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Del volontariato organizzato
Del volontariato organizzato Stefano Zamagni 1. Intorno al volontariato, qui inteso come organizzazioni di volontariato (OV) e non già come azione volontaria individuale, così tanto è già stato scritto che non metterebbe conto aggiungere altro se non fosse che talune questioni di carattere fondazionale sono rimaste, nella pur ampia letteratura, ancora scoperte. Le ricerche di tipo empirico, che sono ormai schiera, ci narrano una realtà in grande espansione nella nostra società. In aggiunta ai documenti ufficiali dell’ISTAT, del CNEL, dell’Osservatorio Nazionale sul Volontariato si veda, tra gli ultimi, il volume a cura di Alecci e Bottaccio (2010). Conviene allora soffermare un poco l’attenzione su alcuni temi assai meno trattati, eppure di grande rilevanza. Il primo di questi ha per oggetto il modo di concepire la funzione propria del volontariato nelle nostre società di oggi. Il secondo tema concerne la vexata quaestio dell’identità specifica delle OV. Infine, v’è il tema delle sfide organizzative che il volontariato deve oggi raccogliere e vincere. Inizio dal primo dei temi indicati. Due sono le concezioni di volontariato presenti nel dibattito corrente; concezioni entrambe legittime, beninteso, ma con implicazioni molto diverse sul piano sia della legislazione di riferimento sia del modello di ordine sociale. (Riprendo in questo paragrafo con varianti e aggiunte l’argomento sviluppato nel saggio «Slegare il Terzo Settore», in Zamagni a cura di (2011). La prima concezione, che possiamo PSICOLOGIA SOCIALE n. 3, settembre-dicembre 2011 chiamare additivista, vede il volontariato come un settore societario che si aggiunge agli altri già in esistenza, tanto che più di uno studioso ha avanzato la proposta di iniziare a parlare di un «quarto settore» distinto sia dal primo (mercato), sia dal secondo (Stato), sia dal Terzo settore (cooperative sociali, imprese sociali, fondazioni). I volontari andrebbero così ad occupare una nicchia ben circoscritta della società, una nicchia che manterrebbe bensì rapporti di buon vicinato con gli altri tre settori, ma da essi separata. La seconda concezione, invece, è quella emergentista, secondo cui quella del volontariato è una forma di agire che, una volta raggiunta la massa critica, va a modificare anche le relazioni già in esistenza tra le altre sfere della società. L’immagine che subito viene alla mente è quella del lievito che, una volta aggiunto alla massa di pasta, la fermenta tutta quanta e non solo una sua parte. Per la concezione emergentista – che è quella accolta da chi scrive – missione specifica e ad un tempo fondamentale del volontariato è quella di costituire la forza trainante per cambiare il modo di funzionare delle istituzioni sia politiche sia economiche. Di operare cioè per la propagazione, nelle sfere sia politica sia economica, di una concezione non individualistica dell’identità personale secondo la quale l’altro non è una mera proiezione del mio io, un qualcosa di cui posso fare l’uso che voglio. A tale concezione, il volontaria- 269 to oppone l’idea di una identità in relazione con l’altro, per la quale l’io si produce solo attraverso un processo di relazione con l’altro. Per gli «additivisti», invece il volontariato potrebbe accontentarsi di svolgere ruoli di supplenza o di supporto dei compiti affidati alle pubbliche istituzioni. Ma se così fosse sarebbe difficile continuare a riconoscergli la legittimazione sociale finora goduta. E ciò per l’ovvia ragione che per assolvere a tali compiti bastano – e avanzano – la filantropia organizzata, per un verso, e lo Stato benevolente, per l’altro. Il limite più serio della concezione additivista è quello di esporre il volontariato ad un duplice «strattonamento», quello che gli viene dal pensiero neoliberista e quello che gli viene dalla posizione neostatalista, sebbene con motivazioni e argomenti tra loro diversi. I neoliberisti si appellano all’azione volontaria per portare sostegno alle ragioni del loro «conservatorismo compassionevole» al fine di assicurare quei livelli minimi di servizi sociali ai segmenti deboli della popolazione che lo smantellamento del welfare state da essi invocato lascerebbe altrimenti senza copertura alcuna. Ma ciò genera un paradosso a dir poco sconcertante. Come si fa a parlare in favore di comportamenti di tipo filantropico, come si fa cioè a incoraggiare lo spirito donativo quando la regolazione dell’attività economica attraverso il mercato viene basata esclusivamente sull’interesse proprio e sulla razionalità strumentale, vale a dire sull’assunto antropologico dell’homo oeconomicus? Solamente se la società fosse composta di individui schizofrenici ciò sarebbe possibile – individui talmente dissociati da seguire la logica del self-interest quando operano nel mercato e la logica della gratuità quando vestono i panni del filantropo o dell’operatore sociale. Non intendo affatto negare che talvolta ciò possa accadere – come in effetti accade – ma nessun ordine sociale può durare