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Platone e la politica 1. La città malata e i suoi medici 2. La città

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Platone e la politica 1. La città malata e i suoi medici 2. La città
Platone e la politica
1. La città malata e i suoi medici
2. La città migliore, se possibile
3. La morte del maestro e l’immortalità
dell’anima
4. La città, l’anima e il corpo
1. Secondo Platone la città era malata,
l’esperienza della polis era giunta al suo
fallimento.
«Osserviamo come nasce una città gonfia di
lusso [...] una città infiammata» (Repubblica,
II, 372e)
La prima diagnosi di questa crisi era stata
offerta dallo storico ateniese Tucidide.


La politica imperialista di Atene ne
aveva fatto una «città tiranna» (polis
tyrannos: II, 62,3), portando, negli
anni della giovinezza di Platone,
alla guerra del Peloponneso. Lo
scontro tra Atene e Sparta era
diventato anche un conflitto
trasversale, sociale e ideologico, tra
i democratici (riferimento: Atene) e
gli oligarchici (riferimento: Sparta).
L’incendio internazionale si era
riverberato all’interno delle singole
comunità cittadine, facendo
divampare la guerra civile: la stasis,
che spezzava il patto sociale sul
quale esse si reggevano e
distruggeva il comune rispetto della
legge della polis.
segreta della condotta umana. La
sua unica regola, la forza.

L’unica legge divina e umana,
secondo gli Ateniesi, era «chi ha la
forza comanda» (V, 105.2),
indipendentemente dal diritto e dalla
morale.
Il punto di partenza di Platone era il
medesimo. La diagnosi anche più drastica,
la prognosi più ottimistica.
La città non era mai stata davvero “una”, a
dispetto di ogni illusione. All’interno della
stessa città erano coesistite almeno due città:
quella dei poveri e quella dei ricchi, ed
entrambe erano suddivise a loro volta in
famiglie, clan, eterie (nuclei di interessi
privati).
La conflittualità endemica era lo scoglio
contro il quale era naufragato il progetto
greco e ateniese di costruzione di una polis
unita, esente da stasis.
La questione antropologica di fondo era la
pleonexia, determinata da una
configurazione dell’anima, io interiore, in
cui prevalevano gli elementi irrazionali del
desiderio e dell’ambizione, tesi all’acquisto
di ricchezza, gloria, potere,
autoaffermazione contro gli altri e non
insieme a loro.
Ma, secondo Platone, la natura umana non
è necessaria, cioè immodificabile...

La guerra del Peloponneso era stata
un «maestro violento» (Tucidide,
III, 82.3) capace di vanificare
l’illusione di una città pacificata e
coesa grazie alla virtù politica.
L’anima può essere suscettibile di un
condizionamento educativo capace di
alterarne gli equilibri interiori, rafforzandone
la razionalità collaborativa a scapito delle
pulsioni competitive e agonali.

Nella situazione di tensione e
conflitto era venuta alla luce la
natura necessaria dell’uomo, a
stento frenata dalla legge in
condizioni normali (V, 105.2). La
natura necessaria consiste in un
incoercibile istinto di pleonexia,
desiderio di «avere di più»
prevaricando sugli altri e violando
le leggi comuni, e da una innata
philotimia, brama di successo e
potere assoluto (III, 82.2.,6.8). Il
conflitto per il potere è la molla
Era stata la speranza di Socrate. Ma ora
bisogna ripercorrere il circolo: il fallimento
socratico era dipeso dalla illusione di poter
cambiare la città partendo dall’anima degli
individui che ne facevano parte.
Platone pensa invece che il
ricondizionamento educativo dei singoli
sia possibile solo come esito di un’impresa
collettiva, che la città stessa deve gestire.
Non può essere il singolo uomo giusto a
rendere giusta la città: solo una città giusta è
in grado di rendere giusti (cioè: razionali) i
suoi cittadini. Questo rischia però di
diventare un circolo vizioso, in quanto la
condizione di possibilità di una città giusta si
trova appunto nella giustizia dei suoi
membri. Come uscirne? Analizzando la
questione del potere: la città malata ha
bisogno di medici capaci di guarirla.
I medici sarebbero dovuti essere i politici
che governavano la città. Essi, però, fino ad
allora non erano stati che complici, ovvero
concause, della sua malattia.
 Socrate a Callicle (Gorgia): «Tu
lodi uomini che hanno offerto agli
Ateniesi banchetti servendo loro
quello che desideravano. E allora
dicono che essi hanno reso grande la
città, perché non si accorgono che
essa è gonfia e infetta a causa di
quei vecchi politici. Senza affatto
preoccuparsi di saggezza e di
giustizia hanno riempito la città di
porti, arsenali, mura, tributi dei
sudditi, e altre simili banalità. Ma
quando li colpirà l’attacco di questa
malattia daranno la colpa ai
consiglieri di adesso, e
continueranno a lodare Temistocle e
Timone e Pericle – loro, che sono le
cause dei mali. Se la prenderanno
forse anche con te, se non stai in
guardia, e col mio compagno
Alcibiade, quando perderanno anche
gli antichi possedimenti, oltre agli
acquisti recenti, anche se voi non
siete colpevoli dei mali, benché
forse corresponsabili» (518e-519b).
L’intero gruppo dirigente della storia
ateniese viene chiamato in causa:
invece di agire come medico della città era
diventato causa della malattia.
Nel caso del regime democratico questo si
deve alla vocazione demagogica della sua
leadership. Essa è costretta a compiacere il
pubblico intellettualmente infantile dal cui
favore elettorale dipende il suo potere.
Se il pasticcere si fa amare dai bambini
fornendo loro torte che li ingrassano, invece
il medico, che propinerebbe loro diete
salutari e purganti, non potrebbe mai
ottenerne il consenso:
«Come potrebbe difendersi un medico
accusato da un pasticcere di fronte a una
giuria di bambini? [...] Se dicesse la verità:
“Ragazzi, tutto quello che ho fatto l’ho fatto
per la vostra salute” non credi che quei
giudici alzerebbero grandi strilli?» (Gorgia,
521e-522a).
Il regime democratico è dunque il regime in
cui il gruppo dirigente adula il popolo,
compiacendone i desideri irrazionali e
morbosi, invece di curarlo con una terapia
rigorosa, nella speranza di guadagnarsi il suo
favore.
L’oligarchia non le è superiore, perché qui
il gruppo dirigente è al servizio degli
interessi della ricchezza.
In questi due regimi c’è una doppia servitù: i
politici sono asserviti al proprio desiderio di
potere, e questo li rende servi degli interessi
di coloro dai quali il loro potere dipende.
Non sono questi, dunque, i governanti della
democrazia e dell’oligarchia, i medici in
grado di guarire la malattia della città. Dietro
di loro, poi stavano “cattivi maestri”.
Chi erano?
I cattivi maestri avevano sostenuto teorie
sulla virtù pubblica che pretendevano di
smascherare le ideologie moralistiche
rivelando la verità sulla “natura umana”, e
sulla reale funzione di ciò che si chiama
“giustizia”.
Il più importante era stato Antifonte, retore e
protagonista del tentativo di golpe
oligarchico nell’Atene del 411 (Tucidide,
VIII, 66-70).
Le loro tesi vengono rappresentate da alcuni
personaggi dei dialoghi di Platone: Callicle
nel Gorgia, Trasimaco e Glaucone nella
Repubblica. Essi espongono, a diversi livelli
di profondità teorica, dottrine forti sulla
genesi della comunità politica, della
giustizia e della legge. Per contrastare tali
dottrine occorreva elaborarle
compiutamente, e poi affrontarle sul loro
stesso terreno.
Callicle.
La versione di Callicle rappresenta più da
vicino la nostalgia per gli eroi, le velleità
superomistiche di un’aristocrazia
tradizionale incapace di accettare le regole
di convivenza della città democratica.
C’è una sola legge di natura, sostiene
Callicle, riecheggiando le parole di Tucidide,
ed è quella che «il più forte è destinato ad
avere di più (pleon echein) del più debole»
(Gorgia, 483b-d). Questa è la legge
necessaria: la pleonexia.
Ma la folla dei deboli ha chiamato
“ingiustizia” questa naturale pleonexia dei
più forti. Per proteggersene ha inventato la
sua legge, la legge dell’eguaglianza di
deboli e forti, e ha cercato di imporre, con
l’educazione pubblica e i costumi
comunitari, l’ideologia secondo la quale è in
questa eguaglianza che consistono «il bello e
il giusto» (484a). Un inganno, insomma.
Contro questo inganno, Callicle evoca
l’attesa della comparsa di un uomo
“leonino”, capace di «strapparsi di dosso,
di spezzare e di liberarsi da tutte queste
pastoie: egli calpesterebbe le nostre scritture,
i trucchi e gli incantesimi e tutte le leggi
contro natura. Lui, che era uno schiavo, si
rialzerebbe e ci apparirebbe come un
padrone – e allora risplenderebbe la giustizia
secondo natura» (484a).
Ma la violenza con la quale Callicle evoca il
diritto naturale alla pleonexia rappresenta
più una scelta di vita , una speranza di
liberazione dai vincoli della morale e della
legge egualitaria, che un vero e proprio
argomento teorico.
La forza evocata da Callicle è una qualità
naturale, assoluta, propria di un ceto e di
un tipo umano.
Sul piano storico, però, questa forza era
invece una debolezza: l’uomo leonino, di
fatto, era un vinto, un debole, di fronte
alla forza collettiva della maggioranza dei
deboli, come Socrate ribatte (488d-489b).
Trasimaco
L’aggressione di Callicle alla giustizia della
città viene ripresa da Trasimaco, con
maggiore forza teorica, nel I libro della
Repubblica.
In lui scompaiono sia l’ideologia
dell’opposizione tra legge di natura e legge
della città, sia il mito del superuomo
liberatore dei forti.. la verità di Trasimaco
consiste in un rigoroso teorema del potere:
«La giustizia non è altro se non ciò che
giova al più forte» (338c).
Il teorema può così venire dimostrato:
“giusto” è ciò che è sancito come tale dalla
legge, che ne rende obbligatoria
l’osservanza; ma la legge è emanata da chi
ha la forza per farlo, cioè detiene il potere
nella comunità politica, che si tratti di una
maggioranza popolare, di un’oligarchia
aristocratica o di una tirannide; ogni forma
di potere emana leggi strumentali rispetto
all’interesse primario della propria
conservazione (338d-e).
Riformulando questa tesi, nelle Leggi,
Platone scriverà: «Le leggi, dicono [i cattivi
maestri], le impone sempre nella città la
parte più forte. E credi tu, dicono, che una
democrazia vittoriosa, o altra forza politica,
o anche un tiranno, credi che vorranno dare
leggi per altro scopo primario se non per il
vantaggio di mantenere il proprio potere?»
(IV, 714c-d).
La conclusione di Trasimaco è dunque: se la
giustizia consiste nel rispetto delle leggi, e
se le leggi sono strumenti del potere, ne
viene che la giustizia è appunto il vantaggio
dei più forti (e, reciprocamente, un danno
per i loro sudditi, perché li obbliga a subire
l’oppressione e la spoliazione da parte dei
potenti, 344a-c).
