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IL GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA

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IL GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA
dottrina
IL GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA
CONDIZIONI E PRESUPPOSTI PROCESSUALI
SOMMARIO: 1. Premessa – 2. La titolarità attiva dell’azione e la parte ricorrente nel giudizio di ottemperanza – 3.
Titolarità passiva dell’azione, la parte resistente nel giudizio di ottemperanza – 4. Sui presupposti processuali: a) il
giudicato – 5. Sui presupposti processuali: b) l’inadempimento dell’Amministrazione.
1. Premessa
A circa quindici anni dall’entrata in vigore dell’attuale processo tributario tanta letteratura si è formata
in materia di giudizio di ottemperanza per individuare
la natura, l’oggetto, i presupposti e le funzioni dell’istituto, peculiarmente introdotto dall’art. 70 del D.Lgs.
31 dicembre 1992, n. 546.
Alcune problematiche che furono subito individuate
dalla dottrina possono ormai dirsi pacificamente risolte a seguito dei successivi interventi giurisprudenziali,
ma nuove criticità si profilano e renderanno necessari
ulteriori contributi interpretativi.
Il presente scritto vuole rappresentare un contributo
su due delle tematiche individuate dagli interpreti, in
particolare:
– sulle condizioni dell’azione, costituite dall’interesse
e dalla legittimazione ad agire;
– sui presupposti processuali e sostanziali dell’azione stessa, cioè sul giudicato e sull’inadempimento dell’Amministrazione allo stesso.
2. La titolarità attiva dell’azione e la parte ricorrente nel
giudizio di ottemperanza
La titolarità del potere di agire in giudizio, in capo
alla parte che ricorre per ottenere l’ottemperanza del
giudicato, risulta individuata nel primo comma dell’art. 70 del D.Lgs. n. 546/1992, ove si dispone che può
agire in giudizio “la parte che vi ha interesse”.
In base al dato normativo letterale può, dunque,
ritenersi che la legittimazione attiva non è limitata
soltanto ai soggetti che risultino titolati in base alla
sentenza cui si vuole dare esecuzione, bensì è estesa ad ogni soggetto giuridico che vanti un interesse,
giuridicamente rilevante, a conseguire gli effetti della
sentenza “ottemperanda”.
Al riguardo è stato costantemente osservato dalla
dottrina (1) che, trattandosi di attuazione del giudicato, vale quanto previsto dall’art. 2909 c.c., secondo
cui «l’accertamento contenuto nella sentenza passata in
giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi
o aventi causa».
Pacificamente, quindi, può parlarsi di legittimazione
processuale attiva in capo alle parti del giudizio con(1) Ved. A. FINOCCHIARO - M. FINOCCHIARO, Commentario al
nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996, 886; F. ARDITO, Il
giudizio di ottemperanza nel nuovo processo tributario, in Boll.
Trib., 1997, 187; e C. CONSOLO - C. GLENDI, Commentario breve
alle leggi del processo tributario, Padova, 2008, 593 ss.
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clusosi con la sentenza da eseguire per ottemperanza,
nonché agli eredi ed agli aventi causa di costoro.
In effetti non si evidenziano particolari problemi
ad individuare una siffatta legittimazione né in relazione ai giudizi di ottemperanza fondati su sentenze
di condanna, né a quelli fondati su sentenze recanti
obblighi di facere.
Circa le sentenze di condanna, la Corte di Cassazione (2) ha ritenuto sussistere la legittimazione ad agire
in ottemperanza per il rimborso di un credito IVA in
capo all’acquirente (l’avente causa, appunto) del credito stesso, in ipotesi in cui la sentenza da ottemperare si sia pronunciata sulla spettanza del credito, ma
non sulla titolarità del diritto ad ottenere il rimborso
(il cessionario del credito aveva quindi fatto valere la
propria legittimazione soltanto in sede di giudizio di
ottemperanza e non nella fase di accertamento) (3).
Né con riguardo agli obblighi di facere potrebbe dubitarsi, ad esempio, che la legittimazione ad agire in
sede di giudizio di ottemperanza spetti all’acquirente
di un immobile al fine di ottenere la “messa in atti
catastali” della rendita allo stesso attribuita con sentenza, anche se il giudizio di impugnativa della rendita catastale originariamente attribuita dall’Agenzia del
territorio fosse stato proposto dal precedente proprietario, dante causa del ricorrente per l’ottemperanza.
