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Del volontariato organizzato

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Del volontariato organizzato
Del volontariato organizzato
Stefano Zamagni
1. Intorno al volontariato, qui inteso come
organizzazioni di volontariato (OV) e non
già come azione volontaria individuale, così
tanto è già stato scritto che non metterebbe
conto aggiungere altro se non fosse che talune questioni di carattere fondazionale sono
rimaste, nella pur ampia letteratura, ancora
scoperte. Le ricerche di tipo empirico, che
sono ormai schiera, ci narrano una realtà in
grande espansione nella nostra società. In
aggiunta ai documenti ufficiali dell’ISTAT,
del CNEL, dell’Osservatorio Nazionale sul
Volontariato si veda, tra gli ultimi, il volume
a cura di Alecci e Bottaccio (2010). Conviene
allora soffermare un poco l’attenzione su
alcuni temi assai meno trattati, eppure di
grande rilevanza. Il primo di questi ha per
oggetto il modo di concepire la funzione
propria del volontariato nelle nostre società
di oggi. Il secondo tema concerne la vexata
quaestio dell’identità specifica delle OV.
Infine, v’è il tema delle sfide organizzative
che il volontariato deve oggi raccogliere e
vincere. Inizio dal primo dei temi indicati.
Due sono le concezioni di volontariato
presenti nel dibattito corrente; concezioni entrambe legittime, beninteso, ma con
implicazioni molto diverse sul piano sia
della legislazione di riferimento sia del
modello di ordine sociale. (Riprendo in
questo paragrafo con varianti e aggiunte
l’argomento sviluppato nel saggio «Slegare
il Terzo Settore», in Zamagni a cura di
(2011). La prima concezione, che possiamo
PSICOLOGIA SOCIALE
n. 3, settembre-dicembre 2011
chiamare additivista, vede il volontariato
come un settore societario che si aggiunge
agli altri già in esistenza, tanto che più di
uno studioso ha avanzato la proposta di
iniziare a parlare di un «quarto settore»
distinto sia dal primo (mercato), sia dal
secondo (Stato), sia dal Terzo settore (cooperative sociali, imprese sociali, fondazioni). I volontari andrebbero così ad occupare
una nicchia ben circoscritta della società,
una nicchia che manterrebbe bensì rapporti
di buon vicinato con gli altri tre settori, ma
da essi separata. La seconda concezione,
invece, è quella emergentista, secondo cui
quella del volontariato è una forma di agire
che, una volta raggiunta la massa critica,
va a modificare anche le relazioni già in
esistenza tra le altre sfere della società.
L’immagine che subito viene alla mente è
quella del lievito che, una volta aggiunto
alla massa di pasta, la fermenta tutta quanta
e non solo una sua parte. Per la concezione
emergentista – che è quella accolta da chi
scrive – missione specifica e ad un tempo
fondamentale del volontariato è quella di
costituire la forza trainante per cambiare il
modo di funzionare delle istituzioni sia politiche sia economiche. Di operare cioè per
la propagazione, nelle sfere sia politica sia
economica, di una concezione non individualistica dell’identità personale secondo la
quale l’altro non è una mera proiezione del
mio io, un qualcosa di cui posso fare l’uso
che voglio. A tale concezione, il volontaria-
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to oppone l’idea di una identità in relazione
con l’altro, per la quale l’io si produce solo
attraverso un processo di relazione con
l’altro. Per gli «additivisti», invece il volontariato potrebbe accontentarsi di svolgere
ruoli di supplenza o di supporto dei compiti affidati alle pubbliche istituzioni. Ma
se così fosse sarebbe difficile continuare a
riconoscergli la legittimazione sociale finora
goduta. E ciò per l’ovvia ragione che per
assolvere a tali compiti bastano – e avanzano – la filantropia organizzata, per un verso,
e lo Stato benevolente, per l’altro.
Il limite più serio della concezione
additivista è quello di esporre il volontariato
ad un duplice «strattonamento», quello che
gli viene dal pensiero neoliberista e quello
che gli viene dalla posizione neostatalista, sebbene con motivazioni e argomenti
tra loro diversi. I neoliberisti si appellano
all’azione volontaria per portare sostegno
alle ragioni del loro «conservatorismo compassionevole» al fine di assicurare quei
livelli minimi di servizi sociali ai segmenti
deboli della popolazione che lo smantellamento del welfare state da essi invocato lascerebbe altrimenti senza copertura
alcuna. Ma ciò genera un paradosso a dir
poco sconcertante. Come si fa a parlare in
favore di comportamenti di tipo filantropico, come si fa cioè a incoraggiare lo spirito
donativo quando la regolazione dell’attività
economica attraverso il mercato viene basata esclusivamente sull’interesse proprio e
sulla razionalità strumentale, vale a dire
sull’assunto antropologico dell’homo oeconomicus? Solamente se la società fosse composta di individui schizofrenici ciò sarebbe
possibile – individui talmente dissociati da
seguire la logica del self-interest quando
operano nel mercato e la logica della gratuità quando vestono i panni del filantropo o
dell’operatore sociale.
