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Saggio del prof. Paolo Buchignani, Il mito del “Risorgimento tradito

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Saggio del prof. Paolo Buchignani, Il mito del “Risorgimento tradito
Saggio del prof. Paolo Buchignani, Il mito del “Risorgimento tradito” nella cultura postunitaria e novecentesca, in Quale Risorgimento? Interpretazioni a confronto tra fascismo,
Resistenza e nascita della Repubblica, a cura di Carmelo Calabrò, Mauro Lenci, Pisa, Edizioni
ETS, 2013, pp.41-61. (Il libro raccoglie gli Atti del Convegno Nazionale di Studi svoltosi a
Lucca il 21 aprile 2012)
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Storia e Politica
Studi del Dipartimento
di Scienze Politiche
dell’Università di Pisa
Coordinatore
Danilo Marrara
Comitato scientifico
Nicola Antonetti (Università di Parma), Paolo Bagnoli (Università di Siena),
Romano Paolo Coppini (Università di Pisa), Antonio Costa Pinto (Universidade de Lisboa), Fernando García Sanz (Consejo Superior de Investigaciones
Científicas, Madrid), Dermot Keogh (University College, Cork), Danilo Marrara (Università di Pisa), Paolo Nello (Università di Pisa), Claudio Palazzolo
(Università di Pisa), Roberto Pertici (Università di Bergamo), Mark Philp
(University of Oxford), Francesco Soddu (Università di Sassari), Giancarlo
Vallone (Università del Salento)
Comitato di redazione
Marcella Aglietti, Fabrizio Amore Bianco, Danilo Barsanti, Carmelo Calabrò
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Storia e Politica
14
Quale Risorgimento?
Interpretazioni a confronto tra fascismo, Resistenza
e nascita della Repubblica
a cura di
Carmelo Calabrò, Mauro Lenci
Edizioni ETS
2013
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www.edizioniets.com
Pubblicato con un contributo del Dipartimento di Scienze Politiche
dell’Università di Pisa
© Copyright 2013
EDIZIONI ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
[email protected]
www.edizioniets.com
Distribuzione
PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze]
ISBN 978-884673780-9
Paolo Buchignani
IL MITO DEL «RISORGIMENTO TRADITO»
NELLA CULTURA POST-UNITARIA E NOVECENTESCA
1. LA «RIVOLUZIONE TRADITA»
Oggi sostanzialmente scomparso, il mito del «Risorgimento tradito» ha riscosso, viceversa, grande fortuna e giocato un ruolo di rilievo
per molti decenni, dal 1861 fino agli anni ’70 del XX secolo, combinandosi ed alimentandosi con altre mitologie radicali.
Esso germoglia, all’indomani dell’Unità, dal risentimento dei democratici sconfitti, in primis dall’amarezza indignata di Giuseppe
Mazzini, che giudica lo Stato appena sorto non la «vera grande Italia»,
la «terza Roma del popolo», secondo i suoi auspici, ma una «menzogna d’Italia», un «organismo inerte», cui mancano «l’alito fecondatore di Dio, l’anima della Nazione»1. Responsabili di quel «tradimento» sarebbero, a suo avviso, la monarchia sabauda ed il conte di
Cavour, espressioni di un materialismo egoistico e astuto che avrebbe
impedito la presa di coscienza delle masse e soffocato la loro iniziativa
rivoluzionaria.
Da questa posizione mazziniana e, più in generale, democraticorepubblicana, nasce il revisionismo risorgimentale (si veda sull’argomento il recente, utilissimo saggio, di Roberto Pertici2), una sorta di processo al Risorgimento giudicato una rivoluzione «tradita» e
«incompiuta».
Un revisionismo su cui, a sua volta, si fonda l’«ideologia italiana»
o «radicalismo nazionale», una cultura pervasiva e longeva, destinata a segnare nel profondo, per oltre un secolo, nell’Italia liberale, in
1
Cit. in G. Belardelli, Una nazione senza anima: la critica democratica del Risorgimento,
in L. Di Nucci e E. Galli della Loggia (a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 43.
2
R. Pertici, Parabola del «revisionismo risorgimentale», in «Ventunesimo secolo», n. 26,
novembre 2011.
42
quella fascista ed in quella repubblicana, intellettuali, élites, ideologie
fondamentali, diverse e contrapposte3: in particolare, come ha rilevato Ernesto Galli della Loggia, «le tre peculiari culture politiche che
l’Italia ha dato al Novecento: il fascismo, il comunismo gramsciano,
l’azionismo gobettiano»4.
Fascisti, comunisti e azionisti partono da un’analisi assolutamente
negativa del presente, che si traduce in un giudizio altrettanto negativo sul passato risorgimentale, ritenuto responsabile di quel presente
che essi intendono sovvertire. Come rilevarono negli anni ’60 Nicola
Matteucci e Augusto Del Noce, la loro interpretazione del Risorgimento non nasce dall’analisi storica di un evento accaduto e concluso
nel passato, ma da una contingente esigenza politica: ritenere, infatti,
quell’evento «tradito e incompiuto» costituisce il presupposto di una
legittimazione e di un’autocandidatura per i sostenitori di questa tesi,
che attribuiscono a se stessi il compito di completare quell’opera lasciata colpevolmente interrotta5.
Completarla con una radicale rivoluzione fascista, secondo i fascisti
rivoluzionari, con un’altrettanto radicale rivoluzione antifascista, secondo gli antifascisti intransigenti e massimalisti. Ma gli uni e gli altri
restano delusi dalle rispettive rivoluzioni, che giudicano, come quella risorgimentale, altrettanto incompiute e «tradite»: «tradita» quella
mussoliniana, secondo i rivoluzionari neri; «tradita» la Resistenza,
secondo la sinistra antifascista, azionisti e comunisti in particolare
(molti di questi ultimi ex fascisti, già colpiti dalla presunta mancata
rivoluzione all’ombra dei Fasci); «tradito» il ’68, secondo la sinistra
extraparlamentare degli anni ’70.
Responsabile di tutti questi «tradimenti» sarebbe un moderatismo
borghese, utilitaristico, antipopolare, governato dall’interesse ed estraneo agli ideali: di volta in volta cavouriano e sabaudo, poi fascista, poi
3
Questa cultura politica è stata definita da alcuni studiosi «ideologia italiana» (cfr. in
particolare N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano, Torino, Einaudi, 1986, pp.
3-4; E. Galli Della Loggia, La conquista regia, in A a.Vv., Miti e storia dell’Italia unita, Bologna, Il Mulino, 1999, p.25; Id., Le lontane origini dell’ideologia italiana. Alfredo Oriani e «La
Rivolta Ideale», in «Nuova Storia Contemporanea», anno III, n. 6, novembre-dicembre 1999,
pp. 13-28). Emilio Gentile, forse in un’accezione più ristretta ma assai simile, ha preferito la
definizione di «italianismo» o «radicalismo nazionale» (cfr. E. Gentile, Il mito dello Stato
nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1982, pp. 3-29).
4
E. Galli Della Loggia, Le lontane origini dell’ideologia italiana, cit., p. 18.
5
Per le analisi delle posizioni di Matteucci e Del Noce, cfr. R. Pertici, Parabola del «revisionismo risorgimentale», cit., pp. 94-95.
43
democristiano e, infine, secondo i sessantottini, perfino comunista,
data la scelta togliattiana di aver rinunciato alla insurrezione armata nel
periodo resistenziale e quella berlingueriana, ugualmente colpevole di
non aver colto la presunta occasione rivoluzionaria a cavallo tra anni ’60
e ’70 e di aver teorizzato il «compromesso storico» con la Dc6.
Il mito del «Risorgimento tradito e incompiuto», dunque, per essere
compreso nella sua origine e nei suoi sviluppi, deve essere letto all’interno di un contesto ampio e complesso, condizionato, per un verso,
dalla strategia politica di alcuni soggetti, per un altro, soprattutto (ma
i due elementi non sono scindibili) da un altro mito, di cui risulta una
particolare declinazione: un mito più grande, altrettanto pervasivo e
longevo, tale da dispiegare le sue potenzialità e le sue seduzioni specialmente nell’Europa del XX secolo: il mito della rivoluzione come palingenesi, dalla quale dovrebbe sorgere una nuova, inedita civiltà, perfetta
e armonica, capace di risolvere, in modo radicale e definitivo, le aporie
della storia: una utopia millenaristica, il regno della «libertà assoluta».
