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Dove le pietre sono parole
LA NATURA, I PAESAGGI LA NATURA, I PAESAGGI: SARDEGNA SARDEGNA Dove le pietre sono parole AGOSTO 2001 SUPPLEMENTO ALLEGATO AL N. 244 di AIRONE Sped. in abb. post. - 45% art. 2 comma 20/b legge 662/96 - Milano EDITORIALE GIORGIO MONDADORI LA NATURA, I PAESAGGI SARDEGNA Direttore responsabile: ELIANA FERIOLI ilSOMMARIO coordinamento redazionale: Cesare Della Pietà redazione: Antonella Colicchia, Antonio Lopez, Elisabetta Planca, Metello Venè 6 GALLURA dipartimento fotografico: Lello Piazza (photo editor) ufficio grafico: Claudia Pavesi (responsabile), Catia Quinterio 16 SUGHERA segreteria di redazione: Laura Belloni 24 GESTURI Valerio Agnesi, Stefano Ardito, Antonella Colicchia, Dario Cossu, Antonio Lopez, Albano Marcarini, Nanni Marras, Domenico Ruiu, Egidio Trainito, Metello Venè 32 BARBAGIA per le fotografie: 40 NURAGHI Hanno collaborato: 48 STAGNI COSTIERI Piero Bevilacqua, Carlo Felice Casula, Rosalba Mariani, Giampiero Pinna, Giovanni Sistu, la casa editrice AM & D edizioni di Cagliari Consiglieri: Indirizzo e-mail: [email protected] Indirizzo postale: corso Magenta 55, 20123 Milano Supplemento al n. 244 di Airone © 2001, L’Airone di Giorgio Mondadori e Associati S.p.A. Tutti i diritti riservati. Testi e fotografie non possono essere riprodotti senza l’autorizzazione dell’Editore. Fotolito: Adda Officine Grafiche, via delle Industrie 18, Filago (BG). Stampa: Elcograf, via Nazionale 14, Beverate di Brivio (LC). Airone: pubblicazione mensile registrata presso il Tribunale di Milano il 7/3/1981, n. 89. LE PERLE CONTESE di Antonella Colicchia Progetto grafico di Claudia Pavesi Giuliano Cesari, Maurizio Dell’Arti, Roberto Cairo, Marco Pompignoli LE RADICI di Stefano Ardito Massimo Demma, Paolo Rondini, Franco Testa PRESIDENTE: DOVE IL PASTORE È RE di Antonella Colicchia per le illustrazioni: URBANO CAIRO LA GIARA DEI CAVALLINI di Antonio Lopez Stefano Ardito, Nevio Doz, Vittorio Giannella, Johanna Huber, Mastrolillo, Giorgio Marcoaldi, Gianmario Marras, Angelo Mereu, Daniele Pellegrini, Enrico Pinna, Guido Alberto Rossi, Domenico Ruiu, Egidio Trainito E ASSOCIATI S.P.A. UN ALBERO, UNA TERRA di Albano Marcarini A questo numero hanno contribuito, per i testi: L’AIRONE DI GIORGIO MONDADORI DOVE IL GRANITO DÀ SPETTACOLO di Albano Marcarini LA FOTO DI COPERTINA Il nuraghe Santa Sabina, nei pressi di Silanus. Sono oltre 8.000 queste costruzioni censite finora in Sardegna: inevitabile che l’enigmatico monumento megalitico finisca con l’apparire quasi un logo dell’isola, un marchio che ne segna tutti i paesaggi, dalle coste ai monti, alle campagne, dove il tempo pare essersi fermato. E per diventare, esso stesso, paesaggio. Foto di Angelo Mereu 56 MINIERE CUORE DI TENEBRE di Metello Venè 66 LA COSTA DOVE VOLANO I GRIFONI di Stefano Ardito 74 TANCHE I MURI DELL’ARRAFFA-ARRAFFA di Albano Marcarini 80 PISCINAS IL NOSTRO SAHARA di Metello Venè 88 SUPRAMONTE ’ L ANIMA SELVAGGIA di Stefano Ardito SOMMARIO 5 DANIELE PELLEGRINI GALLURA dove il granito dà spettacolo DI ALBANO MARCARINI Nel Medioevo i Visconti, che in Sardegna operavano da giudi- ✦ ci per conto dei Pisani, avevano sulle loro insegne l’immagine DOVE SI TROVA La maggiore area granitica sarda è la Gallura, la regione settentrionale dell’isola. Le principali vie d’accesso fanno capo a Olbia, porto per i collegamenti con il continente, e a Sassari. La strada statale 127 che passa per Tempio Pausania attraversa in senso est-ovest tutta la regione. Pure interessante, sotto il profilo paesaggistico, la strada costiera che da Olbia raggiunge Palau, Santa Teresa Gallura e Castelsardo. Sicuramente insolito, infine, l'itinerario ferroviario, con locomotiva d’epoca, da Palau a Tempio. Il servizio si effettua giornalmente dal 1° luglio al 31 agosto e offre il modo di apprezzare le bellezze del paesaggio della Gallura. (Informazioni: Ufficio Turistico Ferrovie della Sardegna, numero verde 800-460220). 