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Paolo De Benedetti, La violenza e il giudaismo
Hermeneutica Pubblicazione dell'Istituto Superiore di Scienze Religiose dell'Università degli Studi di Urbino ESTRATTO: La violenza e il giudaismo Paolo De Benedetti La violenza e il giudaismo Paolo De Benedetti ni ' Una riflessione sistematica suUa violenza esula dalla letteratura rabbinica, ed è comprensibile che sia cosi, tanto per ragioni storiche quanto per lo stile con cui la letteratura rabbinica affronta i suoi temi. Lo stesso deve dirsi per la riflessione sulla non-violenza'. Pensieri su questi topoi si possono incontrare nel commento midrashico o esegetico a episodi biblici, nei detti con carattere sapienziale dei maestri, e nel contesto halakico, cioè giuridico e normativo, soprattutto relativo all'ambito penale. Nel trattato mishnico Pirqè Avoth (Capitoli dei padri), alcuni detti illustrano quello che si può considerare il quadro, la temperie costante in cui il giudaismo affronta questo argomento: cioè il problema della giustizia. Hillel «vide un teschio che galleggiava sull'acqua. Gli disse: Perché hai affogato, ti hanno affogato, e la fine di quelli che ti hanno affogato è che saranno affogati» {Avoth 2, 6). Nell'apostrofe di Hillel l'empio è punito per la sua violenza; ma — come già nella Bibbia — ciò non significa che il punitore sia giusto, anzi per Hillel è a priori empio. Certamente Hillel, quando pronunciò questo detto, aveva in mente Genesi 9, 6 («Chi sparge il sangue dell'uomo, dall'uomo U suo sangue sarà sparso»): ma la frase biblica è intesa dalla tradizione esegetica ebraica (per es. da Rashi) come obbligo di uccidere chi sparge sangue; quindi come mizwah, esecuzione di un precetto secondo determinate modalità. Invece nell'episodio del teschio manca ciò che trasforma la violenza in giustizia, e che emerge molto bene dal commento in loco di Ovadjah da Bertinoro: «[saranno affogati] perché non era stato commesso alle loro mani di ucciderti, ma al tribunale». La differenza tra violenza e giustizia è qui sottile, perché si presume trattarsi comunque di un malvagio Sulla non-violenza, un'interessante raccolta di passi talmudici e midrashici si trova in R. K i M E L M A N , La nonviolenza nel Talmud, «Azione nonviolenta», novembre-dicembre 1981, pp. 12-17. Per il pensiero biblico, dalle origini ai tempi di Gesù, si veda M. H E N G E L - N . N E G R E T T I , Violenza e non violenza. Una «teologia politica» nell'Antico e Nuovo Testamento, Marietti, Casale Monferrato 1977. Inoltre: N. L O H F I N K , Il Dio violento dellAntico Testamento e la ricerca d'una società non-violenta, «Civiltà Paolo De Benedetti La violenza e il giudaismo meritevole di morte. Ma c'è, ed è la differenza tra una reazione e una deliberazione, tra il privato e il pubblico e così via. Non bisogna dimenticare che, nel lungo passaggio dalle più antiche norme bibliche (fra cui quelle relative al diritto di vendetta, temperato dai limiti della legge del taglione) al diritto rabbinico, un elemento importantissimo è dato dall'affermarsi del tribunale (beth dm ). Esobita da questa nota fare una storia del beth din o tentare di chiarirne le origini. La tradizione rabbinica ne immagina inizi antichissimi, così come per le accademie, le preghiere quotidiane ecc.: «Lo Spirito Santo risplendette sul beth din di Sem, di Samuele e di Salomone» {Makkoth 23 b). La Keneseth ha-gedolah o Grande Assemblea di Esdra, menzionata in Avoth 1, 1 e sulla cui storicità e natura si discute^ è l'antecedente meno mitico del sinedrio. Il sinedrio centrale di 71 membri o Grande sinedrio e quelli regionali di 23 o Piccoli sinedri, così come il beth din minore di 3, sono organi giudiziari ma anche decisionali in tutto l'ampio ambito della halakhah, dal campo rituale ai problemi (per il Grande sinedrio) del «pomerio» di Gerusalemme, della punizione delle città, della dichiarazione di