Comments
Description
Transcript
Noir Mistero Gialli
Cultura Italiana a Oriente N O I R , MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬 疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑 NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推 理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑 色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑 NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻 悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇 Piero Colaprico Danila Comastri Montanari Giancarlo De Cataldo Giorgio Faletti Marcello Fois Isaia Iannaccone Carlo Lucarelli Bruno Morchio Margherita Oggero Alberto Toso Fei 裘小龙 虹影 张牧 野 何家弘 南派三叔 冯华 MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E 幻悬疑NOIR, GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI 推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑 色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推 理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬 疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇 幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇 幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑 色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI 推R推理·黑色·奇幻悬R推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇 幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E Noir Mistero Gialli GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇 幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO 色·奇幻悬 色·奇幻 推 理 ·黑色 ·奇幻 GIALLI推理·黑色·奇幻 E GIALLI 推理·黑 十月 色 · 奇 幻 2009年 Ottobre 2009 Anno 0 No.7 E GIALLI推 意大利文化处月刊 Mensile dell’Istituto Italiano di Cultura di Pechino GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E 悬 理·黑色·奇幻悬疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑 疑NOIR, MISTERO E GIALLI推理·黑 疑NOIR, MISTERO E GIALLI 悬疑NOIR, MISTERO E 悬疑NOIR, MISTERO 推理·黑色·奇幻悬疑 1 Il giallo del mandarino (ovvero: il giallo è nato in Cina) A PECHINO IL NOIR A CONFRONTO Quindici scrittori protagonisti di un genere letterario sempre più apprezzato si riuniscono per una settimana per il Primo convegno letterario italo-cinese, organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura di Pechino I rapporti culturali tra la Cina e l’Italia si sono intensificati in particolare negli ultimi anni grazie allo scambio che di fatto si è realizzato tra i due paesi - sul fronte dell’economia e del lavoro – e con il diffondersi in Italia di comunità di cittadini cinesi. Diverse sono le iniziative che recentemente hanno affrontato questioni legate al tema della traduzione, agli aspetti di critica letteraria italiana, alle metodologie e al materiale per la didattica della lingua italiana e cinese, alla diffusione della letteratura e della lingua italiana in Cina. Questa nuova iniziativa dell’Istituto Italiano di Cultura di Pechino – che si tiene dal 13 al 18 ottobre – vuole inaugurare un altro modo di confrontarsi tra le due culture e letterature, quella italiana e quella cinese, rendendo protagonisti gli scrittori e promuovendo in modo attivo la diffusione della letteratura e della narrativa, soprattutto contemporanea, nei rispettivi paesi. Sappiamo bene come nel passato storico Italia e Cina abbiano vissuto stagioni di intenso confronto culturale e florido scambio economico; oggi la Cina è tornata a essere la protagonista del futuro dell’umanità, e la narrativa cinese oramai parla direttamente anche al nostro pubblico, non più da una specie di lontananza esotica, perché gli autori partecipano da protagonisti allo scambio che la globalizzazione consente tra i diversi paesi. 2 Dagli anni Novanta del secolo scorso anche la nostra letteratura del Novecento ha iniziato a essere conosciuta, senza più la mediazione della lingua inglese che aveva contraddistinto la maggior parte delle traduzioni antecedenti gli anni Settanta. Oggi si vuole promuovere un’ulteriore azione di confronto e di scambio tra i due universi narrativi con le scrittrici e gli scrittori protagonisti, e lo si vuole fare con questo primo appuntamento attraverso il genere letterario del giallo e del noir, portando gli autori direttamente nei luoghi dello studio e della formazione, promuovendo il confronto con i loro colleghi “di genere” cinesi all’interno delle università e negli spazi dedicati allo studio e alla lettura. La letteratura è uno dei mezzi più efficaci di cui i popoli si possano avvalere per approfondire la conoscenza reciproca e trasmettere i propri valori. Il genere letterario scelto riesce in modo unico e particolare a descrivere e interpretare la società, è un genere di elezione per conoscere i luoghi e penetrare nei meandri della psiche, tra inquietudini e passioni, tra storia passata e dinamiche del presente. La scelta degli scrittori che partecipano al viaggio in Cina è stata guidata da un doppio criterio, da una parte il luogo di origine dello scrittore, nella consapevolezza che l’ambiente e il territorio nel quale nasce il libro sia determinante anche per la conoscenza dello stesso; dall’altra le diverse sfumature e peculiarità degli autori individuati, che nel loro insieme composito attraversano tutte le caratteristiche che il genere consente. Alessandro Vaccari TUTTI I LIBRI SONO DISPONIBILI NELLA LIBRERIA DELL’ISTITUTO [email protected] I GIUDICI INVESTIGATORI La scena si apre sull’aula di un tribunale, mentre si sta svolgendo un processo per omicidio. L’implacabile accusatore, confusi i testimoni reticenti, ricostruisce il delitto nei minimi particolari, inchioda il colpevole con prove irrefutabili, lo costringe a confessare schiacciandolo con la logica delle sue sottili argomentazioni. La verità trionfa e il reo si avvia all’inevitabile punizione. Stiamo forse leggendo un romanzo di Perry Mason, ambientato nella Los Angeles del nostro secolo? No, l’episodio si svolge settecento anni fa, e il titolo del libro è perlomeno singolare: Casi paralleli sotto l’albero del pero: è una raccolta cinese di casi giudiziari del XIII secolo, una delle tante che appassionarono i lettori del Celeste Impero molti secoli prima che Conan Doyle creasse il suo famoso Sherlock Holmes. La letteratura dell’antica Cina ne abbonda: si va dai manuali di criminologia alle cronache dei processi più celebri, fino alle antologie di detection e ai veri e propri romanzi polizieschi. Ma chi è l’eroe, l’investigatore che risolve invariabilmente il mistero, assicurando con la sua sagacia l’assassino alla giustizia? È il magistrato di distretto: giudice, amministratore, prefetto, capo della polizia, assomma in sé tutti i poteri: i portoghesi, forse mutuando il termine da verbo “mandar”, comandare, lo chiamarono “mandarino”. Mandarini non si nasce, si diventa: chiunque, anche di umilissime origini può aspirarvi, se possiede le doti necessarie. A nul- la valgono la nobiltà, la potenza della famiglia, il peso del denaro; c’è un unico mezzo per assurgere all’altissima dignità di funzionario: il pubblico concorso per esami. Non pensate però che essi vertano sulla scienza dell’amministrazione, sul diritto o sull’economia. La materia è una sola, la letteratura classica, e va imparata a perfezione. Chi possiede appieno la conoscenza dei grandi autori del passato, in particolare delle opere confuciane, è in grado di affrontare qualunque problema, dalla necessità di approntare canali di irrigazione alla riscossione delle tasse, dalla registrazione di nascite e matrimoni al mantenimento dell’ordine pubblico, dalla difesa della città all’indagine sui delitti più efferati. Così, a governare l’impero e ad amministrare la giustizia, sono esclusivamente gli intellettuali: filosofi, poeti, narratori, raffinati cultori di metrica, pittori di vaglia, esperti calligrafi. E il sistema, incredibilmente, funziona. Residenza del mandarino è il tribunale, sito nel centro della città, ad equa distanza tra la Torre del Tamburo e quella della Campana, non lontano dall’onnipresente tempio di Confucio. Lì, tre volte al giorno, all’alba, a mezzogiorno e all’imbrunire, il magistrato esamina i casi propostigli. Chiunque, in qualunque momento, può suonare il grande gong appeso a un traliccio di legno sul portone di ingresso, accanto ai quartieri di guardia, e chiedere che sia fatta giustizia. Nell’aula, durante i processi, sia il querelante sia l’accusato rimangono inginocchiati a terra sulla nuda pietra, per tutta la durata della seduta, in segno di deferenza verso la corte. Il funzionario siede in cattedra, su un alto scranno, davanti a un arazzo che rappresenta l’unicorno, antico simbolo della perspicacia. Sulla sua cattedra, pochi oggetti significativi: due pennelli, la pietra per l’inchiostro, il barattolo delle bacchette di bambù, che, all’occorrenza, il giudice butta a terra davanti al banco, per stabilire il numero delle frustate impartite al colpevole. A destra e a sinistra del magistrato, dietro ai loro tavoli, gli archivisti e gli scrivani riducono con incredibile destrezza a pochi e precisi ideogrammi le deposizioni dei testi, tramandandoci nei minimi particolari quelle fosche vicende di frodi e delitti che costituiscono la fonte primaria e inesauribile del racconto poliziesco cinese: tutti gli interrogatori, infatti, anche quelli dell’inchiesta preliminare, si svolgono in aula, alla presenza del pubblico. Per investigare l’in- 3 quisitore dispone della competenza di un valido medico legale, e di un buon numero di assistenti personali, che si porta con sè in tutti i suoi spostamenti da un distretto all’altro; di promozione in promozione, questi fidi lo accompagnano lungo tutta la sua carriera. Si tratta spesso di “fratelli dei boschi verdi”, cioè di ex-banditi, esperti nel pugilato e nella lotta a mani nude, in quanto, come secoli dopo i loro colleghi di Scotland Yard, non sono autorizzati a far uso di armi. Ma questi aiutanti non sono che semplici esecutori di ordini, a cui il giudice si affida per portare a termine i compiti di secondaria importanza. Chi svolge le indagini vere e proprie è solo lui, il mandarino; per compiere appieno il suo dovere, l’alto magistrato spesso non disdegna nemmeno di recarsi di persona sul luogo del delitto, naturalmente travestito e in incognito, al fine di evitare la pompa con la quale, secondo le regole dell’etichetta, è tenuto a presentarsi in pubblico. Il giudice non è legato da molte pastoie burocratiche e ha mano libera con gli inquisiti, che non godono del patrocinio di un avvocato, né di alcun “diritto costituzionale”: può farli arrestare senza prove, ordinare che siano frustati in aula, privarli della libertà in qualunque momento, interrogarli anche sotto tortura (ma, se l’imputato dovesse riportarne seri danni, il giudice sarebbe chiamato a renderne conto anche con la vita...). Raramente però il mandarino fa uso di questi sistemi: di norma basta la sua lucida intelligenza, sorretta dallo studio dei classici confuciani, per farlo arrivare alla brillante soluzione del caso. E il colpevole - necessariamente reo confesso, poiché nessuno può essere condannato se non ha ammesso il delitto - si 4 avvia al supplizio, che ha da esser pubblico e particolarmente atroce, in modo che funga da monito ed esempio: ogni giallo cinese finisce con una esecuzione capitale, descritta nei minimi particolari per soddisfare l’esigenza di giustizia dei lettori. I giudici più famosi, particolarmente versati nella detection, svolgevano la loro attività in svariate province, spostandosi continuamente: un magistrato di distretto non poteva infatti rimanere in carica nella stessa località per più di tre anni, onde evitare che si creassero in loco amicizie e interessi che avrebbero potuto interferire coi suoi doveri. Non di rado, questi investigatori assursero in seguito alle vette più alte del potere, fino a coprire le prestigiose cariche di ministri e consiglieri imperiali. Nulla di strano, invero: anche oggi, negli Stati Uniti, un buon successo da Procuratore Distrettuale nella lotta contro la delinquenza, è un ottimo trampolino di lancio nella carriera politica. Di questi abili magistrati, tre in particolare, giunsero a una tale notorietà da diventare i protagonisti di raccolte poliziesche tramandate per secoli: il giudice Pao, il giudice Li e Ti Jen-chieh, meglio noto come “l’onorevole giudice Di”. Quest’ultimo è entrato persino nella letteratura europea, come personaggio principale di una fortunata serie di gialli di Robert van Gulik, il diplomatico olandese, ambasciatore dei Paesi Bassi in Cina, che deve essere considerato, insieme all’americano Vincent Starret, il vero scopritore del mystery orientale. Fine sinologo, tradusse e curò la pubblicazione di alcune cronache giudiziarie del Medioevo, nonchè un romanzo del XVIII secolo avente come protagonista appunto il leggendario Di. In seguito, rielaborando gli annali della dinastia Tang e i testi antichi di criminologia, ne trasse storie poliziesche originali destinate al pubblico europeo, ma elaborate sullo stile di quelle cinesi classiche. Il giallo cinese, infatti, presenta alcune peculiarità che lo differenziano dal genere a cui è abituato il pubblico occidentale. Prima di tutto, nella stragrande maggioranza dei casi, il colpevole viene reso noto fin dall’inizio: è l’acume del magistrato nel districare la complessa vicenda criminosa, non la scoperta dell’assassino, a costituire l’oggetto del romanzo, in questo senso simile più alle inchieste del tenente Colombo che a quelle di Poirot o di Maigret. Il mandarino, ovviamente, batte tutti in astuzia ed ingegno. Così Di, in un famoso racconto, risolve un omicidio sulla base dell’osservazione di un dipinto raffigurante un gatto: le pupille contratte dell’animale, dipinto dalla vittima subito prima della morte, gli svelano che il delitto è stato commesso in pieno giorno, anziché di sera, come vuol far credere l’assassino. Li Hui, in un’altra cronaca, ordina agli agenti allibiti di interrogare con la tortura la pelle d’agnello che è oggetto di una contesa tra un portatore di legno e uno di sale. Il tappeto, sotto i colpi della frusta, lascia cadere alcuni granelli di sale, e rivela il legittimo proprietario. Vi è solo un’altra importante differenza, che distingue il giallo orientale da quello europeo e americano: il giudice del Celeste Impero non ha mai a che vedere con un solo caso alla volta, ma con due o tre enigmi diversi, talvolta collegati tra loro, ma più spesso completamente indipendenti. Il realismo cinese non avrebbe mai ammesso che un importante funzionario, incaricato di governare un’intera provincia, si trovasse alle prese con un solo reato nel corso delle sue funzioni: quindi gli omicidi si mescolano spesso ai furti, alle truffe, ai rapimenti, alle scomparse misteriose. Infine, come in ogni romanzo classico cinese, vi è, in questi polizieschi, un grandissimo numero di personaggi, davanti al quale il lettore occidentale, abituato a una rosa limitata di sospetti, rimane sconcertato. Molte di più sono però le analogie, che ci permettono di ascrivere a pieno titolo questi racconti al genere giallo: il gusto di svelare un mistero, l’abile ricostruzione del processo di detection, la serialità dei personaggi: il protagonista, quasi sempre realmente esistito, viene trasfigurato dall’opera letteraria in una specie di stereotipo e cristalizzato in atteggiamenti fissi, non dissimilmente da ciò che accade nelle serie più famose di Erle Stanley Gardner o Agatha Christie. Anche la “spalla” dell’investigatore, il dottor Watson della situazione, è caratterizzato in modo deciso: si tratta in genere di un assistente nerboruto, rapido di riflessi ma corto di comprendonio, a cui il giudice deve spiegare per filo e per segno la risoluzione del caso (e chi non ricorda i vari Drake, Goodwin, Markham?) Non mancano poi le tipologie di personaggi quasi obbligati: la fanciulla perseguitata, il funzionario corrotto, lo studente povero ma onesto, il libertino approfittatore, la moglie fedifraga, la giovane costretta a vendersi a una casa di prostituzione per sfamare la famiglia. A volte, però il racconto ci riserva delle sorprese inaspettate, come la presenza di una investigatrice femmina: è il caso della Novella delle quindici stringhe, in cui la giovane moglie dell’accusato scopre l’assassino di un mercante, barbaramente ucciso per impossessarsi di parecchie monete forate nel mezzo, e riunite appunto in quindici filze. L’eroina ottiene dal magistrato l’assoluzione del marito, salvandolo dal patibolo. LE ARMI DEL DELITTO Ma, ben più dei protagonisti, ciò che colpisce nei romanzi cinesi di detection, è la varietà fantasiosa delle armi del delitto, davanti ai quali i meccanismi più complessi svelati dai nostri Philo Vance e Nero Wolfe appaiono quasi grigi e banali: amante delle stranezze e delle eccentricità, il vasto pubblico del Celeste Impero non avrebbe accettato di buon grado un semplice, brutale assassinio a colpi di randello. Gli stru- menti di morte dovevano invece essere raffinati ed insoliti. Eccone una breve panoramica. Il chiodo nell’occipite: è descritto nel caso numero 16 della la raccolta di criminologia già citata (T’ang-yin-pi-shih), e ne è attribuita la soluzione a Yeh Tsun, giudice dei primi secoli della nostra era. Viene ritrovato un corpo, senza alcun apparente segno di violenza. Il mandarino, la cui attenzione è stata risvegliata da uno sciame di mosche posate sul cranio del morto, sottopone il cadavere a un esame approfondito, scoprendo, infisso nell’osso, un lungo e sottilissimo chiodo, piantato nottetempo nella testa della vittima addormentata dalla con- sorte infedele. Il caso, in una versione più tarda, fu ripreso da van Gulik nel suo romanzo I delitti del chiodo cinese: qui, una moglie uxoricida in preda ai rimorsi, rivela al giudice Di in che modo uccise anni prima il marito e gli permette di scoprire la colpevole di un nuovo, inspiegabile delitto. Da grande ammiratrice dei gialli cinesi quale sono, non resistetti a inserire cenni su un delitto col chiodo nell’occipite anche nel mio romanzo Cave canem, (Hobby & Work) ambientato in Campania nel I secolo dopo Cristo. Una variante di questo metodo è costituita dal chiodo nell’orecchio: ne Gli strani casi del giudice Li, ad esempio, il mandarino discolpa una vedova calunniata, dimostrando come lo spillone letale sia stato infisso nel cranio dopo la morte della vittima. La vipera assassina, compare nell’ennesimo caso risolto dal celeberrimo Jen Chieh: una sposa muore avvelenata alla soglia delle nozze, mentre, sola in cucina, beve una tazza di tè. L’arma è una vipera: l’assassino l’ha celata sulla trave che sovrasta il focolare, in modo che, infastidita dal vapore dell’acqua in ebollizione, lasci cadere il suo veleno mortale nella teiera. Il pennello mortale: è un’arma “differita” che uccide a distanza: scaldata a una lampada, o a una candela, emette un proiettile letale, mediante una molla trattenuta dalla cera sciolta alla fiamma. Occorre ricordare che la calligrafia era ritenuta un’arte di primaria importanza: gli ideogrammi venivano tracciati sul foglio ad inchiostro di china, con grandissima cura, come veri e propri disegni. Si rendeva quindi necessario, inaugurando un nuovo pennello, bruciarne le setole irregolari, per evitare che causassero antiestetiche sbavature sulla pagi- 5 na: ecco quindi la necessità della fonte di calore che mette in moto il meccanismo mortale. La vittima viene ritrovata nello studio, chiuso ermeticamente dall’interno, e solo la lungimiranza del mandarino permette di assicurare il colpevole alla giustizia. È il primo esempio nella letteratura di “delitto della camera chiusa”, un motivo sul quale si cimenteranno tutti i grandi autori di polizieschi occidentali, tra cui Van Dine, Agatha Cristhie e John Dickson Carr. La sottoscritta ha ripreso il meccanismo del pennello mortale, trasformato per l’occasione in una pipa indiana, nel racconto Il dono di Giuda (pubblicato nell’antologia History & Mystery della Piemme) , che si svolge a Roma nel XVI secolo. Le pagine avvelenate: l’invenzione del pennello mortale viene attribuita proprio a Yen Shi-fan, il perfido traditore di cui, secondo la leggenda, si vendica l’autore del Chin P’ing Mei (Fiore di prugno in un vaso d’oro), l’antico romanzo erotico considerato oggi il capolavoro della narrativa cinese. Anche questa vendetta ha tutto il sapore del giallo: il giovane Wang, il cui padre è stato ingiustamente fatto condannare a morte dalla famiglia di Yen, non ha modo di raggiungere il potente avversario per fargli scontare le sue colpe. Allora si risolve a descrivere, in un lunghissimo e affascinante romanzo, tutte le perversioni del suo lussurioso nemico, adombrandolo sotto le spoglie del protagonista Hsi-Mei. Terminato lo scritto, gli invia il testo, dopo averne preventivamente strofinato le pagine sottili con un veleno letale. Il perfido Yen legge, umettandosi le dita e, quando giunge alla fine della storia, muore. Una leggenda posteriore vuole invece che la vittima si accorga della sua prossima fine, ma, pur di termi- 6 nare lo stupendo romanzo, accetti di pagare con la vita il piacere di leggerlo. A chi non viene in mente Jorge da Burgos ne Il nome della Rosa? Il gatto feroce: l’episodio è narrato nello stesso Chin P’ing Mei. Loto d’Oro, quinta moglie e favorita del corrotto Hsi-Mei, perde l’affetto del suo signore quando un’altra sposa gli partorisce un figlio. La donna non si rassegna e, già avvezza al delitto - ha soffocato nel sonno il primo marito - addestra un grosso gatto bianco, “Palla di Neve”, ad aprire con le unghie un panno scarlatto, per cercarvi dei pezzetti di carne cruda. Approfittando di un attimo di disattenzione della balia, la malvagia favorita manda il felino al di là del muro che separa il suo padiglione da quello della rivale e attende in silenzio che l’animale attacchi il neonato avvolto nella vestina rossa. Il bambino, dilaniato dagli artigli, cade in convulsioni e muore, mentre la terribile Loto d’Oro riconquista il favore del marito. Come si è detto le inchieste del giudice Di furono celebrate in Occidente dall’olandese Robert van Gulik con una serie di romanzi nei quali, dopo un esordio basato essenzialmente sui classici, il personaggio si evolve fino a vivere avventure di pura fantasia. Ma non è tutto: il fascino del celebre mandarino è tale da farlo sopravvivere al suo stesso autore. Di recente, a quasi quarant’anni dalla morte di van Gulik, è stato infatti ripreso dallo scrittore Frédéric Normand – già autore di romanzi storici sulla rivoluzione francese – col nome di “juge Ti” in una serie che promette di valicare presto i confini della Francia. Il mandarino Di, o Ti che dir si voglia, non è però l’unico funzionario delle Cina imperiale a comparire nella storia del poliziesco. Alla fine dell’Ottocento troviamo infatti un romanzo molto bello, di penna certamente cinese, attribuito a Xihong, pseudonimo di un autore mai identificato. Gli strani casi del giudice Li riporta le inchieste - probabilmente di fantasia - di un magistrato scrupoloso e animato da grandi ambizioni, che visse sotto l’ultima grande imperatrice Ci Xi (conosciuta anche come Tz’u-hsi, Dowager o Yehonala) servendola come ministro e fu un fermo oppositore delle potenze occidentali durante la rivolta dei Boxers. Perdute due impari battaglie contro gli europei, il giudice Li Bengheng pagò con la vita la fedeltà assoluta al Trono del Drago, preferendo il suicidio al disonore di presentarsi da sconfitto davanti alla sua sovrana. Quest’ultima fu poi costretta suo malgrado dai vincitori a rinnegare il fedele ministro, privandolo post mortem di tutti i titoli e le cariche onorifiche. Si suppone che a narrarne le vicende nel libro citato, possa essere stato il segretario del funzionario stesso, desideroso di operarne la riabilitazione dopo la condanna postuma. *** Questi i classici. E ora? Da tre decenni ormai si nota in Cina un forte risveglio di interesse per il “giallo”. Il primissimo risultato tradotto in occidente, negli anni Ottanta, a dire il vero peccava un po’ di ingenuità: il probo Jin Ming (dovuto alla fertile penna di Ye Yonglie) devotissimo alla patria e ai suoi ideali, lottava con astuzia e accanimento contro gli agenti di varie multinazionali determinate ad appropriarsi delle scoperte scientifiche del laborioso popolo cinese; scoperto tuttavia il colpevole, Jin non aveva bisogno di molte prove, perché i criminali colti in fallo, sopraffatti dalla vergogna, si affrettavano seduta stante a confessare. Gli smaliziati lettori europei occidentali sorrisero, ma i veri appassionati di “gialli”, memori delle sottili astuzie dei vecchi mandarini, si misero ad aspettare fiduciosi il domani. Domani che è già oggi: purtroppo l’editoria occidentale è avara di traduzioni dalla lingua mandarina, cosicché molti lettori devono accontentarsi di leggere le inchieste “cinesi” nei libri di scrittori che cinesi non sono affatto, o se lo sono, non vivono in Cina, come ad esempio Qiu Xiaolong - l’apprezzatissimo autore dei polizieschi dell’ispettore Chen - nato a Shanghai ma residente ora a Saint Louis. Ma perché non essere fiduciosi nella buona sorte? Chissà che non sia proprio questo convegno di Pechino ad offrirci presto l’opportunità di rimediare alla penosa lacuna…. CHI ERANO QUESTI GIUDICI INVESTIGATORI ? Giudice Di = si tratta di Ti JenChieh, nato nel 630 a.C., anno della Tigre, sotto l’influsso del pianeta Venere:Dopo una brillante carriera, divenne infine Ministro della Corte Imperiale. Come tale riuscì a impedire all’imperatrice Wu di nominare erede un suo favorito al posto del legittimo pretendente: l’episodio è ricordato anche da Lin Yutang nel suo romanzo Madame Wu. A lui si è ispirato Robert van Gulik, per creare il protagonista della sua famosa serie di “gialli storici”. Giudice Pao = è Pao Ch’eng, famoso uomo di stato del periodo Song, nato nel 999 d.C. e morto nel 1062. Nel XVI secolo, durante la dinastia Ming si trascrissero i casi da lui risolti in una fantasiosa antologia, il Lung-t’u-kung-an, nella quale si vede spesso il magistrato approfittare delle supersti- zioni popolari travestendo i suoi agenti da spettri delle vittime, per indurre i colpevoli a confessare. Giudice Li = Li Bengheng è il grande mandarino del secolo scorso che compare nel romanzo Gli strani casi del giudice Li, di Xihong, funzionario imperiale dell’imperatrice Ci Xi (Tz’u-hsi) durante la rivolta dei Boxers. Su Ci Xi è stato scritto da Lucien Bodard il controverso romanzo: La valle delle rose, edito in Italia dalla Rizzoli. LE RACCOLTE DI CASI POLIZIESCHI CINESI T’ang-yin-pi-shih = Casi paralleli sotto l’albero del pero, Leiden 1956. Raccolta cinese di giurisprudenza, criminologia e investigazione del tredicesimo secolo, tradotta da van Gulik. Vi è descritto il delitto del chiodo. Ku-chin-ch’i-an-wei-pien = Casi curiosi dei tempi antichi e moderni: vi attinge van Gulik per il suicidio di un personaggio ne Il paravento di lacca. Ne esiste un estratto, sotto il titolo Wu-shach’i- an Curiosi casi di omicidio per errore. Ching-jen-chi-an = Casi curiosi che turbarono il mondo: raccolta di casi polizieschi pubblicata nel 1920 a Shanghai da Wang Yih, che ristampò una serie di racconti traendoli da libri più antichi, senza però menzionarne le fonti. Contiene il caso della sposa scomparsa. Lung-t’u-kung-an = o Paokung- an, raccolta di racconti polizieschi del XVI secolo aventi come protagonista il giudice Pao. Chiu-ming-ch’i-yuan = La strana faida dei nove assassini, romanzo basato su una vera strage di nove persone che ebbe luogo a Canton nel 1725. Wu-tse-t’ien-szu-ta-ch’i-an = romanzo poliziesco del XVIII se- colo, tradotto da van Gulik col titolo Dee Goong An (Tokio 1949). Vi si cita il delitto della vipera assassina. Xihong, Ligong qiwen, romanzo giallo di fine Ottocento, traduzione italiana: Gli strani casi del giudice Li, Sellerio 1992 I molti romanzi di Robert van Gulik sul giudice Di sono stati editi in Italia dalla Garzanti e dalla Mondadori, mentre quelli di Frédéric Lenormand escono in Francia nella Fayard. Il Chin P’ing Mei è pubblicato in Italia dalla Feltrinelli. Il romanzo di Ye Yonglie L’ombra delle spie sull’isola di Giada Verde, uscì presso Luigi Reverdito Editore. I romanzi di Qiu Xiaolong (La misteriosa morte della compagna Guan, Visto per Shanghai, Quando il rosso è nero, Ratti rossi sono editi in Italia dalla Marsilio. Peter May pubblica una serie che vede la collaborazione del detective di Pechino Lin Yan con la patologa americana Margaret Cambell : due romanzi sono usciti in Italia per Piemme. Danila Comastri Montanari 7 Piero Colaprico Danila Comastri Montanari Giancarlo De Cataldo Giorgio Faletti Feng Hua Marcello Fois He Jiahong Isaia Iannaccone Carlo Lucarelli Bruno Morchio e r o t u a ’ Indizi d Nanpai Sanshu Margherita Oggero Qiu Xiaolong Alberto Toso Fei Zhang Muye 8 9 Piero Colaprico Questa volta è morto “Pallina”. Un poveraccio della Scala C, un puntino di sabbia tra i palazzoni popolari e tutti uguali della periferia milanese. “Un fascicolo in più da archiviare” tra quei duecento e passa che a Milano morivano vent’anni fa appena, in quella recentissima preistoria metropolitana popolata di mostri tuttora ben vivi tipo certe solitudini, e altri ormai estinti tipo le cabine telefoniche. Per fortuna di turno c’è lui, il maresciallo Binda, la notte in cui ammazzano quel niente di Pallina. Con Scala C, Colaprico ci porta nelle atmosfere nebbiose di un poliziesco italiano, in una Milano di delinquenti, osterie e latterie: una città ormai scomparsa e che vive solo nei ricordi dei protagonisti di quei giorni. Scala C Incoeu, in quel di Londra Piero Colaprico è nato a Putignano (Bari); laureato in giurisprudenza, vive a Milano dove come giornalista e inviato del quotidiano La Repubblica si occupa di giustizia e cronaca nera. Ha pubblicato alcuni saggi con taglio giornalistico (Duomo Connection, Manager Calibro 9, che ripercorre vent'anni di crimini a Milano e in Lombardia) ed è autore di romanzi e racconti gialli (tra questi Sequestro alla milanese, Kriminalbar, La donna del campione, L’uomo cannone). Insieme a Pietro Valpreda ha dato origine alla serie di romanzi gialli, ambientati a Milano, con il maresciallo Binda quale protagonista: Quattro gocce di acqua piovana, La nevicata dell'85 e La primavera dei maimorti. La saga è proseguita con L'estate del Mundial e La quinta stagione. Nel 2004 è uscita La Trilogia della città di M, un romanzo di tre lunghi racconti ambientati a Milano con protagonista l'ispettore Bagni, che si è aggiudicato il Premio Scerbanenco. 