Non intendo affatto negare che talvolta
ciò possa accadere – come in effetti accade – ma nessun ordine sociale può durare
a lungo se i suoi membri mantengono
un codice dicotomico di comportamento,
tenendo tra loro separate le sfere di vita personale. Il volontariato autentico risolve que-
270
sto paradosso perché ci mostra che l’attenzione a chi è nel bisogno non è oggettuale,
ma personale. L’umiliazione di essere considerati «oggetti» sia pure di filantropia o di
attenzione compassionevole è il limite grave
della concezione neo-liberista. Il volontario
che dona il suo tempo sconvolge invece la
logica dell’efficienza, come essa viene tradizionalmente intesa. Le ore trascorse con il
portatore di bisogni potrebbero – secondo
quella logica – essere dedicate a produrre
un reddito che il volontario potrebbe poi
destinare a suo favore, mediante l’azione
filantropica. Per una chiara dimostrazione
pratica di dove può condurre una tale linea
di pensiero rinvio alla ricerca della United
Nations Volunteers pubblicata in occasione dell’anno internazionale dei volontari e
condotta dalla organizzazione statunitense
Independent Sector. Se si legge il rapporto di
Kofi Hannan alla 56a Assemblea Generale
delle Nazioni Unite (5 dicembre 2001) si
troverà l’icastica affermazione, basata su
quella ricerca, secondo cui «il volontariato
contribuisce alla formazione del prodotto
nazionale lordo». Come a dire che il volontariato tanto più vale quanto maggiore è il
valore aggiunto mercantile che esso genera.
Una linea di pensiero questa che Salamon e
Anheier (1999), nel loro ben noto volume
Global Civil Society, avevano caldeggiato
parlando del volontariato come «fattore
di riserva» a disposizione degli altri settori
della società.
Non diverso è lo «strattonamento» che
viene al volontariato dal pensiero neostatalista. Anch’esso genera un paradosso analogo, sia pure simmetrico. Presupponendo
una forte solidarietà dei cittadini per la realizzazione dei diritti di cittadinanza, lo Stato
Sociale rende obbligatorio il finanziamento
della spesa sociale. Ma in tal modo, esso
spiazza il principio di gratuità, negando,
a livello di discorso pubblico, ogni valenza
a principi che siano diversi da quello di
solidarietà, ad esempio al principio di fraternità. Ma una società che elogia a parole
il volontariato e poi non riconosce il valore
del servizio gratuito nei luoghi più disparati
del bisogno, entra, prima o poi, in contrad-
Stefano Zamagni
dizione con se stessa. Se si ammette che il
volontariato svolge una funzione profetica
o – come è stato detto – porta con sé una
«benedizione nascosta» e poi non si consente che questa funzione diventi manifesta
nella sfera pubblica, perché a tutto e a tutti
pensa lo Stato Sociale, è chiaro che quella
virtù civile per eccellenza che è lo spirito
del dono non potrà che registrare una lenta
atrofia. Non si dimentichi infatti che la
virtù, a differenza di una risorsa scarsa, si
decumula con il non uso. L’assistenza per
via esclusivamente statuale tende a produrre soggetti bensì assistiti ma non rispettati,
perché essa non riesce ad evitare la trappola
della «dipendenza riprodotta».
Sono dell’idea che il volontariato debba
opporre resistenza a queste due contrapposte sirene, pena la sua progressiva irrilevanza e uscita di scena. La sfida che esso deve
raccogliere è quella di battersi per restituire
il principio del dono come gratuità alla
sfera pubblica. Per dirla in altro modo, il
contributo più significativo che, per gli
«emergentisti», il volontariato può dare alla
società è quello di affrettare il passaggio dal
dono come atto privato compiuto a favore
di parenti o amici ai quali si è legati da relazioni a corto raggio, al dono come atto pubblico che interviene sulle relazioni ad ampio
raggio. A ciò devono mirare l’advocacy (cioè
la denuncia di quel che non va) e il counselling (cioè il coraggio di avanzare proposte
concrete di intervento) che sono le modalità
primarie, anche se non uniche, dell’azione volontaria. Il volontariato autentico,
affermando il primato della relazione sul
suo esonero, del legame intersoggettivo sul
bene donato, deve poter trovare spazio di
espressione ovunque, in qualunque ambito
dell’agire umano e non solamente in una
nicchia particolare.
2. Quali conseguenze di ordine pratico
discendono dall’accoglimento della concezione emergentista del volontariato? Ne
scelgo alcune soltanto per evidenti ragioni di
spazio. In primo luogo, occorre prendere atto
dei mutamenti del quadro normativo a livello costituzionale intervenuti dopo l’entrata
Del volontariato organizzato
in vigore della legge n. 266/1991. La riforma
del Titolo V della Costituzione ha inciso in
maniera molto significativa sul contesto ordinamentale in cui si colloca la disciplina del
volontariato. Infatti, va rilevata e sottolineata
l’innovazione rappresentata dal riconoscimento, all’art. 118, comma 4, del principio
di sussidiarietà «orizzontale» – principio
che in nessun’altra Costituzione appare in
modo così esplicito. Tale riconoscimento ha
un’evidente ricaduta sulla legittimazione del
ruolo delle organizzazioni di volontariato,
che operano nello svolgimento di «attività di
interesse generale».
