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2011: Come il Padre ha mandato me, così io mando voi

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2011: Come il Padre ha mandato me, così io mando voi
- OTTOBRE MISSIONARIO 2011
“Come il Padre ha mandato me,
anch’io mando voi”
SUSSIDIO DI RIFLESSIONE PER GIOVANI
“Pochi avranno la grandezza di trasformare la storia, ma ognuno di noi può adoperarsi per
modificarne anche una piccola parte: la storia di questa generazione verrà scritta dalla totalità
delle singole azioni, verrà delineata proprio dagli innumerevoli e differenti atti di coraggio e
fiducia. Ogni volta che un singolo individuo si schiera per un ideale, o agisce per il bene degli
altri, o combatte contro l’ingiustizia, dà vita ad un’onda di speranza, onda che andrà ad incontrare altre onde innalzate da altrettante fonti di convinzione e forza, creando una corrente che
sarà in grado di abbattere le più alte mura di oppressione e opposizione”.
ROBERT F. KENNEDY
A cura di: Emma Colombatti
Caro giovane,
durante questo mese missionario vogliamo riflettere su alcune importanti parole che don Pascual Chavez ci ha scritto per la Giornata Missionaria Salesiana del 2012: “La Giornata Missionaria Salesiana
2012 è un invito ad essere discepoli di Cristo, evangelizzati, prima di diventare apostoli, evangelizzatori”…
Cogliamo quindi l’invito del Rettor Maggiore e ascoltiamo quello che Gesù vuole raccontare ad ognuno di noi
e come dice don Tonino Bello “Bisogna avere gli occhi sempre puntati su di lui. Occorre innamorarsi di Gesù
Cristo come fa chi ama perdutamente una persona e imposta tutto il suo impegno umano e professionale su di
lei, attorno a lei raccorda le scelte della sua vita, rettifica i progetti, coltiva gli interessi, adatta i gusti, corregge
i difetti, modifica il suo carattere, sempre in funzione della sintonia con lei. Quando parlo di innamoramento
di Gesù Cristo, voglio dire questo: un investimento totale della nostra vita. Innamorarsi di Gesù Cristo vuol
dire: conoscenza profonda di Lui, dimestichezza di Lui, frequenza nella sua casa, assimilazione del suo pensiero, accoglimento senza sconti delle esigenze più radicali e più coinvolgenti del Vangelo. Vuol dire rientrare
davvero la nostra vita intorno al Signore Gesù”.
Anche papa Benedetto XVI ci da alcune indicazioni per vivere al meglio questo mese e rivoluzionare la nostra vita per seguire Cristo: “La missione universale coinvolge tutti, tutto e sempre. Il Vangelo non è un bene
esclusivo di chi lo ha ricevuto, ma è un dono da condividere, una bella notizia da comunicare. E questo donoimpegno è affidato non soltanto ad alcuni, bensì a tutti i battezzati. La stessa Giornata Missionaria non è un
momento isolato nel corso dell’anno, ma è una preziosa occasione per fermarsi a riflettere se e come rispondiamo alla vocazione missionaria; una risposta essenziale per la vita della Chiesa. Annunciando il Vangelo,
essa si prende a cuore la vita umana in senso pieno. Non è accettabile, ribadiva il Servo di Dio Paolo VI, che
nell’evangelizzazione si trascurino i temi riguardanti la promozione umana, la giustizia, la liberazione da ogni
forma di oppressione, ovviamente nel rispetto dell’autonomia della sfera politica. Disinteressarsi dei problemi
temporali dell’umanità significherebbe «dimenticare la lezione che viene dal Vangelo sull’amore del prossimo
sofferente e bisognoso»; non sarebbe in sintonia con il comportamento di Gesù, il quale “percorreva tutte le
città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e infermità” (Mt 9,35). Così, attraverso la partecipazione corresponsabile alla missione della Chiesa, il
cristiano diventa costruttore della comunione, della pace, della solidarietà che Cristo ci ha donato, e collabora
alla realizzazione del piano salvifico di Dio per tutta l’umanità. La Giornata Missionaria ravvivi in ciascuno il
desiderio e la gioia di “andare” incontro all’umanità portando a tutti Cristo”.
Come salesiani, inoltre, vogliamo ritornare alle nostre origini e scoprire quanto don Bosco sia stato importante
in ambito educativo come precursore dei diritti umani di bambini ed adolescenti, per poter imparare da lui
come comportarci con i nostri ragazzi
In questo mese troverai:
Raccontiamo Gesù
Riflessioni su alcuni aspetti
del carattere e della vita di
Gesù
Don Bosco precursore
dei diritti umani
Collegamento fra il pensiero
di Don Bosco
ed i diritti umani e lettura di
alcune situazioni reali
Conosciamo e
imitiamo Don Bosco
Riflessioni su alcune caratteristiche e modi di agire di
Don Bosco
Trasformiamo la
nostra vita
Suggerimenti pratici per
cambiare la nostra vita
seguendo anche alcuni
esmpi
1a SETTIMANA
“Tutto ciò che preferiamo non guardare, tutto ciò da cui scappiamo, tutto ciò che evitiamo,
denigriamo o disprezziamo, alla fine ci fa sentire dei falliti. Ciò che appare sgradevole, doloroso, pericoloso, se affrontato con una mente aperta può trasformarsi in bellezza, gioia e
forza.”
Rigoberta Menchu
Raccontiamo Gesù
“Io sono la via, la verità e la vita”
Fratelli miei, dato che il Signore dice in breve: «Io sono la luce del mondo; chi segue me non cammina nella
tenebra, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12), e con queste brevi parole comanda una cosa e
ne promette un'altra, facciamo ciò che comanda in modo da non far cattiva figura quando desideriamo ciò che
promette, e non dover temere che nel giudizio debba dirci: «Hai fatto ciò che ti ho comandato, per esigere ciò
che ti ho promesso?». Cosa mi hai dunque comandato, Signore Dio nostro? «Di seguirmi», ti risponde. Tu hai
chiesto un consiglio per avere la vita; ma quale vita, se non quella di cui è stato detto: «Presso di te è la fonte
della vita?». Un tale si sentì dire: «Va' vendi ciò che hai e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi» (Mt 19,21).
Quel tale se ne andò triste e non lo seguì. Era andato a cercare il maestro buono, lo aveva interrogato come
dottore e non lo ascoltò come maestro. Si allontanò triste, legato ancora alle sue cupidigie, carico del pesante
fardello della sua avarizia. Era affaticato, non ce la faceva più; ma anziché seguire colui che voleva liberarlo
del suo pensate fardello, preferì allontanarsi e abbandonarlo. Ma dopo che il Signore fece sentire la sua voce
per mezzo del vangelo: «Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi ristorerò; prendete sopra
di voi il mio giogo, e imparate da me che sono mite ed umile di cuore» (Mt 11,28-29), quanti, ascoltando il
vangelo, si misero a fare ciò che non fece quel ricco che aveva raccolto l'invito direttamente dalle labbra del
Signore? Mettiamoci a farlo anche noi adesso, seguiamo il Signore, liberandoci dalle catene
che ci impediscono di seguirlo. Ma chi potrà liberarsi da tali catene senza l'aiuto di colui al quale è detto: «Hai
spezzato le mie catene», del quale un altro salmo dice: «Il Signore libera i prigionieri, il Signore raddrizza i
curvati».
Cosa seguono coloro che sono stati liberati e raddrizzati, se non la luce dalla quale si sentono dire: «Io sono la
luce del mondo; chi segue me non cammina nella tenebra» (Gv 8,12)? Sì, perché il Signore illumina i ciechi.
Noi veniamo ora illuminati, o fratelli, con il collirio della fede. Egli dapprima mescolò la sua saliva con la terra
per ungere colui che era nato cieco (cf. Gv 9,6). Anche noi siamo nati ciechi da Adamo, e abbiamo bisogno
di essere da lui illuminati. Egli mescolò la saliva con la terra: «Il Verbo si è fatto carne, e abitò fra noi» (Gv
1,14). Mescolò la saliva con la terra, perché era stato predetto: «La verità è uscita dalla terra», ed egli dice:
«Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Noi godremo pienamente della verità quando lo vedremo faccia
a faccia. Anche questo, infatti, ci è stato promesso. E chi oserebbe sperare ciò che Dio non si fosse degnato
promettere o dare? Lo vedremo faccia a faccia. Dice l'Apostolo: «Adesso conosco in parte, adesso vedo in
modo enigmatico come in uno specchio, allora invece faccia a faccia» (ICor 13,12). E l'apostolo Giovanni
nella sua epistola aggiunge: «Carissimi, già adesso noi siamo figli di Dio, ma ancora non si è manifestato ciò
che saremo; sappiamo infatti che quando egli si manifesterà, saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli
è» (lGv 3,2).
Prima ti dice che via devi prendere, poi dove devi arrivare: «Io sono la via, io sono la verità, io sono la vita»
(Gv 14,6). Dimorando presso il Padre, egli è la verità e la vita; rivestendosi di carne, è diventato la via. Non ti
è detto: sforzati di cercare la via per giungere alla verità e alla vita; non ti è stato detto questo. Pigro, alzati! La
via stessa è venuta a te e ti ha scosso dal sonno; e se è riuscita a scuoterti, alzati e cammina!
Forse tenti di camminare e non riesci perché ti dolgono i piedi; e ti dolgono perché, forse spinto dall'avarizia,
hai percorso duri sentieri. Ma il Verbo di Dio è venuto a guarire anche gli storpi. Ecco, dici, io ho i piedi sani,
ma non riesco a vedere la via. Ebbene, egli ha anche illuminato i ciechi.
Agostino di Ippona, Commento al vangelo di Giovanni
Conosciamo e imitiamo Don Bosco
Don Bosco missionario
La
dimensione missionaria è un tratto caratteristico di don Bosco.
La graduale rivelazione e intuizione del suo carisma apostolico lo
ha portato a dilatare sempre più l’orizzonte della sua opera fino ad
abbracciare tutto il mondo. Don Bosco vede la missione salesiana in
continuità con il mandato di Gesù di evangelizzare tutti i popoli.
Man mano che cresce in lui la conoscenza delle necessità della Chiesa e del suo impegno missionario, si lascia coinvolgere con passione
dalla premura per i popoli non ancora evangelizzati e in particolare
per la gioventù povera e abbandonata di ogni paese del mondo. Don
Bosco è uomo di Chiesa che Dio ha investito di un carisma universale. “Cercate anime… salvate molte anime nelle missioni!” È questo
il suo pressante invito ai figli che partono verso le terre lontane.
È questo l’obiettivo che spiega ai Salesiani, alle Figlie di Maria
Ausiliatrice, ai Cooperatori e benefattori, ai giovani delle sue
Case in Europa per coinvolgerli con entusiasmo attorno all’urgenza
missionaria. In sintonia con il sentire apostolico di don Bosco, il
lavoro missionario salesiano ha come scopo l’evangelizzazione e la
fondazione della Chiesa nei gruppi umani. In ogni popolo e in ogni
continente. Portando il nostro specifico strategico: una carità pastorale ricca del sistema preventivo per educare alla fede e proporre
una via di vangelo e di santità accessibile anche ai giovani di altre
razze, culture, nazioni.
Don Bosco Precursore dei diritti umani
come lui ci prendiamo cura dei diritti di bambini e adolescenti
leggiamo le Memorie dell’oratorio...
1
Il pensiero di
Don Bosco
“Finita la messa, mi spostavo per spiegare il Vangelo…dopo la preghiera iniziava la scuola fino a mezzogiorno. All’una di pomeriggio iniziava la ricreazione.
Alle due e mezza c’era il catechismo e poi tempo libero, durante il quale ognuno
si occupavacome meglio voleva: lettura, canto, gioco,…”
(Decade dal 1846-1855, 1° capitolo)
2
I diritti umani impliciti nel
pensiero di Don Bosco
Diritto ad una formazione integrale
3
Diritto Internazionale dei Diritti Umani
Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia
Articolo 6 – “Gli Stati parti riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto inerente alla vita. Gli Stati parti assicurano in tutta la misura del possibile la sopravvivenza e lo sviluppo del fanciullo”
Articolo 27 – “Gli Stati parti riconoscono il diritto di ogni fanciullo a un livello di vita sufficiente per consentire il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale”
Articolo 29 – “Gli Stati parti convengono che l’educazione del fanciullo deve avere come finalità:
a) favorire lo sviluppo della personalità del fanciullo nonché lo sviluppo delle sue facoltà e delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutta la loro potenzialità;
b) sviluppare nel fanciullo il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dei principi consacrati nella Carta delle Nazioni Unite;
c) sviluppare nel fanciullo il rispetto dei suoi genitori, della sua identità, della sua lingua e dei suoi valori culturali, nonché il rispetto dei valori nazionali del paese nel quale vive, del paese di cui può essere originario e delle civiltà diverse dalla sua;
d) preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia tra tutti i popoli e gruppi etnici, nazionali e religiosi e delle persone di origine autoctona;
e) sviluppare nel fanciullo il rispetto dell’ambiente naturale”
ECCO LA CROCE
Lì c'è la croce dei paesi del quarto
mondo, condannati allo sterminio
per fame. Accanto, avanza la croce sostenuta da una turba, incredibilmente privata dei diritti fondamentali dell'uomo, su cui grava la
congiura del silenzio, Più in fondo si
intravede il patibolo di intere popolazioni considerate marginali dalle
grandi potenze, e destinate cinicamente al genocidio.