10 Sulla poltrona di vimini, nella casa londinese del figlio Umberto, nella zona di Bloomsbury, l’ex maresciallo Pietro Binda staccò gli occhi dal computer. «Nonno, che cos’è il destino?» Quel suo nipotino, el Palmer, com’el ciamaven, era un portento. Una volta, a sette anni, gli aveva chiesto: «Nonno, cos’è davvero importante? Avere una bella vita o essere ricordato in un modo speciale?». Lui aveva risposto qualcosa a proposito della conoscenza di se stessi e del tentare di fare le cose che ci rendono felici: «O, se non felici, tranquilli». «Senti, ma tranquillo come il mare, che anche se è calmo ha sempre le onde? O come una montagna, che non si preoccupa delle nuvole anche quando portano pioggia e neve? Che dici, nonno Peder?» aveva chiesto il nipotino. «Ciumbia, che domandone... Meglio essere tranquillo come uno scoglio, che sa che il mare lo bagna, ma poi esce il sole e lo asciuga. Non c’è nessuna vita dove tutto filerà liscio, caro el me neudin». Adesso, a nove anni, Palmer gli parlava di destino. Chissà, magari sarebbe diventato uno scienziato, un bambino così curioso e introspettivo. O forse, come tanti nonni, anche lui immaginava un’immensa fortuna per il nipote di un semplice maresciallo, per il figlio di quel suo figlio che era stato più in gamba di lui e aveva lasciato Milano, l’Italia, la sua lingua per fare fortuna a Londra, con i computer. Peder un po’ diffidava di quei nuovi mezzi, ma l’Umberto era stato inesorabile: «Alla tua età, sei andato a rischiare la pelle per mettere in galera una banda di albanesi e sei vivo per miracolo. Il medico è stato chiaro, papà. Se vuoi tornare in forma, devi usare il cervello come fai nelle indagini. Anche perché, finché non guarisci del tutto, non ti lascio partire per le tue Grigne, no no, te ne stai qua con noi. E se hai nostalgia di casa, ti spiego come superarla grazie a questo schermo ultrapiatto che stiamo brevettando...». Con pazienza, gli aveva dato qualche lezione e, ogni mattina, gli lasciava il computer acceso e collegato al sito del quotidiano della sua città, il «Corriere della Sera», in modo che il vecchio maresciallo potesse leggere qualche notizia. «Palmer, ti spiace se ci parliamo più tardi? Sto ciccando un articolo e...» brontolò Binda. Il bimbetto si avvicinò e lo aiutò: «Clicco, non cicco, ma dài, nonno. Ecco fatto, vedi lo schermo che si apre? Quando hai finito, chiamami tu», disse, e andò a giocare in camera sua, mentre le facce corrucciate di Mancini, di Mourinho e del presidente Moratti si fronteggiavano. Ma il maresciallo in pensione non leggeva più, gli era venuto in mente qualcosa sul destino. Qualcosa che gli era successo tanti, ma tanti anni prima, quando era ancora nell’Arma. L’ultimo lunedì di ottobre del 1979 La luce dei lampioni arrivava fioca e la cabina telefonica luccicava nella semioscurità. Sulla piazzola tra via Lorenteggio e via Segneri una piccola folla di sfaccendati si manteneva a debita distanza. Nessuno aveva piacere 11 di mostrarsi pappa e ciccia con i carabinieri. Nemmeno i giovani del circolo Arci si facevano vedere. Lo spaccio nei giardinetti di via Odazio, «ogni cespuglio un imbosco», era stato momentaneamente sospeso. Nella vicina bisca a cielo aperto di piazza Tirana, che in quel momento veniva gestita dallo smilzo e nerboruto Ventaglietto, i dannati del gioco d’azzardo sarebbero arrivati tra un paio d’ore, non prima, per lanciare i dadi sul rettilineo della fermata dei taxi. Binda si chinò in un angolo meno buio per raccogliere, accanto a una pozza d’acqua dove galleggiavano flaccidi mozziconi di sigaretta, un paio d’occhiali di finta tartaruga, con una montatura spessa e le lenti unte. Sentì un tuffo al cuore. Conosceva quegli occhiali. «Temevo fosse lui, poveraccio» si disse. Con l’unghia dell’indice grattò via un grumo di polvere, rimasto incollato al nastro adesivo che teneva assieme la stanghetta. «Pallina» sussurrò Binda. «Comandi» avanzò di un passo il vicebrigadiere che gli aveva fatto da autista. Era d’origine somala, già pelato a trent’anni, bassino e panciuto. «Pallina» ripeté ad alta voce il maresciallo. E siccome l’altro, rispettoso delle gerarchie, non se la sentiva di intervenire di nuovo, il capo della sezione Omicidi dei carabinieri aggiunse: «So chi è l’accoltellato. Qua al Giambellino lo chiamano tutti Pallina. Anch’io lo conoscevo, un poveraccio che non ci stava più con la testa». I lineamenti del sottoposto si modificarono per esprimere un’ammirazione infantile. Gli occhi rotondi s’ingrandirono, la bocca carnosa si spalancò, le narici divennero più larghe e le sopracciglia si arcuarono. Un attore 12 perfetto. «Nessuno dei nostri» disse «l’aveva identificato, nemmeno quelli dell’autoambulanza, e lei l’ha riconosciuto al volo, per gli occhiali? È proprio vero che nessuno conosce questa città come il nostro capo sezione.» «Fa anche il lecchino» pensò Binda, ma restò impassibile. «Incerottare gli oggetti con il nastro da pacchi è tipico del Pallina, purtroppo ripara così anche i piatti di ceramica. Diceva che è stato folgorato dall’intelligenza dell’inventore dello scotch. Abita di fronte, nelle case popolari.» «Va be’, se abbiamo l’omicidio dello scemo del quartiere, non faremo tanto tardi» ghignò il vicebrigadiere. «Ma perché Pallina alle undici di sera entra in questa cabina?» domandò Binda, senza degnarsi di rispondere a quel tipo appena arrivato da Roma. Ispezionò silenziosamente, palmo a palmo, il pavimento di metallo e i vetri insanguinati. A giudicare dalla densità delle chiazze di sangue, Pallina aveva perso ogni goccia di ciò che gli scorreva nelle vene e nelle arterie. «Svuotato» pensò Binda, stando attento a non sporcare qualche impronta utile. La cornetta penzoloni accrebbe la sua tristezza: «Avvisa la centrale che l’abbiamo identificato per Silvestri Silvio, ci deve essere un fascicolo a suo nome. E insisti con l’ospedale, fammi sapere se è ancora vivo». «Non può averla sfangata, marescià» commentò l’altro, accendendosi una sigaretta senza filtro. «Scusa, come hai detto che ti chiami?» «Vicebrigadiere Abdinasir Arturo, comandi.» «Non sbattere i tacchi che mi dà fastidio. Quando dico che devi chiamare l’ospedale, lo fai immediatamente» ordinò, togliendogli di bocca la sigaretta e buttandola nella pozzanghera. L’altro abbassò gli occhi e si precipitò a ubbidire Binda guardò l’orologio. Mezzanotte era passata da poco. Sarebbe servito un miracolo per tenere in vita un uomo malnutrito e debole, e quelli che stavano trascorrendo tra lutti e dolori, tra piccole e grandi tragedie non erano certo gli anni dei miracoli: anzi, li chiamavano «anni di piombo». Milano aveva una media di due morti ammazzati ogni tre giorni: c’erano i regolamenti di conti tra le grandi bande che Francesco Turatello aveva tentato di unificare, e c’erano i terroristi che sparavano, per uccidere o per gambizzare. C’era da correre mattina, pomeriggio e notte dietro le scie di sangue lasciate sull’asfalto, negli androni, nelle carceri, negli ospedali, nelle scuole, nelle bische, nei night; e, come quella notte, in una cabina del telefono, dove era stato colpito un povero «signor nessuno». Un fascicolo da archiviare al più presto se non si trovava una buona pista: andava a finire spesso così, quando il cadavere non era «eccellente». Danila Comastri Montanari Danila Comastri Montanari, nata a Bologna dove vive e lavora, è laureata in Pedagogia e Scienze politiche. Insegnante di storia per vent’anni, si dedica a tempo pieno alla narrativa dal 1990, anno di pubblicazione del suo primo romanzo Mors tua (Premio Tedeschi 1990) un giallo storico ambientato nella Roma imperiale, con il quale inizia la serie delle indagini del senatore Publio Aurelio Stazio. Tra i suoi romanzi di questa serie ricordiamo Morituri te salutant, Cui prodest, In corpore sano, Tenebrae. È anche autrice di romanzi polizieschi storici ambientati nell’Ottocento, quali La campana dell’arciprete e Il panno di mastro Gervaso. È membro dell'Associazione Scrittori di Bologna, collabora con varie riviste e mantiene alcuni siti Internet sulla storia e il romanzo poliziesco. 13 Roma, estate dell’anno 45 d.C. L'Imperatore Claudio non ha badato a spese pur di assicurare al popolo grandi combattimenti fra gladiatori, ma un drammatico evento li funesta. Nel corso di un combattimento, l’asso dell'arena Chelidone si accascia al suolo, vittima di un decesso inspiegabile. È lo stesso imperatore Claudio, vecchio amico di Publio Aurelio Stazio, a convocarlo al Palatino e ad affidargli le indagini sulla morte del gladiatore. Ha così inizio un’inchiesta ad alto rischio, durante la quale l’abilità investigativa del senatore Publio Aurelio verrà messa a dura prova. lio disgustato! In quel momento la folla tacque. Lo schieramento era ormai completo e i gladiatori già alzavano le loro armi verso la tribuna imperiale. Dalle gole riarse uscì un sol grido. "Ave, Caesar, morituri te salutant”: “Ave Cesare, quelli che stanno per morire ti salutano!” *** Morituri te salutant Capitolo I Anno 798 ab urbe condita Vigilia delle Calende di giugno (31 maggio del 45 d.C.) Il senatore Publio Aurelio Stazio sedeva un po' rigido accanto a Servilio, nella tribuna coperta dietro al palco imperiale. L'anfiteatro di Statilio Tauro, al Campo Marzio, era già pieno da scoppiare, ma altra gente continuava a riversarsi dai vomitoria, i larghi corridoi di accesso per la plebe. I giochi di quel giorno sarebbero stati memorabili: Claudio, grande appassionato di ludi, non aveva badato a spese per offrire al popolo romano quanto di meglio si fosse visto fino a quel momento in fatto di combattimenti di gladiatori. L'arena era addobbata da larghi teloni che difendevano il pubblico dal sole cocente e, al suo centro, un monte artificiale ricostruiva fedelmente l'angolo di foresta tropicale da cui i campioni avrebbero dovuto stanare le belve; tutto attorno un largo anello di sabbia aspettava il passo trionfante dei vincitori e il sangue dei perdenti. Tito Servilio, eccitatissimo, additava all'amico Aurelio i vari trucchi di scena, pregustando l'attesissimo spettacolo. Il senatore, dal canto suo, contemplava l'arena con un misto di curiosità e di 14 disgusto: non amava i massacri, per quanto coreografici, e solo l'impossibilità di sfuggire ai suoi doveri sociali lo aveva indotto a occupare il posto, solitamente vuoto, che gli era riservato nella tribuna. Il suo sguardo, vagando tra la folla nel tentativo di sottrarsi al fascino macabro del palcoscenico di morte apprestato nell'anfiteatro, finì col fermarsi sul podio imperiale, là dove il maturo Claudio, avvolto in una ricchissima veste di porpora, era intento a scommettere somme ingenti coi cortigiani più adulatori. Al suo fianco, sotto un baldacchino di broccato, le spalle fiere e regalmente perfette, sedeva la bellissima e chiacchierata imperatrice, Valeria Messalina. Aurelio riusciva ad intravederne, in mezzo alle nuche ben rasate dei funzionari, solo la cascata dei capelli d'ebano e un piccolo scorcio del purissimo profilo da bambola orientale. "Eccoli, eccoli!" lo tirò per la manica Servilio, indicando il cancello da cui i gladiatori entravano, tra le ovazioni della folla. Un primo gruppo di combattenti, vestiti di pelle di leopardo, passava in quel momento davanti al palco d'onore, seguito a ruota dai traci armati con la parma, il piccolo scudo rotondo destinato a frapporsi, unica difesa, tra loro e la morte. In un bagliore di corazze, fecero la loro comparsa i mirmilloni dai muscoli guizzanti e ben unti d'olio. Davanti a quell'abbondanza sfacciata di robuste braccia virili, le matrone emisero sospiri soffocati, languidi di promesse per chi, scampato alle Parche, avesse riportato la palma della vittoria. "Ecco Chelidone, l'asso dell'arena!" escalmò Servilio. "Là, in mezzo ai reziari: guarda come li domina tutti con la sua statura!" Aurelio Stazio dette un'occhiata distratta alla massa di carne che torreggiava sotto la tribuna: Chelidone, "rondinella", che nome ridicolo addosso a quella macchina per uccidere! Un grido della folla lo riscosse: erano entrati tre lottatori biondi e imponenti, coi capelli disciolti sulle spalle poderose. li guardò meglio: i corpi atletici, sommariamente ricoperti da una tunichetta corta, avevano qualcosa di strano, un gonfiore inconsueto nei fasci muscolari del torace, come un vago accenno sgraziato di seno femminile. No, non si stava sbagliando: i vigorosi gladiatori britanni erano indubbiamente delle donne! La più alta delle atlete alzò in quel momento il capo davanti al divino Cesare e dalla chioma stopposa emerse un viso rubizzo in cui spiccavano due occhietti rotondi e crudeli. Begli esemplari di armonia muliebre, pensò Aure- "Aspetta almeno che combatta Chelidone!" lo supplicava Servilio. "Senti Tito, mi annoio! Sono ore che mi tocca vedere un solo spettacolo, ripetuto all'infinito: la morte! E poi questo odore di sangue mi nausea!" L'amico non seppe come replicare: il tanfo in effetti aveva già raggiunto da un pezzo anche le gradinate più alte e né i coni d'incenso, né i bastoncini d'ambra che le signore si passavano sotto il naso, riuscivano più a depurare l'aria. "Ci sono ancora le Britanne, e poi arriva il campione. Sarebbe un insulto a Cesare se te ne andassi adesso: sai quanto ha speso per questi giochi!" tentò di convincerlo Servilio. Rassegnato, Aurelio riprese di malavoglia il suo posto e si decise a guardare. Morituri te salutant! Ma chi glielo faceva fare, a quei pazzi? Molti non erano nemmeno schiavi, ma professionisti che rinnovavano più volte il contratto con l'arena, per avere il privilegio di rischiare quotidianamente la pelle in cambio di una buona borsa di denaro. Un mestiere come un altro, d'accordo, ma il senatore non poteva impedirsi di provare una forte simpatia per le belve... E non si era neanche a metà, valutò esasperato, accogliendo con sollievo il breve intervallo della gustatio. Mentre gli schiavi passavano coi rinfreschi, Aurelio cercò di consolarsi con la vista delle matrone in abiti succinti, che offrivano uno spettacolo più consono ai suoi gusti. "Aurelio, caro!" lo salutò una famosa cortigiana "Perchè non vieni più a trovarmi?" "Mi farò vivo, Cinzia" mentì il patrizio, che non giudicava le prestazioni dell'etera all'altezza dei suoi prezzi esorbitanti. "Senatore Stazio, me lo avevano detto che non ti intendi di giochi" lo apostrofò un collega della Curia. "Ma davvero mi stupisco che un uomo della tua qualità sia tanto privo di spirito sportivo! Sempre col pollice sollevato: fosse per te, bisognerebbe graziarli tutti!" Questo è troppo, pensò Aurelio: non basta starsene lì buono ad annusare il lezzo del sangue, avrebbe dovuto anche gongolare dall'entusiasmo! "Ecco che ricomincia: i corni stanno suonando" lo chiamò Servilio "Adesso viene il bello!" Le chiacchiere vennero rapidamente interrotte da saluti affrettati. Per un attimo, tra lo svolazzare delle toghe, Aurelio captò lo sguardo altero e misterioso della bella Messalina. Il patrizio si inchinò, con un breve sorriso di intesa "Stai tranquilla, divina Augusta, non sarò io a tradire i tuoi segreti!" pensò con sarcasmo. "Ah, facciamo conquiste in alto loco. Quando lo saprà Pomponia..." commentò Tito Servilio. Aurelio sobbalzò: la moglie del buon cavaliere era la più informata malalingua dell'Urbe e per nessuna ragione doveva sospettare che qualcosa era intercorso, anche se di sfuggita, tra lui e la spregiudicata Venere imperiale, oggetto preferito dei pettegolezzi delle matrone. Cercò quindi di sviare in fretta l'attenzione dell'amico, riportandola verso i ludi: "Guarda, hanno contrapposto le amazzoni della Britannia agli etiopi!" disse indicando i corpi neri degli africani che contrastavano violentemente con la bianchezza delle nordiche. "Già: molto scenografico!" apprezzò il cavaliere, mentre il combattimento aveva inizio. Una delle virago cedette improvvisamente ed ebbe il collo spezzato da un secco fendente. Anche la seconda giacque presto nella polvere, raggiunta da un colpo di spada. Rimaneva solo la terza, con due avversari ancora in piedi, perché l'ultimo africano era già caduto sotto il suo ferro. Senza esitare, l'amazzone si gettò sul gladiatore meno forte, ingag- giando una lotta accanita, mentre l'altro accorreva in aiuto del compagno. Fu un attimo: affondata la spada nel torace dell'avversario, la gigantessa la estrasse con rapidità fulminea e si volse come una furia verso l'etiope superstite. Il povero africano, già lanciato nella corsa, vedendosi venire addosso quella Erinni, non resitette: gettato il gladio nella polvere, prese a scappare per tutta l'arena, inseguito dalla donna urlante. "Arduina, Arduina!" plaudiva il pubblico e col pollice verso chiedeva la giusta pena per il vile. "Iugula!" urlava la folla "Sgozzalo!" La vincitrice non se lo fece dire due volte. Già gli schiavi libitinarii, in abito da Caronte, portavano via i cadaveri e rimestavano la sabbia per cancellare le tracce dei caduti. In quella, un grido unanime segnò l'ingresso di Chelidone. Il reziario entrò in trionfo, brandendo il tridente, mentre il disgraziato destinato ad affrontarlo attendeva a testa bassa un destino già segnato: il grande campione era imbattuto e nessuno mai dei suoi avversari era uscito vivo dall'arena. La lotta cominciò, impari: poco aveva da opporre all'asso dei giochi lo sconosciuto col suo misero gladio. In men che non si dica il poveretto fu avviluppato nella rete e il tremendo reziario avanzò verso di lui. Lo sconfitto, il viso nella polvere, chiuse gli occhi. Vide avanzare i calzari infangati di sangue e sabbia e le punte minacciose del tridente gli oscurarono per un attimo l'ultimo sole. Allora chinò il capo, rassegnato. Un boato assordante segnò la sua fine. Poi aprì un occhio. Qualcosa non andava: era ancora vivo. Sollevò la testa, cautamente. A pochi pollici dal suo naso i calzari di Chelidone erano immobili nella polvere, ritti sul tallone. Dietro i calzari, le gambe e Chelidone, riverso sulla sabbia col tridente ancora in mano. Morto. 15 Giancarlo De Cataldo Nella Roma degli anni ’70 alcuni giovani delinquenti, stanchi e annoiati da una vita monotona e povera, e desiderosi di una rivincita sulla loro condizione sociale decidono di avviare un ambizioso progetto: la conquista di Roma. Il romanzo segue la nascita, lo sviluppo e il declino di questa banda criminale che riesce a farsi strada e a diventare sempre più potente grazie alla “politica del terrore”. Arriva a detenere il potere e il controllo quasi totale della “strada” attraverso lo spaccio, il gioco d’azzardo, il riciclaggio di denaro, l’apertura di un bordello e di locali notturni. Nello stesso tempo riesce a ramificarsi e stratificarsi in diversi livelli della società italiana, alleandosi con il terrorismo, la mafia e la parte corrotta dello Stato, trasformandosi in una vera e propria “impresa” del traffico di droga. Ispirato alla storia vera della banda della Magliana, che operò a Roma tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, ci presenta un’Italia segreta e inquietante in un romanzo che ha il ritmo delle saghe noir americane. Romanzo criminale Prologo Roma, oggi Giancarlo De Cataldo è nato a Taranto e vive a Roma, dove è giudice presso la Corte d’Assise. Scrittore, saggista, traduttore, autore di testi teatrali e di sceneggiature per la radio e la televisione, ha pubblicato molti libri a partire dal 1989, anno del suo romanzo d’esordio, Nero come il cuore. La sua opera più significativa è Romanzo criminale, pubblicata da Einaudi nel 2002, in cui De Cataldo rivisita gli anni Settanta ed Ottanta attraverso le vicende della banda della Magliana, al centro di ogni traffico illegale di Roma, per ricostruire la storia di un’Italia segreta e inquietante. Da questo romanzo è stato tratto nel 2005 l’omonimo film di Michele Placido e, nel 2008, una serie televisiva prodotta da Sky. Tra le sue opere ricordiamo Minima criminalia, storie di carcerati e carcerieri (1992), Il padre e lo straniero (1997), I giorni dell'ira. Storie di matricidi (1998), scritto assieme a Paolo Crepet, Teneri assassini (2000), Onora il padre. Quarto comandamento (2008), firmato con lo pseudonimo John Giudice e Nelle mani giuste (2007), ideale seguito di Romanzo criminale. 16 Se ne stava rannicchiato fra due auto in sosta e aspettava il prossimo colpo cercando di coprirsi il volto. Erano in quattro. Il piú cattivo era il piccoletto, con uno sfregio di coltello lungo la guancia. Tra un assalto e l’altro scambiava battute al cellulare con la ragazza: la cronaca del pestaggio. Menavano alla cieca, per fortuna. Per loro era un gran divertimento. Pensò che potevano essergli figli. A parte il negro, si capisce. Pischelli sbroccati. Pensò che qualche anno prima, solo a sentire il suo nome, si sarebbero sparati da soli, piuttosto che affrontare la vendetta. Qualche anno prima. Quando i tempi non erano ancora cambiati. Un attimo di fatale distrazione. Lo scarpone chiodato lo prese alla tempia. Scivolò nel buio. - Annamo, - ordinò il piccoletto, - me sa che questo non s’alza più! Ma si alzò, invece. Si alzò che era già buio, con il torace in fiamme e la testa confusa. Poco più avanti c’era una fontanella. Si ripulì del sangue secco e bevve una lunga sorsata d’acqua ferrosa. Era in piedi. Poteva camminare. Per strada, automobili con lo stereo a tutto volume e gruppi di giovani che giocherellavano con il cellulare e schernivano il suo passo sbilenco. Dalle finestre le luci azzurrine di mille televisori. Poco più avanti ancora, una vetrina illuminata. Si considerò nel riflesso del vetro: un uomo piegato, il cappotto strappato e macchiato di sangue, pochi capelli unti, i denti marci. Un vecchio. Ecco cos’era diventato. Passò una sirena. D’istinto si appiattì contro il muro. Ma non cercavano lui. Nessuno più lo cercava. - Io stavo col Libanese! – mormorò, quasi incredulo, come se si fosse appropriato della memoria di un altro. I soldi erano andati, ma i pischelli non s’erano accorti del passaporto e del biglietto. E nemmeno del Rolex cucito in una tasca interna. Troppo presi a spassarsela per frugarlo a dovere! Gli scappò un sorriso. Ne dovevano mangiare ancora di pane duro! Mancavano tre ore all’imbarco. C’era tutto il tempo. Il campo nomadi era a meno di un chilometro. Il primo ad avvistarlo fu il negro. Andò dal piccoletto, che si stava pomiciando la ragazza, e gli disse che era tornato il nonno. - Ma nun era morto? - E che ne so? Qua sta! Lui fendeva senza fretta la piazza, guardandosi intorno con un sorriso da scemo, quasi per scusarsi dell’intrusione. Gli altri pischelli, dopo un’occhiata distratta, tornavano a farsi gli affari propri. Il piccoletto mandò la ragazza a fare un giro e si mise ad aspettarlo a braccia conserte. Il negro e gli altri due, uno altissimo con la faccia butterata, e l’altro grasso e tatuato, gli facevano ala. - Buonasera, - disse, - avete qualcosa che mi appartiene. Lo rivoglio! Il piccoletto si voltò verso gli altri. - Nun gli è bastata! Risero. Lui scosse la testa e cacciò il ferro. - Tutti giù per terra! – disse, secco. Il negro si agitò. Il piccoletto sputò per terra, per niente impressionato. - Sì, mo’ se famo un bel girotondo! Ma a chi vuoi mettere paura, co’ quel giocattolo! Lui osservò con aria contrita la piccola semiautomatica calibro 22 che aveva preso dallo zingaro in cambio del Rolex. - È vero è piccolina... ma saputa usare... Sparò senza prendere la mira, e senza distogliere lo sguardo dal piccoletto. Il negro cadde con un urlo, tenendosi il ginocchio. D’improvviso s’era fatto un gran silenzio. - Andatevene via tutti! – ordinò, senza voltarsi. – Tutti, tranne questi quattro! 17 Il piccoletto agitò le mani, come per placarlo. - Vabbe’, vabbe’, mo’ tutto se risolve... ma tu statte calmo, eh? - Tutti giù per terra, ho detto, ripeté, piano. Il piccoletto e gli altri s’inginocchiarono. Il negro si rotolava in un continuo lamento. - I soldi l’ho dati alla mia ragazza, - piagnucolò il piccoletto, mo’ la chiamo col cellulare e te li faccio portare, eh? - Zitto. Sto pensando... Quanto poteva mancare all’imbarco? Un’ora? Qualcosa di più? In pochi minuti la ragazza poteva raggiungerli. Avrebbe riavuto i suoi soldi. Il Venezuela l’aspettava. Avrebbe stentato un po’ a inserirsi, ma... da quelle parti non doveva poi essere così difficile... sì. Sarebbe stato da saggi ripiegare, a questo punto. Ma quando mai lui era stato saggio? Quando mai tutti loro erano stati saggi? Poi, la paura del piccoletto... l’odore della strada... non era per momenti come questo che tutti loro avevano sempre vissuto? Si chinò sul piccoletto e gli sussurrò all’orecchio il suo nome. Quello prese a tremare. - Hai sentito parlare di me? – gli chiese, in tono dolce. Il piccoletto annuì. Lui sorrise. Posò delicatamente la canna sulla fronte e sparò in mezzo agli occhi. Indifferente ai pianti, al rumore dei passi, alle sirene che s’avvicinavano, gli volse le spalle, e puntata l’arma contro la luna bastarda urlò, con quanto fiato aveva in corpo: - Io stavo col Libanese! ....... 1978, febbraio Accordi I. Satana non aveva torto. Se volevi entrare da protagonista nell’affare della droga, dovevi trovare un qualche accordo coi napoletani. Il che significava passare per Mario il Sardo. L’incontro lo combinò Bufalo, che quando gli andava di ragionare era persino una testa fina. Il garante era Trentadenari, uno di Forcella che in origine stava coi Giuliano. Poi c’era stata una lite con i Licciar- 18 diello, alleati dei Giuliano, e due santisti del clan erano rimasti per terra. Trentadenari s’era rifugiato da Cutolo, che l’aveva accolto a braccia aperte nella Nuova camorra organizzata. Infine, a seguito di componenda a base di trenette con moscardini e pesce cappone all’acqua pazza, il tribunale dei comparielli l’aveva assolto, e ora Trentadenari era considerato, da entrambe le fazioni, un interlocutore attendibile. Non male, per uno che s’era girato due volte, meritandosi il soprannome di Giuda. Trentadenari aveva frequentato il liceo al Genovesi, veniva da una famiglia pulita e si vantava molto delle sue conoscenze e delle sue buone maniere. Era un pezzo d’animale di uno e novanta, arabescato di tatuaggi che – diceva – s’intonavano alle vistose cravatte di Marinella che adorava sfoggiare anche nell’intimità. Con i guadagni della cocaina s’era attrezzato stile Portoghesi un appartamento all’Eur, vicino alla residenza di certi nobili. - ’A principessa è ’na vera signora, - disse, mostrando agli ospiti il verandato che affacciava su un cortile di alte magnolie e siepi italian garden. – Peccato che è comunista. Io proprio questi ricchi che tirano al rosso, non li capisco! Il Libanese aveva annuito, convinto. Era fascista da sempre: per lui la destra si identificava con l’ordine e l’organizzazione. E questo stava tentando di fare con la banda. Imporre l’ordine e l’organizzazione a un branco di indisciplinate teste calde. Il potere deve premiare chi ha le idee più chiare e la forza per affermarle. Mentre Bufalo e Trentadenari si abbracciavano scambiandosi allegri insulti, il Freddo e il Libanese ispezionavano l’ambiente. Tutto sembrava tranquillo. Dandi invece era annichilito dalla magnificenza di casa Trentadenari. Mobili di design, tavolini di vetro, stereo con i diffusori ultramoderni, lo schermo per il cinema, l’immenso salone con i grandi divani... quello sì che era stile! Quella sì che si poteva chiamare vita... Trentadenari lo prese sottobraccio, amichevole. - Ti piace, eh? Se ti dico quanto m’sucato l’architetto... ma si vede la mano del professionista, eh? Metto su un poco di musica... Dalle enormi casse si levò una lugubre litania da chiesa. Bufalo si portò le mani alle orecchie. Il Libanese chiese, ironicamente, se anche i dischi li avesse scelti l’architetto. Trentadenari spiegò ridendo che era la «musica d’ambiente» che usava per rimorchiare psicologhe, giornaliste e qualche avvocatessa. - Pure le avvocatesse? - Chelle so’ ’e cchiú zoccole! Mario il Sardo si fece attendere sino all’imbrunire, quando già cominciavano ad averne abbastanza della musica e della sovrabbondante ilarità di Trentadenari. Si era portato appresso il Ricotta. Il Libanese fu stupito di rivedere un vecchio compare che credeva ormai seppellito di anni di galera. - L’avvocato è stato bravo. M’hanno fatto il cumulo giusto e mo’ sto qua! Mario il Sardo era evaso due mesi prima dal manicomio giudiziario di Aversa approfittando di una licenza d’esperimento. Imputato di tentato omicidio, estorsione e rapina, grazie alla perizia psichiatrica era riuscito a strappare l’infermità mentale. E se l’era guadagnata, non c’era dubbio: alla prima seduta aveva pisciato sulle carte del dottore; la seconda volta quello si era presentato con quattro guardie, e Mario si era chiuso nel piú assoluto mutismo. Durante il terzo incontro, s’era messo a piangere come un bambino chiedendo un ciuccetto e un biberon. Gli accertamenti si erano trascinati per un anno, tra lo sconcerto generale. Alla fine, Mario aveva conquistato la fiducia del cappellano, e per vincere le ultime resistenze dello psichiatra aveva inscenato un finto suicidio a base di strozzamento da ostie consacrate. Morale della favola: clinicamente pazzo, appena un po’ socialmente pericoloso, ma un poco pochino, eh! L’evasione – in teoria un errore, visto che gli mancavano appena tre mesi al riesame della pericolosità – era stata un preciso ordine di Cutolo. Lui e il Professore si erano conosciuti proprio ad Aversa, e tanto il Sardo gli era stato alle costole che alla fine Cutolo si era deciso di battezzarlo, nominandolo capozona su Roma. In qualche modo, nella decisione di Cutolo di rimandare sul territorio il nuovo luogotenente c’entravano anche il Libanese e i suoi: Radio Carcere aveva fatto circolare la notizia che il sequestro Rosellini era opera dei napoletani, e Cutolo aveva disposto indagini in merito. - E invece siete stati voi! - E invece siamo stati noi. - Non è andata male, per gente al primo colpo, - concesse il Sardo. Era quasi senza capelli, piccolo, tozzo, la fronte solcata da un antico sfregio di lama. Comandava il Ricotta a bacchetta, e persino Trentadenari mostrava verso di lui una grande deferenza. Al Libanese stette immediatamente sulle scatole. Impossibile dire cosa ne pensasse l’indecifrabile Freddo. - Abbiamo un po’ di grana da investire e vorremmo combinare con la roba, - spiegò Dandi. - Quanta grana? – chiese secco il Sardo. - Uno, uno e mezzo... - Si può fare. Trentadenari ha aperto un buon canale con i sudamericani. Io vi procuro la coca e vi autorizzo a piazzarla sul mercato, esclusa la zona del Terribile. Prendo il settantacinque per cento sull’utile e il dieci per cento sul capitale d’investimento. Manco il cravattaro di Campo de’ Fiori, pensò d’istinto Dandi. Il Libanese si accarezzava il mento. Il Freddo teneva gli occhi semichiusi. Bufalo sembrava seguire il dialogo sforzandosi di afferrare i passaggi che gli sfuggivano. Trentadenari, finto indifferente, rollava una canna. Ricotta si annodava e snodava una pacchiana cravatta con il sole giallo e la luna nera. - Forse Dandi si è spiegato male, - disse pacato il Libanese, - noi non chiediamo nessuna autorizzazione, e del Terribile non ce ne po’ frega’ de meno. Noi ti stiamo proponendo un affare. Cinquanta e cinquanta dall’inizio alla fine. Tu ci vendi la roba al prezzo che stabiliamo e noi dividiamo l’utile. Su tutta Roma... Il Sardo s’impuzzonì. - Lo sai con chi stai parlando, Libano? - Se non lo sapessimo non saremmo qui, - disse il Freddo, asciutto. Il Sardo lo fissò con una certa meraviglia. Il Freddo, pensò il Libanese, ha qualcosa che si impone. - Facciamo conto che l’affare si fa. Per coprire Roma serve uno sprofondo di gente. Di quanti uomini disponete? - Una quindicina, - si allargò Dandi. - Non bastano. - Altri possiamo trovarli facilmente, - insistette Dandi. - So’ sempre pochi. - Potresti intervenire anche tu, suggerì il Freddo. – Con qualcuno dei tuoi, voglio dire... - Un accordo, insomma. - Te l’avevo detto, mi pare. Il Sardo si rivolse al Libanese. - Come pensi di procedere? - Organizzando la rete per zone. Ogni zona due-tre quartieri. Ogni quartiere un sei-sette formiche e un cavallo a capo. Le formiche rispondono ai cavalli, e i cavalli a noi. Considerando, diciamo, otto zone... - E la concorrenza? - Col Puma si può trovare un accordo. Ci conosciamo da una vita... gli altri sono pesci piccoli... - E il Terribile? - Se ci sta, bene. Sennò... Il Libanese aveva lasciato cadere la frase, ma il senso era difficilmente equivocabile. Il Sardo si grattò lo sfregio. - Chiedete una cosa grossa. A Roma non s’è mai vista una cosa così... - Meglio. Vuol dire che saremo i primi. Noi e voi. Insieme. Ancora il Freddo. Di acciaio deciso. Un capo. - Insieme? Forse. Ma un solo capo. Io. - disse il Sardo. - M’è venuta fame, - azzardò Dandi. Seguì un pausa di silenzio. Bufalo e Trentadenari, scambiandosi un’occhiata, si avviarono all’uscita. Ricotta li seguì. In strada, segni dell’inverno: ragazze in maxi e un cielo nerissimo, con brontolii di tuono. Bufalo e Trentadenari si trascinarono Ricotta in rosticceria, dove ordinarono pollo, patate e pizza per tutti. - Secondo voi si chiude? – domandò Trentadenari. Bufalo allargò le braccia. E disse il Sardo era proprio uno stronzo. - Ma no, Mario è così... vedrai che alla fine si chiude... - Stronzo e gargarozzone, confermò Bufalo. Sulla strada del ritorno, Ricotta li informò che la Cassazione aveva deciso di bruciare l’ultimo libro di Pasolini. Del che non gliene poteva fregare di meno, ma lo lasciarono dire per amicizia. Ricotta, da ragazzino, aveva fatto qualche comparsata a borgata Finocchio. Si diceva che fosse stato Ppp in persona a insegnargli a leggere e a scrivere. Non era diventato un intellettuale, ma appena sgabbiato s’era recato in pellegrinaggio all’Idroscalo, dove quello sciroccato di Pino la Rana aveva massacrato il poeta frocio. Rientrarono giusto in tempo per la fase degli abbracci. Dandi li informò dei termini del patto: cinquanta per cento per tutti, e un cinque al Sardo cash per «l’impegno del nome e la garanzia della riuscita dell’accordo». Gli incassi li avrebbero gestiti fifty-fifty. Trentadenari e Dandi, come dire uno per gruppo. Circa la questione del capo, s’era raggiunto un compromesso: avrebbero proposto insieme al Puma di assumere il ruolo di garante sopra le parti. Va da sé che il Sardo era convinto di essere comunque il numero uno. Il primo carico di coca sarebbe arrivato da lì a quindici giorni via Buenos Aires. Affare fatto, dunque. Nell’osservare il modo in cui il Libanese, il Freddo e Dandi si scambiavano occhiate alle spalle del Sardo, Bufalo capì che non sarebbe durato a lungo. - Damme retta, - sussurrò al Ricotta, - lascialo perde’ quello. Te sei uno de noantri. 