8 GALLURA e la sua identificazione geografica, che allora però doveva essere ben più vasta, comprendendo il Nuorese e ampi tratti delle Barbagie. La Gallura di oggi invece comincia dal Monte Limbara (1.359 m), a ridosso di Tempio Pausania. È la seconda montagna sarda per altezza, dopo il Gennargentu, e da essa si abbraccia tutta questa parte dell’isola. Non per nulla, il Lamarmora, redigendo la prima carta topografica della Sardegna, vi potè traguardare non solo i monti vicini ma anche Montecristo, e così collegarsi alla rete trigonometrica della Penisola. Da quassù si dirama un intricato disegno di valli, raggi sinuosi che arrivano al frastagliato perimetro costiero immergendosi nel mare. Galleggianti nel Tirreno (ma da quest’altezza sembrano a mezz’aria) ci sono poi scogli, isole e isolotti. Ai turisti che di queste valli percorrono le tortuose strade, il paesaggio appare come un caleidoSOPRA: UN DETTAGLIO DEL GRANITO DELLA GALLURA. A FRONTE: UN scopio multicolore: l’azzurro e la RICOVERO RICAVATO IN UN “TAFONE”. trasparenza del mare, il rosa dei PAGINE PRECEDENTI: CAPO D’ORSO graniti, il verde cupo delle suE L’ARCIPELAGO DELLA MADDALENA. ghere, scalfito dalle cortecce rossastre. Poche istantanee, ma sufficienti per dare l’idea di un territorio specialmente determinato nei suoi aspetti ambientali e paesaggistici. La geologia ci informa che tutta la Gallura appartiene alla vasta piattaforma granitica paleozoica della Sardegna. Modeste lingue alluvionali si estendono solo in prossimità del mare. Il granito la fa da padrone, risultato della imponente opera di disgregazione dell’originario manto di scisti cristallini, emersi dal mare circa 350 milioni di anni fa. Una disgregazione nient’affatto traumatica, ma quasi accarezzata dall’opera incessante degli agenti atmosferici. Gli sbalzi termici fratturano la roccia, le acque la dilavano, il vento, recando con sé infiniti granelli di sabbia, lavora di smeriglio. La forza della natura arriva a volte a forare le pareti di roccia: sono i ben noti “tafoni”. L’azione combinata della pioggia e del vento, del sole e del gelo, ha prodotto fantastici monoliti: orsi, elefanti, leoni, foche, rettili, bestiario favoloso di un giardino pietrificato. VITTORIO GIANNELLA PAOLO RONDINI di un gallo. Potrebbero derivare da qui il nome della Gallura EGIDIO TRAINITO ‘‘ ‘‘ GALLURA dove il granito dà spettacolo La Gallura è disseminata di massi, quasi bombardata attraverso i millenni dalle meteore. Tanti, e di forme così strane, che quando vi si è perduti nel mezzo sembrano animarsi e muoversi, quasi si assistesse ad una immensa migrazione di popoli pietrificati. (Guido Piovene, 1956) Questo gioco di forme si riflette anche nel profilo morfologico generale. Il rilievo è tormentato, si direbbe montagnoso se non fosse che nove decimi del territorio si trovano a meno di 500 metri sul livello del mare. All’estremità settentrionale, la lunga dorsale sarda si sfalda in una meravigliosa successione di penisole, anfratti, insenature, cale. Una morfologia figlia dell’abbassamento del litorale e dell’innalzamento del mare e che si completa con un corredo di scogli, isolotti o vere isole, di cui La Maddalena e Caprera sono le maggiori. Se il vento ha effetto sulle pieQUANDO IL VENTO tre, immaginiamoci sulla vegeSI FA SCULTORE tazione. Il suo soffio e il sale che trasporta stremano gli alberi. I È l’erosione a plasmare i graniti lentischi e gli olivastri soppordella Gallura: piccoli e grandi tano la calura, ma non la spinta blocchi arrotondati scavati del vento (li si vede prostrati e scolpiti dai tafoni (lu tavoni, con la chioma sviluppata da un in gallurese) disegnano gli unico lato, come bandiere issascenari dell’interno e lungo le te su aste deformi). Vicino alla coste. I primi sono il risultato 1 l’acqua penetra nelle fessure diffusione del granito in Sardegna dell'erosione nel sottosuolo, che agisce sulla naturale fessurazione della roccia (1). L’acqua circola nelle fratture e dissolve e disgrega la roccia formando depositi di detriti (2). Quando i sedimenti vengono asportati dal dilavamento, rimangono solo i massi arrotondati, accatastati gli uni sugli altri (3) e spesso soggetti a ulteriore erosione con un processo di desquamazione, “a pelle di cipolla”. I tafoni si formano invece in ambiente aereo (4): è l’azione combinata del vento e dell’acqua salata a scavare la dura roccia. Il vento accelera l’evaporazione e quindi il deposito di cristalli di cloruro di sodio che, aumentando di volume, disgregano la roccia. Il processo inizia con l’asportazione di un primo cristallo: si crea così una piccolissima nicchia che progressivamente s’ingrandisce verso l’alto, per desquamazione della volta. (Egidio Trainito) 2 la roccia più tenera si disgrega 3 emergono isolate forme compatte 4 l’erosione prosegue la sua opera GIANMARIO MARRAS IL CANDIDO FARO DI CAPO TESTA SPICCA SUL CAOS DEI MASSI LAVORATI DALL’EROSIONE. IN ALTO: “L’ORSO”, LA PIÙ FAMOSA TRA LE “SCULTURE NATURALI” DELLA COSTA GALLURESE. STEFANO ARDITO Lungo le coste della Gallura si trovano due importanti aree protette: il Parco nazionale dell’Arcipelago della Maddalena, istituito nel 1996, e l’Area naturale marina di Tavolara-Capo Cavallo, istituita nel 1997. Di notevole rilevanza la recente realizzazione, nell’entroterra gallurese, del Parco regionale del Monte Limbara, per una superficie di 19.833 ettari. Vi sono state individuate 22 aree di grande interesse naturalistico fra cui sugherete, la stazione di pino marittimo di Carracanu, la stazione di pioppo tremolo di Monte Longheddu, i boschi di leccio, la macchia e la vegetazione di Monte Acuto, la vegetazione riparia del Rio Mannu e del corso superiore del Coghinas. PAOLO RONDINI COME È PROTETTA BECCO DI GRU CORSO (ERODIUM CORSICUM) A FRONTE PAESAGGIO DELL’INTERNO DELLA GALLURA, LUNGO IL CORSO DEL FIUME LISCIA. IN ALTO: IL MONTE LIMBARA; I SUOI 1.359 METRI SONO LA MASSIMA QUOTA DI QUESTA REGIONE. LUCERTOLA DI BEDRIAGA (ARCHAEOLACERTA BEDRIAGAE) inospitale, cresce una grande varietà di piante: le più tipiche sono un piccolo geranio, il becco di gru corso (Erodium corsicum), endemico dei graniti di Corsica e Sardegna nord-orientale, e la borragine azzurra (Sedum caeruleum), dai cui fusti carnosi e prostrati di colore rosso sbocciano in primavera delicati fiori celesti. (Egidio Trainito) VITTORIO GIANNELLA Guglie e massi della Gallura costituiscono l’habitat di una fauna e di una flora molto specializzate. I tafoni possono essere enormi, o avere l’aspetto delle celle di un alveare. E spesso sono proprio loro a offrire i rifugi migliori agli uccelli: dall’aquila reale che nidifica sulle guglie del Limbara al falco pellegrino che costruisce il nido sia sulle ripide pareti dell’interno sia sulle isole. Forse l’ospite più simpatico dei microtafoni è il minuscolo scricciolo, che sceglie sempre anfratti riparati e strapiombanti. Ma l’animale più caratteristico dei graniti galluresi, dal mare alle zone più elevate, è la lucertola di Bedriaga (Archaeolacerta bedriagae), endemica della Corsica e della Sardegna nord-orientale. Ha dimensioni notevoli (arriva fino a 30 cm di lunghezza), corpo massiccio e punteggiato, e origini antichissime (risale a circa 30 milioni d’anni fa). Sul granito nelle nicchie di detrito, apparentemente FRANCO TESTA (2) EGIDIO TRAINITO APPUNTI DI NATURA costa, dov’è spesso impetuoso, la macchia non ha la forza di ergersi; solamente all’interno prende vigore e portanza, ma è nelle valli più recondite che diventa vera foresta. Vi predominano, in successione altimetrica, prima la sughera e poi il leccio. Ancora mezzo secolo fa questo paesaggio poteva considerarsi intatto. Tutto il tratto costiero occidentale della Gallura, da Castelsardo a Santa Teresa, era privo di strade e di abitati. Il giornalista Benito Spano che lo visitò nel 1960, per conto de Le Vie d’Italia, lo descrive come “un lembo di deserto autentico, fra