Alla luce di questa concezione politica, religiosa ed estetica, moralistica e dogmatica, (per molti versi responsabile dei totalitarismi del
’900), tutte le rivoluzioni (compresa quella risorgimentale) sono «tradite», in quanto non coincidenti con gli astratti modelli di perfezione
vagheggiati da élites intellettuali, per lo più di formazione letteraria,
le quali esprimono un’analisi apocalittica della realtà presente (che
giudicano assolutamente negativa e non riformabile) e attribuiscono a
se stesse una funzione salvifica.
Un’idea giacobina di rivoluzione, questa, che costituisce, come rileva Pietro Scoppola, «l’elemento comune di un filone della cultura
democratica prefascista, della cultura fascista e poi di gran parte della
cultura antifascista»7. Un’idea che riprende quella mistico-romantica
6
Su questa accusa rivolta al Pci dai gruppi extraparlamentari di sinistra negli anni ’70,
cfr. E. Galli Della Loggia, La Resistenza tradita, in A a.Vv., Miti e storia dell’Italia unita,
Bologna, Il Mulino, 1999, p.164.
7
Citazione contenuta in D. Settembrini, Storia dell’idea antiborghese in Italia 1860-1989,
Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 355. A proposito di questa giacobina «cultura della rivoluzione» presente nella sinistra antifascista, Scoppola scrive: «All’indomani del secondo conflitto
mondiale l’eredità della ‘cultura della rivoluzione’ è presente e operante nei partiti della sinistra italiana: non solo [...] nei partiti della sinistra marxista, socialista e comunista, ma anche,
in forma diversa, nella proposta azionista, proprio in ragione della radicale discontinuità da
essa invocata e della conseguente necessità di una forte guida «giacobina» del processo di
ricostruzione democratica» (Cfr. P. Scoppola, La Repubblica dei partiti. Profilo storico della
democrazia in Italia (1945-1990), Bologna, Il Mulino, 1991, p. 22).
44
di Mazzini, fautore, non a caso, della nazione come «realtà ideale»,
«comunità di credenti» organizzata in uno «Stato etico» (potenzialmente autoritario come lo sarà quello gentiliano); un’idea che si
contrappone alla nazione di Cavour intesa quale «realtà concreta»,
«comunità di cittadini», libera e pluralistica, garantita da uno Stato
liberale8. Una concezione, quest’ultima, che il pensatore genovese ed i
suoi eredi radicalnazionali considerano un tradimento, perché ritenuta cinica, materialista, priva di fede.
2. DA ORIANI ALLA GRANDE GUERRA
Uno snodo fondamentale nell’evoluzione della cultura politica germogliata dal mito mazziniano del «Risorgimento tradito» è costituito
dal pensiero di Alfredo Oriani.
In lui la visione mazziniana si potenzia e si evolve adattandosi alla
situazione post-risorgimentale ed acquisendo quell’ambiguità e flessibilità che le consentono di penetrare e profondamente condizionare
culture e forze politiche diverse e contrapposte.
Anch’egli ritiene che nel 1861 sia nata una «nazione senz’anima»,
una monarchia priva di ideali e ambizioni, incapace di assumere quella funzione «universale» e civilizzatrice che spetterebbe alla Penisola
in virtù del suo primato9.
Quella «universalità» (essenza dell’«italianità» e del tutto estranea al nazionalismo borghese, interessato soltanto all’espansione territoriale), secondo Oriani è assente nello Stato postunitario, perché
quell’organismo non è nato da una vera rivoluzione. Quella italiana,
infatti, a suo avviso, «non poteva paragonarsi a nessuna vera rivoluzione popolare, né alla inglese, né alla olandese, né alla americana,
né alla francese, né alla greca»10, perché in essa è mancata la parteci8
Per questa distinzione tra nazione mazziniana come «comunità di credenti» e nazione
cavouriana come «comunità di cittadini» si veda il recente saggio di R. Vivarelli, Italia 1861,
Bologna, Il Mulino, 2013, pp. 27-28.
9
Scrive Oriani: «Per tutto il medio evo l’Italia è il centro, la passione, la ragione d’Europa, elabora le leggi del mondo, salva l’antichità, prepara l’avvenire [...] illumina e riscalda,
pensa e sente, mantiene per un processo infallibile e misterioso al proprio pensiero e al
proprio sentimento il carattere dell’universalità» (A. Oriani, La lotta politica in Italia Origini
della lotta attuale 476-1887, Pref. di G. Gentile, Bologna, Cappelli, 1925, vol. I, p. 175).
10
Id., La lotta politica in Italia, vol. III, cit., p. 142.
45
pazione del popolo, il quale «non afferrava ancora il significato della
rivoluzione» ed era incapace di porsi «alla testa dei popoli faticanti
per la costituzione della propria nazionalità»11.
Il popolo italiano, infatti, secondo lo scrittore ravennate, era privo di quella fede in se stesso e nella sua «missione universale» che
l’«apostolo» Mazzini invano aveva cercato d’infondergli; ancora non
era stato «rigenerato da un’idea religiosa», ancora non era diventato
una «nazione di credenti»
Politica come «missione», politica come religione incarnata da un’avanguardia illuminata che a quella religione deve convertire il popolo
per mobilitarlo e guidarlo alla rivoluzione. Questa l’idea mazziniana
e orianesca12.
Avanguardia (o «aristocrazia») e popolo come unici soggetti e protagonisti della storia, come i cardini sui quali soltanto può fondarsi la rinascita della nazione italiana e il completamento del processo
risorgimentale. Si tratta di una concezione estranea alla democrazia
liberale rappresentativa, una concezione giacobina, dotata di un alto
tasso di ambiguità e suscettibile di esiti pratici diversi.
Lo scrittore romagnolo ritiene che, in Europa, la borghesia ottocentesca, abbattuta la vecchia aristocrazia feudale, non sia stata
in grado di sostituirla, perché involgarita e degradata dalla logica
dell’interesse (e dalla cultura darwiniana e positivista succeduta a
quella hegeliana13); non sia divenuta, a sua volta, una «nuova aristocrazia» capace di guidare la nascente società di massa e di creare
grandi nazioni: «Il grande industrialismo aveva vinto, le grandi nazioni non vincevano più»14.
Ciò sarebbe accaduto, a suo avviso, anche nella Penisola, dove,
abortito il Risorgimento, non una «Grande Italia» era nata, ma una
piccola e asfittica nazione senza popolo e senza ideali.
Ivi, p. 377.
Oriani mostra di condividere in pieno l’idea mazziniana della politica come religione.
Egli scrive: «La trascendenza dell’idea morale in Mazzini alza il nuovo politico ad apostolo:
la sua visione non è di un’Italia libera e ricca, che si riunisca alle altre grandi nazioni per
fare anzitutto il proprio interesse e guadagnare fra esse il posto migliore, ma di popolo già
schiavo e rigenerato da un’idea religiosa, il quale si levi sacerdote ed esempio all’umanità»
(Ivi, vol. II, p. 81).
13
«Hegel aveva sollevato il mondo delle idee, i positivisti distrussero le idee nei fatti» (A.
Oriani, La rivolta ideale, Bologna, Cappelli, 1924, p. 4).
14
Ivi, p. 68.
11
12
46
Egli, di conseguenza, auspica e profetizza l’avvento di un’«aristocrazia
nuova»15, estranea al materialismo positivistico e animata da uno spiritualismo «eroico» (mazziniano ed hegeliano insieme), capace di provocare una «rivolta ideale» (così s’intitola il suo ultimo libro, uscito
nel 1908) contro la vecchia Italia borghese. Questa «aristocrazia nuova» deve sorgere dal popolo e quel popolo, di cui costituisce l’essenza
e la sintesi, forgiarlo e mobilitarlo per dar vita ad una vera nazione
all’altezza delle attese di Mazzini e di Garibaldi, «i due veri poeti
della rivoluzione»16.
E «l’aristocrazia nuova» invocata da Oriani esordì proprio alla vigilia della morte di lui, ne raccolse il messaggio e s’impegnò con decisione a metterlo in pratica.
Essa s’incarnò, in primo luogo, nei giovani raccolti attorno a «La
Voce», ma anche nei futuristi, nei nazionalisti, nei sindacalisti rivoluzionari: in quel sovversivismo intellettuale primonovecentesco deciso
a smantellare la vecchia Italia liberale con le sue istituzioni e a creare
una nuova classe dirigente e uno «Stato nuovo»17. Uno Stato fondato
sull’«aristocrazia» e sul «popolo», «universale» e «popolare», secondo i voti di Mazzini e di Alfredo Oriani (ma anche, come vedremo,
del fascismo e del comunismo gramsciano); uno Stato rigenerato da
una nazione in cui il processo risorgimentale sarebbe finalmente giunto a compimento.