19 Giorgio Faletti Un DJ di Radio Monte Carlo riceve, durante la sua trasmissione notturna, una telefonata delirante. Uno sconosciuto, dalla voce artefatta, rivela di essere un assassino. Il fatto viene archiviato come uno scherzo di pessimo gusto. Il giorno dopo un pilota di Formula Uno e la sua compagna vengono trovati morti ed orrendamente mutilati sulla loro barca. Inizia una serie di delitti, preceduti ogni volta da una telefonata con un indizio sulla prossima vittima, ed ogni volta sottolineati da una scritta tracciata col sangue, che è nello stesso tempo una firma e una provocazione: io uccido… Per Frank Ottobre, agente dell’FBI e Nicolas Hulot, commissario della Sûreté publique, inizia la caccia ad un fantasma inafferrabile. Alle loro spalle una serie di rivelazioni che portano poco per volta a sospettare che, di tutti, il meno colpevole sia forse proprio lui, l’assassino. Di fronte a loro un agghiacciante dato statistico. Non c’è mai stato un serial-killer nel Principato di Monaco. Adesso c’è. Io uccido Capitolo II Giorgio Faletti è nato ad Asti e risiede attualmente all’Isola d’Elba. Laureato in giurisprudenza, ha iniziato la sua carriera artistica negli anni Settanta. Artista poliedrico, non ha mai smesso di dare prova della sua capacità di spaziare da un campo artistico all’altro. Come comico ha creato una serie di personaggi indimenticabili, protagonisti di alcuni fortunati programmi televisivi italiani. Anche come musicista e compositore ha ottenuto negli anni numerosi consensi. Nel 1994, con la canzone Signor Tenente, si è aggiudicato il secondo posto e il Premio della Critica al Festival di Sanremo. Sono nate in seguito le collaborazioni con alcuni grandi artisti della musica leggera italiana: ha scritto canzoni per Mina, Milva, Gigliola Cinquetti e Angelo Branduardi. Il 2002 ha segnato il suo esordio in campo letterario con il romanzo noir Io uccido, che è balzato immediatamente al vertice delle classifiche italiane con oltre 3.500.000 di copie vendute, diventando uno dei più clamorosi successi editoriali degli ultimi anni. Nel 2004 è uscito Niente di vero tranne gli occhi che ne conferma il talento letterario, e nel 2006 è stato pubblicato Fuori da un evidente destino, ambientato in Arizona e dedicato agli indiani Navajos. Nel 2008 è stata pubblicata la sua prima raccolta di racconti, Pochi inutili nascondigli, e nel 2009 è uscito il suo quarto romanzo, Io sono Dio. Nel frattempo ha proseguito la sua carriera di attore: nel 2006 ha recitato in Notte prima degli esami di Fausto Brizzi e nel 2007 in Cemento armato di Marco Martani. I suoi libri sono stati tradotti in venticinque lingue e pubblicati con grande successo, oltre che in tutta Europa, anche in Sud America, in Cina, in Giappone, in Russia, negli Stati Uniti e nei Paesi di lingua anglosassone. Nel novembre del 2005 Giorgio Faletti ha ricevuto dal Presidente della Repubblica il Premio De Sica per la Letteratura. 20 Jean-Loup, attraverso la grande vetrata della cabina di regia, stava osservando la città e i suoi giochi di luce che si riflettevano sull’acqua immobile del porto. Sopra, avvolta nell’oscurità, la presenza protettiva del Mont Agel sulla cui cima, segnalato da una serie di luci rosse, c’era il ripetitore della radio, quello che permetteva loro di raggiungere e coprire l’Italia. La voce di Laurent gli arrivò alle spalle, uscendo dall’interfono. - Pausa finita, si torna al lavoro. Senza curarsi di rispondere, il dee-jay si staccò dalla finestra e tornò in postazione. Si mise le cuffie e si sedette davanti al microfono. Laurent, attraverso il vetro della cabina di regia, mostrò a Jean-Loup la mano aperta per indicargli che mancavano cinque secondi alla fine della serie di spot pubblicitari. Laurent mandò in onda il breve jingle di Voices, per sottolineare il ritorno della trasmissione. Era stata, almeno fino a quel momento, una puntata di tutto di riposo, anche molto divertente a tratti, senza il connotato dolente che qualche volta erano chiamati a supportare. - Jean-Loup Verdier, ancora. Ancora Voices, da Radio Monte Carlo, sperando che in questa bella notte di maggio non ci siano persone che abbiano bisogno del nostro aiuto, ma solo della nostra musica. Mi hanno appena fatto segno che c’è una telefonata. Infatti, la luce rossa in alto sulla parete si era accesa e Laurent aveva puntato verso di lui l’indice della mano destra, per confermargli che c’era una chiamata in linea. Jean-Loup si appoggiò con i gomiti sul piano del tavolo e si rivolse al microfono che aveva davanti. - Pronto? Ci furono un paio di scariche e poi silenzio. Jean-Loup alzò la testa e guardò Laurent inarcando le sopracciglia. Il regista si strinse nelle spalle a indicare che il problema non veniva da loro. - Sì, pronto? Finalmente la risposta arrivò attraverso l’aria e nell’aria la radio la rimandò e divenne di tutti. Prese posto nelle casse di diffusione della regia e nella loro mente e nella loro vita. Da quel momento in poi e per tanto tempo il buio sarebbe diventato un po’ più buio e sarebbe servito molto rumore per coprire tutto quel silenzio. - Ciao, Jean-Loup. C’era qualcosa di innaturale nel suono di quella voce. Sembrava intubata ed era stranamente piatta, senza espressione e senza colore. Le parole avevano la scia di un’eco soffocata, come un lontano aereo in partenza. Di nuovo Jean-Loup guardò interrogativamente Laurent, che usò ancora l’indice della mano destra, descrivendo dei brevi cerchi in aria, per indicare che la distorsione dipendeva dalla comunicazione. - Ciao. Chi sei? Ci fu un istante di esitazione dall’altro capo del filo. Poi la risposta quasi soffiata nel suo innaturale riverbero. - Non ha importanza. Io sono uno e nessuno. - La tua voce è disturbata, si sente male. Da dove chiami? Pausa. La leggera scia di un aereo diretto chissà dove. L’interlocutore rilevò l’appunto di Jean-Loup. - Anche questo non ha importanza. L’unica cosa che conta 21 è che è arrivato il momento di parlarci, anche se questo vuol dire che dopo né tu é io saremo più gli stessi. - In che senso? - Io sarò presto un uomo inseguito e tu starai dalla parte dei cani abbaianti che daranno la caccia alle ombre. È un peccato, perché adesso, in questo preciso momento, tu e io siamo uguali, siamo la stessa cosa. - In cosa siamo uguali? - Per il mondo siamo tutti e due una voce senza volto, da ascoltare con gli occhi chiusi, immaginando. Là fuori è pieno di gente occupata solo a procurarsi una faccia da mostrare con orgoglio, a costruirsene una che sia diversa da tutte le altre, senza nessuna preoccupazione all’infuori di quella. È il momento di uscire e andare a vedere cosa c’è dietro... - Non capisco cosa vuoi dire. Ancora una pausa, lunga abbastanza da far sembrare caduta la comunicazione. Poi la voce ritornò e qualcuno fra di loro ebbe l’impressione di sentirci l’impronta di un sorriso. - Capirai, nel tempo. - Non riesco a seguire i tuoi ragionamenti. Ci fu una leggera pausa, come se l’uomo, all’altro capo del filo, stesse studiando le parole. - Non fartene un problema. A volte è difficile anche per me. - E allora perché hai chiamato, perché stai qui a parlare con me? - Perché io sono solo. Jean-Loup chinò la testa sul tavolo e se la strinse fra le mani. - Parli come un uomo che sta chiuso in una prigione. - Tutti siamo chiusi in una prigione. La mia me la sono costruita da solo, ma non per questo è più facile uscirne. - Mi spiace per te. Credo di intuire che non ami la gente. - Tu la ami? 22 - Non sempre. A volte cerco di capirla e quando non ci riesco cerco almeno di non giudicarla. - Anche in questo siamo uguali. L’unica cosa che ci fa differenti è che tu, quando hai finito di parlare con loro, hai la possibilità di sentirti stanco. Puoi andare a casa e spegnere la tua mente e ogni sua malattia. Io no. Io di notte non posso dormire, perché il mio male non riposa mai. - E allora tu che cosa fai, di notte, per curare il tuo male? Jean-Loup incalzò leggermente il suo interlocutore. La risposta si fece attendere e fu come se un oggetto avvolto in diversi strati di carta prendesse lentamente la luce. - Io uccido... - Che signif... La voce di Jean-Loup fu interrotta da una musica che uscì dalle casse. Era un brano arioso, malinconico, dalla melodia coinvolgente, eppure, dopo quelle ultime due parole, parve diffondersi nell’aria come una minaccia. Durò in tutto una decina di secondi, poi, di colpo com’era arrivata, la musica si spense. Nel silenzio di colla che seguì, tutti udirono distintamente il click della comunicazione interrotta. Jean-Loup alzò di scatto la testa verso gli altri. Nella stanza, il fruscio fresco del condizionatore e il gelo dei loro pensieri, eppure fu come se tutti, contemporaneamente, si fossero girati a guardare verso il bagliore accecante di Sodoma e Gomorra in fiamme. Dopo quell’episodio, riuscirono in qualche modo a trascinare la trasmissione fino al momento di lanciare la sigla. Non c’erano state più telefonate da parte del pubblico. O meglio, dopo la strana chiamata, il centralino era stato intasato di telefonate, ma nessuna era stata mandata in onda. Jean-Loup si tolse le cuffie e le appoggiò sul tavolo, accanto al microfono. Si accorse che quella sera, nonostante il condizionatore, aveva i capelli sudati, come dopo una leggera corsa. Né tu né io saremo più gli stessi. Per tutto il tempo residuo aveva passato solo musica, dilungandosi a puntualizzare la strana analogia fra Tom Waits e l’italiano Paolo Conte, entrambi atipici come interpreti ed estremamente significativi come autori. Tradusse i testi di due loro canzoni e ne sottolineò l’importanza. Fortunatamente avevano anche diverse scappatoie per le serate disperate, e quella senza dubbio lo era. C’erano alcuni numeri di telefono di riserva a cui appoggiarsi quando la trasmissione non riusciva a decollare. Chiamarono alcuni artisti amici pregandoli di intervenire e passarono un quarto d’ora in compagnia della poesia e dell’umorismo di Francis Cabrel. La porta di comunicazione si aprí e la testa di Laurent fece capolino tra gli stipiti. - Tutto bene, Jean-Loup? Jean-Loup lo guardò come se non lo vedesse. - Sì, tutto bene. Si alzò e insieme uscirono dallo studio, incrociando gli sguardi perplessi e in qualche modo sfuggenti di Barbara e di Jacques, il fonico. La ragazza indossava una camicietta azzurra e Jean-Loup notò che aveva due larghe chiazze di sudore sotto le ascelle. - C’è stato un casino di telefonate. Due hanno chiesto se era un giallo a puntate e quando andava in onda la prossima, poi almeno una dozzina di persone sdegnate per i mezzucci a cui siamo costretti a ricorrere per aumentare l’ascolto. Ha chiamato anche il boss ed è arrivato come un falco. È già nell’ufficio del presidente che ci aspetta. Ci è cascato anche lui e ci ha chiesto se siamo impazziti. Sembra che uno degli sponsor gli abbia telefonato subito e non credo fosse una telefonata di congratulazioni. Jean-Loup immaginava la stanza, se possibile, ancora più intasata del fumo delle sue sigarette, e un discorso leggermente meno entusiasta di quello che gli aveva fatto prima della trasmissione. - Come mai il centralino non ha filtrato la chiamata? - Mi venga un colpo se riesco a capire che cosa è successo. Raquel dice che la telefonata non è passata attraverso di lei. Per un motivo che non sa spiegare è arrivata direttamente sulla linea dello studio. Ci dev’essere stato un contatto o che so io. Per me è il nuovo centralino elettronico che inizia a lottare con l’autocoscienza. Vedrai che un giorno o l’altro ci troviamo tutti a combattere con le macchine, come in Terminator. Uscirono dalla regia uno di fianco all’altro, diretti verso l’ufficio di Bikjalo, senza avere il coraggio di guardarsi in faccia. Fra di loro la sottile intercapedine di quelle due parole. Io uccido... Passarono davanti alla postazione dei computer, perplessi. Il suono angosciante di quella voce pareva ancora aleggiare nell’aria. - E quella musica finale? A me sembra di conoscerla... - Anche a me. Se non sbaglio è una colonna sonora. Mi sembra che sia Un uomo, una donna, un vecchio film di Lelouch. Roma del ’66 o giù di lì. - E che significa? - A me lo chiedi? Jean-Loup pareva interdetto. Avevano davanti un fatto assolutamente nuovo, che non riuscivano a classificare nelle precedenti esperienze radiofoniche. A livello emozionale, soprattutto. - Tu che ne pensi? - Tutte sciocchezze. Laurent accompagnò le parole con un gesto noncurante della mano, ma nonostante ciò sembrava avesse parlato più per il desiderio di convincere se stesso che di convincere l’altro. - Dici? - Ma sì, centralino a parte, credo sia soltanto lo scherzo di pessimo gusto di un idiota. Si fermarono davanti alla porta dell’ufficio di Bikjalo e JeanLoup impugnò la maniglia. Finalmente si guardarono in faccia. Laurent sottilineò il suo pensiero. - Sarà soltanto una cosa strana da raccontare allo Sporting e di cui riderci sopra. L’espressione di Laurent, tuttavia, era quella di chi non è completamente convinto di quello che sta dicendo. Jean-Loup spinse la porta e, mentre entravano nell’ufficio del direttore, si chiese se quella telefonata fosse una promessa o una scommessa. 23 In una città della Cina, un assassino colpisce le donne in totale impunità. Per lungo tempo i suoi crimini sembrano essere avvolti nel mistero. Ma poco a poco grazie alle deduzioni e all’intuito di Pu Ke, il commissario incaricato del caso, gli indizi combaciano e i sospetti si concentrano su un unico responsabile. Ognuno porta in sé un segreto, un’ombra inconfessata, la chiave che apre la porta sull’orrore. L’ombra Capitolo I Feng Hua Nel 2000 ha lasciato la carriera militare per diventare scrittrice. Il suo primo romanzo L’ombra (Ru ying sui xing) scritto a 28 anni, ha introdotto il personaggio dell’investigatore Pu Ke. Tra i suoi lavori più importanti Fiori di nebbia (Mili zhi hua) e Impossibile fermarsi (Yu ba bu neng). Con accurate descrizioni del processo investigativo e della verifica delle prove, e un’approfondita analisi del psicologia criminale, i romanzi di Feng Hua hanno assunto un ruolo significativo nella storia del thriller psicologico in Cina. L’ombra è stato tradotto e pubblicato in Francia con il titolo Seul demeure son perfume, Philippe Picquier 2009. 24 Mi Duo e Pu Ke si erano conosciuti a una festa di amici. Da due mesi, lei aveva lasciato l’ospedale e, salvo qualche sporadica uscita solitaria per vedere un film, passava il tempo in casa a leggere e ascoltare musica. Quel sabato si erano riuniti per salutare un conoscente che andava a vivere all’estero e lei era stata coinvolta, suo malgrado. Gli invitati erano un gruppo eterogeneo, in pochi si conoscevano già, la maggior parte erano amici degli amici; dopo le solite presentazioni e qualche scambio di cordialità, Mi Duo cominciava ad annoiarsi e si era seduta su un divano in un angolo a sfogliare riviste. In quel momento, un suo amico si avvicinò in compagnia di uno sconosciuto. Lei si alzò in piedi e gli strinse la mano. Pu Ke lavorava nel sesto dipartimento di polizia. Mentre l’amico la presentava come un medico dell’ospedale provinciale del popolo, lei lo interruppe: “Non lavoro più lì”. Sorpreso, lui chiese spiegazioni ma lei tagliò corto: “Ne parliamo un’altra volta”. Passò a occuparsi di Pu Ke che sorrideva, fissandola in silenzio. Chissà perché aveva la vaga sensazione di averlo già conosciuto. Si scambiarono qualche parola, poi l’amico se ne andò lasciandoli soli. Mi Duo, curiosa, disse a Pu Ke: “Non hai l’aria di un poliziotto”. Lui aveva l’incarnato chiaro, era alto, magro e dai modi eleganti, sembrava un “colletto bianco” in una grossa impresa o un segretario di un ufficio statale. Invece lavorava nella polizia investigativa e si occupava di casi criminali. Lui sorrise: “Neppure tu corrispondi alla mia idea del medico”. “E quale sarebbe?” “Espressione piatta, sguardo freddo, totale mancanza di curiosità”. Mi Duo scoppiò a ridere: “E io che non sapevo perché avevo lasciato l’ospedale, si trattava di eccesso di curiosità”. Ora, pensò lei, sembra un poliziotto. Gli era bastato un’attimo per intuire l’interesse di Mi Duo. Lui le chiese: “Non ti piaceva fare il medico?” Lei scosse la testa, forse per negare o semplicemente perché non sapeva come rispondere alla domanda. In quei giorni era sempre un po’ depressa, le cose non erano migliorate lasciando l’ospedale, come aveva sperato. A volte le era venuta voglia di parlarne con qualcuno, ma non le risultava facile entrare in argomento e ogni tentativo l’aveva lasciata con un senso di delusione, nei confronti dell’interlocutore e di se stessa. Ora, stranamente, provava il desiderio di confidarsi con quel perfetto sconosciuto che la osservava tranquillo, intento senza essere pressante, che aveva una voce limpida e piacevole dal tono misurato e sembrava essere totalmente a suo agio. Mi Duo sospirò abbassando la testa, poi guardò Pu Ke e disse: “Sto cercando di capirlo anch’io, all’inizio ho deciso di studiare medicina e ora di lasciare l’ospedale, ma non saprei dire quali siano i veri motivi di queste scelte”. Fece una pausa di alcuni minuti, mentre Pu Ke la guardava gentile, in silenzio. Poi continuò: “Quando ho iniziato a studiare medicina ero terrorizzata, il corpo umano mi sembrava un enorme meccanismo complicato, un mondo a parte. Divenni poi molto fiera di poter modificare, influire su questo universo con il mio bisturi. Dopo c’è stato qualcosa, ma non saprei descriverlo in due parole. Ho scoperto poco a poco che il corpo, per quanto complesso, ha i suoi limiti mentre è l’universo della mente a essere infinito. Ma non è stato questo mutamento di interesse a spingermi a lasciare l’ospedale, non saprei dire, forse dovrei collegarlo a quello che è 25 accaduto”. Si accorse che stava diventando incoerente e ammutolì. Pu Ke disse: “Ora sono io a essere curioso”. Mi Duo chiese sorridendo: “A cosa ti riferisci?” Pu Ke le spiegò, serio: “Prima di una decisione importante c’è sempre un processo graduale, progressivo. Al momento cruciale, però è una scintilla a scatenare il tutto. Mi diresti quale è stata la tua scintilla?” Mi Duo ridendo, gli rispose: “Un poliziotto sa sempre come estorcere una confessione. Voglio raccontartelo perché ha qualcosa a che fare con il tuo mestiere”. D’un tratto le luci si abbassarono, si diffuse una musica dolce e alcune coppie iniziarono a ballare. Quelli che non ballavano si fecero da parte mettendosi a sedere. Mi Duo e Pu Ke si guardarono ridendo, un po’ in imbarazzo. Erano in piedi, uno di fronte all’altra. Per fortuna Pu Ke non fece il gesto, perchè a Mi Duo non piaceva ballare; dopo un breve silenzio, lei gli chiese: “Vuoi che continui?” “Certo, - rispose lui, - ma andiamo sul balcone, è più tranquillo”. Lei stava pensando la stessa cosa ma non l’aveva detto, il suggerimento di lui la fece trasalire involontariamente. Poi annuì e insieme uscirono all’aperto. L’appartamento era nella parte alta di un palazzo di ventiquattro piani, soffiava una forte brezza a rinfrescare la torrida serata estiva. Mi Duo respirò profondamente: “Che piacere”. Non amava le stanze chiuse e gli ambienti climatizzati, in casa aveva il condizionatore ma non lo accendeva mai, preferiva sudare e rinfrescarsi ogni volta con una doccia. Vide la luna piena, velata appena da nuvole leggere che ne addolcivano la luce, nelle orecchie sentiva il fischio del vento. Sotto di lei scintillava una distesa di luci multicolori. Tutto questo le donò 26 una sensazione familiare ed estranea al tempo stesso, o forse era stato il suo umore in quella notte a tingere il mondo di sentimento. Senza sapere come, iniziò a raccontare l’episodio che l’aveva suggestionata. Una domenica di tre anni prima, Mi Duo era di turno in ospedale. Dal pronto soccorso portarono un paziente in condizioni critiche, era stato pugnalato alla milza e al rene sinistro, aveva perso molto sangue e al suo arrivo la pressione sanguigna era scesa quasi a zero. Mi Duo e un altro medico si misero insieme al tavolo operatorio per le prime cure di emergenza e, dopo aver tagliato gli abiti del paziente, si accorsero che aveva decine di ferite da taglio, più o meno profonde, in varie parti del corpo. Era la prima volta che lei vedeva qualcuno ridotto in quello stato, l’altro medico aveva la sua età e ancor meno esperienza e per un attimo i due furono presi dal panico. Poi Mi Duo riacquistò il controllo e si dedicò alle ferite più gravi alla milza e al rene, mentre il collega pensava alle altre. Dopo dodici ore e mezza la milza era riparata, il rene asportato e sul corpo del paziente c’erano centosessantatre punti di sutura. Durante l’operazione Mi Duo, salvo una visita in gabinetto, non aveva neppure perso tempo a battere le ciglia. Alla fine, per un lungo momento, era stata incapace di muovere un passo, davanti ai suoi occhi si stendeva una cortina rosso sangue; un profondo sfinimento nell’anima e nel corpo che forse non avrebbe dimenticato per tutta la vita. Poi, dedicò uno sguardo al volto del paziente che non aveva fatto in tempo a vedere fino a quel momento. Era un ragazzo di vent’anni dal viso infantile, le fattezze delicate e l’incarnato pallido, sembrava impossibile che qualcuno avesse voluto fargli del male. Mi Duo non conosceva i particolari, ma a vedere quel gio- vane sdraiato in un letto d’ospedale, fragile e indifeso, aveva provato una pena indescrivibile come per un fratellino, e dire che lei era la più piccola di casa. Più tardi aveva saputo dai poliziotti incaricati delle indagini che si chiamava Zuo Xiaobing, all’età di dodici anni era stato dato in affidamento al padre dopo il divorzio dei genitori. La madre si era sposata di nuovo, era andata a vivere in un’altra provincia e lui non l’aveva più rivista. Quando il padre aveva ripreso moglie, lui era tornato a vivere con la nonna materna, che si era occupata di lui da piccolo. In famiglia la situazione economica era precaria e non aveva finito le superiori, per un po’ aveva venduto giornali, poi fatto trasporti con un carretto a tre ruote, alla fine aveva messo su una bancarella di frutta. Lavorava dalla mattina alla sera, la merce era di buona qualità e i prezzi erano onesti, chi era a conoscenza della situazione provava pena per lui e gli comprava la roba. Con l’andar del tempo, un mercante che per anni aveva avuto un banco nella zona si era infastidito e aveva chiesto a un gruppo di teppisti di cacciarlo via. Zuo Xiaobing era testardo, si era rifiutato di andarsene e aveva risposto per le rime a quei balordi che, infuriati, gliel’avevano fatta pagare. Durante la sua degenza, Mi Duo gli aveva prodigato tutte le cure possibili. E lui ormai la considerava una sorella, anche se per rispetto la chiamava dottoressa Mi. Quando le sue condizioni si furono stabilizzate, venne dimesso dall’ospedale. Il fruttivendolo pagò le sue spese mediche e qualcosa come risarcimento ma, chissà come, riuscì a evitare le sanzioni penali. La nonna accusò il colpo e per il dolore, la pena e la rabbia si ammalò e morì poco dopo. Da quel giorno del ragazzo non si ebbero più notizie. Mi Duo cercò di informarsi ma senza successo. Erano passati ormai alcuni anni e Mi Duo non ricordava neanche più che aspetto avesse, rimaneva soltanto la memoria delle ferite che gli costellavano il corpo e del pallore inerme di quel viso nel letto d’ospedale. Circa quattro mesi prima, il suo ospedale aveva preso accordi con chi di dovere per il prelievo degli organi di due condannati a morte. Se ne sarebbero dovuti occupare due medici del reparto di nefrologia, ma all’ultimo momento uno dei due non aveva potuto, e l’altro medico che conosceva Mi Duo e sapeva che non aveva impegni urgenti, aveva chiesto di portarla con sé. Quando giunsero al luogo dell’esecuzione, i condannati erano appena arrivati, i due medici mostrarono le loro autorizzazioni, indossarono le mascherine e salirono sul camion per fare l’iniezione che serviva a ritardare la coagulazione del sangue e a conservare in vita gli organi che dovevano essere espiantati. Mi Duo ebbe una sensazione strana, faceva il medico da anni ed era abituata al sangue e alla morte ma nell’ambito dell’ospedale, lì era diverso. Mentre iniettava uno dei detenuti, lei senza volerlo lo guardò in viso e rimase sconvolta. Era scarmigliato e aveva il volto cereo e coperto di lividi ma Mi Duo lo riconobbe all’istante, era Zuo Xiaobing il ragazzo che con tutte le sue forze aveva strappato agli artigli della morte! Nella sua mente già si confondevano i ricordi di ciò che accadde poi. Le sembrava di ricordare che si era tolta la mascherina e aveva fissato Zuo Xiaobing con gli occhi sgranati. Lui l’aveva riconosciuta, i suoi occhi dallo sguardo vuoto si erano illuminati di un bagliore che si era spento subito dopo. Mi Duo aveva aperto bocca senza dire nulla, anche Zuo Xiaobing stava per parlare ma si fermò. Alla fine, in silenzio lei meccanicamente gli fece l’iniezione, mentre una tempesta di pensieri le agitava la mente. Dopo dieci minuti, le guardie fecero scendere i condannati dal camion, in quel momento Zuo Xiaobing si voltò a guardare Mi Duo, nei suoi occhi lesse il dolore, la disperazione e forse un’ombra di vergogna. L’esecuzione terminò rapidamente. I medici dovevano estrarre i reni e i bulbi oculari, Mi Duo intenzionalmente evitò il cadavere di Zuo Xiaobing, non aveva il coraggio di avvicinarsi a quel corpo che aveva lottato così tanto per salvare e che ora giaceva senza vita. L’altro medico disse, ad un tratto: “A quest’uomo manca un rene”. Davanti agli occhi offuscati di Mi Duo riapparve la cortina color sangue di tre anni prima. “Ecco la scintilla a cui ti riferivi. – Disse Mi Duo fissando la volta stellata in lontananza. – Avrei voluto sapere di cosa era colpevole ma mi sono sempre imposta di non chiederlo, come se la cosa non mi riguardasse. Ma dopo quell’episodio non sono più riuscita a concentrarmi sul lavoro. Ogni volta che ero al tavolo operatorio dubitavo di quello che stavo facendo e mi chiedevo se, dopotutto, avesse un senso. Lo so che forse stavo esagerando, ma a quel punto non ero più capace di controllare il mio umore. C’erano anche altri problemi che mi angustiavano e alla fine decisi di andarmene”. Durante tutto il discorso Pu Ke non aveva detto una parola, c’era stato soltanto un lieve cenno di assenso quando lei aveva nominato Zuo Xiaobing. Cadde il silenzio, Mi Duo si voltò e vide che lui la guardava con la tristezza negli occhi. Sentì muoversi qualcosa in fondo al cuore. Era come se quell’uomo di poche parole dall’espressione tranquilla avesse risvegliato in lei sensazioni a lungo sopite, una capacità di reagire agli eventi, di essere attratta dalla vita e dai fenomeni della natura, la voglia di riflettere e analizzare a fondo le ragioni dell’esistenza. In un tono che non rivelava alcun intento consolatorio, lui le disse: “Sai, spesso nella vita siamo costretti a fare i conti con errori che non abbiamo commesso”. Fece una pausa rivolgendo lo sguardo verso l’immensità del cielo notturno. “Ora però penso di comprendere cosa hai provato”. Mi Duo e Pu Ke non sapevano a che ora fosse finito il party quella sera. Quando riemersero dalla conversazione, la stanza era vuota e il padrone di casa era già andato a dormire. (traduzione di Patrizia Liberati) PATRIZIA LIBERATI Nata a Roma, si è laureata (BA Hons. in Chinese) alla School of Oriental and African Studies – University of London nel 1990. Ha poi ottenuto un M.A. in letteratura drammatica presso la China Central Academy of Drama. Dal 1995, lavora all’Istituto Italiano di Cultura di Pechino. Ha tradotto Il supplizio del legno di sandalo di Mo Yan (Einaudi Supercoralli, 2005), Servire il popolo di Yan Lianke (Einaudi Stile Libero, 2006) e Le sei reincarnazioni di Ximen Nao di Mo Yan (Einaudi Supercoralli, 2009), per il quale ha vinto il Premio Procida – Isola di Arturo – Elsa Morante 2009. 