guerra, dell'apostasia di una tribù, di un falso profeta {Sanhedrin 1). Lo spirito del beth din è illustrato dalle «tre cose» che il trattato Avoth 1,1 riferisce come dette dagli «uomini della Grande Assemblea»: «Siate moderati nel giudizio, suscitate molti discepoli e fate una siepe alla Torah». Essere moderati, o pazienti, o ponderati [metunim) nel giudizio è, se pur indirettamente, il rapporto del tribunale con la violenza. Perciò, se da un lato il tribunale è assimilabile al potere coercitivo dello stato («rabbi Chanina, comandante dei sacerdoti, soleva dire: Prega per lo shalom dello stato, che se non fosse per il suo timore ci si inghiottirebbe vivi l'un l'altro»: Avoth 3,2), dall'altro si deve sottolineare il fatto che il rapporto del tribunale con la violenza è non-violento. Oltre alla già citata funzione calmieratrice della tanto vituperata legge del taglione', si potrebbe ricordare un famoso detto mishnico: «Un sinedrio che fa morire uno ogni sette anni è chiamato distruttore. Rabbi Elazar ben Azarjah diceva: Uno ogni settant'anni. Rabbi Tarphon e rabbi Aqivà dicevano: Se fossimo nel sinedrio, non sarebbe mai fatto morire nessuno» {Makkoth 1,10)'. Ma il testo che in maniera più profonda esprime il pensiero rabbinico sul rapporto giustizia-violenza, cioè non solo la violenza i " Cfr. D . SPERBER, voce «Synagogue, the Great», Encyclopaedia Judaica, Jerusalem 1971, 15, coli. 629631. ' Questa legge è sempre stata oggetto di fraintendimento da parte cristiana. Si veda, per es., come ne parla l'enciclica Dives in misericordia (n. 12), che pure mostra un'eccezionale penetrazione dell'Antico Testamento in quanto messaggio di misericordia. Mt. 5,38, che viene generalmente usato per criticare la legge del taglione, è anch'esso — in tal caso — frainteso. " Il passo continua con un parere contrario : «Rabbi Shim'on ben Gamaliel diceva: Se è così, essi mol- che il tribunale reprime, ma anche quella che in certa misura, e per disposizione di Torah, ossia di Dio, il tribunale esercita, è il capitolo 4 del trattato mishnico Sanhedrin, che qui riportiamo nella traduzione di V. Castiglioni', scostandocene quando sembri opportuna una maggiore letteralità, e introducendo tra parentesi quadre chiarimenti del traduttore o nostri, per non gravare di note la lettura. ' « l. Sia i processi pecuniari che i processi di sangue [in ebraico naphshoth, di anime o di vite, cioè che prevedono una pena capitale] esigono esami e ricerche, perché sta scritto [Lev. 24,22]: "Un solo giudizio dev'essere per voi". Che diversità c'è tra i processi pecuniari e i processi di sangue? Processi pecuniari [vengono decisi] da tre [giudici], processi di sangue da ventitré. I processi pecuniari possono iniziare sia con [le ragioni di] assoluzione, sia con quelle di condanna; i processi di sangue iniziano con [le ragioni di] assoluzione e non iniziano con [le ragioni di> condanna. Nei processi pecuniari vale la maggioranza di uno sia per assolvere sia per condannare, nei processi di sangue vaie la maggioranza di uno per assolvere, e di due per condannare. I processi pecuniari sono riaperti [in caso di errore] sia per,^ssolvere che per condannare, i processi di sangue sono riaperti per assolvere e non sono riaperti per condannare. Nei processi pecuniari tutti [giudici e discepoli] possono addurre [ragioni] sia per assolvere che per condannare; in processi di sangue tutti possono addurre [ragioni] per assolvere, ma non tutti possono addurne per condannare. In processi pecuniari, chi ha prodotto [ragioni] per condannare, p u ò produrne per assolvere, e chi ha prodotto [ragioni] per assolvere, p u ò produrne per condannare; in processi di sangue, chi addusse [ragioni] per condannare, p u ò addurne per assolvere; ma chi addusse [ragioni] per assolvere, non p u ò ritirarsi e addurne per condannare [tranne qualora si sia ingannato]. I processi pecuniari [possono essere] svolti di giorno e conclusi di notte, processi di sangue [devono essere] svolti di giorno e conclusi di giorno. [Cioè:] processi pecuniari [possono essere] conclusi nello stesso giorno, sia per assolvere sia per condannare; processi di sangue [possono essere] conclusi nello stesso giorno per assolvere; [soltanto] nel giorno seguente per condannare; perciò non si svolgono processi né alla vigilia del sabato né alla vigilia delle feste solenni. 