Questo sovversivismo idealista, antipositivista e antigiolittiano è
composto di esteti e di «mistici dell’azione», sedotti da Bergson e da
Nietzsche, da Le Bon e soprattutto da Sorel col suo mito della violenza purificatrice. In essi il sorelismo s’innesta sull’orianesimo e, attraverso quel tramite, affonda le radici nel pensiero democratico del
Risorgimento, che, senza dubbio, esercita sulla cultura politica di que Ivi, p. 365.
Ivi, p. 65. A proposito del rapporto tra aristocrazia e popolo, Oriani scrive: «La funzione aristocratica è dunque doppia: sviluppare l’idea che forma l’essenza di un popolo, ed in
quella atteggiare il proprio carattere [...] Aristocrazia e genio vi sono egualmente necessari
ed indifettibili; sospingono e riassumono la massa; [...] rivelano le figure e vi lasciano il nome.
[...] dietro la virtualità dell’aristocrazia e del genio era l’istinto e la potenza anonima della
moltitudine: l’aristocrazia è la coscienza di questo istinto, il genio la sua personificazione.
Tutto si elabora in basso e si compie nell’alto, ma l’uomo non può andare oltre l’uomo; la
grandezza dei più grandi è fatta dalla forza dei piccoli» (Ivi, pp. 37-38).
17
Per l’importanza del mito dello Stato nuovo, della sua trasversalità e del suo ruolo
nell’avvento del fascismo, cfr. E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al
fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1982.
15
16
47
sti soggetti un peso assai rilevante. Lo esercita sui nazionalisti (anche
se in misura minore, dato il loro carattere reazionario, materialista
ed estraneo all’«universalismo» mazziniano e orianesco); lo esercita,
soprattutto, come rilevò a suo tempo Carlo Curcio, sui sindacalisti
rivoluzionari18; ma anche sui futuristi, avanguardia giovanile e volontarista, una sorta di «garibaldini del ’900» che vogliono scuotere dal
torpore le masse italiane, servendosi, tra l’altro, di strumenti analoghi
a quelli usati dai loro predecessori del XIX secolo: volantini, proclami, appelli, spedizioni; a cui si aggiunge il teatro, con le celebri “serate
futuriste”, certo ispirate all’uso politico del melodramma verdiano19.
Il binomio mazziniano “pensiero-azione” viene recepito da futuristi,
sindacalisti, vociani, come un potente strumento di rivoluzione: una rivoluzione insieme nazionale e popolare, politica, sociale, antropologica.
Lo «Stato nuovo» che scaturirà da quel rivolgimento presenta contenuti assai vaghi (ognuno vi immette i propri), ma tutti estranei alla
democrazia liberale rappresentativa, tanto che, alla fine, s’incarnerà
nello Stato fascista.
E il giovane Mussolini, ancora dirigente socialista, direttore de
«L’Avanti!» e di «Utopia», non a caso, è già assai vicino sia a «La
Voce» (a cui collabora) che al sindacalismo rivoluzionario. E proprio
la cultura assorbita in quell’ambiente lo condurrà, di lì a poco, nel
novembre 1914, dal neutralismo all’interventismo più acceso. Il suo
giornale, «Il Popolo d’Italia», diventa, ben presto, il punto di riferimento più importante di tutto l’interventismo rivoluzionario, cui vociani, sindacalisti e futuristi attivamente partecipano.
La Grande Guerra, infatti, cementa e galvanizza queste avanguardie intellettuali inquiete, sradicate, frustrate, prive di una rappresen18
Nel 1943 Curcio scrisse: «[...] a guardare meglio nel fondo delle idee sindacaliste, di
quelle originarie ed anche di quelle del periodo successivo, non sarà difficile trovarvi i filoni,
le influenze (più o meno avvertite dagli stessi artefici del movimento, ma tuttavia percepibili) di nostri scrittori politici dell’Ottocento: Pisacane, Cattaneo, Mazzini, ad esempio»
(C. Curcio, Le origini del sindacalismo in Italia, in «Civiltà fascista», maggio 1943, p. 447.;
cit. in P. Buchignani, La rivoluzione in camicia nera. Dalle origini al 25 luglio 1943, Milano,
Mondadori, 2007, p. 36).
19
Scrive a questo proposito Claudia Salaris: «Marinetti impara a considerare che l’arte
può trasformare la realtà fino ad essere l’anima d’una cultura davvero nazionale e popolare
e probabilmente pensa proprio a questi debutti verdiani [il Nabucco, i Lombardi alla prima
crociata] quando trasforma le prime serate futuriste, quella al Politeama Rossetti di Trieste
[12 gennaio 1910], con gli austriaci presenti in sala, l’altra al Lirico di Milano [15 gennaio
1910], in manifestazioni antiasburgiche» (C. Salaris, Marinetti Arte e vita futurista, Roma,
Editori Riuniti, 1997, p. 95).
48
tanza politica. Quell’evento grandioso e apocalittico si presenta loro
come l’occasione tanto attesa per assurgere al ruolo di protagoniste.
Esse interpretano il conflitto mondiale che incendia l’Europa come
una palingenetica rivoluzione e ritengono spetti a loro, forze nuove e
sane, immuni dal materialismo borghese, porsi alla testa delle masse
per dar vita ad un nuovo Risorgimento da cui nascerà la «Grande
Italia» del popolo sognata da Mazzini e da Oriani.
Contigua all’interventismo rivoluzionario è la posizione di Gabriele
D’Annunzio, il quale, nei suoi infuocati comizi interventisti, definisce
la guerra come «l’immensa fornace» che «il nostro genio» vuole resti
accesa «sinchè tutto il metallo si strugga, sinchè la colata sia pronta, sinchè l’urto del ferro apra il varco al sangue rovente delle resurrezione»20.
La guerra, dunque, necessaria per far risorgere l’Italia, per completare il Risorgimento tradito dai moderati e da Giolitti, per riprendere
l’opera di Mazzini e Garibaldi. Non a caso, infatti, il poeta esordisce
nella sua campagna interventista dallo scoglio di Quarto da cui era
partito l’Eroe dei due mondi per l’impresa dei Mille.
Infine, la necessità di riprendere il processo risorgimentale interrotto agisce anche, come è noto, nell’interventismo irredentista e democratico, che interpreta la guerra mondiale come la quarta guerra
d’indipendenza per liberare Trento e Trieste e che, per molti versi, si
riconosce nella campagna interventista di Mussolini e di D’Annunzio,
di cui pure non condivide l’elemento imperialistico.
3. IL FASCISMO RIVOLUZIONARIO
Anche il fascismo, per bocca dei suoi massimi esponenti, giudica
il Risorgimento «incompiuto» e «tradito» dalla classe dirigente liberale e si attribuisce la «missione» di completarlo. Siamo nel solco dell’«ideologia italiana» e sulle orme di Alfredo Oriani, a cui Mussolini
rende esplicito omaggio come ad un precursore della rivoluzione in
camicia nera21.
20
G. D’annunzio, Orazione per la Sagra dei Mille. V maggio MDCCCLX-V maggio
MCMXV, in Per la più grande Italia. Orazioni e messaggi di Gabriele D’Annunzio, Miano, Treves, 1915, p. 31; anche in Id., Prose di ricerca, di lotta..., 2 voll., Milano, Mondadori, 1947, vol. I.
21
Il 27 aprile 1924, in un discorso pronunciato sulla tomba di Oriani, Mussolini, a proposito dell’opera dello scrittore romagnolo, afferma: «Ci siamo nutriti di quelle pagine e
consideriamo Alfredo Oriani come un Poeta della Patria, come un anticipatore del Fasci-
49
Ma l’evoluzione del regime fascista nel corso del Ventennio, la sua articolazione interna, le lotte politiche tra le sue diverse componenti, producono giudizi diversi, talvolta contrapposti sulla vicenda risorgimentale. I fascisti conservatori, per esempio, ritengono che la conclusione
di quell’evento coincida con la conquista mussoliniana del potere e con
l’attuazione di una politica di potenza lontana dall’iniziativa popolare.
I rivoluzionari, viceversa, pensano che la marcia su Roma e la svolta del
3 gennaio ’25 costituiscano soltanto l’inizio di un processo. Il fascismo,
secondo loro, è tutto da fare e, di conseguenza, anche il Risorgimento.