Il potere è sempre in qualche modo
tirannico, e la sua forma estrema, appunto la
tirannide arbitraria e assoluta, ne rappresenta
allora la verità.
Il teorema di Trasimaco non è in sostanza
confutabile nella sua ferrea connessione tra
forza, potere, legge e giustizia, e infatti le
obiezioni formulate da Socrate nel I libro
della Repubblica lo scalfiscono appena.
Esso propone a Platone una sfida, che sarà
raccolta nei libri seguenti della Repubblica e
nel Politico: la necessità di pensare una
forma di potere “non trasimachea”, cioè
destinata non all’interesse di chi lo detiene
ma al servizio della comunità sulla quale
esso si esercita.
Glaucone
La sfida di Trasimaco viene sviluppata, nel
II libro della Repubblica, da Glaucone,
fratello di Platone, che dichiara di dare voce
a posizioni autorevoli e diffuse di cui
riconosce il fascino intellettuale pur non
condividendole moralmente.
L’attitudine naturale degli uomini,
sostiene, riprendendo le tesi di Tucidide, di
Antifonte e di Callicle, si esprime nella
pleonexia, nella pulsione primaria a
esercitare una violenta sopraffazione su tutti
gli altri per acquisire gloria, potere,
ricchezza (358e).
Ma (e qui sta l’orginalità) l’aggressività
naturale genera un altrettanto universale
sentimento di paura: non ci sono
superuomini alla maniera evocata da
Callicle, ognuno essendo troppo debole per
poter sperare di esercitare la violenza sugli
altri senza doverne subire una ancora
maggiore.
Nasce così da questo timore il «patto di
giustizia», che consiste in una reciproca
rinuncia alla violenza e nell’impegno
comune a rispettare le leggi.
La legge e la giustizia costituiscono dunque
la protezione dei deboli, ma non ci sono,
come pensava Callicle, deboli e forti per
natura: la debolezza, e la paura che ne
consegue, sono una condizione universale
degli uomini in società, che li costringe a
rinunciare alla pulsione primaria, istinto
di base della violenza (359a).
Almeno in apparenza, perché questa
rinuncia riguarda solo la superficie
civilizzata del cittadino che ha bisogno
dell’approvazione degli altri.
Sotto questa superficie, resta la ferocia
originaria del “vero uomo” (359b).
La pulsione della loro pleonexia sceglie
allora la via occulta del complotto, della
società segreta, sotto la protezione pubblica
della ricchezza, di buoni avvocati, di fedeli
compagni, dell’esibizione di virtù civiche,
capaci di garantire l’impunità a chi è dedito
a perseguire la prevaricazione sugli altri e il
loro asservimento (361a-c).
Se si fosse dotati dell’anello magico del
pastore Gige, che gli assicurava
l’invisibilità, chi non fosse pazzo si
comporterebbe come lui, uccidendo il suo re
e usurpandone il trono e la moglie (359d360b).
Strumento del potere in Trasimaco, qui la
giustizia diventa la maschera sotto la
quale si persegue la stessa aspirazione.
La sfida di Glaucone rafforza quella di
Trasimaco e risulta ancora più severa in
quanto a darle voce è un membro della
cerchia familiare di Platone, forse un lato
della sua stessa intelligenza.
Questi cattivi maestri, i teorici della
pleonexia, i demistificatori della giustizia in
nome della verità della forza e del potere –
non erano in grado di curare la malattia
della città, né di guidare i suoi politici, che
in questo compito avevano fallito.
Ma di quella malattia essi stesso offrivano
una diagnosi penetrante, di cui si doveva
tenere conto.
Platone partiva in effetti dalla lezione
principale di Trasimaco, la riduzione della
questione della giustizia alla questione del
potere, tentando di invertirne il senso.
 Se è possibile pensare un potere
giusto, allora esso promulgherà
leggi giuste, costruendo una
comunità i cui membri diventeranno
uomini giusti.
È vero: la natura umana, lasciata a sé
stessa, è affetta da pleonexia; ma secondo
Platone questa natura è plasmabile, può
venire rettificata da un ambiente sociale che
costituisca davvero – secondo il progetto,
mai realizzato, dell’Atene periclea –
un’impresa educativa collettiva.
L’artificialismo, uno dei tratti salienti dello
stile di pensiero platonico, viene in primo
piano nell’ambito etico-politico: un buon
governo può cambiare la città e una buona
città può cambiare l’uomo, migliorandone la
natura. In altri termini, la terapia della città
e dei cittadini dipende dai loro medici:
bisogna sostituire quelli cattivi e incapaci
con quelli veri, capaci di portare la polis a
quello stato di salute che è rappresentato
dalla giustizia – la virtù che consente una
coesistenza pacificata e collaborativa intesa
al bene della comunità.
I medici.
Dove reperire questi buoni medici? Come
costituire le condizioni per un potere giusto?
La risposta platonica sarà (Repubblica, V):
«A meno che i filosofi regnino nelle città,
oppure coloro che oggi sono detti re e
“potenti” non si dedichino in modo autentico
e adeguato al filosofare, e non vengano
riunificati il potere politico e la filosofia,
rendendo impossibile che, come invece
accade perlopiù oggi, le due forme di vita
procedano separate, non ci sarà remissione
dei mali delle città e, credo, neppure del
genere umano» (473c-d).
Ma chi sono questi filosofi? Chi sono questi
nuovi medici della città? Come si può
costruire il loro potere terapeutico?
Evidentemente si tratta di un gruppo di
governo non-trasimacheo, alla cui
definizione (logos) sono dedicati i libri II-V
della Repubblica e il Politico.
Formuliamo il problema tramite una
citazione: «Se un medico, anche senza
convincere il suo paziente, ma con corretta
padronanza della sua scienza, costringesse
contro le regole scritte un bambino o un
uomo o anche una donna a fare ciò che è
meglio per loro, quale sarà il nome di questa
violenza? Non certo che si tratti di un errore
contro la scienza, cioè tale da recare
malattia. E colui che ha subito questa
violenza tutto potrà dire, tranne che ha
sofferto, da parte dei medici che gli hanno
fatto violenza, effetti contrari alla loro
scienza, cioè forieri di malattia» (Platone,
Politico, 296b-c).
La città matura, cioè la città malata, gonfia
di lusso e di pleonexia dispone comunque di
un suo gruppo dirigente politico-militare.
È possibile lavorare su questo gruppo, al fine
di selezionarlo e ricondizionarlo dal punto di
vista morale ed educativo.
Nuova formulazione del problema: il
soggetto della selezione e della rieducazione
(è un noi?) non può che essere la polis
stessa, sicché sarebbe il malato a dover
formare i suoi propri medici.
In ogni caso: l’educazione del nuovo gruppo
di governo dovrebbe constare da un lato di
una preparazione atletica (armonia dei corpi,
funzione premilitare), dall’altro di un
acculturamento letterario e musicale
(plasmare l’anima).
La musica e la poesia dovranno essere
emendate dai caratteri pericolosi (che
suscitano passioni e destabilizzano l’io):
dovranno proporre modelli di
comportamento edificanti e virtuosi (cfr.
Libri II e III, dove Platone affronta i suoi
obiettivi polemici: Omero, Esiodo e i poeti
tragici: la poesia aveva un ruolo
preponderante, per l’educazione...).
Come selezionare? Tramite una serie di test
di tipo morale e intellettuale, per isolare
all’interno del gruppo dirigente coloro i
quali, meglio dotati, si vedranno affidare il
compito di risanare e rifondare la città.
Ma questo gruppo potrebbe ricadere,
nonostante la sua rieducazione, nei vecchi
vizi della demagogia e della pleonexia.
Come intervenire? Per evitare che i cani da
guardia del corpo sociale si trasformino in
lupi, feroci nemici del loro stesso gregge
(Repubblica, III, 416a), occorre una
garanzia: l’uso del potere non deve essere al
servizio dei suoi detentori, come invece era
per Trasimaco. Occorre perciò una radicale
separazione tra proprietà privata e ruoli di
governo. Negare a chi è destinato al governo
il diritto di possedere privatamente qualsiasi
tipo di beni e ricchezze.
«A loro soltanto fra i cittadini non sarà lecito
maneggiare e toccare oro e argento né di
entrare sotto un tetto che ne contenga [...]. E
così potranno salvarsi e salvare la città; ma
se essi possedessero privatamente terra,
casae e ricchezze, invece che “difensori”
della città diventerebbero amministratori e
agricoltori, e da alleati degli altri cittadini si
trasformerebbero nei lor odiosi padroni. E
così passerebbero la vita intera odiando e
venendo odiati, tramando e subendo insidie,
temendo molto di più i nemici interni di
quelli esterni – correndo insomma verso
l’inevitabile rovina propria e di tutta la città»
(Repubblica, III, 417a-b).
In questo modo viene individuata la prima
radice dei mali della città: la confusione tra
potere e ricchezza. Al contempo viene
individuata anche la sua terapia chirurgica:
la rinuncia alla proprietà privata.
Il nuovo gruppo, rieducato e “bonificato”
dalla privatezza degli interessi, deve venire
in seguito sottoposto a un’ulteriore
selezione, secondo il rapporto speculare di
anima e città del quale diremo in seguito.
I membri il cui assetto psichico vede una
prevalenza dell’aggressività,
dell’affermazione orgogliosa dell’io (spirito
collerico) verranno specificamente destinati
alla funzione militare, che consentirà di
mettere le loro doti, potenzialmente
pericolose, al servizio della comunità.
Il piccolo gruppo nel quale prevarrà invece
la razionalità («forma di sapere che non si
occupa di interessi particolari nella città ma
di questa nel suo insieme, ed è capace di
comprendere come essa si debba condurre
nei riguardi di sé stessa e delle altre città»
(IV, 428d) sarà invece destinato al ruolo di
governo: «un gruppo naturalmente
piccolissimo, cui spetta di praticare quella
scienza che, sola tra tutte le altre, bisogna
chiamare “sapienza”» (IV,429a).
Che cos’è questa scienza? Solo una
competenza politica? Di governo? Che
possiede la capacità intellettuale di
comprendere il bene comune della città e la
dedizione morale atta a perseguirlo?
Nella sua versione forte essa si identifica con
la filosofia, con la dialettica, sapere che
legittima la destinazione dei suoi detentori
all’esercizio del potere politico e ne fa i soli
medici capaci di guarire i mali della città.
Tali medici, conoscendo il paradigma
invariante e ideale, il modello cui aspirare,
sono capaci di riferirvisi nel modo più
rigoroso possibile e stabilire le norme di ciò
che è bello, buono e giusto nell’ambito
storico-politico (VI, 484c-d). La conoscenza
della filosofia permette il riferimento a
parametri non arbitrari, non opinabili, non
protagorei. Su questa base si orienterà il
governo della comunità politica.
Essa permette eventualmente il
raggiungimento della comprensione di
quella idea del buono attraverso la quale le
cose giuste e le altre divengono utili e
vantaggiose ai fini della felicità collettiva
(VI, 505a).