27 Marcello Fois Il cadavere di un uomo, la schiena crivellata da una scarica di proiettili, viene ritrovato da una volante in un cantiere edile alla periferia di Nuoro, nel cuore duro della Barbagia: è Michele Marongiu, perito chimico, un fratello morto suicida e un altro che continua in qualche modo a tirare avanti. Dura madre si avvia, come ogni noir che si rispetti, con un morto ammazzato. Poi le indagini, affidate alla perizia di due personaggi già noti ai lettori di Fois, il giudice Corona e il maresciallo Pili, più un nuovo arrivato, il commissario Sanuti, forestiero e spaesato. Ma nel momento in cui l'inchiesta comincia, e il giallo decolla, la storia vera e propria si è già consumata, e la verità, che “si fa vedere a pezzi come una spogliarellista poco esperta, un po' goffa”, è sulla bocca di tutti. Dura Madre (quello che il bruco chiama morte…) Marcello Fois è nato a Nuoro e vive a Bologna da molti anni. Laureato in italianistica, è un autore prolifico, non solo in ambito letterario in senso stretto, ma anche nel campo teatrale, radiofonico e della “fiction televisiva”. Ha esordito con Ferro recente nel 1992, raccontando una storia piena di nodi da sciogliere e di contraddizioni. Ha vinto il premio Calvino con Picta, il premio Dessy con Nulla. Nel 1998, è uscito Sempre caro, vincitore del premio Scerbanenco, primo romanzo di una trilogia, proseguita con Sangue dal cielo e L'altro mondo, ambientata nella Nuoro di fine Ottocento e che ha come protagonista un avvocato, Bustianu, personaggio per cui Fois si è ispirato ad un avvocato e poeta nuorese realmente esistito. Questo romanzo, forse il suo più grande successo, è stato tradotto in ben venti lingue. Con Dura madre, terzo volume della serie noir che comprende Ferro recente e Meglio Morti (tutti pubblicati da Einaudi), ha invece vinto nel 2002 il Premio Fedeli. Nel 2007, con Memoria del vuoto, ha vinto il Premio Super Grinzane Cavour per la narrativa italiana, il Premio Volponi e il Premio Alassio 100 libri. 28 - Allora lo mandiamo? – aveva chiesto Costantino. – Vado alle poste e faccio un bel pacchetto, lo faccio da solo, mica devi venirci anche tu, - aveva annunciato proprio quando Dio si stava divertendo col tramonto. – Si diverte col tramonto, - commentò infatti. Raffaele l’aveva guardato, poi si era girato verso l’ultima striscia d’azzurro porcellanoso del cielo: c’era anche una bava di nubi. Così scosse la testa come per dire che non era poi un gran divertimento. Costantino succhiò una sigaretta fino a che non sentì il sapore acre del filtro. – Allora? – chiese. - Non lo so, - prese tempo Raffaele. - Nessun problema, - si affrettò a rispondere Costantino, - amici come prima. – E lanciò una cicca oltre la ringhiera, giù nella vallata panoramica. – Lo faccio da solo. - Non è vigliaccheria, - tentò Raffaele. – Forse è meglio aspettare. Costantino sembrava più assorto che mai a cogliere il momento esatto in cui si sarebbe passati dalla luce al buio. – Certo che è una bella fregatura, - disse come parlando a se stesso. Raffaele non si voltò nemmeno. – Una bella fregatura, - ripeté. Restarono in silenzio ad assaporare le stelle che cominciavano a spuntare e le luci di Oliena che facevano pulsare l’oscurità della vallata. - È pericoloso, quella è roba delicata, - commentò Raffaele prendendosi da fumare. La fiamma dell’accendino gli illuminò di netto il profilo, mettendo in evidenza la punta traslucida del naso. - Chi lo sa se è pericoloso, - si limitò a dire Costantino. - Io lo so, cazzo, non è mica una passeggiata al corso, mio fratello ci ha rimesso la pelle per quella roba! - Be’, ci ha rimesso la pelle perché non ha fatto la cosa giusta, ecco perché. – La voce di Costantino esprimeva un’insistenza piatta, quasi senza nerbo. - Tu la fai troppo facile, - si lamentò Raffaele. Costantino sorrise allungando una mano per dare due tiri alla sua sigaretta. – Lo so cosa vuoi dire, ma se non rischi non becchi un accidente, sono stufo di aspettare. - Aspettare cosa, poi, - si chiese Raffaele porgendogli la sigaretta. – Certo questo fa incazzare. - Lo vedi che ho ragione? Anche la magia del paesaggio stava scomparendo come un film visto troppe volte. - Prima mi dico che bisogna rassegnarsi, poi guardo le cose come stanno: ho già vent’anni, cazzo! Mi piacerebbe pagare una pizza a una ragazza, portarla su una moto come si deve, eh! - Pagare una pizza...- ripeté Raffaele con un tono che lasciava intendere che non si sarebbe limitato a quello. - Proprio così, cosa ti credi, che sono un maniaco sessuale come te? - A volte mi sembra di impazzire, mi sembra proprio che non ce la faccio, - convenne Raffaele. - C’è sempre questa, - disse Costatino alzando la mano destra. - Merda, ho una fame che crepo, - disse Raffaele. Si erano seduti su una panchina coperta di scritte: Efisio di Irgoli bonazzooo!!! Maria G. Figa! Marco è froscio! Gary ti amo!! Rosy 84 è finita. Simone fatti i cazzi tuoi! Giovanna se la fa mettere in culo! Ce l’ho lungo trenta centimetri chiamami al... - Tu solo mangiare e scopare, - si limitò a dire Costantino leggendo nel listello della panchina tra le sue gambe aperte che Giusy M. 82 amava Max 80. - Ma quale scopare, - si schermì Raffaele, - per una volta. Se non lo puoi rifare tanto vale non farlo nemmeno una volta, che poi si sta peggio. 29 - Meglio una che niente, - rifletté Costantino. - Meglio niente, - insistette Raffaele. Tirava un po’ di vento. Ora in quell’oscurità sopra le loro teste mulinavano matasse di nubi. – Non andarci, - implorò. – È un’idea del cazzo, - disse. - Merda, ho finito le sigarette, credevo di averne un altro pacchetto, - s’innervosì Costantino aprendosi il giubbotto per tastarne la tasca interna. – Sai cos’è che non sopporto? – continuò cercando di leggere a rovescio la scritta rossa stampata sulla sua maglietta. Raffaele non rispose. Attese. - Non sopporto che se a uno gli capita di nascere in un posto del genere, poi non riesce nemmeno ad andarsene. - Magari vado in Germania da mio zio. Ci andiamo insieme, propose Raffaele. – Anche se le cose stanno andando male anche lì... E poi con mia madre come faccio? - L’abbiamo detto tante di quelle volte, ma il problema resta sempre, - disse Costantino con aria saggia. – I soldi per il viaggio chi ce li dà? - Magari ci chiamano per il cantiere. - E poi? - E poi si parte... Magari. - Qualche volta vivi sulle nuvole, - concluse Costantino. - Che cazzo c’è scritto sulla maglietta? – chiese all’improvviso Raffaele spalancandogli il giubbotto. Costantino cercò ancora di leggere attaccando il mento allo sterno: - Che cazzo ne so, è di mia sorella. - Quello che il bruco chiama morte... – prese a compitare Raffaele sul petto dell’amico. Ma il resto della frase era finita sotto la cintola dei jeans. - Non vuol dire nulla, - concluse Costantino, - robe che compra quella tonta. Ma Raffaele insisteva perché si sfilasse la maglietta dai calzoni. – Non vuol dire niente perché non 30 si vede la fine, - sentenziò. Così Costantino si alzò in piedi per sfilare la maglietta. – Dài, - disse tendendola dall’orlo in modo che Raffaele potesse leggere. - Quello che il bruco chiama morte, gli uomini chiamano farfalla, - lesse Raffaele. – Vedi che qualcosa vuol dire? – constatò con aria soddisfatta. - Se lo dici tu... – commentò Costantino perplesso. - Fammela provare, - chiese Raffaele. - Adesso? – Costantino era sorpreso. Raffaele alzò le spalle. – Eh, prestamela un giro. - E poi chi lo dice a mia sorella? - E cos’è, adesso prendi ordini da tua sorella? - Che c’entra questo, l’ho messa senza nemmeno chiedergliela. - Fammela provare, - ripeté Raffaele. – Chi vuoi che ci veda? Dal viale potevano sembrare due betulle illuminate dalla luna, con quei toraci smilzi di un biancore lattiginoso. - Bel colore, - disse Raffaele allisciandosi la maglietta sul corpo. Sapeva di deodorante spray per le ascelle e anche di una punta di sudore, ma non era un cattivo odore. - Tienitela, se ti piace tanto. Te la regalo, - sussurrò Costantino chiudendosi il giubbotto sul petto nudo. - E tua sorella? - Chi se ne frega. - Non fare il matto, - implorò Raffaele. - Allora se ce la faccio partiamo insieme, - promise Costantino. Raffaele si sporse quanto bastava per dare uno sguardo di sotto. Pensò che in quell’angolo di mondo erano possibili magie. Ce n’erano state a milioni. Cose incredibili: bestiame resuscitato dalla mano di un bambino; raccolti strappati alle cavallette con novene e rosari; verruche guarite con giunchi e sale grosso la notte di San Giovanni; uomini dati per morti che si alzavano dal letto e soffiavano sui ceri della loro camera ardente. Pensò che era arrivato il momento di un’altra magia. Perché quel matto di Costantino li voleva prendere tutti per il culo. I. (il posto, il cadavere) Restava il nome: Sa ’e Marongiu. Che stabiliva, a un tempo, il passato prossimo: un appezzamento appena venduto; il passato remoto: una tanca di oliveti; il presente: un attico e due spazi commerciali al piano terra del palazzo appena costruito; il futuro: benessere di affitti. - Fanno così, - spiegò Salvatore Corona al commissario Sanuti, vendono il terreno in cambio di appartamenti. Il commissario guardò il cadavere. Con quella posizione di cristo in croce, poteva sembrare uno spaventapasseri che fosse stato sradicato dal suolo e buttato a terra. - L’hanno rivoltato, - constatò fissando l’infiorescenza marrone a un metro dalla testa del morto e la pozza di sangue marcio e scuro tra l’ascella e il fianco. – Direi che l’hanno colpito alle spalle, poi l’hanno rigirato. - Troppo sangue per terra e troppo poco sul petto, - corresse il giudice Corona. – Chi gli ha fatto il servizietto non si è preso la briga di rivoltarlo. Sanuti assentì con convinzione. – Sarà il medico legale a stabilirlo, ma per me tra la morte e lo spostamento del corpo è passata almeno mezz’ora. Nel frattempo l’attività intorno al cadavere si era fatta febbrile. Un agente, con un rotolo di nastro di quelli che usano gli operai delle autostrade, si fece largo, scusandosi tra il giudice e il commissario. Altri esaminavano il terreno alla ricerca di elementi significativi. Il fotografo della Scientifica, un tipo corpulento, già sudato alle nove del mattino, faceva scattare la sua macchina puntando l’obiettivo sulle ferite, sulle mani, sul viso dell’uomo abbandonato al suolo. Poi, chiedendo spazio con un gesto da nuotatore, cercava di inquadrare il corpo per intero. - Marongiu Michele, - disse il commissario Sanuti incespicando sul cognome, e sembrava che più che informare il giudice Corona sul nome del morto stesse invitando quest’ultimo a rialzarsi. – Ha le mani sporche di terra, le unghie spezzate, il viso escoriato, - continuò. – Ha cercato di salvarsi arrampicandosi al costone di roccia, - fece notare evidenziando una striscia di sangue che, come la bava di una gigantesca lumaca, partendo dalla macchia scura qualche metro più in alto, aveva seguito il corpo fino a terra. Si trovava, infatti, il cadavere, incuneato tra il piano e la parete rocciosa col mento aderente allo sterno. Ancora sangue si era infilato nelle canalette regolari dello spiazzo straziato dai cingoli delle ruspe. L’area avrebbe presto accolto le fondamenta di un nuovo palazzo. L’agente, col rotolo di nastro a righe bianche e rosse, servendosi anche di ferri di carpentiere era riuscito a recintare un’area abbastanza ampia. Quando arrivò il medico legale era passata un’ora buona dalla segnalazione. Osvaldo Pintus si piantò a poca distanza dal corpo con uno sguardo da critico d’arte che si appresti a fare un’expertise. Guardò i fori d’uscita che avevano bucato la giacca sul petto del morto, poi sollevando la testa fissò la macchia slabbrata sulla parete rocciosa per ritornare, seguendo la scia sanguinolenta, al punto di partenza. - Conosci già il commissario Sanuti? Sostituisce Curreli, - gli chiese Salvatore Corona. Osvaldo Pintus disse di sì senza voltarsi. - Mi hanno fatto fare un giro completo tutto ieri, - spiegò il nuovo arrivato. - Benvenuto, - ironizzò il medico legale. – Chi ben comincia... Salvatore Corona avanzò alle sue spalle. – Crediamo che abbia tentato di scavalcare il costone...provò a dire condividendo la responsabilità di quell’ipotesi col commissario Sanuti, che si era mantenuto a qualche metro di distanza senza guardare da nessuna parte. Osvaldo Pintus agitò la mano destra per farlo tacere. – Niente sangue dalla vita in giù, - disse dopo qualche secondo di silenzio, piegandosi verso il corpo. Proseguì, come parlando solo a se stesso, bisbigliandosi nella mente appunti di lavoro: scarica di pallettoni alla schiena, parrebbe; ergo: aorta recisa, polmoni perforati, seste e settime costole polverizzate, un mare di sangue. Questo si aspettava di trovare Osvaldo Pintus. Che Michele Marongiu avesse cercato scampo tentando di arrampicarsi alla parete rocciosa, alta al massimo tre metri, non c’erano dubbi. Che il corpo fosse “scivolato” a terra, resistendo al contraccolpo degli ultimi secondi di vita, trovandosi col viso a contatto della roccia quando la forza di gravità se lo riprendeva, era chiaro da una serie di elementi. La scarpa sinistra, rimasta attaccata al piede, era sbrecciata in punta come se il poveretto avesse fatto in ginocchio i trenta e passa chilometri del pellegrinaggio francescano da Nuoro a Lula. La similitudine fece sorridere Osvaldo Pintus: la sua figlia minore, proprio il giorno prima, aveva annunciato l’intenzione di partecipare a quel pellegrinaggio col suo gruppo d’amici. “Ci andate così, giusto per fare una gita. Giusto per divertirvi! – si ripeteva come se la figlia fosse ancora lì davanti a lui, con quel suo sorriso pieno d’accondiscendenza. – Se non vi interessa la religione perché non andate a fare una scampagnata da qualche altra parte, dico io!”, si ripeteva... Quando Salvatore Corona gli bussò sulla spalla col dito, Osvaldo Pintus non si voltò nemmeno. Era abituato a passare da un pensiero all’altro senza scomporsi. – Guarda la scarpa, - si limitò a indicare cercando di valutare il grado di rigidità del cadavere. Il sostituto procuratore guardò la scarpa massacrata sulla punta. – Ha tentato di tenersi in piedi, provò a concludere. Il medico legale si voltò: - Ha tentato di scavalcare. Non è morto in questa posizione, questo è chiaro. - Quante ore fa? – chiese il commissario Sanuti. Osvaldo Pintus si grattò la testa, proprio dove si diradavano i capelli. – Proviamo? – chiese rivolto a Salvatore Corona. Lui assentì col capo: - Proviamo. - Io dico che è morto da dieci ore almeno. Il commissario Sanuti fece un rapido calcolo guardando il suo orologio: erano le dieci meno un quarto del mattino. – Poco prima della mezzanotte, - annunciò al termine del suo conteggio mentale. Il medico legale strinse le labbra arcuando le sopracciglia: a sentirla espressa così chiaramente, quell’ipotesi, destinata a restare tale fino all’autopsia, sembrava un azzardo. – Più o meno, - smorzò. – La rigidità è in stato piuttosto avanzato. Chi l’ha trovato? – chiese più per cambiare discorso che per reale interesse. - Volante in ricognizione, - rispose Sanuti. Salvatore Corona strinse le palpebre, per aiutarsi a mettere a fuoco l’intero spazio intorno a lui senza dover ricorrere agli occhiali. – Chi è quello? – chiese indicando un giovanotto che sedeva, la testa fra le mani, sul sedile posteriore di una volante con lo sportello spalancato. - Il fratello della vittima, - rispose Sanuti. 31 Il primo caso dell’avvocato Hong Jun, appena tornato dagli Stati Uniti, riguarda un ergastolano ingiustamente condannato per lo stupro e l’omicidio di una ragazza in una cittadina dello Heilongjiang negli anni Novanta. Attraverso un’accurata analisi degli indizi e alcune fulminanti intuizioni l’avvocato riesce a riparare all’errore giudiziario e a smascherare il vero colpevole. Al suo fianco l’attraente Song Jia, segretamente innamorata del capo, che dovrà anche fare i conti con la ricomparsa di una vecchia fiamma. La donna pazza Capitolo I Un avvocato fuori dagli schemi He Jiahong 32 He Jiahong, di origini mancesi, è nato a Pechino. Specialista di procedura penale e criminologia, insegna all’Università del Popolo di Pechino. La donna pazza (Mursia, 2007) è il suo secondo romanzo. Inquietante e piena di suspense, la scrittura di He Jiahong è ricca di humour e di poesia e traccia il ritratto di una società complessa, articolata e ricca di sfumature. Le sue opere Le mystérieux tableau ancien (Shenmi de guhua), Crimes et délits à la Bourse de Pékin (Gushi muhou de zui’e) e L’énigme de la pierre Oeil-de-Dragon (Longyanshi zhi mi) sono state pubblicate in Francia, Editions de l’Aube. Hong Jun si sedette alla grande scrivania di direzione e gettò uno sguardo intorno a sé, a esaminare la disposizione degli oggetti nella stanza: contro il muro di sinistra erano state collocate due librerie e un’altra scrivania su cui troneggiavano computer e stampante; contro il muro di fronte, un divano e un tavolino basso; a destra, accanto alla porta una fioriera di tartaruga con una pianta di bambù e, appesa al muro, una pittura a olio. Provava una profonda soddisfazione al pensiero che non solo tutto ciò gli permetteva di lavorare in condizioni di gran lunga migliori di quelle che gli erano state offerte negli Stati Uniti, ma per di più ne era lui il proprietario! Sebbene fosse molto alto, Hong Jun non era però robusto. Braccia e gambe sembravano smisuratamente lunghe. La fronte ampia e la capigliatura nera che ricadeva ordinata sul lato destro rivelavano la sua natura intellettuale, e i grandi occhi luminosi regalavano uno sguardo benevolo e comprensivo, per quanto velato di rigore. Pur avendo passato da poco la trentina, si comportava con ogni evidenza in maniera molto saggia e cauta. Fece ruotare la poltroncina per voltarsi verso la finestra, da cui poteva osservare il suolo cosparso di foglie morte. Non gli succedeva da una decina d’anni di essere talmente sfaccendato da potersi abbandonare a ricordi che non avrebbe dimenticato per tutta la vita... Anche allora era la stagione in cui le foglie rosse ricoprivano il terreno. Dopo lo studio serale, Hong Jun accompagnava Xiao Xue ad allenarsi per una corsa ciclistica. Xiao Xue era una bellissima ragazza originaria di Harbin. Era la “doppia campionessa negli sport e negli studi” della facoltà di giurisprudenza. Tra i suoi tre principali spasimanti, Hong Jun non era quello messo meglio: uno di loro, presidente dell’assemblea studentesca, pur non avendo né l’eleganza di Hong Jun, né un viso bello come il suo, era per contro un filosofo nato che ave- va il dono delle lingue; l’altro, capitano della squadra di calcio, pur non avendo la raffinatezza di Hong Jun, aveva però una bellissima voce e dimostrava una generosità e una lealtà naturali. Ciononostante, Hong Jun continuava il suo assiduo corteggiamento. Per conquistare la simpatia della giovane, non esitava a sacrificare parte del suo tempo tanto prezioso per accompagnarla nelle discoteche o sui campi di pallacanestro, luoghi che lui non amava particolarmente. Ciò che Xiao Xue sembrava apprezzare soprattutto in lui erano i suoi modi e la sua cultura, ma l’atteggiamento della ragazza nei confronti dei tre “candidati” non era affatto chiaro. Quasi ogni sera andava ad allenarsi per partecipare alla gara ciclistica interuniversitaria che si sarebbe tenuta a Pechino e aveva bisogno di qualcuno che la accompagnasse agli allenamenti. Sebbene assegnasse il servizio di corvè per lo più a Hong Jun, anche gli altri due si vedevano accordare a volte questa concessione. Hong Jun pedalava, dunque in compagnia di Xiao Xue. Erano arrivati fino alla porta orientale del Palazzo Imperiale d’estate, dopodiché erano risaliti verso 33 nord. Alle dieci di sera passate, le strade erano quasi deserte: il momento ideale per allenarsi! Xiao Xue acquistava velocità e Hong Jun faticava a starle dietro. Stava guardando sfilare a tutta velocità gli enormi tronchi degli alberi e il giallo livido dei lampioni accesi su ciascun lato della strada, oltre tutto non tanto larga, quando all’improvviso aveva sentito Xiao Xue lanciare un grido. In quello stesso istante, aveva scorto qualcosa, una specie di grossa corda tesa attraverso la carreggiata, proprio davanti a loro. Aveva frenato con tutte e due le mani e la forza di inerzia lo aveva proiettato in avanti, mentre la bicicletta era rimasta bloccata di colpo dalla corda. Era stato catapultato in aria prima di ricadere pesantemente sull’asfalto. Il suo primo pensiero era stato per Xiao Xue, caduta a sua volta non lontano da lui: incurante del dolore che sentiva alla spalla sinistra e alla gamba, si era trascinato fino a lei. In quel preciso istante, aveva visto due uomini spuntare da sotto i grandi alberi che costeggiavano la strada. Uno di loro aveva intimato: - Fuori i soldi! E alla svelta! – Al che Hong Jun, vedendo che impugnava un coltello con una lama lunga almeno trenta centimetri, aveva risposto istintivamente: - Siamo studenti, non abbiamo soldi addosso. – Poi aveva aiutato Xiao Xue che cercava di rialzarsi con grande fatica. - Non avete soldi? Allora lasciaci la ragazza come acconto! – I due individui si erano avvicinati e avevano tentato di afferrarla. Hong Jun non si era mai battuto in vita sua, ma in quel momento, e senza capire bene da dove gli arrivasse quell’improvviso coraggio, aveva tirato Xiao Xue dietro di sé, e dopo essersi piegato, aveva afferrato la bicicletta della ragazza, che aveva il vantaggio 34 di essere un modello leggero, e l’aveva agitata nella direzione dei due delinquenti. Quello che li minacciava con il coltello non aveva potuto evitare il colpo: la ruota l’aveva fatto andare a gambe all’aria e il coltello gli era sfuggito di mano. Allora il secondo uomo aveva cercato di fuggire, ma Hong Jun, continuando a sventolare la bicicletta, l’aveva fatto mulinare e aveva gettato quell’energumeno pancia a terra. Hong Jun non era di costituzione molto robusta, ma misurava pur sempre un metro e ottanta! Intimiditi, i due avevano sloggiato alla meno peggio senza aspettare il resto. Mentre tornava in sé, ancora stordita per la caduta e per lo spavento che si era presa, Xiao Xue si era accorta che Hong Jun stava continuando a roteare la bicicletta per aria. – È da un po’ che se ne sono andati! – gli aveva fatto notare. Solo allora lui si era fermato e aveva deposto a terra la bici. Tutto affannato le aveva chiesto: - Se ne sono andati? E già... con bella calma! E tu come stai? Ti sei fatta male? - Non è niente. Presto, andiamocene da qui! Avevano ispezionato le biciclette, e dopo avere constatato che si erano deformati solo i manubri e averli raddrizzati, avevano ripreso il cammino e si erano affrettati a tornare a casa. Solo quando erano rientrati nell’area della residenza universitaria avevano ritrovato la calma. Avevano riposto le bici, ma, dato che non se l’erano sentita di tornare ognuno in camera sua, erano andati a fare un giro nel boschetto attiguo alla residenza. Avevano camminato a fatica, prendendo improvvisamente coscienza dei punti in cui il corpo aveva riportato qualche contusione. Si erano fermati sotto un albero e Hong Jun si era mes- so a ridere di se stesso: - Devo essere sembrato un idiota prima: non mi sono neanche accorto che erano scappati! Lei lo aveva rassicurato affettuosamente: - Niente affatto! Sei stato molto coraggioso al momento opportuno. Non avrei mai creduto che un topo di biblioteca come te potesse rivelarsi altrettanto efficiente quando si trovava con le spalle al muro! - In realtà... è successo perché avevo te accanto. A quel punto i due giovani, in piedi l’uno di fronte all’altra, avevano taciuto. Il vento fresco della sera attenuava il calore dei loro corpi, e la luce bianca dei lampioni faceva scintillare le foglie scure degli alberi... Xiao Xue si era avvicinata, aveva sollevato la testa e lo aveva guardato dritto negli occhi. Con voce dolce aveva pronunciato il suo nome: - Hong Jun... – Lui aveva notato che il suo tono di voce era cambiato e subito aveva capito che l’attimo di felicità che aveva sognato era infine arrivato... Si era chinato verso di lei e aveva baciato le sue labbra dolci e umide... Aveva sentito quasi una scossa elettrica attraversargli il corpo e fargli battere il cuore, ancora più forte che durante la zuffa a colpi di ruota di bicicletta... Chiuse gli occhi e si passò la mano destra tra i capelli dalla fronte alla nuca: un gesto abituale per lui quando rifletteva su un problema, che, a quel che aveva sentito, aveva proprietà massaggianti molto benefiche per la scatola cranica. Nel compierlo, assaporò di nuovo le sensazioni del suo primo bacio, di quelle che si vivono una volta sola nella vita. Sebbene non vedesse Xiao Xue dalla fine degli studi, più di dieci anni prima, non era mai riuscito a dimenticare ciò che aveva provato in quel momento, in qualunque parte del mondo si trovasse. Sono cose che restano incise per sempre nella memoria. All’improvviso gli giunse alle orecchie una voce femminile che diceva: - Capo, il suo caffè. Aprì gli occhi e fece ruotare lentamente la poltroncina per tornare di fronte alla scrivania. Vide, allora, entrare nella stanza una giovane vestita all’ultima moda che gli posò davanti una tazza di caffè aggiungendo: - Stavolta non ho messo lo zucchero! - Grazie, signorina. Tuttavia, per la prossima volta la pregherei di bussare prima di entrare nel mio ufficio! – Il soggiorno prolungato negli Stati Uniti lo aveva portato a considerare il gesto di bussare a una porta, foss’anche aperta, la forma di cortesia per eccellenza. - Oh, me ne sono dimenticata di nuovo! Ma “conoscere i propri punti deboli e porvi rimedio, è già una qualità!” – disse Song Jia precipitandosi verso la porta. Poi, con l’espressione più seria del mondo si mise a bussare chiedendo: - Capo, permette? Hong Jun non poté fare altro che acconsentire con un cenno del capo. Era assolutamente consapevole del perché avesse fatto cadere la sua scelta su Song Jia fin dalla prima occhiata, quando si era trattato di assumere una segretaria: somigliava talmente tanto a Xiao Xue! Stesso colorito chiaro, stesso viso grazioso, persino il naso ben delineato, gli stessi occhi grandi il cui sguardo rivelava uno spirito vivace, stesse sopracciglia sottili e nerissime, e poi, soprattutto, quando sorrideva, quelle due fila di denti immacolati dietro le labbra sottili e quelle due fossettine sulle guance illuminate da una punta di rosso che davano a tutti l’impressione di un mondo inondato di sole! Era stato proprio quel sorrisetto accattivante che quell’anno l’aveva fatta eleggere “Il fiore della scuola” dai compagni... Si somigliavano persino nel modo di parlare, anche se l’intonazione di Song Jia aveva molto più del tono canzonatorio tipico dei giovani della Pechino moderna. Più di una volta gli era venuta voglia di chiederle se conoscesse una certa Xiao Xue, ma si era sempre trattenuto dal porle la domanda che gli bruciava sulle labbra. Song Jia era una ragazza molto perspicace e intelligente. Pur non conoscendo la vera ragione per cui era stata prescelta tra più di una decina di candidate, si era accorta subito che quell’uomo giovane e bello con il dottorato di una università occidentale, provava per lei qualcosa di speciale. Alla scuola di polizia dove aveva studiato aveva optato per la specializzazione nel segretariato, dopodiché aveva lavorato due anni all’Ufficio per la Pubblica Sicurezza di Pechino. In seguito aveva dato le dimissioni per occuparsi di pubbliche relazioni presso un’impresa privata. Negli ultimi anni aveva cambiato impiego cinque e sei volte. Aveva lavorato in diverse imprese, inclusi un ristorante, un bar e una discoteca, senza che nessuna di quelle occupazioni le avesse dato soddisfazione. Non aveva preso nemmeno troppo seriamente la sua candidatura a quel posto di segretaria. Quando si era presentata al colloquio, l’ambiente tipo “albergo a quattro stelle” degli uffici le era piaciuto molto. – Non male, il capo! Né volgare né saputello! – aveva pensato. Da qualche anno si era messa a studiare psicologia da autodidatta, e riteneva di avere raggiunto un livello da laurea. In seguito all’analisi da lei condotta sulla personalità di Hong Jun, aveva deciso, di sua iniziativa, di accorciare la distanza psicologica che li separava: il mese di prova non era ancora terminato che già lei non lo chiamava più “dottore”, e nemmeno “maestro”, bensì “capo”, e gli parlava con una certa disinvoltura. A parte ciò, faceva del suo meglio per svolgere bene tutti i compiti che le affidava. Dopo essersi gustato il caffè, Hong Jun, che continuava ad avere la testa altrove, le chiese: Allora, come si trova qui? - Benissimo! Come un pascià! Questo perché lavoro per lei da quasi un mese, ma, a parte qualche consulenza, non ci hanno affidato nessun caso serio. Non è mica rientrato in patria per stare in vacanza, capo? - Gli affari sono così: vanno, vengono... - Per noi è piuttosto un “vanno”! E se continua così, presto potremo trasformarci in una casa di riposo! - Va così male? - Se è vero quello che dice il giornale della sera, temo che non sarà così ancora per molto, - disse mostrandogli il giornale posato sul tavolo accanto a loro. Hong Jun lo prese e lo sfogliò. A pagina due, lesse un articoletto che cerchiò con la stilografica rossa. - A Pechino ha appena aperto lo studio dell’avvocato Hong Jun. Uno studio privato in più nella capitale. Oltre a esercitare la professione di avvocato, Hong Jun ha anche occupato una cattedra di insegnamento alla facoltà di diritto di una celebre università. Partito per gli Stati Uniti nel 1987, è tornato sei anni dopo con il titolo di dottore in giurisprudenza e un’esperienza professionale di due anni acquisita presso un rinomato studio di Chicago. Lo studio dell’avvocato Hong Jun è specializzato in casi penali di 35 ogni genere. È uno dei rari avvocati rientrati in patria... - Oggigiorno gli avvocati si contendono i casi del settore economico e hanno obiettivi sul piano internazionale. E allora perchè diavolo siamo andati in giro a raccontare che siamo specializzati in casi penali? – esclamò Song Jia. - Il diritto penale è il mio pallino, e per di più sono veramente esperto in materia. - Però quei casi lì non rendono tanto! Sicuramente lei è spinto dal desiderio di operare per la madre patria e di mettersi “al servizio del popolo”: è così? - Negli Stati Uniti sono molti gli avvocati penalisti che hanno fatto fortuna, - disse Hong Jun, eludendo la vera domanda. - Sì, ma negli Stati Uniti! - Un po’ di pazienza e vedrà che anche la Cina si evolverà in questa direzione. In quel preciso istante, si udì suonare alla porta. - Vede? Qualcuno viene a portarci soldi! – scherzò Hong Jun. L’ospite era un uomo sulla quarantina, con le sopracciglia folte a sormontare due occhi grandi: un viso rubicondo ornato da baffi e da un paio di lunghe basette, statura media e stomaco da bevitore di birra. Indossava un abito grigio all’occidentale, ma la cravatta allentata andava tutta di traverso. Entrò e, senza aspettare di essere presentato