Nel 1924, Giuseppe Bottai afferma: «noi non abbiamo il potere
perché abbiamo fatto la rivoluzione, ma abbiamo il potere perché
dobbiamo fare la rivoluzione»22.
Fare la rivoluzione fascista, che include quella risorgimentale, perché il fascismo, secondo l’autorevole gerarca, deve realizzare la mazziniana «rivoluzione del popolo»; quel popolo «che, interrottosi con la
formazione unitaria il processo del Risorgimento, rimase fuori dello
Stato di cui s’era insignorita un’oligarchia di politici piemontesi-partenopei, i quali falsando la volontà delle masse attraverso i meccanismi
elettorali, governavano a proprio esclusivo vantaggio»23.
Questo pensa Bottai, ma questo pensano tutti i fascisti rivoluzionari delle più diverse tendenze24,
impegnati in una dura battaglia contro quella borghesia, la quale,
dopo aver «tradito» la rivoluzione delle camicie rosse, si appresterebbe a insabbiare e«tradire» (più il tempo passa più questi soggetti ritengono il «tradimento consumato») quella delle camicie nere.
Gli strali che essi lanciano contro Cavour («il grande straniero», «l’uomo made in England», che ha aperto la strada alsmo, come un esaltatore delle energie italiane. Oso affermare che, se Alfredo Oriani fosse
ancora fra i vivi, egli avrebbe preso il suo posto all’ombra dei gloriosi gagliardetti del littorio.» In quello stesso anno, il discorso mussoliniano compare come prefazione ad una
ristampa della orianesca La rivolta ideale. (Cfr. B. Mussolini, Prefazione ad A. Oriani, La
rivolta ideale, Cappelli, 1924, p.v.)
22
G. Bottai, Dichiarazioni sul revisionismo, in «Critica fascista», 15 luglio 1924; anche
in Id., Pagine di Critica fascista (1915-1926), a cura di F. M. Pacces, Firenze, La Monnier,
1941, p. 378.
23
G. Bottai, Epilogo del primo tempo, in «Critica fascista», 1° novembre 1925; anche in
Id., Pagine di Critica fascista, cit., p. 443.
24
Per il mito del Risorgimento nella «sinistra fascista» cfr. in particolare G. Parlato, La
sinistra fascista, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 27-73; anche P. Buchignani, Il Risorgimento
nella cultura del fascismo rivoluzionario, in Z. Ciuffoletti e S. Visciola (a cura di) Risorgimento. Studi e riflessioni storiografiche, Firenze, CET, 2011, pp. 247-281.
50
l’«Antirisorgimento», come scrive Mino Maccari»25) e contro la classe
dirigente liberale, mirano anche e soprattutto a colpire il regime nelle
sue componenti moderate e borghesi.
Per Curzio Suckert, «la rivoluzione di ottobre [quella fascista del
28 ottobre 1922] non può e non deve ripetere gli errori del Risorgimento, finito in malo modo nel compromesso antirivoluzionario del
Settanta [...] È necessario – egli afferma – che il Fascismo prosegua
senza esitazioni il suo fatale cammino rivoluzionario»26. E ciò può e
deve accadere, perché «Gli ottobristi [leggi i «fascisti rivoluzionari»]
sono uomini di sinistra, di quella vera sinistra rivoluzionaria che aveva
guidato i moti e le battaglie del Risorgimento»27.
Essi si proclamano gli eredi autentici di Mazzini e di Garibaldi, interpretano lo squadrismo fascista come una ripresa del sovversivismo
garibaldino, il dittatore Mussolini come l’incarnazione novecentesca del
condottiero nizzardo, a sua volta «dittatore» nell’«Impresa dei Mille».
E un ritorno allo squadrismo in funzione rivoluzionaria, con lo scopo di completare assieme il fascismo ed il Risorgimento, è invocato,
all’inizio degli anni ’30, dai giovani cresciuti all’ombra del regime, i
quali colgono in particolare l’occasione offerta dalle celebrazioni del
1932 (anno in cui ricorrono assieme il cinquantenario della morte di
Garibaldi ed il decennale della «marcia su Roma») per rivendicare a se
stessi l’eredità garibaldina ed un ruolo da protagonisti nella rivoluzione
mussoliniana che deve essere disincagliata dalle secche della conservazione28; una conservazione di cui sono ritenuti responsabili gli eredi
25
M. Maccari, Made in England, in «Il Selvaggio», n. 6, 16 agosto 1924, pp. 1-2; anche in
R. Busini, Il «Selvaggio» squadrista (1924-25): le radici di una corrente del cosiddetto «fascismo
di sinistra», Padova, Liviana, 1970, pp. 65-66.
26
C. Suckert, Circa la necessità di un Tribunale Rivoluzionario Fascista, in «L’Impero»,
18 aprile 1923. Sulla questione cfr. anche G. Pardini, Curzio Malaparte. Biografia politica,
Milano, Luni, 1998, p. 89.
27
C. Suckert Malaparte, L’Europa vivente: teoria storica del sindacalismo nazionale, Firenze, La Voce, 1923; anche in C. Malaparte, L’Europa vivente e altri saggi politici (19211931), Firenze, Vallecchi, 1961, p.462.
28
In questo contesto, Berto Ricci scrive: «I rimasuglioli d’un’Italia nata in falde e cilindro alla quale tutti i distintivi del mondo non daranno mai un’anima nuova e tanto meno
un’anima fascista farebbero bene a non commemorare Garibaldi. C’è un’incompatibilità essenziale tra il liberalismo sia di destra che di sinistra [...] e il Dittatore; tra i moderati e il Dittatore; tra la borghesia laica e codina e il Dittatore. Oggi come cinquanta, come cento anni
fa Egli appartiene al popolo e ai giovani» (B. R icci, Cinquantenario, in A a.Vv., Incontro con
Garibaldi, Firenze, Edizioni del «Bargello», 1932, p. 7). E l’anno precedente il suo braccio
destro, il giovanissimo Romano Bilenchi, aveva pubblicato la storia vera di un garibaldino
51
in camicia nera di quella borghesia ottocentesca a sua volta colpevole
di avere mortificato e tradito le aspirazioni dei patrioti mazziniani; di
quella borghesia indotta dal suo egoismo materialistico e gretto da un
lato ad escludere il popolo dalla Stato, dall’altro ad essere prigioniera di
un nazionalismo che si esaurisce in una conquista territoriale e dunque
estraneo alla tradizione cosmopolita dell’Italia, fonte del suo primato.
Una tradizione e un primato rilanciati con forza da tutti i giovani
fascisti rivoluzionari quando, con la guerra d’Etiopia, si profila la possibilità di una rinascita dell’«impero». Un impero che essi interpretano
non come l’occupazione di un territorio, ma come una rivoluzione29,
quella fascista, che irradia nel mondo la sua dimensione «universale» e
«popolare», antropologica ed economico-sociale, sulla scia di una concezione universalistica che da Mazzini, passando per Alfredo Oriani,
arriva fino a Filippo Corridoni, eroe e martire della grande guerra.
L’impero, per Berto Ricci, non a caso direttore de «L’Universale»,
deve essere «assimilatore e unificatore di popoli», perchè «la missione di Roma» «non è quella di contrapporsi ai barbari ma di farli
cittadini»30. «Noi fascisti e specialmente noi giovani – gli fa eco Romano Bilenchi – vogliamo, anzi dobbiamo essere decisamente universali, altrimenti tradiremmo il fascismo...I nostri ideali non si fermano
alla Corsica e a Spalato [...] »31.
Ma la guerra d’Etiopia e la nascita dell’«Impero» deludono le attese
dei giovani: la rivoluzione rimane insabbiata, la svolta sociale promessa dal Duce ancora rinviata.
Segue, tuttavia, a partire dal 1936, nel periodo della cosiddetta «accelerazione totalitaria»32, una violenta campagna antiborghese, all’interno della quale, come ben documenta Giuseppe Parlato, l’urgenza
di Colle Val d’Elsa la cui militanza tra i valorosi combattenti in camicia rossa lo induce, alla
fine della sua vita, a indossare la camicia nera degli squadristi. (Cfr. R. Bilenchi, Vita di Pisto,
Torino, Il Selvaggio, 1931).