Ecco lì la croce dei desaparecidos.
Ecco quella degli abitanti di Haiti.
Ecco quella dei massacrati del Guatemala. Ecco la croce che schiaccia
la schiena delle popolazioni afghane. Ecco quella trascinata dalle tribù violentate dell'Iran. Più in là, la
croce dei dissidenti dell'Est, che copre, con la sua ombra, interminabili
campi di concentramento, squallide
prigioni e lontanissime terre di esilio. Poi, sotto gli occhi, ecco la croce
delle grandi masse di tutta la terra.
Discriminate dalle leggi razziali del
mercato. Condannate dalle centrali
del capitalismo mondiale a non risollevarsi mai, a rimanere sempre
subalterne, a diventare sempre più
schiave, sempre più umiliate, sempre più offese...
Tonino Bello
... i diritti umani nel mondo
I BAMBINI SOLDATO
L’utilizzo dei bambini soldato è una pratica che rientra nel traffi-
co di esseri umani e che vede il reclutamento dei bambini attraverso l’uso della forza o della coercizione in aree di conflitto. Le piccole vittime di questa atroce pratica vengono per lo più impiegate
come schiavi (schiavitù minorile) o abusati (schiavitù sessuale).
I bambini vengono reclutati perché considerati versatili, poco costosi, facilmente addestrabili ad uccidere e capaci di obbedienza
incondizionata. Benché la maggioranza dei bambini soldato abbia
un’età che va dai quindici ai diciotto anni, ce ne sono alcuni che
ne hanno addirittura sette o otto. La maggior parte di loro viene utilizzata nei combattimenti, vengono spesso assegnati loro i
compiti più pericolosi, o vengono obbligati a partecipare ad atroci
atti di violenza, spesso commessi proprio contro le loro famiglie
e le loro comunità. Ad altri vengono affidati compiti che non riguardano il combattimento corpo a corpo, come per esempio la
preparazione delle munizioni, la preparazione dei pasti, fare le
guardie, le spie, i messaggeri. Molte bambine vengono obbligate
a sposarsi o ad assecondare gli appetiti sessuali dei soldati. Sia le
bambine che i bambini soldato vengono molto spesso violentati
ed esposti al rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili o gravidanze indesiderate. Ad utilizzare i bambini soldato
sono sia le forze governative, che le organizzazioni paramilitari
ed i gruppi ribelli. L’Unicef ha stimato che più di 300.000 bambini con meno di diciotto anni vengono attualmente impiegati in
più di trenta conflitti armati in diverse zone del mondo. I bambini
soldato rimangono spesso uccisi o gravemente feriti, mentre i sopravvissuti devono convivere con atroci
traumi sia fisici che psicologici. Il loro sviluppo viene in molti casi irreparabilmente compromesso e i bambini soldato che riescono a sopravvivere e a fare ritorno alle loro case, vengono rifiutati dalle loro stesse
comunità. Quello dei bambini soldato è un fenomeno che riguarda ogni angolo del pianeta: l’Africa e l’Asia
sono i luoghi dove esso ha una maggiore densità, ma il traffico di minori destinato a questo scopo è presente
anche in America, in Eurasia e in Medio Oriente.
Fonte: Speak Truth to Power
Trasformiamo la nostra vita
riflettiamo insieme...
UNA VITA FATTA DI COSE ESSENZIALI
Ma sia, soprattutto, la testimonianza della vita a cadenzare i ritmi del nostro servizio. Una vita povera,
fatta di cose essenziali, scarna di retorica, amante
delle semplicità, lontana dalle lusinghe della carriera, desiderosa soltanto delle affermazioni dell'unico
Signore del quale indossiamo la livrea.
Una vita ubbidiente che si esprime non con allineamenti supini alle disposizioni del capo di turno,
mettere
i piedi sulle orme di Gesù,
uomo libero, che fu obbediente fino alla
ma col gaudio di chi si diverte a
morte.
Una vita pura, che rifugge dalle ambiguità, dai compromessi, dai sotterfugi. Che se accetta la rinuncia,
anche quella di una donna, lo fa non per esercitare
l'ascetica ma per esprimere una profezia e, comunque, senza macerazioni e senza i ripensamenti malinconici di chi, furtivamente, si riprende, in piccole
dosi compensatone, quanto un giorno ha donato in
un empito di generosità.
LA PORTA DEL SERVIZIO
Riprendiamo, allora, dal servizio: solo se avremo servito potremo parlare e saremo creduti. L’unica porta
che ci introduce, oggi, nella
casa della
credibilità è la porta del servizio.
Leggiamo ancora il Vangelo di Giovanni: «Dopo che
ebbe finito di lavare i piedi ai suoi discepoli, riprese
le vesti, sedette di nuovo e parlò».
Dovremmo agire proprio come Gesù. Egli parlò soltanto dopo aver servito.
Altrimenti la gente non crederà alle nostre parole.
Conta più un gesto di servizio, che tutte le prediche
e le omelie! Se esse, infatti, non sono sorrette da una
esemplarità forte, non producono nulla. Ecco perché
vorrei accendere il vostro cuore e il vostro impegno
per il volontariato, per il servizio, nelle vostre comunità parrocchiali, a favore dei poveri.
COERENZA CRISTIANA
Il mondo d’oggi, pur così distratto, si lascia ancora
colpire dalla coerenza dei cristiani. Sono le parole,
semmai, a lasciarlo indifferente. A non fargli né caldo
né freddo, sono le affermazioni di principio, quando
non trovano riscontro nella vita. A fargli cambiare
canale, insomma, è l’insignificanza dei programmi
che si prolungano nell’accademia e si esauriscono
nel vaniloquio. I fatti concreti, però, riescono a se-
durlo. Le scelte di vita lo interpellano
con forza. E gli schermi dei suoi radar, anche se non
registrano sempre la presenza dei maestri, registrano
puntualmente quella dei testimoni.
Ma la testimonianza offerta agli uomini d’oggi, se
vuole trovare eco nel loro cuore, deve essere genuinamente cristiana. Col marchio di origine controllata, cioè. Col gusto raffinato che si ritrova, l’uomo
moderno distingue immediatamente l’argento dalla
carta stagnola, l’oro zecchino dal metallo di bassa
lega, il vero diamante dall’imitazione in fibra sintetica.
Concretezza, quindi, e autenticità. E su queste coordinate, non nelle carte nau-
tiche dei libri edificanti ma nella vita pratica dei cristiani veri, che gli uomini d’oggi, per quanto scettici
o lontani, increduli o indifferenti, potranno incrociare la loro rotta con quella di Gesù Cristo.
Coraggio, allora: prendiamo esempio dai testimoni
che vivono fra gli uomini d’oggi!
IL SAMARITANO DELL’ORA DOPO
Non basta il buon cuore, occorre il buon cervello.
E necessario intervenire perché anche il nostro impegno di carità sia sempre più adeguato. Occorre sviluppare, quindi, una simpatia nuova per l’analisi lucida, scientifica, articolata, quasi fredda dei meccanismi di
oppressione, di tutto ciò che genera sofferenza per l’umanità. Dobbiamo essere capaci di analisi e andare alle
cause!
Conoscere i meccanismi perversi che generano la sofferenza è il primo atto di solidarietà con i poveri. E non significa prendere il posto dei sociologi: fare dell’orizzontalismo! Le improvvisazioni sentimentali
non bastano, occorre il buon cervello. Il volontarismo emotivo non è sufficiente: ci vuole competenza, studio.
Occorre convincersi che l’analisi strutturale delle situazioni di sofferenza e la ricerca delle cause sono il «luogo nuovo», il «luogo teolo¬gico» dove il Signore si manifesta.
Tonino Bello
... con chi ci è riuscito
ABUBACAR SULTAN ha attraversato il Mozambico in auto, in mezzo alle atrocità della guerriglia, in
luoghi remoti dove non c’erano nemmeno le strade, per salvare i bambini-soldato, piccoli dai sei ai tredici
anni, che erano stati costretti a vedere e, in alcuni casi, a commettere a loro volta dei delitti contro la propria
famiglia e i vicini. La guerra in Mozambico (1985-1992) ha lasciato 250.000 bambini profughi e 200.000
orfani, mentre altre decine di migliaia venivano costretti ad arruolarsi e a combattere. Gli scontri tra le milizie governative e le guerriglie facevano vittime per lo più tra civili disarmati. In mezzo a tanta brutalità,
Sultan è riuscito a formare oltre 500 persone per prestare servizio terapeutico collettivo, ed il suo progetto
ha riunito oltre 20.000 bambini con le loro famiglie. Oggi continua a lavorare con i bambini, concentrandosi
sulla rieducazione sociale e sui diritti dell’infanzia attraverso la sua iniziativa che va sotto il nome di Wona
Sanaka.
Quando è cominciata la guerra in Mozambico io stavo finendo il tirocinio da insegnante all’università. I
vicini, i parenti, gli amici di coloro che venivano sequestrati, oltre a quelli che erano fuggiti dalle zone del
conflitto, portavano notizie delle atroci sofferenze causate dalla guerra. Verso la fine del 1987, l’Unicef ha
stimato che 250.000 bambini erano rimasti orfani o comunque erano stati separati dalle famiglie. Un’alta
percentuale di questi bambini erano diventati soldati effettivi, costretti a sostenere un addestramento militare,
nonché forzati a combattere. Le fotografie di bambini soldato che erano stati catturati dalle forze governative
e di altri che avevano perso la vita combattendo erano sconvolgenti, intollerabili. Non riuscivo a frequentare
tranquillamente le lezioni, a insegnare, mentre nel mio paese succedevano queste cose. E ho deciso di fare
qualcosa. Più o meno nello stesso periodo, un orfanotrofio locale aveva ospitato trentacinque bambini catturati durante i combattimenti. Uno psichiatra e un assistente sociale avevano fatto loro alcune domande. Le
risposte erano raccapriccianti: intere famiglie rapite, trascinate nella boscaglia, costrette a portare carichi
pesanti fino ai campi base militari e poi sottoposte ad abusi di ogni genere. I bambini venivano picchiati,
violentati o costretti ad assistere a omicidi e pestaggi, forzati a combattere e spinti ad uccidere a loro volta.
Tutto ciò accadeva sistematicamente. Molti bambini mostravano evidenti ferite, ma soprattutto la maggior
parte di loro erano traumatizzati. C’era un bambino di sette anni, che era stato rapito. Lui ha cambiato la mia
vita. Quando sono arrivato all’orfanotrofio, era completamente fuori dal mondo. Un giorno era calmo, e il
giorno dopo non smetteva di piangere. Alla fine ha cominciato a parlare. Viveva con la sua famiglia quando
una notte un manipolo di soldati ribelli lo aveva svegliato, poi lo avevano picchiato e costretto a dare fuoco
al capanno dove dormivano i suoi genitori. La sua famiglia aveva cercato di scappare dal capanno in fiamme,
e allora li avevano uccisi e fatti a pezzi davanti ai suoi occhi. Non dimenticherò mai le sue sensazioni, perché
in qualche modo ero riuscito a farlo aprire e lui aveva condiviso con me i peggiori momenti della sua vita.
Le immagini, le brutte immagini che avevo io della mia infanzia, anche di cose più piccole, che mi avevano
fatto male, mi erano tornate in mente. A volte cercavo di mettermi nei suoi panni, provando a vivere la sua
esperienza. E la sua, non era che una storia tra tante altre. Il conflitto in Mozambico è stato unico, nel senso
che ha colpito quasi esclusivamente la popolazione civile. Lo scontro diretto tra le forze governative e i ribelli
era molto, molto raro. Nella maggior parte di casi, andavano nei villaggi, dentro le capanne, saccheggiavano
tutti, ammazzavano tutti, oppure rapivano la gente e comunque rubavano. In tutto ciò prendevano ragazzi e
ragazze per addestrarli al combattimento. Quando è finita la guerra abbiamo saputo per certo che le ragazze
venivano usate dai soldati come partner sessuali. Dopo pochi anni di addestramento, i bambini diventavano
dei perfetti strumenti di morte. Disposti a fare esattamente ciò che avevano visto fare: uccidere a sangue freddo. È cominciata con una vera e propria psicologia del terrore.