2. I processi di purità e d'impurità [assimilati a quelli pecuniari] iniziavano dal [giudice] più grande; i processi di sangue iniziavano ai lati [dove erano seduti i giudici meno autorevoh]. Chiunque è atto a giudicare processi pecuniari [cioè anche un proselita o un mamzer] ; non tutti sono atti a giudicare processi di sangue, ma sohanto sacerdoti, leviti e israeliti laici che possano dare in moglie [le loro figlie] alla classe sacerdotale. 3. I l Sinedrio era come un'aia semirotonda, affinché si potessero vedere l'un l'altro. Due scrivani giudiziari stavano davanti a loro, l'uno a destra e l'altro a sinistra, e scrivevano i discorsi di quelli che parlavano a favore e di quelli che parlavano contro. Rabbi Jehudah dice: [Erano] tre, uno scriveva i discorsi di quelli che parlano a favore, uno scriveva i discorsi di quelli che parlano contro, e il terzo scriveva tanto i discorsi di chi parla a favore che i discorsi di chi parla contro. 4. Tre file di discepoH dei dottori si sedevano davanti a loro, ognuno conosceva il suo posto. Se era necessario ordinare [un nuovo giudice, in caso di morte di un giudice o di parità di voti], si ordinava uno della prima [fila]; quindi uno della seconda passava nella prima, e uno della ' Mishnaiot, traduzione italiana e note illustrative di V. Castiglioni, ordine III-IV, Tipografia Sabbadi- Paolo De Benedetti La violenza e il giudaismo terza passava nella seconda; quindi si sceglieva uno della comunità e lo si collocava nella terza. Non sedeva però nel posto del suo predecessore, ma sedeva nel posto a lui conveniente [cioè l'ultimo, perché tutti avanzavano di uno]. 5. Come si incuteva timore ai testimoni che dovevano deporre in [processi di] sangue? Si introducevano e si intimorivano [dicendo loro]: Forse parlate per supposizione, per aver sentito dire, o di testimone in testimone, o [pensate] : abbiamo ascoltato persona degna di fede. O forse non sapete che noi vi scruteremo con esami e con indagini? Sappiate che i processi di sangue non sono come i processi pecuniari; in processi pecuniari un uomo [falso testimone] paga il denaro [del danno] e si procaccia il perdono, ma in processi di sangue, del sangue, del sangue suo e del sangue dei suoi discendenti rimane responsabile lui fino alla fine del mondo. Infatti troviamo di Caino che uccide suo fratello, che è detto [Gen. 4,10]: " I sangui di tuo fratello gridano". Non dice: "il sangue di tuo fratello", ma "i sangui di tuo fratello"; cioè il sangue suo e il sangue dei suoi discendenti. Altra spiegazione [che non fa parte del discorso ma è stata interpolata dal redattore]: " I sangui di tuo fratello" [in senso coOettivo], perché il sangue era versato su legni e pietre. Perciò fu creato un uomo unico: per insegnarti che chi perde una vita sola tra gli uomini, il testo gH attribuisce come se avesse distrutto un pieno mondo, e chi mantiene una vita sola tra gli uomini, il testo gli attribuisce come se avesse mantenuto un pieno mondo. E anche [fu creato un uomo unico] per la pace delle creature, acciocché un uomo non possa dire al compagno: Mio padre è più grande di tuo padre. E acciocché gli eretici non possano dire: Diverse autorità supreme vi sono in cielo. E per mostrare la grandezza del Santo, benedetto sia; perché un uomo conia molte monete con lo stesso conio, e tutte sono uguali l'una all'altra; e il Re dei re dei re, il Santo benedetto sia, improntò ogni uomo con lo stampo del primo uomo, eppure non uno di essi è uguale al suo compagno. Perciò anche ciascuno deve dire: Per me fu creato il mondo. Forse però voi [testimoni] direte: Perché dobbiamo [esporci] a questa ansia? Ma non fu forse già scritto: "Egli è un testimone, egli ha veduto o sa; se non lo riferisce [sconterà la sua iniquità": Lev. 5,1]? Forse voi direte: Perché dobbiamo assumere la responsabilità del sangue di quest'uomo? E non fu forse già scritto [Prov. 11,10]: "Per la perdizione dei malvagi c'è giubilo"?»'