In riferimento al buono in sé i filosofi al
potere garantiranno il buon ordine della città,
dei singoli cittadini e di sé stessi (VII, 540ab).
Di cosa deve disporre il gruppo dirigente?
1. di una conoscenza degli interessi
generali della comunità, unita alla
decisione morale di porsi al loro
servizio;
2. della conoscenza delle norme ideali
di giustizia, oggettive e invarianti,
che devono regolare le condotte
pubbliche e private;
3. del riferimento a un supremo
principio di valore, l’idea del buono.
Si spiega così perché tale gruppo sia
ridottissimo (al più una decina).
Più numeroso (mille?) potrebbe risultare il
gruppo combattente, cui sono richieste doti
morali di coraggio e fedeltà, più che
intellettuali. Un piccolo esercito composto di
uomini duri e scarni, non appesantiti da
ricchezze e interessi privati (IV, 422b-d).
A livello di possibilità normativa (almeno
nel discorso...) risulta così delineato il ceto
dirigente della città risanata. Il ceto si
articola in due gruppi funzional: governanti
e combattenti.
E il resto dei cittadini? Non è stati
ricondizionato dal processo educativo o è
stato scartato per mancanza di doti. È il terzo
gruppo, il più numeroso. Comprende i
lavoratori agricoli, gli artigiani, i
commercianti. A questo gruppo compete la
produzione della ricchezza sociale, e il
mantenimento dei gruppi politico-militari di
governo, ai quali non è lecito possedere beni
propri (sono in un certo senso mercenari
stipendiati al servizio della comunità).
Il terzo gruppo dispone di ricchezze private,
perché nel suo assetto prevalgono i desideri
pre-politici e non socializzabili della
ricchezza e dei piaceri che essa consente., la
spinta alla soddisfazione delle pulsioni
primarie di matrice corporea.
La tripartizione della città non è di tipo
chiuso o castale, è infatti possibile che un
membro dei gruppi di governo si riveli
indegno del suo ruolo venendo espulso verso
il basso, mentre individui del terzo gruppo e
meritevoli possono essere cooptati da quelli
più elevati, nel caso possiedano le doti
adeguate (IB, 423c-d).
La divisione funzionale corrisponde a una
precisa convinzione di Platone: gli uomini
(gli individui) non sono uguali per natura. La
loro dotazione morale e intellettuale è
differenziata in modo radicale: non tutti
possono svolgere le stesse funzioni sociali.
Se è vero che le doti devono comunque venir
consolidate dall’educazione, è anche vero
che l’educazione non può sviluppare doti
mancanti... un buon seme non cresce in un
terreno ostile.
La diseguaglianza naturale tra gli uomini è
nascosta dalla mitologia democratica. Essa è
il presupposto sul quale fondare il progetto
di risanamento politico-educativo della città
(si tratta di un presupposto antropologico
che noi oggi non accettiamo, ma che sul
piano teorico è difficile da contestare).
Il corpo sociale è tripartito, e le virtù
(eccellenze prestazionali) dei tre gruppi sono
diverse.
Il primo gruppo possiede in modo eminente
la virtù del sapere politico;
Il secondo quella del coraggio unita a una
fedeltà al governo (ma la ribellione violenta
del secondo gruppo è un pericolo costante,
se lo spirito aggressivo prevale
sull’educazione).
La virtù del terzo gruppo è problematica.
Non è una capacità specifica, bensì una dote
di autocontrollo: la sophrosyne
(moderazione o temperanza). Essa consiste
nella rinuncia, da parte di questo gruppo di
produttori e detentori di ricchezza, a
usurpare le funzioni politico-militari di
comando, cioè nella comprensione che la
propria subordinazione agli altri due gruppi
– in ragione dell’inferiore dotazione
intellettuale e morale – è nel comune
interesse del corpo sociale.
Questa spontanea accettazione da parte del
gruppo sociale più vasto del proprio
assoggettamento è problematica.
Perché mai esso, escluso tra l’altro proprio
dal processo di condizionamento educativo,
non avrebbe dovuto porre il proprio numero
e la propria ricchezza al servizio di una
pretesa al potere, provocando il ritorno della
malattia sociale della stasis?
Platone non offriva una risposta esplicita a
questa domanda. Secondo lui l’unità del
gruppo dirigente sarebbe stata una garanzia
sufficiente per la coesione dell’intero corpo
sociale (V, 465b).
Forse esso proponeva una forma di vita
comunitaria così felice da convincere anche i
sudditi che la sua accettazione era nel
comune interesse, oppure che disponeva di
una forza coercitiva sufficiente a imporre la
gerarchia sociale. Forse, le due cose insieme.
La distribuzione dei ruoli permetteva di
rispondere alla domanda: che cos’è la
giustizia (nella città)?
La giustizia consisterebbe nella costruzione
di un potere giusto, e nel consenso
tributatogli da tutte le componenti del corpo
sociale.
La premessa ne è la saggia moderazione
(sophrosyne), che «fa cantare all’unisono la
stessa canzone ai più deboli, ai più forti e a
quelli di mezzo, diversi per intelligenza, o se
vuoi per forza o per numero o per ricchezza
o per qualsiasi altra simile qualità» (IV,
432a). Essa permette e garantisce «un
accordo secondo natura di chi è inferiore e di
chi è superiore su chi di loro debba avere il
comando nella città» (ibidem).
La giustizia politica, su questa base, consiste
allora nella distribuzione gerarchizzata e
consensuale delle diverse funzioni sociali:
«il rispetto del proprio ruolo (oikeiopragia)
da parte del gruppo incaricato dei compiti
militari e di quello di governo – in base al
quale ognino di essi svolge nella città le
funzioni che gli sono proprie – non costituirà
la giustizia? E non renderà più giusta la
città?» (IV, 434c).
Se le doti intellettuali e morali degli uomini
sono diverse per natura ed educazione, la
città giusta sarà quella in cui ognuno svolge
il ruolo per il quale è meglio attrezzato
psicologicamente, e inoltre comprende che
questa distribuzione gerarchica delle
funzioni è la sola che può garantire il
vantaggio comune, l’ingiustizia, al contrario,
consiste nel tentativo di sovversione dei
ruoli – ad esempio: la pretesa al comando da
parte dei detentori della ricchezza o della
forza militare.
La giustizia così concepita garantisce la
salute della città (analogamente, quella
dell’anima personale): «Produrre salute nel
corpo significa istituire fra i suoi elementi un
rapporto di potere secondo natura; al
contrario, la malattia consiste nel fatto che
essi esercitino il comando o gli siano
sottoposti contro la norma naturale» (IV,
444d): analogamente, la corretta
distribuzione dei ruoli di potere e di
subordinazione costituiva, nella città e
nell’anima, la salute/giustizia.
In ultima istanza, il benessere, la felicità
collettiva e individuale.
Questa era la risposta di Platone alla
domanda cruciale di Glaucone e Adimanto:
perché essere giusti, perché rispettare le
regole di una convivenza sociale pacificata e
collaborativa, rinunciando ai vantaggi
offferti dalla pleonexia: ricchezza, potere,
sopraffazione?
Perché solo la giustizia assicura il
conseguimento dello stesso fine cui mira
anche la pleonexia: la felicità. Solo in una
comunità felice si può vivere felicemente. E
una comunità è felice solo se è sana, cioè:
giusta. Il sacrificio della pulsione primaria
della sopraffazione reciproca viene allora
compensato con la promessa di un benessere
più solido, duraturo, armonico, non
minacciato dai mali altrimenti inevitabili
della paura universale e della insaziabilità
individuale.
La controprova
Giustizia come salute e felicità pubblica e
privata?
Le forme politiche ingiuste, in realtà, sono
altrettante sindromi della malattia della città.
Il libro VIII della Repubblica costituisce una
fenomenologia delle forme degenerate, a
partire dalla decadenza della città giusta che
viene considerata un prius logico e
fenomenologico.
La decadenza della città giusta è inevitabile,
nel momento in cui essa deriva da un
deterioramento nella composizione del suo
gruppo dirigente, sottoposto alla doppia
pressione deformante della temporalità
storica e dei fattori degenerativi inestirpabili
dalla natura umana.
Il primo passo della decadenza consiste nella
riappropriazione privata delle ricchezze da
parte dei suoi membri: «privatizzano e si
spartiscono la terra e le case, e riducono in
servitù coloro che prima proteggevano
considerandoli uomini liberi e amici» (547bc).
Dalla prima degenerazione nell’esercizio del
potere si origina la deriva delle costituzioni
malate di ingiustizia.
La prima è quella timocratica, in cui il
conflitto ha come posta la gloria e il potere;
La seconda è quella oligarchica, nella quale
il gruppo di comando persegue
l’accumulazione della ricchezza, causando
l’impoverimento dei suoi sudditi;
La rivolta di questi ultimi determina la terza
forma, quella democratica, di malattia, nella
quale regna la più assoluta anarchia;
L’instabilità democratica, il timore dei
poveri di essere nuovamente assoggettati dai
ricchi oligarchi, li induce infine ad affidare il
potere a un uomo solo (l’uomo della
provvidenza? L’unto da Dio?): il tiranno.
Questi si rivela ben presto un padrone feroce
e insaziabile, che reprime nel sangue il
dissenso sociale e impegna la città in
continue guerre per indirizzarlo contro
nemici esterni.
Ogni costituzione ingiusta, deviante rispetto
al paradigma della salute pubblica, slitta
inevitabilmente verso il regime della
tirannide, che secondo Trasimaco ineriva
alla logica stessa del potere. L’oligarchia, il
potere dei ricchi, la democrazia, il potere dei
poveri, e la tirannide, potere assoluto di uno
solo, che (cfr. Politico) rappresenta la tragica
contraffazione del comando del vero
politico, sono gli aspetti degeneratici e
sequenziali dell’abbandono del paradigma di
giustizia. Solo le sole forme costituzionali
note ai Greci, i quadri clinici della malattia
delle città, i nomi dell’infelicità.
I medici (i filosofi) e la terapia (la
costruzione di una città giusta perché
fondata sulla distribuzione delle funzioni
secondo le qualità umane dei diversi gruppi
di cittadini) sono delineati “a parole” nella
Repubblica.
Quali le condizioni?
In primo luogo i pittori di Costituzioni dopo
aver preso come se fosse una tavola la città e
i costumi degli uomini la ripuliranno, cioè
non accetteranno di metter mano né ai
singoli né alla città, e di scriverne le leggi, se
prima non l’avranno ricevuta pura o non
l’avranno purificato loro stessi (Rep. VI,
501a).
Prima di iniziare la rifondazione occorre
ripulire la città: azzerarne le leggi, i modi di
vita, le forme di governo sedimentate dalla
tradizione: una catarsi completa del corpo
sociale.

«Se anche i nuovi governanti
purificassero per il suo bene la città
uccidendo o mandando in esilio
alcuni cittadini, oppure se la
rendessero più piccola deportando
altrove coloni come sciami di api, o
ancora se la ingrandissero
facendone cittadini altri richiamati
da fuori, - finché, valendosi di
sapere e giustizia, salvassero la città
facendola buona da cattiva che era,
dobbiamo allora sostenere che
questa, forgiata nel rispetto di simili
criteri, è la sola forma di regime
corretta» (Politico, 293d-e).