In definitiva risulta pacifico che la parte dotata di legittimazione attiva nel giudizio possa essere individuata
nelle parti della precedente fase di accertamento, ovvero nei loro eredi ed aventi causa ex art. 2909 c.c.
Ma il primo comma dell’art. 70 del D.Lgs. n.
546/1992, riferendosi alle parti che hanno “interesse” all’esecuzione della sentenza passata in giudicato,
consente di individuare altri soggetti legittimati ad agire in ottemperanza giacché, in base al dato testuale,
pare sufficiente anche un più generico interesse a che
l’Amministrazione ottemperi al giudicato per consentire alla parte di agire nel giudizio di ottemperanza.
In altri termini, l’interesse ad agire cui la norma
(letteralmente) fa riferimento risulta qualcosa di diver(2) Cfr. Cass., sez. trib., 5 febbraio 2002, n. 1544, in Boll.
Trib. On-line.
(3) Come rilevato da Glendi, annotando Cass. n. 1544/2002,
cit. supra, in Riv. giur. trib., 2002, 1049, la giurisprudenza della Corte di Cassazione riconosce da tempo al cessionario del
credito IVA la possibilità di adire il giudice tributario proponendo domande tanto contro l’Amministrazione, quanto contro
il cedente creditore d’imposta (in particolare ved. anche Cass.,
sez. trib., 19 marzo 1990, n. 2281, in Boll. Trib., 1990, 944,
con nota di S. PERRUCCI).
dottrina
so (di antecedente e di più ampio) della stessa legittimazione ad agire: quest’ultima riguarda la titolarità
del diritto derivante dalla sentenza da porre in esecuzione, mentre l’interesse ad agire pare coincidere con
il più generico interesse ad una tutela giurisdizionale
sulla base della sentenza di cui si invoca l’efficacia
nel processo di ottemperanza.
La distinzione non è di poco conto, considerando
che l’interesse e la legittimazione ad agire costituiscono, entrambi, condizioni dell’azione, determinandone
“l’ipotetica accoglibilità”, che il giudice deve valutare
preliminarmente allo stesso esame del merito.
Ebbene, si ritiene che il riferimento normativo al
concetto di “interesse” imponga di non ridurre i titolari dell’azione ai soggetti che risultino individuati
direttamente o indirettamente nelle parti del giudizio
ordinario di accertamento e/o condanna (ex art. 2909
c.c. le parti, i loro eredi o aventi causa) bensì consenta di sostenere che risultano titolati ad agire per
l’ottemperanza del giudicato tutti coloro che vantano
il semplice interesse a che l’amministrazione esegua
il giudicato ridetto.
Optando per tale interpretazione più estensiva andrà, per esempio, ritenuto ammissibile il ricorso in
ottemperanza intentato da un condebitore solidale per
invocare l’efficacia nei confronti dell’Amministrazione
finanziaria della sentenza definitiva di annullamento
dell’atto impositivo ottenuta da altro condebitore.
Ed in effetti, in materia di coobligati solidali nei
confronti dell’erario (si pensi al caso di venditore ed
acquirente ai fini del registro in ipotesi di avviso di rettifica di valore), è nota l’applicabilità della regola di cui
all’art. 1306 c.c. in virtù della quale la sentenza resa
nei confronti di uno dei condebitori solidali è opponibile al Comune creditore allorché non risulti fondata
su motivi personali del debitore che la ha ottenuta.
Unici limiti per il debitore che invoca l’efficacia del
giudicato reso nei confronti di altro condebitore sono
costituiti: a) dalla formazione di un giudicato diretto,
cioè reso nei suoi confronti; b) dal pagamento spontaneo dei maggiori tributi accertati (4).
È pacificamente riconosciuto che ove il condebitore
non abbia agito in giudizio (non sussistendo quindi un giudicato diretto nei suoi confronti), né abbia
spontaneamente adempiuto al pagamento, egli possa
invocare il giudicato favorevole ottenuto dall’altro condebitore (5).