Inoltre, il riconoscimento in capo alle
Regioni della competenza legislativa in
parecchie delle materie in cui si svolge
l’attività di volontariato ha messo gli enti
territoriali in condizione di incidere, anche
attraverso l’esercizio della loro funzione
programmatoria, sulla delineazione della
cornice entro cui devono muoversi le organizzazioni stesse. Va ricordato, tuttavia,
che la sentenza n. 75/1992 della Corte
Costituzionale ha chiarito inequivocabilmente che il volontariato non è una materia, ma «un modo di essere della persona
nell’ambito dei rapporti sociali», che può
realizzarsi «all’interno di qualsiasi campo
materiale della vita comunitaria», costituendo «la più diretta realizzazione del principio
di solidarietà sociale». È dunque urgente
ripensare la ripartizione delle competenze,
in tale ambito, tra Stato e regioni e ciò
soprattutto in vista della trasformazione in
senso federalista del nostro Stato unitario.
In secondo luogo, occorre trovare il
modo di precisare, con grande cura, cosa
debba intendersi per gratuità delle prestazioni. Vuol forse dire che il volontario non
riceve remunerazione alcuna né in denaro
né in natura? Non basta. Infatti, non pochi
sono i casi di persone che decidono di
svolgere gratuitamente una certa attività
per un determinato lasso di tempo presso
una organizzazione di volontariato (OV)
in cambio della promessa, ovviamente non
formalizzata, di una sistemazione lavorativa successiva. E che dire delle situazioni,
tutt’altro che infrequenti, del professionista
271
(avvocato, commercialista, notaio, medico,
ecc.) che si avvale dell’attività svolta gratuitamente in qualità di volontario presso una
OV come forma di investimento specifico
in reputazione? Come si sa, la reputazione
è un vero e proprio asset patrimoniale che
può essere accumulato o decumulato e che
conferisce al suo possessore la possibilità di
godere di una specifica rendita di posizione. Non è difficile comprendere come in
casi del genere la non rimuneratività possa
diventare facile paravento per fini non propriamente disinteressati. In buona sostanza,
il non pagamento delle prestazioni non assicura, di per sé, la gratuità, la quale è prima
di tutto una precisa disposizione d’animo.
Mi spiego con un esempio. Se un certo
numero di persone ben intenzionate e ben
disposte verso gli altri, cioè altruiste, decidono di dare vita ad un’organizzazione alla
quale forniscono gratuitamente risorse di
vario tipo per «fare cose» a favore di determinate tipologie di portatori di bisogni,
questa sarà un’organizzazione filantropica,
certamente benemerita e socialmente utile,
ma non ancora per ciò stesso una OV.
La specificità di quest’ultima, infatti, è la
costruzione – come si è detto – di nessi di
relazionalità fra persone. Laddove l’organizzazione filantropica fa per gli altri, l’OV
fa con gli altri. È proprio questa caratteristica che differenzia l’azione autenticamente
volontaria, tipica delle OV, dalla beneficenza privata, tipica della filantropia. Infatti, la
forza del dono gratuito non sta nella cosa
donata o nel quantum donato – così è invece nella filantropia, tanto è vero che esistono le graduatorie o le classifiche di merito
filantropico – ma nella speciale qualità
umana che il dono rappresenta per il fatto
di costituire una relazione tra persone.
In altri termini, mentre la filantropia
genera quasi sempre dipendenza nel destinatario dell’azione filantropica, il volontariato autentico genera invece reciprocità
e quindi libera colui che è il destinatario
dell’azione volontaria da quella «vergogna» di cui parla Seneca nella X Lettera
a Lucilio: «La pazzia umana è arrivata
al punto che fare grandi favori a qualcu-
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no diventa pericolosissimo: costui, infatti,
perché ritiene vergognoso non ricambiare,
vorrebbe togliere di mezzo il suo creditore.
Non c’è odio più funesto di quello che
nasce dalla vergogna di aver tradito un
beneficio». Non è propriamente volontaria l’azione di chi, al di là delle intenzioni
soggettive, non consente al beneficiario
di porre in essere un contro-dono. Se chi
riceve gratuitamente non viene posto nelle
condizioni concrete di reciprocare, in qualche misura e in qualche forma, costui finirà
per sentirsi umiliato e alla lunga finirà con
l’odiare il suo benefattore, come appunto ci
ricorda Seneca. Ciò in quanto il dono, per
sua natura, provoca sempre l’attivazione
del rapporto di collaborazione sociale per
eccellenza, che è quello di reciprocità.
Terzo, è necessaria una più ampia
libertà della configurazione giuridica della
OV, ammettendo, ad esempio, la possibilità
di deroghe al requisito della democraticità (come, peraltro, stabilito dalla legge
383/2000 sull’associazionismo di promozione sociale). Non è un astratto principio
di democraticità in senso formale a garantire l’efficacia dell’azione del volontariato.
Talvolta è di fondamentale importanza che
nelle organizzazioni di volontariato possa
essere tracciata una linea guida, che poi
viene seguita dai rappresentanti che compongono i consigli direttivi delle organizzazioni ad opera di soggetti promotori/
ispiratori (si pensi al parroco in quelle
associazioni che operano nell’oratorio o alle
associazioni scoutistiche). Il punto qualificante che assicura la piena democraticità di
una organizzazione è il modo in cui vengono
prese le decisioni, più ancora che il modo in
cui vengono nominati o eletti coloro che
entrano a far parte dell’organo direttivo.