Come attuare la catarsi del corpo sociale? In
modo drastico:
 «Quanti si trovino nella città ad aver
superato i dieci anni di età li
espelleranno tutti in campagna;
prenderanno i loro figli sottraendoli
ai costumi attuali – quelli dei loro
genitori – e li educheranno secondo
i nuovi modi di vita e le nuove
leggi, quali li abbiamo analizzati. E
così nel modo più spedito e più
facile verranno fondate la città e la
costituzione di cui parlavamo,
assicurando al popolo entro cui si
formino la felicità e i più grandi
vantaggi» (VII, 541a).
Una scorciatoia verso la purificazione:
violenta e inaccettabile? Non può venir presa
sul serio? È ironica? Ma deportazioni e
asservimenti di massa non erano ignoti alla
storia greca, così come accadde alla città di
Melo, i cui abitanti furono uccisi, deportati,
resi schiavi dagli Ateniesi. Lo stesso Crizia
aveva posto al centro del programma del suo
colpo di stato del 404 una “ruralizzazione”
di Atene, con l’espulsione verso le
campagne del ceto povero urbano su cui
poggiava la democrazia. Nel linguaggio
platonico, “mandare nei campi” significava
probabilmente collocare collettivamente la
popolazione adulta nel terzo gruppo sociale,
quello formato prevalentemente dai
contadini.
Il lavoro di condizionamento e selezione
sociale sarebbe dovuto iniziare dai giovani.
La “pulizia” sociale colpiva
indiscriminatamente poveri e ricchi,
aristocrazia e popolo.
Terapia, misure preliminari, medici erano
definiti, ma restavano aperte due questioni
fondamentali.
1. Quali erano le forme di vita e di
sapere che legittimavano il gruppo
di potere “filosofico” al suo governo
terapeutico? (Repubblica, V)
2. Quali erano le condizioni storiche di
possibilità del nuovo potere giusto?
Come passare dal discorso
normativo alla realtà storica?
(Repubblica, VI)
2. la città migliore, se è possibile
Iniziamo con una citazione.
 «La prima forma di città, la
costituzione e le leggi migliori, sono
quelle in cui nell’intera città è
attuato, per quanto possibile,
l’antico detto secondo il quale le
cose degli amici devono essere
davvero comuni. Se dunque questo
avviene ora o avverrà in futuro –
che siano comuni le donne, comuni
i figli, comuni tutte le ricchezze, e
con ogni mezzo tutto ciò che si dice
“privato” venga ovunque estirpato
dalla vita – [...] le leggi che tendono
a rendere la città il più possibile
unita andranno valutate come
straordinariamente virtuose e non si
potrebbe imporre un criterio più
corretto e migliore di questo. In una
tale città – sia che vi abiti una
comunità di dèi o figli di dèi – si
vivrà in questo modo lietamente
[...]. Ma ciò eccede il modo attuale
di generare, di allevare e di educare
gli uomini.» (Leggi, V, 739b-740a).
Cosa ne pensava Aristotele?
 Nella Politica (II, 3, 1261b31; II, 5,
1263b9) scrive: «Bello, ma
impossibile»; «In questa città la vita
sembra essere del tutto
impossibile».
Vediamo allora quale fu il progetto di
Platone.
Il libro V della Repubblica delinea la grande
utopia della città retta in base alla giustizia.
È anche il libro delle provocazioni e dello
scandalo. Socrate, nel dialogo, esprime
spesso il timore di venire sommerso dalle
risa e dallo scherno a causa delle sue
proposte sovversive nei confronti dei
costumi tradizionali (per es. 452a). Glaucone
prevede che Socrate stesso verrà aggredito e
malmenato da una folla indignata di uomini
armati (4733-474a). Nell’antichità molti
pensarono che Platone avesse scritto questo
dialogo solo “ironicamente”, senza credere
nelle proposte ivi presentate.
È davvero così? Quali sono le proposte?
Come vengono costruite?
La costruzione dell’utopia viene
argomentata in modo rigoroso e sequenziale,
fondata su ragionamenti condizionali: “se...
allora”.
La prima premessa dell’argomentazione
consiste nella delineazione dello scopo da
raggiungere: una società politica giusta,
sana, felice, ovvero unitaria, esente da stasis
(conflitti civili) e pleonexia. La premessa
dovrebbe essere un accordo, da cui partire
per realizzare questi fini.
 «Il punto di partenza del nostro
accordo non consisterà nel chiederci
quale sia il maggior bene che siamo
in grado di menzionare in rapporto
all’assetto della città, quello che il
legislatore deve avere di mira
stabilendo le leggi, e quale il male
maggiore? [..] Possiamo indicare un
male maggiore per la città di ciò che
la pezza facendone di una molte? o
un bene maggiore di ciò che la lega
insieme e la rende una? – Non
possiamo. – E non è dunque la
comunanza di piacere e dolore a
legare, quando tutti i cittadini
gioiscono e si addolorano nel modo
più uniforme possibile per le stesse
nascite e le stesse morti? [...] La
città nella quale i più dicono della
stessa cosa e secondo lo stesso
punto di vista proprio questo, “mio”
e “non mio”, non sarà quella meglio
governata? – E di molto. – Dunque
anche quella che più si avvicina alla
condizione di un solo uomo?»
(462a-c).
Il modello per la coesione pacificata della
comunità politica è l’unità dell’organismo
(Aristotele sosterrà trattarsi di un grado di
unificazione eccessivo, in quanto la
comunità deve basarsi sullo scambio tra
individui diversi): necessario, secondo
Platone, perché lo scontro fra gli interessi
rivali costituiva il terreno di coltura del
conflitto sociale.
Abbiamo indicato la prima condizione
dell’unità della città: la coesione del gruppo
dirigente della città.
 Se i suoi membri «non sono in
conflitto tra loro non c’è da temere
che il resto della città si divida per
disaccordi nei loro confronti o al
proprio interno» (465b)
Come garantire questa coesione? Vi sono
alcune condizioni necessarie.
Il principale nemico della coesione consiste
nella privatezza degli interessi:
a. patrimoniali;
b. affettivi.
Il principale ostacolo della polis è dunque
l’oikos: la casa, il clan familiare, entro cui si
producono l’accumulazione e la trasmissione
dei patrimoni e dei legami affettivi. Essa è al
di fuori dei vincoli comunitari, e contro di
essi.
[Per garantire la coesione occorre evitare che
il ceto dirigente] «la spezzi parlando del
“mio” non in riferimento alla stessa cosa ma
a cose diverse l’uno dall’altro – sicché
questo trascinerà nella propria casa ciò di cui
ha potuto impadronirsi separatamente dagli
altri, quello in una casa diversa e sua
propria, e considereranno come propri
moglie e figli diversi, che, vivendo essi nella
privatezza, procureranno piaceri e dolori
privati -, invece di condividere un’unica
opinione su ciò che è “proprio”, tendendo
tutti alla stesso fine, in modo da provare
nella misura del possibile le stesse
esperienze di dolore e di piacere» (464c-d).
Occorre sradicare l’oikos. Solo così il ceto di
governo sarà unito, e con esso la città intera.
Ma questo comporta misure sovversive
rispetto al costume vigente, benché
necessarie alla costruzione della nuova
forma di vita comunitaria.
Socrate le presenta come due ondate, che
rischiano di travolgerlo.
1. La prima consiste nel superamento
della tradizionale differenza di ruoli
sociali fra uomini e donne. Questa è
la prima spaccatura del corpo
sociale, la più radicale. L’inferiorità
femminile, in Grecia indiscussa,
dipende solo, in Platone, dalla
mancanza di un’adeguata
educazione delle donne, che sono
vincolate alle mansioni da svolgere
nel chiuso della casa: procreazione e
allevamento della prole. Come
argomentare contro questa
divisione? Socrate propone
un’analogia: non è forse vero che le
femmine dei cani da caccia o da
guardia partecipano a queste
mansioni accanto ai maschi? Non
c’è dunque alcuna ragione
“naturale” (basata su di una
differenza di natura) perché ciò non
debba accadere anche nel genere
umano. Se adeguatamente educate,
le donne migliori possono venir
integrate nel gruppo dirigente della
nuova città al fianco degli uomini
migliori : «Non vi è dunque
nell’ambito della gestione della città
alcuna occupazione che sia propria
della donna perché è una donna, né
dell’uomo perché è un uomo, ma
poiché le doti naturali sono
parimenti disseminate in entrambe
queste forme di vita, secondo natura
la donna deve partecipare a tutte le
funzioni, e a tutte l’uomo», benché
la donna sia fisicamente in ogni
caso più debole del maschio (455d).
2. Questa è la più radicale
dichiarazione di uguaglianza di
diritti e doveri fra i sessi che
l’antichità abbia mai formulato. Ma
questa uguaglianza richiede la
distruzione dell’oikos. I matrimoni,
la procreazione, l’allevamento dei
figli devono venire sottratti
all’ambito privato, se le capacità
femminili devono venir messe al
servizio della comunità. Questa è la
seconda ondata. Uomini e donne
dovranno avere in comune i pasti,
vivranno insieme, mescolandosi nei
ginnasi e in ogni altro
addestramento. In questo modo, per
una necessità innata, saranno portati
a unirsi l’un l’altra (458d). Ma
queste unioni non dovranno ricadere
nella privatezza familiare. Il
governo stabilirà, per sorteggio, i
temi e i partners degli
accoppiamenti nuziali, destinati a
durare lo spazio di una notte.
Appena nati, i figli verranno
sottratti ai genitori, in modo che
questi non possano riconoscerli
ristabilendo la privatezza dei vincoli
affettivi e di discendenza, e
consegnati, affinché siano allevati, a
balie pubbliche in asili comunitari,
fino al momento in cui verranno
affidati alle istituzioni educative
della città.
In questo modo la forma della vita collettiva
sarebbe mutata radicalmente. Con essa,
anche il linguaggio: non ci sarebbero stati
più padri e madri individuali. Tutti gli adulti
della fascia di età dei loro genitori possibili
sarebbero stati chiamati padri e madri, e
reciprocamente questi avrebbero chiamato
figli tutti i giovani nati durante il periodo
procreativo. Nella stessa fascia d’età tutti
sarebbero stati fratelli e sorelle.
La conseguenza? L’impossibilità dell’errore
radicale e distruttivo, che si ha quando nella
città non si pronunciano all’unisono
espressioni come “il mio” e “il non mio”
(462c). L’impossibilità di avere mie e altrui
ricchezze, la mia e l’altrui moglie, i miei e
gli altrui figli.
Corollario della seconda ondata:
l’eugenetica
Le unioni nuziali avvengono (ufficialmente)
per sorteggio, ma occorre in realtà
controllare e selezionare la riproduzione. I
governanti dovranno allora, così come fanno
gli allevatori di cani e cavalli di razza,
mantenere “pura” la razza degli uomini e
delle donne destinati al potere (460c),
manipolando segretamente i sorteggi, in
modo «che i migliori si uniscano alle
migliori il più spesso possibile, il contrario
quelli dappoco» (459d), sicché «da buoni
genitori nasca sempre una prole ancora
migliore, e da chi è utile alla città figli che lo
siano ancora di più» (461a-b).