Ebbene, si ritiene che ove il condebitore acquiescente sia stato costretto a pagare a seguito di atti
esecutivi erariali egli possa adire il giudice in sede di
giudizio di ottemperanza per chiedere la restituzione
delle somme pretese dall’erario, ivi invocando l’efficacia della sentenza di annullamento della medesima
pretesa impositiva ottenuta dal coobbligato in solido.
In definitiva, anche al di là del caso riportato a titolo di esempio, pare che per decidere della titolarità
attiva dell’azione nel giudizio di ottemperanza debba aversi riguardo al concetto di interesse ad agire.
(4) Molto articolata al riguardo risulta Cass., sez. un., 22
giugno 1991, n. 7053, in Boll. Trib., 1991, 1442; citata anche
da P. ACCORDINO, Considerazioni in tema di estensione del giudicato favorevole in presenza di obbligazione solidale, in Rass.
trib., 2006, 857 ss.
(5) Ex multis, Cass., sez. trib.,
rib., 2 aprile 2001, n. 4855, in
Rass. trib., 2003, 738.
Ciò appare più conforme al disposto letterale della
norma, oltre che alla migliore attuazione degli effetti
del giudicato nell’ordinamento giuridico, cui l’istituto
dell’ottemperanza pare sottendere.
3. Titolarità passiva dell’azione, la parte resistente nel
giudizio di ottemperanza
Anche per individuare la parte passivamente legittimata a stare in giudizio (parte resistente) deve rimandarsi al disposto letterale dell’art. 70 del D.Lgs. n.
546/1992 ove è stabilito, al secondo comma, che «il
ricorso è proponibile solo dopo la scadenza del termine entro il quale è prescritto dalla legge l’adempimento
dall’ufficio del Ministero delle finanze o dall’ente locale
dell’obbligo posto a carico della sentenza» e, al quarto comma, si dispone che «uno dei due originali del
ricorso è comunicato a cura della segreteria della commissione all’ufficio del Ministero delle finanze o all’ente
locale obbligato a provvedere».
Dal dato normativo pare doversi desumere che le
parti passivamente legittimate, nel giudizio di ottemperanza, risultino esclusivamente l’Ufficio del Ministero
delle finanze (ora l’Agenzia delle entrate) e l’ente locale
(6), mentre alcun riferimento è fatto all’agente della
riscossione, che è invece parte nel giudizio tributario
ordinario a mente dell’art. 10 del D.Lgs. n. 546/1992.
Ora sembrerebbe che l’esclusione dell’agente di riscossione dal novero dei soggetti passivamente legittimati nel giudizio di ottemperanza derivi dalla considerazione legislativa secondo cui la potestà impositiva
appartiene esclusivamente agli enti locali ed all’Agenzia delle entrate, essendo l’attività del concessionario
meramente esecutiva in quanto volta al solo recupero
dei tributi il cui gettito, in definitiva, risulta di competenza degli enti impositori.
Conseguirebbe da tale impostazione che il giudizio
di ottemperanza, volto ordinariamente alla reintegrazione dei diritti del contribuente a seguito di pretese
impositive accertate illegittime o indebite, andrebbe
comunque proposto nei confronti degli unici soggetti
titolari della potestà impositiva stessa.
Ma la soluzione legislativa non è appagante, vi sono
infatti casi in cui, al fine della completa reintegrazione dei diritti del contribuente, l’agente della riscossione può, ed anzi deve, essere parte del giudizio di
ottemperanza (7).
L’ipotesi più evidente di partecipazione necessaria
dell’agente di riscossione al giudizio di ottemperanza
è quella della sentenza che contenga la condanna dell’agente stesso, in via esclusiva o solidale con l’ente
impositore, al pagamento delle spese processuali in
favore della parte privata.
(6) La stessa Agenzia delle entrate, nella circ. 4 febbraio 2003,
n. 5/E, in Boll. Trib., 2003, 189, rileva che la legittimazione passiva «va confermata in capo allo stesso ufficio nei cui confronti si
è formato il giudicato di cui è stata chiesta l’esecuzione».
(7) In dottrina il problema della legittimazione passiva dell’agente della riscossione è già stato segnalato da S. GALLO - A.
