Platone e la politica 1. La città malata e i suoi medici 2. La città
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Platone e la politica 1. La città malata e i suoi medici 2. La città
Platone e la politica 1. La città malata e i suoi medici 2. La città migliore, se possibile 3. La morte del maestro e l’immortalità dell’anima 4. La città, l’anima e il corpo 1. Secondo Platone la città era malata, l’esperienza della polis era giunta al suo fallimento. «Osserviamo come nasce una città gonfia di lusso [...] una città infiammata» (Repubblica, II, 372e) La prima diagnosi di questa crisi era stata offerta dallo storico ateniese Tucidide. La politica imperialista di Atene ne aveva fatto una «città tiranna» (polis tyrannos: II, 62,3), portando, negli anni della giovinezza di Platone, alla guerra del Peloponneso. Lo scontro tra Atene e Sparta era diventato anche un conflitto trasversale, sociale e ideologico, tra i democratici (riferimento: Atene) e gli oligarchici (riferimento: Sparta). L’incendio internazionale si era riverberato all’interno delle singole comunità cittadine, facendo divampare la guerra civile: la stasis, che spezzava il patto sociale sul quale esse si reggevano e distruggeva il comune rispetto della legge della polis. segreta della condotta umana. La sua unica regola, la forza. L’unica legge divina e umana, secondo gli Ateniesi, era «chi ha la forza comanda» (V, 105.2), indipendentemente dal diritto e dalla morale. Il punto di partenza di Platone era il medesimo. La diagnosi anche più drastica, la prognosi più ottimistica. La città non era mai stata davvero “una”, a dispetto di ogni illusione. All’interno della stessa città erano coesistite almeno due città: quella dei poveri e quella dei ricchi, ed entrambe erano suddivise a loro volta in famiglie, clan, eterie (nuclei di interessi privati). La conflittualità endemica era lo scoglio contro il quale era naufragato il progetto greco e ateniese di costruzione di una polis unita, esente da stasis. La questione antropologica di fondo era la pleonexia, determinata da una configurazione dell’anima, io interiore, in cui prevalevano gli elementi irrazionali del desiderio e dell’ambizione, tesi all’acquisto di ricchezza, gloria, potere, autoaffermazione contro gli altri e non insieme a loro. Ma, secondo Platone, la natura umana non è necessaria, cioè immodificabile... La guerra del Peloponneso era stata un «maestro violento» (Tucidide, III, 82.3) capace di vanificare l’illusione di una città pacificata e coesa grazie alla virtù politica. L’anima può essere suscettibile di un condizionamento educativo capace di alterarne gli equilibri interiori, rafforzandone la razionalità collaborativa a scapito delle pulsioni competitive e agonali. Nella situazione di tensione e conflitto era venuta alla luce la natura necessaria dell’uomo, a stento frenata dalla legge in condizioni normali (V, 105.2). La natura necessaria consiste in un incoercibile istinto di pleonexia, desiderio di «avere di più» prevaricando sugli altri e violando le leggi comuni, e da una innata philotimia, brama di successo e potere assoluto (III, 82.2.,6.8). Il conflitto per il potere è la molla Era stata la speranza di Socrate. Ma ora bisogna ripercorrere il circolo: il fallimento socratico era dipeso dalla illusione di poter cambiare la città partendo dall’anima degli individui che ne facevano parte. Platone pensa invece che il ricondizionamento educativo dei singoli sia possibile solo come esito di un’impresa collettiva, che la città stessa deve gestire. Non può essere il singolo uomo giusto a rendere giusta la città: solo una città giusta è in grado di rendere giusti (cioè: razionali) i suoi cittadini. Questo rischia però di diventare un circolo vizioso, in quanto la condizione di possibilità di una città giusta si trova appunto nella giustizia dei suoi membri. Come uscirne? Analizzando la questione del potere: la città malata ha bisogno di medici capaci di guarirla. I medici sarebbero dovuti essere i politici che governavano la città. Essi, però, fino ad allora non erano stati che complici, ovvero concause, della sua malattia. Socrate a Callicle (Gorgia): «Tu lodi uomini che hanno offerto agli Ateniesi banchetti servendo loro quello che desideravano. E allora dicono che essi hanno reso grande la città, perché non si accorgono che essa è gonfia e infetta a causa di quei vecchi politici. Senza affatto preoccuparsi di saggezza e di giustizia hanno riempito la città di porti, arsenali, mura, tributi dei sudditi, e altre simili banalità. Ma quando li colpirà l’attacco di questa malattia daranno la colpa ai consiglieri di adesso, e continueranno a lodare Temistocle e Timone e Pericle – loro, che sono le cause dei mali. Se la prenderanno forse anche con te, se non stai in guardia, e col mio compagno Alcibiade, quando perderanno anche gli antichi possedimenti, oltre agli acquisti recenti, anche se voi non siete colpevoli dei mali, benché forse corresponsabili» (518e-519b). L’intero gruppo dirigente della storia ateniese viene chiamato in causa: invece di agire come medico della città era diventato causa della malattia. Nel caso del regime democratico questo si deve alla vocazione demagogica della sua leadership. Essa è costretta a compiacere il pubblico intellettualmente infantile dal cui favore elettorale dipende il suo potere. Se il pasticcere si fa amare dai bambini fornendo loro torte che li ingrassano, invece il medico, che propinerebbe loro diete salutari e purganti, non potrebbe mai ottenerne il consenso: «Come potrebbe difendersi un medico accusato da un pasticcere di fronte a una giuria di bambini? [...] Se dicesse la verità: “Ragazzi, tutto quello che ho fatto l’ho fatto per la vostra salute” non credi che quei giudici alzerebbero grandi strilli?» (Gorgia, 521e-522a). Il regime democratico è dunque il regime in cui il gruppo dirigente adula il popolo, compiacendone i desideri irrazionali e morbosi, invece di curarlo con una terapia rigorosa, nella speranza di guadagnarsi il suo favore. L’oligarchia non le è superiore, perché qui il gruppo dirigente è al servizio degli interessi della ricchezza. In questi due regimi c’è una doppia servitù: i politici sono asserviti al proprio desiderio di potere, e questo li rende servi degli interessi di coloro dai quali il loro potere dipende. Non sono questi, dunque, i governanti della democrazia e dell’oligarchia, i medici in grado di guarire la malattia della città. Dietro di loro, poi stavano “cattivi maestri”. Chi erano? I cattivi maestri avevano sostenuto teorie sulla virtù pubblica che pretendevano di smascherare le ideologie moralistiche rivelando la verità sulla “natura umana”, e sulla reale funzione di ciò che si chiama “giustizia”. Il più importante era stato Antifonte, retore e protagonista del tentativo di golpe oligarchico nell’Atene del 411 (Tucidide, VIII, 66-70). Le loro tesi vengono rappresentate da alcuni personaggi dei dialoghi di Platone: Callicle nel Gorgia, Trasimaco e Glaucone nella Repubblica. Essi espongono, a diversi livelli di profondità teorica, dottrine forti sulla genesi della comunità politica, della giustizia e della legge. Per contrastare tali dottrine occorreva elaborarle compiutamente, e poi affrontarle sul loro stesso terreno. Callicle. La versione di Callicle rappresenta più da vicino la nostalgia per gli eroi, le velleità superomistiche di un’aristocrazia tradizionale incapace di accettare le regole di convivenza della città democratica. C’è una sola legge di natura, sostiene Callicle, riecheggiando le parole di Tucidide, ed è quella che «il più forte è destinato ad avere di più (pleon echein) del più debole» (Gorgia, 483b-d). Questa è la legge necessaria: la pleonexia. Ma la folla dei deboli ha chiamato “ingiustizia” questa naturale pleonexia dei più forti. Per proteggersene ha inventato la sua legge, la legge dell’eguaglianza di deboli e forti, e ha cercato di imporre, con l’educazione pubblica e i costumi comunitari, l’ideologia secondo la quale è in questa eguaglianza che consistono «il bello e il giusto» (484a). Un inganno, insomma. Contro questo inganno, Callicle evoca l’attesa della comparsa di un uomo “leonino”, capace di «strapparsi di dosso, di spezzare e di liberarsi da tutte queste pastoie: egli calpesterebbe le nostre scritture, i trucchi e gli incantesimi e tutte le leggi contro natura. Lui, che era uno schiavo, si rialzerebbe e ci apparirebbe come un padrone – e allora risplenderebbe la giustizia secondo natura» (484a). Ma la violenza con la quale Callicle evoca il diritto naturale alla pleonexia rappresenta più una scelta di vita , una speranza di liberazione dai vincoli della morale e della legge egualitaria, che un vero e proprio argomento teorico. La forza evocata da Callicle è una qualità naturale, assoluta, propria di un ceto e di un tipo umano. Sul piano storico, però, questa forza era invece una debolezza: l’uomo leonino, di fatto, era un vinto, un debole, di fronte alla forza collettiva della maggioranza dei deboli, come Socrate ribatte (488d-489b). Trasimaco L’aggressione di Callicle alla giustizia della città viene ripresa da Trasimaco, con maggiore forza teorica, nel I libro della Repubblica. In lui scompaiono sia l’ideologia dell’opposizione tra legge di natura e legge della città, sia il mito del superuomo liberatore dei forti.. la verità di Trasimaco consiste in un rigoroso teorema del potere: «La giustizia non è altro se non ciò che giova al più forte» (338c). Il teorema può così venire dimostrato: “giusto” è ciò che è sancito come tale dalla legge, che ne rende obbligatoria l’osservanza; ma la legge è emanata da chi ha la forza per farlo, cioè detiene il potere nella comunità politica, che si tratti di una maggioranza popolare, di un’oligarchia aristocratica o di una tirannide; ogni forma di potere emana leggi strumentali rispetto all’interesse primario della propria conservazione (338d-e). Riformulando questa tesi, nelle Leggi, Platone scriverà: «Le leggi, dicono [i cattivi maestri], le impone sempre nella città la parte più forte. E credi tu, dicono, che una democrazia vittoriosa, o altra forza politica, o anche un tiranno, credi che vorranno dare leggi per altro scopo primario se non per il vantaggio di mantenere il proprio potere?» (IV, 714c-d). La conclusione di Trasimaco è dunque: se la giustizia consiste nel rispetto delle leggi, e se le leggi sono strumenti del potere, ne viene che la giustizia è appunto il vantaggio dei più forti (e, reciprocamente, un danno per i loro sudditi, perché li obbliga a subire l’oppressione e