. discussione, la Mishnah {Sanhedrin 8,1-5), moltiplicando la casistica, crea una procedura paralizzante. Tuttavia l'ipotesi violenta continua a travagliare i maestri, che cercano una spiegazione e concludono la discussione con queste parole: «Il figlio testardo e ribelle è condannato per il suo avvenire. La Torah dice: "Muoia giusto [cioè prima di diventare omicidia] e non muoia colpevole"; perché la morte degli empi è utile a loro [in quanto espiano e non peccano oltre] e utile al mondo» {Sanhedrin 8,5)^ Certo, per tutti noi che avversiamo la pena di morte, c'è una difficoltà ermeneutica in più, non solo a proposito della violenza biblica {herem, vendette e punizioni inflitte a «personalità corporative», cioè a popoli, gruppi, discendenti ecc.), di cui non si tratta qui, ma anche della giurisprudenza rabbinica: si dovrebbe però riconoscere che una caratteristica del giudaismo è la «riluttanza alla morte» nel/senso più ampio, anche extralegale, del termine, e un'altra è la posizione, molto più centrale che nelle nostre società, occupata dal beth din, il quale in certo senso trattiene la mano di Dio, ossia cerca l'applicazione più cauta e mite di quel diritto penale che, per definizione, fa parte della rivelazione. Il discorso ai testimoni', e le procedure che lo stesso capitolo indica per i «giudizi di anime» o di sangue, ossia capitali, sono un esempio su cui vorremmo fermarci ancora. Infatti esso contiene una motivazione alla non violenza, allo scrupolo verso l'altro uomo, che deriva dalla dottrina biblica dell'unità del genere umano e dell'unicità di «Adamo». Unicità che è riflesso dell'unicità di Dio, e che il racconto sacerdotale della creazione (Gen. 1) collega all'altra dottrina, fondamentale nell'antropologia ebraica, dell'uomo come immagine di Dio («Disse rabbi Oshajjah: Quando il Santo, Egli sia benedetto, creò Adamo, gli angeli del servizio divino si sbagliarono e volevano chiamarlo "Santo" [cioè Dio] ... Che fece il Santo, EgU sia benedetto? Lo fece addormentare, e tutti Come si è detto, la pena capitale rientra nella concezione ebraica della giustizia, dato il fondamento biblico della giurisprudenza rabbinica: ora è noto che l ^ Bibbia prevede la morte, anzi tre specie di morte, ossia lapidazione, abbruciamento e, in casi particolari di stranieri, impiccagione (cui il diritto talmudico aggiunge come quarta modalità la spada). Ma sono numerosi i testi rabbinici che sottolineano il carattere prevalentemente teorico e programmatico di queste eventualità. Per es., sul caso del figlio «testardo e ribelle» (Dt. 21,18-21) da mettere a morte, il Talmud {Sanhedrin 71 a) osserva che «ciò non è mai accaduto e mai accadrà», e che la legge ha un significato, diremmo noi, di ipotesi limite, che è meritorio discutere, non applicare'. E anche a livello di ' Ma su questo giubilo il Talmud (Sanhedrin 39 b) specifica che non è giubilo di Dio, perché Dio non gode per la caduta dei malvagi. ' «È estremamente difficile determinare se le modalità di pena capitale citate sopra, e basate su una discussione minuziosa, specie nel trattato Sanhedrin, riflettano una prassi reale, o siano discussioni acca- pital punishment», Encyclopaedia judaica, Jerusalem 1971, 5, col. 145). L'A. ricorda inoltre l'esplicito confronto fatto dai maestri fra studio dei sacrifici e studio del diritto penale capitale, cioè di due ambiti inapplicabili comunque dopo il 70 d.C; studio da coltivarsi perché, come quello di ogni