i più spettacolari d’Italia”, per l’imponenza e l’estensione della cornice di dune mobili, in grado di spingersi nell’entroterra a ricoprire di sabbia le più alte colline. Dopo è venuta la stagione del turismo e delle grandi operazioni immobiliari. Costa Smeralda, Arzachena, Porto Rotondo si possono intendere come i più privilegiati luoghi di vacanza o come le più offensive contaminazioni di un ambiente naturale di eccezionale bellezza. Ciò che più disturba sono però le copie riduttive derivate da quei modelli. Buona parte della costa gallurese è punteggiata di lottizzazioni, vagamente mimetizzate nel paesaggio. Ma neppure la macchia, con la sua fitta GALLURA 13 Costa Paradiso e il lontano Capo Testa), s’imbocca un sentiero che scende a ripidi tornanti. Alla fine della discesa si procede tra rigogliosi corbezzoli e annosi ginepri fenici sino alla foce del Rio Pirastru (laghetto retrodunale) e alla spiaggetta sassosa di Cala Tinnari. Risalendo le rocce al lato opposto dell’insenatura si ritrova il sentiero, che s’insinua in una fittissima macchia di corbezzoli e lentischi e, dopo qualche su e giù (vari tracciati parallele aperti nel tempo da turisti e pastori), sbuca su un pianoro disseminato di affioramenti di granito. Raggiunte le prime propaggini di dune fossili, si supera un muro a secco (casolare diroccato), PAOLO RONDINI Granito rosa, rigogliosa macchia e mare limpidissimo: non a caso questo tratto del litorale gallurese è chiamato Costa Paradiso. Punto di partenza dell’itinerario è il termine della sterrata che dalla strada Castelsardo-Santa Teresa Gallura porta al Monte Tinnari (216 m). Lasciata l’auto presso un gruppo di villette (vista splendida sulla JOHANNA HUBER/SIMEPHOTO invito alla visita si costeggia un’insenatura, si oltrepassa un cancello (richiuderlo!), si valica un ruscelletto e si sale a uno spiazzo (vi arriva una carrareccia dall’interno) circondato da dune fossili dove abbondano elicriso e Armeria pungens, che fiorisce a maggio. Poche centinaia di metri conducono alla spiaggia di li Cossi: un arco di sabbia dorata chiuso tra alte pareti di granito, con un ruscello che forma un laghetto trasparente prima d’incontrare il mare. Ritorno per la stessa via. L’itinerario si può percorrere in ogni stagione e richiede circa 4 ore (a/r). cortina, può cancellare la grottesca volgarità di certi villini neosardi, arabeggianti o spagnoleschi, i bizzarri mininuraghi, le terrazze pinnacolari, gli archivolti di granito grezzo e i serramenti in alluminio. Per ritrovare la vera Gallura bisogna lasciare il litorale e puntare verso l’interno. Ancora oggi ha la minore densità di abitanti per chilometro quadrato. Tutto ciò si spiega sulla base di precise ragioni storiche. La prima colonizzazione, di Còrsi e Toscani, fu sporadica e arrivò dal mare; poi avvenne un progressivo ripiegamento nell’entroterra sotto la minaccia delle scorrerie saracene; infine, a partire dal XVII secolo, si ebbe il ripopolamento secondo un insediamento polverizzato e strutturato sugli stazzi contadini. Alcuni centri, come Tempio, si sono sviluppati solo ai bordi meridionali della regione con giurisdizione su territori vastissimi che giungevano fino alla costa; altri, più marittimi, come Olbia, hanno una storia illustre che inizia dai Romani (o forse prima), ma si tratta di eccezioni rivolte al continente più che all’isola. Per cui il “vuoto” umano della Gallura si può intendere come un prezioso dono di natura da proteggere. Un ambiente e un paesaggio che hanno commosso personaggi insospettabili, come Gabriele d’Annunzio. In una lettera a un tasgiadore – termine che indica un cantante in un coro di cinque elementi – egli scrisse: “Se tu e gli altri quattro veramente mi amate, portatemi ad Aggius; e fatemi una capanna in un bosco di roveri là sul Tumoneusoza ch’io veda il golfo e tutto il lido insino alla Maddalena, e ch’io sia svegliato ogni alba dal Gallo di Gallura, che ieri mescolava le sue note al vostro