la spoliazione da parte dei potenti, 344a-c). Il potere è sempre in qualche modo tirannico, e la sua forma estrema, appunto la tirannide arbitraria e assoluta, ne rappresenta allora la verità. Il teorema di Trasimaco non è in sostanza confutabile nella sua ferrea connessione tra forza, potere, legge e giustizia, e infatti le obiezioni formulate da Socrate nel I libro della Repubblica lo scalfiscono appena. Esso propone a Platone una sfida, che sarà raccolta nei libri seguenti della Repubblica e nel Politico: la necessità di pensare una forma di potere “non trasimachea”, cioè destinata non all’interesse di chi lo detiene ma al servizio della comunità sulla quale esso si esercita. Glaucone La sfida di Trasimaco viene sviluppata, nel II libro della Repubblica, da Glaucone, fratello di Platone, che dichiara di dare voce a posizioni autorevoli e diffuse di cui riconosce il fascino intellettuale pur non condividendole moralmente. L’attitudine naturale degli uomini, sostiene, riprendendo le tesi di Tucidide, di Antifonte e di Callicle, si esprime nella pleonexia, nella pulsione primaria a esercitare una violenta sopraffazione su tutti gli altri per acquisire gloria, potere, ricchezza (358e). Ma (e qui sta l’orginalità) l’aggressività naturale genera un altrettanto universale sentimento di paura: non ci sono superuomini alla maniera evocata da Callicle, ognuno essendo troppo debole per poter sperare di esercitare la violenza sugli altri senza doverne subire una ancora maggiore. Nasce così da questo timore il «patto di giustizia», che consiste in una reciproca rinuncia alla violenza e nell’impegno comune a rispettare le leggi. La legge e la giustizia costituiscono dunque la protezione dei deboli, ma non ci sono, come pensava Callicle, deboli e forti per natura: la debolezza, e la paura che ne consegue, sono una condizione universale degli uomini in società, che li costringe a rinunciare alla pulsione primaria, istinto di base della violenza (359a). Almeno in apparenza, perché questa rinuncia riguarda solo la superficie civilizzata del cittadino che ha bisogno dell’approvazione degli altri. Sotto questa superficie, resta la ferocia originaria del “vero uomo” (359b). La pulsione della loro pleonexia sceglie allora la via occulta del complotto, della società segreta, sotto la protezione pubblica della ricchezza, di buoni avvocati, di fedeli compagni, dell’esibizione di virtù civiche, capaci di garantire l’impunità a chi è dedito a perseguire la prevaricazione sugli altri e il loro asservimento (361a-c). Se si fosse dotati dell’anello magico del pastore Gige, che gli assicurava l’invisibilità, chi non fosse pazzo si comporterebbe come lui, uccidendo il suo re e usurpandone il trono e la moglie (359d360b). Strumento del potere in Trasimaco, qui la giustizia diventa la maschera sotto la quale si persegue la stessa aspirazione. La sfida di Glaucone rafforza quella di Trasimaco e risulta ancora più severa in quanto a darle voce è un membro della cerchia familiare di Platone, forse un lato della sua stessa intelligenza. Questi cattivi maestri, i teorici della pleonexia, i demistificatori della giustizia in nome della verità della forza e del potere – non erano in grado di curare la malattia della città, né di guidare i suoi politici, che in questo compito avevano fallito. Ma di quella malattia essi stesso offrivano una diagnosi penetrante, di cui si doveva tenere conto. Platone partiva in effetti dalla lezione principale di Trasimaco, la riduzione della questione della giustizia alla questione del potere, tentando di invertirne il senso. Se è possibile pensare un potere giusto, allora esso promulgherà leggi giuste, costruendo una comunità i cui membri diventeranno uomini giusti. È vero: la natura umana, lasciata a sé stessa, è affetta da pleonexia; ma secondo Platone questa natura è plasmabile, può venire rettificata da un ambiente sociale che costituisca davvero – secondo il progetto, mai realizzato, dell’Atene periclea – un’impresa educativa collettiva. L’artificialismo, uno dei tratti salienti dello stile di pensiero platonico, viene in primo piano nell’ambito etico-politico: un buon governo può cambiare la città e una buona città può cambiare l’uomo, migliorandone la natura. In altri termini, la terapia della città e dei cittadini dipende dai loro medici: bisogna sostituire quelli cattivi e incapaci con quelli veri, capaci di portare la polis a quello stato di salute che è rappresentato dalla giustizia – la virtù che consente una coesistenza pacificata e collaborativa intesa al bene della comunità. I medici. Dove reperire questi buoni medici? Come costituire le condizioni per un potere giusto? La risposta platonica sarà (Repubblica, V): «A meno che i filosofi regnino nelle città, oppure coloro che oggi sono detti re e “potenti” non si dedichino in modo autentico e adeguato al filosofare, e non vengano riunificati il potere politico e la filosofia, rendendo impossibile che, come invece accade perlopiù oggi, le due forme di vita procedano separate, non ci sarà remissione dei mali delle città e, credo, neppure del genere umano» (473c-d). Ma chi sono questi filosofi? Chi sono questi nuovi medici della città? Come si può costruire il loro potere terapeutico? Evidentemente si tratta di un gruppo di governo non-trasimacheo, alla cui definizione (logos) sono dedicati i libri II-V della Repubblica e il Politico. Formuliamo il problema tramite una citazione: «Se un medico, anche senza convincere il suo paziente, ma con corretta padronanza della sua scienza, costringesse contro le regole scritte un bambino o un uomo o anche una donna a fare ciò che è meglio per loro, quale sarà il nome di questa violenza? Non certo che si tratti di un errore contro la scienza, cioè tale da recare malattia. E colui che ha subito questa violenza tutto potrà dire, tranne che ha sofferto, da parte dei medici che gli hanno fatto violenza, effetti contrari alla loro scienza, cioè forieri di malattia» (Platone, Politico, 296b-c). La città matura, cioè la città malata, gonfia di lusso e di pleonexia dispone comunque di un suo gruppo dirigente politico-militare. È possibile lavorare su questo gruppo, al fine di selezionarlo e ricondizionarlo dal punto di vista morale ed educativo. Nuova formulazione del problema: il soggetto della selezione e della rieducazione (è un noi?) non può che essere la polis stessa, sicché sarebbe il malato a dover formare i suoi propri medici. In ogni caso: l’educazione del nuovo gruppo di governo dovrebbe constare da un lato di una preparazione atletica (armonia dei corpi, funzione premilitare), dall’altro di un acculturamento letterario e musicale (plasmare l’anima). La musica e la poesia dovranno essere emendate dai caratteri pericolosi (che suscitano passioni e destabilizzano l’io): dovranno proporre modelli di comportamento edificanti e virtuosi (cfr. Libri II e III, dove Platone affronta i suoi obiettivi polemici: Omero, Esiodo e i poeti tragici: la poesia aveva un ruolo preponderante, per l’educazione...). Come selezionare? Tramite una serie di test di tipo morale e intellettuale, per isolare all’interno del gruppo dirigente coloro i quali, meglio dotati, si vedranno affidare il compito di risanare e rifondare la città. Ma questo gruppo potrebbe ricadere, nonostante la sua rieducazione, nei vecchi vizi della demagogia e della pleonexia. Come intervenire? Per evitare che i cani da guardia del corpo sociale si trasformino in lupi, feroci nemici del loro stesso gregge (Repubblica, III, 416a), occorre una garanzia: l’uso del potere non deve essere al servizio dei suoi detentori, come invece era per Trasimaco. Occorre perciò una radicale separazione tra proprietà privata e ruoli di governo. Negare a chi è destinato al governo il diritto di possedere privatamente qualsiasi tipo di beni e ricchezze. «A loro soltanto fra i cittadini non sarà lecito maneggiare e toccare oro e argento né di entrare sotto un tetto che ne contenga [...]. E così potranno salvarsi e salvare la città; ma se essi possedessero privatamente terra, casae e ricchezze, invece che “difensori” della città diventerebbero amministratori e agricoltori, e da alleati degli altri cittadini si trasformerebbero nei lor odiosi padroni. E così passerebbero la vita intera odiando e venendo odiati, tramando e subendo insidie, temendo molto di più i nemici interni di quelli esterni – correndo insomma verso l’inevitabile rovina propria e di tutta la città» (Repubblica, III, 417a-b). In questo modo viene individuata la prima radice dei mali della città: la confusione tra potere e ricchezza. Al contempo viene individuata anche la sua terapia chirurgica: la rinuncia alla proprietà privata. Il nuovo gruppo, rieducato e “bonificato” dalla privatezza degli interessi, deve venire in seguito sottoposto a un’ulteriore selezione, secondo il rapporto speculare di anima e città del quale diremo in seguito. I membri il cui assetto psichico vede una prevalenza dell’aggressività, dell’affermazione orgogliosa dell’io (spirito collerico) verranno specificamente destinati alla funzione militare, che consentirà di mettere le loro doti, potenzialmente pericolose, al servizio della comunità. Il piccolo gruppo nel quale prevarrà invece la razionalità («forma di sapere che non si occupa di interessi particolari nella città ma di questa nel suo insieme, ed è capace di comprendere come essa si debba condurre nei riguardi di sé stessa e delle altre città» (IV, 428d) sarà invece destinato al ruolo di governo: «un gruppo naturalmente piccolissimo, cui spetta di praticare quella scienza che, sola tra tutte le altre, bisogna chiamare “sapienza”» (IV,429a). Che cos’è questa scienza? Solo una competenza politica? Di governo? Che possiede la capacità intellettuale di comprendere il bene comune della città e la dedizione morale atta a perseguirlo? Nella sua versione forte essa si identifica con la filosofia, con la dialettica, sapere che legittima la destinazione dei suoi detentori all’esercizio del potere politico e ne fa i soli medici capaci di guarire i mali della città. Tali medici, conoscendo il paradigma invariante e ideale, il modello cui aspirare, sono capaci di riferirvisi nel modo più rigoroso possibile e stabilire le norme di ciò che è bello, buono e giusto nell’ambito storico-politico (VI, 484c-d). La conoscenza della filosofia permette il riferimento a parametri non arbitrari, non opinabili, non protagorei. Su questa base si orienterà il governo della comunità politica. Essa permette eventualmente il raggiungimento della comprensione di quella idea del buono attraverso la quale le cose giuste e le altre divengono utili e vantaggiose ai fini della felicità collettiva (VI, 505a). In riferimento al buono in sé i filosofi al potere garantiranno il buon ordine della città, dei singoli cittadini e di sé stessi (VII, 540ab). Di cosa deve disporre il gruppo dirigente? 