a lungo se i suoi membri mantengono un codice dicotomico di comportamento, tenendo tra loro separate le sfere di vita personale. Il volontariato autentico risolve que- 270 sto paradosso perché ci mostra che l’attenzione a chi è nel bisogno non è oggettuale, ma personale. L’umiliazione di essere considerati «oggetti» sia pure di filantropia o di attenzione compassionevole è il limite grave della concezione neo-liberista. Il volontario che dona il suo tempo sconvolge invece la logica dell’efficienza, come essa viene tradizionalmente intesa. Le ore trascorse con il portatore di bisogni potrebbero – secondo quella logica – essere dedicate a produrre un reddito che il volontario potrebbe poi destinare a suo favore, mediante l’azione filantropica. Per una chiara dimostrazione pratica di dove può condurre una tale linea di pensiero rinvio alla ricerca della United Nations Volunteers pubblicata in occasione dell’anno internazionale dei volontari e condotta dalla organizzazione statunitense Independent Sector. Se si legge il rapporto di Kofi Hannan alla 56a Assemblea Generale delle Nazioni Unite (5 dicembre 2001) si troverà l’icastica affermazione, basata su quella ricerca, secondo cui «il volontariato contribuisce alla formazione del prodotto nazionale lordo». Come a dire che il volontariato tanto più vale quanto maggiore è il valore aggiunto mercantile che esso genera. Una linea di pensiero questa che Salamon e Anheier (1999), nel loro ben noto volume Global Civil Society, avevano caldeggiato parlando del volontariato come «fattore di riserva» a disposizione degli altri settori della società. Non diverso è lo «strattonamento» che viene al volontariato dal pensiero neostatalista. Anch’esso genera un paradosso analogo, sia pure simmetrico. Presupponendo una forte solidarietà dei cittadini per la realizzazione dei diritti di cittadinanza, lo Stato Sociale rende obbligatorio il finanziamento della spesa sociale. Ma in tal modo, esso spiazza il principio di gratuità, negando, a livello di discorso pubblico, ogni valenza a principi che siano diversi da quello di solidarietà, ad esempio al principio di fraternità. Ma una società che elogia a parole il volontariato e poi non riconosce il valore del servizio gratuito nei luoghi più disparati del bisogno, entra, prima o poi, in contrad- Stefano Zamagni dizione con se stessa. Se si ammette che il volontariato svolge una funzione profetica o – come è stato detto – porta con sé una «benedizione nascosta» e poi non si consente che questa funzione diventi manifesta nella sfera pubblica, perché a tutto e a tutti pensa lo Stato Sociale, è chiaro che quella virtù civile per eccellenza che è lo spirito del dono non potrà che registrare una lenta atrofia. Non si dimentichi infatti che la virtù, a differenza di una risorsa scarsa, si decumula con il non uso. L’assistenza per via esclusivamente statuale tende a produrre soggetti bensì assistiti ma non rispettati, perché essa non riesce ad evitare la trappola della «dipendenza riprodotta». Sono dell’idea che il volontariato debba opporre resistenza a queste due contrapposte sirene, pena la sua progressiva irrilevanza e uscita di scena. La sfida che esso deve raccogliere è quella di battersi per restituire il principio del dono come gratuità alla sfera pubblica. Per dirla in altro modo, il contributo più significativo che, per gli «emergentisti», il volontariato può dare alla società è quello di affrettare il passaggio dal dono come atto privato compiuto a favore di parenti o amici ai quali si è legati da relazioni a corto raggio, al dono come atto pubblico che interviene sulle relazioni ad ampio raggio. A ciò devono mirare l’advocacy (cioè la denuncia di quel che non va) e il counselling (cioè il coraggio di avanzare proposte concrete di intervento) che sono le modalità primarie, anche se non uniche, dell’azione volontaria. Il volontariato autentico, affermando il primato della relazione sul suo esonero, del legame intersoggettivo sul bene donato, deve poter trovare spazio di espressione ovunque, in qualunque ambito dell’agire umano e non solamente in una nicchia particolare. 2. Quali conseguenze di ordine pratico discendono dall’accoglimento della concezione emergentista del volontariato? Ne scelgo alcune soltanto per evidenti ragioni di spazio. In primo luogo, occorre prendere atto dei mutamenti del quadro normativo a livello costituzionale intervenuti dopo l’entrata Del volontariato organizzato in vigore della legge n. 266/1991. La riforma del Titolo V della Costituzione ha inciso in maniera molto significativa sul contesto ordinamentale in cui si colloca la disciplina del volontariato. Infatti, va rilevata e sottolineata l’innovazione rappresentata dal riconoscimento, all’art. 118, comma 4, del principio di sussidiarietà «orizzontale» – principio che in nessun’altra Costituzione appare in modo così esplicito. Tale riconoscimento ha un’evidente ricaduta sulla legittimazione del ruolo delle organizzazioni di volontariato, che operano nello svolgimento di «attività di interesse generale». Inoltre, il riconoscimento