coro antico quanto l’alba”. PER SAPERNE DI PIÙ Nei libri: M. Brigaglia, F. Fresi, Tempio e il suo volto, Sassari, 1995. D. Panedda, Il Giudicato di Gallura, Sassari, 1978. Nei siti: www.legambientegallura.com (ottimo, con molte informazioni sulla natura e il paesaggio); www.tempioweb.com (con dati sul Parco del Limbara). I CONTATTI Associazione escursionistica Camminalimbara, via Puchoz 22, 07029 Tempio Pausania (SS), 079 670704; Wwf, sezione di Santa Teresa Gallura, via Calabria, 07028 Santa Teresa Gallura (SS), 0789 755788. IL TRAMONTO ACCENDE I GRANITI CAPO TESTA. A FRONTE, IN ALTO: LA SPIAGGETTA DI CALA LI COSSI (COSTA PARADISO), PUNTO D’ARRIVO DELL’ITINERARIO CHE PROPONIAMO. MASTROLILLO/SIMEPHOTO DI SUGH ERA un albero, una terra SUGHERA un albero, una terra T E S T O D I A L B A N O M A R C A R I N I F O T O D I G I O R G I O M A R C O A L D I / PA N D A P H O T O Bande di ladri assaltano le sugherete. Questa la singolare notizia che arriva dalla Barbagia e dal Mandrolisai. Invece di de- ✦ ✦ predare il bestiame, ora i malfattori si dedicano a scortecciare le querce. Segno inequivocabile che coltivare il sughero rende. Si dice, fino a 1 milione di lire al quintale. Molto di più che nel passato, quando tale attività tradizionale, come altre in Sardegna, sembrava destinata al declino o, al massimo, a sostenere piccole economie locali. Oggi la Sardegna copre l’80 per cento della produzione nazionale, pari a circa 120.000 quintali di sughero all’anno (erano la metà nel 1953). A livello mondiale è invece il Portogallo a farla da padrone con circa 1.600.000 quintali all’anno. Le sugherete occupano nell’isola oltre 122 .000 ettari. Si estendo- A LATO: IL DISTACCO DOVE SI TROVA no non solo nei territori d’origine, come la Gallu- DELLA CORTECCIA, ORMAI “MATURA”, ra e il Nuorese, ma anche nella parte centro-me- DAL TRONCO. La distribuzione della quercia ridionale: la Stazione sperimentale del sughero IN BASSO, A SINISTRA: da sughero in Sardegna di Tempio Pausania, che dal secondo dopoguer- LEMBI ACCATASTATI, non dipende soltanto da fattori ra si preoccupa di difendere e valorizzare questo PRONTI PER IL edafici, ma anche da ragioni TRASPORTO. PAGINE genere di coltivazione, ha individuato 16 aree di PRECEDENTI: SUGHERE economiche che ne nuovo impianto. Vi figurano il Sulcis, le Giare e NELLA VALLE DELLA incentivano lo sviluppo diverse altre zone dove inopportunamente, nel LUNA, IN GALLURA. in determinate aree. Se le zone passato, erano state introdotte piantagioni estrad’impianto tradizionale nee all’ecosistema insulare. Nella Gallura sono circa 8.000 gli addetti risultano essere la Gallura e impiegati nel settore e si calcola che 100 ettari di sughereta possano il Nuorese, oggi troviamo dare lavoro per cinque anni a dieci persone. Cifre modeste, ma che ampie sugherete pure nella se moltiplicate su vasti territori danno un’idea delle ottime prospetBarbagia e nel Logudoro, tive di quest’attività. Calangiànus, in Gallura, è riconosciuta come la e in certe parti del capitale del sughero sardo, con più di 130 aziende che esportano in Sulcis e dell’Iglesiente. ogni parte del mondo. Quella del sughero è una lavorazione antica. La raccolta del prodotto COME È non si è mai meccanizzata e, forse, Non esiste ancora un’area di non lo sarà mai. Accade una volta oprotezione specificamente gni dodici anni, su alberi che abbiariservata alla quercia da sughero. no raggiunto almeno 15-18 anni di La tutela della pianta si opera con strumenti che ne sottolineano vita. Fra maggio e giugno, il bucadosoprattutto la funzione economica: re – lo scorticatore – incide il fusto in particolare, la legge regionale 9 febbraio 1994, con un’accetta e stacca la corteccia. Il n. 4, che amplia i disposti di una precedente legge gesto deve avvenire con perizia, il regionale emanata nel 1989. L’obiettivo di tali normative è di tutelare le piante da sughero e le sugherete taglio dev’essere delicato in modo quali componenti