1. di una conoscenza degli interessi generali della comunità, unita alla decisione morale di porsi al loro servizio; 2. della conoscenza delle norme ideali di giustizia, oggettive e invarianti, che devono regolare le condotte pubbliche e private; 3. del riferimento a un supremo principio di valore, l’idea del buono. Si spiega così perché tale gruppo sia ridottissimo (al più una decina). Più numeroso (mille?) potrebbe risultare il gruppo combattente, cui sono richieste doti morali di coraggio e fedeltà, più che intellettuali. Un piccolo esercito composto di uomini duri e scarni, non appesantiti da ricchezze e interessi privati (IV, 422b-d). A livello di possibilità normativa (almeno nel discorso...) risulta così delineato il ceto dirigente della città risanata. Il ceto si articola in due gruppi funzional: governanti e combattenti. E il resto dei cittadini? Non è stati ricondizionato dal processo educativo o è stato scartato per mancanza di doti. È il terzo gruppo, il più numeroso. Comprende i lavoratori agricoli, gli artigiani, i commercianti. A questo gruppo compete la produzione della ricchezza sociale, e il mantenimento dei gruppi politico-militari di governo, ai quali non è lecito possedere beni propri (sono in un certo senso mercenari stipendiati al servizio della comunità). Il terzo gruppo dispone di ricchezze private, perché nel suo assetto prevalgono i desideri pre-politici e non socializzabili della ricchezza e dei piaceri che essa consente., la spinta alla soddisfazione delle pulsioni primarie di matrice corporea. La tripartizione della città non è di tipo chiuso o castale, è infatti possibile che un membro dei gruppi di governo si riveli indegno del suo ruolo venendo espulso verso il basso, mentre individui del terzo gruppo e meritevoli possono essere cooptati da quelli più elevati, nel caso possiedano le doti adeguate (IB, 423c-d). La divisione funzionale corrisponde a una precisa convinzione di Platone: gli uomini (gli individui) non sono uguali per natura. La loro dotazione morale e intellettuale è differenziata in modo radicale: non tutti possono svolgere le stesse funzioni sociali. Se è vero che le doti devono comunque venir consolidate dall’educazione, è anche vero che l’educazione non può sviluppare doti mancanti... un buon seme non cresce in un terreno ostile. La diseguaglianza naturale tra gli uomini è nascosta dalla mitologia democratica. Essa è il presupposto sul quale fondare il progetto di risanamento politico-educativo della città (si tratta di un presupposto antropologico che noi oggi non accettiamo, ma che sul piano teorico è difficile da contestare). Il corpo sociale è tripartito, e le virtù (eccellenze prestazionali) dei tre gruppi sono diverse. Il primo gruppo possiede in modo eminente la virtù del sapere politico; Il secondo quella del coraggio unita a una fedeltà al governo (ma la ribellione violenta del secondo gruppo è un pericolo costante, se lo spirito aggressivo prevale sull’educazione). La virtù del terzo gruppo è problematica. Non è una capacità specifica, bensì una dote di autocontrollo: la sophrosyne (moderazione o temperanza). Essa consiste nella rinuncia, da parte di questo gruppo di produttori e detentori di ricchezza, a usurpare le funzioni politico-militari di comando, cioè nella comprensione che la propria subordinazione agli altri due gruppi – in ragione dell’inferiore dotazione intellettuale e morale – è nel comune interesse del corpo sociale. Questa spontanea accettazione da parte del gruppo sociale più vasto del proprio assoggettamento è problematica. Perché mai esso, escluso tra l’altro proprio dal processo di condizionamento educativo, non avrebbe dovuto porre il proprio numero e la propria ricchezza al servizio di una pretesa al potere, provocando il ritorno della malattia sociale della stasis? Platone non offriva una risposta esplicita a questa domanda. Secondo lui l’unità del gruppo dirigente sarebbe stata una garanzia sufficiente per la coesione dell’intero corpo sociale (V, 465b). Forse esso proponeva una forma di vita comunitaria così felice da convincere anche i sudditi che la sua accettazione era nel comune interesse, oppure che disponeva di una forza coercitiva sufficiente a imporre la gerarchia sociale. Forse, le due cose insieme. La distribuzione dei ruoli permetteva di rispondere alla domanda: che cos’è la giustizia (nella città)? La giustizia consisterebbe nella costruzione di un potere giusto, e nel consenso tributatogli da tutte le componenti del corpo sociale. La premessa ne è la saggia moderazione (sophrosyne), che «fa cantare all’unisono la stessa canzone ai più deboli, ai più forti e a quelli di mezzo, diversi per intelligenza, o se vuoi per forza o per numero o per ricchezza o per qualsiasi altra simile qualità» (IV, 432a). Essa permette e garantisce «un accordo secondo natura di chi è inferiore e di chi è superiore su chi di loro debba avere il comando nella città» (ibidem). La giustizia politica, su questa base, consiste allora nella distribuzione gerarchizzata e consensuale delle diverse funzioni sociali: «il rispetto del proprio ruolo (oikeiopragia) da parte del gruppo incaricato dei compiti militari e di quello di governo – in base al quale ognino di essi svolge nella città le funzioni che gli sono proprie – non costituirà la giustizia? E non renderà più giusta la città?» (IV, 434c). Se le doti intellettuali e morali degli uomini sono diverse per natura ed educazione, la città giusta sarà quella in cui ognuno svolge il ruolo per il quale è meglio attrezzato psicologicamente, e inoltre comprende che questa distribuzione gerarchica delle funzioni è la sola che può garantire il vantaggio comune, l’ingiustizia, al contrario, consiste nel tentativo di sovversione dei ruoli – ad esempio: la pretesa al comando da parte dei detentori della ricchezza o della forza militare. La giustizia così concepita garantisce la salute della città (analogamente, quella dell’anima personale): «Produrre salute nel corpo significa istituire fra i suoi elementi un rapporto di potere secondo natura; al contrario, la malattia consiste nel fatto che essi esercitino il comando o gli siano sottoposti contro la norma naturale» (IV, 444d): analogamente, la corretta distribuzione dei ruoli di potere e di subordinazione costituiva, nella città e nell’anima, la salute/giustizia. In ultima istanza, il benessere, la felicità collettiva e individuale. Questa era la risposta di Platone alla domanda cruciale di Glaucone e Adimanto: perché essere giusti, perché rispettare le regole di una convivenza sociale pacificata e collaborativa, rinunciando ai vantaggi offferti dalla pleonexia: ricchezza, potere, sopraffazione? Perché solo la giustizia assicura il conseguimento dello stesso fine cui mira anche la pleonexia: la felicità. Solo in una comunità felice si può vivere felicemente. E una comunità è felice solo se è sana, cioè: giusta. Il sacrificio della pulsione primaria della sopraffazione reciproca viene allora compensato con la promessa di un benessere più solido, duraturo, armonico, non minacciato dai mali altrimenti inevitabili della paura universale e della insaziabilità individuale. La controprova Giustizia come salute e felicità pubblica e privata? Le forme politiche ingiuste, in realtà, sono altrettante sindromi della malattia della città. Il libro VIII della Repubblica costituisce una fenomenologia delle forme degenerate, a partire dalla decadenza della città giusta che viene considerata un prius logico e fenomenologico. La decadenza della città giusta è inevitabile, nel momento in cui essa deriva da un deterioramento nella composizione del suo gruppo dirigente, sottoposto alla doppia pressione deformante della temporalità storica e dei fattori degenerativi inestirpabili dalla natura umana. Il primo passo della decadenza consiste nella riappropriazione privata delle ricchezze da parte dei suoi membri: «privatizzano e si spartiscono la terra e le case, e riducono in servitù coloro che prima proteggevano considerandoli uomini liberi e amici» (547bc). Dalla prima degenerazione nell’esercizio del potere si origina la deriva delle costituzioni malate di ingiustizia. La prima è quella timocratica, in cui il conflitto ha come posta la gloria e il potere; La seconda è quella oligarchica, nella quale il gruppo di comando persegue l’accumulazione della ricchezza, causando l’impoverimento dei suoi sudditi; La rivolta di questi ultimi determina la terza forma, quella democratica, di malattia, nella quale regna la più assoluta anarchia; L’instabilità democratica, il timore dei poveri di essere nuovamente assoggettati dai ricchi oligarchi, li induce infine ad affidare il potere a un uomo solo (l’uomo della provvidenza? L’unto da Dio?): il tiranno. Questi si rivela ben presto un padrone feroce e insaziabile, che reprime nel sangue il dissenso sociale e impegna la città in continue guerre per indirizzarlo contro nemici esterni. Ogni costituzione ingiusta, deviante rispetto al paradigma della salute pubblica, slitta inevitabilmente verso il regime della tirannide, che secondo Trasimaco ineriva alla logica stessa del potere. L’oligarchia, il potere dei ricchi, la democrazia, il potere dei poveri, e la tirannide, potere assoluto di uno solo, che (cfr. Politico) rappresenta la tragica contraffazione del comando del vero politico, sono gli aspetti degeneratici e sequenziali dell’abbandono del paradigma di giustizia. Solo le sole forme costituzionali note ai Greci, i quadri clinici della malattia delle città, i nomi dell’infelicità. I medici (i filosofi) e la terapia (la costruzione di una città giusta perché fondata sulla distribuzione delle funzioni secondo le qualità umane dei diversi gruppi di cittadini) sono delineati “a parole” nella Repubblica. Quali le condizioni? In primo luogo i pittori di Costituzioni dopo aver preso come se fosse una tavola la città e i costumi degli uomini la ripuliranno, cioè non accetteranno di metter mano né ai singoli né alla città, e di scriverne le leggi, se prima non l’avranno ricevuta pura o non l’avranno purificato loro stessi (Rep. VI, 501a). Prima di iniziare la rifondazione occorre ripulire la città: azzerarne le leggi, i modi di vita, le forme di governo sedimentate dalla tradizione: una catarsi completa del corpo sociale. «Se anche i nuovi governanti purificassero per il suo bene la città uccidendo o mandando in esilio alcuni cittadini, oppure se la rendessero più piccola deportando altrove coloni come sciami di api, o ancora se la ingrandissero facendone cittadini altri richiamati da fuori, - finché, valendosi di sapere e giustizia, salvassero la città facendola buona da cattiva che era, dobbiamo allora sostenere che questa, forgiata nel rispetto di simili criteri, è la sola forma di regime corretta» (Politico, 293d-e). Come attuare la catarsi del corpo sociale? In modo drastico: «Quanti si trovino nella città ad aver superato i dieci anni di età li espelleranno tutti in campagna; prenderanno i loro figli sottraendoli ai costumi attuali – quelli dei loro genitori – e li educheranno secondo i nuovi modi di vita e le nuove leggi, quali li abbiamo analizzati. E così nel modo più spedito e più facile verranno fondate la città e la costituzione di cui parlavamo, assicurando al popolo entro cui si formino la felicità e i più grandi vantaggi» (VII, 541a). Una scorciatoia verso la purificazione: violenta e inaccettabile? Non può venir presa sul serio? È ironica? Ma deportazioni e asservimenti di massa non erano ignoti alla storia greca, così come accadde alla città di Melo, i cui abitanti furono uccisi, deportati, resi schiavi dagli Ateniesi. Lo stesso Crizia aveva posto al centro del programma del suo colpo di stato del 404 una “ruralizzazione” di Atene, con l’espulsione verso le campagne del ceto povero urbano su cui poggiava la democrazia. Nel linguaggio platonico, “mandare nei campi” significava probabilmente collocare collettivamente la popolazione adulta nel terzo gruppo sociale, quello formato prevalentemente dai contadini. Il lavoro di condizionamento e selezione sociale sarebbe dovuto iniziare dai giovani. La “pulizia” sociale colpiva indiscriminatamente poveri e ricchi, aristocrazia e popolo. Terapia, misure preliminari, medici erano definiti, ma restavano aperte due questioni fondamentali. 1. Quali erano le forme di vita e di sapere che legittimavano il gruppo di potere “filosofico” al suo governo terapeutico? (Repubblica, V) 2. Quali erano le condizioni storiche di possibilità del nuovo potere giusto? Come passare dal discorso normativo alla realtà storica? (Repubblica, VI) 2. la città migliore, se è possibile Iniziamo con una citazione. «La prima forma di città, la costituzione e le leggi migliori, sono quelle in cui nell’intera città è attuato, per quanto possibile, l’antico detto secondo il quale le cose degli amici devono essere davvero comuni. Se dunque questo avviene ora o avverrà in futuro – che siano comuni le donne, comuni i figli, comuni tutte le ricchezze, e con ogni mezzo tutto ciò che si dice “privato” venga ovunque estirpato dalla vita – [...] le leggi che tendono a rendere la città il più possibile unita andranno valutate come straordinariamente virtuose e non si potrebbe imporre un criterio più corretto e migliore di questo. In una tale città – sia che vi abiti una comunità di dèi o figli di dèi – si vivrà in questo modo lietamente [...]. Ma ciò eccede il modo attuale di generare, di allevare e di educare gli uomini.» (Leggi, V, 739b-740a). Cosa ne pensava Aristotele? Nella Politica (II, 3, 1261b31; II, 5, 1263b9) scrive: «Bello, ma impossibile»; «In questa città la vita sembra essere del tutto impossibile». Vediamo allora quale fu il progetto di Platone. Il libro V della Repubblica delinea la grande utopia della città retta in base alla giustizia. È anche il libro delle provocazioni e dello scandalo. Socrate, nel dialogo, esprime spesso il timore di venire sommerso dalle risa e dallo scherno a causa delle sue proposte sovversive nei confronti dei costumi tradizionali (per es. 452a). Glaucone prevede che Socrate stesso verrà aggredito e malmenato da una folla indignata di uomini armati (4733-474a). Nell’antichità molti pensarono che Platone avesse scritto questo dialogo solo “ironicamente”, senza credere nelle proposte ivi presentate. È davvero così? Quali sono le proposte? Come vengono costruite? La costruzione dell’utopia viene argomentata in modo rigoroso e sequenziale, fondata su ragionamenti condizionali: “se... allora”. La prima premessa dell’argomentazione consiste nella delineazione dello scopo da raggiungere: una società politica giusta, sana, felice, ovvero unitaria, esente da stasis (conflitti civili) e pleonexia. La premessa dovrebbe essere un accordo, da cui partire per realizzare questi fini. «Il punto di partenza del nostro accordo non consisterà nel chiederci quale sia il maggior bene che siamo in grado di menzionare in rapporto all’assetto della città, quello che il legislatore deve avere di mira stabilendo le leggi, e quale il male maggiore? [..] Possiamo indicare un male maggiore per la città di ciò che la pezza facendone di una molte? o un bene maggiore di ciò che la lega insieme e la rende una? – Non possiamo. – E non è dunque la comunanza di piacere e dolore a legare, quando tutti i cittadini gioiscono e si addolorano nel modo più uniforme possibile per le stesse nascite e le stesse morti? [...] La città nella quale i più dicono della stessa cosa e secondo lo stesso punto di vista proprio questo, “mio” e “non mio”, non sarà quella meglio governata? – E di molto. – Dunque anche quella che più si avvicina alla condizione di un solo uomo?» (462a-c). Il modello per la coesione pacificata della comunità politica è l’unità dell’organismo (Aristotele sosterrà trattarsi di un grado di unificazione eccessivo, in quanto la comunità deve basarsi sullo scambio tra individui diversi): necessario, secondo Platone, perché lo scontro fra gli interessi rivali costituiva il terreno di coltura del conflitto sociale. Abbiamo indicato la prima condizione dell’unità della città: la coesione del gruppo dirigente della città. Se i suoi membri «non sono in conflitto tra loro non c’è da temere che il resto della città si divida per disaccordi nei loro confronti o al proprio interno» (465b) Come garantire questa coesione? Vi sono alcune condizioni necessarie. Il principale nemico della coesione consiste nella privatezza degli interessi: a. patrimoniali; b. affettivi. Il principale ostacolo della polis è dunque l’oikos: la casa, il clan familiare, entro cui si producono l’accumulazione e la trasmissione dei patrimoni e dei legami affettivi. Essa è al di fuori dei vincoli comunitari, e contro di essi. [Per garantire la coesione occorre evitare che il ceto dirigente] «la spezzi parlando del “mio” non in riferimento alla stessa cosa ma a cose diverse l’uno dall’altro – sicché questo trascinerà nella propria casa ciò di cui ha potuto impadronirsi separatamente dagli altri, quello in una casa diversa e sua propria, e considereranno come propri moglie e figli diversi, che, vivendo essi nella privatezza, procureranno piaceri e dolori privati -, invece di condividere un’unica opinione su ciò che è “proprio”, tendendo tutti alla stesso fine, in modo da provare nella misura del possibile le stesse esperienze di dolore e di piacere» (464c-d). Occorre sradicare l’oikos. Solo così il ceto di governo sarà unito, e con esso la città intera. Ma questo comporta misure sovversive rispetto al costume vigente, benché necessarie alla costruzione della nuova forma di vita comunitaria. Socrate le presenta come due ondate, che rischiano di travolgerlo. 1. La prima consiste nel superamento della tradizionale differenza di ruoli sociali fra uomini e donne. Questa è la prima spaccatura del corpo sociale, la più radicale. L’inferiorità femminile, in Grecia indiscussa, dipende solo, in Platone, dalla mancanza di un’adeguata educazione delle donne, che sono vincolate alle mansioni da svolgere nel chiuso della casa: procreazione e allevamento della prole. Come argomentare contro questa divisione? Socrate propone un’analogia: non è forse vero che le femmine dei cani da caccia o da guardia partecipano a queste mansioni accanto ai maschi? Non c’è dunque alcuna ragione “naturale” (basata su di una differenza di natura) perché ciò non debba accadere anche nel genere umano. Se adeguatamente educate, le donne migliori possono venir integrate nel gruppo dirigente della nuova città al fianco degli uomini migliori : «Non vi è dunque nell’ambito della gestione della città alcuna occupazione che sia propria della donna perché è una donna, né dell’uomo perché è un uomo, ma poiché le doti naturali sono parimenti disseminate in entrambe queste forme di vita, secondo natura la donna deve partecipare a tutte le funzioni, e a tutte l’uomo», benché la donna sia fisicamente in ogni caso più debole del maschio (455d). 2. Questa è la più radicale dichiarazione di uguaglianza di diritti e doveri fra i sessi che l’antichità abbia mai formulato. Ma questa uguaglianza richiede la distruzione dell’oikos. I matrimoni, la procreazione, l’allevamento dei figli devono venire sottratti all’ambito privato, se le capacità femminili devono venir messe al servizio della comunità. Questa è la seconda ondata. Uomini e donne dovranno avere in comune i pasti, vivranno insieme, mescolandosi nei ginnasi e in ogni altro addestramento. In questo modo, per una necessità innata, saranno portati a unirsi l’un l’altra (458d). Ma queste unioni non dovranno ricadere nella privatezza familiare. Il governo stabilirà, per sorteggio, i temi e i partners degli accoppiamenti nuziali, destinati a durare lo spazio di una notte. Appena nati, i figli verranno sottratti ai genitori, in modo che questi non possano riconoscerli ristabilendo la privatezza dei vincoli affettivi e di discendenza, e consegnati, affinché siano allevati, a balie pubbliche in asili comunitari, fino al momento in cui verranno affidati alle istituzioni educative della città. In questo modo la forma della vita collettiva sarebbe mutata radicalmente. Con essa, anche il linguaggio: non ci sarebbero stati più padri e madri individuali. Tutti gli adulti della fascia di età dei loro genitori possibili sarebbero stati chiamati padri e madri, e reciprocamente questi avrebbero chiamato figli tutti i giovani nati durante il periodo procreativo. Nella stessa fascia d’età tutti sarebbero stati fratelli e sorelle. La conseguenza? L’impossibilità dell’errore radicale e distruttivo, che si ha quando nella città non si pronunciano all’unisono espressioni come “il mio” e “il non mio” (462c). L’impossibilità di avere mie e altrui ricchezze, la mia e l’altrui moglie, i miei e gli altrui figli. Corollario della seconda ondata: l’eugenetica Le unioni