In buona sostanza, si tratta di andare oltre
una definizione meramente procedurale di
democrazia per indirizzarsi piuttosto verso
una qualche versione di democrazia deliberativa (cfr. Rossi, 2009).
Un tale avanzamento consentirebbe
anche di avviare a soluzione sia il problema
del riconoscimento delle organizzazioni di
volontariato di secondo livello che operano
Stefano Zamagni
su base nazionale, sia il problema di consentire alle OV una più ampia libertà di
scelta dei settori di intervento. In particolare, l’espressione «fine di solidarietà» deve
essere intesa anche nel senso di ammettere
che le OV possano devolvere il proprio
patrimonio, in caso di scioglimento, non
solo ad altre organizzazioni di volontariato,
ma ad una più ampia categoria di enti senza
scopo di lucro. Come l’evidenza fattuale
suggerisce, spesso realtà che nascono come
organizzazioni di volontariato, crescendo,
trovano questa veste giuridica non più adeguata a interpretare la propria missione. È
importante allora che le eventuali trasformazioni – sempre che si materializzino entro
il Terzo settore e con la giusta attenzione
a impedire operazioni fiscalmente elusive – non trovino sbarramenti o impedimenti
di sorta. Ad esempio, se un’associazione di
volontariato ritiene di dover dare vita ad una
fondazione oppure ad una impresa sociale,
la devoluzione del patrimonio, in tutto o in
parte, non deve andare soggetta a restrizioni irragionevoli. Guardare al volontariato
come ad un fenomeno emergente implica
infatti che si rafforzi e non che si indebolisca
la sua capacità di contagio nei confronti sia
del mercato sia dello Stato.
A quest’ultimo riguardo, è urgente andare oltre l’impianto della legge n.
266/1991 che – come noto – si limita a
disciplinare i rapporti tra organizzazioni
del volontariato e istituzioni pubbliche. È
necessario considerare tutti i tipi di rapporto che le OV intendono stringere con
soggetti vari, indipendentemente dal fatto
che questi ultimi siano soggetti pubblici
o meno. Vanno dunque regolati anche i
rapporti che possono intercorrere tra associazioni di volontariato e istituzioni private,
siano esse profit o non profit. Si pensi alle
forme, in costante diffusione nel nostro
paese, del cosiddetto volontariato d’impresa (si veda l’articolata e minuziosa analisi in
ASTRID, 2008).
Infine, la semplificazione amministrativa
è una richiesta che il mondo del volontariato
da tempo avanza, ma con scarso successo.
Nello snellimento delle procedure bisogna
Del volontariato organizzato
però seguire un criterio di ragionevolezza,
per tener conto della consistenza dimensionale dei soggetti e degli ambiti di intervento.
Non si possono imporre le stesse procedure
amministrative e contabili alla grande e alla
piccola OV. Pure urgente è la revisione del
rapporto tra Fondazioni di origine bancaria – enti nati dopo il 1991 e quindi successivi alla legge 266 – e Comitati di Gestione
regionali che ricevono i fondi destinati alle
OV dalle prime per poi distribuirli ai Centri
di Servizio per il Volontariato. Se si vuole
andare nella direzione qui auspicata occorre
intervenire sull’attuale legislazione che, oltre
ad essere fonte di conflittualità tra grandi e
piccole organizzazioni di volontariato, induce a inefficienze sistemiche. A tale riguardo
va osservato che poiché le associazioni di
volontariato sono ONLUS di diritto, (ex
d.lgs. 460/1997), è auspicabile un maggior
coinvolgimento dell’organo di controllo e
di vigilanza, cioè dell’Agenzia per il Terzo
Settore, la quale deve essere chiamata in
causa in modo costruttivo; per esempio,
prevedendo che i pareri che attualmente
essa rilascia diventino vincolanti (e non solo
obbligatori come è ora), ogniqualvolta essi
abbiano ad oggetto OV. Un tale provvedimento permetterebbe che il punto di giudizio non rimanesse solo ed esclusivamente
quello fiscale-tributario come fino ad oggi
è stato. C’è infatti un disperato bisogno di
un soggetto terzo capace di tener conto, nei
suoi pronunciamenti, del valore aggiunto
sociale creato dal volontariato, e non soltanto del rispetto formale delle norme di legge.
3. Che dire della questione identitaria? Come
noto, questo termine si porta addosso una
duplice ambiguità. La prima fa riferimento
alla distinzione tra identità come corrispondenza ad un’unica realtà – come quando si
dice «Tizio e Caio condividono la medesima
identità religiosa» – e identità come insieme
di caratteristiche che rendono un ente qualcosa di unico e irripetibile – come quando
si dice: «quella persona ha perso la propria
identità in seguito ad una certa malattia
mentale». La seconda ambiguità, invece,
concerne la distinzione tra identità come
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condizione data, decisa da altri o associata
ad uno speciale destino storico e identità
come frutto di scelta responsabile. Nel primo
caso, l’identità si scopre, nel secondo caso si
costruisce. (Per un approfondimento rinvio a
Zamagni, 2011).