Nel Politico viene proposta un’altra variante
dell’eugenetica: il modello non è più quello
dell’allevatore, bensì quello del tessitore. Il
buon governante deve garantire, attraverso le
unioni matrimoniali, una giusta trama dei
caratteri umani, un intreccio che componga
armonicamente le differenze, legando la città
attraverso i vincoli dell’amicizia (310b311c).
Rianalizziamo la sequenza condizionale.
Se la città deve essere unita, allora deve
esserlo in primo luogo il suo gruppo
dirigente; se esso deve essere unito, allora
occorre estirpare tutti gli elementi di
divisione e conflitto al suo interno, quindi
dovranno essere comuni le donne, i figli, le
ricchezze, cioè tanto la sfera affettiva quanto
quella patrimoniale, entrambe rappresentate
dal vero nemico della polis giusta e pacifica,
l’oikos familiare. Quindi andrà distrutta
l’oikos.
La proposta fu criticata (cfr. Aristotele,
Politica, II, 4 1262b23 segg.), e lo è tuttora,
a partire dalla prospettiva che considera
indispensabili alla vita umana alcune
condizioni “private”, quale quella degli
affetti e del patrimonio, ma Platone sostiene
proprio che sono questi aspetti a dare origine
alla pleonexia e alla stasis. La lezione del
“maestro violento” e dei suoi interpreti
Callicle e Trasimaco non può venire
contraddetta, se non è possibile un modo di
vita diverso.
3. Nella Repubblica resta così una terza
ondata, che introduce l’aspetto più rilevante
e problematico della proposta platonica.
La comunanza di beni, donne e figli
potrebbe provocare il ridicolo, e la proposta
sembrare un castello in aria, un pio
desiderio, un sogno a occhi aperti: un’utopia.
Occorre dichiarare le condizioni di
realizzabilità dell’utopia. Glaucone, nel
corso del dialogo, richiama a più riprese
proprio questo impegno. La risposta non si
fa attendere.
 «Se saremo capaci di scoprire come
una città possa venire dotata di una
forma di governo che si approssima
al massimo a quella di cui abbiamo
parlato, dovrai ammettere che noi
abbiamo trovato quella possibilità di
realizzazione che tu esigi» (V,
473a).
Qual è il cambiamento minimo grazie a cui
una città può avvicinarsi a questo tipo di
costituzione, cambiamento non semplice, ma
possibile (473b-c), al vertice del potere,
capace di mettere in moto l’intero processo
di trasformazione?
Un governo filosofico, o i filosofi al governo
(473d). Risposta scandalosa, paradossale, ma
questi uomini apparentemente inutili, o
dannosi, confusi con i sofisti, se formati da
una scuola (l’Accademia), dovrebbero
possedere due doti fondamentali: le
tradizionali virtù morali del cittadino
(coraggio, autocontrollo, esperienza negli
affari pubblici, dedizione al bene comune);
le nuove doti intellettuali richieste da un
potere non-trasimacheo (conoscenza delle
norme oggettive e dei parametri ideali di
giustizia, conoscenza del bene).
È un circolo vizioso, visto che questo gruppo
di persone non esiste, e visto che la città è
ostile. Ma se un gruppo di filosofi formatisi
spontaneamente e in comune, che pure
attualmente vivono da privati cittadini,
costituissero, attraverso un’autoformazione,
il nucleo del programma di riforma,
assumendo il potere potrebbero provocare
quel cambiamento minimo in grado di
avviare un circolo virtuoso.
Come pensare questa presa del potere? In
casi eccezionale una città potrebbe accettare
un governo filosofico, ma la possibilità più
probabile sarebbe l’educazione filosofica di
un potente o figlio di potenti. È ciò che
Platone e gli Accademici tenteranno con i
tiranni di Siracusa, sebbene senza successo.
Ma non tutti i tentativi falliranno, e molti
Accademici redigeranno costituzioni o
guideranno governi cittadini.
Limiti del progetto.
La forma di vita comunitaria, fulcro della
riforma, risulta, nel libro IV, ristretta al
gruppo politico-militare di comando. Il più
vasto ceto di produttori resta invece
vincolato alla privatezza della famiglia e
della proprietà. Le forme di vita cittadine
sono diverse, e potenzialmente in conflitto.
Nel libro V la stessa situazione è confermata
(anche se in teoria la vita comunitaria
potrebbe riguardare tutti i cittadini).
Se consideriamo Repubblica IX (590d-591a)
e Leggi V (740a), invece, abbiamo che, nel
primo caso, si suppone che tutti obbediscano
al principio razionale, interiore nel caso dei
governanti, esteriore nel caso di chi ne è
privo: allo stesso modo i bambini
obbediscono ai genitori (quindi si tratterebbe
di educare tutti i cittadini, che in futuro
potrebbero essere parte del ceto dirigente),
nel secondo caso, invece, insieme alla
comunità delle donne e dei figli, si parla di
coltivare in comune la terra, il che indica
non l’esclusione della proprietà per i
governanti, bensì la collettivizzazione del
possesso della terra, e quindi l’unificazione
del corpo sociale attraverso l’assegnazione
della funzione produttiva anche al gruppo
dirigente. La limitazione della forma di vita
comunitaria al solo gruppo dirigente è
dunque forse transitoria, in vista di un
comunismo compiuto. Ma più probabilmente
ci si può attendere solo un diffuso consenso
alla progettata disuguaglianza dei ruoli,
accettata perché posta al servizio dei comuni
interessi e della felicità collettiva.
Una seconda questione si impone. Il progetto
è desiderabile? È realizzabile, secondo
Platone?
La realizzabilità non è quella di un
programma a breve o medio termine. Basta
che non sia impossibile. Il disegno è
conforme alla natura umana, benché
contrario ai costumi vigenti, che non
assegnano parità di funzioni a uomini e
donne e permettono che individui
razionalmente meglio dotati non si occupino
di quanto è vitale per la città.
Come passare dalla possibilità come nonimpossibilità alla realizzabilità effettiva?
Innanzitutto dilatando la scala spaziotemporale nella quale vedere realizzarsi
l’evento. Potrebbe essere accaduto
nell’infinito tempo passato, da qualche parte
in Grecia o tra i Barbari, oppure accadere nel
futuro. In ogni caso la costituzione o è
esistita, o esiste, o esisterà. Non è
impossibile, anche se difficile (499b-d;
502a-b).
Si tratta di aspettare l’occasione propizia, e
prepararsi. La kallipolis è il modello che
dovrà venire realizzato storicamente, e
quindi inevitabilmente approssimativamente,
ma, appunto in base a un modelli, quanto più
vicino possibile. Dal mondo della pleonexia
a quello della giustizia il viaggio è lungo, ma
il momento determinante è la decisione
iniziale, la conversione dell’uomo destinato
ad abitarla, che diventa giusto riformando il
proprio profilo di vita in ordine al desiderio
della città giusta, che comincia a esistere là
dove esistono uomini giusti che la
considerano il proprio fine.
Nelle Leggi Platone la considererà
impossibile (benché rappresentasse per lui il
modello migliore) perché troppo superiore
all’attuale condizione umana (740a). La
trasformazione, vista la resistenza al
cambiamento, ben superiore a quella
prospettata, dovrà essere necessariamente
graduale.
Aristotele, invece, considererà ciò che è
attuale e normale come naturale e perciò
normativo. Una trasformazione radicale
dell’esistente storico risulterebbe perciò
impossibile perché in conflitto con la natura
umana sedimentata e neppure desiderabile
perché contro-natura, quindi illecito da un
punto di vista etico-politico (Politica, II, 25).
3. La morte del maestro e i paradossi
dell’immortalità.
Affrontiamo ora quella che potrebbe
sembrare una digressione, e che invece ci
servirà come passaggio per l’ultima
questione da affrontare: il rapporto tra
anima, corpo e città. Occupiamoci
dell’anima.
Da dove proveniva il pensiero
dell’immortalità dell’anima? Da due fonti
diverse:
1. l’antica e autorevole tradizione
pitagorica. L’anima è la polarità
pura, divina, immortale
dell’individuo, contrapposta al
corpo, fattore di mortalità e
contaminazione, origine dei desideri
e della carne. Per i Pitagorici
l’anima è un demone
transindividuale, condannato per
una colpa originaria a un ciclo di
reincarnazioni, dal quale si può
affrancare attraverso un esercizio
(ascesi) di purificazione e
liberazione dai vincoli della
corporeità.
2. La lezione socratica, che faceva
dell’anima il vero io che si
contrapponeva all’io pubblico ed
esposto al ricatto del successo e del
prestigio sociale: era dei beni
dell’anima in questo senso
(saggezza, giustizia) che occorreva
prendersi cura, più che dei beni
esteriori (bellezza, potere, fama), al
fine di perseguire una felicità stabile
e autentica al riparto delle alterne
vicende della sorte. La questione
dell’anima era in Socrate tema
morale, individuale. L’immortalità,
forse, qualcosa di secondario.
La riflessione platonica va oltre queste due
fonti di ispirazione.
L’anima, come mediatrice tra tempo ed
eternità, tra alto e basso, garantiva la
possibilità del transito tra i due livelli, sia dal
punto di vista etico, sia dal punto di vista
conoscitivo, come ascesa o decadimento.
Doveva essere pensata come immortale per
due ragioni:
Da un punto vista morale, l’immortalità
dell’anima, con la conseguente attesa dei
premi o delle punizioni che le sarebbero
toccate nell’aldilà appariva un incentivo
irrinunciabile alla virtù. Solo la promessa di
una felicità oltreterrena e la minaccia di pene
eterne sembravano compensare l’evidenza di
una sorte sventurata per il giusto e del
successo e della prosperità per l’ingiusto in
questa vita.
Si trattava di una ipotesi persuasiva, a cui
Socrate fa ricorso alla fine del Gorgia, di
fronte all’aggressione verbale e alle minacce
di Callicle, che prevedeva per Socrate una
fine tragica, in questa vita: il destino che
attende coloro che si sono macchiati di
pleonexia, e che in questa vita hanno
successo, è il più terribile, i giusti, invece,
che hanno vissuto secondo verità, come il
filosofo, vengono mandati alle isole dei beati
(526c). Questi racconti, però, sembravano, a
Callicle, le favole di una vecchietta. Socrate
non sembrava in grado di trovarne di
migliori.
Nel Fedone era l’educazione a permettere
all’anima la salvezza nell’aldilà, perché la
aiutava a diventare buona e saggia e a vivere
conseguentemente (107d). Anche in questo
dialogo Socrate riconosce la scarsa
palusibilità di questo ricorso morale alla
mitologia dell’aldilà: «Sostenere con
decisione che le cose stiano così come le ho
descritte non si addice a un uomo che abbia
intelligenza; che però questa, o simile a essa,
sia la condizione delle nostre anime e delle
loro residenze d’oltretomba – dal momento
che l’anima ci è parsa essere immortale –
questo mi pare sia il caso di correre il rischio
di crederlo» (114d).