da Song Jia, avanzò a grandi passi verso Hong Jun, cui andò a stringere la mano chiedendo: - Dunque, è lei il celebre avvocato Hong Jun? - In persona, - si presentò l’avvocato porgendogli il biglietto da visita prima di domandare a sua volta: - Con chi ho il piacere? - Mi chiamo Zheng. Sono Zheng Jianzhong, - e mostrò anche lui un biglietto da visita che 36 tese a Hong Jun ridendo. – Ah, ah! Ecco un altro di quei “trucchi”. Voglio dire: di quelle “carte truccate”! Ovviamente non mi riferisco a lei, maestro. Si chiama “biglietto da visita”, un biglietto con il proprio nome e il proprio titolo, ma mica è fatto per visitare la gente, non è d’accordo? Hong Jun lo invitò ad accomodarsi sul divano e andò a sedersi di fronte a lui. Poi esaminò il biglietto dell’ospite che teneva in mano. Nei caratteri eleganti di una stampa raffinata erano scritte queste parole: - Binbei Costruzioni, Impresa di lavori pubblici, Zheng Jianzhong, direttore generale. Song Jia gli portò il caffè, dopodiché si eclissò. Zheng Jianzhong trasse dalla tasca un pacchetto di Marlboro che porse a Hong Jun: - Maestro Hong, favorisca. - La ringrazio, ma non fumo. Zheng Jianzhong prese una sigaretta e fece per accenderla, quando si accorse della presenza di un cartoncino posato sul tavolino che raccomandava: “Si prega di non fumare fino al termine della consulenza.” Un po’ imbarazzato, ripose la sigaretta nel pacchetto. - Mi scusi, maestro, ma sa com’è, noialtri non conosciamo le buone maniere! - Nessun problema. È che il fumo mi fa girare la testa. Con l’onorario che le chiederò, non vorrà mica che abbia la mente annebbiata durante il nostro colloquio? - Ben detto! - È originario del nord-est, signor Zheng? - Dello Heilongjiang. - Ma è tanto che risiede a Pechino? - Parecchi anni, ormai. Opero nel campo dell’edilizia, e laggiù non c’è molto lavoro. Pechino è grande, e poi è la capitale, e qui è facile fare soldi. - Ma di sicuro non è venuto a trovarmi per una questione di soldi, giusto, direttore? - No. Si tratta di mio fratello. Dieci anni fa è stato condannato a morte. All’inizio ha beneficiato di un rinvio, e in seguito la pena capitale gli è stata commutata in ergastolo. Ma non è affatto lui il colpevole! - E come mai ha aspettato tutto questo tempo prima di pensare a chiedere una revisione del processo? - Sono stato troppo occupato a fare soldi! E tanto per raccontarle tutto quello che mi pesa dentro, in questa faccenda ho sempre ritenuto di avere delle colpe verso mio fratello. - Ha qualche rimorso? - Esatto! Rimorsi. Ma all’epoca non avevo soldi. Se ne avessi avuti a nessun costo avrei permesso che lo mettessero in prigione! Mi creda. - Allora perché non è andato a cercare un avvocato del posto? - Ho cercato, ma si sono rifiutati tutti. Quelli di lì hanno detto tutti che era impossibile fare rivedere quel processo. Io non ho mai perso le speranze, e l’altro giorno, sul giornale della sera, ho letto la pubblicità del suo studio. - Era un articolo, non una pubblicità. - Capisco. Oggi come oggi, andare a chiedere a un giornalista di scrivere un articolo è più efficace che fare pubblicità. Non racconto frottole! Non ci crede? Invece di rispondergli, Hong Jun si alzò e andò alla scrivania a prendere il giornale, che posò sul tavolino del salotto. - Eccolo! È questo il giornale! Quando l’ho letto, ho pensato che ci fossero ancora speranze per mio fratello. Lei, un avvocato americano... - La correggo. Sono un avvocato cinese. - Comunque ha fatto l’avvocato in America, sì o no? - Vero. - Mi ha spaventato. Ero lì lì per pensare che quello che raccontava questa pubblicità su di lei fosse falso. - E che differenza farebbe se non fossi andato negli Stati Uniti? - Farebbe una gran bella differenza! Li ho visti nei film, gli avvocati americani. Fanno paura! Basta mettergli un caso tra le mani che vincono il processo. E poi, il loro presidente, là, si chiama... keng li dun, “accoccolato nella buca”, giusto? Quando lo sentì, Song Jia, che era appena venuta ad aggiungere acqua nella caffettiera, fu quasi sul punto di soffocare dalle risate. Neanche Hong Jun riuscì a trattenere uno scoppio di risa nel rettificare: - No, si chiama ke lin dun “la foresta dà l’assalto e fa una pausa”. - Ah, sì, così! Quando mi hanno detto che si chiamava keng li dun ho risposto che era impossibile. Un grande presidente come lui, con un nome del genere! Già la gente dice “vado alla toilette” quando va al gabinetto, ma un presidente! Non può mica dire “vado ad accoccolarmi sul pozzo nero”! Ma io continuo a chiacchierare... Volevo chiederle: il presidente americano e sua moglie sono tutti e due avvocati, giusto? - Giusto. Comunque, qui in Cina le cose stanno diversamente... - Lo so bene. È per questo che ho pensato che un nome come il suo sarebbe stato un buon inizio. - Me l’ha dato mio padre. - Allora era un uomo saggio! Hong Jun, come hong jun, “l’armata Rossa”! Dato che non temo una denuncia da parte sua, sarò franco: dalle nostre parti, ci sono poliziotti che sembrano proprio i “cani addormentati dell’esercito nazionalista” che si vedevano nei film di una volta. Noi gente del popolo speriamo che l’armata Rossa venga un po’ a bacchettarli. Ho fatto progressi da quando vivo a Pechino, no? Si dice che a Canton si permettano di mangiare qualunque cosa, a Shanghai di vestirsi in qualunque modo e a Pechino di dire tutto quello che si vuole. Ma adesso basta straparlare. Quello che conta è che lei è l’unico in grado di fare rivedere il processo di mio fratello. - Devo avvertirla che da Pechino non mi sarà facilissimo occuparmi di un caso nello Heilongjiang e che per di più la cosa rischia di essere fortemente dannosa per le mie attività nella capitale... - Maestro Hong, mi sta parlando di spese? Quanto a questo, stia tranquillo, non ci sono problemi. Per usare un’espressione di moda, le direi che al momento i soldi “mi escono dalle orecchie”, - e trasse dalla tasca del vestito due rotoli di banconote che posò sul tavolino. – Sono ventimila. Li prenda per cominiciare, e se non bastano, me lo dice e torno a dargliene altri. Quando avrà sistemato le cose, aggiungeremo il suo onorario. Le va? Hong Jun sprofondò nel divano e rispose: - D’accordo. Allora, per cominciare, le chiederò di raccontarmi i dettagli del caso. – E iniziò a passarsi la mano destra all’indietro tra i capelli morbidissimi. Zheng Jianzhong si concentrò un istante prima di lanciarsi nel racconto di una storia molto aggrovigliata... 37 Roma 1611, nella dimora del principe Federico Cesi si riuniscono i migliori intelletti dell'epoca. In gran segreto, perché l'Inquisizione vigila. Sorveglia particolarmente Galileo con la sua nuova invenzione, il telescopio, e uno dei suoi amici, il tedesco Johann Schreck detto Terrentius, chirurgo, botanico e farmacista, che esegue autopsie clandestine per scoprire i segreti del corpo umano. La loro sete di conoscenza li ha trasformati in nemici della Chiesa. Nel mirino dell’Inquisizione c’è soprattutto Terrentius che, dopo essere sfuggito a un agguato, decide di partire per la Cina, accodandosi a una missione di gesuiti, affrontando un rocambolesco viaggio per mare, sfidando tempeste, epidemie, strani contrattempi e morti sospette. E ben presto scoprirà che la longa manus dell’Inquisizione può arrivare fino a quel lontano Paese... Romanzo epico ed emozionante, permeato dell’esaltante clima culturale in cui maturò la rivoluzione scientifica del Seicento, L’amico di Galileo fonde in un’unica trama un contesto storico di raro valore e suggestione, la caratterizzazione di un protagonista memorabile, scene avventurose e uno svolgimento giallo che culmina in un finale mozzafiato. L’amico di Galileo Capitolo I Isaia Iannaccone Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive e lavora tra Bruxelles e Parigi, è specialista di storia della scienza e delle tecnica in Cina, e dei rapporti scientifici Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di trattati accademici (Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese, 1991; Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming, 1998), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico L’amico di Galileo nel 2006, seguito poi da Il sipario di giada (2007). 38 Secondo il Tedesco Johann Schreck detto Terrentius, la ragazza nuda distesa davanti a lui era di quelle che si sentono invincibili ed eterne anche in condizioni avverse. Innanzi tutto per la positura del tronco, teso come un bastone di quercia, e per le spalle squadrate in modo poco usuale per una donna. Poi, per i fianchi stretti e il ventre piatto che ruotava attorno all’ombelico perfettamente ovale; i glutei sodi e le gambe lunghe e liscie che si incontravano in un garbato e rado arruffo scuro; il seno piccolo, così fuori moda; e il volto... Come si poteva descrivere tanta bellezza? Schreck la ammirava annegandosi in quegli occhi dal taglio obliquo, neri come il carbone, che lo fissavano severi, in profondità, senza timore; il naso, leggermente schiacciato, si affacciava sulla bocca carnosa, socchiusa a mostrare denti bianchissimi. La ragazza sembrò aver colto il suo interesse, ma quel leggero fremito che le aveva animato lo zigomo era dovuto solo a una delle tante mosche che le passeggiavano sul corpo. I tratti soma- tici erano probabilmente quelli di una delle lontane razze orientali di cui si sentiva parlare sempre più spesso. Forse indiana, oppure siamese, o cinese. La carnagione ambrata e la pelle liscia contribuivano a renderla desiderabile. Non doveva avere più di sedici anni e di sicuro faceva parte del piccolo esercito di schiavi ancora presente a Roma. In quel mese di aprile dell’anno di grazia 1611, ne erano stati censiti settecentotrentatre, di cui ottantotto femmine; alcuni erano posseduti da stranieri di passaggio, altri da famiglie romane, altri ancora erano proprietà inalienabile di una decina di ecclesiastici; v’erano poi gli schiavi di Stato che appartenevano alla Camera Apostolica o lavoravano per la Marina Papale. La ragazza, fantasticò Schreck, deve provenire da un palazzo patrizio. - È ora che inizi, - sospirò. Negli occhi si accese una luce metallica, velata di tristezza. Aprì un cofanetto di legno, impreziosito da rinforzi in cuoio. Lucidi, v’erano ordinati dentro i suoi strumenti. Scelse con cura un coltello a lama breve, due divaricatori dal manico di legno, un lungo specillo d’argento, una pin- za e un uncino. Appena prima di incidere il ventre fu folgorato da un doloroso senso di colpa quasi stesse per commettere una profanazione. Ma durò un attimo, come sempre. Dal taglio netto uscirono dapprima appena poche gocce di sangue nerastro; altre sgorgarono quando pose i divaricatori; poi un fiotto rosso cupo. Schreck aveva imparato a sezionare i cadaveri quando era studente a Padova. A quei tempi, lì aleggiava ancora l’aria che aveva respirato Andrea Vesalio. “Palpate, sentite con le vostre mani e fidatevi di esse”, raccontavano tuonasse ai suoi discepoli; nel 1543 il suo De humani corporis fabrica, illustrato da un allievo di Tiziano, aveva trasformato ossa, muscoli, tendini, scheletri e corpi senza pelle in scienza per gli sperimentalisti. Maestro di Schreck era stato il chirurgo Girolamo Fabrici d’Acquapendente che aveva fatto costruire a Padova il primo teatro anatomico e che vantava tra i suoi studenti William Harvey. Cosa direbbe William di questo sangue nerastro? Pensò Schreck. Chissà quando potrò andarlo a trovare a Londra. 39 Avrebbe voluto assistere ai suoi esperimenti sulla circolazione del sangue: Harvey ipotizzava che il cuore fosse una pompa, e per studiarlo apriva il petto ai cani vivi e ne osservava il funzionamento; i galenici dicevano che aveva ucciso in questo modo talmente tanti animali che bisognava meravigliarsi se c’erano ancora cani in circolazione. Il sudore rendeva attaccaticci i capelli biondi di Schreck, scurendoli; calde gocce cominciavano a colare sul colletto pieghettato di organza bianca. Si asciugò la fronte con la manica del giubbone. Che la ragazza fosse morta a causa di un cedimento del fegato gli era stato chiaro sin da quando Gerardo – il custode dell’Ospedale degli Orfani – gli aveva portato il cadavere; ma non aveva immaginato di trovare due gemelli appena abbozzati in quel ventre ormai freddo. Iddio è spietato con alcuni, gli venne da pensare. Forse, la giovane aveva subito la violenza del suo padrone, e poi era stata abbandonata al proprio destino. O chissà, magari era fuggita con il fardello umano per evitare il peggio. In ogni modo, non era stata fortunata. Il tempo scorreva lento; nella piccola cella sotterranea il caldo stava diventando insopportabile. Improvviso e furioso, si sentì lo scoppio del temporale. Quasi contemporaneamente entrò Gerardo. Il volto era segnato dalle cicatrici, un occhio coperto da una benda. Sembrava una montagna in movimento. - È l’ora, eccellenza, - disse a Schreck. – Vado su ad aspettarlo. Questi annuì senza voltarsi. Le due pietre verdi che aveva al posto degli occhi fissavano le carni martoriate della ragazza e guidavano le mani e gli strumenti. Strano tipo il dottor Terrentius, ruminò per l’ennesima volta Ge- 40 rardo, avviandosi verso il tetro cunicolo che portava alla scala. Schioccò la lingua e prese a salire con passo zoppicante. Il custode non era il solo a considerarlo strano. Molti a Roma giudicavano bizzarro e misterioso quel tedesco di trentacinque anni; e da quando frequentava la cerchia del principe Federico Cesi, c’era anche chi lo riteneva pericoloso. Mentre manovrava con cura la pinza dalle estremità sottili, Schreck cercava di dissipare una schiera di pensieri che gli si affastellavano in capo. Gli ultimi giorni erano stati difficili, e ancora si meravigliava di averla scampata. La recente investitura a cardinale di Scipione Caffarelli, nipote di papa Paolo V – al secolo Camillo Borghese, - e l’entrata annua di centoquarantamila scudi che gli era stata assicurata avevano scatenato Pasquino, e sui muri della città erano apparsi fogli con versi che dicevano: “Dopo i Carafa, i Medici e i Farnese, or si deve arricchir casa Borghese”. A quel ritrovamento era seguita una repressione massiccia, e tutti gli stranieri censiti erano stati convocati o trascinati alla sede del Sant’Uffizio per un controllo. Anche lui aveva dovuto subire il mortificante invito ed era riuscito a cavarsela con un contraddittorio serrato, dimostrando che aveva sufficienti mezzi di sostentamento e pur sempre qualche amicizia in alto loco, e soprattutto perché gli inquisitori non avevano prove contro di lui. - Corrisponde a verità la notizia secondo la quale voi praticate attività che coincidono in modo innegabile con quelle dichiarate eretiche? – gli aveva chiesto un domenicano con un sorriso ambiguo. - Non ho idea a quali attività vi riferiate, monsignore – aveva risposto Schreck, cercando di ca- pire dove l’altro volesse giungere. - Ah, negate di essere un ematita? – aveva insistito il domenicano. Il tedesco aveva fatto un velocissimo ragionamento che era durato il tempo di un respiro, e che gli aveva consigliato la risposta giusta. Lo accusavano di appartenere alla setta degli ematiti, ossia di coloro che si nutrono di carni animali svuotati di sangue; erano stati condannati dal Concilio di Gerusalemme dell’anno 50 che intendeva soprattutto colpire gli ebrei; ciò mostrava chiaramente che dietro la sua convocazione v’era già l’intenzione di arrestarlo, giacché difficilmente gli appartenenti alla religione ebraica sfuggivano ai rigori dell’Inquisizione. Bisognava negare, ma rimanendo sul terreno scelto dal domenicano, e controbattere in modo efficace. Lentamente, e con voce stentorea, Schreck si era difeso: - Nel capitolo XVII del Levitico, quello sulle norme per le immolazioni degli animali destinati ai sacrifici, Dio ammonisce: “Qualunque Israelita, o qualsiasi forestiero... che mangi del sangue... Io volterò la mia faccia contro il temerario che ha osato mangiare il sangue, e lo reciderò in mezzo al suo popolo: perché la vita della carne è nel sangue...” Io non sono israelita e non mi attengo a questo comportamento. Sono cristiano e non sono circonciso. L’ i n q u i s i t o r e e r a r i m a s t o sorpreso dalla risposta perché tutti gli altri cui aveva rivolto quest’accusa l’avevano negata senza argomentare. Contrariato, aveva esclamato nella speranza di far vacillare la sicurezza di Schreck trovandogli falle dottrinali: Conoscete bene il Levitico, strano per un cristiano essere così addentro alle regole cui aderiscono gli assassini di Cristo, gli ebrei! - Se è per questo, - era interve- nuto prontamente Schreck, - oltre al Mitzvot che impone il consumo di carne di animali dissanguati, conosco anche gli altri seicentododici comandamenti degli israeliti, ma non li seguo. - Finalmente! Non negate di conoscerli! - No, monsignore, come non nego di conoscere, oltre all’ebraico, altre cinque lingue in disuso e sette in uso. Ma nego di essere un ematita. Non ho pregiudizi sul sangue. Per me rimane valida l’indicazione di Cristo, trasmessaci con amore da san Giovanni nel VI capitolo del suo Vangelo: “Chi mangia il mio corpo e beve il mio sangue ha la vita eterna, e io lo resusciterò l’ultimo giorno; perché il mio corpo è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda.” – Aveva fissato dritto negli occhi il domenicano: - Io ricevo il corpo e il sangue di Cristo con l’Eucarestia. Partecipo regolarmente, come voi, a questo sublime atto di cannibalismo. L’altro aveva reagito barcollando con il capo, come se avesse ricevuto uno schiaffo in pieno viso, e aveva temuto per un attimo di perdere i sensi. In quel momento, con un rumore secco e improvviso si era spalancata la porta ed era apparso un altro inquisitore, anch’egli domenicano, che sembrava appena risuscitato tanto era pallido. In due passi aveva raggiunto uno scranno posto sotto un crocefisso alto sino al soffitto e si era seduto. Evidentemente era stato fino allora in ascolto. E nel parlare guardava in alto, sopra la testa di Schreck, come se ricevesse ispirazione da un’entità invisibile che galleggiava nell’aria: - Riferiamoci a corpi e a sangue profani, per favore, dottor Terrentius, perché pare che dei primi cagioniate strazio e che del secondo facciate scorrere fiumi. Credete nella risurrezione della carne? – E ancora, di seguito: Conoscete i dettami del Concilio di Trento? – Non dava tempo di rispondere, e incalzava: - Mi dicono che professate la chirurgia e che avete rapporti epistolari con medici protestanti. È vero? – E poi: - Se un uomo muore in un incidente che gli causa anche l’amputazione del piede, cosa bisogna fare? E se, nel morire, lo stesso uomo si spacca la testa, sì che mezzo cervello cola di fuori, come ci si regola in questo caso? Il cervello! Esclamò Schreck tra sé e sé, allontanando i ricordi di quell’infernale interrogatorio. Cavò fuori dalla cassetta un seghetto, uno scalpello e un trapano dall’impugnatura d’avorio. Per un tempo interminabile lo stridio della lama sul cranio coprì la lontana eco del temporale. Man mano che procedeva a portare allo scoperto la materia cerebrale in parte grigio-giallognola in parte bianca, i contorni del recente interrogatorio sfumavano per lasciare il posto alla sorpresa. - Fabrici d’Acquapendente aveva ragione, le ostiola rallentano il flusso del sangue per impedire che le pareti delle vene si rompano, sussurrò. Si riferiva alle piccole pieghe membranose all’interno di un grosso condotto venoso da cui usciva il fiotto nerastro. Poi, d’un tratto, con eccitazione: - Nell’osso sfenoide non v’è alcun foro per la discesa del flegma! – Questa volta aveva parlato ad alta voce, come rivolgendosi a un improbabile spettatore. Scostò il lembo di tessuto con un piccolo arpione e sorrise con aria vittoriosa. I galenici supponevano che alla base cranica ci fossero dei forellini, come quelli di una spugna o di un setaccio, attraverso i quali il flegma, l’umore freddo proveniente dal cervello, si sarebbe dovuto riversare nel nasofaringe e nelle cavità nasali. – Ignoranti, non c’è nessun foro sotto la ghiandola pituitaria! – Quasi gridò dall’eccitazione. Preso dalla frenesia, estrasse le sette paia di nervi cranici: - Non sono assolutamente cavi! Fu in quel momento che Gerardo rientrò nella cella col suo passo dondolante. – Eccellenza, non si vede ancora nessuno. - Che gli sia successo qualcosa? – borbottò Schreck. Ma scosse subito la testa. – Nella sua posizione nulla può accadergli. – Poi pensò: Forse l’hanno seguito. Anche questa ipotesi gli sembrò inverosimile giacché erano d’accordo che avrebbe lasciato carrozza e cocchiere lontano dall’Ospedale degli Orfani, proprio per accertarsi di non essere pedinato. Rassicurò dunque il custode: - Ritorna su, vedrai che starà per arrivare, il temporale avrà allagato la strada e Dio solo sa che giro avrà dovuto fare. L’omone fece spallucce e scomparve nuovamente nel buio. Schreck riprese i suoi strumenti e attaccò il cuore. Chissà come avrà palpitato in vita, gli venne da pensare mentre eseguiva le due incisioni incrociate, deve essere stata una passionale, questa poveretta. Con delicatezza mise allo scoperto i ventricoli. Voleva constatare ciò che pochi giorni prima gli aveva rivelato Harvey in una lettera: come i pianeti giravano intorno al Sole, dispensatore di calore e di vita, così il sangue aveva la circolazione incentrata sul cuore piuttosto che sul fegato. E secondo Harvey era il cuore a spingere il sangue dal ventricolo destro ai polmoni e al ventricolo sinistro, mentre le valvole gli impedivano di ritornare indietro. – Le valvole vegliano all’entrata del cuore come guardiani dinanzi alle porte, - gli aveva scritto l’amico, - spasmo dopo spasmo, una quan- 41 tità di sangue segue l’altra. Ma l’organo inerte della giovane non poté rivelargli nulla. L’insuccesso non arrivò inaspettato. Bisogna che anch’io mi decida a sventrare animali vivi, così potrò osservare il cuore ancora in movimento fino all’ultima contrazione, rifletté. Animali? E perché non direttamente uomini in carne e ossa, vivi e vegeti? Il pensiero quasi lo fece sorridere. Così faccio la fine di Vesalio. Accusato di sezionare persone ancora in vita, il chirurgo fiammingo era stato condannato a morte dall’Inquisizione per poi essere graziato dall’imperatore. Ma la voglia di sorridere svanì e l’oppressione che si nascondeva nel suo stomaco cominciò a farsi spazio. Schreck poggiò gli strumenti sul tavolo e si guardò le mani sporche di sangue. Avrebbe voluto essere lontano centomila leghe da lì, sentirsi libero, respirare l’aria fresca anziché la muffa di quel sotterraneo, vivere in un mondo dove i segreti della natura si potevano ricercare perché non facevano paura a nessuno e dove nessuno pretendeva di possederli senza conoscerli. Sospirò profondamente e vide in modo diverso quel corpo smembrato su cui si era accanito: una bella e povera ragazza, ora ridotta a una irriconoscibile massa sanguinolenta, senza più alcuna espressione. Persino gli occhi, che non aveva toccato, erano quasi scomparsi nelle orbite, come a volersi ritirare dinanzi a tanto scempio. - Mio Dio, cos’ho fatto! Ma l’imbarazzo durò un solo attimo. Lo conosceva già e sapeva in che modo vincerlo. Con la sensazione di essersi appena ridestato da un lungo sonno, riprese gli strumenti per continuare il lavoro. Doveva farlo, doveva conoscere, doveva imparare. Come diceva il principe Cesi, studiare la natura 42 era un dovere verso l’umanità, e le nuove conoscenze dovevano essere divulgate a tutti e in modo pacifico. Questo solo poteva chiamarsi progresso, e sicuramente Iddio non poteva esservi contrario. Irrigidì i muscoli, respirò a fondo e, certo di confermare la sua ipotesi sulla causa della morte della ragazza, decise di incidere il fegato per vedere una buona volta cosa veramente c’entrasse con il via vai del sangue. Fu in quel momento che sentì un rumore di ferraglia e il rimbombo dei passi. Gerardò entrò ancora una volta: era corrucciato. - Eccellenza, ancora nulla. Io torno al portone principale, se qualcuno mi cerca... - Chi vuoi che ti cerchi? - Ma, non so. - I bambini sono rinchiusi e dormono, il direttore viene soltanto al mattino, dunque non vedo la necessità che tu ti muova. Non c’è alcun motivo di preoccuparsi. Torna su, vedrai che arriverà fra poco. Era la prima volta che Schreck vedeva Gerardo inquieto. Già all’inizio della serata il custode gli aveva detto di avere come un presentimento, ma nella sua semplicità non si era spiegato, né il tedesco era riuscito a cavargli di più. Pazientemente l’omone si riavviò verso l’alto. A lungo i suoi passi rimbombarono cupamente. Schreck lo seguì con lo sguardo sino a che scomparve dalla sua vista, sentendo montare nel petto un sottile velo di angoscia. L’eco del calpestio non si spense del tutto. Come il suono di un tamburo, rimase nell’aria umida e stantia dei sotterranei, confondendosi nelle orecchie di Schreck con le terribili e temibili frasi dell’inquisitore, fitte dolore per la coscienza. - Attenzione, dottor Terrentius, gli aveva detto prima di lasciarlo andare, - siete in una situazione di levis suspicio. Anche la plebe sa che il leggero sospetto confina strettamente con l’inesistenza del crimine di eresia. Dunque non vi tratteniamo oltre. Ma se riusciremo a raccogliere testimonianze concrete sulla vostra attività non autorizzata di anatomista, allora voi rientrerete nel caso di vehemens suspicio, e il forte sospetto giustifica il rigoroso esame! – Il cardinale inquisitore aveva poi fatto un cenno al soldato di guardia per ordinare il rilascio dell’interrogato, e aveva concluso: - Purtroppo per voi, non siete povero, né rustico, né ignorante; dunque, quando avremo le prove non vi sarà data la possibilità di confessare la vostra mala credulità come attenuante. La vostra colpa, se provata, potrà essere emendata soltanto con l’abiura... Oppure con il fuoco! In alto si udì lontano il cigolio dei cardini e subito dopo il tonfo di chiusura di uno sportello. Gerardo aveva aperto lo spioncino per vedere fuori: non v’erano novità. La persona che aspettavano si faceva ancora attendere. Carlo Lucarelli Carlo Lucarelli è nato a Parma e vive tra Mordano (Bo) e San Marino. Esponente di spicco del genere noir italiano a sfondo poliziesco, genere per il quale è conosciuto anche all'estero, ha esordito nel 1999 con il giallo Carta bianca, primo romanzo della trilogia giallo-storica con protagonista il commissario De Luca, la quale comprende anche L'estate torbida (1991) e Via delle Oche (1996). Tra i tanti romanzi, saggi e racconti che ha scritto ricordiamo quelli con l'ispettore Grazia Negro, Lupo Mannaro (1994), Almost Blu (1997) e Un giorno dopo l'altro (2000), i romanzi con l'ispettore Coliandro, Falange Armata (1993), Il Giorno del Lupo (1998), i romanzi Indagine non autorizzata (1993), Guernica (1996) e L'ottava vibrazione (2008), oltre alle antologie di racconti Autosole (2000) e Il lato sinistro del cuore (2003), i saggi Serial Killer Storie di ossessione omicida (2003) e Nuovi misteri d'Italia - i casi di Blu Notte (2004) . Ha vinto vari premi letterari tra i quali il Premio Alberto Tedeschi con il romanzo Indagine non autorizzata nel 1993, il Premio Mistery con Via delle Oche nel 1996 e il Premio Franco Fedeli nel 2000. Conduce per la Rai il programma televisivo “Blu notte” nel quale ricostruisce la storia dell'Italia attraverso i suoi misteri insoluti e per il quale ha ricevuto il Premio Flaiano nel 2006. Dai suoi romanzi sono stati tratti film (Almost blue, Lupo Mannaro), film per la TV (La tenda nera), serie televisive (Il commissario De Luca, L’ispettore Coliandro). È inoltre sceneggiatore di fumetti e soggetti per videoclip e autore di programmi televisivi e teatrali. Quasi tutti i suoi romanzi sono stati tradotti e pubblicati in Francia, Olanda, Grecia, Spagna, Germania, Stati Uniti, Gran Bretagna, Islanda, Norvegia, Portogallo, Brasile, Giappone e Romania. 43 Aprile 1945. Negli ultimi giorni della Repubblica di Salò, un omicidio dei quartieri alti, un trentino dal nome tedesco, facoltoso, iscritto al partito, ucciso sembra da una donna, apre squarci sul mondo dei gerarchi, su un traffico finanziario-spionistico tra il regime e i nazisti, sulla corruzione di una classe dirigente dai giorni contati. E a poche ore dal crollo finale, quando comincia il fuggi fuggi generale, il commissario De Luca scopre una torbida verità e, nella confusione e la paura, è chiamato a una scelta. Carta Bianca è un racconto giallo a pretesto, in cui è il fascismo pretesto per la trama poliziesca e per quella caratteristica interrogazione morale in cui il giallo confluisce. Dittature e totalitarismi si prestano infatti a quelle situazioni di precarietà del diritto in cui la malinconia, connaturata a chi investigando fruga nelle vite, diventa l'ultimo rifugio del senso di giustizia. Carta bianca Capitolo I La bomba esplose all’improvviso, con un fragore pazzesco, proprio quando il corteo funebre stava attraversando la strada. De Luca si gettò a terra, istintivamente, coprendosi la testa con le mani, mentre un pezzo di muro crollava sul marciapiede, coprendolo di polvere. Cominciarono tutti ad urlare. Un sergente della GNR stese il mitra sopra di lui e sparò una raffica infinita che lo assordò, facendo piovere una cascata di coppi rotti sulla strada. - Bastardi! – gridava il sergente, - figli di puttana! - Bastardi! – gridavano tutti, e sparavano, Guardia Nazionale, Brigate Nere, Decima Mais e Polizia, tutti tranne De Luca, a terra con la faccia nella polvere e le mani aperte sulla testa, con le dita infilate tra i capelli. Rimase così un’eternità e solo quando tutti ebbero smesso di sparare e si sentirono soltanto i gemiti dei feriti, allora si alzò sulle ginocchia, spazzolandosi l’impermeabile con le mani, e si rimise in piedi. - Ce la pagheranno! – gli urlò in faccia un graduato, afferrandolo per i risvolti del soprabito, Rappresaglia! Carta bianca! - Carta bianca, sì – disse De Luca liberandosi della stretta 44 isterica che lo stava spogliando, - certo, certo... – e si allontanò in fretta, senza voltarsi indietro, sospirando tra le labbra che sapevano di polvere. Gli faceva male un ginocchio. Pensò “lo sapevo che non dovevo fermarmi a guardare” e voltò l’angolo, mentre i primi camion facevano stridere i freni e i tedeschi saltavano giù a bloccare le strade. Affondò le mani nelle tasche e si strinse addosso l’impermeabile, perché la primavera tardava a venire e faceva ancora freddo, voltò un altro angolo e contò le targhe sui muri dei palazzi, fino al numero 15, poi entrò deciso. Passò davanti ad un ascensore con la gabbia e il cancello imponente in ferro battuto e si fermò davanti al lunotto della portineria, ma non c’era nessuno. Iniziò a salire una rampa di scale, bianche e pulitissime, come di marmo, un palazzo da signori quello, e per contrasto, passandosi una mano sul mento ispido, gli venne da pensare che era proprio ora di farsi la barba. Al primo piano un uomo gli venne incontro, grosso, con un soprabito pesante e una faccia quadrata da Questura. - Che è successo? – chiese ansioso, - questa botta là fuori... - Un attentato – disse De Luca. – Hanno tirato una bomba ai fu- nerali di Tornago. Ma ora è tutto sotto controllo... - Ah be’... – l’uomo scosse la testa, come per dire qualcosa, ma poi fece un passo in avanti e piantò una mano sul petto di De Luca che stava avvicinandosi deciso ad una porta, fermandolo a metà di un passo, con una gamba avanti e un contraccolpo che gli fece male al collo. - Eilà, bello! Dove credi di andare? De Luca chiuse gli occhi, stirando per un attimo le rughe dell’insonnia che gli attraversavano la faccia. Fece “un momento” con la mano destra e con la sinistra tirò fuori dalla tasca una tessera, che il gorilla riconobbe subito, prima ancora di leggere, e impallidì. Stese il braccio nel saluto, sbattendo i tacchi. - Scusate, comandante... se me lo dicevate subito... De Luca annuì, e mise via la tessera. – Fa niente – disse, - ma non mi chiamare comandante, non sono più nella Muti, sono commissario. Mi occupo di questo caso. Chi c’è dentro? - Maresciallo Pugliese, della Mobile. E la squadra. - Niente autorità, giornalisti, parenti... - Solo la Questura. - Bene. Non fare entrare nes- suno... tranne me, naturalmente. Fammi passare, per favore. - Scusate. A disposizione, comandante! - Commissario, non comandante, commissario. - Sì, scusate. A disposizione, commissario! De Luca sospirò, mentre il gorilla faceva un passo di lato, aprendogli la porta. Entrò in un andito piuttosto piccolo e stretto, in contrasto con l’idea che si era fatto dell’appartamento. A un lato dell’ingresso c’era un tavolino, piccolo e dalle gambe arcuate, con un telefono bianco sopra, e all’altro lato un attaccapanni, stampe alle pareti e in fondo, in un pezzo di stanza incorniciato dal vano di una porta, come in un quadro, c’erano due uomini. Lo guardarono avvicinarsi, uno piccolo e col naso a becco, con un cappello nero, l’altro magro, giovane e con gli occhiali. - Che è successo? – chiese quello piccolo, con un forte accento meridionale, - una bomba? - Un attentato – ripeté De Luca, - granate al funerale di Tornago. - Solo granate? – disse quello magro, - sembrava che il fronte si fosse spostato fin qui! - Hanno perso la testa e si sono messi a sparare tutti. Quello magro si sfilò gli occhiali, scuotendo il capo. – Ci sarà scappato il morto, di sicuro. Sono ridotti così male che si ammazzano da soli...