DE FRANCO, Il giudizio di ottemperanza nel processo tributario –
Aspetti vecchi e nuovi, in Boll. Trib., 2008, 789. Gli autori rimandano, tra l’altro, al precedente giurisprudenziale di Comm. trib.
prov. di Roma 9 aprile 2001, n. 81, in Boll. Trib., 2001, 1178,
ove si era ritenuto che l’intimazione di procedere al pagamento
di somme stabilite a favore del contribuente da una sentenza
passata in giudicato possa essere rivolta anche al concessionario
della riscossione che non ha preso parte al processo.
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Inoltre, gli obblighi di facere, pacificamente suscettibili di ottemperanza, potrebbero essere posti esclusivamente a carico del concessionario al fine della
completa reintegrazione dei diritti del contribuente.
Si pensi alla sentenza con cui sia stata definitivamente annullata la cartella di pagamento in base alla
quale il concessionario aveva adottato le misure cautelari del fermo amministrativo o dell’ipoteca. In tale
ipotesi, si ritiene, l’agente della riscossione dovrà essere parte del giudizio di ottemperanza perché ad esso
(ovvero anche ad esso) si rivolgeranno i provvedimenti
del giudice volti alla completa reintegrazione dei diritti
del contribuente leso dalla pretesa fiscale ingiusta.
Al riguardo v’è ancora da evidenziare che nei casi in
cui il concessionario risulti parte necessaria del giudizio di ottemperanza, al fine della completa reintegrazione dei diritti del ricorrente, dovrà essere il giudice
a disporre l’integrazione d’ufficio del contraddittorio
nei confronti dell’agente di riscossione; ciò perché
la notifica del ricorso alla parte resistente non è un
adempimento posto a carico del contribuente (il quale
ai sensi di legge è tenuto al solo deposito del ricorso
in duplice copia presso la Commissione competente),
bensì a carico della segreteria della Commissione tributaria adita.
4. Sui presupposti processuali: a) il giudicato
Venendo ai presupposti dell’azione deve trattarsi del
passaggio in giudicato della sentenza e dell’inadempimento alle statuizioni contenute nella stessa.
Quanto al passaggio in giudicato della sentenza,
l’art. 70 del D.Lgs. n. 546/1992 dispone testualmente
che sono suscettibili di ottemperanza le «sentenze delle
Commissioni tributarie passate in giudicato».
In quanto presupposto processuale, il passaggio in
giudicato della sentenza deve sussistere già alla data
di proposizione della domanda, risultando il ricorso
inammissibile ove il giudicato dovesse venire a formarsi successivamente a tale momento, anche se all’atto della decisione (8).
Dal dettato normativo emerge subito che – diversamente da quanto avviene nel processo amministrativo
ove è possibile il ricorso anche nei confronti delle
sentenze impugnabili o impugnate, purché non sospese dal TAR o dal Consiglio di Stato – nel processo
tributario il ricorso dovrà essere proposto, a pena
d’inammissibilità, solo successivamente al passaggio
in giudicato della sentenza, cioè decorso il termine
di 60 giorni dalla notificazione della sentenza stessa,
ovvero dopo la scadenza del termine di cui all’art. 327
c.p.c. (un anno e quarantasei giorni dal deposito della
sentenza, oppure sei mesi per i giudizi introdotti dopo
il 4 luglio 2009) in caso di omessa notificazione.
In materia larga parte della dottrina ha posto in
evidenza come risulti, nel rito tributario, una disparità
di trattamento tra contribuente ed Amministrazione
sussistendo una differenziata esecutività delle sentenze
delle Commissioni tributarie a favore del contribuente, rispetto a quelle a favore dell’ente impositore (9).
(8) Al riguardo ved. F. ARDITO, Il giudizio di ottemperanza
nel nuovo processo tributario, cit., 187.
(9) M. BASILAVECCHIA, Il giudizio di ottemperanza, in Il processo tributario, diretto da F. TESAURO, Torino, 1998, 935; R.
LUPI, Diritto tributario. Parte generale, VII, Milano, 2000, 269; e
T. BAGLIONE - S. MENCHINI - M. MICCINESI, Il nuovo processo
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Ed in effetti in ipotesi di sentenze favorevoli al contribuente la disciplina recata dagli artt. 69 e 70 del
D.Lgs. n. 546/1992 consente di porre in esecuzione in
danno dell’ente impositore i soli obblighi previsti dalle
sentenze passate in giudicato, mentre diversa è l’esecutività delle sentenze favorevoli all’Amministrazione, perché l’art. 68 detta una disciplina secondo cui le sentenze delle Commissioni tributarie, anche se ancora non
definitive, sono titolo per la riscossione del tributo in
misura frazionata dopo la sentenza di primo grado ed
in misura intera dopo la sentenza di secondo grado.