Nel II libro della Repubblica è proprio il
fratello di Platone, Adimanto, a formulare la
critica più devastante a queste “favole”, al
ricorso ai miti d’oltretomba come protezione
e garanzia degli obblighi morali.
I moralisti, di fronte al trionfo
dell’ingiustizia e alla triste sorte che spetta
all’uomo giusto in questa vita dicono che ci
sarà una punizione nell’aldilà, ma è possibile
replicare che vi sono riti iniziatici e
liberatori, come affermano i poeti. Tutto ciò
che sappiamo sull’esistenza degli dèi e sul
loro interessamento alle cose umane
l’abbiamo appreso dai poeti (Omero, Esiodo,
Ferecide: non vi era altra teologia, per i
Greci). Se crediamo loro in questo dobbiamo
prestar loro fede anche quando sostengono
che gli dèi possono venir convinti a mutare
parere tramite sacrifici, preghiere, offerte
votive. Ora, chi, più degli ingiusti, grazie
alle ricchezze accumulate con la frode e la
pleonexia, potrà offrire agli dèi tali doni,
ingraziandoseli nell’aldilà (365e, 366a-b)?
La mitologia dell’aldilà è così colpita in
modo decisivo.
Adimanto chiede una fondazione teorica, un
incentivo morale più credibile e più vero, più
accettabile “per chi abbia intelligenza” di
quanto non siano le speranze escatologiche.
Platone accetta la sfida, mostrando nel libro
IV il nesso tra giustizia, salute e felicità della
città; nel libro IX come la virtù sia
condizione sufficiente di felicità individuale
anche in questa vita, in quanto garante di
un’esistenza serena, armonica, premiata dai
piaceri puri della conoscenza e della
giustizia, ma poi, alla fine del dialogo, non
può evitare il ricorso all’incentivazione
escatologica, con il mito di Er, esposto nel
libro X. Er ritorna dall’aldilà, e narra di aver
visto i premi e le punizioni, nonché la scelta
del tipo di vita, che le anime compiono
prima di reincarnarsi. A Platone, però, ora il
mito non serve più da un punto di vista
morale, bensì, come vedremo, da un punto di
vista gnoseologico.
La Moira dichiara: «Non sarà un demone a
sorteggiarvi, bensì voi a scegliere il vostro
demone [...]. La virtù non ha padrone;
ognuno ne avrà di più o di meno a seconda
che la apprezzi o la disprezzi. La
responsabilità è di chi sceglie: il dio non è
responsabile» (617e).
La forma di vita, il proprio destino, è dunque
una scelta libera e responsabile. Le anime,
però, prima di rinascere, reincarnandosi,
dovranno bere l’acqua del fiume Lete,
portratrice di oblio, infatti, se avessero
ricordato i premi e le punizioni dell’aldilà si
sarebbero comportate bene in base a
quell’attesa, e non sarebbero state meritevoli
per la loro virtù, in quanto non si sarebbe
trattato che di un calcolo economico dei
benefici e delle perdite.
L’oblio è essenziale da un punto di vista
morale, ma problematico dal punto di vista
gnoseologico, per il quale occorre il ricordo.
Il problema gnoseologico costituisce il
secondo ordine di ragioni che motiva la
decisione di Platone in favore dell’ipotesi
dell’immortalità dell’anima.
Sappiamo che gli oggetti della conoscenza
sono innanzitutto le idee, conoscibili
intellettualmente, mentre finché l’anima è
nel corpo conosce il mondo attraverso i
sensi, che trasmettono conoscenze dello
stesso ordine: qualità visive, uditive, tattili
ecc. del corpo.
La nostra stessa possibilità di giudicare e
valutare l’esperienza sensibile,
trasformandola da impressione in
conoscenza, richiede di impiegare categorie
come bell/brutto, grande/piccolo,
uguale/diverso, che non appartengono
all’esperienza sensibile, risultando invece a
priori rispetto ad essa, ed essendone la vera e
propria condizione di possibilità. Kant, alla
fine del 1700, le riterrà categorie
trascendentali dell’intelletto, struttura innata
della conoscenza. Platone riporta invece a
uno stadio cognitivo cronologicamente
antecedente a ogni esperienza della
sensibilità corporea queste categorie. Forse
per difficoltà teoriche, forse in ragione della
comprensibilità della teoria, in ogni caso nei
suoi testi emerge chiaramente l’esigenza
dell’immortalità dell’anima, che potrebbe
così aver conosciuto le idee prima della
nascita, prima di essere legata al corpo.
Sarebbe il ricordo di questa fase precedente
la vita corporea a riemergere e rendere
possibili i processi conoscitivi (Fedone, 65d,
76a-e, 72e-73b).
Cebete, però, nel Fedone dichiara di aver
“dimenticato” questa dottrina che avrebbe
dovuto essergli nota.
L’immortalità dell’anima sembra essere la
condizione della conoscenza delle idee, che
deve essere cronologicamente antecedente
l’esistenza terrena e l’esperienza sensibile.
Reciprocamente, il fatto che noi ricordiamo
le idee sembra essere un argomento a favore
dell’immortalità dell’anima, che è l’organo
che ci permette di conoscerle.
Con l’anamnesi, però, avremmo provato
solo la preesistenza dell’anima rispetto al
corpo, non la sua immortalità, ovvero non la
sua sopravvivenza dopo la morte di quello (e
questo ne avrebbe vanificato la funzione
morale). Del resto, poi, l’oblio della vita
oltreterrena sembra essere necessario per le
ragioni morali, e con questo escludere il
ricordo necessario per le istanze
gnoseologiche.
Concentriamoci sul dialogo centrale per la
tematica dell’anima e della sua immortalità:
il Fedone.
L’ultima conversazione di Socrate, avvenuta
nelle ore che precedevano la sua morte in
carcere, era una consolatio mortis per gli
allievi: il tentativo di mostrare che la morte
del maestro non era che una liberazione della
sua anima dalla prigione corporea, e la
rinascita per una vita più vera. La filosofia
diventava un esercizio di preparazione alla
morte, una purificazione in vista dell’altra
vita (64a). I filosofi sono dei moribondi,
sosteneva, ridendo, Simia. Secondo Socrate
questa morte non è che un distaccarsi
dell’anima dal corpo. È il compimento del
lavoro del filosofo che per tutta la vita ha
lottato contro la sua corporeità: contro i
piaceri che essa persegue, contro le sue
passioni incontrollabili, che, come chiodi di
una croce, tengono l’anima conficcata al
corpo (65e, 83d).
C’è di più, per il nostro tema: la lotta contro
il corpo è, da parte del filosofo, il rifiuto
della dimensione della politica, che può
finalmente venire abbandonata, con le sue
guerre, le sue rivolte, le battaglie, che non
sono altro che prodotti del corpo e dei suoi
desideri (66b-c).
Inoltre, la corporeità è di ostacolo al sapere
filosofico, che richiede di astrarsi da ciò che
vedono gli occhi, odono le orecchie, toccano
le mani: il corpo svia la mente, impedendole
di acquisire la verità. Perciò, anche durante
la vita, la filosofia consiste in uno sforzo di
separazione dell’anima dal corpo (65c-d,
67c-d).
Il fine, operato con pratiche sciamaniche o
con l’etica del controllo delle passioni o con
la morte, di separazione dell’anima dal
corpo, richiedeva però, per la filosofia,
perché la filosofia fosse possibile come
episteme, e non come doxa, di argomentare
razionalmente quello che era stato il punto
centrale delle credenze religiose del
pitagorismo e dell’orfismo: l’immortalità
dell’anima. Contro i dubbi di Cebete, che
richiedeva un non piccolo supplemento di
persuasione e credibilità, e contro l’ilarità di
Simia. Platone ci prova nel Fedone, nel libro
X della Repubblica, nel Fedro, nel libro X
delle Leggi. Vediamo gli argomenti:
1. La semplicità dell’anima. “Morte”
significa dissoluzione di un
composto, come lo sono i corpi. Ma
l’anima è semplice e non composta,
visto che è affine alle idee, che sono
semplici, omogenee e
indifferenziate. Perciò l’anima non
può essere suscettibile di morte. Si
tratta qui di un presupposto, quello
della semplicità e purezza
dell’anima, allogena rispetto al
corpo. Ma non regge di fronte a una
teoria dell’anima articolata come
quella della Repubblica (IV) e del
Timeo, dove essa risulta scissa in:
razionale, aggressivo-collerica,
desiderante. Conseguenza? Solo la
parte razionale è semplice e perciò
immortale (Timeo 69c-d, Politico,
309c). In questo modo la funzione
cognitiva è assicurata, ma quella
morale no. [sarà la conclusione di
Aristotele]
2. La partecipazione dell’anima alla
vita, come il fuoco al calore. Un
elemento non può accogliere in sé il
suo contrario. La vita non può
accogliere in sé la morte. Se
“anima” significa “essere in vita”,
non può esservi un’anima morta.
Ma con questo non si dimostra che
vi sia un’anima dopo la morte.
[Aristotele sosterrà che l’anima è
entelechia, cioè atto/funzione,
ovvero vita, di un corpo naturale
dotato di organi (De Anima, II, i,
412b5), e non un demone che possa
indossare qualsivoglia corpo]. Se è
vita del corpo, l’anima risulta
indissolubilmente connessa alla
mortalità del corpo.
3. Mentre le malattie del corpo lo
fanno morire, quelle dell’anima,
l’ingiustizia, non la fanno morire,
ma la rendono semplicemente
peggiore. Quindi l’anima è
immortale, se è capace di
sopravvivere alla propria malattia.
Ma l’argomento è valido solo se si è
già dimostrato che l’anima è una
sostanza diversa dal corpo. In fondo
anche il corpo sopravvive a una
malattia, e si può riprendere. Se
l’anima è parte del corpo, come un
braccio, questo, seppure rotto,
sopravvive, ma non sopravvive a un
infarto.
4. L’anima è il principio del
movimento, che deve essere
anteriore e autonomo rispetto a ciò
che è mosso (Leggi 895c-896d;
Fedro 245c-246a). L’argomento si
scinde in due versanti. O si tratta del
movimento del cosmo, nel qual caso
l’anima è un principio cosmoteologico (il principio del mondo)
che nulla ha a che fare con l’anima
indivuduale (morale e cognitiva)
oppure dell’anima individuale, ed è
perciò un principio interno al
complesso psico-somatico
individuale (ma allora si identifica
con la “vita” del Fedone e si
ripresentano le aporie precedenti).
5. Nel Simposio, inoltre,
l’immortalizzazione personale è
duplice: del corpo e dell’anima: la
prima attraverso i discendenti, la
seconda attraverso il sapere. La
prima è una immortalitò
riproduttiva, la seconda del
pensiero. E sono queste le uniche
forme di immortalità personale che
avrebbe riconosciuto anche
Aristotele e con lui la filosofia
ellenistica.
Cinque argomentazioni, più che cinque
dimostrazioni. Nessuna di esse è conclusiva.