in capo alle Regioni della competenza legislativa in parecchie delle materie in cui si svolge l’attività di volontariato ha messo gli enti territoriali in condizione di incidere, anche attraverso l’esercizio della loro funzione programmatoria, sulla delineazione della cornice entro cui devono muoversi le organizzazioni stesse. Va ricordato, tuttavia, che la sentenza n. 75/1992 della Corte Costituzionale ha chiarito inequivocabilmente che il volontariato non è una materia, ma «un modo di essere della persona nell’ambito dei rapporti sociali», che può realizzarsi «all’interno di qualsiasi campo materiale della vita comunitaria», costituendo «la più diretta realizzazione del principio di solidarietà sociale». È dunque urgente ripensare la ripartizione delle competenze, in tale ambito, tra Stato e regioni e ciò soprattutto in vista della trasformazione in senso federalista del nostro Stato unitario. In secondo luogo, occorre trovare il modo di precisare, con grande cura, cosa debba intendersi per gratuità delle prestazioni. Vuol forse dire che il volontario non riceve remunerazione alcuna né in denaro né in natura? Non basta. Infatti, non pochi sono i casi di persone che decidono di svolgere gratuitamente una certa attività per un determinato lasso di tempo presso una organizzazione di volontariato (OV) in cambio della promessa, ovviamente non formalizzata, di una sistemazione lavorativa successiva. E che dire delle situazioni, tutt’altro che infrequenti, del professionista 271 (avvocato, commercialista, notaio, medico, ecc.) che si avvale dell’attività svolta gratuitamente in qualità di volontario presso una OV come forma di investimento specifico in reputazione? Come si sa, la reputazione è un vero e proprio asset patrimoniale che può essere accumulato o decumulato e che conferisce al suo possessore la possibilità di godere di una specifica rendita di posizione. Non è difficile comprendere come in casi del genere la non rimuneratività possa diventare facile paravento per fini non propriamente disinteressati. In buona sostanza, il non pagamento delle prestazioni non assicura, di per sé, la gratuità, la quale è prima di tutto una precisa disposizione d’animo. Mi spiego con un esempio. Se un certo numero di persone ben intenzionate e ben disposte verso gli altri, cioè altruiste, decidono di dare vita ad un’organizzazione alla quale forniscono gratuitamente risorse di vario tipo per «fare cose» a favore di determinate tipologie di portatori di bisogni, questa sarà un’organizzazione filantropica, certamente benemerita e socialmente utile, ma non ancora per ciò stesso una OV. La specificità di quest’ultima, infatti, è la costruzione – come si è detto – di nessi di relazionalità fra persone. Laddove l’organizzazione filantropica fa per gli altri, l’OV fa con gli altri. È proprio questa caratteristica che differenzia l’azione autenticamente volontaria, tipica delle OV, dalla beneficenza privata, tipica della filantropia. Infatti, la forza del dono gratuito non sta nella cosa donata o nel quantum donato – così è invece nella filantropia, tanto è vero che esistono le graduatorie o le classifiche di merito filantropico – ma nella speciale qualità umana che il dono rappresenta per il fatto di costituire una relazione tra persone. In altri termini, mentre la filantropia genera quasi sempre dipendenza nel destinatario dell’azione filantropica, il volontariato autentico genera invece reciprocità e quindi libera colui che è il destinatario dell’azione volontaria da quella «vergogna» di cui parla Seneca nella X Lettera a Lucilio: «La pazzia umana è arrivata al punto che fare grandi favori a qualcu- 272 no diventa pericolosissimo: costui, infatti, perché ritiene vergognoso non ricambiare, vorrebbe togliere di mezzo il suo creditore. Non c’è odio più funesto di quello che nasce dalla vergogna di aver tradito un beneficio». Non è propriamente volontaria l’azione di chi, al di là delle intenzioni soggettive, non consente al beneficiario di porre in essere un contro-dono. Se chi riceve gratuitamente non viene posto nelle condizioni concrete di reciprocare, in qualche misura e in qualche forma, costui finirà per sentirsi umiliato e alla lunga finirà con l’odiare il suo benefattore, come appunto ci ricorda Seneca. Ciò in quanto il dono, per sua natura, provoca sempre l’attivazione del rapporto di collaborazione sociale per eccellenza, che è quello di reciprocità. Terzo, è necessaria una più ampia libertà della configurazione giuridica della OV, ammettendo, ad esempio, la possibilità di deroghe al requisito della democraticità (come, peraltro, stabilito dalla legge 383/2000 sull’associazionismo di promozione sociale). Non è un astratto principio di democraticità in senso formale a garantire l’efficacia dell’azione del volontariato. Talvolta è di fondamentale importanza che nelle organizzazioni di volontariato possa essere tracciata una linea guida, che poi viene seguita dai rappresentanti che compongono i consigli direttivi delle organizzazioni ad opera di soggetti promotori/ ispiratori (si pensi al parroco