Sono dell’idea che alle OV si debbano
applicare le seconde accezioni dei due concetti di identità ora evidenziati. Se l’identità
è un insieme di caratteristiche che connotano di sé un soggetto ed è conseguenza di un
processo di scelta, è evidente che essa non
si dia una volta per tutte. Invero, quello
identitario – nell’accezione qui accolta – è
un fenomeno prettamente morfogenetico,
un fenomeno cioè ad elevato grado di
cambiamento che evolve sia per spinte
interne sia in seguito alle trasformazioni
della società in cui il volontariato è inserito.
In tal senso, la costruzione – e non già la
scoperta – dell’identità comporta sempre
che un confine mobile venga tracciato. E
ogni confine, per il fatto stesso di separare interno e esterno, comporta sempre il
rischio della difesa ad oltranza della propria
identità. Ciò che la rende precaria e pericolosa. Precaria perché un’identità che non
riesce a vedere l’altro non è sostenibile alla
lunga; pericolosa, perché un’identità che
non si pone in discussione degenera, prima
o poi, nell’integralismo, cioè nel rifiuto a
priori della diversità dell’altro.
Ecco perché non pochi commentatori,
allo scopo di scongiurare i rischi immunitario e integralistico, tendono oggi a sbarazzarsi del concetto stesso di identità – che
è come gettare con l’acqua il bambino,
perché l’esodo dall’identità distrugge la
persona. Piuttosto quello che occorre fare è
imparare a ridefinire, a riposizionare i propri confini; il che significa essere in grado
di fornire all’altro le ragioni ragionevoli
della propria identità. Per fare memoria:
la ragionevolezza è la razionalità che rende
la ragione ragione dell’uomo e per l’uomo.
In quanto tale, essa è espressione di saggezza e non solo di abilità intellettuale. Si
comprende allora perché alle OV non può
bastare la razionalità. Non bastano dunque
i corsi di formazione e di addestramento
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professionale, pure necessari. Ciò di cui il
volontariato ha oggi massimamente bisogno sono investimenti in educazione – non
formazione – identitaria, proprio quegli
investimenti che negli ultimi tempi, per una
varietà di ragioni, sono venuti tragicamente
a mancare. Non esiste, a tutt’oggi, una vera
e propria «scuola di volontariato». Esistono
corsi e addirittura master universitari di
management delle OV dove si pone in
pratica il pensiero calcolante, necessario ma
non certo sufficiente. Ma dove sono i «luoghi» dove si alimenta il pensiero pensante,
il pensiero cioè che sa indicare la direzione
di marcia? Agli inizi e fino agli anni Ottanta
del secolo scorso è stato vero il contrario:
meno professionalità, ma più identità. Se
dunque vogliamo superare la crisi di senso,
cioè di direzione, del volontariato occorre
riequilibrare le cose, come non pochi soggetti hanno già iniziato a fare. È questo il
modo per scongiurare quei fenomeni di
spiazzamento dell’una dimensione – quella
professionale – a danno dell’altra – quella
identitaria – frutto di una certa mentalità
riduzionistica.
Il volontariato italiano si trova, oggi, di
fronte ad un bivio: continuare sulla via, fino
ad ora battuta in prevalenza, per un verso
dell’advocacy e, per l’altro verso, della supplenza – la cosiddetta risposta ai fallimenti
dello Stato e del mercato –; oppure intraprendere con convinzione la via della civilizzazione del mercato e dello Stato. Restare
ancorati alla prima alternativa significa, per
il volontariato, accettare il ruolo di terzo
(incomodo) e cioè: conservare un rapporto
subordinato, ancorché non esclusivo, nei
confronti delle pubbliche amministrazioni
e della filantropia d’impresa (corporate philanthropy); accontentarsi di occupare una
posizione di nicchia all’interno della sfera
del mercato; accettare di svolgere un ruolo
meramente implementativo nelle politiche
di welfare. Scegliere la seconda alternativa
significherebbe, invece: mirare ad acquisire
uno statuto di autonomia e indipendenza
attraverso il conseguimento di una soggettività sociale e culturale; intervenire da
protagonista, cioè da comprimario, nella
Stefano Zamagni
realizzazione pratica del modello di welfare
society; dare ali robuste al principio di sussidiarietà orizzontale.
Per dirla in altro modo, sappiamo bene
che il proprium delle OV è quello di creare
sia valore strumentale sia valore espressivo.
Il primo è misurabile nei termini dei risultati
prodotti, cioè degli output. Il valore espressivo (o simbolico) va misurato, invece, rispetto
agli stati finali conseguiti, cioè agli outcome,
a loro volta definiti nei termini della capacità
di produrre beni relazionali e capitale sociale, di far crescere le reti sociali e la fiducia
generalizzata. Ebbene, imboccare la seconda
delle vie sopra indicate significa accettare
che il valore espressivo di una organizzazione
della società civile non possa essere sacrificato sull’altare del suo valore strumentale.