La gente rischiava di venire assassinata e dissentiva da qualsiasi cosa la costringessero a fare. O ammazzavi
o ti ammazzavano. E questo ha spinto la popolazione a comportarsi così. Bisogna pensare che la vita nei
campi dei ribelli era così brutta e così difficile che gli unici ad avere accesso al cibo o alle necessità primarie erano i soldati. Di conseguenza, in quel contesto essere un soldato significava sopravvivere. Questo
era quanto. Con Save The Children (Stati Uniti), abbiamo messo a punto un programma per raccogliere
informazioni sui bambini che erano stati separati dalle loro famiglie a causa della guerra. La finalità del
programma era di fornire alle vittime un supporto psicologico e sociale, ma ci siamo subito resi conto di non
avere le risorse necessarie. Potevamo solo aiutare i bambini a lasciare i territori del conflitto per tornare con
le famiglie. Andavamo quotidianamente nelle zone di guerra, prendevamo nota di quanti più bambini ci era
possibile e cercavamo di indirizzarli verso le comunità di profughi dislocate nel paese e ai campi profughi
dei paesi limitrofi. Quando ci era possibile li portavamo in ambienti più sicuri. In alcuni casi non eravamo
nemmeno autorizzati dal governo, né tantomeno dai ribelli - con i quali per altro non avevamo alcun contatto - a recarci sul fronte. Cercavamo di fornire ai bambini almeno le prime necessità: acqua, cibo e medicine
essenziali, nel tentativo di far fronte alla denutrizione, alla malaria, al colera ed alle altre malattie. Ma se un
bimbo mostrava ferite da arma da fuoco, oppure era stato mutilato dalle mine antiuomo, allora bisognava
occuparci di questo prima di cominciare il vero lavoro. Naturalmente, anche noi eravamo in costante pericolo. Non c’era una strada sicura in tutto il paese, perciò l’unico mezzo idoneo per raggiungere quelle zone
era l’aeroplano.
Ci hanno sparato addosso più di una volta, facendoci quasi precipitare. Ci è capitato di atterrare su lembi
di terra cosparsi di mine. Abbiamo avuto parecchi incidenti di volo. Per non farci sopraffare dalla paura,
pensavamo alla fortuna che avevamo anche solo ad essere vivi. Spero che un giorno avremo un mondo dove i
bambini possano di nuovo essere trattati da bambini e nel quale si possano dare loro tutte le opportunità che
meritano come esseri umani. Sai, una volta che hai dato alle persone l’opportunità di esprimere il proprio
potenziale, si possono risolvere molti problemi. Il mio paese è un esempio di come la gente è stata capace
di usare le proprie risorse nelle circostanze più estreme e difficili. La gente ha davvero una gran capacità di
recupero, e in paesi come il mio, questo ha un significato importante.
E in questo bisogna credere.
Fonte: Speak Truth to Power
2a SETTIMANA
“La pace, intesa come assenza di guerra, ha poco valore agli occhi di coloro che muoiono
di fame e di freddo. Essa non cancellerà le sofferenze provocate dalle torture inflitte a un
prigioniero di coscienza. La pace è durevole solo laddove i diritti umani vengono davvero
rispettati, dove le persone hanno di che nutrirsi e dove sia gli individui che le nazioni sono
veramente libere”
Dalai Lama
Raccontiamo Gesù
“Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato”
Quest’anno, Madre mia amatissima, il buon Dio m’ha fatto la grazia di comprendere che cosa sia la
carità. È vero, anche prima lo comprendevo, ma in modo imperfetto; non avevo ancora approfondito
questa parola di Gesù: «Il secondo comandamento è simile al primo: amerai il tuo prossimo come te stesso»
(Mt 22,39). Cercavo soprattutto di amare Dio; ma amandolo compresi come il mio amore non dovesse tradursi
solo in parole, poiché: «Non sono coloro che dicono: Signore, Signore, ad entrare nel regno dei cieli, ma chi
fa la volontà di Dio» (Mt 7,21). Questa volontà, Gesù l’ha fatta conoscere diverse volte, direi quasi a ogni pagina del suo vangelo; ma all’ultima cena, quando egli sa che il cuore dei suoi discepoli brucia d’un amore più
ardente per lui che si è dato a loro, nell’ineffabile mistero della sua Eucaristia, questo dolce Signore vuole dar
loro un «comandamento nuovo». Dice loro con un’inesprimibile tenerezza: «Vi do un comandamento nuovo,
quello di amarvi vicendevolmente e che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati. Il segno dal quale tutti
conosceranno che siete miei discepoli, è che vi amiate vicendevolmente» (Gv 13,34-35).
In che modo Gesù ha amato i suoi discepoli e perché li ha amati? Non poteva essere attratto dalle loro qualità
naturali; fra essi e lui correva una distanza infinita. Egli era la scienza, la Sapienza Eterna; loro erano poveri
pescatori, ignoranti e tutti presi da pensieri terreni. Nonostante questo, Gesù li chiama suoi amici, suoi fratelli.
Vuole vederli regnare con lui nel regno del Padre suo e per introdurli in tale regno vuole morire su una croce, come egli disse: «Non c’è amore più grande di quello di dare
chi si ama» (Gv 15,13).
la propria vita per
Meditando queste parole di Gesù, compresi, Madre diletta, quanto fosse imperfetto il mio amore per le mie
sorelle, costatai che non le amavo come il Buon Dio le ama. Ora comprendo come la ca¬rità perfetta consista
nel compatire i difetti degli altri, nel non meravigliarsi affatto della loro debolezza, nel trarre edificazione dal
minimo atto di virtù che si vede da loro praticato: ma soprattutto compresi che la carità non deve affatto rimanere rinchiusa in fondo al cuore: «Nessuno, ha detto Gesù, accende una lampada per metterla sotto il moggio,
ma la si mette sul candelabro perché illumini tutti coloro che sono in casa» (Le 8,16). Mi sembra che questa
lampada rappresenti la carità che deve illuminare e rallegrare non solamente coloro che mi sono più cari ma
tutti coloro che sono in casa, senza escludere nessuno.
Quando il Signore aveva comandato al suo popolo di amare il prossimo come se stessi, non era ancora venuto sulla terra; così, sapendo a quale grado si ami la propria persona, non poteva richiedere dalle sue creature
un maggior amore per il prossimo. Ma quando Gesù dette ai suoi apostoli un comandamento nuovo, il suo
comandamento, come lo definisce più avanti, non parla più di amare il prossimo come se stessi ma di amarlo
come lui, Gesù, l’ha amato e come l’amerà fino alla consumazione dei secoli-Signore, so che non mi comandi
nulla d’impossibile; conosci meglio di me la mia debolezza, la mia imperfezione, sai che non potrò mai amare
le mie sorelle come tu le ami, se non sei ancora tu, Gesù mio, ad amarle in me. È per accordarmi questa grazia
che tu hai dato un comandamento nuovo. Quanto lo amo, se mi dà la garanzia che la tua volontà è d’amare in
me tutti coloro che comandi d’amare!...
Santa Teresa di Lisieux, Storia di un’anima
Conosciamo e imitiamo Don Bosco
La sua carità pastorale
La carità pastorale caratterizza tutta la storia di Don Bosco ed
è l’anima delle sue molteplici opere. Potremmo dire che essa è la
prospettiva storica sintetica attraverso la quale leggere tutta la
sua esistenza. Il Buon Pastore conosce le sue pecore e le chiama per
nome; egli le disseta ad acque cristalline e le pascola in prati
verdeggianti; diventa la porta attraverso la quale le pecore entrano
nell’ovile; da’ la propria vita affinché le pecore abbiano vita in
abbondanza. La forza più grande del carisma di Don Bosco consiste
nell’amore che viene attinto direttamente dal Signore Gesù, imitandolo e rimanendo in Lui. Questo amore consiste nel “dare tutto”.
Da qui promana il suo voto apostolico: “Ho promesso a Dio che sino
all’ultimo respiro della mia vita sarà per i miei giovani poveri”.
Questo è il nostro marchio e la nostra credibilità presso i giovani!
Don Pascual Chavez
Don Bosco Precursore dei diritti umani
come lui ci prendiamo cura dei diritti di bambini e adolescenti
leggiamo le Memorie dell’oratorio...
1
Il pensiero di
Don Bosco
““Anche se il mio obiettivo era accogliere solamente i giovani che vivevano in situazioni di pericolo, in modo particolare coloro che uscivano dalle carceri, tuttavia, per
avere una solida base su cui fondare il mio sistema educativo invitai alcuni giovani di
buona condotta e già istruiti. Loro mi aiutavano a tenere l’ordine…”
(Decade dal 1835-1845, 13° capitolo )
“Ho visto che quattro quinti degli animali si erano trasformati inagnelli. Il loro numero è aumentato ancora
successivamente. In quel momento sono arrivati dei pastori per vigilarli. Ma stavano poco tempo e andavano via. È successa allora una cosa meravigliosa. Molti agnelli si trasformavano in pastori, che crescevano
e si prendevano cura degli altri. Con l’aumentare del numero dei pastori, si separavano e andavano in altri
luoghi, dove riunivano animali strani e li portavano in altri pascoli”
(Decade dal 1835-1845, 15° capitolo)
“Ma dove trovare tanti professori quanti ne servivano? Per risolvere il problema iniziai a preparare un certo numero di giovani di città. Insegnavo loro, senza chiedere un compenso, …con l’obbligo però di venire
ad aiutarmi durante le lezioni domenicali e notturne con gli altri ragazzi. I miei piccoli professori, 8 o 10
in questo momento, continuavano ad aumentare”
(Decade dal 1846-1855, 3° capitolo )
2
I diritti umani impliciti nel
pensiero di Don Bosco
Diritto ad essere accolti
Diritto alla responsabilità personale e collettiva
Dovere di impegno individuale e sociale
3
Diritto Internazionale dei Diritti Umani
Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia
Articolo 12 – “Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente
la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità”
Articolo 29 – “Gli Stati parti convengono che l’educazione del fanciullo deve avere come finalità:
a) favorire lo sviluppo della personalità del fanciullo nonché lo sviluppo delle sue facoltà e delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutta la loro potenzialità;
b) sviluppare nel fanciullo il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dei principi consacrati nella Carta delle Nazioni Unite;
c) sviluppare nel fanciullo il rispetto dei suoi genitori, della sua identità, della sua lingua e dei suoi valori culturali, nonché il rispetto dei valori nazionali del paese nel quale vive, del paese di cui può essere originario e delle civiltà diverse dalla sua;
d) preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia tra tutti i popoli e gruppi etnici, nazionali e religiosi e delle persone di origine autoctona;
e) sviluppare nel fanciullo il rispetto dell’ambiente naturale”
Articolo 31 – “Gli Stati parti rispettano e favoriscono il diritto del fanciullo di partecipare pienamente alla vita culturale e artistica e incoraggiano l’organizzazione, in condizioni di uguaglianza, di mezzi appropriati di divertimento e di attività ricreative, artistiche e culturali”
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani
Articolo 27 – “Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici”
Articolo 29 – “1 Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità.
2. Nell’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle
limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica.
3. Questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitati in contrasto con i fini e principi delle Nazioni Unite”
Patto Internazionale sui Diritti Economici, sociali e civili
Articolo 13 – “Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo all’istruzione.
Essi convengono sul fatto che l’istruzione deve mirare al pieno sviluppo della personalità umana e
del senso della sua dignità e rafforzare il rispetto per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali.
Essi convengono inoltre che l’istruzione deve porre tutti gli individui in grado di partecipare in modo effettivo alla vita di una società libera, deve promuovere la comprensione, la tolleranza e l’amicizia fra tutte le nazioni e tutti i gruppi razziali, etnici o religiosi ed incoraggiare lo sviluppo delle attività delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace”
Dichiarazione ONU sui Difensori dei Diritti Umani
Articolo 18 – “Tutti hanno doveri verso e all’interno della comunità, nella quale soltanto il libero e pieno sviluppo della loro personalità è possibile. Gli individui, i gruppi, le istituzioni e le organizzazioni non governative hanno un importante ruolo e responsabilità nella salvaguardia della democrazia,
nella promozione dei diritti umani e delle libertà fondamentali e nel contribuire alla promozione e al progresso delle società, delle istituzioni e dei processi democratici. Gli individui, i gruppi, le istituzioni e le organizzazioni non governative hanno inoltre un importante ruolo e responsabilità nel contribuire, ove appropriato, alla promozione del diritto di tutti ad un ordine sociale ed internazionale in cui i diritti e le libertà sancite dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e dagli altri strumenti sui diritti umani siano pienamente realizzati”
Il povero, incarnazione di Cristo
... i diritti umani nel mondo
Che
abbiamo fatto? Che abbiamo
mai fatto? Cristo ci ha abbandonati.
Lo abbiamo cacciato via. Con le nostre
inimicizie, il nostro orgoglio, la nostra
arroganza farisaica, abbiamo schernito
lo spirito del vangelo. E Cristo se n’è
andato, Cristo se n’è andato.
Dove sarà adesso, dov’è? Va come un
pellegrino, come uno sconosciuto, fra i
poveri, i respinti, i reietti di questa terra. Dove sarà, dove? Forse nelle Indie,
in Africa? o nei quartieri miserabili delle
grandi città? Ma noi non possiamo vivere senza di lui, non lo pos¬siamo. Dobbiamo ritrovarlo. (...) Sconosciuto sulle
strade del mondo... Però, nonostante le
nostre disunioni e la durezza del nostro
cuore, Cristo rimane pur sempre fedele
alla sua Chiesa... Proprio qui è la tragedia: che noi lo scacciamo dal luogo
stesso dove lui si dona totalmente, nel
calice. La Chiesa disunita lacera il suo
Signore, mentre dovrebbe non essere
altro che un calice vivente dove l’energia divina sovrabbonda per tutti gli uomini.