È diventato pericoloso anche il funerale di un gera... – Si bloccò, perché quello piccolo, che stava osservando De Luca con gli occhi socchiusi, mentre si avvicinava, gli aveva stretto un braccio, sopra il gomito. - Io vi conosco a voi – disse, siete uno della Politica. È un caso vostro, questo qui? Ve lo lasciamo volentieri... vieni, Albertini, ce ne andiamo... D e L u c a alzò un braccio, fermandoli sulla soglia, con un sospiro profondo che era quasi un gemito. - Quante volte lo dovrò ripetere oggi? – disse, - non sono più nella Politica, sono il commissario De Luca, in forza alla Questura. Mi hanno trasferito ieri dalla Brigata Ettore Muti, sezione speciale della Polizia Politica e non ho ancora i documenti, ma lavoriamo assieme. Mi hanno dato il caso. A posto così? L’uomo dal naso a becco si tolse il cappello, chinando il capo. – A disposizione – disse. Albertini invece non disse più nulla. De Luca entrò nella stanza. Proprio accanto a lui, alla sua destra, c’era un uomo, steso a terra a faccia in su, con un braccio piegato in alto, lungo il muro. Indossava una vestaglia azzurra, di seta, e aveva una ferita larga, scura e appiccicosa, sul petto, all’altezza del cuore. Un’altra, all’inguine, si intravedeva sotto il lembo della vestaglia, macchiata di sangue. De Luca lo guardò a lungo, poi si guardò attorno, le pareti coperte di libri, lo scrittoio col lume di vetro, le poltrone al centro della stanza, il tavolino basso, il lampadario, gli specchi, il tappeto, tutto perfettamente in ordine. Davvero un palazzo da ricchi, quello. - Chi è? – chiese, tornando a guardare il morto. - Si chiamava Rehinard – disse quello piccolo, Albertini non parlava proprio più. - È un tedesco? - Era un trentino. Cittadino italiano. - Lo conoscete? - No, ho preso il suo portafoglio. Eccolo. Dall’andito venne un rumore, ma De Luca non si voltò. - È uno dei miei che guarda le altre stanze – disse quello piccolo. – L’appartamento è grande, quattro camere e il bagno, con la cucina, e non c’era nessuno, tranne lui. Lo volete, questo portafoglio? De Luca prese il portafoglio, coccodrillo lavorato a mano, pesante, e si avvicinò al tavolino, al centro della stanza. Si sedette su una poltrona e vuotò il contenuto sul piano di vetro, accanto a due bicchieri. Notò che uno aveva il bordo sporco di rossetto. - Documenti – disse il tipo basso, mentre De Luca li esaminava. – Tessera del Partito, soldi e qualche biglietto da visita. – Ce n’era uno molto elegante, con caratteri ornati, in rilievo, che diceva Conte Alberto Maria Tedesco, e uno più semplice, piatto, con Sibilla, in corsivo, e un numero di telefono. De Luca tenne in mano il biglietto del conte, come per pesarlo, poi lo lasciò cadere assieme agli altri. - Dov’è la domestica? – chiese. - Prego? - La domestica, la serva, la donna... come la chiamate? L’uomo basso lo guardò in modo strano, aggrottando le sopracciglia sugli occhi sottili. – Non c’è nessuna domestica – disse. - In una casa così pulita e in ordine? Con un uomo solo e scapolo, come dicono i documenti? – De Luca si alzò e si mosse per la stanza, - a me pare troppo in ordine per una domestica ad ore, a meno che non sia appena uscita. Oppure è un domestico... una delle stanze sarà la sua, ci saranno le sue cose. C’è niente in Questura su questo tipo, che voi sappiate? - Niente che io ricordi, e io ricordo tutto. Ma è più probabile che ci sia qualcosa da voi... voglio dire... - C’è, infatti, ma è poco. – De Luca ricordò la scheda di cartoncino giallo, Rehinard Vittorio, membro del Partito Fascista Repubblicano e nient’altro. La ricordava proprio per quello. – Il medico è già arrivato? – chiese. - Non ancora, ma l’abbiamo chiamato. - E il maresciallo Pugliese? - Sono io Pugliese. - Ah. – De Luca si fermò di nuovo davanti al morto. Lo guardò e poi con la punta della scarpa spostò il lembo della vestaglia che 45 gli copriva le gambe. Albertini si voltò dall’altra parte. Pugliese invece si avvicinò, chinandosi in avanti, con le mani appoggiate alle ginocchia. - Gelosia? – disse. De Luca si strinse nelle spalle. - Forse – mormorò. – Una donna qui c’è stata, e non da molto. Direi una bionda a giudicare dal colore del rossetto su quel bicchiere... l’arma non c’è, vero? - No, fino ad ora non l’abbiamo trovata, pugnale o coltello che sia. - Un tagliacarte. - Un tagliacarte? – Di nuovo Pugliese lo guardò di traverso. - Probabile. È l’unica cosa che manca sullo scrittoio, che è attrezzatissimo, e ci sono delle buste aperte, con la data di oggi. – De Luca tornò al tavolino e si lasciò cadere su una poltrona. Avvicinò il volto al bicchiere sporco di rossetto e annusò forte. Odore di alcool. A quell’ora di mattina? Strano. L’altro invece era vuoto. All’improvviso, come gli succedeva sempre da una settimana, lo assalì un’ondata di sonno che lo fece sbadigliare, sempre nel momento meno adatto e mai di notte, quando rimaneva a guardare il buio sul soffitto o si girava nel letto da una parte e dall’altra, con le palpebre serrate, avviluppato nel lenzuolo. - Chi vi ha chiamato? – chiese. - Il portinaio – disse Pugliese, - quello che ha scoperto il morto. Passava qui davanti e ha visto la porta aperta, spalancata, e così è entrato e ha visto tutto. Ci ha telefonato la moglie. – Un uomo quasi calvo, con un paio di occhiali dalla montatura leggera entrò nella stanza e si fermò, guardando prima De Luca e poi Pugliese, che annuì con un breve cenno del capo. - Non c’è niente di là – disse l’uomo calvo. – Soltanto il bagno e una delle stanze sono abitate, le altre sono vuote. - Non c’è un’altra stanza? Non so, con roba da donna nei casset- 46 ti... cose del genere? – chiese De Luca, e Pugliese sorrise quando il calvo scosse la testa. - Niente, solo una camera da letto con effetti maschili, abiti, toilette, scarpe... - Macchie nel letto? - Prego? - Macchie fisiologiche, sul lenzuolo. - Oh già... no, niente. Tutto in ordine, anche il letto è rifatto. - Capelli sulle spazzole? Il calvo lanciò un’occhiata a Pugliese, irritato. – Biondi, lisci e lunghi come quelli del signore lì a terra. De Luca annuì, lasciandosi andare contro lo schienale della poltrona. La testa gli scese fra le spalle, affossandosi dentro al bavero dell’impermeabile. Stese le gambe, puntando i tacchi sul pavimento e si sarebbe addormentato lì, in una nuvola di stoffa bianca sporca di polvere, tagliata a metà dalla camicia nera, con il suo volto ispido e rugoso, che scendeva lentamente verso il petto. - Vi sentite bene? – chiese Pugliese. – Avete una brutta cera. - Soffro d’insonnia – disse De Luca, in un sussurro, - e non solo di quello... ma non vi preoccupate, non mi addormento, stavo solo pensando. Ci rimane soltanto da sentire il portiere e vedere che tipo era questo Rehinard, chi vedeva di solito e chi è entrato questa mattina. E se aveva una serva, perché qui io non sono molto convinto. Pugliese annuì energicamente. – Benissimo. E poi? De Luca lo guardò negli occhi, serio. – Poi niente. Cos’altro volete fare? Abbiamo un tizio piuttosto facoltoso, membro del Partito e in relazione con Tedesco... lo sapete chi è Tedesco, vero? Ministero degli Esteri... Un tizio ucciso in un modo che promette di essere piuttosto sporco. Credete che sia possibile fare qualche indagine? O che comun- que interessi a qualcuno, in tempi come questi, con gli Americani sotto Bologna? Mi taglio il collo se ci lasciano continuare. Pugliese sorrise e allargò le braccia mentre De Luca puntava le mani sui braccioli e con uno strappo si alzava in piedi, barcollando. – A disposizione – disse, e lo seguì verso la porta, col cappello in mano. Si fermò davanti all’ascensore, col dito quasi sul pulsante, ma poi dovette affrettarsi sulle sue gambette corte per raggiungere De Luca che era già a metà dello scalone. - Comandante! – ansimò, - un, mannaggia... scusate commissà, non me lo ricordo mai! Sentite, commissario, quando siamo dal portiere gliela faccio vedere io la tessera, se permettete. Se vedono la vostra si prendono paura e non parlano più. De Luca non rispose. Arrivarono al gabbiotto e Pugliese bussò nel vetro con le nocche ma De Luca aprì la porta ed entrò direttamente, investito da un odore di cavoli che gli fece arricciare il naso e lo stomaco. Dentro, su una sedia di paglia davanti ad una stufa accesa, c’era una donna dai capelli bianchi, con un rosario in mano. Aveva l’aria di dimostrare più anni di quanti ne avesse. - Buon giorno – disse De Luca alla vecchia, che lo guardava con la bocca aperta, - sto cercando il portiere. – Pugliese entrò nello stanzino e scostò una tenda che separava il resto dell’appartamento, con una pentola di cavoli che bolliva, su una cucina economica. - Io non so niente – disse la vecchia. – Mio marito non c’è e io non so niente. - Però lo conoscete il signore di sopra, vero? - Son mica io che conosco tutti – disse, - quello è mio marito. - A vederlo sembrava una brava persona, quel signore – disse Pugliese, insinuante. La vecchia si voltò con uno scatto, facendo tintinnare il rosario. - Una brava persona? Con tutte le donne che riceveva a tutte le ore del giorno? Si vede che non conoscete la gente, voi. - Cosa volete che sia ricevere qualche brava ragazza, al giorno d’oggi... - Al giorno d’oggi non ci sono più brave ragazze! Colpa della guerra... Anche questa mattina ne sono venute due, una era quella biondina, bellina ma matta di sicuro, e strana, la figlia di un conte diceva mio marito... e un’altra era una morettina con gli occhiali, strana anche lei... ma io non so niente, vedo qualcosa ogni tanto da qui, perché sono vecchia, e ho un dolore alle gambe che... - Va bene – tagliò corto De Luca, piuttosto brusco, e Pugliese scosse la testa, alle sue spalle. – Avete visto qualcun altro salire oltre alle due donne, questa mattina? - No, mio marito, forse... - Lo abbiamo capito. Dov’è vostro marito? - È uscito per una commissione, dopo che è arrivata la Polizia – e indicò Pugliese. De Luca lo guardò e lui si strinse nelle spalle. - Tornerà – disse. - Speriamo – disse De Luca. Si voltò e fece per uscire, ma la vecchia lo fermò, ricominciando a parlare. - Una persona per bene! – disse acida, - con la miseria che c’è, col pane che è arrivato a quindici lire al chilo, quando se ne trova, lui buttava via i soldi! Chissà da dove venivano, poi... e se la faceva anche con i tedeschi. - Con i tedeschi? – chiese Pugliese. Lanciò un’occhiata a De Luca, che guardava la vecchia. - Certo. Me lo ha detto mio marito, perché io non me ne intendo, ma molte volte veniva un soldato, che era un ufficiale, e aveva le mostrine rosse sul colletto con quelle... – Tracciò due segni paralleli nell’aria con un dito magro dall’unghia appuntita e Pugliese si voltò di lato, con una smorfia. - Bonasera – disse, - una Esse Esse. - Meglio così – disse De Luca, - almeno finiamo presto. Ditemi un’altra cosa... aveva una domestica quel signore? Una serva... - Oh sì, Assuntina. – De Luca si lasciò prendere da un mezzo sorriso stanco. – Una di giù, una sfollata. Stava da lui fissa, anche se per me sono cose che non stanno mica bene... Ma se ne è andata tre giorni fa. De Luca si voltò di nuovo e questa volta nessuno lo fermò. Uscì dal gabbiotto assieme a Pugliese che gli saltellava dietro, fino alla porta, sui gradini dell’ingresso. Fuori c’era una pattuglia della Guardia Nazionale che fermava la gente, con i mitra puntati. Un uomo in borghese che controllava tutti i documenti fece un cenno di saluto a De Luca, che non rispose. - Che si fa adesso? – chiese Pugliese, mettendosi il cappello. Sembrava più basso, col cappello. - Si va a rapporto dal Questore. Gli diciamo che un tipo equivoco, membro del Partito e amico delle Esse Esse, nonché della figlia del conte Tedesco, che detto tra parentesi è soltanto un membro del corpo diplomatico della Repubblica e amico personale del maresciallo Graziani, è stato ucciso e castrato non si sa da chi, con un’arma che non c’è più. Magari fosse stata soltanto una povera serva gelosa, che tra l’altro manca da tre giorni in una casa dai letti rifatti questa mattina. Tutto questo sulla testimonianza riferita da un portiere che ha pensato bene di sparire a fare una commissione, nonostante avesse la Polizia e un delitto in casa. Cosa credete che dirà il Questore? - Che dirà il Questore? – ripeté Pugliese con un sorriso ironico. - Quello che sto per dire io adesso. – De Luca sfilò la tessera da sotto l’impermeabile e la mostrò aperta ad un miliziano, che si stava avvicinando con aria minacciosa. – Fuori dai coglioni, ragazzo – disse. – Non sono affari tuoi, questi. Lasciaci perdere. 47 In una corsia d'ospedale Bacci Pagano sta vegliando Jasmìne Kilamba: è riuscito a stento a liberarla da una gang di sadici assassini e ora la donna sta lottando tra la vita e la morte. Lo avvicina un anziano tedesco di nome Kurt Hessen, arrivato a Genova alla ricerca del fratellastro italiano, del quale sa soltanto che la madre era di Sestri Ponente e si faceva chiamare Nicla. Hessen vuole affidare l’indagine all’investigatore, che d'istinto rifiuta. Ma a convincerlo basta un assegno molto, troppo generoso e, forse, qualche altro oscuro motivo. Inizia così un viaggio nel passato che riporta Bacci alla Genova del 1944 popolata di soldati tedeschi, fascisti, partigiani e spie. L’immagine della giovane Nicla, informatrice della Resistenza infiltrata presso i nazisti, si sovrappone a quella di Jasmìne, prostituta nera fuggita da una terra senza speranza. E anche la città dilaniata dalla guerra, dalla miseria e dalla fame si confonde con la metropoli contemporanea, investita dal vento della globalizzazione. Con Rossoamaro Morchio affronta una delle pagine più drammatiche della nostra storia recente: grazie a una trama incalzante, che intreccia con abilità il passato e il presente, il romanzo ci fa riflettere sulla violenza del potere e su quella di chi lotta per la propria libertà e dignità, sul rapporto tra vittime e carnefici, sul ruolo delle donne nella nostra società. Rossoamaro Capitolo XXVI Due donne Bruno Morchio Bruno Morchio è nato a Genova dove vive e lavora come psicologo e psicoterapeuta. Si è laureato in letteratura italiana con una tesi sulla Cognizione del dolore di Gadda. Ha pubblicato vari articoli su riviste di letteratura, psicologia e psicoanalisi. È autore di romanzi ascrivibili al genere “noir mediterraneo” che hanno per protagonista il detective Bacci Pagano, Bacci Pagano. Una storia da carruggi (2004), Maccaia. Una settimana con Bacci Pagano (2004), La crêuza degli ulivi. Le donne di Bacci Pagano (2005), più volte ristampati dalla casa editrice Fratelli Frilli Editori. Pubblica poi, con Garzanti, altri tre romanzi: Con la morte non si tratta (2006), Le cose che non ti ho detto (2007) e il suo ultimo successo, Rossamaro, uscito nel 2008. 48 Il giovane medico mi tallonò fino al capezzale di Jasmìne, trattandomi come se fossi un fragile vaso di porcellana. Sentivo la punta delle sue dita sfiorarmi il braccio con una delicatezza che finì per irritarmi. Mi guidava e insieme mi teneva incollato, dandomi la sensazione di avere un insetto vischioso che mi camminava addosso. Non dissi niente, sperando che una volta nella stanza ci avrebbe lasciati soli. «Può parlare?» domandai. «Certo che può parlare», rispose. Spalancò la porta e mi introdusse nella camera. Rimase sulla soglia e guardandomi di traverso disse: «Le concedo dieci minuti. La paziente non deve stancarsi.» Al mio cenno di assenso richiuse la porta e sparì. Avvertii il forte odore di medicinali che impregnava l’aria, del quale nelle visite precedenti non mi ero accorto. Jasmìne, investita dal tripudio di luce che irrompeva dall’ampia vetrata della finestra, teneva gli occhi aperti e mi guardava, le braccia immobili distese lungo il corpo. Il candore del lenzuolo, ravvivato dal riverbero del sole di mezzogiorno, faceva le lunghe braccia magre ancora più scure. Dietro la schiena le avevano sistemato due cuscini che la tenevano leggermente sollevata. Taceva e continuava a fissarmi, quasi volesse strapparmi un segreto. Afferrai una sedia di metallo e mi sistemai al suo fianco. «Ciao, Jasmìne», sussurrai. Rispose sbattendo le palpebre e accennando un sorriso. Mi aveva riconosciuto. «È tutto finito», aggiunsi. «I medici dicono che tornerai quella di prima.» Sorrise ancora, socchiudendo le labbra e lasciando trasparire i denti, regolari e bianchi come neve. Il suo viso esprimeva perplessità e felicità, come quello di un bambino che, dopo una brutta avventura, si ritrovi in braccio ai genitori. Lei era orfana, non aveva un padre e una madre che potessero consolarla, ma in un colpo solo aveva fatto rinculare la morte e riguadagnato l’integrità delle proprie funzioni. «Ho appena concluso una strana indagine», aggiunsi. «In tasca mi è rimasto un assegno di quarantamila euro con cui potrai cominciare da capo. Adesso non devi più avere paura.» Sorrise per la terza volta, ma continuava a tacere. Temetti che parlare le riuscisse difficile. Allungai la mano la posai leggera sopra la sua, emulo del tocco da pianista del giovane medico che mi aveva accompagnato. Jasmìne lasciò correre lo sguardo verso il basso, sulle nostre mani, poi lo sollevò fino a incontrare i miei occhi. I suoi, adombrati dalle lunghe ciglia nere, brillavano, rivelando un confuso tumulto di sentimenti. Forse esprimevano gratitudine, o affetto, o piuttosto solo incredulità. «È stata davvero un’indagine strana», continuai. «Vuoi che ti racconti?» Annuì sbattendo le palpebre e muovendo appena la testa, costretta dal bendaggio che avvolgeva il capo e il collo. «Un tedesco mi ha affidato l’incarico di ritrovare suo fratello», dissi. «Il padre era un ufficiale della Wermacht e fu ucciso durante la guerra. Ebbe una relazione con una giovane italiana che rimase incinta e, dopo avere partorito, abbandonò il figlio. Il mio cliente è cresciuto a Colonia, nella casa degli zii paterni. Dopo 49 la liberazione dell’Italia sua madre si è sposata con il fidanzato, un partigiano molto coraggioso, e dal matrimonio è nato un secondo figlio. Il tedesco mi ha dato quarantamila euro per scoprire chi fosse.» «E tu?» riuscì a chiedere con uno sforzo. «Ho fatto il mio lavoro e l’ho trovato», risposi. «Come sempre», disse sorridendo ancora, con una punta di ironia. La voce usciva con fatica, leggermente strascicata e rauca. Pareva avere difficoltà ad articolare i suoni, anche se la sua pronuncia francese restava inconfondibile. Chiese da bere. Sul comodino c’erano una bottiglia di acqua minerale e un bicchiere vuoto. Versai l’acqua e le portai il bicchiere alle labbra, con delicatezza. Bevve qualche sorso e con la mano mi fece segno che bastava così. Mentre con il fazzoletto le asciugavo la bocca e il mento chiese: «Perché lo cercava, dopo tanto tempo?» «Voleva vendicarsi. È molto malato e, prima di morire, si è fatto un punto d’onore di ripagare il fratellastro del male che ha subito.» Rimasi in silenzio per qualche secondo, poi aggiunsi: «Anche se ho l’impressione che adesso veda le cose in un altro modo. Quando se n’è andato mi è sembrato pieno di confusione e, forse, alla rabbia si sono sostituiti rimorsi e rimpianti.» Mi scrutò e la sua espressione si fece preoccupata. «E tu?» ripeté. «Io cosa?» «Come stai?» «Sto bene», risposi poco convinto. «Così hai scoperto di avere un fratello», disse a bruciapelo. Quella frase mi lasciò senza parole. «Come…?» 50 Prese fiato e si sforzò di spiegare: «Sei stato tu a parlare di indagine strana. E poi quarantamila euro sono troppi. Noi puttane siamo pratiche di tariffe.» «Davvero era così facile?» chiesi tra sorpreso e divertito. «Basci», concluse con un sorriso dolce, caldo, dove palpitava una smisurata tenerezza. «Dovresti vederti che faccia hai.» Chiuse gli occhi e tirò un respiro profondo. Il medico aveva ragione, parlare la stancava. Rimanemmo così per qualche tempo, vicini, tranquilli, senza dire una parola. A un certo punto ruppe il silenzio e domandò: «Come si chiamava?» «Il tedesco?» «Tua madre.» «Tilde», mi uscì detto senza pensare. Quella risposta mi sorprese. Per me lei era sempre stata Anna. «Anche lei era una…» non trovava la parola. «Prostituta?» Ebbe quasi un sussulto e la bocca si piegò in una smorfia, un misto di stupore e sorriso. «No», si affrettò a dire. «Una come tuo padre.» «Partigiana?» Annuì sbattendo le ciglia e, tendendo la mano, mi invitò a intrecciare la mia nella sua. La accontentai e risposi: «Sì, teneva i collegamenti tra i gruppi armati della Resistenza. Fu catturata dai tedeschi e in quell’occasione conobbe l’ufficiale.» «Non conosco la vostra storia», riprese. «So soltanto chi erano i nazisti e immagino che i partigiani erano i loro nemici.» Confermai, ma non capivo dove volesse arrivare. «Anche da noi c’è la guerra, ma è differente», continuò cominciando a respirare a fatica. Volevo interromperla, ma non me ne det- te il tempo. «È difficile capire chi combatte dalla parte giusta.» «Loro non avevano dubbi», affermai. «Combattevano per liberare l’Italia.» «Allora non l’ha fatto solo per sopravvivere», disse. «Credo di no», replicai, per quanto sapessi che una risposta ultimativa non l’avrei mai trovata. «Perché dici questo?» «Così», rispose con un sorriso amaro. Poi si scosse, avvertii la stretta della sua mano farsi più forte e, cambiando tono, aggiunse: «Basci, non dovresti fare quella faccia. Tu sei un uomo fortunato, loro ti hanno lasciato qualcosa.» In quel momento la porta si aprì e sull’uscio comparve il giovane medico. Il nostro tempo era finito, ma ora potevamo separarci senza disperazione perché sapevamo che la vita avrebbe ripreso il suo corso e non sarebbero mancate le occasioni per rabberciare le nostre ferite. A modo nostro, come saremmo stati capaci e fino al punto in cui questo sarebbe stato possibile. Nanpai Sanshu Nanpai Sanshu (pseudonimo di Xu Lei) nato nel Zhejiang, ha fatto il grafico, il programmatore informatico e ora si occupa di commercio con l’estero. È autore di una serie di bestseller che hanno rivoluzionato il mercato editoriale cinese negli ultimi tre anni. Il protagonista dei suoi Diari di un tombarolo (il quinto volume pubblicato nel mese di luglio di quest’anno) è un ragazzo che, come l’autore, vive a Hangzhou con il nonno che ha un negozio di antiquariato. 51 Negli anni Cinquanta un gruppo di tombaroli di Changsha trova il frammento di un manoscritto su seta in una tomba del periodo degli Stati Combattenti. Contiene istruzioni che portano a una tomba favolosa, ma i membri della spedizione alla fine periscono tutti nel tentativo di trovarla. Il nipote di uno dei ladri trova nel diario del nonno un racconto della vicenda e, con un gruppo di esperti, decide di andare alla ricerca del tesoro. Chi è il misterioso ospite della tomba, ancora disseminata di insidie e trabocchetti? Diario di un tombarolo Capitolo I Il cadavere insanguinato Cinquant’anni fa, Changsha, Monte dei Dardi. I quattro tombaroli, in silenzio, erano accovacciati sul tumulo di terra con lo sguardo fisso sulla pala di Luoyang. Dalla punta sporca di terriccio vecchio gocciava un liquido rosso acceso, come se fosse appena stata immersa nel sangue. “Stavolta sono guai – disse Cicca, il vecchio fumatore incallito battendo la pipa a terra - lì sotto c’è ancora il cadavere. Se non stiamo attenti faremo una brutta fine”. “Allora, ci muoviamo o no? Basta con le chiacchiere, decidiamoci, invece di farla tanto lunga! – disse Eryazi, il guercio – Tu che hai una certa età e sei impacciato nei movimenti, secondo me, dovresti lasciare il compito a me e mio fratello. Qualunque cosa ci sia là sotto noi la sistemiamo con una schioppettata”. Il vecchio gli sorrise senza scomporsi, poi si rivolse all’uomo con la barba: “Se 52 questo sbruffone di tuo figlio non sta attento, una volta o l’altra gli capita una faccenda seria. Sarebbe il caso di insegnargli che in questo mestiere non basta una Mauser per stravolgere il Cielo”. L’uomo diede un’occhiataccia al ragazzo: “Canaglia, come ti permetti di parlare così a un anziano, quando lui ha cominciato a scavare nelle tombe tu stavi ancora nella pancia di tua madre a mangiare merda”. “Ho detto qualcosa di male? A detta dei nostri avi ogni cadavere era una cuccagna, dentro questa tomba i tesori senz’altro non mancano, vogliamo perderci quest’occasione d’oro?” “Finiscila di mettere bocca!” L’uomo con la barba alzò la mano e stava per picchiarlo, ma il vecchio lo bloccò con il lungo cannello della pipa. “Fermati, non eri anche tu così da ragazzino? Se è storta la trave come può essere dritto il travicello?” A sentire suo padre che si beccava una ripassata, Eryazi il guercio chinò la testa e rise sornione, il vecchio tossicchiò e poi lo picchiò sulla testa con la pipa, in segno di monito: “Ridi? Un cadavere non è mica uno scherzo, l’altra volta tuo zio a Luoyang ne ha trovato uno e adesso è ancora fuori di testa, vai a capire che gli è successo. Io scendo per primo e voi mi venite dietro, Eryazi tu porti la ‘talpa’ e rimani per ultimo. Sanyazi, tu è meglio che rimani qui, se siamo in quattro all’occorrenza non facciamo in tempo a tornare indietro per metterci in salvo. Tu reggi la ‘talpa’ per la corda e se senti chiamare ci tiri fuori”. Sanyazi, che era il più piccolo, non ne voleva sapere: “Manco per niente, siete i soliti prepotenti, lo dico a mamma!” Il vecchio scoppiò a ridere: “Sanyazi si è offeso, dai non fare i capricci che poi ti porto un coltellino d’oro”. “Posso andare a prendermelo da solo”. Eryazi si imbufalì e lo afferrò per un orecchio: “Smettila di fare casino, che sennò ti faccio vedere io!” Il ragazzino, che doveva averle spesso prese di santa ragione, quando si accorse che il fratello si era arrabbiato ammutolì dalla paura e cercò il padre con lo sguardo, ma lui era già andato a preparare gli attrezzi. Sanyazi, gongolando, continuò: “Vedi che non ti si fila neanche papà, se continui a strillare ti annodo il pisello!” Il vecchio diede qualche pacca sulle spalle del ragazzo e diede il comando: “Forza con gli attrezzi!” Subito iniziarono a lavorare usando la pala ‘turbine’. Passata mezz’ora, del buco non si vedeva già più il fondo e, a parte Eryazi che ogni tanto veniva su a riprendere fiato, non sentiva neanche un rumore. Sanyazi che si era stancato di aspettare urlò dentro la breccia: “Nonno, siete passati dall’altra parte?” Trascorsero alcuni secondi, prima che dal basso giungesse una risposta confusa: “Non... so, aspetta, tieni tesa... la corda!” Era la voce del fratello, sentì il vecchio tossire e : “Zitto... ascolta! C’è qualcosa che si muove!” Seguì un silenzio mortale. Sanyazi aveva la netta sensazione che fosse successo qualche cosa, era paralizzato dal terrore, dal buco uscì una specie di borboglio, ricordava il gracidio di un rospo gigante. Suo fratello lanciò un urlo: “Sanyazi, tira la corda!” E lui, senza esitare, spinse i piedi a terra tirando con tutte le forze, dopo qualche metro fu come se la corda fosse stata addentata dal basso, una forza lo strattonò cogliendolo di sorpresa e stava quasi per finire nel buco. Poi concentrò le energie, si passò un giro di corda intorno alla vita e piegandosi all’indietro portò la schiena a un angolo di trenta gradi dal terreno. Era un trucco che aveva imparato giocando al tiro alla fune con gli altri ragazzi del villaggio, in quel modo poteva pesare con tutto il corpo sulla corda e sarebbe riuscito a opporre resistenza anche a un mulo. Ora lui e la Cosa erano in una posizione di stallo, entrambi al limite delle proprie forze senza riuscire a spostare l’altro di un millimetro, dopo alcuni secondi si udì uno sparo e un grido del padre: “Presto, Sanyazi, scappa!” Sentì la corda che si allentava e la ‘talpa’ spuntò fuori dal terreno, gli sembrò che vi fosse appeso qualcosa. Allora senza pensare più a niente, con una mano agguantò l’attrezzo, fece dietrofront e si mise a correre. Si fermò soltanto dopo aver fatto più di due miglia a perdifiato, si voltò e lanciò un grido di terrore, dalla “talpa” pendeva una mano grondante di sangue. La riconobbe, era quella di suo fratello, scoppiò a piangere, ora sapeva che come minimo era mutilato se non addirittura morto. A quel pensiero serrò i denti, doveva tornare indietro a salvarli, poi si accorse che acquattato dietro di lui c’era un ammasso rosso sangue, e lo fissava. Sanyazi non era uno sprovveduto, alla ricerca di tombe con il padre ne aveva viste di tutti i colori, sapeva che sottoterra può annidarsi qualsiasi pericolo l’importante è non farsi prendere dal panico. Il più terrificante degli spettri non può competere con un uomo in carne e ossa e qualsiasi orrore nero o bianco che sia, deve rispettare le leggi della fisica. L’avrebbe fatto a