Come dire che un volontariato tutto sbilanciato sul lato della mera efficienza sarebbe
incapace di assecondare una trasformazione
in senso relazionale delle politiche sociali
e soprattutto di favorire il progresso civile
e morale del paese. Si pensi al contributo,
veramente notevole, che i soggetti di cui qui
si parla danno all’ampliamento della democrazia partecipativa; alla diffusione della
cultura del dono e della prassi della reciprocità; alla creazione di beni comuni – da
non confondersi con i beni pubblici, né con
i beni collettivi. (Una recente ricerca a cura
di Kohler Koch (2008), dà conto, con dovizia
di particolari, del ruolo che le organizzazioni
della società civile sono in grado di svolgere
nel sostenere una governance democratica in
un’Europa multilivello).
4. Quali caratteristiche la governance di
una OV dovrebbe allora esibire se vuole
scongiurare il rischio di cadere nella trappola dell’isomorfismo organizzativo di cui
parlano Di Maggio e Powell? Ritengo si
debbano affrontare e vincere tre sfide specifiche: a) come realizzare, cioè attuare,
una vera e propria democrazia partecipativa;
b) come risolvere il problema del conflitto
interno; c) come difendersi dal rischio del
group-think (nel senso di Irving Janus).
Inizio dalla prima sfida.
Conviene partire dalla considerazione
che l’azione organizzativa, quale essa sia, è
Del volontariato organizzato
sempre un’azione comune, un’azione, cioè,
che per essere compiuta ha bisogno del concorso intenzionale di due o più soggetti. A
ben considerare, è il fatto della divisione del
lavoro a conferire alle azioni organizzate lo
status di azioni comuni. Tre sono gli elementi
identificativi dell’azione comune. Il primo è
che essa non può essere condotta a termine
senza che tutti coloro che vi prendono parte
siano consapevoli di ciò che fanno. Il mero
convenire o ritrovarsi di più individui non
basta alla bisogna. Il secondo elemento è che
ciascun partecipante all’azione comune conserva la titolarità e dunque la responsabilità
di ciò che compie. È proprio questo elemento a differenziare quella comune dall’azione
collettiva. In quest’ultima, infatti, l’individuo
con la sua identità scompare e con lui scompare anche la responsabilità personale di ciò
che fa. Il terzo elemento, infine, è l’unificazione degli sforzi da parte dei partecipanti
all’azione comune per il conseguimento di
uno stesso obiettivo. L’interazione di più
soggetti all’interno di un determinato contesto non è ancora azione comune se costoro
perseguono obiettivi diversi o confliggenti.
Dunque, anche una OV, in quanto possiede
tutti e tre questi elementi, è propriamente
un’azione comune.
Diversi sono i tipi di azione comune e
ciò in relazione all’oggetto della comunanza. Questa, infatti, può realizzarsi intorno
ai mezzi oppure intorno ai fini dell’azione
stessa. Nel primo caso, l’azione sarà di tipo
capitalistico e la forma che l’intersoggettività assume sarà, tipicamente, quella del
contratto. Come si sa, nel contratto le parti
devono bensì concorrere assieme alla sua
realizzazione, ma ciascuna persegue fini
diversi, spesso contrapposti. Si pensi al
contratto di compravendita tra un venditore e un compratore o allo stesso contratto
di lavoro. Invece, quando la comunanza è
declinata intorno ai fini, si ha l’organizzazione non profit e specificamente una OV.
Si badi che c’è differenza tra la situazione
in cui si condivide che ognuno persegua
il proprio fine (come accade nella impresa
capitalistica) e la situazione in cui si ha un
fine comune da condividere. Si tratta della
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medesima differenza che passa tra un bene
comune e un bene pubblico (locale). Nel
primo caso, il vantaggio che ciascuno trae
dal suo uso non può essere separato dal
vantaggio che altri pure da esso traggono.
Come a dire, che l’interesse di ciascuno si
realizza assieme a quello degli altri, e non
già contro come avviene col bene privato, né
a prescindere, come accade con il bene pubblico. In buona sostanza, mentre pubblico
si oppone a privato, comune si oppone a
proprio. È comune ciò che non è solo proprio, né ciò che è di tutti indistintamente.
Quale la conseguenza, praticamente rilevante, che discende dalla distinzione tracciata? Che quando il «comune»
dell’azione si ferma ai soli mezzi, il problema da risolvere, basicamente, è quello
della coordinazione degli atti di tanti soggetti. D’altro canto, quando il «comune»
dell’azione si estende ai fini, il problema che
va risolto è come realizzare la cooperazione.
Per dirla in termini formali, un problema di
coordinazione nasce dall’interdipendenza
strategica di più soggetti; un problema di
cooperazione, invece, nasce dalla loro interdipendenza assiologica. Come a dire che
nella cooperazione l’intersoggettività è un
valore; nella coordinazione essa è una circostanza. Inoltre, nel caso della coordinazione
sono le caratteristiche stesse del processo
produttivo a dettare le modalità del coordinamento. L’esempio tipico è la catena di
montaggio: gerarchia e un adeguato sistema
di incentivi (o di punizioni) bastano alla
bisogna. Nel modello della cooperazione,
invece, il comportamento di ciascun membro dell’organizzazione dipende anche dalle
aspettative che questi ha circa le intenzioni
e le motivazioni degli altri.