altro aspetto della Torah, è fonte di merito. E conclude: «Come è evidente dalla Mishnah di Makkoth già citata [v. più sopra], la tendenza complessiva dei rabbi era verso la completa abolizione della pena di morte» (ivi, col. 147). Vorremmo aggiungere che lo studio della prassi penale trova la sua giustificazione più profonda nella categoria ebraica del «raccontare» come fondamento dell'esistenza ebraica. * Un pensiero analogo, ma in certo modo peggiorato da una teodicea tanto mostruosa quanto ridicola, ricorre in Cornelio a Lapide, che a proposito dell'ordine di herem contro Amalek imposto da Samuele a Saul in nome di Dio (1 Sam. 15,3), osserva che per i lattanti amaleciti fu più misericordia il morire (e dannarsi) con il solo peccato originale, che vivere e caricarsi anche di peccati attuali. Cit. da G.C. M O N T E F I O R E - H . LoEWE, A Rahbinic Anthology, Schocken, New York 1974, p. 655. ' Questo discorso è commentato dal Talmud, Sanhedrin 37 b - 39 b, però sotto punti di vista estranei Paolo De Benedelti La violenza e il giudaismo conobbero che era un uomo»: Bereshith Rabba V i l i , 10, trad. Ravenna). Si potrebbe dire perciò che la violenza tra uomini è quasi come se all'interno dell'unità divina ci fosse lacerazione e conflitto. E lacerazione c'è davvero, tra Dio e la sua Shekhinah, secondo la mistica kabbalistica e chassidica, fino a quando l'uomo non li avrà ricongiunti, ricongiungendo innanzitutto le lacerazioni di questo mondo'". Qui è il significato più alto del termine shalom, pace come completezza e ricomposizione. Ma è notevole che all'idea di shalom venga associata quella di din, giudizio o amministrazione della giustizia, come nel detto di Rabban Shim'on ben Gamaliel: «Su tre cose il mondo sta: sulla fede {— verità/fedeltà], sul giudizio e suUo shalom» (Avoth 1,18). I l tribunale è uno dei sostegni del mondo, perché solo arginando la violenza è possibile il cammino (con mèta messianica) dello shalom. AUa luce di queste osservazioni il discorso ai testimoni ci appare più che una cautela della procedura giudiziaria: indirizzato a coloro che forse dovranno determinare la sorte di un assassino, o di uno che comunque ha esercitato hybris contro gli uomini o il sacro, da un lato è la celebrazione della dignità umana, ma dall'altro getta nell'angoscia i testimoni stessi, che non possono sfuggire o rifugiarsi nell'assoluta non-violenza del non testimoniare, perché la Torah lo vieta. La riluttanza a quest'obbligo (che — occorre ricordarlo — coinvolgeva il testimone anche nell'esecuzione capitale) è rilevata dal discorso stesso di ammonimento, e addirittura da un detto di rabbi Jishmael (sec. II-III d.C): «Chi si astiene dal din, allontana da sé odio e furto e falso giuramento» [Avoth 4,7): detto che dovette creare difficoltà, se Ovadjah da Bertinoro lo spiega limitandolo al caso che vi sia un altro giudice più autorevole, o qualora il rinunciante sia incline a un accomodamento con gli altri giudici piuttosto che a emettere una sentenza corretta. /«i». ;, è più violenza-giudizio, ma violenza-libertà: il modello di questa seconda polarità (che appartiene non alla legalità ma alla storia) è l'evento pasquale dell'Esodo, in cui la violenza è personificata dal faraone con il cuore indurito (Es. 7,3) ", e la libertà dall'iniziativa di Dio (e anche dalla docilità a Lui). Akra personificazione della violenza è Edom, cioè Esaù, che di volta in volta ha designato l'oppressore di Israele, fino ai romani e ai cristiani. Probabilmente anche contro i romani [malkuth zadon, «regno dell'insolenza») è diretta la famosa dodicesima benedizione della Amidah, quella contro i minim (giudeo-cristiani?). La riflessione su questa violenza subita da Israele si inserisce non in un'antropologia, come nel caso del discorso ai testimoni, ma in quella che potremmo chiamare la tematica di Giobbe, anche se con qualche differenza, perché Giobbe non si sente