brandelli con una sventagliata di proiettili e non ci sarebbe stato più nulla da aver paura. Si fece coraggio, indietreggiò e la Mauser che portava infilata nella cintola apparve nella sua mano, sparò a raffica, se quell’affare era vivo lui l’avrebbe seppellito sotto una pioggia di proiettili. L’ammasso ad un tratto si tirò su in piedi, i capelli di Sanyazi si rizzarono e il suo stomaco si rivoltò, era un uomo scorticato! Il corpo completamente coperto di sangue come se fosse stato spremuto fuori dal suo involucro di pelle. Possibile che qualcuno in quelle condizioni riuscisse a camminare? Erano questi i morti viventi? Mentre questi pensieri affollavano la mente di Sanyazi, il mostro si piegò e si lanciò in avanti, lui si ritrovò a fissarlo negli occhi, la maschera di sangue appiccicata sotto il suo naso, mandava un fetore acido. Mentre il ragazzo cadeva riverso, una sventagliata di proiettili colpì il mostro al petto, era talmente vicino che lo passarono da parte a parte, il sangue schizzò ovunque e l’impatto lo respinse indietro. Sanyazi segretamente gioì, mirò di nuovo questa volta alla testa, udì uno scatto, la pistola si era inceppata! Il fratello di suo nonno aveva trovato l’arma nella tomba di un signore della guerra, inutilizzata da anni, si maledì per non aver avuto il tempo di pulirla sempre occupato com’era seguendo suo padre. Certo, non che avesse spesso avuto occasione di usarla. Chi poteva sapere che quella avrebbe deciso di incastrarsi proprio ora? Sanyazi non era un pivello, la pistola era inceppata allora lui fece roteare il braccio e la scagliò con tutta la forza addosso al cadavere, poi senza aspettare di vedere se l’aveva colpito se la diede a gambe. Questa volta non perse tempo a voltarsi indietro e, convito che la Cosa non sapesse arrampicarsi, corse in direzione di un grosso albero. Inciampò e, come un cane che si lancia sulla merda, finì a faccia avanti contro un ceppo di legno e si ritrovò il naso e la bocca pieni di sangue. Cadde bocconi sbattendo forte le mani a terra, dannazione non 53 gliene andava bene una. A quel punto sentì il fischio del vento dietro le sue spalle, pensò ecco il demonio che viene a prendermi, coraggio, se è arrivata la mia ora tanto vale rimanere dove sono ad aspettarla. Inaspettatamente, il cadavere sanguinolento continuò per la sua strada e gli passò sopra senza accorgersi di lui, il piede gli lasciò un marchio sulla schiena e la sensazione di quell’orrido peso gli rempì la bocca di bile. La schiena nel punto su cui si era posato il piede gli bruciava orribilmente, e la sua vista si offuscò. Sentì di essere stato infettato da un veleno molto potente, poi confusamente vide che nella mano troncata era stretto qualcosa. Aguzzò lo sguardo sbattendo con forza le palpebre, era un brandello di seta antica. Pensò che doveva essere qualcosa di speciale, se il fratello aveva rischiato la vita per portarlo fuori dalla tomba. Non so cosa sia successo ma è meglio tenerla in serbo, e se morirò e la troveranno sul mio cadavere, mio fratello non avrà perso la sua mano per nulla e io non sarò morto invano. Strisciò con difficoltà fino alla mano, la forzò aperta, prese il pezzo di stoffa e se lo infilò nella manica. A quel punto un rombo gli riempì le orecchie, una cortina gli scese davanti agli occhi e le mani e i piedi cominciarono a raffreddarsi. Per quanto ne sapeva doveva essersela fatta sotto, quelli che morivano avvelenati dai miasmi dei cadaveri non erano un bello spettacolo, sperava soltanto che Er Yatou, la ragazza del villaggio vicino, non lo vedesse in quello stato. Formulava pensieri confusi, il cervello non obbediva più ai suoi comandi, a quel punto udì di nuovo lo strano gorgoglio, che aveva sentito provenire dall’antro 54 della tomba. C’era qualcosa che non andava, mentre lottava con il cadavere sanguinolento non aveva emesso nessun rumore, allora da dove veniva quel suono? Forse quello che aveva visto prima non era un morto vivente, ma allora cos’era? Peccato che a quel punto non fosse più in grado di ragionare, l’istinto gli fece alzare la testa, un enorme viso mostruoso incombeva su di lui, fissandolo con gli occhi privi di pupille dallo sguardo senza vita. Margherita Oggero (traduzione di Patrizia Liberati) Margherita Oggero è nata e vive a Torino. Ha insegnato lettere per trentatré anni, in vari tipi di scuole. Si è dedicata alla scrittura solo dopo essere andata in pensione e dal suo primo libro, La collega tatuata, uscito nel 2002 è stato tratto il fortunato film Se devo essere sincera di Davide Ferrario con Luciana Littizzetto e Neri Marcorè. L’anno successivo è uscito Una piccola bestia ferita e in seguito L’amica americana, tutti per Mondadori. Nel 2006 ha pubblicato Così parlò il nano da giardino per Einaudi, nel 2007 Qualcosa da tenere per sé per Mondadori. Il suo ultimo romanzo è Il rosso attira lo sguardo (2008). Protagonista dei suoi libri è la professoressa Camilla Baudino, interpretata in televisione da Veronica Pivetti nella serie di Rai Uno Provaci ancora, Prof!. 55 Le architetture severe di Torino si tingono di colori, le strade brulicano di persone: è l’atmosfera elettrica e allegra delle Olimpiadi invernali, grazie alle quali anche la professoressa Camilla Baudino gode di una vacanza fuori programma. Scuole chiuse, marito e figlia in montagna, Camilla resta in città con il fido cane Potti e... con il bel commissario Berardi. Ma lei, si sa, ha un fiuto particolare per i guai, e anche stavolta ne troverà uno sulla propria strada. La sua giovane amica Liuba che vive in una piccola comune abitata da un gruppetto di ragazzi stravaganti - ha bisogno di aiuto: il dolce, svagato Quantunque, l’ultimo arrivato nella comune, un ragazzino del quale nessuno sa niente ma a cui tutti vogliono bene, è scomparso nel nulla. L’indagine di Camilla s’intreccia presto con quella della polizia, che sta cercando l’assassino della prostituta Flora, in un contrappunto serrato tra l’inchiesta ufficiale e quella - più discreta e “femminile”, ma non meno efficace – di Camilla. Che finirà per trovarsi di fronte a una domanda difficile: fino a che punto è giusto rivelare la verità? Qualcosa da tenere per sé Capitolo I Quantunque aveva vent’anni e la goccia al naso. Una goccia come quella che viene giù da un rubinetto con la guarnizione lasca, che si ingrossa piano piano, si fa oblunga e poi si stacca e cade. Tic...tic... si aspetta il prossimo tic e non si riesce a pensare ad altro. La goccia di Quantunque non faceva rumore, finiva sulla felpa scolorita e chiazzata di macchie o sulla mano che la spazzava con un gesto veloce, ma lo sguardo di chi gli stava vicino ne era come incatenato. Adesso mancava da qualche giorno e Liuba cominciò a preoccuparsi. - Da quand’è che non lo vedi? – chiese all’Avvocato, che non era avvocato ma si era studiato i codici meglio di un principe del Foro. - Boh. Mica gli sto a far da balia. Da quattro o cinque giorni, chi lo sa. - Cinque forse no. Mi sembra che giovedì gli ho parlato – ribatté lei. - E allora cosa chiedi a fare? - Chiedo perché magari qualcuno l’ha visto dopo. Non è mai stato via più di due giorni. 56 - E invece stavolta sta cinque o sei. Perché cazzo ti preoccupi tanto, mi chiedo. Invece Liuba era preoccupata. Non tanto, ma un po’ sì, perché si sentiva responsabile da quando l’aveva adottato, come dicevano gli altri. Se l’era trovato di fianco a una manifestazione contro gli sfratti, l’aveva preso per mano, gli diceva salta o grida e lui lo faceva come se fosse contento di ubbidire. Poi, quando il corteo s’era sciolto, l’aveva seguita come un cane o un gatto sperduto che tiri a trovare qualcuno che lo tolga dalla strada, tre passi dietro a lei, senza parlare, senza chiedere niente. Sempre dietro a lei era salito prima sul 18 poi sul 57, senza biglietto, come lei e come tanti, e con lei era sceso a una fermata tra le borgate Barca e Bertolla. Quando erano arrivati davanti al portone scassato dello Schirrù, era stata lei a chiedergli: - Embè? - Quantunque... – aveva risposto lui. - Quantunque cosa? - Niente. Però non si schiodava, solo bilanciava il peso del corpo ora su una gamba ora sull’altra, come un orso addomesticato. - Da dove vieni? - Dal paese. Sono partito stamattina. - E adesso dove vai? - Non lo so. - Perché sei partito? - Volevo sperdermi. Quantunque... - Quantunque? - Niente. - Ho capito. Scommetto che non hai idea di dove andare a dormire. - Sì. - Sì vuol dire che ce l’hai o no? - No. Liuba si mise a ridere. Un ragazzo grande e grosso ma con il cervello da bambino. E con la goccia al naso come un bambino. - Non puoi soffiartelo sto naso? - Sì, ma tanto ricomincia subito a perdere. È una malattia. - Allora curala. - Ci va un’operazione. - Fattela fare. - Ho paura. - Perché volevi sperderti? - Così. Se mi sperdo loro sono contenti. Quantunque... - Loro sarebbero i tuoi? - Sì. - Puoi dormire qui, per stanot- te. - Qui dove? - Allo Schirrù. - Cosa vuol dire? - Niente, lascia perdere. Vuoi sì o no? - Sì. Era cominciata così, e Quantunque era diventato un inquilino fisso dello Schirrù. Che era uno stanzone, una ex rimessa di carri agricoli, nel cortile di una specie di cascinotta che aveva conosciuto tempi migliori. Gli altri occupanti stanziali, cioè l’Avvocato, Nabil, Vanessa e il Gordo, l’avevano accettato senza entusiasmo e senza insofferenza; i saltuari non avevano mostrato alcun interesse o curiosità per lui e lo vedevano come un elemento trascurabile dell’ambiente, un pezzo di muro scrostato, una sedia spaiata, un pagliericcio. Liuba invece se l’era preso a cuore, gli parlava, e adesso era in pensiero per lui, perché forse si era sperduto di nuovo ed era ancora inverno. L’inverno, se si ha un tetto sulla testa, è la stagione più bella di Torino. Quella in cui i colori hanno una nettezza nordica e gli spiazzi delle piazze diventano percepibili nella loro grandezza; quella in cui l’ombra fredda sotto i portici divide il selciato in parti che non comunicano tra loro, appartenenti a spaccati diversi di una scenografia monumentale e fantastica. L’estate invece è una stagione estranea che fa affondare la città in una mollezza orientale, in una spossatezza da hammam, con le strade quasi deserte e le serrande dei negozi abbassate come palpebre su occhi sonnacchiosi, come le vecchie alberate dei viali – tigli siliquastri ippocastani aceri platani – stremate dal peso delle foglie immobili nella calura. Il sole che picchia dura fa incassare le teste tra le spalle e nessuno alza lo sguardo per leggere lapidi e targhe di vecchi eroismi dimenticati. Adesso era ancora inverno e Liuba era in pena per Quantunque. Che era andato a finire chissà dove. Che non sapeva badare a se stesso. Che chiunque poteva irretirlo e fargli del male. Ma guarda te se non sono stupida, pensò, sistemandosi le creste dei capelli, guarda te se non sembro una dama di carità, un’impicciona di quelle che ho sempre mandato a stendere perché con la scusa di fare del bene al prossimo ficcano il naso dove gli pare. Alzò le spalle davanti allo specchio, si passò un po’ di gommina sulle creste e uscì. Fuori faceva un freddo cane. A Torino Quantunque era capitato per caso, senza aver programmato la meta in nessun modo. Del resto, programmare era una parola che non aveva mai pensato, insieme a tante altre. Una mattina aveva detto che non stava bene, che aveva come una mano che gli stringeva lo stomaco, non si era alzato dal letto e aveva lasciato che i suoi se ne andassero. Padre madre e i due fratelli, Nando e Piero, tutti in fabbrica. La madre ci restava solo fino a mezzogiorno, poi tornava a casa, gli altri invece mangiavano un paio di panini o un piatto caldo al bar di fronte e dopo riprendevano a lavorare. La fabbrica era una fabbrichetta, sette in tutto a lavorarci, loro quattro più tre operai e la madre, che però non la contavano perché teneva solo in ordine e rispondeva al telefono. Quantunque lo contavano, ma il più delle volte era come se non ci fosse, come quella mattina che però non c’era davvero. Dopo che i suoi erano usciti, lui si era buttato giù dal letto, aveva messo nello zaino un po’ di roba, era salito sulla bici nuova di Piero che guai se l’avesse saputo e aveva pedalato per dieci chilometri, fino a Vicenza. Aveva preso la decisione quella notte, dopo che la frenata di un camion sotto la finestra l’aveva svegliato di colpo e non era più riuscito a dormire. Di andarsene forse non gli sarebbe mai venuto in mente, se Nando, che dei due fratelli era quello sempre arrabbiato per qualcosa, una volta, più di un anno prima, non avesse detto che lui, Quantunque, era meglio perderlo che trovarlo e Piero e sua mamma, invece di difenderlo, avevano scosso la testa e borbottato “eh sì sì”, e solo suo papà non aveva detto niente. Aveva cominciato a pensare, ma prima solo di rado, che sarebbe stato bello perdersi, anzi sperdersi, come gli era capitato da bambino quando era andato per funghi con suo papà e i fratelli e poi si era allontanato senza accorgersene e non aveva più trovato il sentiero per tornare vicino a loro oppure a casa. Ma non aveva avuto nessuna paura, solo fame quando era venuto buio e più tardi sonno, e si era addormentato sotto un castagno dove l’aveva trovato don Giacomo la mattina dopo, che era andato per funghi pure lui. Poi il pensiero gli era venuto in mente più spesso, ma era un pensiero solo di striscio, come se riguardasse qualcun altro che neanche conosceva, uno che si sperdeva in un film o telefilm, che cioè se ne andava via di casa e non lo trovavano più. Ma la notte che la frenata del camion l’aveva svegliato, il pensiero era diventato grosso e gli occupava per intero la testa. A Vicenza aveva ritirato alla posta tutti i soldi del libretto e quando era uscito dall’ufficio, dopo aver aspettato più di mezz’ora perché c’era la coda e gli impiegati si alzavano tutti i momenti e sparivano nel retro, la bicicletta di Piero non c’era più. Per un momento gli erano venuti i brividi, ma poi si era ricordato che andava a sperdersi e Piero non l’avrebbe più rivisto. Alla stazione era salito sul primo treno che passava, senza prendere il biglietto perché non 57 avrebbe saputo dire per dove, e gli era andata bene che i vagoni era pieni zeppi di studenti in gita e il controllore non era passato. Era sceso alla Centrale di Milano, insieme con la comitiva, ma là per il chiasso e il viavai gli era venuto subito mal di testa, così era uscito, aveva camminato un po’ e poi era salito su un pullman che davanti aveva la scritta TORINO e aveva pagato il biglietto all’autista che era partito subito dopo. A Torino c’era una manifestazione contro qualcosa fatta da giovani vestiti male, e certi avevano dei cani grossi senza guinzaglio che però non facevano paura, sventolavano bandiere rosse e di altri colori, saltavano, gridavano delle frasi con i megafoni, si tenevano per mano e sembravano allegri, non arrabbiati. Quantunque si intrufolò nel corteo e quando una ragazza lo prese per mano pensò che era bello e che Torino gli piaceva. - Morta da quando? – aveva chiesto il commissario Gaetano Berardi al medico legale. - Difficile a dirsi con sto freddo. E nello stato in cui è. Da un bel po’ comunque. Tre o anche quattro giorni. Strano che nessuno l’abbia notata prima. Intorno c’era il solito crocchio di poliziotti della omicidi ed esperti della scientifica, c’era la piemme, c’era un gruppo di cronisti di nera e fotografi che lanciavano occhiate al cadavere con distacco professionale e battevano i piedi in terra per scaldarseli un po’. - Una battona, tanto per cambiare – aveva osservato uno di “Repubblica”. - Già. Le fanno fuori ovunque come mosche. - Rischi della globalizzazione. Ce ne sono troppe, c’è troppa concorrenza e poca prudenza. 58 - Non è detto che sia stato un cliente. - Il suo garga dici? Tutto può darsi. Neanche i gargagnani sono più quelli di una volta. - Il tempo è cambiato. - Tutta colpa dell’atomica. - O del buco nell’ozono. Che però quest’anno si deve essere chiuso, visto il freddo che fa. - No, scherzi a parte, questa qui non sembra neanche tanto giovane. - Come fai a dirlo? Poveraccia, non è che si capisca granché, da come è conciata. - Le caviglie. Guardale le caviglie. - Grosse, sì. Ma mica tutte ce l’hanno da gazzella. - E una è più grossa dell’altra. Si doveva essere rotta il perone, oppure la tibia e il perone e non glieli hanno aggiustati bene. - E allora? - Allora è roba vecchia. Adesso le ossa le sistemano meglio. A meno di non capitare da un ortopedico rincoglionito. - Magari non è una di qui. Metti che arrivi dalla Moldavia, dall’Ucraina o da un altro posto dell’Est dove negli ospedali non vanno tanto per il sottile... - Difficile. Di là arriva merce giovane, se si tratta di battere. Quelle più ciospe fanno le badanti o le colf. E questa non è vestita da badante, questa è una puttana delle nostre. Erano le dieci del mattino e il freddo continuava a essere feroce, meno sei o meno sette, in quel campo dalle parti di strada di Druento, tra un filare di platani e un’arruffata massa di cespugli stecchiti. Il cielo era grigio piombo, il terreno, sotto lo strato sottile di brina ghiacciata, di un nero cupo. L’unica chiazza di colore era raggrumata addosso alla morta: il suo giubbotto slacciato, rosso mattone. No, rosso sangue. Quel che restava di una donna non più giovane, probabilmente una puttana, era osservato e studiato e fotografato da una dozzina di persone, in attesa dell’ulteriore scempio che sarebbe avvenuto sul tavolo autoptico, perché la morte violenta è sempre soltanto l’inizio. Il medico legale si allontanò di qualche passo e si accese una sigaretta. - Danne una anche a me – gli disse il commissario raggiungendolo. - Ma non avevi smesso? - Avevo. - Non ci si abitua mai, eh? - A scene così, no. - Gran bastardo chi l’ha uccisa. Anzi, ucciderla è stato il meno. Spero che lo becchiate. - Lo spero anch’io. Però sarà dura. Tanto per cominciare, nessun documento, non è stata ammazzata qui e di tempo ne è passato troppo. - Di buono, si fa per dire, c’è che nessuno ti metterà fretta. I morti non sono tutti uguali. - E c’è anche, sempre si fa per dire, che le Olimpiadi non sono ancora cominciate. Nessun cadavere deve rovinare la festa. - Disposizioni superiori? - Diciamo raccomandazioni. Ma gli assassini se ne fregano. Delle raccomandazioni, della bella figura da fare di fronte al mondo e della tivù. Della vita di una disgraziata che le andava meglio a non nascere. - Di’ un po’, cosa ti capita? - Niente. Non mi capita niente. - Non si direbbe. Te la prendi troppo. Pigliala più bassa, e smetti di fumare. - Senti da che pulpito. Tu quando smetti? - Mai. Credi che sia un bel lavoro frugare nelle budella, tagliare e ricucire? - No. - E allora... Buio pesto e un freddo cane. Alla faccia dell’effetto serra e delle altre previsioni apocalittiche. Eccessivo anche per Torino, pensò Camilla. Eccessivo anche per lei, che pure amava il lungo inverno nella città. Forze aveva ragione Renzo e potevo risparmiarmi la visita – continuò a rimuginare tirando ancora più su la lampo del piumino -, e soprattutto dovevo mettermi un paio di pantaloni e non questa gonna da signora, che chissà perchè mi è sembrata più adatta alla circostanza. Bastava una telefonata, o un biglietto. Ma mia mamma ha insistito tanto. Tre settimane a Sorrento, a un prezzo stracciato da fuori stagione, e gite in pullman a Positano, a Pompei, a Caserta eccetera, pensione completa e alla sera trattenimenti danzanti o tornei di pinnacolo in albergo. Con sua cugina Rita, che non è una gran compagnia, ma così non c’è stato da pagare il sovrapprezzo per la camera singola. E tre giorni dopo che è partita scopre dai necrologi della “Stampa” che è morta Carmen Spairano vedova Benedicenti, sua compagna fissa di banco alle elementari e sporadica di cinema nella vedovanza, e mi supplica, cioè mi intima, di rappresentarla nella visita di condoglianze a figlia genero e nipoti che non ho mai visto prima. Veramente mi ha intimato di andare al rosario, dato che non posso andare al funerale di domani che cade in orario scolastico, ma il rosario lo dicono stasera alle nove, e anche l’obbedienza filiale ha dei limiti. Tanto più che la mia macchina è dal meccanico, Renzo arriva tardi e figurarsi se avrebbe avuto voglia di rimandare la cena per accompagnarmi. Niente funerale, niente rosario ma in compenso la visita l’ho fatta, con un bel mazzo di fiori, frasi di rammarico, strette di mano e anche un’occhiata alla morta, che aveva proprio l’espres- sione fissa e definitiva e lontana della morte, ma ho dovuto dire che sembrava dormisse. Sua figlia ha annuito: forse certe menzogne sono balsamo e miele quando si è colpiti dal lutto, e la verità è meglio non sentirsela dire. Affrettò ancora il passo per sentire meno il freddo e svoltò l’angolo. La fermata dell’autobus era a un centinaio di metri. La strada era male illuminata. Nessuna macchina in transito. Nessun passante sui due marciapiedi. Un vago senso di insicurezza. Poco più di mezz’ora dopo era a casa, al caldo e al sicuro. Ma mentre si versava un bicchiere d’acqua la mano le tremava forte. Allo Schirrù Nabil stava dormendo sotto uno strato multiplo di coperte, e Liuba rientrando – il corpo ancora percorso da scariche di adrenalina – imprecò ad alta voce contro lui e contro tutti. Sfaticati e lazzaroni sempre, i maschi. Quando non delinquenti. Fanno indigestione di belle parole, vomitano slogan di uguaglianza, farneticano di un mondo nuovo senza sfruttatori e senza sfruttati, ma a rompersi la schiena preferiscono che siano le donne. Questo qui, poi... l’ha succhiata col latte di mamma l’idea che il suo pendaglietto è roba sublime, e che le femmine lo devono riverire per il solo fatto che ce l’ha... Gli sferrò un paio di calci con gli anfibi, una doppietta violenta e precisa sulle tibie, che le coperte attutirono ma non del tutto. - Ma che, sei scema? - Lo scemo sei tu. E anche stronzo, come ti ho già detto un sacco di volte. - E perché? - Perché le regole non ti entrano in testa, e se ti entrano te ne freghi. - Che regole? Che cazzo dici? - La regola che chi rientra per primo la sera accende le stufe. Adesso alzi il tuo culo molle e ti dai da fare. - Molle sarà il tuo, il mio è di marmo. Non puoi accendere tu le stufe? - No. Le regole devono essere rispettate. - Anche in un circolo anarchico? - Ma che circolo anarchico! Qui di anarchico c’è solo Vindice. Ti sbrighi o ricomincio coi calci? Nabil tirò da un lato le coperte e si alzò, riflettendo per la millesima volta che è una situazione schifosa quella in cui sai che l’altro (altra) ha ragione, ma rimpiangi da matti il prima, quando la ragione, anche se eri in torto, ce l’avevi tu e nessun dubbio ti sfiorava. Le due stufe si accesero una volta tanto senza mandare troppo tanfo di kerosene, Liuba trascinò una sedia accanto alla più grossa e si sedette a scaldarsi. - Com’è che stasera hai voglia di guerra? – chiese lui. - Fatti miei. Non ti riguardano. - E come mai sei qui a quest’ora? - È lunedì. - E allora? - Il lunedì non lavoro. Neanche questo ti entra in testa. Di’ un po’, hai mica visto Quantunque? - No. Ti manca la sua conversazione, per caso? - Sei proprio scemo fino in fondo. - Si sarà trovato una ragazza. Oppure è tornato al suo paese. - Difficile. Ha lasciato qui la sua roba. - Anche i soldi? - I soldi? Non ci avevo pensato. - Sono sempre scemo fino in fondo? - No, solo a tre quarti. Vado a chiedere a Vindice. 59 Qiu Xiaolong Shanghai 1990. Il corpo senza vita di una giovane donna viene trovato in un canale fuori città. La vittima, Guan Hongying, è una famosa Lavoratrice Modello della Nazione, figura esemplare della propaganda di Partito. L'incarico delle indagini viene affidato all'ispettore capo Chen Cao, poeta, traduttore, curioso gourmet, capo della squadra casi speciali del Dipartimento di polizia di Shanghai. Ben presto emergono forti implicazioni politiche, ma nonostante il partito faccia pesanti pressioni perché il caso venga insabbiato, Chen continua ad indagare, cercando giustizia a tutti i costi, e mettendo così a repentaglio la sua brillante carriera. La misteriosa morte della compagna Guan Capitolo II Qiu Xiaolong autore della serie dell’ispettore poeta Chen Cao, è nato a Shanghai e dal 1989 vive negli Stati Uniti. Di Qiu Xiaolong, Marsilio ha pubblicato La misteriosa morte della compagna Guan, Visto per Shanghai, Ratti rossi e Quando il rosso è nero, una serie che nel mondo ha venduto più di un milione di copie. I suoi romanzi sono stati tradotti in diverse lingue. 60 Alle quattro e mezza di quello stesso giorno, l’ispettore capo Chen Cao, comandante in capo della squadra casi speciali, divisione omicidi, Dipartimento di polizia di Shanghai, era ancora all’oscuro del caso. Era un afoso venerdì pomeriggio. Di tanto in tanto, fuori dalla finestra del suo nuovo monolocale al secondo piano di una costruzione in mattoni grigi si potevano udire le cicale frinire da un pioppo. Dalla finestra poteva osservare l’intenso traffico che si muoveva lentamente lungo via Huaihai, ma a giusta distanza, senza sentirne il rumore. La posizione dello stabile era molto comoda, vicino al centro del quartiere Luwan; impiegava meno di venti minuti a piedi per raggiungere Nanjing verso nord, oppure il Tempio del Dio della città a sud, e nelle chiare notti estive poteva sentire la brezza odorosa del fiume Huangpu. L’ i s p e t t o r e c a p o C h e n avrebbe dovuto essere nel suo ufficio, e invece si trovava nel suo appartamento, solo, a cercare di risolvere un problema. Sdraiato su un divano di pelle, con le gambe distese su una sedia girevole grigia, stava analizzando una lista scritta sulla prima pagina di un blocco per appunti. Scarabocchiò alcune parole e poi le barrò, guardando fuori dalla finestra. Vide la sagoma svettante di una gru che si ergeva nella luce del pomeriggio, stagliandosi su di un nuovo edificio a circa un isolato di distanza. Il complesso condominiale non era stato ancora terminato. Il problema con il quale si stava misurando l’ispettore capo, cui avevano appena assegnato un nuovo appartamento, era la sua festa d’inaugurazione della casa. Ottenere un appartamento a Shanghai era un evento degno di celebrazione, per quanto lo riguardava ne era immensamente soddisfatto e, nell’entusiasmo del momento, aveva mandato degli inviti. Adesso stava pensando a come avrebbe intrattenuto i suoi ospiti. Non se la sarebbe cavata con una semplice cena fatta in casa, l’aveva avvertito Lu, soprannominato il Cinese d’oltremare. Per un’occasione di tale portata ci voleva la lista degli invitati. Wang Feng, Lu Tonghao e sua moglie Ruru, Zhou Kejia e sua moglie Liping. Gli Zhou avevano telefonato poco prima per avvisare che forse non sarebbero potuti venire a causa di una riunione all’Università Normale della Cina Orientale. In ogni caso era meglio preparare anche per loro. Il telefono sul mobiletto squillò; si alzò e prese il ricevitore. 