nuziali avvengono (ufficialmente) per sorteggio, ma occorre in realtà controllare e selezionare la riproduzione. I governanti dovranno allora, così come fanno gli allevatori di cani e cavalli di razza, mantenere “pura” la razza degli uomini e delle donne destinati al potere (460c), manipolando segretamente i sorteggi, in modo «che i migliori si uniscano alle migliori il più spesso possibile, il contrario quelli dappoco» (459d), sicché «da buoni genitori nasca sempre una prole ancora migliore, e da chi è utile alla città figli che lo siano ancora di più» (461a-b). Nel Politico viene proposta un’altra variante dell’eugenetica: il modello non è più quello dell’allevatore, bensì quello del tessitore. Il buon governante deve garantire, attraverso le unioni matrimoniali, una giusta trama dei caratteri umani, un intreccio che componga armonicamente le differenze, legando la città attraverso i vincoli dell’amicizia (310b311c). Rianalizziamo la sequenza condizionale. Se la città deve essere unita, allora deve esserlo in primo luogo il suo gruppo dirigente; se esso deve essere unito, allora occorre estirpare tutti gli elementi di divisione e conflitto al suo interno, quindi dovranno essere comuni le donne, i figli, le ricchezze, cioè tanto la sfera affettiva quanto quella patrimoniale, entrambe rappresentate dal vero nemico della polis giusta e pacifica, l’oikos familiare. Quindi andrà distrutta l’oikos. La proposta fu criticata (cfr. Aristotele, Politica, II, 4 1262b23 segg.), e lo è tuttora, a partire dalla prospettiva che considera indispensabili alla vita umana alcune condizioni “private”, quale quella degli affetti e del patrimonio, ma Platone sostiene proprio che sono questi aspetti a dare origine alla pleonexia e alla stasis. La lezione del “maestro violento” e dei suoi interpreti Callicle e Trasimaco non può venire contraddetta, se non è possibile un modo di vita diverso. 3. Nella Repubblica resta così una terza ondata, che introduce l’aspetto più rilevante e problematico della proposta platonica. La comunanza di beni, donne e figli potrebbe provocare il ridicolo, e la proposta sembrare un castello in aria, un pio desiderio, un sogno a occhi aperti: un’utopia. Occorre dichiarare le condizioni di realizzabilità dell’utopia. Glaucone, nel corso del dialogo, richiama a più riprese proprio questo impegno. La risposta non si fa attendere. «Se saremo capaci di scoprire come una città possa venire dotata di una forma di governo che si approssima al massimo a quella di cui abbiamo parlato, dovrai ammettere che noi abbiamo trovato quella possibilità di realizzazione che tu esigi» (V, 473a). Qual è il cambiamento minimo grazie a cui una città può avvicinarsi a questo tipo di costituzione, cambiamento non semplice, ma possibile (473b-c), al vertice del potere, capace di mettere in moto l’intero processo di trasformazione? Un governo filosofico, o i filosofi al governo (473d). Risposta scandalosa, paradossale, ma questi uomini apparentemente inutili, o dannosi, confusi con i sofisti, se formati da una scuola (l’Accademia), dovrebbero possedere due doti fondamentali: le tradizionali virtù morali del cittadino (coraggio, autocontrollo, esperienza negli affari pubblici, dedizione al bene comune); le nuove doti intellettuali richieste da un potere non-trasimacheo (conoscenza delle norme oggettive e dei parametri ideali di giustizia, conoscenza del bene). È un circolo vizioso, visto che questo gruppo di persone non esiste, e visto che la città è ostile. Ma se un gruppo di filosofi formatisi spontaneamente e in comune, che pure attualmente vivono da privati cittadini, costituissero, attraverso un’autoformazione, il nucleo del programma di riforma, assumendo il potere potrebbero provocare quel cambiamento minimo in grado di avviare un circolo virtuoso. Come pensare questa presa del potere? In casi eccezionale una città potrebbe accettare un governo filosofico, ma la possibilità più probabile sarebbe l’educazione filosofica di un potente o figlio di potenti. È ciò che Platone e gli Accademici tenteranno con i tiranni di Siracusa, sebbene senza successo. Ma non tutti i tentativi falliranno, e molti Accademici redigeranno costituzioni o guideranno governi cittadini. Limiti del progetto. La forma di vita comunitaria, fulcro della riforma, risulta, nel libro IV, ristretta al gruppo politico-militare di comando. Il più vasto ceto di produttori resta invece vincolato alla privatezza della famiglia e della proprietà. Le forme di vita cittadine sono diverse, e potenzialmente in conflitto. Nel libro V la stessa situazione è confermata (anche se in teoria la vita comunitaria potrebbe riguardare tutti i cittadini). Se consideriamo Repubblica IX (590d-591a) e Leggi V (740a), invece, abbiamo che, nel primo caso, si suppone che tutti obbediscano al principio razionale, interiore nel caso dei governanti, esteriore nel caso di chi ne è privo: allo stesso modo i bambini obbediscono ai genitori (quindi si tratterebbe di educare tutti i cittadini, che in futuro potrebbero essere parte del ceto dirigente), nel secondo caso, invece, insieme alla comunità delle donne e dei figli, si parla di coltivare in comune la terra, il che indica non l’esclusione della proprietà per i governanti, bensì la collettivizzazione del possesso della terra, e quindi l’unificazione del corpo sociale attraverso l’assegnazione della funzione produttiva anche al gruppo dirigente. La limitazione della forma di vita comunitaria al solo gruppo dirigente è dunque forse transitoria, in vista di un comunismo compiuto. Ma più probabilmente ci si può attendere solo un diffuso consenso alla progettata disuguaglianza dei ruoli, accettata perché posta al servizio dei comuni interessi e della felicità collettiva. Una seconda questione si impone. Il progetto è desiderabile? È realizzabile, secondo Platone? La realizzabilità non è quella di un programma a breve o medio termine. Basta che non sia impossibile. Il disegno è conforme alla natura umana, benché contrario ai costumi vigenti, che non assegnano parità di funzioni a uomini e donne e permettono che individui razionalmente meglio dotati non si occupino di quanto è vitale per la città. Come passare dalla possibilità come nonimpossibilità alla realizzabilità effettiva? Innanzitutto dilatando la scala spaziotemporale nella quale vedere realizzarsi l’evento. Potrebbe essere accaduto nell’infinito tempo passato, da qualche parte in Grecia o tra i Barbari, oppure accadere nel futuro. In ogni caso la costituzione o è esistita, o esiste, o esisterà. Non è impossibile, anche se difficile (499b-d; 502a-b). Si tratta di aspettare l’occasione propizia, e prepararsi. La kallipolis è il modello che dovrà venire realizzato storicamente, e quindi inevitabilmente approssimativamente, ma, appunto in base a un modelli, quanto più vicino possibile. Dal mondo della pleonexia a quello della giustizia il viaggio è lungo, ma il momento determinante è la decisione iniziale, la conversione dell’uomo destinato ad abitarla, che diventa giusto riformando il proprio profilo di vita in ordine al desiderio della città giusta, che comincia a esistere là dove esistono uomini giusti che la considerano il proprio fine. Nelle Leggi Platone la considererà impossibile (benché rappresentasse per lui il modello migliore) perché troppo superiore all’attuale condizione umana (740a). La trasformazione, vista la resistenza al cambiamento, ben superiore a quella prospettata, dovrà essere necessariamente graduale. Aristotele, invece, considererà ciò che è attuale e normale come naturale e perciò normativo. Una trasformazione radicale dell’esistente storico risulterebbe perciò impossibile perché in conflitto con la natura umana sedimentata e neppure desiderabile perché contro-natura, quindi illecito da un punto di vista etico-politico (Politica, II, 25). 3. La morte del maestro e i paradossi dell’immortalità. Affrontiamo ora quella che potrebbe sembrare una digressione, e che invece ci servirà come passaggio per l’ultima questione da affrontare: il rapporto tra anima, corpo e città. Occupiamoci dell’anima. Da dove proveniva il pensiero dell’immortalità dell’anima? Da due fonti diverse: 1. l’antica e autorevole tradizione pitagorica. L’anima è la polarità pura, divina, immortale dell’individuo, contrapposta al corpo, fattore di mortalità e contaminazione, origine dei desideri e della carne. Per i Pitagorici l’anima è un demone transindividuale, condannato per una colpa originaria a un ciclo di reincarnazioni, dal quale si può affrancare attraverso un esercizio (ascesi) di purificazione e liberazione dai vincoli della corporeità. 2. La lezione socratica, che faceva dell’anima il vero io che si contrapponeva all’io pubblico ed esposto al ricatto del successo e del prestigio sociale: era dei beni dell’anima in questo senso (saggezza, giustizia) che occorreva prendersi cura, più che dei beni esteriori (bellezza, potere, fama), al fine di perseguire una felicità stabile e autentica al riparto delle alterne vicende della sorte. La questione dell’anima era in Socrate tema morale, individuale. L’immortalità, forse, qualcosa di secondario. La riflessione platonica va oltre queste due fonti di ispirazione. L’anima, come mediatrice tra tempo ed eternità, tra alto e basso, garantiva la possibilità del transito tra i due livelli, sia dal punto di vista etico, sia dal punto di vista conoscitivo, come ascesa o decadimento. Doveva essere pensata come immortale per due ragioni: Da un punto vista morale, l’immortalità dell’anima, con la conseguente attesa dei premi o delle punizioni che le sarebbero toccate nell’aldilà appariva un incentivo irrinunciabile alla virtù. Solo la promessa di una felicità oltreterrena e la minaccia di pene eterne sembravano compensare l’evidenza di una sorte sventurata per il giusto e del successo e della prosperità per l’ingiusto in questa vita. Si trattava di una ipotesi persuasiva, a cui Socrate fa ricorso alla fine del Gorgia, di fronte all’aggressione verbale e alle minacce di Callicle, che prevedeva per Socrate una fine tragica, in questa vita: il destino che attende coloro che si sono macchiati di pleonexia, e che in questa vita hanno successo, è il più terribile, i giusti, invece, che hanno vissuto secondo verità, come il filosofo, vengono mandati alle isole dei beati (526c). Questi racconti, però, sembravano, a Callicle, le favole di una vecchietta. Socrate non sembrava in grado di trovarne di migliori. Nel Fedone era l’educazione a permettere all’anima la salvezza nell’aldilà, perché la aiutava a diventare buona