colpevole, mentre la storia di violenze subka da Israele è, fino a un certo momento che chiariremo più avanti, ricondotta allo schema di origine profetica colpa-punizione-ritorno-liberazione. Nella grande confessione dei peccati [widduj) che si ripete più volte nel giorno di Kippur, e nella quale ci si accusa, fra l'altro, di «indurimento di cuore», di «violenza» e di «odio immotivato» (quello che, secondo la tradizione, causò la rovina del secondo Tempio, mentre il primo sarebbe rovinato per idolatria), si chiede anche perdono per le colpe che meriterebbero «la morte per mano del Cielo», il «kareth» o eliminazione dal popolo, e le «quattro pene capitali del beth din: lapidazione, abbruciamento, decollazione e strangolamento». Sono queste colpe che ritardano l'era messianica e mantengono la dispersione, prolungando il dolore di Dio: «Disse rav Jizchaq bar Shemuel a nome di Rav: Tre sono le vigilie della notte, e a ogni vigilia siede il Santo, benedetto sia, e rugge come un leone e dice: Guai ai figli per i cui peccati ho distrutto la mia Casa e arso il mio Tempio e li ho mandati in esilio tra le genti del mondo» {Berakhoth 3 a). Il ruggito di Dio (altrove si parla, nello stesso senso, di un lamento divino simile al gemito della colomba: ivi 3 a) dà alla violenza da un lato, al peccato dall'altro, una risonanza cosmica: Dio è costretto a gettare Israele in mano a Edom per i suoi peccati. Nello stesso tempo però questa concezione dà alla teshuvah («ritorno»: cfr. Mal. 3,7: «Tornate a me e io tornerò a voi, ha detto JHWH Zevaoth»)" un potere risolutivo sulla violenza, su Edom e anche su Dio. •• ' • • • Come si è detto all'inizio, una riflessione sistematica sulla violenza manca nella tradizione rabbinica. Lo stesso Kittel, alla voce «hybris», di G. Bertram, dedica al giudaismo solo le coli. 26-32 (voi. XIV dell'edizione italiana del Grande Lessico del Nuovo Testamento), e di queste, solo le coli. 31-32 riguardano il giudaismo rabbinico (in realtà includendovi l'apocalittica). Ma non c'è popolo, quanto l'ebraico, che abbia tanto sperimentato la violenza: per questo, accanto all'aspetto giudiziario che comunque ci sembra centrale per la sua ispirazione teologica, si potrebbero addurre numerose testimonianze, per lo più haggadiche e liturgiche, relative a violenza da parte di oppressori o persecutori, nello stile delle analoghe composizioni bibliche. Allpra la polarità non .•••M'iti) . • . Ma questo potere è stato completamente sopraffatto in epoca recente •. È noto che la formula di benedizione e augurio degli zaddikim chassidici è: «Per l'unione del Santo " Suir«indurimento» che si accompagna alla violenza, e in certo senso colpisce il violento e lo priva di libertà, cfr. E . pROMM, Voi sarete come dei, Ubaldini, Roma 1970, pp. 69-70. Paolo De Benedetti La violenza e il giudaismo dalla violenza di Auschwitz. Parlare dell'impatto che l'olocausto ha avuto sul pensiero religioso ebraico e — in parte — cristiano" è altro argomento dal nostro, e del resto, non ostante la ricca produzione, soprattutto americana, in proposito'\a riflessione è a metà del guado, un guado più terribile di quello dello Jabbok (e senza benedizione) per l'uomo e per Dio, che forse non verrà mai attraversato completamente. Si deve però fare un'osservazione generale: se non è mancata qualche voce che ha ripreso i tradizionali, antichi tentativi di giustificare la sofferenza secondo lo schema citato sopra", la reazione alla violenza di Auschwitz è stata un radicale interrogatorio a Dio, in cui ogni teodicea è perita. La morte di Dio, la fuga nell'ateismo sono, in questa reazione, posizioni marginali e, in fondo, le meno problematiche. Wiesel, con grande semplicità, mette a fuoco il problema: «Alcuni parlavano di Dio, delle Sue vie misteriose, dei peccati del popolo ebraico e della liberazione futura. Io avevo smesso di pregare. Come capivo Giobbe! Non avevo negato la Sua