in quelle associazioni che operano nell’oratorio o alle associazioni scoutistiche). Il punto qualificante che assicura la piena democraticità di una organizzazione è il modo in cui vengono prese le decisioni, più ancora che il modo in cui vengono nominati o eletti coloro che entrano a far parte dell’organo direttivo. In buona sostanza, si tratta di andare oltre una definizione meramente procedurale di democrazia per indirizzarsi piuttosto verso una qualche versione di democrazia deliberativa (cfr. Rossi, 2009). Un tale avanzamento consentirebbe anche di avviare a soluzione sia il problema del riconoscimento delle organizzazioni di volontariato di secondo livello che operano Stefano Zamagni su base nazionale, sia il problema di consentire alle OV una più ampia libertà di scelta dei settori di intervento. In particolare, l’espressione «fine di solidarietà» deve essere intesa anche nel senso di ammettere che le OV possano devolvere il proprio patrimonio, in caso di scioglimento, non solo ad altre organizzazioni di volontariato, ma ad una più ampia categoria di enti senza scopo di lucro. Come l’evidenza fattuale suggerisce, spesso realtà che nascono come organizzazioni di volontariato, crescendo, trovano questa veste giuridica non più adeguata a interpretare la propria missione. È importante allora che le eventuali trasformazioni – sempre che si materializzino entro il Terzo settore e con la giusta attenzione a impedire operazioni fiscalmente elusive – non trovino sbarramenti o impedimenti di sorta. Ad esempio, se un’associazione di volontariato ritiene di dover dare vita ad una fondazione oppure ad una impresa sociale, la devoluzione del patrimonio, in tutto o in parte, non deve andare soggetta a restrizioni irragionevoli. Guardare al volontariato come ad un fenomeno emergente implica infatti che si rafforzi e non che si indebolisca la sua capacità di contagio nei confronti sia del mercato sia dello Stato. A quest’ultimo riguardo, è urgente andare oltre l’impianto della legge n. 266/1991 che – come noto – si limita a disciplinare i rapporti tra organizzazioni del volontariato e istituzioni pubbliche. È necessario considerare tutti i tipi di rapporto che le OV intendono stringere con soggetti vari, indipendentemente dal fatto che questi ultimi siano soggetti pubblici o meno. Vanno dunque regolati anche i rapporti che possono intercorrere tra associazioni di volontariato e istituzioni private, siano esse profit o non profit. Si pensi alle forme, in costante diffusione nel nostro paese, del cosiddetto volontariato d’impresa (si veda l’articolata e minuziosa analisi in ASTRID, 2008). Infine, la semplificazione amministrativa è una richiesta che il mondo del volontariato da tempo avanza, ma con scarso successo. Nello snellimento delle procedure bisogna Del volontariato organizzato però seguire un criterio di ragionevolezza, per tener conto della consistenza dimensionale dei soggetti e degli ambiti di intervento. Non si possono imporre le stesse procedure amministrative e contabili alla grande e alla piccola OV. Pure urgente è la revisione del rapporto tra Fondazioni di origine bancaria – enti nati dopo il 1991 e quindi successivi alla legge 266 – e Comitati di Gestione regionali che ricevono i fondi destinati alle OV dalle prime per poi distribuirli ai Centri di Servizio per il Volontariato. Se si vuole andare nella direzione qui auspicata occorre intervenire sull’attuale legislazione che, oltre ad essere fonte di conflittualità tra grandi e piccole organizzazioni di volontariato, induce a inefficienze sistemiche. A tale riguardo va osservato che poiché le associazioni di volontariato sono ONLUS di diritto, (ex d.lgs. 460/1997), è auspicabile un maggior coinvolgimento dell’organo di controllo e di vigilanza, cioè dell’Agenzia per il Terzo Settore, la quale deve essere chiamata in causa in modo costruttivo; per esempio, prevedendo che i pareri che attualmente essa rilascia diventino vincolanti (e non solo obbligatori come è ora), ogniqualvolta essi abbiano ad oggetto OV. Un tale provvedimento permetterebbe che il punto di giudizio non rimanesse solo ed esclusivamente quello fiscale-tributario come fino ad oggi è stato. C’è infatti un disperato bisogno di un soggetto terzo capace di tener conto, nei suoi pronunciamenti, del valore aggiunto sociale creato dal volontariato, e non soltanto del rispetto formale delle norme di legge. 