Ah! siamo contenti di noi! Noi siamo
i puri, noi possediamo la verità, noi
condanniamo gli altri. Ma la Vita e la
Storia stanno bus¬sando alle porte
della Chiesa per porle delle domande
definitive. Tutto sta cambiando. La rivoluzione scientifica si scatena, non si
limita più a modificare i sistemi di vita
dell’umanità ma opera sull’uomo stes-
SCHIAVITÙ SESSUALE E TRATTA DELLE BAMBINE E
DELLE DONNE
Tratta significa prelevare una persona usando la violenza oppure
esercitando su di essa una qualche forma di potere con il proposito di sfruttarla sessualmente o economicamente, a esclusivo
vantaggio del trafficante. La tratta di donne è un commercio in
crescita che sfrutta e umilia le donne e persino i bambini in tutto
il mondo. Le donne e le ragazze che vengono da Paesi poveri, le
rifugiate, e le donne di classi sociali molto basse sono le più vulnerabili perché di solito vogliono comunque emigrare in Paesi più
ricchi per sfuggire all’estrema povertà e poi mandare alle proprie
famiglie un aiuto in denaro. Altre donne emigrano per rompere
una catena di violenze domestiche oppure a seguito di uno stupro,
poiché quest’ultimo in molte società tradizionali porta disonore
alla famiglia. Molte di queste donne vengono apertamente assunte con l’inganno per un lavoro che poi si traduce in prostituzione,
in servitù, in lavoro forzato, in matrimoni da schiave, in turismo
sessuale, in pornografia e in accattonaggio. Altre vengono rapite
oppure vendute dalla famiglia stessa. Sono vittime della schiavitù
dei tempi moderni, costrette a lavorare come prostitute, private di
cibo e di medicine, devono sopportare abusi psicologici e fisici,
sono controllate e circoscritte in ogni loro movimento.
Fonte: Speak Truth to Power
so, sulla sua formazione, sulle sue relazioni con la donna, sulla sua psicologia; domani forse riuscirà a modificare la
sua ereditarietà, il suo carattere. Non che la scienza e la tecnica debbano di necessità costruire un mondo senza Dio,
come a volte si dice; ma costringono l’uomo - e sempre più lo costringeranno - a chiedersi dove tutto ciò lo conduce,
quale ne è il significato, che senso ha la vita umana... Anche l’ateismo si sta trasformando. Diventa un’atmosfera di
indifferenza dove la moltitudine rimane imprigionata. Si modifica pure il comunismo; vi affiorano molteplici tendenze,
talora rimane o ridiventa una pseudo-religione, talaltra non è più che l’alibi di una nuova classe dirigente, talaltra
ancora si laicizza e pone l’accento sulle tecniche dell’organizzazione sociale...
Ciò che manca essenzialmente alla gente di Chiesa è lo Spirito del Cristo, l’umiltà, il rinnegamento di sé, l’accoglienza
disinteres¬sata, la capacità di vedere ciò che vi è di buono nel prossimo. Abbiamo paura, vogliamo trattenere ciò
che è superato perché vi siamo avvezzi, vogliamo aver ragione contro gli altri, dissimuliamo sotto il vocabolario di
un’umiltà stereotipata lo spirito di orgoglio e di dominio. Ci muoviamo fuori della vita. (...) Abbiamo fatto della chiesa
un’organizzazione fra tante altre. Tutte le nostre energie sono state spese a metterla in assetto, e ora si spendono a
farla funzionare. E funziona, più o meno, piuttosto meno che più, ma funziona. Soltanto funziona come una macchina!
Come una macchina e non come la vita! (...)
ATENAGORA, patriarca di Costantinopoli, in O. Clément, Dialoghi con Atenagora,
Trasformiamo la nostra vita
riflettiamo insieme...
PER IL BENE DI TUTTI E DI CIASCUNO
È necessario che il volontariato si ristudi la parte
che deve recitare.
Che prenda sempre meglio coscienza, cioè, della sua
nuova identità, i cui tratti caratteristici mi pare di
scorgere.
Anzitutto, il volontariato deve sentirsi il figlio primogenito, anche se non unico, della solidarietà.
E ormai diventata un classico la descrizione di questa madre nel n. 38 della Sollicitudo Rei Socialis:
«La solidarietà non è un sentimento di vaga comprensione o di superficiale intenerimento per i mali
di tante persone, vicine e lontane. Al contrario, è la
determinazione ferma e perseverante di
impe-
gnarsi per il bene comune: ossia per il bene
di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente
responsabili di tutti. Tale determinazione è fondata sulla salda convinzione che le cause che frenano
il pieno sviluppo siano quella brama del profitto e
quella sete di potere di cui si è parlato.
Questi atteggiamenti e strutture di peccato si vincono
solo (presupposto l’aiuto della grazia divina) con un
atteggiamento diametralmente opposto: l’impegno
per il bene del prossimo con la disponibilità, in senso evangelico, a perdersi a favore dell’altro invece
di sfruttarlo, e a servirlo invece di opprimerlo per il
proprio tornaconto».
Tonino Bello
AMA DIO, AMA IL PROSSIMO
Le vie sono due: una della vita e una della morte, e
grande è la differenza tra le due vie.
Dunque, la via della vita è questa: innanzitutto «amerai il Dio» che ti ha plasmato e poi «il tuo prossimo,
come te stesso»; e tutto ciò che non vorresti fosse
fatto a te, neppure tu fallo a un altro.
Ecco dunque l’insegnamento di queste parole: bene-
dite coloro che vi maledicono, pregate «per i vostri
nemici» e digiunate «per coloro che vi perseguitano»
(Mt 5,44). Quale grazia, infatti, se amate coloro che
vi amano? «Non fanno questo anche le genti?» (Mt
5,47). Voi, invece, amate coloro che vi odiano e non
avrete [alcun] nemico. «Allontanati dai desideri della carne» e del corpo. «Se qualcuno ti dà uno schiaffo
sulla guancia destra, rivolgigli anche l’altra», e sarai
perfetto. «Se qualcuno ti costringe a [fare] un miglio, fanne insieme a lui due» (Mt 5,41). Se qualcuno
prende il tuo mantello, dagli anche la tunica (cf. Mt
5,40). Se qualcuno ti prende ciò che è tuo, non ridomandar [lo], perché non puoi.
«A chiunque ti chiede, dà» (Mt 5,42) e non ridomandare, perché il Padre vuole che i suoi doni siano dati
a tutti. Beato colui che dà, secondo
il comandamento, perché è senza colpa. Guai a colui che riceve: se infatti qualcuno riceve essendo nel
bisogno, sarà senza colpa; ma chi [riceve] non essendo nel bisogno, darà conto del motivo per cui ha
ricevuto e del fine; messo in prigione, sarà esaminato
circa quello che ha fatto «e non sarà liberato di là,
finché non abbia restituito l’ultimo quadrante» (Mt
5,26). Ma ancora su questo è stato detto: «Suda la
tua elemosina nelle tue mani, finché [tu] non sappia
a chi dai».
Secondo comandamento dell’insegnamento: «non
ucciderai», «non sarai adultero, non corromperai i
ragazzi, non fornicherai, «non ruberai», non praticherai la magia, «non praticherai la stregoneria», non
ucciderai il bambino con l’aborto né lo farai morire
una volta nato, «non desidererai le cose del prossimo». «Non spergiurerai», «non dirai falsa testimonianza», non sarai maldicente, non serberai rancore.
Non sarai doppio di pensiero né doppio di lingua,
perché la doppiezza di lingua è una trappola di morte. La tua parola non sarà menzognera, né vuota, ma
colma dell’esperienza. Non sarai ambizioso, né rapace, né ipocrita, né maligno, né orgoglioso; non ordi-
rai un cattivo disegno contro il tuo prossimo. Non odierai nessuno; ma alcuni li riprenderai, per
pregherai, altri ancora li amerai più della tua stessa anima.
altri
Sii invece mite, perché «i miti erediteranno la terra». Sii magnanimo, misericordioso, senza malizia, «tranquillo», buono e «temi» sempre «le parole» che hai udito (cf. Is 66,2). Non ti innalzerai, né consegnerai la tua
anima all’insolenza. La tua anima non si unirà agli alteri, ma frequenterai i giusti e gli umili. Accoglierai come
beni gli eventi che ti accadono, sapendo che senza Dio non avviene nulla.
Didaché 1-2.3,1.7-10, in Padri apostolici, Agli inizi della Chiesa,
... con chi ci è riuscito
JULIANA DOGBADZI, schiava bambina in un tempio della religione tradizionale nel suo Paese nativo, il
Ghana, secondo un’usanza chiamata Trokosi, è stata costretta a lavorare senza essere pagata, senza cibo o
vestiti, e a fornire prestazioni sessuali al sant’uomo, sacerdote del tempio. È riuscita a fuggire diciassette
anni più tardi all’età di ventitré anni. Trokosi viene da una parola Ewe che significa schiava degli dei , ed
è una pratica religiosa e culturale secondo la quale le ragazzine, più che altro vergini, vengono mandate a
servizio per tutta la vita per espiare i presunti crimini dei loro parenti. Nel 1997, si è stimato che approssimativamente cinquemila ragazzine e donne erano segregate in 345 templi nella parte sud est del Ghana. Grazie
alla coraggiosa fuga di Juliana Dogbadzi e al suo impegno nel denunciare il sistema, la pratica Trokosi in
Ghana è stata bandita; comunque, l’applicazione della legge contro la Trokosi è ancora labile. La Dogbadzi
si batte per l’abolizione di questa pratica, gira tutto il paese, e incontra le schiave cercando di spiegare loro
che è possibile tornare libere; ed è sempre meno sola nella sua coraggiosa presa di posizione.
Quando avevo sette anni i miei genitori mi hanno portato via di casa, in un tempio dove sono stata la schiava
di un sacerdote feticista per diciassette anni. Mio nonno, mi hanno detto, aveva rubato due dollari. Quando era
stato accusato del furto e gli era stato chiesto di restituire il denaro, lui aveva dichiarato di essere innocente.
Allora la donna che lo aveva incolpato era andata al tempio e aveva maledetto la famiglia di mio nonno, e da
quel momento i membri della mia famiglia avevano cominciato a morire. Un indovino aveva detto che per
fermare i decessi mio nonno doveva recarsi al tempio Trokosi. Il sacerdote ha chiesto che portassero al tempio
una giovane, per placare gli dei. Hanno portato una delle mie sorelle al tempio di Kebenu, a circa seicento
chilometri da casa nostra, ma è morta in pochi anni. L’hanno rimpiazzata con me, che sono nata subito dopo
la morte di mio nonno. Io vivevo e lavoravo nei campi del sacerdote e tenevo pulito il recinto. E il sacerdote
mi violentava regolarmente. Io e le altre schiave non ricevevamo né cibo né cure mediche. Dovevamo trovare
il tempo, dopo aver lavorato nella fattoria del sacerdote, di bruciare del carbone o di vendere legna da ardere
nella città più vicina per poter avere i soldi per comprare qualcosa da mangiare. C’erano periodi in cui ci tenevamo in vita con peperoni crudi o semi di palma. Ero solo una bambina, non sapevo cosa fare. C’erano un
centinaio di donne schiave nel mio tempio, ma il sacerdote ne aveva mandate circa novanta a lavorare nelle
sue fattorie in altri villaggi. In tutto, avevano circa sessantacinque bambini e dovevano occuparsi anche di
loro. Vivevamo in dodici, quattro donne e otto bambine, in una casa con una stanza sola e il tetto di paglia.
Era fatta di fango e non aveva né porte né finestre. Ci pioveva dentro. Ci entravano i serpenti. La stanza era
sei metri per tre e mezzo. Il soffitto era basso, ci sfiorava la testa, e dormivamo tutti insieme su una stuoia,
sul pavimento. Non è tutto ciò che ricordo, ma raccontare mi riporta al dolore di allora, come se rivivessi
quell’esperienza, ed è difficile. Sai, nel tempio non si possono portare le scarpe o il cappello per proteggersi
dal sole cocente. Se piove o fa freddo hai comunque solo un pezzetto di stoffa addosso. Una giornata tipica
nel tempio era così: ti svegliavi alle cinque del mattino, andavi al torrente che era a circa cinque chilometri per
prendere l’acqua per il recinto, spazzavi, preparavi il pranzo per il sacerdote (senza mangiare niente), andavi
alla fattoria, lavoravi fino alle sei di sera, e tornavi a dormire senza cibo, oppure raccattavi gli avanzi. Di notte,
il sacerdote chiamava una di noi nella sua camera e ci violentava. La prima volta io avevo circa dodici anni.