61 - Casa Chen. - Congratulazioni, ispettore capo Chen! – disse Lu. – Ah, posso sentire un delizioso profumino nella tua nuova cucina! - Spero proprio che tu non mi stia chiamando per dirmi che arriverete in ritardo, Cinese d’oltremare Lu. Contavo su di voi. - Ma certo che veniamo. È solo che il “pollo del mendicante” ha ancora bisogno di un paio di minuti nel forno. Il miglior pollo di tutta Shanghai, garantisco. Solo ed esclusivamente aghi di pino delle Montagne gialle per cucinarlo, e sentirai che gusto speciale. Non preoccuparti: non ci perderemmo la tua festa di inaugurazione per nulla al mondo, fortunello. - Grazie. - Non dimenticarti di mettere delle birre in frigo. E anche i bicchieri. Fa una gran differenza. - Ci ho già messo una mezza dozzina di bottiglie. Qingdao e Bud. E non si scalda il liquore di riso di Shaoxing finché non arrivate, giusto? - Bene, adesso ti puoi considerare un mezzo gourmet. Forse anche più di mezzo. Non c’è dubbio che fai presto a imparare. In questo commento c’era tutto Lu. Perfino attraverso il filo del telefono poteva avvertire nella sua voce tutta l’eccitazione alla prospettiva di una cena. Raramente Lu riusciva a parlare per più di due minuti astenendosi dal portare 62 la conversazione sul suo argomento preferito: il cibo. - Con il Cinese d’oltremare Lu come maestro, potrei fare dei progressi. - Ti darò una nuova ricetta stasera, dopo la festa, - disse Lu. – Che colpo di fortuna, caro compagno ispettore capo! I tuoi antenati devono aver bruciato fasci di incensi al Dio della buona sorte. E anche al Dio della cucina. - Be’, mia madre ha bruciato degli incensi, ma a quale divinità non lo so proprio. - Lo so io, a Guanyin. Una volta l’ho vista che si genufletteva di fronte a un’immagine d’argilla, - dev’essere stato più di vent’anni fa – e gliel’ho chiesto. Agli occhi di Lu, l’ispettore capo Chen si era imbattuto nella buona sorte, o in una qualsiasi divinità della mitologia cinese che gli aveva portato fortuna. A differenza della maggior parte della gente della sua generazione, anche se apparteneva alla “gioventù istruita” che aveva il diploma liceale, nei primi anni settanta Chen non era stato mandato in campagna “per essere rieducato da poveri contadini della classe medio-bassa”. In quanto figlio unico aveva potuto rimanere in città, doveva aveva studiato inglese per conto suo. Finita la Rivoluzione culturale, era stato ammesso all’Istituto di lingue straniere di Pechino con un ottimo voto in inglese e aveva poi ottenuto un lavoro al Dipartimento di polizia di Shanghai. Ed ecco ora un altro colpo di fortuna: in una città sovrappopolata come Shanghai, con più di tredici milioni di persone, c’era una grave penuria di abitazioni. E nonostante questo, gli era stato assegnato un appartamento singolo. Il problema degli alloggi godeva a Shanghai di una lunga tradizione. Piccolo villaggio di pescatori durante la dinastia Ming, Shanghai era cresciuta fino a essere una delle più prosperose città dell’Estremo Oriente, con compagnie e fabbriche che spuntavano come germogli di bambù dopo una pioggia di primavera, e gente che vi si riversava da tutte le parti. Lo sviluppo delle abitazioni smise di tenere il passo durante il dominio dei signori della guerra del Nord e del governo nazionalista. Quando i comunisti presero il potere nel 1949, la situazione volse inaspettatamente al peggio. Il presidente Mao incoraggiò l’incremento della natalità, fino a fornire addirittura sussidi alimentari e assistenza gratuita. Ma le disastrose conseguenze di questa politica non tardarono a venire alla luce: famiglie formate da persone di due o tre generazioni furono compresse in un’unica stanza di dodici metri quadri. Presto la disponibilità di case divenne un argomento scottante per la gente impiegata nelle “unità lavorative” – fabbriche, compagnie, scuole, ospedali o uffici di polizia, - cui ogni anno veniva assegnato un numero fisso di case direttamente dalle autorità della città. Dipendeva dall’unità lavorativa decidere quale impiegato avrebbe avuto un appartamento. Parte della soddisfazione di Chen derivava dal fatto di avere ottenuto l’appartamento grazie alla speciale intercessione della sua unità lavorativa. Mentre preparava la sua festa d’inaugurazione, affettando un pomodoro per un contorno, si ricordò di quando alle elementari cantava una canzone sotto il ritratto del presidente Mao, una canzone molto in voga negli anni sessanta. L’interesse del Partito mi scalda il cuore. Non c’era nessun ritratto del presidente Mao nel suo appartamento. Non era un appartamento lussuoso: non c’era una vera cucina, ma solamente uno stretto corridoio con un paio di fornelli compressi in un angolo, con un armadietto appeso sopra. Né si poteva parlare di un vero bagno: una cabina sufficiente a contenere appena un water e un quadrato di cemento con una doccia di acciaio inossidabile; di acqua calda non se ne parlava nemmeno. C’era però un balcone che poteva servire da rispostiglio per bauli di vimini, ombrelli da riparare, sputacchiere di ottone arrugginito o qualsiasi cosa non fosse degna di essere stivata nella stanza. Non possedendo cose del genere, Chen aveva messo sul balcone solo una sedia di plastica pieghevole e alcuni scaffali di una libreria. L’appartamento gli andava bene. C’erano state alcune proteste in ufficio a causa dei suoi privilegi. Sapeva bene che per quelli con più anni di servizio o con famiglie più numerose, che ancora erano in lista di attesa, la sua recente acquisizione era un altro esempio dell’ingiusta politica dei nuovi quadri dirigenti, ma decise per il momento di non pensare a queste spiacevoli rimostranze. Si doveva concentrare sul menu della serata. Non aveva molta esperienza in tema di preparazione di feste. Con un libro di cucina in mano, concentrò la sua attenzione sulle ricette definite “di facile esecuzione”. Anche quelle richiedevano un certo tempo, ma sulla tavola cominciarono ad apparire, uno dopo l’altro, piatti colorati, che portavano nella stanza una piacevole mistura di aromi. Alle sei meno dieci aveva finito di preparare la tavola; si fregò le mani, contento del risultato dei suoi sforzi. Come portate principali c’erano bocconi di stomaco di maiale su un letto di napa verdi, sottili fette di carpa affumicata adagiate sopra delicate foglie di jicai e gamberetti al vapore con salsa di pomodoro. C’era inoltre un piatto di anguille con scalogno e zenzero, che aveva ordinato a un ristorante. Aveva anche aperto una scatola di maiale al vapore Meiling e ci aveva aggiunto delle ver- dure per fare un piatto in più; a parte, preparò un piattino di fette di pomodoro e uno di cetrioli. Quando fossero arrivati gli ospiti, avrebbe fatto una zuppa con il sugo del maiale in scatola e dei sottaceti. Stava scegliendo una pentola dove scaldare il liquore di Shaoxing, quando suonò il campanello. La prima ad arrivare fu Wang Feng, una giovane giornalista del “Giornale di Wenhui”, uno dei quotidiani della Cina. Attraente, giovane, intelligente, sembrava avere tutte le caratteristiche di una giornalista di successo. In quel momento non aveva con sé la sua valigetta di cuoio nero, ma reggeva tra le braccia un enorme dolce di pinoli. - Congratulazioni, ispettore capo Chen! – esclamò. – Che appartamento spazioso! - Grazie. – Rispose prendendo il dolce dalle sue braccia. La condusse in giro per cinque minuti. L’appartamento sembrava piacerle molto, guardava dappertutto, aprendo le porte degli armadi, e saltò nel bagno, dove si sollevò sulle punte dei piedi per toccare il tubo della doccia e il doccino nuovo. - Anche il bagno! - Be’, come la maggior parte degli abitanti di Shanghai, ho sempre sognato di avere un appartamento in questa zona – disse porgendole un bicchiere di vino frizzante. - E hai anche una magnifica vista dalla finestra, - continuò 63 lei, - sembra quasi un quadro. Wang si appoggiò alla finestra, appena ridipinta, le caviglie incrociate, il bicchiere in una mano. - Tu lo stai facendo diventare un quadro – disse lui. Nella luce del pomeriggio che filtrava dalle tapparelle, la sua carnagione era di porcellana opalescente, gli occhi era luminosi, a mandorla, lunghi appena da suggerire un carattere ben definito, i suoi capelli neri scendevano fino a metà schiena. Indossava una maglietta bianca e una gonna a pieghe, con un’alta cintura di coccodrillo che fasciava la sua vita da “vespa emancipata” e sottolineava il seno. Vespa emancipata, un’immagine inventata da Li Yu, l’ultimo imperatore della dinastia Tang del sud, nonché brillante poeta, che aveva descritto l’incantevole bellezza della sua concubina favorita in numerose celebri poesie. L’imperatore poeta temeva di spezzarla in due stringendola troppo stretta. Si dice che l’uso di fasciare i piedi abbia avuto inizio durante il regno di Li Yu. Dei gusti altrui non si discute, pensò Chen. - Cosa intendi dire? – chiese lei. - Con sì sottile vita, lei danza leggera sul mio palmo – le disse, cambiando la fonte non appena si ricordò della tragica fine della concubina dell’imperatore, che si annegò in un pozzo quande cadde la dinastia Tang. – Il celebre verso di Du Mu non ti rende giustizia. 64 - Un altro dei tuoi falsi complimenti scopiazzati dalla dinastia Tang, mio poetico ispettore capo? Adesso riconosceva la donna dotata di ironia che aveva incontrato per la prima volta nell’edificio del “Wenhui”, pensò Chen con gioia. Le ci era voluto un bel po’ di tempo per riprendersi dall’abbandono di suo marito. Studente in Giappone, l’uomo aveva deciso di non fare ritorno in Cina allo scadere del suo visto. Wang ovviamente l’aveva presa male. - Poeticamente solo – disse lui. - Con questo nuovo appartamento non hai più scuse per rimanere celibe. – Vuotò il contenuto del bicchiere e i suoi lunghi capelli ondeggiarono. - Potresti presentarmi qualche ragazza. - Hai bisogno del mio aiuto? - Perché no, dal momento che desideri aiutarmi? – cercò di cambiare argomento. – E a te come vanno le cose? Intendo dire il tuo nuovo appartamento. Scommetto che presto ne avrai uno tutto per te. - Ah, se solo fossi un ispettore capo, un astro nascente della politica. - Oh sì, è vero, - disse sollevando il bicchiere, - mille grazie. Era vero, almeno in parte. Il loro primo incontro era stato di carattere professionale. Le era stato commissionato un articolo sui “poliziotti della gente”, e le aveva fatto il suo nome il segretario del partito Li del Dipartimento di polizia di Shanghai. Mentre parlava con Chen nel suo ufficio, il suo interesse si andava via via spostando molto più sul suo modo di passare le serate che non sul suo lavoro durante il giorno. Gli avevano pubblicato diverse traduzioni di gialli occidentali. Non che la giornalista fosse una patita del genere, ma in ogni caso aveva intravisto un taglio diverso per il suo articolo. Anche i lettori apprezzarono l’immagine di un ufficiale di polizia giovane e colto, che “lavora fino a tarda notte, traducendo libri per allargare gli orizzonti delle sue competenze professionali, mentre la città di Shanghai dorme tranquilla.” L’articolo colpì anche l’attenzione di un importante viceministro a Pechino, il compagno Zheng Zuoren, che pensò di avere trovato un nuovo modello per il ruolo. Era dovuto anche alla raccomandazione di Zheng se Chen era stato promosso ispettore capo. Alberto Toso Fei Alberto Toso Fei, nato a Venezia, discendente di una antica famiglia di vetrai di Murano, è un esperto di storia veneziana. Viaggiatore e giornalista, ha scritto quattro libri che costituiscono una sorta di antologia del mistero su Venezia e sulla laguna. L’ultimo è I segreti del Canal Grande (2009), edito da Studio LT2. Gli altri sono Leggende veneziane e storie di fantasmi (2000), Veneziaenigma (2004), Misteri della laguna e racconti di streghe (2005), tradotti in diverse lingue: Venezia vi è raccontata come un mosaico ricomposto che, tassello dopo tassello, svela l’enigmatica essenza della città, scavando nel suo passato fino agli albori di una storia lunga tredici secoli. Nel 2007, ha dato alle stampe Shakespeare in Venice, un libro-guida con quaranta luoghi della Serenissima vista con gli occhi di Otello e di Shylock. Nel 2008 ha realizzato due libri-gioco su Venezia e Roma, coi quali, grazie a un sofisticato sistema tecnologico, è possibile visitare le città riallineando le pagine con l’uso del telefono cellulare, divenendo protagonisti di una straordinaria caccia al tesoro culturale. Alberto Toso Fei è anche il direttore artistico del neonato Festival del Mistero “Veneto: Spettacoli di Mistero”, che prenderà il via a novembre in cento località del Veneto. 65 Una storia densa di accadimenti, in bilico tra mito e realtà, della quale l’autore fornisce una completa e documentata mappatura suddivisa in sei scenari: i sestieri della città. Il lettore può così varcare la soglia delle apparenze e addentrarsi in una Venezia diversa, “sottile” e misteriosa, fatta di segni levigati dal tempo, allegorie e codici arcani da decifrare. Cronache, usi e costumi, traduzioni, racconti popolari e leggende tramandate, divengono allora la chiave di lettura per scoprire verità sepolte, luoghi, fatti e personaggi affascinanti, protagonisti di straordinarie vicende che testimoniano gli antichi sfarzi e il potere che furono della “Dominante”. Veneziaenigma Tredici secoli di cronache, misteri, curiosità e straordinarie vicende tra storia e mito Venezia, dove abita la leggenda A Venezia la storia abita i luoghi con grande leggerezza. Mille e rotti anni d’età vivono con estrema delicatezza tra le pietre posate sull’acqua. Una sensazione che si accresce e si arricchisce di stupore non appena ci si accorge che a rendere viva ogni cosa è la leggenda, che traspare appena dal marmo e dalla bellezza, e infonde un senso diverso a ciò che l’occhio vede, donandogli un significato più profondo. Una pietra, una statua, un graffio sul muro, possono qui far rivivere personaggi, emozioni, vicende, leggende e misteri che attraversano il tempo. O, per dirla meglio, lo fermano, lo fissano per sempre in più epoche sovrapposte, che parlano a chi abbia voglia di stare ad ascoltare. Perché a Venezia i luoghi parlano, in mille lingue, da mille ere, nello stesso momento. E tutto, attorno a chi si muove tra un giardino segreto e il riflesso ipnotico dell’acqua, concorre a evocare un sentimento, una emozione, una paura, un pensiero che credevamo perduto per sempre; a rendere perennemente instabile il rapporto 66 che abitualmente si ha con la vita, a farlo diventare meno sicuro, meno ancorato alla realtà, meno dedito alla ricerca di certezze. Per dirla in una sola parola, a farci sentire vivi. È per questo che percorrendo le calli della Serenissima è facilissimo anche evocare fantasmi, quelli che ci abitano dentro, ma anche gli altri, quelli veri. Uno di questi luoghi è casa Tintoretto, che a Venezia si affaccia tra Campo dei Mori e il Rio de la Sensa nella splendida zona della Madonna dell’Orto, che il pittore elesse a dimora fino al giorno della sua morte, il 13 maggio 1594, e accanto alla quale aveva la sua “bottega”. Irascibile, scorbutico, scostante, a volte sleale, ma anche generoso, padre amorevole, persona intelligente e pronta di spirito: Jacopo Robusti, destinato a diventare uno degli artisti più affermati della storia con quel nome che tanto disprezzava e che gli derivava dall’essere figlio di un tintore di panni – Tintoretto, appunto – fu pienamente uomo della sua epoca, e del Rinascimento rappresentò i fasti e le bassezze, così come di Venezia incarnò le contraddizioni e la grandiosità. La casa riflette singolarmente ancora oggi le caratteristiche del personaggio: altera, nel suo essere alta e stretta, e soprattutto nel suo sovrastare chiunque passi sulla stretta riva dall’alto in basso; ma nello stesso tempo accogliente, per come cattura l’attenzione, si concede allo sguardo, si lascia esplorare. Ornata ma senza fronzoli. Elegante senza ostentazione. Di carattere, insomma, così come si direbbe di una persona. Standoci di fronte, non si può tardare a notare un grande bassorilievo tra le finestre del salone del primo piano, raffigurante Ercole con una enorme clava. Fu fatto porre lì dallo stesso artista quando, giovane padre, fu protagonista suo malgrado di un’incredibile avventura: quella scultura non sarebbe altro che un particolarissimo “tappo” fatto inserire nella parete dopo la vicenda de… La strega che uscì dal muro Venne il tempo per Marietta, la figlia maggiore di Tintoretto, di fare la prima comunione. All’epoca, per i bambini che avevano appena ricevuto il sacramento, vi era l’usanza di predisporre la cappella del convento di Madonna dell’Orto affinché potessero andare ogni mattina, per dieci giorni, a ricevere l’eucarestia. Fu così che la prima mattina, recandosi a messa attraverso il grande giardino del convento, Marietta incontrò una vecchia che le chiese dov’era diretta, “A fare la comunione”, rispose lei. “Dì, vuoi diventare come la Madonna?”, incalzò la donna. “Oh, ma è impossibile!” replicò la piccola. “No, non è impossibile, se farai come dico. Invece di fare la comunione, tieni la particola in bocca, poi nascondila nella tua camiciola e appena tornata a casa mettila in un posto sicuro. Quando ne avrai sette tornerò, e vedrai che bella sorpresa”. Per qualche giorno la bimba fece come la donna le aveva detto, e per timore che qualcuno scovasse le ostie consacrate, le nascose dentro una scatola di latta che celò dietro l’abbeveratoio nel giardino di casa, in prossimità di un piccolo ricovero dove il padre, com’era uso all’epoca, teneva un paio di maiali e un’asina. Ma cinque o sei che furono le ostie, una mattina i servitori di Tintoretto salirono in casa a chiamare il pittore, che venisse a vedere da sé ciò che stava accadendo: in giardino le bestie stavano inginocchiate davanti all’abbeveratoio e non volevano saperne di alzarsi, nemmeno a bastonate. Jacopo allontanò tutti; quel comportamento degli animali gli faceva sentire odore di zolfo. Rimasto solo, iniziò la sua ricerca, e non gli ci volle molto per scoprire la scatola di latta. A quel punto alla bambina non restò che confessare tra le lacrime, come una specie di fiume in piena: “C’è una vecchia, padre… mi ha fermato per strada… ha detto… la Madonna” “la Madonna?!” “Sì… che diventerò come lei…” “Come la vecchia?!” “No! Come la Madonna… se riuscirò a metterle da parte sette particole”. Tintoretto, che per il lavoro che svolgeva – benché uomo di fede – era a conoscenza di alcune pratiche legate alla cabala e alla magia, sapeva bene che con quel metodo le vecchie streghe ne “reclutavano” di più giovani con l’inganno. Decise di non farne parola con alcuno. Intimò a Marietta di tornare a fare la comunione come ogni brava bambina doveva fare, e le disse di non preoccuparsi, che se la vecchia signora fosse tornata, ci avrebbe pensato lui. Giunta la mattina del settimo giorno, il pittore istruì la figlia: una volta ritornata a casa dalla messa, si sarebbe messa in attesa sul davanzale, e qualora la vecchia si fosse fatta vedere, l’avrebbe lasciata salire in casa. La strega non tardò, e Marietta, su indicazione del padre, andò ad aprirle. Ma non fece in tempo a varcare la soglia del salone al piano superiore che l’artista l’aveva già aggredita con un enorme bastone nodoso. Dopo le prime legnate andate a segno, la vecchia fu lesta a trasformarsi in gatto, e in tale forma iniziò a correre e arrampicarsi come una pazza lungo le pareti, sui mobili, sui tendaggi. Ma Tintoretto era una furia: gatto o donna, per lui faceva lo stesso. E continuò a colpire come un ossesso finché la strega, vistasi perduta, lanciò un grido acutissimo, disumano, e avvolta in una nube nera si scagliò con tale violenza contro la parete che ne uscì all’esterno lasciando un foro nel muro. Nessuno la rivide mai più. Ma Tintoretto, affinché ella non potesse in alcun modo rientrare in casa da dove se ne era fuggita, e per ricordarle cosa doveva accaderle se si fosse fatta rivedere in quei paraggi, fece murare a guardia delle pareti domestiche il rilievo di Ercole con la clava lì, dove ancora oggi è visibile. Bravo, sì… Ma che brutto carattere! Del pittore, è evidente, non stiamo raccontando ciò che si può trovare nei libri di storia: preferiamo descrivere il personaggio e l’aura di leggenda che i secoli gli hanno circonfuso attorno, e che Venezia sa conservare gelosamente e a dispetto del tempo, come uno scrigno straordinario e unico che cela le sue perle più preziose negli scomparti più impensati. Se infatti l’uomo era bravo col pennello, sul suo brutto carattere e sul temperamento a dir poco bizzoso esistono alcune storie divertenti: raggiunta la notorietà, un bel giorno Tintoretto ricevette un incarico molto importante, quello di dipingere “il giudizio universale”, un quadro dalle proporzioni immense destinato alla Sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale. Oggi il dipinto non esiste più, essendo andato distrutto in un incendio che nel 1577 bruciò in gran parte il palazzo dei dogi, ed è stato sostituito da un analogo soggetto dipinto più tardi da un altro Jacopo, Palma il Giovane. Un giorno, mentre stava lavorando al quadro - direttamente nella grande Sala - ed era tutto concentrato per concludere al più presto, gli si avvicinarono alcuni senatori e altri dignitari della Repubblica. Dopo aver osservato a lungo il pittore mentre lavorava, e dopo aver commentato tra loro il dipinto, uno di questi, vedendo Tintoretto che come al solito dipingeva con molta rapidità e con pennellate nervose, non si trattenne dall’osservare che altri pittori (“come il Giambellino”, si lasciò scappare), andavano forse più a rilento ma facevano di sicuro lavori più accurati. “Può darsi che sia come dice lei – rispose bruscamente Tintoretto, che interruppe il lavoro e si affacciò dal ponteggio – ma di sicuro loro non hanno troppa gente che viene a rompergli i coglioni mentre 67 stanno dipingendo”. E raggelati i nobili, che se ne andarono alla spicciolata, riprese a dipingere più in fretta di prima. L’uomo non era, evidentemente, uno stinco di santo. Nel 1549 i confratelli di San Rocco, in luogo della loro vecchia Scuola ne inaugurarono una ancora più grande e bella, che all’epoca costò la sbalorditiva cifra di 47mila ducati. Serviva un ciclo pittorico che fosse all’altezza dello sfarzo dell’edificio, e immediatamente fu bandito un concorso per scegliere chi, fra i maggiori pittori dell’epoca, avrebbe dipinto le opere destinate a ornare le grandi sale. Alla gara parteciparono i più famosi artisti presenti allora in città: Paolo Veronese, Giuseppe Salviati, Andrea Schiavone, Federico Zuccaro e, appunto, Jacopo Tintoretto. Quest’ultimo, comprata la complicità dei custodi della Scuola, si intrufolò per carpire le misure esatte misure dell’ovale del soffitto, e mentre gli avversari erano alle prese coi bozzetti, dipinse (come suo solito con grande velocità), il quadro che ancora oggi fa mostra di sé, facendolo montare sul posto. Il giorno dell’esame dei bozzetti, mentre stava avvenendo la stima delle opere presentate, con un grande colpo di teatro il cui scalpore ha varcato i secoli, il pittore fece scoprire la sua tela, precisando che qualora non fosse piaciuta ne avrebbe fatto dono a San Rocco “per grazia ricevuta”. Nel fare ciò, si avvalse maliziosamente di una antica legge delle Scuole veneziane, secondo la quale un dono fatto a un Santo non poteva essere rifiutato. Ricevette così l’incarico di terminare l’intero ciclo, che fa ancora oggi bella mostra di sé dalle pareti e dai soffitti di San Rocco. Ma torniamo alla sua abitazione di fondamenta dei Mori, perché le mura antiche di casa 68 Tintoretto hanno ancora molte vicende da raccontare. Dalla morte di Jacopo Robusti, ovviamente, la dimora ha subito infiniti restauri e adattamenti, tanto da essere utilizzata nella seconda metà del Novecento anche come affittacamere. Tra tutti i possibili intrecci di storie ed epoche, è questo il periodo che ci interessa, perché vi si svolse una storia incredibile. I bambini in cerca d’affetto Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta in casa Tintoretto alloggiò un uomo, Giuseppe R., che vi abitò per circa tre anni e fu protagonista di alcune straordinarie esperienze, condivise in parte con la figlia Anna. Del luogo si dice tutto e il contrario di tutto: che sia stato porzione di un convento, e di come nel conturbante giardino interno siano state trovate sepolture di bambini; di come sia stato un orfanotrofio, in un qualche momento della sua lunga storia; certamente il giardino è un luogo connotato da un silenzio quasi innaturale, come se anche gli uccelli faticassero a cinguettarvi, e i rumori dall’esterno si rifiutassero di oltrepassare il muro di cinta. Quanto ai fantasmi, Giuseppe raccontava alla figlia di come esistesse lo spettro di un uomo sconosciuto che si manifestava in determinate ore del giorno e della notte, senza recare disturbo, apparendo sempre nei medesimi luoghi della casa, silenzioso, tutto preso da un suo insondabile dolore. E, e parte gli strani e sommessi rumori che più volte accompagnavano l’uomo nel suo peregrinare serale e notturno nella grande abitazione, al pianterreno – così come lungo la scala – avveniva spesso di sentire distintamente il rumore di piccoli passi sul pavimento di legno. Più e più volte Giuseppe, inoltre, si sentì prendere per mano da minuscole manine che lo accompagnavano da un piano all’altro: erano dei piccoli fantasmi di bambini. Le prime volte l’uomo era spaventatissimo, ma col tempo questo fatto divenne quasi una abitudine. Per Giuseppe i passettini e le piccole mani invisibili che stringevano la sua divennero una dolce consuetudine: sembrava che quelle piccole anime fossero alla ricerca di una figura che le proteggesse, una sorta di papà in carne e ossa che probabilmente non avevano mai avuto nella loro breve vita. Un giorno anche la figlia Anna assistette a un episodio che la segnò per tutta la vita. Fino a quel momento aveva amorevolmente ascoltato i racconti del padre, credendo al genitore ma serbando in cuor suo un sano scetticismo. Una sera d’inverno – nel giardino innevato – la ragazza stava chiacchierando col padre: erano all’esterno a fumare una sigaretta e si erano seduti davanti agli alberi spogli e bianchi di neve. Improvvisamente, davanti ai loro occhi, sul lieve manto nevoso, assistettero al formarsi dal nulla di piccole impronte: le orme di un bambino. Da quel giorno sembra che i piccoli fantasmi di bimbo siano svaniti nel nulla, o forse semplicemente nessuno ha più raccontato ciò che può aver visto o percepito. Ma questo non è un problema: Venezia sa aspettare, e nel suo essere città-scrigno nulla va mai realmente perduto. In fondo, poi, questa è solo una storia: domani se ne potranno raccontare altre mille, di questa Serenissima dell’anima sempre pronta a nuove scoperte, a nuove sovrapposizioni; ancora capace di rendersi eternamente libro scolpito di incredibili vicende da narrare, che aspettano solo di essere riconosciute e lette tra le pietre. Almeno finché l’uomo manterrà intatta la sua capacità di stupirsi. Zhang Muye Tianxia Bachang (pseudonimo di Zhang Muye) nato a Tianjin, è protagonista del caso letterario cinese più sconvolgente degli ultimi tempi. A soli 27 anni, per alleviare la noia delle sue giornate di impiegato in una società finanziaria ha iniziato l’opera che lo ha reso uno dei più noti scrittori del Paese. Il primo racconto è apparso in rete nel marzo del 2006. Ad oggi gli otto romanzi della serie Lo spettro spegne la candela (Gui chui deng) hanno superato le 500.000 copie e vantano un pubblico di almeno 6 milioni di lettori. 69 Quando “gli uomini accendono una candela e lo spettro la spegne” è segno che un pericolo si annida nella tomba. Questo è il segreto che si tramandano i membri della Mojin, la più esperta setta di tombaroli cinesi. Alla scoperta dei tesori di un’antica civiltà custoditi da mostri e trappole fatali, tra pericoli e mistero, una serie che ha riscosso un enorme successo in Cina. In preparazione il nono episodio. Lo spettro spegne la candela - Gli splendori della città antica (dalla versione in rete) Prologo Rubare nelle tombe non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo; non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. Rubare nelle tombe è una tecnica, una tecnica della distruzione. I privilegiati dell’antichità nel costruire i loro mausolei hanno escogitato tutti i modi possibili per evitare il saccheggio, così li hanno riempiti di dispositivi nascosti, congegni rivelatori, sabbie mobili, frecce avvelenate, insetti letali, trabocchetti e via dicendo. Nell’epoca Ming hanno persino corredato alcune tombe di sistemi di sicurezza a otto combinazioni di produzione straniera, ispirati alle diavolerie e ai marchingegni degli occidentali. Le tombe imperiali dell’epoca Qing, in particolare, sono il prodotto di migliaia di anni di perfezionamento delle tecniche antiscasso. Al signore della guerra Sun Dianying, che voleva finanziare le sue campagne militari con i tesori trafugati 70 nelle tombe dei Qing orientali, nonostante l’enorme dispiego di forze furono necessari cinque o sei giorni di scavi e esplosioni per ottenere lo scopo, questo dimostra quanto fossero robuste. Dal canto suo, il tombarolo si ingegna in mille modi per neutralizzare i sistemi di protezione e impadronirsi dei tesori. Al giorno d’oggi il problema non è tanto introdursi nelle tombe quanto trovarle, perché quelle contraddistinte da tumuli e lapidi sono state già saccheggiate da un pezzo e per identificare le tombe rimaste indisturbate da secoli e prive di segni di riconoscimento, ci vogliono perizia e attrezzi adatti. È per questo che sono stati inventati lo spiedo, la pala di Luoyang, il chiodo di bambù, il drago foraterra, l’artiglio che fruga gli inferi e il grimaldello nero. I più bravi non si servono di strumenti, tra loro c’è chi ricerca nei libri antichi la presenza di antichi cimiteri e un pugno di uomini consulta i testi occulti, decifrando i tracciati del paesaggio e il corso dei fiumi, cercano gli antri dei morti con l’ausilio della geomanzia. Io appartengo a quest’ultima categoria. Ho girato in lungo e in largo e mi sono capitate avventure fantastiche e bizzarre, vicende straordinarie che potrebbero sconvolgere qualsiasi lettore e far rimanere con la lingua di fuori chi ascolta, storie di ombre di draghi e tigri nascoste, di quando si spaccò il cielo e si sollevò la terra, si agitarono i mari e ribollirono i fiumi. Inizierò a narrare le mie imprese partendo dal libro Il metodo occulto di geomanzia yin-yang in sedici simboli ereditato da mio nonno, un testo incompleto, c’era soltanto il primo rotolo che raccoglieva segreti di famiglia per decifrare i tracciati geomantici di tombe e cimiteri... (traduzione di Patrizia Liberati) Ottobre – ore 19, ingresso libero Ciclo speciale in occasione del convegno letterario “Noir, Mistero e Gialli” VEN 9 – Il commissario Montalbano – Il ladro di merendine Tratto dal romanzo di Andrea Camilleri, la trama è condita di morti, amanti, lettere anonime, piccola malavita, ma anche di progetti di nozze e antipasti di mare, toccando trasversalmente tematiche attuali come l’immigrazione dalla vicina Africa e i traffici illeciti. Regia: Alberto Sironi Cast: Luca Zingaretti, Katharina Böhm, Cesare Bocci Sott. cinese MAR 13 – Disegno di sangue Appena sbarcato a Cagliari da Civitavecchia, il commissario Giacomo Curreli si trova davanti a due realtà: la diffidenza nei suoi confronti da parte dei suoi nuovi compagni di lavoro ed un omicidio che apparentemente nessuno vuole risolvere. La morte dell’anziana Signora Marcucci è infatti un caso difficile: non tanto per le modalità del delitto, ma per la parentela della vittima con il potentissimo ingegner Crescioni. Soggetto di Marcello Fois e sceneggiatura di Giancarlo De Cataldo Regia: Gianfranco Cabiddu Cast: Andrea Renzi, Barbara Livi, Guido Caprino Sott. cinese MER 14 – Terapia d’urto Roberto, trent’anni, vive chiuso in casa per un grave disturbo di panico. Alla morte della madre, scopre un buco nero nel suo passato: un fratello di cui ha sempre ignorato l’esistenza. Roberto si imbarca in un difficile viaggio nella sua terra d’origine: l’Isola d’Elba. Qui scopre che il fratello è stato brutalmente assassinato poco prima che lui nascesse. Con la figlia del presunto assassino, Roberto affronta le sue più terribili paure per risolvere quel mistero che è anche alle origini della sua malattia. Da un soggetto di Giorgio Faletti Regia: Monica Strambini Cast: Samuela Sardo, Rolando Ravello, Sergio Fiorentini Sott. cinese GIO 15 – Indagine non autorizzata Riccione 1938. Il cadavere di una bella quanto chiacchierata ragazza viene trovato sulla spiaggia, a breve distanza dalla villa dove Mussolini sta trascorrendo le vacanze. Il questore cerca di chiudere la faccenda al più presto accusando del delitto il convivente della donna e guadagnandosi i complimenti personali del Duce, ma il commissario De Luca, per nulla convinto della soluzione del caso, continua a indagare per conto suo. Tratto da un racconto di Carlo Lucarelli Regia: Antonio Frazzi Cast: Alessandro Preziosi, Kasia Smutniak, Rolando Ravello Sott. cinese 71 VEN 16 – Romanzo criminale VEN 30 – Come Dio comanda Dal best seller di Giancarlo De Cataldo, la storia della banda della Magliana, che imperversava a Roma negli anni Settanta e Ottanta. Le vicende della banda e l’alternarsi dei suoi capi si sviluppano nell’arco di venticinque anni, intrecciandosi in modo indissolubile con la storia oscura dell’Italia delle stragi, del terrorismo e della strategia della tensione prima, dei ruggenti anni ’80 e di Mani Pulite poi. Tratto dal romanzo di Niccolò Ammaniti, vincitore del Premio Strega 2007. Nord-est Italia: tra cave di pietra e anonimi centri commerciali, vivono un padre e un figlio. Rino Zena, disoccupato e ostinato, educa Cristiano, un adolescente timido e irrequieto che i compagni schivano e le ragazzine umiliano. Soli contro il mondo e contro tutti, hanno solo un amico, un disgraziato offeso da un incidente con i fili dell’alta tensione e ossessionato da Dio. Regia: Michele Placido Cast: Stefano Accorsi, Kim Rossi Stuart, Anna Mouglalis, Caludio Santamaria, Pierfrancesco Favino Sott. cinese Regia: Gabriele Salvatores Cast: Alvaro Caleca, Filippo Timi, Elio Germani Sott. ing. Organizzazione Sponsor Partner Media partner VEN 23 – Arrivederci amore, ciao Giorgio è un terrorista di sinistra condannato all’ergastolo e rifugiato in un avamposto guerrigliero nel Centro America. Nel 1989, decide di rientrare in Italia e tornare ad essere un uomo normale, ma la strada verso la reintegrazione sociale abbatterà vite colpevoli e innocenti. Giorgio non ripara, non risarcisce, non si pone interrogative morali e i suoi delitti restano senza castigo. Tratto dall’omonimo romanzo di Massimo Carlotto. comunicazione multimediale internet pR orGanizzazione eventi www.internosweb.it Regia: Michele Soavi Cast: Alessio Boni, Isabella Ferrari, Michele Placido, Carlo Cecchi Sott. cinese San Li Tun, Dong Er Jie 2 Teatro dell’Istituto Italiano di Cultura www.iicpechino.esteri.it 72 73