29
Il legame inscindibile tra «impero» e «rivoluzione», due facce di una stessa medaglia,
viene affermato con forza dagli «universalisti» fiorentini: «Queste due realtà-idealità madri
della storia moderna, Rivoluzione e Impero, appaiono inseparabilmente legate dalla relazione di causa ed effetto [...] Gli imperi [...] nascono dalle rivoluzioni e ne propagano le idee;
decadono e lentamente si dissolvono quando le idealità che li ingenerano hanno esaurito il
loro compito nel mondo» (Manifesto realista, in «L’Universale», gennaio 1933; anche in B.
R icci, Lo scrittore italiano, Roma, Ciarrapico, 1984, p. 125).
30
Manifesto realista, cit. anche in B. R icci, Lo scrittore italiano, cit., pp. 124-125.
31
R. Bilenchi, «Piede di casa» e sviluppi fascisti, in «Il Bargello», n. 15, 9 aprile 1933, p. 1.
32
Per questa definizione cfr. E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari,
Laterza, 2002, p. 27.
52
di riprendere e portare a termine la rivoluzione fascista si connette
strettamente alla stagione risorgimentale33. I nomi di Mazzini, di Garibaldi, di Carlo Pisacane ricorrono continuamente nei contributi di
importanti pubblicisti specie di area sindacalista: da Sergio Panunzio a Carlo Talarico, da Icilio Petrone ad Armando Lodolini a Felice
Chilanti. Alla lezione di quei «padri nobili» ci si ispira per affrontare
questioni fondamentali: l’immissione delle masse nello Stato, il corporativismo e la rivoluzione sociale, il liberalismo e il giacobinismo, la
politica estera e la rivoluzione antropologica.
Di lì a poco, a partire dal 1939-40, a questi temi se ne aggiunge un
altro di grande rilievo: quello pisacaniano della «guerra rivoluzionaria e sociale». Una guerra che ora il fascismo, sulle orme del martire
di Sapri e del sindacalismo rivoluzionario, avrebbe finalmente intrapreso con l’intervanto in quel secondo conflitto mondiale ritenuto
l’occasione tanto attesa per fare i conti, in modo radicale e definitivo
con la borghesia internazionale e con quella interna, per completare
Risorgimento e fascismo.
Tanti giovani intellettuali, in quel periodo, si arruolano volontari,
convinti di partecipare alla guerra rivoluzionaria auspicata da Pisacane e dal suo erede Filippo Corridoni di cui, nel 1940, ricorre il venticinquesimo anniversario della morte nella Trincea delle Frasche.
La continuità tra Pisacane e Corridoni viene sottolineata con forza,
per esempio, dal fascista rivoluzionario, e biografo di Mussolini, Yvon
De Begnac34, il quale, recependo la lezione di quei due nobili profeti, invoca e profetizza a sua volta una «rivoluzione proletaria» che si
manifesti nella forma di una «marcia violenta e contemporanea del
popolo contro due nemici, uno interno [la borghesia italiana] ed uno
esterno [quella internazionale]»35.
Sulla stessa linea la maggior parte dei sovversivi neri, a partire dagli
intellettuali più vivaci e significativi: da Vincenzo Mazzei (autore del
33
G. Parlato, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino, 2000,
pp. 45-52.
34
Y. De Begnac, L’arcangelo sindacalista (Filippo Corridoni), Milano, Mondadori, 1943;
Id., Preludio all’arcangelo sindacalista, in «Dottrina fascista», febbraio-marzo 1942, estratto
per la Scuola di Mistica fascista «Sandro Italico Mussolini»; Id., Appunti su Carlo Pisacane,
in C. Pisacane, Cenno storico d’Italia, a cura di Y. De Begnac, Roma, Gnutti, 1943. Sulla questione cfr. F. Perfetti, Taccuini mussoliniani, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. XLVI-XLVII;
G. Parlato, La sinistra fascista, cit., pp. 55-57; A. De Francesco, Mito e storiografia della
«Grande rivoluzione», cit., pp. 263-275.
35
Y. De Begnac, in C. Pisacane, Cenno storico d’Italia, cit., p. 17.
53
volume Il socialismo nazionale di Carlo Pisacane e di altri scritti relativi
all’agitatore napoletano36) al sindacalista Vito Panunzio (figlio di Sergio37), da Giaime Pintor a Delio Cantimori38.
E non è da credere che la caduta del regime estingua queste posizioni. Al contrario, la forte connotazione antimonarchica e antiborghese
che caratterizza la Repubblica sociale contribuisce ad accentuare, da
parte dei fascisti rivoluzionari, l’intensità e la frequenza dei richiami
al Risorgimento democratico. Come già sullo scorcio del regime, ora
più che mai essi evocano le origini repubblicane e rivoluzionarie del
diciannovismo, esaltano il sindacalismo corridoniano e, procedendo
a ritroso, risalgono a Mazzini, interpretato come il profeta di quel
fascismo popolare al quale, nella nuova stagione e nelle nuove condizioni (ci si è liberati del re), si intende al fine dar vita: un fascismo
mazziniano e pisacaniano cui dovrebbero ispirarsi la campagna per
la socializzazione, il Manifesto di Verona e il conflitto in corso, che
continua ad essere interpretato come guerra rivoluzionaria e sociale.
Il Duce stesso, del resto, fin dal messaggio trasmesso da Radio Monaco il 18 settembre 1943, richiamandosi ripetutamente proprio al
pensatore genovese e ridimensionando di fatto (pur senza negarlo) il
ruolo della Monarchia e della diplomazia nel raggiungimento dell’Unità39, autorizza il proliferare di prese di posizione anche assai radicali
da parte di diversi organi di stampa, specie di area sindacalista40.
36
V. Mazzei, Il socialismo nazionale di Carlo Pisacane, Roma, Ed. Italiane, 1943; Id., I
presupposti teorici della concezione sociale di Pisacane, in «Fascismo», maggio-giugno 1943;
Id., Pisacane e Garibaldi a Roma nel ’49, in «Italia», 8 agosto 1943. Inoltre, come ci informa
Giuseppe Parlato (La sinistra fascista, cit., pp. 56-57, nota 84), nel 1941 Mazzei aveva recensito
su «Civiltà fascista» (agosto 1941), il volume di P.E. Taviani, Problemi economici nei riformatori sociali del Risorgimento italiano, Genova, Ancora, 1940, nel quale largo spazio era dato,
in campo economico e sociale, alle tesi di Ferrari, di Pisacane, di Mazzini e di Montanelli.
37
In un libro di memorie Vito Panunzio racconta di aver intrapreso, in quel periodo,
uno studio su Filippo Corridoni, del cui pensiero individuava la genesi nel Risorgimento di
Mazzini e di Pisacane: cfr. V. Panunzio, Il «secondo fascismo» 1936-1943. La reazione della
nuova generazione alla crisi del movimento e del regime, Milano, Mursia, 1988, pp. 187 ss.
Sulla questione cfr. G. Parlato, La sinistra fascista, cit., p. 57.
38
Su Pintor e Cantimori cfr. A. De Francesco, Mito e storiografia della «Grande rivoluzione», cit., pp. 269-275.
39
Per la questione cfr. G. Parlato, La sinistra fascista, cit., p. 60.
40
Si muovono in questo senso, per esempio, il quotidiano operaio di Genova «Il Lavoro»
(diretto dai sindacalisti Massimino e Daquanno, che ospita importanti articoli di Armando
Lodolini), il quotidiano «La Sera» di Ugo Manunta, «La Riscossa» di Torino, l’opuscolo
antimonarchico Mazzini perseguitato dai Savoia, edito dall’Istituto di studi mazziniani e del
Risorgimento di Alessandria, fino ad alcuni scritti, di taglio più scientifico, di Enrico Santoni
e Alberto Giovannini (Ivi, pp. 63-67).
54
4. GOBETTI E L’AZIONISMO, GRAMSCI E IL COMUNISMO
Se all’«ideologia italiana» appartiene il fascismo, nondimeno ne
fanno parte, a pieno titolo, l’azionismo gobettiano e il comunismo
gramsciano, ugualmente «figli» dello stesso radicalismo nazionale e
sociale diversamente declinato.
Alfredo Oriani e Mario Missiroli, «la Voce», Giovanni Gentile e
Georges Sorel: su questi autori, su questa cultura, per molti versi la
stessa in cui affondano le radici Mussolini e i suoi seguaci, si forma
il martire antifascista Piero Gobetti, anch’egli convinto estimatore di
Oriani, di cui nel 1924 (l’anno del sopra citato omaggio mussoliniano
allo scrittore ravennate), nel suo volume La rivoluzione liberale. Saggio
sulla lotta politica in Italia (titolo orianesco) scrive:
«[...] non possiamo dimenticarci che tra i nostri padri egli è stato il
solo a insegnarci l’idea della storia dimostrando quanto sia educativa,
per chi voglia capire la vita contemporanea, una visione precisa del
Risorgimento»41.