L’implicazione importante che si trae
da quanto precede è che, per la OV, quella della «coerenza psicologica» (come la
chiama H. Schlicht) tra ciò che si dichiara
di volere e ciò che si fa nella realtà, è condizione necessaria della sua stessa sopravvivenza. Non così invece per l’impresa di
capitali, il cui management non ha bisogno
di conoscere le motivazioni o le disposizioni
d’animo di coloro che operano in essa. Gli
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basta che i comportamenti effettivi di costoro siano in linea con quanto contemplato
nel piano di coordinamento. Ecco dunque
la prima sfida: come disegnare il modello
organizzativo della OV in modo tale che
essa sappia, realizzare quel meeting of minds
(incontro di menti) di cui parla Thomas
Schelling. Ciò che si può dire, in generale,
è che la partecipazione democratica è la via
da battere. Si tratta di offrire a tutti i soci
della OV la possibilità reale (non virtuale)
di partecipare al processo deliberativo nelle
forme che devono essere trovate. Giova
ribadire che non basta la comunicazione
trasparente (dare informazioni corrette e
veritiere); né basta la consultazione di tipo
concertativo. Occorre arrivare alla inclusione nel processo decisionale della OV di tutti
coloro che in essa operano.
Passo alla seconda sfida: quella riguardante la ricerca dei modi più efficaci per la
gestione del conflitto. Una precisazione è
opportuna. Non v’è da credere che all’interno di una OV non possano nascere conflitti solo perché i soci condividono il fine
dell’azione comune, come sopra si è scritto.
Perché tale circostanza, se vale a scongiurare il conflitto di valori, non garantisce
affatto che non possano sorgere conflitti
sui modi di interpretazione di quei valori e
soprattutto sui modi di tradurli nella gestione corrente dell’impresa. Si tenga presente,
infatti, che l’interpretazione dei valori, cioè
la determinazione dei criteri di giudizio
sulla base dei quali si stabilisce se in una
certa situazione i valori sono stati applicati
o meno, è operazione storicamente determinata, perché dipende dagli «occhiali» che
usiamo per guardare la realtà. E gli occhiali
hanno a che fare con le nostre sensibilità,
con i nostri stati emotivi, con la nostra cultura specifica. Guai dunque a sottovalutare
tali aspetti anche perché situazioni di conflitto nella vita di una organizzazione sono
assai più frequenti di quanto si pensi.
Ci viene in aiuto, a tale proposito, un
teorema assai famoso di Amartya Sen del
1970, che dimostra che, in parecchie situazioni, principio democratico (nelle decisioni di gruppo, si applica il criterio della
Stefano Zamagni
maggioranza) e principio liberale (ciascuna
persona deve poter far valere il proprio
punto di vista almeno in qualche area, del
processo decisionale) non riescono ad essere rispettati simultaneamente. Con quale
conseguenza? Che poiché nella pratica non
si può non dare la precedenza al principio
democratico, e questo per elementari ragioni di governabilità dell’OV, la persona che
si trovasse sistematicamente in minoranza
non riuscirebbe mai a veder accolto il
proprio punto di vista, finendo per allontanarsi, in senso fisico oppure culturale, dalla
compagine stessa. Situazioni del genere, se
per l’impresa di capitali non hanno grande
rilevanza, per le OV avrebbero effetti alla
lunga deleteri. D’altro canto, occorre considerare che il conflitto – di per sé – è segno
di vitalità, perché come ricordava Terenzio:
«Il seme e la terra sono in conflitto, ma da
essi nasce la pianta».
Nel mondo delle imprese capitalistiche,
gli strumenti basici per risolvere situazioni
conflittuali sono, per un verso, il contratto
(si tenga presente che la struttura formale
di un incentivo è quella del contratto), e per
l’altro verso, il ricorso al «giudice», cioè ad
una terza parte. La OV non può ricorrere
a questi due strumenti, per ovvie ragioni
che non è il caso qui di richiamare. Essa
non può mai fare a meno del ruolo strategico della leadership. Leader è chi è capace
di esercitare la funzione di autorità entro
l’organizzazione. Si badi, però, a non confondere il principio di autorità con il principio gerarchico. Quest’ultimo, infatti, può
risultare un meccanismo efficiente quando
si tratta di conseguire obiettivi di routine.
Incontra però difficoltà insormontabili nel
realizzare obiettivi di innovazione. Il punto
è che l’autorità entro l’OV non può che
essere il soggetto portatore della relazione
di fiducia, della risorsa cioè di cui nessuna
OV può fare assolutamente a meno.
La terza sfida, infine, cui sopra facevo
riferimento è quella di trovare i modi di
difesa nei confronti del rischio del groupthink, che è quel particolare modo di pensare che le persone, che fanno parte di un
gruppo coeso e omogeneo, finiscono alla
Del volontariato organizzato
lunga per adottare. I membri di un tale
gruppo cercano l’unanimità di pensiero,
fino al punto di non permettersi di prendere in considerazione opinioni alternative. Il
group-think è sostanzialmente diverso dal
consenso di facciata, perché nel primo caso
il consenso dei membri è veramente reale
ed il pensiero di costoro converge su norme
di comportamento che tutti, all’interno del
gruppo, ritengono corrette. Chiaramente,
un atteggiamento del genere si dimostra
bensì conveniente nel breve termine, perché favorisce la presa rapida delle decisioni,
ma nella misura in cui esso riduce l’esercizio
del pensiero critico porta al conformismo e
dunque riduce, a lungo andare, la creatività
dell’intero gruppo.