e saggia e a vivere conseguentemente (107d). Anche in questo dialogo Socrate riconosce la scarsa palusibilità di questo ricorso morale alla mitologia dell’aldilà: «Sostenere con decisione che le cose stiano così come le ho descritte non si addice a un uomo che abbia intelligenza; che però questa, o simile a essa, sia la condizione delle nostre anime e delle loro residenze d’oltretomba – dal momento che l’anima ci è parsa essere immortale – questo mi pare sia il caso di correre il rischio di crederlo» (114d). Nel II libro della Repubblica è proprio il fratello di Platone, Adimanto, a formulare la critica più devastante a queste “favole”, al ricorso ai miti d’oltretomba come protezione e garanzia degli obblighi morali. I moralisti, di fronte al trionfo dell’ingiustizia e alla triste sorte che spetta all’uomo giusto in questa vita dicono che ci sarà una punizione nell’aldilà, ma è possibile replicare che vi sono riti iniziatici e liberatori, come affermano i poeti. Tutto ciò che sappiamo sull’esistenza degli dèi e sul loro interessamento alle cose umane l’abbiamo appreso dai poeti (Omero, Esiodo, Ferecide: non vi era altra teologia, per i Greci). Se crediamo loro in questo dobbiamo prestar loro fede anche quando sostengono che gli dèi possono venir convinti a mutare parere tramite sacrifici, preghiere, offerte votive. Ora, chi, più degli ingiusti, grazie alle ricchezze accumulate con la frode e la pleonexia, potrà offrire agli dèi tali doni, ingraziandoseli nell’aldilà (365e, 366a-b)? La mitologia dell’aldilà è così colpita in modo decisivo. Adimanto chiede una fondazione teorica, un incentivo morale più credibile e più vero, più accettabile “per chi abbia intelligenza” di quanto non siano le speranze escatologiche. Platone accetta la sfida, mostrando nel libro IV il nesso tra giustizia, salute e felicità della città; nel libro IX come la virtù sia condizione sufficiente di felicità individuale anche in questa vita, in quanto garante di un’esistenza serena, armonica, premiata dai piaceri puri della conoscenza e della giustizia, ma poi, alla fine del dialogo, non può evitare il ricorso all’incentivazione escatologica, con il mito di Er, esposto nel libro X. Er ritorna dall’aldilà, e narra di aver visto i premi e le punizioni, nonché la scelta del tipo di vita, che le anime compiono prima di reincarnarsi. A Platone, però, ora il mito non serve più da un punto di vista morale, bensì, come vedremo, da un punto di vista gnoseologico. La Moira dichiara: «Non sarà un demone a sorteggiarvi, bensì voi a scegliere il vostro demone [...]. La virtù non ha padrone; ognuno ne avrà di più o di meno a seconda che la apprezzi o la disprezzi. La responsabilità è di chi sceglie: il dio non è responsabile» (617e). La forma di vita, il proprio destino, è dunque una scelta libera e responsabile. Le anime, però, prima di rinascere, reincarnandosi, dovranno bere l’acqua del fiume Lete, portratrice di oblio, infatti, se avessero ricordato i premi e le punizioni dell’aldilà si sarebbero comportate bene in base a quell’attesa, e non sarebbero state meritevoli per la loro virtù, in quanto non si sarebbe trattato che di un calcolo economico dei benefici e delle perdite. L’oblio è essenziale da un punto di vista morale, ma problematico dal punto di vista gnoseologico, per il quale occorre il ricordo. Il problema gnoseologico costituisce il secondo ordine di ragioni che motiva la decisione di Platone in favore dell’ipotesi dell’immortalità dell’anima. Sappiamo che gli oggetti della conoscenza sono innanzitutto le idee, conoscibili intellettualmente, mentre finché l’anima è nel corpo conosce il mondo attraverso i sensi, che trasmettono conoscenze dello stesso ordine: qualità visive, uditive, tattili ecc. del corpo. La nostra stessa possibilità di giudicare e valutare l’esperienza sensibile, trasformandola da impressione in conoscenza, richiede di impiegare categorie come bell/brutto, grande/piccolo, uguale/diverso, che non appartengono all’esperienza sensibile, risultando invece a priori rispetto ad essa, ed essendone la vera e propria condizione di possibilità. Kant, alla fine del 1700, le riterrà categorie trascendentali dell’intelletto, struttura innata della conoscenza. Platone riporta invece a uno stadio cognitivo cronologicamente antecedente a ogni esperienza della sensibilità corporea queste categorie. Forse per difficoltà teoriche, forse in ragione della comprensibilità della teoria, in ogni caso nei suoi testi emerge chiaramente l’esigenza dell’immortalità dell’anima, che potrebbe così aver conosciuto le idee prima della nascita, prima di essere legata al corpo. Sarebbe il ricordo di questa fase precedente la vita corporea a riemergere e rendere possibili i processi conoscitivi (Fedone, 65d, 76a-e, 72e-73b). Cebete, però, nel Fedone dichiara di aver “dimenticato” questa dottrina che avrebbe dovuto essergli nota. L’immortalità dell’anima sembra essere la condizione della conoscenza delle idee, che deve essere cronologicamente antecedente l’esistenza terrena e l’esperienza sensibile. Reciprocamente, il fatto che noi ricordiamo le idee sembra essere un argomento a favore dell’immortalità dell’anima, che è l’organo che ci permette di conoscerle. Con l’anamnesi, però, avremmo provato solo la preesistenza dell’anima rispetto al corpo, non la sua immortalità, ovvero non la sua sopravvivenza dopo la morte di quello (e questo ne avrebbe vanificato la funzione morale). Del resto, poi, l’oblio della vita oltreterrena sembra essere necessario per le ragioni morali, e con questo escludere il ricordo necessario per le istanze gnoseologiche. Concentriamoci sul dialogo centrale per la tematica dell’anima e della sua immortalità: il Fedone. L’ultima conversazione di Socrate, avvenuta nelle ore che precedevano la sua morte in carcere, era una consolatio mortis per gli allievi: il tentativo di mostrare che la morte del maestro non era che una liberazione della sua anima dalla prigione corporea, e la rinascita per una vita più vera. La filosofia diventava un esercizio di preparazione alla morte, una purificazione in vista dell’altra vita (64a). I filosofi sono dei moribondi, sosteneva, ridendo, Simia. Secondo Socrate questa morte non è che un distaccarsi dell’anima dal corpo. È il compimento del lavoro del filosofo che per tutta la vita ha lottato contro la sua corporeità: contro i piaceri che essa persegue, contro le sue passioni incontrollabili, che, come chiodi di una croce, tengono l’anima conficcata al corpo (65e, 83d). C’è di più, per il nostro tema: la lotta contro il corpo è, da parte del filosofo, il rifiuto della dimensione della politica, che può finalmente venire abbandonata, con le sue guerre, le sue rivolte, le battaglie, che non sono altro che prodotti del corpo e dei suoi desideri (66b-c). Inoltre, la corporeità è di ostacolo al sapere filosofico, che richiede di astrarsi da ciò che vedono gli occhi, odono le orecchie, toccano le mani: il corpo svia la mente, impedendole di acquisire la verità. Perciò, anche durante la vita, la filosofia consiste in uno sforzo di separazione dell’anima dal corpo (65c-d, 67c-d). Il fine, operato con pratiche sciamaniche o con l’etica del controllo delle passioni o con la morte, di separazione dell’anima dal corpo, richiedeva però, per la filosofia, perché la filosofia fosse possibile come episteme, e non come doxa, di argomentare razionalmente quello che era stato il punto centrale delle credenze religiose del pitagorismo e dell’orfismo: l’immortalità dell’anima. Contro i dubbi di Cebete, che richiedeva un non piccolo supplemento di persuasione e credibilità, e contro l’ilarità di Simia. Platone ci prova nel Fedone, nel libro X della Repubblica, nel Fedro, nel libro X delle Leggi. Vediamo gli argomenti: 1. La semplicità dell’anima. “Morte” significa dissoluzione di un composto, come lo sono i corpi. Ma l’anima è semplice e non composta, visto che è affine alle idee, che sono semplici, omogenee e indifferenziate. Perciò l’anima non può essere suscettibile di morte. Si tratta qui di un presupposto, quello della semplicità e purezza dell’anima, allogena rispetto al corpo. Ma non regge di fronte a una teoria dell’anima articolata come quella della Repubblica (IV) e del Timeo, dove essa risulta scissa in: razionale, aggressivo-collerica, desiderante. Conseguenza? Solo la parte razionale è semplice e perciò immortale (Timeo 69c-d, Politico, 309c). In questo modo la funzione cognitiva è assicurata, ma quella morale no. [sarà la conclusione di Aristotele] 2. La partecipazione dell’anima alla vita, come il fuoco al calore. Un elemento non può accogliere in sé il suo contrario. La vita non può accogliere in sé la morte. Se “anima” significa “essere in vita”, non può esservi un’anima morta. Ma con questo non si dimostra che vi sia un’anima dopo la morte. [Aristotele sosterrà che l’anima è entelechia, cioè atto/funzione, ovvero vita, di un corpo naturale dotato di organi (De Anima, II, i, 412b5), e non un demone che possa indossare qualsivoglia corpo]. Se è vita del corpo, l’anima risulta indissolubilmente connessa alla mortalità del corpo. 3. Mentre le malattie del corpo lo fanno morire, quelle dell’anima, l’ingiustizia, non la fanno morire, ma la rendono semplicemente peggiore. Quindi l’anima è immortale, se è capace di sopravvivere alla propria malattia. Ma l’argomento è valido solo se si è già dimostrato che l’anima è una sostanza diversa dal corpo. In fondo anche il corpo sopravvive a una malattia, e si può riprendere. Se l’anima è parte del corpo, come un braccio, questo, seppure rotto, sopravvive, ma non sopravvive a un infarto. 4. L’anima è il principio del movimento, che deve essere anteriore e autonomo rispetto a ciò che è mosso (Leggi 895c-896d; Fedro 245c-246a). L’argomento si scinde in due versanti. O si tratta del movimento del cosmo, nel qual caso l’anima è un principio cosmoteologico (il principio del mondo) che nulla ha a che fare con l’anima indivuduale (morale e cognitiva) oppure dell’anima individuale, ed è perciò un principio interno al complesso psico-somatico individuale (ma allora si identifica con la “vita” del Fedone e si ripresentano le aporie precedenti). 