3. Che dire della questione identitaria? Come noto, questo termine si porta addosso una duplice ambiguità. La prima fa riferimento alla distinzione tra identità come corrispondenza ad un’unica realtà – come quando si dice «Tizio e Caio condividono la medesima identità religiosa» – e identità come insieme di caratteristiche che rendono un ente qualcosa di unico e irripetibile – come quando si dice: «quella persona ha perso la propria identità in seguito ad una certa malattia mentale». La seconda ambiguità, invece, concerne la distinzione tra identità come 273 condizione data, decisa da altri o associata ad uno speciale destino storico e identità come frutto di scelta responsabile. Nel primo caso, l’identità si scopre, nel secondo caso si costruisce. (Per un approfondimento rinvio a Zamagni, 2011). Sono dell’idea che alle OV si debbano applicare le seconde accezioni dei due concetti di identità ora evidenziati. Se l’identità è un insieme di caratteristiche che connotano di sé un soggetto ed è conseguenza di un processo di scelta, è evidente che essa non si dia una volta per tutte. Invero, quello identitario – nell’accezione qui accolta – è un fenomeno prettamente morfogenetico, un fenomeno cioè ad elevato grado di cambiamento che evolve sia per spinte interne sia in seguito alle trasformazioni della società in cui il volontariato è inserito. In tal senso, la costruzione – e non già la scoperta – dell’identità comporta sempre che un confine mobile venga tracciato. E ogni confine, per il fatto stesso di separare interno e esterno, comporta sempre il rischio della difesa ad oltranza della propria identità. Ciò che la rende precaria e pericolosa. Precaria perché un’identità che non riesce a vedere l’altro non è sostenibile alla lunga; pericolosa, perché un’identità che non si pone in discussione degenera, prima o poi, nell’integralismo, cioè nel rifiuto a priori della diversità dell’altro. Ecco perché non pochi commentatori, allo scopo di scongiurare i rischi immunitario e integralistico, tendono oggi a sbarazzarsi del concetto stesso di identità – che è come gettare con l’acqua il bambino, perché l’esodo dall’identità distrugge la persona. Piuttosto quello che occorre fare è imparare a ridefinire, a riposizionare i propri confini; il che significa essere in grado di fornire all’altro le ragioni ragionevoli della propria identità. Per fare memoria: la ragionevolezza è la razionalità che rende la ragione ragione dell’uomo e per l’uomo. In quanto tale, essa è espressione di saggezza e non solo di abilità intellettuale. Si comprende allora perché alle OV non può bastare la razionalità. Non bastano dunque i corsi di formazione e di addestramento 274 professionale, pure necessari. Ciò di cui il volontariato ha oggi massimamente bisogno sono investimenti in educazione – non formazione – identitaria, proprio quegli investimenti che negli ultimi tempi, per una varietà di ragioni, sono venuti tragicamente a mancare. Non esiste, a tutt’oggi, una vera e propria «scuola di volontariato». Esistono corsi e addirittura master universitari di management delle OV dove si pone in pratica il pensiero calcolante, necessario ma non certo sufficiente. Ma dove sono i «luoghi» dove si alimenta il pensiero pensante, il pensiero cioè che sa indicare la direzione di marcia? Agli inizi e fino agli anni Ottanta del secolo scorso è stato vero il contrario: meno professionalità, ma più identità. Se dunque vogliamo superare la crisi di senso, cioè di direzione, del volontariato occorre riequilibrare le cose, come non pochi soggetti hanno già iniziato a fare. È questo il modo per scongiurare quei fenomeni di spiazzamento dell’una dimensione – quella professionale – a danno dell’altra – quella identitaria – frutto di una certa mentalità riduzionistica. Il volontariato italiano si trova, oggi, di fronte ad un bivio: continuare sulla via, fino ad ora battuta in prevalenza, per un verso dell’advocacy e, per l’altro verso, della supplenza – la cosiddetta risposta ai fallimenti dello Stato e del mercato –; oppure intraprendere con convinzione la via della civilizzazione del mercato e dello Stato. Restare ancorati alla prima alternativa significa, per il volontariato, accettare il ruolo di terzo (incomodo) e cioè: conservare un rapporto subordinato, ancorché non esclusivo, nei confronti delle pubbliche amministrazioni e della filantropia d’impresa (corporate philanthropy); accontentarsi di occupare una posizione di nicchia all’interno della sfera del mercato; accettare di svolgere un ruolo meramente implementativo nelle politiche di welfare. Scegliere la seconda alternativa significherebbe, invece: mirare ad acquisire uno statuto di autonomia e indipendenza attraverso il conseguimento di una soggettività sociale e culturale; intervenire da protagonista, cioè da comprimario, nella Stefano Zamagni realizzazione pratica del modello di welfare society; dare ali robuste al principio di sussidiarietà orizzontale. Per dirla in altro modo, sappiamo bene che il proprium delle OV è quello di creare sia valore strumentale sia valore espressivo. Il primo è misurabile nei termini dei risultati prodotti, cioè degli output. Il valore espressivo (o simbolico) va misurato, invece, rispetto agli stati finali conseguiti, cioè agli outcome, a loro volta definiti nei termini della capacità di produrre beni relazionali e capitale sociale, di far crescere le reti sociali e la fiducia generalizzata. Ebbene, imboccare la seconda delle vie sopra indicate significa accettare che il valore espressivo di una organizzazione della società civile non possa essere sacrificato sull’altare del suo valore strumentale. Come dire che un volontariato tutto sbilanciato sul lato della mera efficienza sarebbe incapace di assecondare una trasformazione in senso relazionale delle politiche sociali e soprattutto di favorire il progresso civile e morale del paese. Si pensi al contributo, veramente notevole, che i soggetti di cui qui si parla danno all’ampliamento della democrazia partecipativa; alla diffusione della cultura del dono e della prassi della reciprocità; alla creazione di beni comuni – da non confondersi con i beni pubblici, né con i beni collettivi. (Una recente ricerca a cura di Kohler Koch (2008), dà conto, con dovizia di particolari, del ruolo che le organizzazioni della società civile sono in grado di svolgere nel sostenere una governance democratica in un’Europa multilivello). 