Il Fedone era condizionato dall’intenzione
consolatoria (doveva negare che il filosofo
potesse morire), ma la per farlo
contrapponeva l’anima al corpo, fonte di
contaminazione morale e conoscitiva,
responsabile dei mali della città e della
politica, che è il teatro delle passioni
originatesi dalla corporeità. Se l’esercizio
filosofico non è altro che una preparazione
alla morte, la possibilità di una politica
giusta finisce in una secca. Ed è quello che
accade nel Fedone, e nell’Apologia, con la
condanna di Socrate e la sconfitta della sua
politica.
Ma l’anima può rappresentare la mediazione
tra alto e basso, può trovarsi in una diversa
relazione con il corpo (Timeo) e la città
(Repubblica). Vale la pena di affrontare
questa ultima possibilità, che permette di
capire come vivere giustamente e bene in
questo mondo, e non nell’aldilà. Dobbiamo
tornare alla Repubblica, e occuparci del
Timeo.
4. La città, l’anima e il corpo
Nel Fedone il rapporto tra anima e città
viene rappresentato nel modo di una polarità
oppositiva e alternativa.
Nella Repubblica invece, viene ripensato nei
termini di una stretta interrelazione, che
giunge fino alla specularità: un progetto di
rifondazione di una città giusta e delle sue
forme di sapere e potere nel contesto di una
filosofia dei vivi, anziché dei morti o dei
moribondi.
Il progetto è radicale: porta Platone a
concepire un isomorfismo di fondo tra la
struttura della comunità politica e quella
della psiche: mentre la politica viene
psicologizzata (facendo dipendere la
costituzione della città dai tipi di anime in
essa prevalenti, cosicché sia riformabile a
partire da una strategia di governo
dell’anima); l’anima è politicizzata (diventa
il teatro di un conflitto per la guida della
condotta individuale, suscettibile di venir
governato tramite la medesima strategia).
Come istituire l’isomorfismo, presupposto
del progetto teorico? A partire dalla
tripartizione di entrambe, psiche e polis
(Repubblica, IV).
Il corpo sociale della città giusta si deve
articolare in:
1. un gruppo di governo “filosofico”;
2. un gruppo combattente posto al suo
servizio;
3. un ceto di produttori destinato ad
assicurare le condizioni materiali di
sussistenza dell’intera comunità.
Specularmente, l’anima veniva concepita
come divisa in tre parti:
1. razionale (logistikon);
2. collerica e aggressiva (thymoeides);
3. desiderante (epithymetikon).
Lo statuto delle due tripartizioni non è il
medesimo.
 La tripartizione della
comunità politica è
prescrittiva: la città deve
strutturarsi così, se vuole
davvero liberarsi della sua
malattia (guarire),
divenendo giusta e felice.
 La scissione tripartita
dell’anima è invece
descrittiva: la psiche risulta
in effetti scissa in una
pluralità di istanze e
pulsioni in conflitto tra loro
per il governo della
condotta individuale
(normativa è non la
scissione ma la
ricomposizione armonica e
gerarchica dei poteri
psichici).
Cosa comporta questa teoria della struttura
dell’anima?
L’abbandono della concezione, di matrice
pitagorica, attestata nel Fedone, dell’anima
come di una entità semplice e pura,
contrapposta alla dimensione della
corporeità.
Come conoscere l’anima?
In primo luogo attraverso una
“fenomenologia” dei comportamenti
psichici, che riveli, nell’esperienza
quotidiana, il conflitto tra pulsioni, desideri,
istanze censorie, per esempio tra il desiderio
di bere e la proibizione di farlo (Repubblica,
IV, 437a-439c).
In secondo luogo attraverso la lezione
culturale del teatro tragico, che aveva messo
al centro della scena i conflitti tra i diversi
desideri, e tra le pulsioni e la ragione.
 «So di accingermi a compiere azioni
malvagie, ma l’ira è più forte delle
mie deliberazioni – l’ira, che è
responsabile delle maggiori sciagure
per i mortali» (Euripide, Medea, vv.
1078 seg.).
In questo modo Platone può giungere a
descrivere la scissione fondamentale
dell’anima tra la sua istanza razionale
(calcolante, strategica, censoria rispetto ai
desideri) e quella desiderante: una vera
“guerra civile dell’io” (Vegetti, 134)
 «Non senza fondamento valuteremo
che due, e diverse tra loro, sono le
parti dell’anima: l’una, con la quale
essa ragiona, la chiameremo
appunto “razionale”, l’altra,
mediante la quale prova amore,
fame, sete, ed è eccitata verso gli
altri desideri, “irrazionale” e
“desiderante”, compagna di
ingordigia e di piaceri»
(Repubblica, IV, 439d).
Lo schema non è sufficiente, e Platone,
infatti, lo integra.
Consideriamo innanzitutto un’ulteriore
scissione all’interno della parte
irrazionale:
1. ci sono in effetti desideri più
strettamente legati alla corporeità,
come quelli rivolti ai piaceri del
cibo del bere, del sesso, nonché alle
ricchezze destinate a soddisfarli
(pulsioni estremamente individuali,
estranee e ostili alla sfera della
socialità politica);
2. e, inoltre, desideri di fama, onori,
riconoscimento pubblico (la
puslione di autoaffermazione, il
thymos omerico): questa seconda
classe di desideri, pur irrazionali per
la loro violenza aggressiva, deve far
capo a una “parte” diversa
dell’anima, e più nobile di quella
cui fa capo il primo tipo di desideri
(439e-440e) – in quanto realizzabili
nella sfera pubblica, essi potrebbero
essere soddisfatti anche in una
società giusta, governata dalla
razionalità: questa parte dell’anima,
se educata, potrebbe essere
disponibile a sostenere la ragione
all’interno dei conflitti intrapsichici,
che la oppongono alla prima classe
di desideri (440e-441c).
In secondo luogo, anche la parte razionale
dell’anima va rivista: essa non ha solo un
compito censorio e calcolante (dire no al
soddisfacimento dei desideri o stabilire una
priorità nel raggiungimento dei fini); bensì
anche un suo specifico ambito di desiderio,
ovvero i desideri di conoscenza, di giustizia,
che dovrebbero garantire la salute della
psiche nella sua interezza, e non solo il
soddisfacimento di una sua parte soltanto.
Ma cosa significa “parte” dell’anima?
Non tre anime separate poste all’interno di
un unico involucro corporeo: è sempre «con
l’anima intera che intraprendiamo e
compiamo le nostre azioni»; ma diversi
centri motivazionali ci spingono, a seconda
dei loro desideri divergenti, a orientare la
condotta in un senso o nell’altro: «con l’uno
ci volgiamo alla conoscenza, con l’altro
proviamo impulsi aggressivi, con il terzo i
desideri del cibo, dei piaceri del sesso e gli
altri dello stesso genere» (436a-b).
Da cosa è determinata dunque la condotta
individuale?
Dal prevalere, all’interno dell’unica anima,
dell’uno o dell’altro di questi principi,
comunque presenti in ogni essere umano.

Nel libro IX della Repubblica si
presenta un’immagine: in ognuno di
noi sono presenti: «un mostro
policefalo», le cui molte teste
rappresentano la pluralità dei
desideri; un leone (spirito
aggressivo e collerico); un «uomo»
(il principio razionale), che è il più
piccolo dei tre (588c-e).
Come si differenziano i tipi d’uomo?
In base a chi comanda tra i tre principi
psichici. Il problema del comando è però il
problema del potere, della politica
dell’anima. E questo, a sua volta, un
problema di forza: il principio razionale è
debole, le energie pulsionali
dell’aggressività e del piacere sono
potentissime.
 Nel Fedro un’immagine paragona
l’anima umana a una biga, guidata
da un “auriga” e trainata da due
cavalli, entrambi privi di ragione,
uno dei quali disposto a seguire gli
ordini dell’auriga (il principio
aggressivo), l’altro in perenne
ribellione (il principio desiderante).
Se l’auriga conosce la via da
seguire, l’energia che fa muovere il
carro è erogata dai cavalli, ma la
direzione effettivamente presa
(verso l’alto o verso il basso)
dipende dai rapporti di forza tra i
tre agenti del movimento (246a-b).
Quali sono le conseguenze di questa
struttura?
La ragione può governare le pulsioni (se si
allea con il principio aggressivo), ma è
possibile che venga da esse dominata, e sia
costretta a mettere le sue risorse calcolanti e
strategiche al servizio dei desideri di fama o
di piacere (cfr. l’analisi psico-politica del
libro VIII della Repubblica).
Come risolvere il conflitto intrapsichico?
Garantendo la giusta gerarchia dei principî
dell’anima, ovvero installandovi la “salute”
costituita dalla giustizia, condizione della
felicità individuale.
 Nella Repubblica la risposta alla
domanda cruciale è orientata allo
schema della tripartizione politica,
che prevede l’alleanza, all’interno
del ceto dirigente della città, fra un
gruppo di governo “filosofico” e un
gruppo combattente, che assicura al
primo la forza necessaria a ottenere


la sottomissione del terzo ceto e a
garantire la pace sociale.
All’interno dell’anima un’adeguata
strategia educativa potrebbe
condizionare lo spirito aggressivo
(thymoeides), disponibile per la
natura nobile dei suoi desideri
orgogliosi a una soddisfazione
compatibile con un giusto profilo di
vita: permettendo un’alleanza con il
principio razionale. Le energie
destinate al successo e alla fama, na
volta distolte dall’immediatezza di
una condotta violenta e vendicativa,
potrebbero permettere di tenere a
freno le pulsioni dei desideri e la
disgregazione dell’io che esse
inducono. Il leone potrebbe,
collaborando con l’uomo, tenere a
freno il mostro policefalo.
Una seconda possibilità di
condizionamento, se possibile
ancora più radicale, potrebbe
riguardare la potentissima pulsione
erotica, generata dalla sessualità
corporea, capace di devastare gli
equilibri dell’io. Secondo quando
sostenuto nel Simposio e nel Fedro,
se “canalizzata” (metafora idraulica
contenuta in Repubblica VI, 485d)
o, in termini psicoanalitici
“sublimata”, potrebbe essere posta
al servizio della ragione.
L’educazione, che si configura
come un rapporto erotico tra
maestro “amante” e discepolo
“amato” (ma pronto a rovesciarsi,
come avviene nel Simposio, cfr.
racconto di Alcibiade).
Soffermiamoci su quest’ultima.
L’educazione e l’eros.
L’educazione può volgere il desiderio dei
corpi verso l’amore della bellezza in sé, cioè
verso la sfera ideale, estetica ed etica, della
verità e del bene. Il desiderio dell’unione dei
corpi potrebbe essere convertito in quello
dell’unione delle anime nella comune ricerca
di una vita più bella e più giusta. È la via
dell’immortalità delle anime nobili nel
Simposio. L’eros sublimato spera di
“generare nel bello”, anziché nei corpi.

Nella Repubblica la filosofia viene
descritta come desiderio erotico di
conoscenza: «chi è veramente
amante del sapere [...] non
interrompe il suo cammino e non
desiste da suo eros prima di aver
afferrato la natura stessa di ogni
essenza con la parte dell’anima cui
si conviene afferrarla – e si
conviene a quella che è loro affine;
quando con essa ha abbracciato e si
è unito a ciò che realmente è, e ha
generato pensiero e verità, allora
conosce e vive davvero e si nutre e
così cessato le sue doglie, ma non
prima» (VI, 490a-b).