Quando vedevo la gente che veniva al villaggio a comprare del cibo con addosso dei bei vestiti, pensavo che
dovevo fare qualcosa per me stessa. Dovevo riavere la libertà. La mia vita doveva cambiare. Sono fuggita diverse volte. La prima volta sono andata dai miei genitori. Ho detto che al tempio stavo male, ma loro avevano
paura a tenermi a casa. Dicevano che gli dei li avrebbero fatti morire. E mi hanno riportata dal sacerdote a
patire lo stesso dolore. Ho pensato, no. Questo non succederà più. Dovevo trovare un modo per riuscire a liberarmi e per liberare anche le altre donne. Un giorno, è venuto un uomo che rappresentava un’organizzazione
non profit, che si chiama International Needs-Ghana, a parlare con il sacerdote. Era la mia occasione. Non so
da dove mi sia venuta quell’improvvisa fiducia in me stessa, ma la paura era sparita. Non avevo più paura di
morire ed ero pronta a morire per gli altri. Grazie a Dio ho avuto quella sensazione! Non sono scappata subito
perché ero molto debole, la gravidanza era avanzata e non avrei potuto camminare a lungo. Fortunatamente,
ho avuto il bambino poche settimane dopo. Col piccolo legato sulla schiena e l’altro bambino, t’immagini, in
braccio, sono fuggita nella boscaglia e ho raggiunto la strada principale, dove ho trovato un passaggio fino ad
Adidome e alla sede di International Needs-Ghana. I membri dell’organizzazione mi hanno insegnato molte
cose e mi hanno tenuta lontana dal sacerdote. Mi hanno insegnato a fare il pane e altri mestieri. Però ho pensato: “Ci sono altre donne ancora nel tempio e hanno bisogno di aiuto. Nessuno può rappresentarle meglio di
chi ci è stato e ha vissuto il loro stesso dolore, che può dire al mondo che cosa succede dentro al tempio.” Il
tempio si arroga un potere che non ha, in modo da instillare nelle schiave il terrore di fuggire. Questa pratica
è un tentativo deliberato da parte degli uomini di soggiogare le donne. Un uomo commette un crimine e una
donna deve pagare, è inaccettabile. A differenza della maggior parte delle altre ragazze e delle altre donne, io
ho superato la paura instillata dal sistema Trokosi. È stata questa la mia arma. Da quando sono fuggita, aiuto
le donne a vincere la paura raccontando la mia storia. Dico loro cosa faccio ora, che sono ancora viva, e non
morta, come invece viene fatto credere a loro. Cerco di far capire ai sacerdoti il dolore che le donne devono patire. Alcuni non mi fanno più entrare nel tempio. Vado in città e parlo alla gente della vita nei templi e sostengo
l’abolizione della pratica. C’è chi mi minaccia per lettera e chi mi affronta apertamente. In questo momento,
lavorano con me nell’organizzazione altre otto ragazze. Il mio prossimo passo per debellare la Trokosi è rafforzare la legge e trovare organizzazioni alleate nella Repubblica del Togo e nel Benin, che possano fermare
questa pratica nei loro rispettivi paesi.
Fonte: Speak Truth to Power
3a SETTIMANA
“In ognuno di noi c’è un Dio, e questo Dio è lo spirito che unisce le nostre vite con tutto ciò
che ci circonda. Deve essere stata questa voce che mi ha detto che dovevo fare qualcosa, e
sono certa che quella stessa voce sta parlando a tutti gli abitanti di questo pianeta – o almeno a coloro che sono interessati al futuro del mondo al futuro del pianeta.”
Wangari Maathai
Raccontiamo Gesù
nessuno saprà pregare
finché Gesù non glielo avrà insegnato
Dopo due anni di vita comune con il Maestro della preghiera, i migliori tra gli apostoli non hanno saputo
vegliare un’ora con lui. Poiché lo spirito è pronto, ma la carne è debole. (...)
Le vostre pesantezze e impotenze al momento di pregare vi portano talvolta a chiedervi se non vi sia qualche
metodo misterioso che vi indicherebbe finalmente la via da seguire. Non credo che tale metodo esista, e comunque, non potrebbe essere diverso da ciò che il Signore ci ha detto nel vangelo.
Gesù resterà sempre il Maestro supremo della preghiera, non solo perché ne ha parlato con conoscenza di causa, ma per l’esempio della sua vita, perché ha pregato meglio di qualsiasi altro! Gesù ha vissuto la preghiera
perfetta, e in una vita particolarmente disturbata e talvolta schiacciante. Ma soprattutto egli resta il Maestro
della vostra preghiera perché lui solo, gratuitamente per amore, può mettervi nell’intelligenza, nella memoria
e nel cuore il vero spirito di preghiera. Nessuno saprà pregare finché Gesù stesso non glielo avrà insegnato
di dentro. Ogni volta che Gesù volle condurre alcuni dei suoi apostoli a pregare con lui, il vangelo nota che,
benché scelti, si addormentarono. Al Tabor, mentre il loro Maestro parla con Mosè ed Elia della sua prossima
morte, «Pietro ed i suoi compagni erano oppressi dal sonno». Al Getsemani, «egli ritorna dai suoi discepoli e
li trova addormentati», e dice a Pietro: «Simone, dormi? non hai potuto vegliare un’ora?» e tornato un’altra
volta li trovò addormentati poiché «i loro occhi erano stanchi, e non sapevano cosa rispondergli». Gesù non si
è né scoraggiato, né impazientito. Perché ci scoraggeremmo noi? (...)
Non bisognerà tuttavia concludere che voi non abbiate altro da fare che da attendere la visita dello Spirito di
Gesù. Bisogna andargli incontro e «sforzarsi lungo la via stretta». Bisogna «sforzarsi» alla preghiera e insieme
attendere il Signore per pregare veramente. In tutto ciò non vi è contraddizione. Salvo quando il Signore viene
a fare tutto da solo, bisogna saper tener conto di queste due realtà: la speranza umile e sempre rinnovata della
sua visita e la nostra attesa nello sforzo. (...)
Dobbiamo credere fermamente che la verità della preghiera, la via dell’unione a Dio
è al di là dei sentimenti, delle parole, delle idee. Si minimizza troppo la realtà della preghiera, non se ne ha
un’idea abbastanza elevata. Non si crede abbastanza che Dio può venire veramente in noi per fare la nostra
preghiera; oppure, se ci si crede, si ha tendenza a riservarne la riuscita a un piccolo numero di separati, a coloro
a cui il chiostro procura una cornice di silenzio favorevole alla meditazione. (...)
Ma, a forza di coraggio perseverante, con atti di fede e di amore semplici e nudi potrete mettervi là, davanti a
Dio, e attenderlo aprendogli il fondo del vostro essere come è. Attesa della sua venuta nel desiderio, ma soprat-
tutto in un sentimento d’impotenza, di miseria, di viltà. Il risultato sarà spesso una preghiera dolorosa, pesante,
in apparenza poco spirituale; ma attraverso questo sforzo di fede, nell’atteggiamento coraggioso del corpo si
tradurrà la sete e l’attesa di Dio che, nondimeno, è nell’intimo nostro. La volontà vuole pregare; almeno essa
desidera e chiede la preghiera. Certi giorni voi avrete solo questa povera cosa da offrire al Signore ed è a lui
che competerà il farne una vera preghiera e un mezzo di unione con lui.
René Voillaume, Come loro
Conosciamo e imitiamo Don Bosco
La sua capacità di sacrificarsi per amore
Nella storia di Don Bosco conosciamo le tante fatiche, rinunce, privazioni, sofferenze, i numerosi sacrifici che egli ha fatto. Il buon
pastore dà la vita per sue pecore. Attraverso i bisogni e le richieste dei giovani, Dio sta chiedendo a ogni membro della Famiglia
salesiana di sacrificare se stesso per loro. Vivere la missione non è
dunque un attivismo vano, ma piuttosto un conformare il nostro cuore
al cuore del Buon Pastore, che non vuole che alcuna delle sue pecore
vada perduta. E’ una missione profondamente umana e profondamente
spirituale. E’ cammino di ascesi; non c’è presenza animatrice tra i
giovani senza ascesi e sacrificio. Perdere qualcosa, o meglio, perdere tutto per arricchire la vita dei nostri giovani è il sostegno
della nostra dedizione e del nostro impegno.
Don Pascual Chavez
Don Bosco Precursore dei diritti umani
come lui ci prendiamo cura dei diritti di bambini e adolescenti
leggiamo le Memorie dell’oratorio...
1
Il pensiero di
Don Bosco
“Iniziarono a venire per giocare, successivamente per ascoltare delle storie e per fare
i compiti, e poi senza motivo…”
(Deade dal 1825-1835, 6° capitolo)
“Ma contenti per poter, almeno in quelle piccole stanze, riunire i nostri alunni e educarli”
(Decade dal 1845-1855, 19° capitolo )
“Riuniti i ragazzi nel prato, si lasciava loro il tempo perché giocassero”
(Decade dal 1845-1855, 20° capitolo)
“Per ottenere un buon risultato, si studiava una materia alla volta. Per esempio, in una o due domeniche si
studiava l’alfabeto, lo si ripassava…le lezioni domenicali non bastavano…furono così introdotte le lezioni
serali …Animati per i progressi raggiunti con le lezioni domenicali e serali, furono introdotte lezioni di
matematica e disegno”
(Decade dal 1846-1855, 3° capitolo)
2
I diritti umani impliciti nel
pensiero di Don Bosco
Diritto al gioco
Diritto all’educazione
3
Diritto Internazionale dei Diritti Umani
Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia
Articolo 28 – “Gli Stati parti riconoscono il diritto del fanciullo all’educazione”
Articolo 29 – “Gli Stati parti convengono che l’educazione del fanciullo deve avere come finalità:
a) favorire lo sviluppo della personalità del fanciullo nonché lo sviluppo delle sue facoltà e delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutta la loro potenzialità;
b) sviluppare nel fanciullo il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dei principi consacrati nella Carta delle Nazioni Unite;
c) sviluppare nel fanciullo il rispetto dei suoi genitori, della sua identità, della sua lingua e dei suoi valori culturali, nonché il rispetto dei valori nazionali del paese nel quale vive, del paese di cui può essere originario e delle civiltà diverse dalla sua;
d) preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia tra tutti i popoli e gruppi etnici, nazionali e religiosi e delle persone di origine autoctona;
e) sviluppare nel fanciullo il rispetto dell’ambiente naturale”
Articolo 31 – “Gli Stati parti riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età e a partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica”
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani
Articolo 26 – “Ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione elementare deve essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito”
Patto Internazionale sui Diritti Economici, sociali e civili
Articolo 13 – “Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo all’istruzione.
Essi convengono sul fatto che l’istruzione deve mirare al pieno sviluppo della personalità umana e del senso della sua dignità e rafforzare il rispetto per i diritti dell’uomo e le libertà
fondamentali. Essi convengono inoltre che l’istruzione deve porre tutti gli individui in grado
di partecipare in modo effettivo alla vita di una società libera, deve promuovere la comprensione, la tolleranza e l’amicizia fra tutte le nazioni e tutti i gruppi razziali, etnici o religiosi ed incoraggiare lo sviluppo delle attività delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace”
Fate presto, bambini
Cari bambini del terzo mondo,
che aspettate a costruire un organismo internazionale che raccolga fondi
a favore degli adulti occidentali? Sì,
una specie di Unicef rovesciato, in cui
i protagonisti siate voi e gli assistiti
siano i grandi.
Perchè, vedete, la televisione ci mostra ogni tanto i corpi denutriti dei
bambini d’Etiopia. Ci presenta le
membra di tanti innocenti disfatte
dalla miseria. Pretende di commuoverci con le immaggini di innumerevoli creature scarnificate dalla malattia.
Ma se ci fossero gli strumenti adatti
per portare sullo schermo le piaghe
dell’anima adulta, sonocerto che sarete voi a muovervi a pietà. E quegli
occhi immensi (l’unica cosa splendida
che vi è rimasta sul corpo martoriato)
si spalancherebbe ancora di più in un
raptus di compassione.
Fate presto, bambini.
Inventate una specie di Unicef a favore degli adulti. Istituite un fondo internazionale di speranza. Raccogliete gli
scampoli superflui della vostra innoccenza, i ritagli della vostra limpidezza,
gli spezzoni eccedenti della vostra voglia di vivere. Ne avete tanta!
Fate una colletta dei vostri sogni impossibbili. Raccattate i residui delle
vostre illusioni. Inviateci subito il pacco dono della vostra misericordia. a
noi adulti è più necessario di quanto
non siano necessarie a voi le scatole
confezionate delle nostre proteine.
Perchè voi, bambini del terzo mondo,
avete bisogno delle nostre calorie.
Ma noi grandi, figli dell’opulenza ed
inquilini di uno squallido terzo mondo
morale, abbiamo bisogno del vostro
calore.
Fate presto, perchè qui si muore.