4. Quali caratteristiche la governance di una OV dovrebbe allora esibire se vuole scongiurare il rischio di cadere nella trappola dell’isomorfismo organizzativo di cui parlano Di Maggio e Powell? Ritengo si debbano affrontare e vincere tre sfide specifiche: a) come realizzare, cioè attuare, una vera e propria democrazia partecipativa; b) come risolvere il problema del conflitto interno; c) come difendersi dal rischio del group-think (nel senso di Irving Janus). Inizio dalla prima sfida. Conviene partire dalla considerazione che l’azione organizzativa, quale essa sia, è Del volontariato organizzato sempre un’azione comune, un’azione, cioè, che per essere compiuta ha bisogno del concorso intenzionale di due o più soggetti. A ben considerare, è il fatto della divisione del lavoro a conferire alle azioni organizzate lo status di azioni comuni. Tre sono gli elementi identificativi dell’azione comune. Il primo è che essa non può essere condotta a termine senza che tutti coloro che vi prendono parte siano consapevoli di ciò che fanno. Il mero convenire o ritrovarsi di più individui non basta alla bisogna. Il secondo elemento è che ciascun partecipante all’azione comune conserva la titolarità e dunque la responsabilità di ciò che compie. È proprio questo elemento a differenziare quella comune dall’azione collettiva. In quest’ultima, infatti, l’individuo con la sua identità scompare e con lui scompare anche la responsabilità personale di ciò che fa. Il terzo elemento, infine, è l’unificazione degli sforzi da parte dei partecipanti all’azione comune per il conseguimento di uno stesso obiettivo. L’interazione di più soggetti all’interno di un determinato contesto non è ancora azione comune se costoro perseguono obiettivi diversi o confliggenti. Dunque, anche una OV, in quanto possiede tutti e tre questi elementi, è propriamente un’azione comune. Diversi sono i tipi di azione comune e ciò in relazione all’oggetto della comunanza. Questa, infatti, può realizzarsi intorno ai mezzi oppure intorno ai fini dell’azione stessa. Nel primo caso, l’azione sarà di tipo capitalistico e la forma che l’intersoggettività assume sarà, tipicamente, quella del contratto. Come si sa, nel contratto le parti devono bensì concorrere assieme alla sua realizzazione, ma ciascuna persegue fini diversi, spesso contrapposti. Si pensi al contratto di compravendita tra un venditore e un compratore o allo stesso contratto di lavoro. Invece, quando la comunanza è declinata intorno ai fini, si ha l’organizzazione non profit e specificamente una OV. Si badi che c’è differenza tra la situazione in cui si condivide che ognuno persegua il proprio fine (come accade nella impresa capitalistica) e la situazione in cui si ha un fine comune da condividere. Si tratta della 275 medesima differenza che passa tra un bene comune e un bene pubblico (locale). Nel primo caso, il vantaggio che ciascuno trae dal suo uso non può essere separato dal vantaggio che altri pure da esso traggono. Come a dire, che l’interesse di ciascuno si realizza assieme a quello degli altri, e non già contro come avviene col bene privato, né a prescindere, come accade con il bene pubblico. In buona sostanza, mentre pubblico si oppone a privato, comune si oppone a proprio. È comune ciò che non è solo proprio, né ciò che è di tutti indistintamente. Quale la conseguenza, praticamente rilevante, che discende dalla distinzione tracciata? Che quando il «comune» dell’azione si ferma ai soli mezzi, il problema da risolvere, basicamente, è quello della coordinazione degli atti di tanti soggetti. D’altro canto, quando il «comune» dell’azione si estende ai fini, il problema che va risolto è come realizzare la cooperazione. Per dirla in termini formali, un problema di coordinazione nasce dall’interdipendenza strategica di più soggetti; un problema di cooperazione, invece, nasce dalla loro interdipendenza assiologica. Come a dire che nella cooperazione l’intersoggettività è un valore; nella coordinazione essa è una circostanza. Inoltre, nel caso della coordinazione sono le caratteristiche stesse del processo produttivo a dettare le modalità del coordinamento. L’esempio tipico è la catena di montaggio: gerarchia e un adeguato sistema di incentivi (o di punizioni) bastano alla bisogna. Nel modello della cooperazione, invece, il comportamento di ciascun membro dell’organizzazione dipende anche dalle aspettative che questi ha