Una visione che certo Gobetti, in larga misura, fa sua, dal momento
che anch’egli considera il processo risorgimentale incompiuto. E lo
considera tale, sulle orme del venerato «padre» romagnolo (ma anche
di Missiroli), poichè in esso sarebbe mancata una vera rivoluzione,
capace di rovesciare la tradizione italiana compromissoria e trasformistica, generata e perpetuata, in assenza di una rivoluzione religiosa
nel ’500, dalla forza della chiesa cattolica. Nello stato unitario «la teocrazia si continuava nella democrazia e nel riformismo, le tradizioni
diplomatiche si riducevano a opportunismo di amministratori»42.
Egli ritiene, inoltre, che il cattolicesimo controriformistico, monopolizzando le coscienze, le ha rese impermeabili alla mazziniana e
orianesca religione civile ed ha impedito al popolo di acquisire quella coscienza nazionale che gli avrebbe consentito di partecipare al
Risorgimento e realizzarlo pienamente attraverso una rivoluzione
nazionale e popolare. Una rivoluzione che l’intellettuale torinese definisce «liberale», ma che in realtà, come vedremo e come bene ha
documentato, tra gli altri, Giuseppe Bedeschi, poco ha a che fare col
41
P. Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica un Italia, Torino, Einaudi,
1964, p. 37, nota 1.
42
Ivi, p. 29.
55
liberalismo classico43: quella di cui lamenta la mancanza e rivendica
l’avvento è piuttosto una rivoluzione giacobina, quindi antiliberale,
antimoderata, antiriformista, estranea ad ogni compromesso e passività imputabili all’etica cattolica.
Quella rivoluzione risorgimentale e modernizzatrice, a suo avviso,
possono realizzarla soltanto forze aventi un carattere spiccatamente
radicale e antagonistico, dotate di attitudine eroica e spirito di sacrificio. Nell’Italia dei primi anni ’20 Gobetti identifica quelle forze essenzialmente nella classe operaia, per la combattività e l’intransigenza
evidenziate nelle dure lotte del biennio rosso:
Ora è nostra ferma convinzione che l’ardore e lo spirito di iniziativa che condussero gli operai all’occupazione delle fabbriche non possano considerarsi spenti
per sempre: né le lusinghe della legislazione sociale e del collaborazionismo
parassitario instaurato dai fascisti addormenteranno insidiosamente la sola forza viva su cui si possa contare per il futuro. [...] Confessando una speranza,
concluderemo che il nuovo liberismo deve coincidere in Italia con la rivoluzione
operaia per offrire le prime garanzie e le prime forze di uno sviluppo autonomo
delle iniziative. [...] La rinascita moderna della nostra economia incomincerà
allora con la volontà di azione delle avanguardie industriali (operai e intraprenditori) del Nord, che sapranno offrire una soluzione unitaria del problema meridionale e liberarci dal politicantismo parassitario che fu durante sessant’anni
il solo effetto dell’unità44.
È evidente quanto il mito della rivoluzione, mutuato soprattutto
da Oriani (con la mediazione di Missiroli) e da Sorel, sia alle origini
di queste posizioni e del revisionismo risorgimentale del pensatore
torinese. Una concezione, questa, che passa, pur con alcune varianti,
nei suoi eredi di «Giustizia e Libertà», in primis in Carlo Rosselli, il
quale distingue tra un Risorgimento ufficiale e moderato che prende il sopravvento, ed un Risorgimento popolare sconfitto (quello di
Mazzini, Cattaneo, Ferrari, Ausonio Franchi, Montanelli) di cui il suo
movimento, GL, si proclama l’erede45.
43
Sulla questione cfr. G. Bedeschi, La fabbrica delle ideologie. Il pensiero politico nell’Italia del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 132-143.
44
P. Gobetti La rivoluzione liberale, cit., pp. 36-37.
45
Scrive Carlo Rosselli: «Ci sono due Risorgimenti: il Risorgimento ufficiale, prima neoguelfo, poi sabaudo, e sempre moderato, che prende il sopravvento con l’entrata in campo
del Piemonte e la liquidazione del moto popolare; e il Risorgimento popolare, che venne
preparandosi tra il ’30 e il ’48 e che ha nel ’48 il suo periodo gloriosissimo e poi, dopo conati e
tentativi sfortunati (insurrezione operaia a Milano nel 1853, spedizione di Pisacane nel 1857),
56
E questa interpretazione radical-nazionale, con il conseguente giudizio negativo sull’Italia liberale prefascista, sopravvive, nel secondo
dopoguerra, nel Partito d’Azione, come dimostra, per esempio, quanto Ferruccio Parri, leader azionista e capo del governo, non a caso
formatosi su «La Voce» e su Oriani, affermò alla Consulta il 26 settembre 1945:
«Tenete presente: da noi – egli disse – la democrazia è praticamente
appena agli inizi. Io non so, non credo che si possano definire regimi
democratici quelli che avevamo prima del fascismo»46.
Un discorso che provocò, com’è noto, la dura reazione di Benedetto Croce, per il quale, come rileva Nicola Matteucci, «il revisionismo
democratico [quello di Gobetti e della cultura azionista fino a Parri]
e il revisionismo fascista, erano espressioni di un medesimo errore logico, erano manifestazioni di un comune clima culturale, quello della
rivolta populista»47.
«Rivolta populista», «insorgenza populista», «crisi della democrazia»: tante definizioni per indicare gli sviluppi primonovecenteschi
dell’«ideologia italiana», che, in parte, sfociano nell’interventismo e
che poi si decanteranno nel fascismo, nell’azionismo gobettiano e nel
comunismo gramsciano.
Anche Antonio Gramsci, infatti, come bene documenta Luciano Cafagna, è figlio di quel clima culturale48, di una visione mitica
e religiosa delle politica che discende da Sorel, da Peguy, ma anche
dall’ambiente vociano e, risalendo più indietro, da Oriani, per il quale
l’intellettuale comunista non manca di esprimere parole di apprezzamento. La sua opera storica viene da lui giudicata «l’unico tentativo
un po’ serio di ‘nazionalizzare’ le masse popolari, cioè di creare un
movimento democratico con radici italiane e con esigenze italiane».
Egli afferma, inoltre, che «occorre studiarlo [Oriani] come il rappresentante più onesto e appassionato della grandezza nazional-popolare
italiana fra gli intellettuali della vecchia generazione»; e aggiunge che
quando finalmente ottenne un successo decisivo con la spedizione dei Mille nel ’60, piega
sotto l’abilissima manovra di accerchiamento del Cavour». (Cit. in R. Pertici, «Parabola del
revisionismo risorgimentale», cit., pp.110-111).
46
Cit. in P. Scoppola, La Repubblica dei partiti, cit., p. 47.
47
N. Matteucci, Benedetto Croce e la crisi dell’Europa (1967), pezzo citato in R. Pertici,
Introduzione a N. Matteucci, Sul Sessantotto, cit., p. XXIX.
48
L. Cafagna, C’era una volta... Riflessioni sul comunismo italiano, Venezia, Marsilio,
1991, pp. 3-23.
57
La lotta politica in Italia «sembra il manifesto per un grande movimento democratico nazional-popolare»49.
Sulla scia del mazzinianesimo di Oriani, anche Gramsci, dunque,
come Gobetti e come i fascisti rivoluzionari, auspica una rivoluzione
«nazionale» e «popolare» per completare il Risorgimento. Egli ritiene
che questo compito storico spetti alla classe operaia guidata dal partito comunista e coincida con l’avvento del comunismo.
Ma la sua analisi, pur collocandosi all’interno della storiografia
revisionista, presenta sostanziali elementi di novità rispetto all’interpretazione mazziniana e orianesca del processo unitario. Il pensatore
sardo, infatti, a differenza di tutti coloro che mettono sotto accusa i
moderati e si propongono di riprendere e portare a termine l’opera dei
democratici sconfitti, dirige i suoi strali proprio contro questi ultimi,
giudicati responsabili del carattere «passivo» della rivoluzione italiana
e di carenza di quello «spirito giacobino» che aveva loro impedito di
coinvolgere le masse, condannandoli ad una subalternità rispetto alla
borghesia moderata. Non al Partito d’Azione di Giuseppe Mazzini
dovevano rifarsi, dunque, i rivoluzionari comunisti del ’900, ma al
giacobinismo della rivoluzione francese: quella, secondo Gramsci, era
la strada giusta da seguire da parte di una forza politica vocata ad
assumere una funzione nazionale e sociale, a realizzare, finalmente,
nella società senza classi, le aspirazioni risorgimentali.