Tonino Bello
... i diritti umani nel mondo
DIRITTI DELL’INFANZIA E LAVORO MINORILE
In quanto esseri umani, i bambini hanno diritti garantiti
dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e dai vari
trattati che da essa si sono in seguito sviluppati. Ma i bambini hanno anche bisogno di una cura e di una protezione
particolare. Devono poter dipendere da un mondo di adulti
che sappia occuparsi di loro, che sappia difendere i loro
diritti, e che sappia aiutarli a sviluppare e realizzare il loro
potenziale. Il lavoro minorile è una pesante violazione dei
diritti del bambino. Milioni di bambini nel mondo vengono
sfruttati e spesso svolgono lavori estremamente pericolosi.
La campagna Free The Children definisce il lavoro minorile nei termini di un lavoro che viene svolto al di sotto dei
15 anni (14 in alcuni paesi in via di sviluppo) che inibisce
o danneggia la loro crescita dal punto di vita fisico, psicologico, emotivo e intellettuale, nonché sociale o spirituale.
Molti concordano sul fatto che quando parliamo di lavoro
minorile intendiamo un lavoro intollerabile o che comunque danneggia il bambino, un lavoro che nega loro il diritto a uno pieno sviluppo, di giocare o di andare a scuola.
Fonte: Speak Truth to Power
Trasformiamo la nostra vita
riflettiamo insieme...
IL CRISTIANO È CHIAMATO A TRADURRE NEL QUOTIDIANO LA VERITÀ DELLA
RISURREZIONE DI CRISTO
È un fatto: la risurrezione si trova al centro della pre-
dicazione apostolica, si trova al centro delle dispute
umane. Gli studi sui problemi posti dalla risurrezione
si moltiplicano di giorno in giorno; l’uomo si interroga: o perché assetato di Dio o perché troppo stanco,
ha bisogno di scoprire la trasparenza delle cose, di
vedere il volto del Risorto nello spessore dei fatti,
nella vita, tramite il volto dell’uomo. È una grave responsabilità per il cristiano che è chiamato a vivere la
risurrezione del Cristo, a tradurre la realtà della sua
fede nel Risorto nella quotidianità della sua vita, nei
gesti umani di ogni giorno. Più che mai il cristiano
è chiamato a rendere conto della sua fede, a tradurre
la verità della risurrezione del Cristo nel quotidiano,
confessandola non a parole, ma con la vita vissuta,
con il suo impegno, con una vita
signifi-
cativa, con la sua speranza nel momento in cui
l’uomo, in un mondo sempre più complesso, si interroga sulla sua identità, nel momento in cui vuole con
forza - a volte con violenza - essere riconosciuto e
più ancora essere amato come uomo. (...)
Il senso della risurrezione di Cristo dovrebbe essere
familiare e naturale per il cristiano, poiché la risurrezione costituisce la realtà fondamentale della fede.
Ma ancora una volta, occorre fare attenzione a non
ingannarsi e pretendere che ciò che è fondamentale
sia evidente e facile a cogliersi. Ci sembra importante sottolinearlo perché a forza di voler troppo decifrare il contenuto del mistero si rischia di svuotarlo;
lo sforzo vero invece sta nel penetrare nel mistero
perché sia più facile percepirne il contenuto. Sarà
l’esperienza di Paolo all’Areopago: «Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: Su questo ti sentiremo un’altra
volta» (At 17,32). Non c’è da stupirsi. La risurrezione è scandalo per la ragione umana. E tuttavia è com-
pito del cristiano essere e divenire trasfigurato per
opera del Risorto a tal punto da rendere percepibile
il messaggio e il vero volto del Risorto tramite gesti
umani, nel suo modo di comportarsi, di amare. (...)
Tutto questo potrebbe sembrare molto bello, troppo
bello forse, a tal punto da far nascere dubbi sulla realtà
di queste cose. Sembrano solo parole. La realtà quotidiana dell’uomo, del suo volto segnato dall’odio,
dalla sofferenza, dal peccato, dall’egoismo, dalle ingiustizie della guerra, dalle diverse forme di intolleranza e di sfruttamento non ci invita a una modestia
maggiore? Sicuramente, ma qual è il senso di questa
realtà quotidiana? È quello di vanificare quanto vi è
nel più profondo del cuore umano oppure di invitare
l’uomo a rientrare in sé, a riesaminare la sua visione
delle cose, il suo modo di comprenderle e di viverle?
L’incapacità di scoprire nel vissuto un richiamo o
l’oblio di quello che costituisce la dignità dell’uomo, a causa di certe deficienze, è un segno o meglio
una prova che l’uomo sta per dimenticare la radicale novità della sua condizione, dopo aver relegato in
lontananza, fino a non viverla più, la vera novità del
cristianesimo.
Una volta di più il cristiano è invitato a scoprire
l’attualità e l’urgenza
dell’Incar-
nazione; una volta di più è chiamato a vivere
la risurrezione divenendo sempre di più un «risorto».
È questo il suo compito, la sua responsabilità: cogliere l’Incarnazione, comprendere alla luce di essa la
realtà umana, avere un volto da risorto.
Raymond Johanny,
«Le sens de la Résurrection»
... con chi ci è riuscito
KAILASH SATYARTHI in India è un punto di riferimento nell’abolizione del lavoro minorile. Nell’ultimo
decennio ha riscattato oltre 40.000 persone dal lavoro coatto, una forma di schiavitù che consiste nello sfruttamento di famiglie estremamente povere che, per poter sopravvivere, chiedono un prestito ad uno strozzino
(di solito cifre esigue, non più di 35 dollari) e in cambio devono lasciare un figlio in cauzione, fino all’estinzione del debito. Molto spesso però le famiglie non riescono a rifondere il debito, perciò i bambini vengono
venduti come operai: lavorano i diamanti, il taglio delle pietre ed in altre forme di artigianato. Satyarthi
salva i bambini e le donne dalla schiavitù in fabbriche sovraffollate, luride e sperdute, nelle quali si lavora
in condizioni deplorevoli, con orari disumani, senza alcuna misura di sicurezza, e dove vigono la tortura e
le violenze sessuali. Satyarthi è a capo della South Asian Coalition on Chi l d Ser v i tude che si coalizza
con istituzioni nazionali ed internazionali e con organizzazioni non governative, per esercitare pressioni sul
governo, sulle industrie manifatturiere e sugli importatori affinché cessino di far uso di manodopera illegale.
Satyarthi nel 1998, è riuscito a riunire oltre diecimila organizzazioni non governative di tutto il mondo nella
Global March Against Child Labor. L’opera di Satyarthi è solo all’inizio. Nel 2005, la Skoll Foundation
USA lo ha dichiarato uno dei 12 Nuovi Eroi del mondo.
Il lavoro coatto è una moderna forma di schiavitù, nella quale le persone perdono sia la basilare libertà di movimento sia l’altrettanto fondamentale libertà di scelta. Vengono costrette a lavorare con orari interminabili e
viene loro concesso pochissimo tempo per riposare. Oltre cinque milioni di bambini sono nati e si sono immediatamente ritrovati in questa condizione di schiavitù. Questo perché i loro genitori o addirittura i loro nonni
hanno magari chiesto un piccolo prestito a un ricco proprietario terriero della zona e non hanno potuto ripagare
il debito, quindi anche le generazioni successive hanno dovuto lavorare per quello stesso padrone.
Sono prigionieri, non possono andarsene. Altri cinque milioni di bambini vengono mandati a lavorare perché
i genitori hanno ricevuto un misero anticipo e questa minuscola cifra basta a giustificare anni e anni di sofferenze. Le condizioni del lavoro coatto sono assolutamente disumane. Di solito ricevono pochissimo cibo,
perché i padroni pensano che se i bambini mangiano a sufficienza poi avranno sonno e quindi rallenteranno il
lavoro. In molti casi non possono nemmeno parlare o ridere fra di loro perché pregiudica l’efficienza produttiva. Riteniamo che non ci siano violazioni dei diritti umani peggiori di questa. È la lacuna più vergognosa della
giustizia indiana, della costituzione del nostro paese e della Carta delle Nazioni Unite. L’arma più efficace che
abbiamo a disposizione è quella di educare la gente, creando sensibilità e consapevolezza riguardo a questa
piaga sociale. Inoltre, cerchiamo di identificare le aree in cui viene comunemente praticata la schiavitù minorile. Andiamo anche a prendere i bambini di nascosto e li riportiamo alle loro famiglie. A questo fa seguito la
loro istruzione, nonché la riabilitazione, passi altrettanto fondamentali dell’intero processo.
Cerchiamo di sollecitare diversi settori sociali, come i parlamentari, i gruppi religiosi, i sindacati ed altri, che
riteniamo possano avere una certa influenza nel modificare la situazione. Come certamente sapete, le marce
sono sempre state parte integrante della tradizione indiana. Il Mahatma Gandhi ne ha condotte tante per sensibilizzare la popolazione. Tenendo presente il forte impatto che hanno, specialmente quando si tratta di mobilitazioni di massa, per noi le marce hanno sempre avuto un ruolo preminente nella strategia complessiva che
adottiamo contro la schiavitù minorile. Le nostre manifestazioni vedono dai 200 ai 250 partecipanti, la metà
dei quali sono bambini. bambini liberati dal lavoro coatto e dalla schiavitù. Sono un esempio concreto della
pressante necessità di informare la gente sia sull’impatto devastante che ha il sistema del lavoro coatto, sia
sulla positività che comporta la loro ritrovata libertà. Gli altri partecipanti sono membri di organizzazioni per i
diritti umani, di sindacati e anche di organizzazioni a sfondo sociale che si uniscono a noi in nome della solidarietà. Io non sono per il totale boicottaggio o l’assoluto divieto di esportazione dei tappeti indiani. Suggerisco
invece che gli acquirenti comprino soltanto quei tappeti che portano la garanzia di non essere frutto del lavoro
minorile. Educare i consumatori è indispensabile per poi poter creare la domanda per tali tappeti. Crediamo
che quanto più i consumatori fanno pressione su questo argomento, tanto più i commercianti si vedranno costretti a lasciare liberi i bambini e ad assumere operai adulti. Purtroppo negli ultimi anni in India, in Pakistan
e in Nepal il numero dei bambini in schiavitù è aumentato, in proporzione all’incremento delle esportazioni.
Ad esempio, oggi in India ci sono 300.000 bambini nella sola industria dei tappeti, che esporta per un valore
pari a oltre 600 milioni di dollari all’anno. Dieci o quindici anni fa il numero dei bambini andava dai 75.000 ai
100.000 e le espor-tazioni fruttavano non più di 100 milioni di dollari. È evidente la connessione tra queste due
cose. Questo fatto ci ha spinti a lanciare numerose campagne per la sensibilizzazione dei consumatori stranieri. Negli ultimi due anni, invece, sono orgoglioso di dire che il tema dei bambini ha preso piede ed è diventata
una delle grandi campagne mondiali. Ciò che era cominciato con la sensibilizzazione e l’informazione ora, di
rimando, dà i suoi frutti in fatto di consensi e di adesioni. Siamo riusciti ad ottenere la costituzione di un organismo indipendente, professionale e internazionalmente affidabile, che si occupi di ispezionare, monitorare e
alla fine certificare che i tappeti ed altri manufatti non provengano dal lavoro minorile. Insieme all’UNICEF
e ad altre organizzazioni non governative, abbiamo formato la Rugmark Foundation, un organismo indipendente che si occupa di inviare degli ispettori sul campo, con il compito di applicare una certificazione che
riporti l’iter produttivo del tappeto. L’etichetta viene cucita nella parte sottostante del tappeto e nessuno la può
togliere o modificare. È un passo significativo verso la fine di questo sfruttamento.
Fonte: Speak Truth to Power
4a SETTIMANA
“Nessuno nasce odiando qualcun altro a causa del colore della pelle, o del suo background,
o del suo credo. Le persone imparano ad odiare, e se imparano ad odiare possono anche
imparare ad amare, perché l’amore è un sentimento molto più naturale del suo opposto”
Nelson Mandela
Raccontiamo Gesù
Il “no” di gesù al tentatore
è un “si” alla nostra povertà
Farsi uomo significa divenire «povero», non avere niente con cui farsi forte di fronte a Dio, nessun sostegno, nessuna forza e sicurezza oltre all’impegno e al sacrificio del proprio
cuore. Il divenire uomo appare in tal modo come confessione della povertà dello spirito umano di fronte
alla rivendicazione totale dell’inaccessibile trascendenza di Dio.
Con il coraggio di una tale povertà cominciò l’avventura divina della nostra salvezza. Gesù non si era tenuto
niente, non si era attaccato a niente e non si difendeva con niente: nemmeno con la sua origine. «Egli non si
fece forte della sua divinità», sì legge in Paolo (Fil 2,6), «ma annichilò se stesso». Satana, invece, cerca di
impedire questo auto-annichilamento, questa «povertà» radicale. Egli vuole fare Gesù forte, perché teme propriamente una cosa sola: l’impotenza di Dio nella natura umana assunta, Dio nel cavallo di Troia di un cuore
umano votato al sacrificio, che nella fedeltà incondizionata alla sua innata povertà soffre dall’interno - e quindi
si salva - il bisogno e la perdizione dell’uomo. Perciò il tentativo di Satana è un attentato all’auto-annichilamento di Dio e una tentazione alla forza che impedirebbe la venuta salvatrice di Dio nell’uomo - in mezzo alle
tenebre e all’impotenza del suo bisogno -, una tentazione alla sicurezza e alla «ricchezza dello spirito».