5. Nel Simposio, inoltre, l’immortalizzazione personale è duplice: del corpo e dell’anima: la prima attraverso i discendenti, la seconda attraverso il sapere. La prima è una immortalitò riproduttiva, la seconda del pensiero. E sono queste le uniche forme di immortalità personale che avrebbe riconosciuto anche Aristotele e con lui la filosofia ellenistica. Cinque argomentazioni, più che cinque dimostrazioni. Nessuna di esse è conclusiva. Il Fedone era condizionato dall’intenzione consolatoria (doveva negare che il filosofo potesse morire), ma la per farlo contrapponeva l’anima al corpo, fonte di contaminazione morale e conoscitiva, responsabile dei mali della città e della politica, che è il teatro delle passioni originatesi dalla corporeità. Se l’esercizio filosofico non è altro che una preparazione alla morte, la possibilità di una politica giusta finisce in una secca. Ed è quello che accade nel Fedone, e nell’Apologia, con la condanna di Socrate e la sconfitta della sua politica. Ma l’anima può rappresentare la mediazione tra alto e basso, può trovarsi in una diversa relazione con il corpo (Timeo) e la città (Repubblica). Vale la pena di affrontare questa ultima possibilità, che permette di capire come vivere giustamente e bene in questo mondo, e non nell’aldilà. Dobbiamo tornare alla Repubblica, e occuparci del Timeo. 4. La città, l’anima e il corpo Nel Fedone il rapporto tra anima e città viene rappresentato nel modo di una polarità oppositiva e alternativa. Nella Repubblica invece, viene ripensato nei termini di una stretta interrelazione, che giunge fino alla specularità: un progetto di rifondazione di una città giusta e delle sue forme di sapere e potere nel contesto di una filosofia dei vivi, anziché dei morti o dei moribondi. Il progetto è radicale: porta Platone a concepire un isomorfismo di fondo tra la struttura della comunità politica e quella della psiche: mentre la politica viene psicologizzata (facendo dipendere la costituzione della città dai tipi di anime in essa prevalenti, cosicché sia riformabile a partire da una strategia di governo dell’anima); l’anima è politicizzata (diventa il teatro di un conflitto per la guida della condotta individuale, suscettibile di venir governato tramite la medesima strategia). Come istituire l’isomorfismo, presupposto del progetto teorico? A partire dalla tripartizione di entrambe, psiche e polis (Repubblica, IV). Il corpo sociale della città giusta si deve articolare in: 1. un gruppo di governo “filosofico”; 2. un gruppo combattente posto al suo servizio; 3. un ceto di produttori destinato ad assicurare le condizioni materiali di sussistenza dell’intera comunità. Specularmente, l’anima veniva concepita come divisa in tre parti: 1. razionale (logistikon); 2. collerica e aggressiva (thymoeides); 3. desiderante (epithymetikon). Lo statuto delle due tripartizioni non è il medesimo. La tripartizione della comunità politica è prescrittiva: la città deve strutturarsi così, se vuole davvero liberarsi della sua malattia (guarire), divenendo giusta e felice. La scissione tripartita dell’anima è invece descrittiva: la psiche risulta in effetti scissa in una pluralità di istanze e pulsioni in conflitto tra loro per il governo della condotta individuale (normativa è non la scissione ma la ricomposizione armonica e gerarchica dei poteri psichici). Cosa comporta questa teoria della struttura dell’anima? L’abbandono della concezione, di matrice pitagorica, attestata nel Fedone, dell’anima come di una entità semplice e pura, contrapposta alla dimensione della corporeità. Come conoscere l’anima? In primo luogo attraverso una “fenomenologia” dei comportamenti psichici, che riveli, nell’esperienza quotidiana, il conflitto tra pulsioni, desideri, istanze censorie, per esempio tra il desiderio di bere e la proibizione di farlo (Repubblica, IV, 437a-439c). In secondo luogo attraverso la lezione culturale del teatro tragico, che aveva messo al centro della scena i conflitti tra i diversi desideri, e tra le pulsioni e la ragione. «So di accingermi a compiere azioni malvagie, ma l’ira è più forte delle mie deliberazioni – l’ira, che è responsabile delle maggiori sciagure per i mortali» (Euripide, Medea, vv. 1078 seg.). In questo modo Platone può giungere a descrivere la scissione fondamentale dell’anima tra la sua istanza razionale (calcolante, strategica, censoria rispetto ai desideri) e quella desiderante: una vera “guerra civile dell’io” (Vegetti, 134) «Non senza fondamento valuteremo che due, e diverse tra loro, sono le parti dell’anima: l’una, con la quale essa ragiona, la chiameremo appunto “razionale”, l’altra, mediante la quale prova amore, fame, sete, ed è eccitata verso gli altri desideri, “irrazionale” e “desiderante”, compagna di ingordigia e di piaceri» (Repubblica, IV, 439d). Lo schema non è sufficiente, e Platone, infatti, lo integra. Consideriamo innanzitutto un’ulteriore scissione all’interno della parte irrazionale: 1. ci sono in effetti desideri più strettamente legati alla corporeità, come quelli rivolti ai piaceri del cibo del bere, del sesso, nonché alle ricchezze destinate a soddisfarli (pulsioni estremamente individuali, estranee e ostili alla sfera della socialità politica); 2. e, inoltre, desideri di fama, onori, riconoscimento pubblico (la puslione di autoaffermazione, il thymos omerico): questa seconda classe di desideri, pur irrazionali per la loro violenza aggressiva, deve far capo a una “parte” diversa dell’anima, e più nobile di quella cui fa capo il primo tipo di desideri (439e-440e) – in quanto realizzabili nella sfera pubblica, essi potrebbero essere soddisfatti anche in una società giusta, governata dalla razionalità: questa parte dell’anima, se educata, potrebbe essere disponibile a sostenere la ragione all’interno dei conflitti intrapsichici, che la oppongono alla prima classe di desideri (440e-441c). In secondo luogo, anche la parte razionale dell’anima va rivista: essa non ha solo un compito censorio e calcolante (dire no al soddisfacimento dei desideri o stabilire una priorità nel raggiungimento dei fini); bensì anche un suo specifico ambito di desiderio, ovvero i desideri di conoscenza, di giustizia, che dovrebbero garantire la salute della psiche nella sua interezza, e non solo il soddisfacimento di una sua parte soltanto. Ma cosa significa “parte” dell’anima? Non tre anime separate poste all’interno di un unico involucro corporeo: è sempre «con l’anima intera che intraprendiamo e compiamo le nostre azioni»; ma diversi centri motivazionali ci spingono, a seconda dei loro desideri divergenti, a orientare la condotta in un senso o nell’altro: «con l’uno ci volgiamo alla conoscenza, con l’altro proviamo impulsi aggressivi, con il terzo i desideri del cibo, dei piaceri del sesso e gli altri dello stesso genere» (436a-b). Da cosa è determinata dunque la condotta individuale? Dal prevalere, all’interno dell’unica anima, dell’uno o dell’altro di questi principi, comunque presenti in ogni essere umano. Nel libro IX della Repubblica si presenta un’immagine: in ognuno di noi sono presenti: «un mostro policefalo», le cui molte teste rappresentano la pluralità dei desideri; un leone (spirito aggressivo e collerico); un «uomo» (il principio razionale), che è il più piccolo dei tre (588c-e). Come si differenziano i tipi d’uomo? In base a chi comanda tra i tre principi psichici. Il problema del comando è però il problema del potere, della politica dell’anima. E questo, a sua volta, un problema di forza: il principio razionale è debole, le energie pulsionali dell’aggressività e del piacere sono potentissime. Nel Fedro un’immagine paragona l’anima umana a una biga, guidata da un “auriga” e trainata da due cavalli, entrambi privi di ragione, uno dei quali disposto a seguire gli ordini dell’auriga (il principio aggressivo), l’altro in perenne ribellione (il principio desiderante). Se l’auriga conosce la via da seguire, l’energia che fa muovere il carro è erogata dai cavalli, ma la direzione effettivamente presa (verso l’alto o verso il basso) dipende dai rapporti di forza tra i tre agenti del movimento (246a-b). Quali sono le conseguenze di questa struttura? La ragione può governare le pulsioni (se si allea con il principio aggressivo), ma è possibile che venga da esse dominata, e sia costretta a mettere le sue risorse calcolanti e strategiche al servizio dei desideri di fama o di piacere (cfr. l’analisi psico-politica del libro VIII della Repubblica). Come risolvere il conflitto intrapsichico? Garantendo la giusta gerarchia dei principî dell’anima, ovvero installandovi la “salute” costituita dalla giustizia, condizione della felicità individuale. Nella Repubblica la risposta alla domanda cruciale è orientata allo schema della tripartizione politica, che prevede l’alleanza, all’interno del ceto dirigente della città, fra un gruppo di governo “filosofico” e un gruppo combattente, che assicura al primo la forza necessaria a ottenere la sottomissione del terzo ceto e a garantire la pace sociale. All’interno dell’anima un’adeguata strategia educativa potrebbe condizionare lo spirito aggressivo (thymoeides), disponibile per la natura nobile dei suoi desideri orgogliosi a una soddisfazione compatibile con un giusto profilo di vita: permettendo un’alleanza con il principio razionale. Le energie destinate al successo e alla fama, na volta distolte dall’immediatezza di una condotta violenta e vendicativa, potrebbero permettere di tenere a freno le pulsioni dei desideri e la disgregazione dell’io che esse inducono. Il leone potrebbe, collaborando con l’uomo, tenere a freno il mostro policefalo. Una seconda possibilità di condizionamento, se possibile ancora più radicale, potrebbe riguardare la potentissima pulsione erotica, generata dalla sessualità corporea, capace di devastare gli equilibri dell’io. Secondo quando sostenuto nel Simposio e nel Fedro, se “canalizzata” (metafora idraulica contenuta in Repubblica VI, 485d) o, in termini psicoanalitici “sublimata”, potrebbe essere posta al servizio della ragione. L’educazione, che si configura come un rapporto erotico tra maestro “amante” e discepolo “amato” (ma pronto a rovesciarsi, come avviene nel Simposio, cfr. racconto di Alcibiade). Soffermiamoci su quest’ultima. L’educazione e l’eros. L’educazione può volgere il desiderio dei corpi verso l’amore della bellezza in sé, cioè verso la sfera ideale, estetica ed etica, della verità e del bene. Il desiderio dell’unione dei corpi potrebbe essere convertito in quello dell’unione delle anime nella comune ricerca di una vita più bella e più giusta. È la via dell’immortalità delle anime nobili nel Simposio. L’eros sublimato spera di “generare nel bello”, anziché nei corpi. Nella Repubblica la filosofia viene descritta come desiderio erotico di conoscenza: «chi è veramente amante del sapere [...] non interrompe il suo cammino e non desiste da suo eros prima di aver afferrato la natura stessa di ogni essenza con la parte dell’anima cui si conviene afferrarla – e si conviene a quella che è loro affine; quando con essa ha abbracciato e si è unito a ciò che realmente è, e ha generato pensiero e verità, allora conosce e vive davvero e si nutre e così cessato le sue doglie, ma non prima» (VI, 490a-b). Non in tutti gli uomini può venire ottenuta una gerarchia psichica che assicuri il comando al principio razionale. L’educazione pubblica nel caso del principio aggressivo, e il rapporto maestrodiscepolo nel caso del principio erotico sono in molti casi insufficienti. Nella maggior parte dei casi dominano (a causa di una dotazione naturale) i desideri di autoaffermazione della thymoeides o quelli rivolti ai piaceri corporei (epithymetikon). Per questo, su questa differenza deve basarsi l’assegnazione dei diversi tipi di uomo ai gruppi sociali funzionali in cui articolare il corpo sociale. 