circa le intenzioni e le motivazioni degli altri. L’implicazione importante che si trae da quanto precede è che, per la OV, quella della «coerenza psicologica» (come la chiama H. Schlicht) tra ciò che si dichiara di volere e ciò che si fa nella realtà, è condizione necessaria della sua stessa sopravvivenza. Non così invece per l’impresa di capitali, il cui management non ha bisogno di conoscere le motivazioni o le disposizioni d’animo di coloro che operano in essa. Gli 276 basta che i comportamenti effettivi di costoro siano in linea con quanto contemplato nel piano di coordinamento. Ecco dunque la prima sfida: come disegnare il modello organizzativo della OV in modo tale che essa sappia, realizzare quel meeting of minds (incontro di menti) di cui parla Thomas Schelling. Ciò che si può dire, in generale, è che la partecipazione democratica è la via da battere. Si tratta di offrire a tutti i soci della OV la possibilità reale (non virtuale) di partecipare al processo deliberativo nelle forme che devono essere trovate. Giova ribadire che non basta la comunicazione trasparente (dare informazioni corrette e veritiere); né basta la consultazione di tipo concertativo. Occorre arrivare alla inclusione nel processo decisionale della OV di tutti coloro che in essa operano. Passo alla seconda sfida: quella riguardante la ricerca dei modi più efficaci per la gestione del conflitto. Una precisazione è opportuna. Non v’è da credere che all’interno di una OV non possano nascere conflitti solo perché i soci condividono il fine dell’azione comune, come sopra si è scritto. Perché tale circostanza, se vale a scongiurare il conflitto di valori, non garantisce affatto che non possano sorgere conflitti sui modi di interpretazione di quei valori e soprattutto sui modi di tradurli nella gestione corrente dell’impresa. Si tenga presente, infatti, che l’interpretazione dei valori, cioè la determinazione dei criteri di giudizio sulla base dei quali si stabilisce se in una certa situazione i valori sono stati applicati o meno, è operazione storicamente determinata, perché dipende dagli «occhiali» che usiamo per guardare la realtà. E gli occhiali hanno a che fare con le nostre sensibilità, con i nostri stati emotivi, con la nostra cultura specifica. Guai dunque a sottovalutare tali aspetti anche perché situazioni di conflitto nella vita di una organizzazione sono assai più frequenti di quanto si pensi. Ci viene in aiuto, a tale proposito, un teorema assai famoso di Amartya Sen del 1970, che dimostra che, in parecchie situazioni, principio democratico (nelle decisioni di gruppo, si applica il criterio della Stefano Zamagni maggioranza) e principio liberale (ciascuna persona deve poter far valere il proprio punto di vista almeno in qualche area, del processo decisionale) non riescono ad essere rispettati simultaneamente. Con quale conseguenza? Che poiché nella pratica non si può non dare la precedenza al principio democratico, e questo per elementari ragioni di governabilità dell’OV, la persona che si trovasse sistematicamente in minoranza non riuscirebbe mai a veder accolto il proprio punto di vista, finendo per allontanarsi, in senso fisico oppure culturale, dalla compagine stessa. Situazioni del genere, se per l’impresa di capitali non hanno grande rilevanza, per le OV avrebbero effetti alla lunga deleteri. D’altro canto, occorre considerare che il conflitto – di per sé – è segno di vitalità, perché come ricordava Terenzio: «Il seme e la terra sono in conflitto, ma da essi nasce la pianta». Nel mondo delle imprese capitalistiche, gli strumenti basici per risolvere situazioni conflittuali sono, per un verso, il contratto (si tenga presente che la struttura formale di un incentivo è quella del contratto), e per l’altro verso, il ricorso al «giudice», cioè ad una terza parte. La OV non può ricorrere a questi due strumenti, per ovvie ragioni che non è il caso qui di richiamare. Essa non può mai fare a meno del ruolo strategico della leadership. Leader è chi è capace di esercitare la funzione di autorità entro l’organizzazione. Si badi, però, a non confondere il principio di autorità con il principio gerarchico. Quest’ultimo, infatti, può risultare un meccanismo efficiente quando si tratta di conseguire obiettivi di routine. Incontra però difficoltà insormontabili nel realizzare obiettivi di innovazione. Il punto è che l’autorità entro l’OV non può che essere il soggetto portatore della relazione di fiducia, della risorsa cioè di cui nessuna OV può fare assolutamente a meno. La terza sfida, infine, cui sopra facevo riferimento è quella di trovare i modi di difesa nei confronti del rischio del groupthink, che è quel particolare modo di pensare che le persone, che fanno parte di un gruppo coeso e omogeneo, finiscono alla Del volontariato organizzato lunga per adottare. I membri di un tale gruppo cercano l’unanimità di pensiero, fino al punto di non permettersi di prendere in considerazione opinioni alternative. Il group-think è sostanzialmente diverso dal consenso di facciata, perché nel primo caso il consenso dei membri