovertibile ha carattere di stabilità ed incontrovertibilità (art. 324 c.p.c.), rappresentando un punto fermo per il
giudice dell’esecuzione nell’espletamento del proprio compito di interpretazione della
76
Cons. Stato, Sez. IV, 3 maggio 1999, n. 767, in Foro amm., 1999, 967.
42
decisione e di specificazione delle future normae agendi dell’amministrazione.
Se ne deve concludere che, a fronte della non definitività della sentenza, dovrà di
necessità realizzarsi un grado minore di soddisfazione dell’interesse sostanziale del ricorrente, attesa l’esigenza di contemperare la richiesta di tutela nascente
dall’esecutività con la preservazione dei poteri di intervento del giudice
dell’impugnazione, a sua volta funzionale alla garanzia di utilitas della futura pronuncia (se di segno opposto) rispetto all’amministrazione.
Un’ultima notazione va dedicata all’art. 34, comma 1, lett. e), del Codice il quale,
nell’elencare i contenuti delle sentenze di merito, prevede che il giudice amministrativo
“dispone le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e delle pronunce non
sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l'ottemperanza”. In sostanza, poiché l’enunciazione delle misure attuative, e persino l’investitura
commissariale, possono avvenire, da parte del giudice amministrativo, anche all’esito
del giudizio di cognizione, quasi a mò di anticipazione dei poteri tipicamente esercitabili in sede di ottemperanza, la sentenza resa ai sensi dell’art. 114, commi 3 - 6, dovrà
necessariamente porsi in coerenza con le statuizioni già pronunciate.
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