Il tentativo di Satana costituisce dunque una tentazione alla divinità di Gesù, un sondaggio della serietà e
della grandezza della sua umanità. Satana attenta sempre alla «forza» spirituale, alla divinità dell’uomo. Sin
dall’inizio ha fatto e fa questo, e sempre lo riconosceremo alle parole: Eritis sicut Deus. Questa è la tentazione
delle tentazioni, variata in mille modi: la tentazione contro la verità della natura assegnata all’uomo. Satana sta
per così dire dalla parte dei doceti e dei monofisiti. Egli vuole, in ultima analisi, che Dio resti solamente Dio
e che il suo farsi uomo sia solamente uno spettacolo senza impegno, una mascherata, un travestimento in cui
Dio gesticola senza impegnarsi in esso realmente. Egli vuole che il farsi uomo di Dio diventi una mitologia, un
divino gioco di marionette. La sua «chance» è che la terra resti esclusivamente sua, e con essa anche l’uomo:
l’uomo, intorno al quale si combatteva prima che si destasse all’alba della sua libertà così da non essere mai
richiesto e invitato alla libera decisione su se stesso in maniera disinteressata, ma sempre già o amichevolmente corteggiato o astutamente attaccato.
«Tu hai fame - dice Satana a Gesù -. Però presto tu non avrai più fame; tu puoi far questo con un prodigio. Tu
stai vacillando su un pinnacolo sopra un oscuro precipizio; ma presto non proverai più questo brivido, questa
insicurezza, questo pericolo di precipitare nel vuoto: tu ordinerai per te mani di angeli che ti porteranno...».
La tentazione di Satana è un appello a restare forte come Dio, senza pericolo alcuno, portato dagli angeli, «tenendo salda come una preda la sua divinità» (Fil 2,6), a non consegnarsi all’abbandono reale, alla precarietà
effettiva della natura umana -a tradire il «deserto» (immagine primitiva della grande povertà dell’uomo) - e a
svincolarsi dal nostro destino che grida al cielo. Perché umana è appunto la fame solamente quando non può
essere estinta del tutto; umana è la nostalgia solamente quando può anche restare vana; e umano è lo stare e
l’andare sopra i precipizi solamente quando non si può invocare nessuna mano che ci porti di là da essi.
La tentazione diventa così una suggestione a tradire l’uomo in nome di Dio (oppure - dialettica diabolica - Dio
in nome dell’uomo). Ma il no di Gesù al tentatore è appunto un sì alla nostra povertà. «Egli non si è fatto forte
della sua divinità» (Fil 2,6).
Johan Baptist Metz, Povertà nello spirito
Conosciamo e imitiamo Don Bosco
Il suo modo di andare incontro agli ultimi
I nostri buoni propositi non possono rimanere vuote dichiarazioni.
Come Don Bosco, oggi Dio ci attende nei giovani! Dobbiamo perciò
incontrarli e stare con loro nei luoghi, situazioni e frontiere dove
essi ci aspettano; per questo occorre andare loro incontro, fare
sempre il primo passo, camminare insieme a loro. E’ consolante vedere come in tutto il mondo la Famiglia salesiana si sta prodigando
per i giovani più poveri: ragazzi di strada, ragazzi emarginati,
ragazzi lavoratori, ragazzi soldato, giovani apprendisti, orfani
abbandonati, bambini sfruttati; ma un cuore che ama è sempre un
cuore che si interroga. Anche oggi, o forse oggi più che mai, Don
Bosco si pone domande. Attraverso la conoscenza della sua storia,
dobbiamo ascoltare gli interrogativi di Don Bosco rivolti a noi.
Cosa possiamo fare di più per i giovani poveri? Quali sono le nuove
frontiere nella regione dove lavoriamo, nel paese in cui viviamo?
Abbiamo orecchi per ascoltare il grido dei giovani di oggi? Oltre
alle già citate povertà, quante altre appesantiscono il cammino dei
giovani di oggi? Quali sono le nuove frontiere in cui oggi dobbiamo impegnarci? Pensiamo alla realtà della famiglia, alla emergenza
educativa, al disorientamento nell’educazione affettiva e sessuale,
alla mancanza d’impegno sociale e politico, al riflusso nel privato
della vita personale, alla debolezza spirituale, alla infelicità di
tanti giovani. Ascoltiamo il grido dei giovani e offriamo risposte
ai bisogni più urgenti e più profondi, ai bisogni più concreti e a
quelli spirituali.
don Pascual Chavez
Don Bosco Precursore dei diritti umani
come lui ci prendiamo cura dei diritti di bambini e adolescenti
leggiamo le Memorie dell’oratorio...
1
Il pensiero di
Don Bosco
“Non utilizzare il linguaggio e il modo dei classici di sviluppare un tema, parlare in
dialetto quando è possibile, o anche in italiano, ma popolarmente, popolarmente, popolarmente. Invece di ragionamenti, si usino esempi, comparazioni, favole semplici
e pratiche”
(Decade dal 1835-1845, 4° capitolo)
2
I diritti umani impliciti nel
pensiero di Don Bosco
3
Diritto di essere considerato in base
alla propria età, maturità e formazione
Diritto Internazionale dei Diritti Umani
Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia
Articolo 12 – “Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità”
Articolo 14 – “Gli Stati parti rispettano il diritto del fanciullo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani
Articolo 1
“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza
PENSARE GLOBALMENTE,
AGIRE LOCALMENTE
È in circolazione da almeno die-
ci anni, e dicono che la frase sia
stata coniata nei circoli ambientalisti: “Pensare globalmente e
agire localmente”.
Ha un’indubbia forza di sintesi
etica, tant’è che l’abbiamo adoperata un po’ tutti, anche all’interno della Chiesa. Giorni fa,
però, ho scoperto un’espressione ancora più forte e certamente
più antica. E sapete dov’è? Al numero 82 della Gaudium et Spes.
Dice così: “Ciascuno di noi deve
adoperarsi per mutare il suo cuore mirando al mondo intero”.
Di solito, quando parliamo di
conversione, ci riferiamo solo alla
sfera personale del cuore, ci accontentiamo di giocare la partita
giocando in casa, con correzioni
di tiro che riguardano le nostre
scelte morali e la nostra ascetica individuale. Nulla da eccepire
fin qui. Ma non basta. Arrestarsi a questa soglia significa fare
le cose a metà, e prima o poi
si sarà costretti ad accusare un
deficit pauroso di incidenza sulla
storia del mondo.
Non basta mutare il cuore: occorre mirare al mondo intero!
Come dire che convertirsi significa cambiare strada per prendere
quella che conduce sullo spazio
del Golgota, da dove è indispensabile abbracciare con un unico
sguardo il Crocifisso e il mondo,
e dalla cui altezza diventa obbligatorio leggere la cronaca di
perdizione della nostra povera
terra per farla diventare storia di
salvezza.
Tonino Bello
... i diritti umani nel mondo
LE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI
Nel 1977, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito
Mutilazione Genitale Femminile tutte le procedure che riguardano la parziale o totale rimozione delle parti esterne degli organi
genitali femminili o altre ferite inflitte a questi stessi organi sia
per ragioni culturali sia per ragioni non strettamente terapeutiche.
Le Mutilazioni Genitali Femminili vengono praticate da migliaia
di anni in almeno trenta paesi africani e medio orientali. Viene
praticata anche in alcune parti dell’Asia, sebbene a un livello più
circoscritto. Il danno che provocano consiste in cicatrici, dolore,
infezioni ed altri gravi problemi nella vita quotidiana della donna.
Per i genitori della donna, le ragioni che li spingono ad aderire a questa pratica sono molteplici: vanno dalla paura in merito
all’onore delle proprie figlie, alla loro possibilità di essere prese in
moglie, al semplice conformarsi a norme vigenti all’interno della
loro comunità. Le Mutilazioni Genitali Femminili sono illegali in
quasi tutti i paesi occidentali, e ora anche in molti paesi africani, anche se spesso le leggi vengono raggirate e, di conseguenza,
questa pratica ha luogo comunque.
Fonte: Amnesty International
Trasformiamo la nostra vita
riflettiamo insieme...
POVERI SI DIVENTA
Lo sapete: non si nasce poveri, poveri si diventa. Si
può nascere poeti, ma poveri si diventa, come si diventa avvocati, ingegneri, oratori. Si diventa poveri
dopo una trafila di studi, dopo lunghe fatiche, dopo
estenuanti esercizi. Ecco perché l’allenamento deve
essere costante: quella della povertà è una carriera, e
per giunta tra le più complesse, perché suppone un
noviziato severo, richiede un tirocinio difficile, tanto
diffìcile che il Signore Gesù si è voluto riservare direttamente l’insegnamento di questa disciplina.
Nella seconda lettera di San Paolo ai Corinzi, al capitolo 8, c’è un passaggio molto forte: «Il Signore
Gesù, da ricco che era, si è fatto povero per voi».
E un testo splendido; sembra un diploma di laurea
conseguita a pieni voti, incorniciato con cura e gelosamente custodito dal suo titolare. Se lo è portato
perfino nella trasferta suprema della croce, come la
più inequivocabile tessera di riconoscimento della
sua persona. Vi ricordate Dante? «Ella salì con Cristo sulla croce».
Gesù Cristo ha fatto una brillante carriera: da ricco
che era, si è fatto povero.
Tonino Bello
O BEATA POVERTÀ
O beata povertà
che a coloro che l’amano e l’abbracciano
offre ricchezze eterne!
O santa povertà,
a coloro che la possiedono e la desiderano
è promesso il regno dei cieli
e viene con certezza offerta
una gloria eterna
e una vita piena di beatitudine!
O pia povertà,
la quale il Signore Gesù Cristo,
che governò e governa cielo e terra
e che parlò
e ogni cosa fu creata,
si degnò abbracciare,
anteponendola ad ogni altra!
Le volpi, infatti, dice, hanno le loro tane, gli uccelli
del cielo i nidi, ma il Figlio dell’uomo, cioè Cristo,
non ha dove posare il capo (cf. Mt 8,20), ma, reclinato il capo, rese lo spirito (cf. Gv 19,30).
Se dunque un Signore di tale qualità e così grande,
venendo in un utero verginale, volle nel mondo apparire disprezzato, bisognoso e povero, perché gli
uomini, tanto poveri e bisognosi e tanto affamati
di nutrimento celeste, divenissero in lui ricchi, nel
possesso del regno dei cieli, esultate in pienezza e
rallegratevi, ricolma di grande gioia e di letizia spirituale, perché avendo voi preferito il disprezzo del
mondo agli onori, la povertà alle ricchezze di quaggiù e avendo voluto accumulare tesori, più che sulla
terra, in cielo, dove né ruggine né tignola consumano
e dove i ladri non saccheggiano né rubano (cf. Mt
6,20), la vostra ricompensa è grandissima nei cieli
e degnamente avete meritato di essere chiamata sorella, sposa e madre del Figlio dell’altissimo Padre e
della gloriosa Vergine.
Credo fermamente, infatti, che voi sappiate che il regno dei cieli non è promesso e donato dal Signore se
non ai poveri, perché quando si amano le cose temporali, si perde il
frutto della cari-
tà; che non è possibile servire a Dio e a mammona,
perché o si disprezza l’uno e si ama l’altro, o si sarà
affezionati a uno e si trascurerà l’altro (Mt 6,24); che
l’uomo vestito non può lottare con uno nudo, perché
più rapidamente viene gettato a terra chi ha qualcosa con cui possa essere afferrato, e che neppure può
rimanere nella gloria del mondo e regnare lassù con
Cristo, e che è più facile che un cammello possa passare attraverso la cruna di un ago che un ricco pos¬sa
ascendere al regno dei cieli (cf. Mt 19,24). Perciò
avete gettato via le vesti, cioè le ricchezze di questo
mondo, perché possiate esser ca¬pace di non soccombere di fronte al lottatore e di entrare per la via stretta e
per la porta angusta (cf. Mt 7,13-14) nel regno dei cieli!
Grande scambio e degno di lode davvero: lasciare le cose temporali per le eterne, guadagnare le celesti con
quelle terrene, ricevere il centuplo per uno e possedere la beata vita eterna (cf. Mt 19,29).