dell’ambiente, del paesaggio, da non danneggiare il fellogeno (da dell’economia e del patrimonio culturale della Sardegna fellòs, il termine greco che designava promuovendone lo sviluppo e la valorizzazione. il sughero), ovvero lo strato esterno ✦ PROTETTA 18 SUGHERETE del fusto che, conservando la capacità di generare sempre nuove cellule, è responIL VIVAIO FORESTALE DELLA sabile dell’accrescimento del tronco e darà STAZIONE SPERIMENTALE il sughero degli anni a venire. Inciso anDI TEMPIO PAUSANIA. LA SUGHERA OGGI VIENE che per linee verticali, l’albero si spoglia coDIFFUSA FUORI DEL SUO sì della sua veste. AREALE ORIGINARIO, SIA La materia raccolta la prima volta è detPER COLTIVAZIONI DA REDDITO SIA PER LA LOTTA ta “sughero maschio” e l’operazione si ALLA DESERTIFICAZIONE. chiama “demaschiatura”. Quella estratta le volte successive si chiamerà “femmina”. Le lunghe plance di sughero si accatastano al suolo, prima di essere condotte nelle officine di trasformazione. Lì, dopo una prima selezione e almeno sei mesi di essiccatura al sole, il sughero viene posto in bollitura e quindi passato alla lavorazione. È così da anni, anzi da secoli: dai tempi dei Greci e dei Romani. Le vaste sugherete che si estendono sull’altopiano di Tempio Pausania, di Aggius, di Buddusò, che circondano Bitti, Orune, Sorgono e ammantano i rilievi del Sulcis sono dunque vere “industrie verdi” ad alto capitale produttivo. Il sughero è un prodotto ecologico di qualità. Oltre che per fare tappi di bottiglie (l’uso più noto), lo si impiega ovunque per ottenere materiali isolanti, termici, acustici. Architetti e designer ne apprezzano la leggerezza e la tattilità, quasi un respiro di natura quando se ne sfiora con le mani la superficie. Nello stesso tempo, però, la sughera è l’essenza stessa della Sardegna più antica. Che cosa sarebbero i nuraghi, le “domus de janas”, gli stazzi Il sughero viene estratto da lavoratori abili, in modo che si stacca a strisce larghe, alquanto concave, che vengono bagnate per allargarsi e appianarsi, e infine legate a pacchi come lastre di gomma rossastra, preziosa quanto il marmo. (…) Gli alberi padri di tanta chiassosa ricchezza rimangono fermi sulle loro profonde radici, scorticati e sanguinanti come martiri; ma 20 SUGHERETE ‘‘ SOPRA: SUGHERETA PRESSO CALANGIÀNUS. A LATO: a poco a poco l’aria balsamica li risana, la natura li riveste pietosa d’un primo velo poroso come la garza che avvolge le piaghe; i ciclamini e i funghi calpestati si risollevano ai loro piedi e la pernice d’oro svolazza fra i loro germogli. Un’altra èra deve passare prima che vengano di nuovo martirizzati. (Grazia Deledda, Novelle, 1912) SUGHERETE 21 FRANCO TESTA (2) FRANCO TESTA/COLL. NATTA GHIANDAIA dei pastori senza il corredo di un’onusta e protettiva quercia? “Que(GARRULUS GLANDARIUS) sto paesaggio”, ha scritto il grande botanico Valerio Giacomini, “è a un tempo fisico e biologico, perché si integra in modo sorprendente con le strutture rupestri granitiche, che dominano specialmente nella Gallura. Dal suolo, disseminato di blocchi levigati, emergono le chiome ostinatamente verdi, i tronchi grigi, nocchieruti, contorti di questo albero frugale, selvatico e domestico, così intimamente connaturato alla solenne austerità di queste terre”. Eppure, girando per la Gallura, la prima impressione è quasi di pietà. A vederle nelle campagne, fra i blocchi levigati dei graniti, sui pascoli alle pendici dei monti, queste querce sembrano gridare vendetta. Sono alberi nudi, decorticati fino alla divisione del tronco. Un denso rossore riveste il corpo vivo della pianta. Lo si potrebbe scambiare per sangue, o, meno drammaticamente, leggere come un pudico segno di timidezza. Ecco perché la quercia da sughero appare come un albero simbolo della Sardegna, rimarcando per certi versi il carattere schivo dei Sardi e la storia spesso tragica della loro civiltà. Il terreno derivato dalla disgregazione delle rocce granitiche, caratterizzato da