Durante la lunga stagione del ford-taylorismo, l’idea corrente era che la creatività
fosse una faccenda individuale: era sufficiente che l’impresa avesse «un» creativo
al proprio interno per riuscire a sfondare
nel mercato. Se ne comprende la ragione
se si pensa che la società industriale è stata
una società basata, per quanto concerne
l’organizzazione d’impresa, sui tre principi
seguenti: primo, la struttura gerarchica del
potere (è «sufficiente» che pensino solo
coloro che occupano le posizioni di vertice);
secondo, la razionalizzazione delle procedure (per cui i comportamenti nell’impresa
vanno epurati dalla dimensione emotiva
e soprattutto relazionale); terzo, la standardizzazione non solamente dei prodotti,
ma anche dei gusti dei consumatori e dei
linguaggi comunicativi.
La novità dell’attuale fase storica è il
superamento, ormai completo, di questo
modo di fare organizzazione. (Si veda, per
un ampliamento, Bruni e Zamagni, 2004).
Ne deriva che la creatività individuale non
basta più; occorre passare alla creatività di
gruppo. Cosa comporta ciò? Che l’organizzazione stessa deve diventare creativa.
Ebbene, l’organizzazione creativa non è
compatibile con una gestione delle relazioni
personali basata sul comando e sul controllo. Al contrario, essa postula una gestione
centrata sulla motivazione e sul rispetto.
Della motivazione si è detto nel paragrafo
277
precedente. Qui diciamo del rispetto delle
persone, che non è semplicemente assenza
di umiliazione (come avviene nel mobbing),
ma basicamente valorizzazione del potenziale umano di ciascuno. L’organizzazione
che pratica il rispetto è quella che fa crescere, sotto il profilo umano, i propri collaboratori e lo fa non in chiave strumentale.
Alla luce di quanto precede, si comprende perché il group-think è dannoso e
controproducente: perché esso non favorisce certo l’organizzazione creativa. Sono
sintomi eloquenti che qualcosa del tipo
group-think prende piede nell’OV quando
tra i suoi membri emerge un senso illusorio
di invulnerabilità; quando il responsabile
(o il capo) viene tenuto all’oscuro o al riparo dell’esistenza di prove contradditorie;
quando coloro che non la pensano come la
maggioranza vengono allontanati dai loro
incarichi, oppure sminuiti nella considerazione che di essi ha l’impresa, e così via.
Quando questo accadesse occorre intervenire e prontamente, nei modi suggeriti dalla
situazione specifica. Uno di questi è quello
di attribuire a persone autorevoli il ruolo
di «avvocato del diavolo», e ciò allo scopo
di aiutare i membri del gruppo a rafforzare
le proprie convinzioni. Un altro modo è
quello di immettere nel gruppo nuovi soci,
possibilmente giovani, in grado di portare
punti di vista inediti e soprattutto di abbassare l’età media della compagine sociale.
5. Chiudo con un’annotazione di carattere
generale. Prendo da B. Benson l’immagine
della catena e della corda per simboleggiare
due modelli ideal-tipici di organizzazione
aziendale. Il modello della catena ci fa ritenere che affinché un’organizzazione possa
espandersi ed irrobustirsi sia necessario
aggiungere anello ad anello. Ma quando
anche uno solo degli anelli si spezza, tutta
la catena diviene inservibile. Non è forse
vero che la forza di una catena è sempre
la forza dell’anello più debole? Il modello
della corda, invece, è di tipo convergenziale:
in esso tanti fili si intrecciano tra loro, così
che anche se dovesse accadere che qualche
filo si strappa, la corda si indebolirà un po’,
ma continuerà a tenere. L’auspicio è che
il volontariato non si lasci abbacinare dal
miraggio della catena, ma cerchi piuttosto
di allungare e di infoltire le sue corde.
Riferimenti bibliografici
Alecci, E. e Bottaccio, M. (2010). Fuori dall’angolo. Idee per il futuro del volontariato e del
Terzo settore. Napoli: L’Ancora.
ASTRID (2008). Dove lo Stato non arriva. Pubblica amministrazione e Terzo settore. Firenze:
Passigli.
Bruni, L. e Zamagni, S. (2004). Economia civile. Bologna: Il Mulino.
Kohler Koch, B. (2008). Opening EU – Governance to Civil Society. Mannheim.
Rossi, E. (2009). Proposte dell’Agenzia per le ONLUS per una riforma organica della legislazione sul Terzo settore. Aretè, 3.
Salamon, L. e Anheier, H. (1999). Global Civil Society. Baltimore: Johns Hopkins University
Press.
Zamagni, S. (2011). Dono gratuito e vita economica. In M. T. Russo (a cura di), La cultura
del dono. Milano: Bollati Boringhieri.
Zamagni, S. (a cura di) (2011). Libro Bianco sul Terzo Settore. Bologna: Il Mulino.
Stefano Zamagni, Dipartimento di Scienze Economiche, Università degli Studi di Bologna
Piazza Scaravilli, 2, Bologna, Italia
[email protected]
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Stefano Zamagni
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