Si sarebbe, perciò, sancita una diversa efficacia delle sentenze, a seconda che la parte vincitrice nei gradi intermedi sia il contribuente o l’Amministrazione
finanziaria.
L’invocata disparità di trattamento, con ipotizzata
violazione degli artt. 3, 24 e 76 Cost., è stata posta al
vaglio della Corte Costituzionale (10) che ha deciso la
questione dichiarandola in parte infondata e in parte
inammissibile.
La tesi di fondo espressa dalla Consulta riguarda
la giustificazione della scelta da parte del legislatore
tributario, ravvisabile nel fatto che le liti in questione
hanno per oggetto esclusivamente obblighi restitutori
di somme di denaro. Esse sono, cioè, liti nelle quali la
prevalenza dell’interesse all’immediatezza della tutela è
tradizionalmente giustificata dal pericolo che, durante
lo svolgimento della vicenda giudiziaria, possa determinarsi un depauperamento del (preteso) debitore con
correlativa, progressiva, erosione della garanzia patrimoniale generica che assiste il diritto del (supposto)
creditore.
Questa eventualità, viceversa, è da escludersi nel
processo in questione, dal momento che esso vede
necessariamente collocato, a parte debitoris, lo Stato
o l’ente locale, cioè un soggetto sempre solvibile.
In tal senso quindi, sempre secondo la Consulta,
l’opzione adottata circa la composizione del conflitto
esecutivo non costituisce affatto una scelta irrazionale,
pur sacrificando l’interesse del contribuente all’immediatezza della tutela (11).
Sempre in relazione al giudicato quale presupposto processuale, deve evidenziarsi che l’indagine sulla
portata e sugli effetti del giudicato medesimo costituisce il reale oggetto del giudizio di ottemperanza. Tale
giudizio risulta, infatti, teso ad individuare i limiti e
l’efficacia della sentenza “ottemperanda”, al fine di ripristinare l’integrità della posizione del ricorrente, restando tuttavia fermo il limite estremo del contenuto
del giudicato (12).
In altri termini, per la compiuta esecuzione della
sentenza l’indagine dovrà essere volta ad individuare
ogni effetto reintegrativo dei diritti del ricorrente riconnettibile alla sentenza stessa, ma senza attribuire
diritti nuovi e ulteriori rispetto a quelli riconosciuti
dalla sentenza da eseguire, travalicandosi, altrimenti,
i confini del giudicato da ottemperare.
Risulta conferente, sull’argomento, la giurisprudenza
tributario, Milano, 1997, 593.
(10) Così Corte Cost. 30 luglio 2008, ord. n. 216, in Giur.
cost., 2008, 2423.
(11) Sul punto, più ampiamente, ved. F. RANDAZZO, in Riv.
giur. trib., n. 11/2008, in nota a Corte Cost. n. 216/2008, cit.
(12) C. GLENDI, Giudizio di ottemperanza, in Enc. giur. trecc.,
2009.
dottrina
della Corte di Cassazione in tema di esenzioni decennali IRPEG ed ILOR per il Mezzogiorno, ove si forniscono importanti indicazioni al fine di individuare
i confini del giudicato e quindi l’oggetto stesso del
giudizio di ottemperanza.
In particolare, la Suprema Corte (13), conformemente a propria precedente giurisprudenza in materia, ha ritenuto che il solo accertamento giudiziale
con sentenza definitiva della spettanza dell’esenzione
decennale dia diritto, in sede di ottemperanza, alla
condanna dell’Amministrazione al rimborso dei tributi pagati dal contribuente nelle more del giudizio
sulla spettanza dell’esenzione, senza alcuna necessità
che il contribuente promuova autonomi giudizi per il
rimborso delle somme versate a seguito del riconoscimento del beneficio.
Al riguardo i giudici di legittimità così hanno statuito: «in tema di giudizio di ottemperanza agli obblighi derivanti dalle sentenze delle commissioni tributarie, regolato dall’art. 70 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n.