Non in tutti gli uomini può venire ottenuta
una gerarchia psichica che assicuri il
comando al principio razionale.
L’educazione pubblica nel caso del
principio aggressivo, e il rapporto maestrodiscepolo nel caso del principio erotico sono
in molti casi insufficienti.
Nella maggior parte dei casi dominano (a
causa di una dotazione naturale) i desideri di
autoaffermazione della thymoeides o quelli
rivolti ai piaceri corporei (epithymetikon).
Per questo, su questa differenza deve basarsi
l’assegnazione dei diversi tipi di uomo ai
gruppi sociali funzionali in cui articolare il
corpo sociale.
1. Chi è l’uomo giusto (cit. pp. 1378)? Quello che verrà naturalmente
assegnato al gruppo di governo
filosofico.
2. Quello in cui prevale il principio
collerico al gruppo militare.
3. Quello sottomesso alle pulsioni del
desiderio sarà relegato nel terzo
gruppo, al quale è concessa
l’accumulazione di ricchezze.
Tutto a posto dunque?
No, perché la corrispondenza fra
tripartizione psichica e sociale non è
perfetta, bensì disomogenea. Già lo
sappiamo. Questo è dovuto al carattere
descrittivo della prima e normativo della
seconda? Non solo.
Dobbiamo riconsiderare la disomogeneità.
 L’elemento collerico e quello
desiderante appartengono entrambi
alla dimensione irrazionale
dell’anima.
 Al contrario, il gruppo combattente
risulta da una selezione interna al
ceto sociale superiore, cui era
destinato il progetto educativo della
città e che doveva condividere con i
governanti filosofi il modo di vita
comunitario.
In questo secondo caso, uomini in cui il
comando psichico è esercita da una forza
irrazionale (ambizione e orgoglio), alleata
alla ragione, non solo facevano parte del
gruppo di governo, ma detenevano la forza
militare necessaria (così come alla ragione è
necessaria l’energia psichica).
Se riflettiamo su questo, constatiamo che vi
è un elemento di instabilità nel nuovo ordine
politico. Platone stesso lo riconoscerà nel
libro VIII della Repubblica: un decadimento
inevitabile negli equilibri psichici
individuali, nonostante ogni sforzo
educativo. E, di conseguenza, un’inevitabile
decadenza delle forme costituzionali.
Alla kallipolis, la bella città, regime di
giustizia governato dagli uomini razionali,
succede il potere timocratico, quello degli
uomini in cui prevale l’ambizione di gloria e
onore. Questo regime determina una
riprivatizzazione dei beni e degli affetti,
degenerando perciò in tre regimi il cui potere
era conquistato dalle diverse figure del
desiderio:
1. il potere dell’uomo oligarchico,
ossessionato dalla brama di
accumulare ricchezze;
2. il potere dell’uomo democratico,
che rovescia, attraverso una
rivoluzione dei poveri, il regime
oligarchico:
 rifiutando ogni gerarchia dei
desideri e lasciando libero corso
a tutti, sopprimendo qualsiasi
principio di autorità tanto nella
psiche quanto nella società, la
libertà democratica degenera in
anarchia della vita pubblica e
privata, dove «il padre si rende
simile ai figli e li teme, i figli si
assimilano ai padri e non
provano verso di essi né rispetto
né timore, pur di essere liberi
[...]. Il maestro teme e adula gli
allievi, e questi disprezzano
maestri e pedagoghi»; si
cancella infine ogni differenza
tra anziani e giovani, fra
padroni e schiavi, persino fra
uomini e animali (562e-563d).
L’uomo democratico «vive alla
giornata, compiacendo qualsiasi
desiderio gli capiti: ora si
ubriaca e suona il flauto, poi fa
la cura delle acque per
dimagrire, una volta fa
ginnastica e un’altra si
impigrisce e se ne infischia di
tutto, poi magari mostra di
partecipare a discussioni
filosofiche. Spesso si dà alla
politica e si mette a parlare a
casaccio; e se lo prende
l’invidia per gli uomini di
guerra, si volge a questa
attività, oppure se invidia i
ricchi eccolo darsi agli affari.
Nella sua vita non ci sono né
ordine né obblighi: la chiama
però dolce e libera e beata, e in
questo modo passa l’intera
esistenza» (561c-d).
3. La dolce libertà dell’uomo
democratico risulta instabile, priva
di ordine e di gerarchia dell’io e
della comunità. Il suo destino è di
cadere preda dell’“uomo-lupo”
(566a): il tiranno, che si atteggia
inizialmente a difensore del popolo
contro i ricchi oligarchi per poi,
invece, diventarne il sanguinario
oppressore.
 Il tiranno non prende il potere
per ambizione di gloria
(timocratico), per cupidigia di
ricchezze (oligarchico), o per
l’arrendevolezza a ogni
desiderio (democratico). È
invece dominato da un unico
desiderio, l’ossessione erotica:
eros tyrannos (Repubblica IX,
573b). Egli usa il suo potere
assoluto per realizzare di giorno
ciò che gli uomini sognano di
notte: «unirsi con la madre [...]
o con chiunque altro fra gli
uomini, gli dei e le bestie,
assassinare a suo piacimento,
non astenersi da alcun eccesso»
(571c-d).
Con questo siamo giunti allo stadio
terminale della fenomenologia della
decadenza dei tipi d’uomo e delle diverse
forme politiche.
Nella Repubblica sembra non esserci più
alcuno spazio per un percorso di ascesa
verso l’orizzonte della Kallipolis e
dell’uomo giusto che le corrisponde.
Nel Fedro, però, e nel Simposio, l’eros
sembra poter venire rieducato, sublimato, in
modo che la sua energia venga indirizzata
verso il desiderio di verità e giustizia.
Il tiranno (Repubblica, Leggi, Lettera VII),
può venir persuaso ad accettare la guida del
filosofo e a porre il suo potere assoluto al
servizio del progetto della città giusta.
Il trionfo di eros tyrannos (la completa
degenerazione della polis e della psiche) è
allora suscettibile di un rovesciamento?
Attraverso la persuasione educativa del
maestro-filosofo? La premessa della
ricostruzione della kallipolis?
La stessa kallipolis della Repubblica non
poteva che nascere da un gesto d’amore: del
filosofo verso la politica o del potente verso
la filosofia.
Ma l’instabilità degli equilibri psichici,
dovuta alla potenza delle forze irrazionali
dell’anima, rendeva necessario e privo di
garanzie l’impegno educativo. Una politica
dell’anima condotta sia dalla comunità che
dal maestro-filosofo.
Oltre il Fedone e la sua radicale
opposizione, si apre così un transito tra
anima e città:
 la seconda deve farsi carico,
nell’educazione comunitaria,
degli equilibri psichici
individuali;
 la prima, plasmare la città a sua
immagine, poiché l’assetto
pubblico dipende dalla
configurazione psichica del tipo
di uomo in esso prevalente: gli
assetti psichici dominanti
configurano a propria
somiglianza la forma di vita e la
struttura politica delle comunità
in cui essi prevalgono;
 un buon governo di queste
comunità può, reciprocamente,
attraverso un atto di forza,
condizionare anche gli assetti
psichici riorientandoli verso una
vita privata e pubblica ordinata
dalla giustizia.
Abbiamo concluso? No. Dobbiamo
considerare un altro elemento, o forse
un’altra ipotesi sulle passioni. Il rapporto
anima-corpo. Nel Fedone il contesto era
oppositivo e “mortuario”.
Il Timeo veniva deliberatamente presentato
come continuazione della Repubblica
(all’indomani della conversazione di Socrate
con Trasimaco, Glaucone, Adimanto e gli
altri).
Esso narra di un mito “verosimile” (ma solo
verosimile) sulla formazione del mondo a
opera di un artefice divino, il Demiurgo. Ma
anche la costituzione di un complesso psicosomatico. Il sapere medico del V secolo,
unito alla tripartizione della Repubblica,
perviene a esiti interessanti, per quanto
concerne la relazione anima-corpo.
A partire dalla concezione del corpo come
“veicolo” o strumento dell’anima (69c), si
perviene alla comprensione di esso come
organismo articolato in parti
anatomicamente distinte ma
fisiologicamente connesse e interagenti fra
loro.
La sede somatica della “parte immortale”
dell’anima è individuata nell’encefalo,
quella della parte aggressiva nella regione
cardiaca, quella della parte desiderante è
duplice: da un lato i visceri, per i desideri di
tipo alimentare, dall’altro gli organi sessuali
per quelli erotici.
Sono, oggi, ovvietà? Forse, ma con delle
conseguenze, che non dobbiamo trascurare.
Il corpo è psicologizzato. Ma siccome la
psiche era già stata politicizzata, allora
anche il corpo è politicizzato, oggetto
possibile dell’agire politico.
(cit. 91b-c, pp.143)
Cosa significa che le parti dell’anima sono
installate nei rispettivi organi corporei? Non
come un inquilino in un appartamento. E
come vengono trasmessi gli ordini della
ragione, visto che la fisiologia ignora ancora
il sistema nervoso?
Non erano questi gli interrogativi che
interessavano Platone, il quale, in questo
modo, aveva posto le condizioni di
pensabilità dell’interazione tra corpo e anima
e quindi tra corpo e città. Le patologie del
corpo e dell’anima, pensate in un nesso
circolare, potevano essere curate da una
terapia condotta all’interno dell’educazione
etico-politica.
In questo contesto, il motto socratico
“nessuno fa il male volontariamente” viene
rivisitato.
La malattia psichica, e quindi la devianza
morale, erano imputabili a malformazioni
corporee e insieme a una cattiva educazione
pubblica e privata. La responsabilità di
questa cattiva complessione dei corpi e
cattiva costituzione è da attribuire più ai
padri che ai figli, più agli educatori che agli
allievi. L’educazione deve, nella misura del
possibile, in quanto educazione al sapere, far
rifuggire dal male e compiere la scelta
opposta.
Ma una città giusta, una buona educazione
possono plasmare un’anima e mediante essa
un corpo migliori.
La politica dell’anima (governo della
ragione sulla sfera dei desideri tramite gli
impulsi aggressivi) può integrarsi in una
politica del corpo (comando dell’acropoli
encefalica sostenuta dal posto di guardia
cardiaco sui visceri e sugli organi del sesso).
Sullo sfondo, la grande politica della città,
perché solo una costituzione giusta, e uno
sforzo collettivo di educazione, possono
garantire nell’anima e nel corpo le gerarchie
di giustizia e salute. La medicina dei corpi è
una continuazione della politica con altri
mezzi (Timeo 88c-89d).
Il corpo, non più nemico dell’anima, è
pensato come organismo integrato,
potenziale alleato, se in salute, e congiunto a
essa nella strategia terapeutica.
L’uomo, complesso psico-somatico, diventa
animale politico in un senso più radicale di
quello aristotelico: tanto la sua anima quanto
il suo corpo sono politicizzati, all’interno
della città.
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