Chiara D’assisi
... con chi ci è riuscito
FAUZIYA KASSINDJA è scampata per poco alla mutilazione dei genitali fuggendo durante la notte da
un remoto villaggio nel Togo per raggiungere gli Stati Uniti, dove, nel dicembre 1994, ha ottenuto asilo
politico. Invece di accogliere questa orfana di diciassette anni con umanità e comprensione, i funzionari
statunitensi l’hanno fatta spogliare completamente, l’hanno incatenata. Stati Uniti. Lo strenuo impegno
di una studentessa di legge di un’università americana e la comparsa di un articolo sulla prima pagina
del New York Times, hanno fatto sì che la Kassindja fosse la prima persona a ottenere asilo politico negli
Stati Uniti avendo come motivazione la minaccia della mutilazione dei genitali. In tutto il mondo almeno
130 milioni di donne, la maggior parte delle quali concentrate in ventisei nazioni africane, hanno già
subito la mutilazione dei genitali. La prassi prevede la recisione del clitoride. Senza anestesia. Spesso
vengono recise anche altre parti dei genitali esterni e nel caso più drastico dell’infibulazione viene cucita quasi completamente l’apertura della vagina. Gli effetti collaterali più frequenti sono le infezioni, le
cicatrici, la sterilità, il dolore atroce durante i rapporti sessuali, la difficoltà nel parto e in generale una
sofferenza pressoché insostenibile anche nel gesto semplice e quotidiano di urinare. Molte donne addirittura muoiono in seguito a questa procedura. Nonostante l’esperienza traumatica, la Kassindjia ha svolto
un ruolo determinante nel denunciare questa pratica, e ha inoltre parlato apertamente delle difficoltà
che ha dovuto affrontare a causa del sistema d’immigrazione statunitense.
Ho quattro sorelle e due fratelli; ero la sesta figlia, l’ultima femmina. Ero una birichina, molto legata a mio
padre - era il mio migliore amico. Mio padre incoraggiava tutte noi sorelle a fare ciò che volevamo nella vita. I
nostri genitori non decidevano al posto nostro. Dicevano sempre: “La decisione è tua. Se è positiva ti aiutiamo
a realizzarla.
Se è negativa, ti consigliamo di non agire così, ma se poi pensi che è proprio quello che vuoi, fai pure. Dopo
puoi dare la colpa soltanto a te stessa. Non potrai dire che i tuoi ti hanno costretta”. Mio padre ci ha mandate
tutte a scuola, così imparavamo l’inglese e potevamo aiutarlo negli affari. Questo, per le ragazze del Togo,
era fuori dal comune. Avevo diciassette anni quando é morto mio padre ed è cambiato tutto. Mia zia e mio
zio, fratelli di mio padre, avevano sempre odiato mia mamma, perché la mamma era del Benin e secondo loro
non c’entrava con loro - non era della loro stessa tribù. Avevano anche cercato di convincere mio padre a divorziare, ma lui non li ascoltava. Dicevano anche che era colpa di mia madre se noi andavamo a scuola. Che
aveva avvelenato la mente di mio padre. Dopo la morte di papà, la zia si é trasferita a casa nostra. Ci ha detto
che mia madre aveva deciso di andare a vivere dai suoi nel Benin e non era vero. Mia zia e mio zio l’avevano
mandata via, e la zia era diventata la mia nuova tutrice. Mi hanno permesso di andare a scuola fino alla fine di
quell’anno. Quando ho compiuto diciassette anni, lei ha detto che non sarei tornata a scuola perché non c’era
bisogno di sprecare tempo e denaro e che d’altronde le mie sorelle, che avevano studiato, avevano poi finito
con lo sposarsi comunque. Avevo perso mio padre, avevo perso la mia mamma, e adesso la scuola. Mi sono
detta: “Oddio, cosa deve succedere ancora?” Poco tempo dopo, un gentiluomo ha cominciato a venire a casa
nostra. Ho pensato che magari la zia volesse risposarsi, perciò, quando lui se ne andava, dicevo: “Ah, che tipo
in gamba.” E lei continuava a lodarlo, a dire quant’era ricco, e quant’era importante, e gentile. Pensavo che
fosse innamorata. Non sapevo che parlava così per suscitare il mio interesse. Non mi ha detto che voleva che
io lo sposassi finché una volta ha accennato: “Gli ho detto che non vai più a scuola.” Ero sorpresa. “Perché
dovevi dirgli che non ci vado più?” E lì lei ha risposto: “Ti ricordi che dici sempre che è una persona carina?
Vuole sposarti.” Credevo che scherzasse. Mi aveva detto che lui aveva quaran tacinque anni. E io: “Quarantacinque!!!” E lei: “Non ti preoccupare. Ha già tre mogli e loro si prenderanno cura di te.” Allora ho detto:
“Ma io non voglio.” E da lì in avanti in quella casa non abbiamo fatto altro che litigare. Poi un giorno mi dice:
“Lo so che non lo ami, ma dopo la kakiya [mutilazione dei genitali] vedrai che imparerai ad amarlo.” Mi ero
appena svegliata. Mi ha chiamata nella sua stanza, dove ho visto questi bellissimi abiti sul letto - abiti e gioielli
e scarpe - e mi ha detto: “È tutto da parte di tuo marito. Ti vuole oggi. Allora domani è il giorno della kakiya.”
E io: “Cosa?! Mi sposo oggi?” Non sapevo proprio cosa fare. C’è stato il matrimonio e dopo mi hanno dato da
firmare la licenza di matrimonio, ma mi sono rifiutata. Sono venuti i miei fratelli e le mie sorelle più grandi e
ne abbiamo parlato. Si sono scusati per non aver impedito che le cose si spingessero fino a questo punto. Mia
sorella maggiore era sconvolta. Mi diceva di non piangere, che sarebbe andato tutto bene. Avrebbe fatto in
modo che nessuno mi facesse la kakiya. Ma io non le credevo perché in realtà non c’era niente che lei potesse
fare. Ormai ero la moglie di qualcun altro. E lei mi dice: “Non ti preoccupare. Io e Amaray ti nascondiamo.”
La mamma la chiamavamo Amaray; vuol dire luminosa. Mi diceva di non firmare la licenza di matrimonio, di
non preoccuparmi. Che sarebbe andato tutto bene. È tornata nel cuore della notte e siamo andate via di casa,
passando poi il confine con il Ghana. Il primo aereo disponibile andava in Germania. Mia
sorella mi ha dato trecento dollari, tutto quello che aveva. Ho preso un aereo dalla Germania agli Stati Uniti,
comprandomi un passaporto. Quando l’ufficiale dell’immigrazione all’aeroporto di Newark ha detto: “Hai dei
soldi?” Le ho mostrato quel poco che mi era rimasto e poi le ho detto che volevo chiedere asilo. Lei ha detto
siediti lì e che sarebbe tornata subito. Ho aspettato seduta che controllasse tutti e poi è venuta da me. Ha detto:
“Okay, dimmi cosa vuoi dagli Stati Uniti.” Ho detto che volevo asilo. E lei ha detto che le dovevo dire che
problema avevo. E le ho raccontato tutto. Insomma, non proprio tutto, era imbarazzante. Come poteva capire?
Non sapevo nemmeno le parole per dirglielo in inglese. Non sapevo come si diceva. Le ho detto che mio padre
era morto e che mia madre era sparita, e che mia zia voleva che sposassi un uomo che non volevo e che invece
io volevo tornare a scuola. Questo più o meno riassumeva tutto, non ho parlato della kakiya perché sapevo
che probabilmente non avrebbe capito e anzi avrebbe pensato che ero pazza. Se mi davano asilo dipendeva dal
giudice, mi ha detto, e perciò sarei andata prima in prigione, poi avrei incontrato il funzionario consolare del
mio paese, e poi sarei potuto tornare a casa con la mia famiglia. Mi sono messa a piangere e a urlare, dicendole
che avevo solo diciassette anni, che non avevo fatto niente di male, che non volevo andare in prigione. E hanno chiamato i poliziotti nella sala d’aspetto dove ero io. Il suo superiore ha detto che se non volevo rimanere
sarei dovuta tornare in Togo oppure in Germania. In Germania non conoscevo nessuno e il Togo era l’ultimo
posto al mondo in cui volevo tornare. Mi hanno preso le impronte e tutto il resto. Una donna in uniforme mi ha
fatto entrare in una stanza, e mi ha chiesto di togliermi i vestiti. Le ho detto: “Per favore, ho le mestruazioni,
posso tenere le mutandine? E lei me le ha fatte togliere. È stato il momento più umiliante della mia vita. Me
le sono tolte e intanto speravo di scomparire dentro il muro. Mi ha ridato i pantaloni e il maglione e poi mi ha
messo le manette. Mi sentivo come quei delinquenti dei film. Piangevo. Ho detto: “Per favore, non mi porti
in prigione.” Mi ignorava, e intanto mi faceva passare la catena intorno alla vita. Non riuscivo a camminare
velocemente con le catene, ma lei continuava a spingermi dicendo. “Andiamo. Andiamo.” E così mi hanno
portato in un riformatorio a Elizabeth, nel New Jersey. Lì è cominciato l’incubo. Mi hanno fatta spogliare di
nuovo, mi hanno lasciata in uno stanzone freddo e poi è arrivato un uomo. Mi fissava, io ero in piedi davanti
a lui, nuda. Dopo mi hanno portata alla prigione di Hackensack, dove ho avuto molestie sessuali da una detenuta. Credo fosse una drogata. Mi avevano messa nella zona di massima sicurezza, con una compagna di cella
detenuta perché aveva fatto non so cosa. Lei fumava e io avevo un’asma terribile. Ho detto al dottore che non
potevo starci in quella cella e lui mi ha risposto: “Mi dispiace, signora, non posso aiutarla”. Tossivo e sputavo
sangue. Ma non mi davano le medicine per via del mio status con l’immigrazione. Poi sono dovuta andare alla
Lehigh County Prison in Pennsylvania. Ero ammanettata insieme a una ragazza della Tanzania. Durante tutti
i trasferimenti da una prigione all’altra eravamo sempre in catene, come i criminali. Per prima cosa ci hanno
fatto la visita medica, e pensavano che avessi la tubercolosi. Di conseguenza mi hanno messa in isolamento.
Sono rimasta in quella stanza per diciotto giorni e ho perso tredici chili. Prima di parlare con chiunque dovevo
mettermi una mascherina, come quelle che usano i dottori per operare. Quando mi serviva qualcosa, dovevo
mettermi in fondo alla stanza dal lato opposto alla porta, voltata verso il muro, e dovevo urlare per chiamare la
guardia. C’era una finestrella sulla porta da dove mi passavano il cibo. Ma non potevo avvicinarmi alla porta.
Mi trattavano come una bestia. Mi serviva il sapone. Mi serviva uno spazzolino da denti. Chiamavo e chia-
mavo - quasi sempre non veniva nessuno. Alla prima udienza il giudice era così sgarbato, così cattivo, sia con
me che con Layli. Layli Miller Bashir era una studentessa di giurisprudenza dell’American University Law
Clinic che aveva assunto il mio caso. Layli mi faceva una domanda e prima che potessi rispondere il giudice
diceva: “Non è necessario, la corte non vuole sapere questo.” E poi mi faceva lui una domanda e prima che io
rispondessi, rispondeva per me. In tribunale non potevo parlare affatto. Lui non credeva che mia madre non
avesse potuto proteggermi dalla mutilazione dei genitali. E non credeva che mio padre avesse protetto le mie
quattro sorelle e non me. Mi faceva tanta paura. Urlava tantissimo e sbagliava a dire il mio nome e quello
del mio paese, e quando l’ho corretto si è arrabbiato. E poi ha detto qualcosa e io ho alzato la voce: “No, non
è quello che ho detto.” E lui ha gridato: “Questa è l’ultima volta che interrompi la corte.” Da come andava
l’udienza, capivo che lui non mi avrebbe fatto avere asilo. Anche prima di entrare in tribunale, aveva già deciso. Layli mi ha detto che non dovevo preoccuparmi, che qualunque cosa succedesse lei avrebbe fatto in modo
di farmi avere giustizia. Mi pregava di non tornare a casa. Ero in prigione quando ho conosciuto il giornalista
del New York Times. All’inizio non volevo che mi intervistasse. Mi avevano già intervistato in tanti, ma non
era servito a farmi uscire. E allora ho detto: “A cosa serve? Sto solo esponendo la mia famiglia. E chissà, se
poi mi rimandano a casa sarebbe ancora peggio per me.” Mi avevano anche mandato una lista di membri del
Congresso che avevano firmato una petizione perché il procuratore distrettuale mi concedesse la libertà sulla
parola - ed era stata respinta. Se venticinque membri del Congresso non potevano tirarmi fuori di prigione, poteva un’intervista? Comunque alla fine ho accettato di parlare con il Times e con nostra sorpresa la mia storia
è apparsa in prima pagina. Era l’undici e sono uscita il ventiquattro. Mi dicevano che i media avevano molto
potere in questo paese. Più del Congresso? Era pazzesco, non lo capivo. Tutto ha uno scopo e qualunque cosa
succede ha un fine. Perciò io sono uscita perché Dio l’ha reso possibile. Quando pativo tutte quelle sofferenze
non la pensavo così. Pensavo: “Perché a me, perché non capita a qualcun altro?” Ma adesso, quando mi guardo
indietro, capisco che se io non avessi passato tutto questo, la questione non avrebbe toccato tanta gente, come
invece è successo. È questo il lavoro di Dio. Ed è davvero incredibile.
Fonte: Amnesty International
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