546, il mero riscontro della mancanza, nella sentenza
da ottemperare, di un espresso comando – quand’anche
limitato all’an debeatur – di rimborso delle imposte non
dovute non esclude l’obbligo del giudice investito dell’ottemperanza di rendere effettivo il comando, indubitabilmente contenuto in detta decisione, concernente il diritto del contribuente di fruire di specifiche agevolazioni
tributarie. Il riconoscimento di detta effettività, pena lo
svuotamento totale sia dell’accertato diritto al beneficio
sia dello scopo proprio del giudizio di ottemperanza,
passa infatti necessariamente anche per la realizzazione
del diritto del contribuente ad ottenere la restituzione
di quanto eventualmente corrisposto indebitamente rispetto ai benefici fiscali spettanti. Nell’inerzia dell’ufficio
finanziario, pertanto, il giudice dell’ottemperanza deve
rendere effettivo il riconoscimento giudiziale di quei benefici fiscali, e per conseguire effettivamente un siffatto
risultato ha il dovere di esaminare e risolvere, in base
alle risultanze probatorie ad esso offerte, ogni questione
attinente alla misura del rimborso spettante, esercitando
beninteso tale potere entro i confini invalicabili posti
dall’oggetto della controversia definito col giudicato da
ottemperare, di tal che nel processo di ottemperanza
può solo essere enucleato e precisato il contenuto degli
obblighi nascenti dalla decisione, chiarendosene il reale significato, ma non può essere attribuito un diritto
nuovo ed ulteriore rispetto a quello riconosciuto con la
sentenza da eseguire».
Si può ritenere, quindi, che i confini del giudicato
costituiscano l’oggetto stesso del giudizio di ottemperanza nel senso che, entro tali confini, il giudice dovrà
porre in essere ogni attività, anche istruttoria, necessaria all’integrale realizzazione del diritto della parte;
oltre i confini del giudicato, invece, ogni domanda
dovrà intendersi come nuova ed ultronea rispetto al
giudicato ed andrebbe dichiarata inammissibile o, comunque, respinta (un caso tipico è quello della richiesta di condanna alla corresponsione degli interessi
anatocistici sui tributi da rimborsare, non richiesti nel
giudizio originario).
Ulteriore problema sul giudicato – assai dibattuto
in dottrina, ma che pare ormai risolto dalla giurisprudenza – è quello afferente la possibilità di ricorrere
(13) Cfr. Cass., sez. trib., 30 ottobre 2006, n. 23374, in Boll.
Trib. On-line.
in ottemperanza sulla base di un giudicato interno
formatosi in pendenza del giudizio principale.
Nell’ipotesi di impugnazione parziale di una sentenza, ossia qualora una parte abbia impugnato un solo
capo della sentenza, ai sensi dell’art. 49 del D.Lgs. n.
546/1992, trova applicazione nel rito tributario l’art.
329, comma 2, c.p.c., il quale prevede che «l’impugnazione parziale comporta acquiescenza alle parti della
sentenza non impugnate» le quali passano, pertanto,
in giudicato.
In pratica, sebbene la sentenza complessivamente
considerata sia ancora oggetto di impugnazione, è
comunque possibile sostenere che sulla parte della
sentenza non impugnata si sia formato il “giudicato
interno”.
Al riguardo risulta ancora conferente la giurisprudenza della Corte di Cassazione (14) che ha ritenuto
che il giudizio di ottemperanza possa esperirsi anche
nel caso di giudicato parziale interno (15).
Nella pronuncia citata la Suprema Corte ha riconosciuto l’immediato accesso al giudizio di ottemperanza
attribuendo allo stesso giudice dell’ottemperanza, «nell’ambito dei suoi poteri di verifica dei presupposti processuali della domanda», la possibilità di «autonomamente accertare l’esistenza del giudicato parziale, anche
in mancanza della relativa certificazione di cancelleria
o segreteria» attestante il passaggio in giudicato della
sentenza.
Il passaggio logico di maggiore rilievo nella motivazione della pronuncia della Suprema Corte, che in
questa sede si vuole evidenziare, risulta quello afferente alla necessità, individuabile nell’art. 70 del D.Lgs.
n. 546/1992, di una «effettiva e sollecita tutela delle
parti interessate all’attuazione delle decisioni giudiziarie,
anche in linea con l’elaborazione giurisprudenziale al
riguardo emersa nel giudizio amministrativo di ottemperanza e nel processo esecutivo ordinario» (16).