un’elevata acidità, è il prediletto dalla sughera. APPUNTI DI NATURA Per questo vediamo alberi attecchire anche là dove le condizioni essenziali per la vita Poco esigente in fatto di suoli vegetale sembrano quasi nulle. La sua resiLIMANTRIA DISPAR (eccezion fatta per il calcare), la stenza all’aridità è molto superiore a quella (IN BASSO: IL BRUCO) sughera può colonizzare terre del leccio e perciò la sua diffusione può famarginali e suoli poveri vorire la ricostituzione del paesaggio foredi origine silicea o vulcanica. Le sue ghiande sono stale mediterraneo, non soltanto in Italia ricercate da cinghiali, ghiandaie, topi quercini e ma anche nei vicini Paesi del Maghreb, in dal bestiame domestico. Le cavità degli esemplari Grecia e in Spagna. La sughera ha dunque più vetusti offrono rifugio a martora, donnola, topo un valore aggiunto, propriamente forestale: quercino, assiolo, ghiandaia marina, picchio rosso proteggere i suoli dall’erosione, integrare maggiore, cinciarella, cincia mora, cinciallegra, gli ecosistemi naturali, conservare e ricotorcicollo, mentre i rami ospitano i nidi di tortora, struire paesaggi degradati. colombaccio, ghiandaia, cornacchia grigia, sparviero, Può rappresentare allora un’arma efficace poiana, astore. Ciclicamente, a primavera inoltrata, le sughere vengono attaccate da milioni di larve contro la desertificazione e la degradazione dedi lepidotteri, in particolare di Limantria dispar, gli orizzonti vegetali. Ma è anch’essa minacvoracissimi bruchi pelosi e colorati capaci di ciata. Da una parte gli incendi, piaga costandefoliare totalmente una foresta. Ma la capacità te delle nostre foreste; dall’altra l’invasione di reazione della sughera è straordinaria: superata di piccoli insetti fitofagi, come Limantria dila fase più virulenta, ricomincia a germogliare e a spar, Malacosoma neustria, Tortrix viridiana, produrre nuove foglie: in 30-40 giorni è come prima. che stanno portando alla defoliazione dei Il danno subìto lo si può quantificare misurando boschi. La riduzione della biomassa fotosinl’anello di crescita della corteccia: quello relativo tetica compromette la produzione di sughero, e pure quella di ghiande che sono la baall’anno dell’invasione se per l’alimentazione del bestiame brado. ha uno spessore ridotto Un’insidia conosciuta ma contro la quale si è anche del 20 per lottato con il solito sistema degli antiparassicento. (Nanni Marras) invito alla visita PAOLO RONDINI Isolate, a formare macchie o estesi boschi, le sughere sono una presenza diffusa. Le indicazioni che seguono sono dunque solo alcune fra le tante possibili per incontrare questo paesaggio così affascinante. 1. MONTI. Un’ampia sughereta, in parte tenuta a pascolo, che si estende lungo la statale 199 Sassari-Olbia presso il paese di Monti e risale verso un altopiano a leccio e a macchia mediterranea. Nella valle del Rio Petra Iscotta, la sughereta conserva un sottobosco spontaneo con varie essenze erbacee, giovani querce e arbusti. NELLA PAGINA A FRONTE: UN’ANZIANA DONNA DI LURAS (SASSARI) SI DISSETA BEVENDO DA UN MESTOLO RICAVATO DALLA CORTECCIA DELLA SUGHERA. 22 SUGHERETE 2. MONTE LA ELTICA E SAN SALVATORE DI NULVARA. A sud della statale 127, nel tratto fra Calangiànus e Telti. Fra le più belle e folte sugherete del gruppo del Monte Limbara, impreziosite anche dalle forme contorte e bizzarre del granito. 3. ALÀ DEI SARDI. La sughera domina il paesaggio che circonda il paese di Alà, lungo la statale 389, da Buddusò in direzione di Olbia. La foresta più bella si trova a est dell’abitato: una successione di modesti rilievi, solcati dai rami sorgentizi del Rio Bolloro. La monotonia della sughereta è rotta qua e là da piccole radure erbose. A volte la chioma delle querce è così continua da impedire la crescita del sottobosco; in altri punti, invece, eriche e corbezzoli coprono il terreno periodicamente visitato dai cinghiali. 