esistenza, ma dubitavo della Sua giustizia assoluta»". «Alcuni parlavano di Dio»: questo essere costretti a parlare di Dio è una delle peggiori violenze subite dall'ebraismo, che tanto è restio a parlare di Dio (cfr. Es. 33,18-20) quanto è pronto a sentirlo parlare e a parlargli. Ma dopo Auschwitz un discorso su Dio è inevitabile per salvarLo (è risaputo che per salvare una vita si possono sospendere tutti i precetti e i divieti della Torah, tranne appunto la negazione di Dio e dell'uomo). I l nuovo discorso su Dio non è più un confronto tra Lui e il creato (un tempo chiamato kosmos, «ornamento»), ma tra Lui e la violenza. Racconta Wiesel che nel campo di sterminio i prigionieri celebrarono Rosh Hashanah, il capodanno ebraico, e prosegue: " «Ai miei studenti, per valutare lo scenario teologico, io suggerisco un criterio estremamente semplice ma anche davvero esigente: chiedetevi se la teologia che state imparando possa rimanere la stessa sia prima che dopo Auschwitz. Se la risposta è affermativa, state in guardia!» (J.B. METZ, Cristiani ed ebrei dopo Auschwitz, in Id., Al di là della religione borghese, Queriniana, Brescia 1981, p. 37). II saggio di Metz citato nella nota precedente contiene una bibliografia di 45 titoU, ai quali si possono aggiungere, non per completezza ma perché in vario modo sono sottintesi dal nostro discorso: E . L . VkCKEtinmA, La presenza dt Dio nella stona, Queriniana, Brescia 1977; B. BETTELHEIM, Sopravvivere, Feltrinelli, |V[ilano 1981; A.A. C O H E N , The Tremendum. A Theological Interpretation of the Holocaust, Crossroad, New York 1981; E. W l E S E L , // processo di Shamgorod, Giuntina, Firenze 1982; A. NEHER, L'esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Marietti, Casale Monferrato 1983. Un rapido panorama delle principali posizioni «teologiche» ebraiche in America è l'articolo di E.Z. CHARRY, ]ewish Holocaust Theology: an Assessment, «Journal of Ecumenical Studies », XVIII, 1981, 1, pp. 129-139. Sulle posizioni sia ebraiche sia cristiane riferisce E.J. FISCHER, Ani Ma'amin: Directions in Holocaust Theology, «Interface», Winter 1980, 5 («Interface» è il bollettino della Commissione ecumenica della Conferenza episcopale americana). Una particolare segnalazione merita infine il numero di «ConcUium» 5/1984, intitolato L'Olocausto come interruzione: un problema per la teologia cristiana, con interventi sia ebraici (fra cui quello di A.A. Cohen), sia cristiani (fra cui quello di J.B. Metz). " E, Wiesel, in quella sua testimonianza sui campi di sterminio. La notte, Giuntina, Firenze 1980, che è forse il documento più sconvolgente per ogni uomo «tranquillo», e la provocazione più imperiosa per ogni teologo «tranquillo», cita queste parole del suo compagno di prigionia Akiba Drumer: «Dio ci mette alla prova. Vuole vedere se siamo capaci di dominare i cattivi istinti, di uccidere in noi Satana. Non abbiamo il diritto di disperare. E se Egli ci castiga spietatamente, è segno che tanto più ci ama» (pp. 49-50). «Sia benedetto il Nome dell'Eterno! Ma perché, ma perché benedirLo? Tutte le mie fibre si rivoltavano. Per aver fatto bruciare migliaia di bambini nelle fosse? Per aver fatto funzionare sei crematori giorno e notte, anche di sabato e nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Auschvk'itz, Birkenau, Buna e tante akre fabbriche di morte? Come avrei potuto dirGh: "Benedetto T u sia o Signore, Re deO'Universo, che ci hai eletto fra i popoU per venir torturati giorno e notte, per vedere i nostri padri, le nostre madri, i nostri frateUi finire al crematorio? Sia lodato il Tuo Santo Nome, T u che ci hai scelto per essere sgozzati sul tuo altare?" Sentivo la voce dell'officiante alzarsi, potente e affranta a un tempo, fra le lacrime, i singhiozzi e i sospiri di tutti i presenti: — Tutta la terra e l'universo appartengono a Dio! Si fermava a ogni istante, come se non avesse la forza di ritrovare