Sul punto v’è da evidenziare, in conclusione, che
la giurisprudenza di legittimità, in soggetta materia,
pare costantemente volta a valorizzare la funzione del
giudizio di ottemperanza come strumento di rapida e
completa realizzazione dei diritti sottesi all’esecuzione
delle sentenze tributarie, anche richiedendo al giudice
dell’ottemperanza indagini interpretative e di accertamento preposte alla più rapida e completa attuazione
del giudicato.
5. Sui presupposti processuali: b) l’inadempimento dell’Amministrazione
Il presupposto correlato al passaggio in giudicato
della sentenza “ottemperanda”, è costituito dall’inerzia, parziale o totale, dell’Amministrazione finanziaria
circa la statuizione contenuta nella sentenza. In altri
termini, per la proponibilità della domanda, oltre al
passaggio in giudicato della sentenza deve sussistere
l’inerzia (totale o parziale) dell’Amministrazione circa
il comando contenuto nella sentenza stessa (17).
(14) Cfr. Cass., sez. trib., 14 gennaio 2004, n. 358, in Boll.
Trib., 2004, 530, e anche in Giur. trib., 2004, 417, con nota
favorevole di C. GLENDI.
(15) In particolare con la pronuncia citata la Suprema Corte
ha ritenuto che il giudizio di ottemperanza non risulti precluso
ove la sentenza sia impugnata esclusivamente sul circoscritto
capo afferente la condanna alle spese di giudizio.
(16) Cfr. Cass. n. 358/2004, cit.
(17) Per meglio precisare, qui si è anche parlato di presuppo-
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dottrina
Sul punto risulta conferente il richiamo alla recente
sentenza della Corte di Cassazione, sez. trib., 12 marzo
2009, n. 5925 (18), ove si rileva: «(…) in sostanza, il
ricorso per ottemperanza è ammissibile ogni qualvolta
debba farsi valere l’inerzia della P.A. rispetto al giudicato,
ovvero la difformità specifica dell’atto posto in essere
dall’Amministrazione rispetto all’obbligo processuale di
attenersi al disposto della sentenza da eseguire (Cons.
Stato 992/98), e ciò indipendentemente dall’attivazione di
altra eventuale procedura esecutiva» (…) «È infatti proprio il comportamento della P.A. inerte, elusivo, o peggio
contrario al giudicato a costituire condizione dell’azione
di ottemperanza al giudicato (Cons. Stat. 652/84; 779/95;
328/96 e Cass. civ. sent. n. 4126 del 2004)».
In altri termini è proprio l’inadempimento dell’Amministrazione a costituire condizione di procedibilità
della domanda di chi agisce in ottemperanza, così
come non risulta opponibile dalla parte resistente
un eventuale adempimento parziale alla sentenza, in
quanto il giudizio di ottemperanza risulta funzionale
proprio alla realizzazione integrale e completa delle
statuizioni contenute nella sentenza di cui si chiede
l’esecuzione.
In definitiva il problema è quello di individuare un
termine oltre il quale la mancata esecuzione dei precetti contenuti nella sentenza acquisti, nei confronti
dell’Amministrazione, il significato dell’inadempimento; soltanto ove sia configurabile giuridicamente tale
inadempimento, la procedura di ottemperanza sarà
attivabile.
Per i giudizi volti ad ottenere il rimborso di somme
di danaro da parte dell’Amministrazione appare pienamente condivisibile, inoltre, il parere espresso dal
Ministero delle finanze, Direzione regionale entrate
Lombardia, 11 febbraio 2000, n. 5/10241, sulla decorrenza del termine entro cui l’Amministrazione deve
eseguire il rimborso dovuto in virtù della sentenza
tributaria.
In particolare, nella citata interpretazione, si è distinto tra controversie avverso atti di imposizione e
controversie di rimborso, cioè instaurate avverso il
rifiuto (espresso o tacito) alla restituzione di tributi.
Nelle controversie avverso atti impositivi l’Amministrazione risulta tenuta ad eseguire il rimborso delle
somme corrisposte dal contribuente in pendenza del
giudizio, entro 90 gg. dalla notifica della sentenza che
ha annullato l’atto d’imposizione, a norma dell’art. 68
del D.Lgs. n. 546/1992.