è veramente reale ed il pensiero di costoro converge su norme di comportamento che tutti, all’interno del gruppo, ritengono corrette. Chiaramente, un atteggiamento del genere si dimostra bensì conveniente nel breve termine, perché favorisce la presa rapida delle decisioni, ma nella misura in cui esso riduce l’esercizio del pensiero critico porta al conformismo e dunque riduce, a lungo andare, la creatività dell’intero gruppo. Durante la lunga stagione del ford-taylorismo, l’idea corrente era che la creatività fosse una faccenda individuale: era sufficiente che l’impresa avesse «un» creativo al proprio interno per riuscire a sfondare nel mercato. Se ne comprende la ragione se si pensa che la società industriale è stata una società basata, per quanto concerne l’organizzazione d’impresa, sui tre principi seguenti: primo, la struttura gerarchica del potere (è «sufficiente» che pensino solo coloro che occupano le posizioni di vertice); secondo, la razionalizzazione delle procedure (per cui i comportamenti nell’impresa vanno epurati dalla dimensione emotiva e soprattutto relazionale); terzo, la standardizzazione non solamente dei prodotti, ma anche dei gusti dei consumatori e dei linguaggi comunicativi. La novità dell’attuale fase storica è il superamento, ormai completo, di questo modo di fare organizzazione. (Si veda, per un ampliamento, Bruni e Zamagni, 2004). Ne deriva che la creatività individuale non basta più; occorre passare alla creatività di gruppo. Cosa comporta ciò? Che l’organizzazione stessa deve diventare creativa. Ebbene, l’organizzazione creativa non è compatibile con una gestione delle relazioni personali basata sul comando e sul controllo. Al contrario, essa postula una gestione centrata sulla motivazione e sul rispetto. Della motivazione si è detto nel paragrafo 277 precedente. Qui diciamo del rispetto delle persone, che non è semplicemente assenza di umiliazione (come avviene nel mobbing), ma basicamente valorizzazione del potenziale umano di ciascuno. L’organizzazione che pratica il rispetto è quella che fa crescere, sotto il profilo umano, i propri collaboratori e lo fa non in chiave strumentale. Alla luce di quanto precede, si comprende perché il group-think è dannoso e controproducente: perché esso non favorisce certo l’organizzazione creativa. Sono sintomi eloquenti che qualcosa del tipo group-think prende piede nell’OV quando tra i suoi membri emerge un senso illusorio di invulnerabilità; quando il responsabile (o il capo) viene tenuto all’oscuro o al riparo dell’esistenza di prove contradditorie; quando coloro che non la pensano come la maggioranza vengono allontanati dai loro incarichi, oppure sminuiti nella considerazione che di essi ha l’impresa, e così via. Quando questo accadesse occorre intervenire e prontamente, nei modi suggeriti dalla situazione specifica. Uno di questi è quello di attribuire a persone autorevoli il ruolo di «avvocato del diavolo», e ciò allo scopo di aiutare i membri del gruppo a rafforzare le proprie convinzioni. Un altro modo è quello di immettere nel gruppo nuovi soci, possibilmente giovani, in grado di portare punti di vista inediti e soprattutto di abbassare l’età media della compagine sociale. 5. Chiudo con un’annotazione di carattere generale. Prendo da B. Benson l’immagine della catena e della corda per simboleggiare due modelli ideal-tipici di organizzazione aziendale. Il modello della catena ci fa ritenere che affinché un’organizzazione possa espandersi ed irrobustirsi sia necessario aggiungere anello ad anello. Ma quando anche uno solo degli anelli si spezza, tutta la catena diviene inservibile. Non è forse vero che la forza di una catena è sempre la forza dell’anello più debole? Il modello della corda, invece, è di tipo convergenziale: in esso tanti fili si intrecciano tra loro, così che anche se dovesse accadere che qualche filo si strappa, la corda si indebolirà un po’, ma continuerà a tenere. L’auspicio è che il volontariato non si lasci abbacinare dal miraggio della catena, ma cerchi piuttosto di allungare e di infoltire le sue corde. Riferimenti bibliografici Alecci, E. e Bottaccio, M. (2010). Fuori dall’angolo. Idee per il futuro del volontariato e del Terzo settore. Napoli: L’Ancora. ASTRID (2008). Dove lo Stato non arriva. Pubblica amministrazione e Terzo settore. Firenze: Passigli. Bruni, L. e Zamagni, S. (2004). Economia civile. Bologna: Il Mulino. Kohler Koch, B. (2008). Opening EU – Governance to Civil Society. Mannheim. Rossi, E. (2009). Proposte dell’Agenzia per le ONLUS per una riforma organica della legislazione sul Terzo settore. Aretè, 3. Salamon, L. e Anheier, H. (1999). Global Civil Society. Baltimore: Johns Hopkins University Press. Zamagni, S. (2011). Dono gratuito e vita economica. In M. T. Russo (a cura di), La cultura del dono. Milano: Bollati Boringhieri. Zamagni, S. (a cura di) (2011). Libro Bianco sul Terzo Settore. Bologna: Il Mulino. Stefano Zamagni, Dipartimento di Scienze Economiche, Università degli Studi di Bologna Piazza Scaravilli, 2, Bologna, Italia [email protected] 278 Stefano Zamagni