sotto le parole il loro contenuto. L a melodia gli strozzava la gola. E io, il mistico di una volta, pensavo: "Sì, l'uomo è più forte, più grande di Dio. Quando fosti deluso da Adamo ed Eva T u li scacciasti dal Paradiso. Quando la generazione di N o è non T i piacque più, facesti venire il Diluvio. Quando Sodoma non trovò più grazia ai Tuoi occhi. T u facesti piovere dal cielo il fuoco e lo zolfo. Ma questi uomini qui, che T u hai tradito, che T u hai lasciato torturare, sgozzare, gassare, bruciare, che fanno? Pregano davanti a Te! Lodano il Tuo N o m e . ! " » " Sul silenzio di Auschwkz sono state scrkte pagine impressionanti da A. Neher'^ Lo scandalo che tacesse proprio quel Dio che è parola e comanda l'ascolto è inguaribile: alla medkazione di Neher fa eco quella di A.A. Cohen: «Il più penetrante di tutti gU assalti del post-tremendum [cioè del post-olocausto] a Dio è stato l'attacco al silenzio divino. I l silenzio è naturalmente, in tal senso, una metafora per l'inazione: passivkà, insensibilità, nella forma peggiore ed estrema, indifferenza e malignità. Solo un Dio malevolo rimarrebbe silenzioso quando la parola riuscirebbe a terrorizzare e bloccare l'abbattersi del braccio sollevato. E se Dio ha parlato una volta (o molte volte come afferma la Scrittura), perché non ha più parlato? Che dire di un Dio che parla soltanto alle orecchie dei primi e più antichi, e poi per millenni resta in silenzio e non parla?»" Non è tanto la risposta di Cohen che ci interessa, quanto la domanda che oggi. " Op. cit., p. 69. " In L'esilio della parola, cit. nella nota 14. Neher osserva che all'inizio e alla fine della Bibbia non c'è la parola, ma il silenzio: da un capo il silenzio del caos, dall'altro la «brusca estinzione del dialogo profetico, zona la cui notte ancora adesso ci adombra. Immersa così nel silenzio con i suoi due capi, la Bibbia non è forse il documento teologico più inquietante che mai sia stato offerto alla riflessione umana?» (p. 146). ' " A.A. COHEN, The Tremendum. cit. nella nota 14, p. 96. Paolo De Benedetti per la violenza di Auschwitz, ha sostituito le teodicea. La domanda credente, non la domanda con esito ateo. Come nel Processo di Shamgorod di Wiesel è Satana che difende Dio (appunto con la teodicea) contro gli ebrei — i quali del resto hanno una lunga consuetudine di contesa con il Cielo —, così oggi è proprio la incommensurabile e addirittura inconcepibile violenza avvenuta che ci aiuta (ma la parola ripugna fortemente) a liberarci da certe immagini di Dio. Forse una di queste è l'onnipotenza. Forse la vera risposta alla domanda che sta, come un «buco nero»^", al posto della teodicea, risposta dicibile soltanto in forma paradossale e mitica, è questa: Dio è debole, patisce violenza e, per ora e finché c'è il mondo, vi soccombe. Non si tratta di una finzione divina per placare gli uomini tormentati, ma dell'unico vero mistero che ci riguarda, e che il cristianesimo ha intravisto nella chenosi di Gesù (anche se ha sempre premuto, un po' troppo trionfalisticamente, sulla resurrezione: non dice san Paolo, come pure la cantilena pasquale ebraica Chad Gadjà, che la morte sarà l'ultimo nemico a essere sconfitto?), e l'ebraismo nell'esilio della Shekhinah. Wiesel racconta che, nel campo, le SS impiccarono una volta due adulti e un ragazzo, e questi non morì subito: «Più di una mezz'ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: — Dov'è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: — Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca...»^'. •. -à,^ * , " , ' i -' " Traggo questa espressione dalla lettera di un lettore, Mario Bonfanti, a un quotidiano di Torino, nel dicembre 1983. Egli dice del dolore unamo: «questo misterioso "buco nero" della divina provvidenza, ombra angosciosa del silenzio di Dio». ^' Op. cit., p. 67. Su «Colpa e impotenza di Dio», si veda S. Quinzio, La croce e il nulla, Adelphi, Milano