Viceversa, nelle controversie che sorgono come impugnativa di provvedimenti di rifiuto alla restituzione
di tributi, l’art. 68 citato non è stato ritenuto applicabile.
Ne consegue che nel caso di obbligazioni restitutorie aventi origine da sentenze di annullamento di atti
impositivi il contribuente dovrà anzitutto notificare
la sentenza, soltanto dopo 90 gg. dalla notifica senza
esecuzione del rimborso l’Amministrazione potrà essere ritenuta formalmente inadempiente.
Invece, per i contenziosi già sorti come impugnaziosto “sostanziale” e non “processuale”, come in F. NAPOLITANO, Il
giudizio di ottemperanza nel contenzioso tributario, cit., 405.
(18) In Boll. Trib. On-line.
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Boll. Trib. 10 • 2011
ne di dinieghi di rimborso non è previsto alcun termine entro cui l’Amministrazione debba provvedere al
rimborso e, pertanto, sarà sufficiente l’inadempimento
nei 30 gg. successivi alla notifica dell’atto di messa in
mora per poter procedere al deposito del ricorso per
l’ottemperanza.
Sull’argomento sono da segnalare, infine, alcune interpretazioni della Commissione tributaria provinciale
di Cosenza (19) che ha ritenuto applicabile al giudizio
di ottemperanza la speciale norma di cui all’art. 14
del D.L. 31 dicembre 1996, n. 669 (convertito, con
modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1997, n. 30), a
norma del quale «le amministrazioni dello Stato (…)
completano le procedure per l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali (…) entro il termine di 120 giorni
dalla notificazione del titolo esecutivo» prima di tale
data «il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto».
Ebbene, a detta dei giudici cosentini la norma citata
sarebbe applicabile anche al giudizio di ottemperanza
in virtù del richiamo ai termini previsti dalla legge per
l’adempimento, contenuto nel secondo comma dell’art.
70 del D.Lgs. n. 546/1992.
Sennonché tale interpretazione non convince affatto,
perché il citato art. 14 del D.L. n. 669/1996, prevedendo che «il creditore non può procedere ad esecuzione
forzata ovvero alla notificazione del precetto», fa evidente riferimento all’esecuzione forzata di diritto comune,
disciplinata dal codice di procedura civile e non già
alla speciale procedura prevista nel rito tributario dall’art. 70 del D.Lgs. n. 546/1992. Infatti il giudizio di
ottemperanza ha ad oggetto una sentenza tributaria
passata in giudicata e non necessita affatto della notifica del precetto per intimare l’esecuzione della stessa,
ciò esclude in radice l’applicabilità del ridetto art. 14
del D.L. 669/1996 alla procedura prevista dall’art. 70
del D.Lgs. n. 546/1992 (20).
In conclusione, ad avviso di chi scrive, premessa
l’inapplicabilità dell’art. 14 D.L. n. 669/1996, il presupposto costituito dall’inadempimento dell’Amministrazione debitrice deve ritenersi verificato con il decorso
di 90 gg. dalla notifica della sentenza per i soli giudizi
riguardanti il rimborso di somme pagate in pendenza
del giudizio di impugnativa dell’atto impositivo.
Per i giudizi di impugnativa dei provvedimenti di
diniego di rimborso, così come per quelli aventi ad
oggetto sentenze che sanciscono l’obbligo di un “facere”, il solo decorso del termine di 30 gg. dalla notifica
dell’atto di messa in mora determinerà l’ammissibilità
e la procedibilità del ricorso per l’ottemperanza del
giudicato.
Avv. Tullio Elefante
(19) Comm. trib. prov. di Cosenza, sez. I, 8 giugno 2005,
n. 117, in Boll. Trib., 2006, 510 ss., con nota critica di M.
PERONACE; e Comm. trib. prov. di Cosenza, sez. II, 23 febbraio
2006, nn. 173 e 174, ibidem, 865.
(20) Tale tesi è stata espressa, peraltro, dai medesimi giudici
cosentini, Comm. trib. prov. di Cosenza, sez. III, 28 agosto
2007, n. 166, in Boll. Trib., 2008, 761, con nota critica di M.
PERONACE, con cui altra sezione della medesima Commissione
si discostava dal precedente orientamento.
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