5. GIACOBINI
Dall’analisi fin qui condotta, risulta dunque come il mito del «Risorgimento tradito e incompiuto» sia presente tanto nel fascismo
rivoluzionario quanto nell’azionismo gobettiano e nel comunismo
gramsciano. E ciò in virtù del fatto che quel mito discende da quello
giacobino della rivoluzione, comune a queste culture politiche, tutte
ugualmente radicate nell’«ideologia italiana».
Tutte, di conseguenza, al di là di violente contrapposizioni, di guerre
civili e di una ventennale dittatura, segnate in profondità da una stessa
idea-mito, la quale costituisce la chiave di lettura per comprendere fenomeni del ’900 italiano che altrimenti risultano incomprensibili alla
49
Cit. in E. Galli Della Loggia, Le lontane origini dell’ideologia italiana, cit., p. 16.
58
luce di categorie interpretative nate sul terreno di schematismi ideologico-politici e di comode vulgate estranee alla complessità del reale.
Come può spiegarsi, per esempio, il passaggio al comunismo di
tanti sovversivi mussoliniani se non con il mito della rivoluzione che
già li animava quando indossavano la camicia nera e si battevano per
completare il Risorgimento? E il giudizio positivo espresso dal nobile
martire antifascista Piero Gobetti nei confronti del ras di Cremona
Roberto Farinacci50? E lo stretto rapporto che l’intellettuale torinese
intrattiene con lo squadrista Curzio Suckert, suo amico e corrispondente, che definisce «il più forte teorico del fascismo»51 e di cui nel
1925 ospita il volume Italia barbara, nelle edizioni del «Baretti»? Era
impazzito Gobetti a simpatizzare per quei fascisti dalle cui file spunteranno i suoi carnefici? No, non era impazzito, era un giacobino, convinto, come i rivoluzionari mussoliniani, che era necessario abbattere
lo Stato liberale giolittiano e dar vita ad un nuovo Stato «nazionale» e
«popolare» (naturalmente diverso da quello auspicato dai seguaci del
Duce) che portasse a termine il processo risorgimentale.
E, negli anni ’30, a loro volta, alcuni giovani fascisti, a partire dal
già ricordato Berto Ricci e dallo scrittore pesarese Dino Garrone, nutrono, per il coetaneo pensatore torinese, quasi un culto. Il 27 agosto
1930, Dino scrive all’amico Berto: «I ‘saggi critici’ di Piero Gobetti o
il ‘Risorgimento senza eroi’, quelli sì, che sono volumi d’un uomo capace di scrivere e di morire in silenzio, da eroe, con la e minuscola»52.
Di quel giovane puro e idealista, con le stimmate del martire, Ricci
e Garrone (colpiti anch’essi dalla morte precoce53) non soltanto condi50
Secondo Gobetti, Farinacci, a differenza di Mussolini, è il fascista che «non ha tradito»: è colui che ha rifiutato il compromesso con il giolittismo per rimanere un rivoluzionario
puro, capace di incarnare le aspirazioni del popolo. Egli scrive: «[...] l’on. Farinacci è il tipo
più completo e rispettabile che abbia espresso sinora il movimento fascista [...] I patti di
lavoro ispirati da lui nel Cremonese, come quelli di Forni, Baroncini e degli altri ras, non
sono un tradimento per il movimento proletario, sono i migliori patti di lavoro vigenti oggi
in Italia [...] Di fronte al prefetto, Farinacci rappresenta la rivoluzione, il principio dell’autogoverno, la sovranità popolare». (P. Gobetti, Secondo elogio di Farinacci, in «Rivoluzione
liberale», 19 febbraio 1924; anche in Id., Scritti politici, a cura di P. Spriano, Torino, Einaudi,
1960, pp. 606-610. Il pezzo citato è contenuto in L. Mangoni, L’interventismo della cultura.
Intellettuali e riviste del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 74-75).
51
Espressione citata in F. Perfetti, Prefazione a G. Pardini, Curzio Malaparte, cit., p. 9.
52
D. Garrone, Carteggi con gli amici (1922.1931), 2 voll., a cura di T. Mattioli e A. T.
Ossani, Pesaro, Banca popolare dell’Adriatico, 1994, vol. II, p. 934.
53
Garrone muore ventisettenne a Parigi nel 1931; Ricci dieci anni più tardi sul fronte
libico per il quale era partito volontario, convinto che il conflitto mondiale scatenasse l’agognata rivoluzione.
59
vidono l’interpretazione di una vicenda cruciale della storia italiana,
ma in lui s’identificano, in lui adombrano la loro sorte di rivoluzionari
altrettanto puri e sconfitti.
Intransigenza giacobina e moralismo vociano, riconducibili alla
stessa matrice orianesca, accomunano, come acutamente rilevò nel
1941 Luigi Russo, i due sovversivi mussoliniani (ma non soltanto loro)
a Piero Gobetti54.
E quella comune origine culturale, incentrata sul mito della rivoluzione, spiega, con tutta evidenza, il fatto che repubblichini e partigiani rossi, durante la sanguinosa guerra civile successiva all’8 settembre
1943, continuino, su fronti contrapposti, a coltivare, all’interno della
rispettiva ideologia politica, l’idea del Risorgimento tradito e incompiuto. Gli uni e gli altri, infatti, nel momento in cui aspramente si
combattono, rivendicano l’eredità degli stessi miti e delle stesse icone
risorgimentali (Mazzini, Garibaldi, Pisacane) usciti sconfitti dall’esito
del processo unitario55.
La trasversalità di questo radicalismo giacobino (che continua a
interessare fascismo e antifascismo) si manifesta anche nel secondo
dopoguerra, a partire dal 1947, quando comunisti e socialisti interpretano la loro estromissione dal governo come una rottura dello
spirito unitario della lotta di liberazione e, quindi, come un tradimento della Resistenza. E «tradire» quest’ultima, ritenuta il «secondo Risorgimento», significa, a loro avviso, rinnovare il tradimento
del primo. Essi accusano la Dc di perpetuare i proditori comportamenti della classe dirigente post-unitaria, oligarchica, trasformista,
antipopolare.
Su questa analisi converge, seppur in modo diverso, (certo non parla di Resistenza tradita) gran parte del reducismo fascista, il quale
54
Scrive Russo: «L’orianesimo di molti giovani ha sofferto di questa contraddizione interna; l’unitarismo fumoso dello scrittore romagnolo poteva degenerare in una grandiosa e
vuota retorica o in un astuto accomodamento degli eventi ai piccoli vantaggi della carriera
personale. Chi rimaneva vittima sincera di quell’orientamento, non aveva altra via di uscita
che il fallimento oscuro e il ripiegamento su stesso, o la morte. Gobetti, Garrone, Berto
Ricci, sono tutti sulla stessa linea, sia pure con grandi diversità e differente levatura di ingegno e apparenti antitesi di fedi politiche. Tutti vittime della morte precoce, perché, non
potendo essere i più forti, vollero almeno essere i più puri. Scontarono sul loro corpo e sulla
loro vita l’aporia di quella indistinzione etico-politico-letteraria, che costituisce l’equivoco
fascino dell’oratoria dei romanzi e dei libelli politici dello scrittore romagnolo» (L. Russo,
Prefazione a D. Garrone, Giovanni Verga, Firenze, Vallecchi, 1941, p. XXV).
55
Sulla questione cfr. E. Gentile, La grande Italia, Milano, Mondadori, 1997, p. 233.
60
accusa ugualmente il partito di De Gasperi di aver affossato la rivoluzione risorgimentale che Mussolini aveva ripreso, ma che non era
riuscito a completare per colpa della borghesia conservatrice.