1. Chi è l’uomo giusto (cit. pp. 1378)? Quello che verrà naturalmente assegnato al gruppo di governo filosofico. 2. Quello in cui prevale il principio collerico al gruppo militare. 3. Quello sottomesso alle pulsioni del desiderio sarà relegato nel terzo gruppo, al quale è concessa l’accumulazione di ricchezze. Tutto a posto dunque? No, perché la corrispondenza fra tripartizione psichica e sociale non è perfetta, bensì disomogenea. Già lo sappiamo. Questo è dovuto al carattere descrittivo della prima e normativo della seconda? Non solo. Dobbiamo riconsiderare la disomogeneità. L’elemento collerico e quello desiderante appartengono entrambi alla dimensione irrazionale dell’anima. Al contrario, il gruppo combattente risulta da una selezione interna al ceto sociale superiore, cui era destinato il progetto educativo della città e che doveva condividere con i governanti filosofi il modo di vita comunitario. In questo secondo caso, uomini in cui il comando psichico è esercita da una forza irrazionale (ambizione e orgoglio), alleata alla ragione, non solo facevano parte del gruppo di governo, ma detenevano la forza militare necessaria (così come alla ragione è necessaria l’energia psichica). Se riflettiamo su questo, constatiamo che vi è un elemento di instabilità nel nuovo ordine politico. Platone stesso lo riconoscerà nel libro VIII della Repubblica: un decadimento inevitabile negli equilibri psichici individuali, nonostante ogni sforzo educativo. E, di conseguenza, un’inevitabile decadenza delle forme costituzionali. Alla kallipolis, la bella città, regime di giustizia governato dagli uomini razionali, succede il potere timocratico, quello degli uomini in cui prevale l’ambizione di gloria e onore. Questo regime determina una riprivatizzazione dei beni e degli affetti, degenerando perciò in tre regimi il cui potere era conquistato dalle diverse figure del desiderio: 1. il potere dell’uomo oligarchico, ossessionato dalla brama di accumulare ricchezze; 2. il potere dell’uomo democratico, che rovescia, attraverso una rivoluzione dei poveri, il regime oligarchico: rifiutando ogni gerarchia dei desideri e lasciando libero corso a tutti, sopprimendo qualsiasi principio di autorità tanto nella psiche quanto nella società, la libertà democratica degenera in anarchia della vita pubblica e privata, dove «il padre si rende simile ai figli e li teme, i figli si assimilano ai padri e non provano verso di essi né rispetto né timore, pur di essere liberi [...]. Il maestro teme e adula gli allievi, e questi disprezzano maestri e pedagoghi»; si cancella infine ogni differenza tra anziani e giovani, fra padroni e schiavi, persino fra uomini e animali (562e-563d). L’uomo democratico «vive alla giornata, compiacendo qualsiasi desiderio gli capiti: ora si ubriaca e suona il flauto, poi fa la cura delle acque per dimagrire, una volta fa ginnastica e un’altra si impigrisce e se ne infischia di tutto, poi magari mostra di partecipare a discussioni filosofiche. Spesso si dà alla politica e si mette a parlare a casaccio; e se lo prende l’invidia per gli uomini di guerra, si volge a questa attività, oppure se invidia i ricchi eccolo darsi agli affari. Nella sua vita non ci sono né ordine né obblighi: la chiama però dolce e libera e beata, e in questo modo passa l’intera esistenza» (561c-d). 3. La dolce libertà dell’uomo democratico risulta instabile, priva di ordine e di gerarchia dell’io e della comunità. Il suo destino è di cadere preda dell’“uomo-lupo” (566a): il tiranno, che si atteggia inizialmente a difensore del popolo contro i ricchi oligarchi per poi, invece, diventarne il sanguinario oppressore. Il tiranno non prende il potere per ambizione di gloria (timocratico), per cupidigia di ricchezze (oligarchico), o per l’arrendevolezza a ogni desiderio (democratico). È invece dominato da un unico desiderio, l’ossessione erotica: eros tyrannos (Repubblica IX, 573b). Egli usa il suo potere assoluto per realizzare di giorno ciò che gli uomini sognano di notte: «unirsi con la madre [...] o con chiunque altro fra gli uomini, gli dei e le bestie, assassinare a suo piacimento, non astenersi da alcun eccesso» (571c-d). Con questo siamo giunti allo stadio terminale della fenomenologia della decadenza dei tipi d’uomo e delle diverse forme politiche. Nella Repubblica sembra non esserci più alcuno spazio per un percorso di ascesa verso l’orizzonte della Kallipolis e dell’uomo giusto che le corrisponde. Nel Fedro, però, e nel Simposio, l’eros sembra poter venire rieducato, sublimato, in modo che la sua energia venga indirizzata verso il desiderio di verità e giustizia. Il tiranno (Repubblica, Leggi, Lettera VII), può venir persuaso ad accettare la guida del filosofo e a porre il suo potere assoluto al servizio del progetto della città giusta. Il trionfo di eros tyrannos (la completa degenerazione della polis e della psiche) è allora suscettibile di un rovesciamento? Attraverso la persuasione educativa del maestro-filosofo? La premessa della ricostruzione della kallipolis? La stessa kallipolis della Repubblica non poteva che nascere da un gesto d’amore: del filosofo verso la politica o del potente verso la filosofia. Ma l’instabilità degli equilibri psichici, dovuta alla potenza delle forze irrazionali dell’anima, rendeva necessario e privo di garanzie l’impegno educativo. Una politica dell’anima condotta sia dalla comunità che dal maestro-filosofo. Oltre il Fedone e la sua radicale opposizione, si apre così un transito tra anima e città: la seconda deve farsi carico, nell’educazione comunitaria, degli equilibri psichici individuali; la prima, plasmare la città a sua immagine, poiché l’assetto pubblico dipende dalla configurazione psichica del tipo di uomo in esso prevalente: gli assetti psichici dominanti configurano a propria somiglianza la forma di vita e la struttura politica delle comunità in cui essi prevalgono; un buon governo di queste comunità può, reciprocamente, attraverso un atto di forza, condizionare anche gli assetti psichici riorientandoli verso una vita privata e pubblica ordinata dalla giustizia. Abbiamo concluso? No. Dobbiamo considerare un altro elemento, o forse un’altra ipotesi sulle passioni. Il rapporto anima-corpo. Nel Fedone il contesto era oppositivo e “mortuario”. Il Timeo veniva deliberatamente presentato come continuazione della Repubblica (all’indomani della conversazione di Socrate con Trasimaco, Glaucone, Adimanto e gli altri). Esso narra di un mito “verosimile” (ma solo verosimile) sulla formazione del mondo a opera di un artefice divino, il Demiurgo. Ma anche la costituzione di un complesso psicosomatico. Il sapere medico del V secolo, unito alla tripartizione della Repubblica, perviene a esiti interessanti, per quanto concerne la relazione anima-corpo. A partire dalla concezione del corpo come “veicolo” o strumento dell’anima (69c), si perviene alla comprensione di esso come organismo articolato in parti anatomicamente distinte ma fisiologicamente connesse e interagenti fra loro. La sede somatica della “parte immortale” dell’anima è individuata nell’encefalo, quella della parte aggressiva nella regione cardiaca, quella della parte desiderante è duplice: da un lato i visceri, per i desideri di tipo alimentare, dall’altro gli organi sessuali per quelli erotici. Sono, oggi, ovvietà? Forse, ma con delle conseguenze, che non dobbiamo trascurare. Il corpo è psicologizzato. Ma siccome la psiche era già stata politicizzata, allora anche il corpo è politicizzato, oggetto possibile dell’agire politico. (cit. 91b-c, pp.143) Cosa significa che le parti dell’anima sono installate nei rispettivi organi corporei? Non come un inquilino in un appartamento. E come vengono trasmessi gli ordini della ragione, visto che la fisiologia ignora ancora il sistema nervoso? Non erano questi gli interrogativi che interessavano Platone, il quale, in questo modo, aveva posto le condizioni di pensabilità dell’interazione tra corpo e anima e quindi tra corpo e città. Le patologie del corpo e dell’anima, pensate in un nesso circolare, potevano essere curate da una terapia condotta all’interno dell’educazione etico-politica. In questo contesto, il motto socratico “nessuno fa il male volontariamente” viene rivisitato. La malattia psichica, e quindi la devianza morale, erano imputabili a malformazioni corporee e insieme a una cattiva educazione pubblica e privata. La responsabilità di questa cattiva complessione dei corpi e cattiva costituzione è da attribuire più ai padri che ai figli, più agli educatori che agli allievi. L’educazione deve, nella misura del possibile, in quanto educazione al sapere, far rifuggire dal male e compiere la scelta opposta. Ma una città giusta, una buona educazione possono plasmare un’anima e mediante essa un corpo migliori. La politica dell’anima (governo della ragione sulla sfera dei desideri tramite gli impulsi aggressivi) può integrarsi in una politica del corpo (comando dell’acropoli encefalica sostenuta dal posto di guardia cardiaco sui visceri e sugli organi del sesso). Sullo sfondo, la grande politica della città, perché solo una costituzione giusta, e uno sforzo collettivo di educazione, possono garantire nell’anima e nel corpo le gerarchie di giustizia e salute. La medicina dei corpi è una continuazione della politica con altri mezzi (Timeo 88c-89d). Il corpo, non più nemico dell’anima, è pensato come organismo integrato, potenziale alleato, se in salute, e congiunto a essa nella strategia terapeutica. L’uomo, complesso psico-somatico, diventa animale politico in un senso più radicale di quello aristotelico: tanto la sua anima quanto il suo corpo sono politicizzati, all’interno della città.