Questo pensano sia alcune componenti frondistiche del Msi, reperibili specialmente nella base giovanile, sia formazioni politiche,
anch’esse di provenienza salotina, ma esterne al partito di Almirante (che accusano di involuzione reazionaria) e con esso concorrenti:
per esempio i «fascisti rossi» di «Pensiero Nazionale», capeggiati
dal «mussoliniano-garibaldino» Stanis Ruinas, il quale si propone di
promuovere un’alleanza tra tutta la «sinistra fascista» (da lui capeggiata) e la sinistra antifascista, per dar vita ad una sorta di «socialismo nazionale». I «fascisti rossi», in particolare, cercano un’intesa
tra la «gioventù giacobina della Rsi» ed il partito comunista, partito
di massa della classe operaia, dunque popolare, ma anche nazionale
e patriottico, capace, sulla base della lezione di Gramsci (figlia dell’«orianesimo») di superare il dissidio tra popolo e nazione e, quindi,
di realizzare il «Risorgimento tradito».
Del resto, i temi dell’Italia svenduta dai governi centristi al grande
capitale e agli Stati Uniti d’America, la patria violata e umiliata dall’occupante anglo-americano, sono comuni alla propaganda comunista e
a quella di non pochi reduci di Salò, con cui, infatti, il Pci, in quel
periodo, proprio sulla base del mito della rivoluzione e del patriottismo risorgimentalista, antiamericano ed antiborghese, non manca di
dialogare e di intrattenere rapporti più o meno segreti, con lo scopo
di traghettare quei soggetti verso le sue sponde sottraendoli al Msi,
specialmente in seguito alla svolta a destra di quest’ultimo successiva
al 1948. E infatti, fallita la grande alleanza auspicata da Ruinas, l’azione svolta dai «fascisti rossi» si risolve proprio in quella di «caronti»
funzionali alla politica comunista56.
«Caronti», «fascisti rossi», «camicie nere di Togliatti»: appellativi,
quasi insulti, con cui gli avversari politici bollano questa pattuglia di
fiancheggiatori del Pci; i quali si autodefiniscono «ex fascisti di sinistra» e, in quanto «giacobini», si considerano, in linea coi sovversivi
neri degli anni ’30, eredi di Piero Gobetti.
56
Sulla vicenda dei «fascisti rossi» di «Pensiero Nazionale» e del loro rapporto con il Pci,
rimando al mio volume Fascisti rossi. Da Salò al Pci, la storia sconosciuta di una migrazione
politica 1943-53, Milano, Oscar Mondadori, 2007.
61
A contatto con la classe operaia la gioventù giacobina della Rsi apprenderà a
«filosofare con il martello»: a comprendere, cioè, che Piero Gobetti aveva ragione quando indicava nelle fabbriche e nelle officine il moderno palladio della
integrale libertà, la radice nuova su cui s’innesta un effettivo e concreto amor
di patria57.
Come Gobetti, anche i «fascisti rossi», dunque, individuano nella
classe operaia col suo antagonismo, e quindi nel partito comunista
che maggiormente la rappresenta, il soggetto fondamentale della «rivoluzione italiana»; una rivoluzione che anch’essi definiscono «liberale», ma che in realtà è giacobina, come lo è quella teorizzata dal
pensatore torinese.
«Rivoluzione liberale», come «Pensiero Nazionale», concepiva l’azione di élites
risorgimentali come ‘fiancheggiamento’ di un’opera dei partiti di massa [...] La
nostra azione rivoluzionaria – come quella di Gobetti – è liberale in un senso
col quale contrasta tutta la tradizione del liberalismo italiano, salvo le sue primissime origini giacobine. Perchè per noi la politica liberale è quella politica
che allarga e approfondisce la libertà, che libera dalle pastoie le energie nazionali di un popolo e nega alla borghesia il diritto di mantenere il monopolio
della parola «libertà»58.
Come la gobettiana «Rivoluzione liberale» negli anni ’20, così «Il
Pensiero Nazionale», «élite risorgimentale» del secondo dopoguerra,
intende battersi per una «ripresa del movimento rivoluzionario interrotto nel Risorgimento, affinché esso penetri nelle masse popolari e le
svegli alla libertà e alla coscienza nazionale»59.
57
L. Dell’Amico, Stato d’emergenza. Noi e la rivoluzione liberale, in «Il Pensiero Nazionale», n. 1-2, 15-30 gennaio 1951, pp. 16-17.
58
L. Dell’Amico, Dalla «Rivoluzione liberale» a «Pensiero Nazionale». Le élites risorgimentali e i partiti di massa, in «Il Pensiero Nazionale», n. 15-16, 1-15 settembre 1950, p. 17.
59
Ibidem. L’unico studio relativo al «gobettismo» dei «fascisti rossi» di «Pensiero Nazionale» è, al momento, il mio articolo La «rivoluzione liberale» dei «fascisti rossi», in «Nuova
Storia Contemporanea», n. 3, maggio-giugno 1998, pp. 119-124.
INDICE
Gianluca Fulvetti
PREMESSA7
Nico De Federicis
IL “VALORE DELL’UGUAGLIANZA”. LA LUNGA EREDITÀ
DEL RISORGIMENTO NEL PENSIERO DEMOCRATICO
ITALIANO11
Giovanni Belardelli
IL FASCISMO E MAZZINI
33
Paolo Buchignani
IL MITO DEL «RISORGIMENTO TRADITO»
NELLA CULTURA POST-UNITARIA E NOVECENTESCA
41
Carmelo Calabrò
IL RISORGIMENTO DI GRAMSCI TRA STORIA
ED EGEMONIA
63
Alessandro Volpi
“RINASCITA” E IL RISORGIMENTO. I PRIMI ANNI
79
Mauro Lenci
LA DISPUTA SUL RISORGIMENTO. DALL’AVVENTO DEL
FASCISMO ALLA NASCITA DELLA REPUBBLICA
93
Paolo Bagnoli
RISORGIMENTO, RESISTENZA, SECONDO RISORGIMENTO 117
Alessandro Breccia
CODICI MORALI E USO PUBBLICO DELLA STORIA.
IL RISORGIMENTO “TRADITO” DEI REPUBBLICANI
(1943-1946)123
Emanuela Minuto
IL RISORGIMENTO DEGLI ANARCHICI ITALIANI (1944-1946)
145
Andrea Becherucci
CARLO LUDOVICO RAGGHIANTI E LA STORIOGRAFIA
SULLA RESISTENZA
161
Emmanuel Pesi
LA MEMORIA DEL RISORGIMENTO NEGLI UOMINI DEL
COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE IN PROVINCIA
DI LUCCA
173
INDICE DEI NOMI
187
finito_000_pagine editoriali 23/10/13 09.38 Pagina 1
Edizioni ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
[email protected] - www.edizioniets.com
Finito di stampare nel mese di ottobre 2013
STORIA POLITICA (Marrara)_000_pagine editoriali 23/10/13 09.35 Pagina 1
Storia e Politica
Studi del Dipartimento
di Scienze Politiche
dell’Università di Pisa
1. Claudio Palazzolo, Tra Inghilterra e Italia. Incroci di storia del pensiero politico
contemporaneo, 2009
2. Mauro Lenci e Carmelo Calabrò (a cura di), Viaggio nella democrazia. Il cammino dell’idea democratica nella storia del pensiero politico, 2010
3. Danilo Barsanti, Silvestro Centofanti. La vita e il pensiero politico di un liberale
cattolico, 2010
4. Lucia Nocentini, Prismi d’identità. Alla ricerca dell’unità dell’esperienza tra analogia e analisi trascendentale. Saggio su Kant, 2010
5. Cinzia Rossi, Nobili, Patrizi e Cavalieri. Contributi alla storia dei ceti dirigenti
toscani nel Settecento, 2011
6. Annamaria Galoppini, Le studentesse dell’università di Pisa (1875-1940), 2011
7. Danilo Barsanti, Leopoldo Tanfani Centofanti. Patriota, archivista, erudito, 2011
8. Marco Cini, Finanza pubblica, debito e moneta nel Granducato di Toscana 18141859, 2011
9. Mauro Lenci and Carmelo Calabrò (edited by), Democracy and Risorgimento,
2011
10. Marcella Aglietti, L’istituto consolare tra Sette e Ottocento. Funzioni istituzionali,
profilo giuridico e percorsi professionali nella Toscana granducale, 2012
11. Mauro Lenci, Il Leviatano invisibile. L’opinione pubblica nella storia del pensiero
politico, 2012
12. Carmelo Calabrò, Storia e rivoluzione. Saggio su Antonio Gramsci, 2012
13. Danilo Barsanti, Giuseppe Toscanelli. “Er deputato de’ Pontaderesi”, 2013
14. Carmelo Calabrò, Mauro Lenci (a cura di), Quale Risorgimento? Interpretazioni
a confronto tra fascismo, Resistenza e nascita della Repubblica, 2013
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