4. L’ALTOPIANO DI BUDDUSÒ. Seguendo la statale 389 da Buddusò a Bitti, ci si addentra nel vasto altopiano dove sono le sorgenti del Tirso, il maggiore fiume della Sardegna. Fra isolati ammassi granitici si distendono ampie sugherete. Molto belle quelle poste nelle vicinanze del piccolo lago Sos Canales. 5. SA SILVA MANNA. Lungo la valle del Temo. Vi si accede dal cimitero di Montresta, circa 15 chilometri a nord di Bosa. Rivela l’alto grado di adattamento della sughera. A differenza che in Gallura, l’ambiente è più umido e il substrato trachitico. Nonostante ciò, vi allignano superbi esemplari secolari che si spingono fino al letto del fiume. 6. TRA SORGONO E ORTUERI. Alle falde occidentali del Gennargentu. Una sequenza di valli e colli granitici, fra i 300 e i 1.000 metri, coperti di fitte sugherete rotte da pascoli, campi di cereali e vigne che danno i robusti vini del Mandrolisai. tari, apportatori di danni più che di benefici. L’Università di Sassari invece sta ora approntando sofisticati modelli matematici per la protezione delle sugherete, mentre finalmente s’inizia a procedere con nuove forme di lotta microbiologica. Una presa di coscienza importante, sostenuta anche dalla Regione Sardegna che, fin dal 1989, ha promulgato leggi specifiche per la protezione della quercia da sughero: l’albero dallo spirito tenace e dall’anima dolce. PER SAPERNE DI PIÙ www.regione.sardegna.it/ital/sperimentale_sughero/index.html www.federlegno.it/associazioni/assolegno/gruppi/sughero I CONTATTI Gruppo azione locale BarbagiaMandrolisai, 0784 60390. Stazione sperimentale del sughero, via Limbara 9, Tempio Pausania, 079 72200, e-mail: sperimentale-sughero @regione.sardegna.it DOMENICO RUIU GESTURI la giara dei cavallini GESTURI la giara dei cavallini DI ANTONIO LOPEZ EGIDIO TRAINITO Gèsturi. Il vento caldo dell’estate muove appena l’intricata macchia di mirti, lentischi e cisti marini di questa piccola savana alberata, sospesa nel cielo, che è la giara. Il tramonto ci DOVE SI TROVA Le giare, i caratteristici altipiani basaltici della Sardegna, sono situati nella parte centro-meridionale della regione (Marmilla, Trexenta, Sarcidano e Arborea). Tra queste, la più nota è la Giara di Gèsturi (i sardi la chiamano sa Jara), che dista una settantina di chilometri da Cagliari. Si raggiunge seguendo la statale 131 per Oristano e deviando, prima di Sanluri, per Gèsturi-Barùmini. RAGANELLA COMUNE (HYLA ARBOREA) A DESTRA: IN PRIMAVERA I PAÙLI SI COPRONO DI ANEMONI E RANUNCOLI. A FRONTE IN ALTO: PECORE AL PASCOLO NELLA SUGHERETA. NELLE PAGINE PRECEDENTI: STALLONE DELLA RAZZA DI GÈSTURI SORPRESO TRA LE BIANCHE FIORITURE DEGLI ASFODELI. 26 GIARA DI GESTURI MAGNANINA SARDA (SYLVIA SARDA) FRANCO TESTA (2) partengono a privati dei comuni di Genoni, Tuili e Setzu, 180 all’Istituto per l’incremento ippico di Ozieri e il restante alla locale comunità montana. Pascolano liberamente, e sono ghiotti dei ranuncoli d’acqua che crescono abbondanti in primavera nei paùli, una sessantina di stagni che si formano sulla giara con le piogge invernali. Ma in estate la gran parte di essi si asciuga e ai cavallini non rimangono così che le sorgenti per abbeverarsi”. Quella dei cavallini della giara è una storia tormentata. Prima degli anni Trenta si utilizzavano APPUNTI DI NATURA come animali da lavoro per trebbiare il grano della Marmilla: uUn unico, continuo bosco di na volta l’anno erano raccolti in sughere, rigorosamente branchi e portati giù per le scacurve a bandiera in ossequio las, i ripidi canaloni che rappreall’imperversante maestrale, sentano i soli accessi all’altopiacopre l’altopiano di Gèsturi. Rare roverelle si accompagnano a corbezzoli, mirti e lentischi. In primavera è il tripudio del bianco, con la fioritura simultanea degli asfodeli, del biancospino, del cisto marino, del giglio pancrazio e l’invasione dei ranuncoli che ricoprono i paùli, avvallamenti allagati dall’acqua piovana. L’ALTERNANZA CON LA SICCITÀ ha fatto di questi stagni temporanei un ecosistema del tutto particolare, ricco di DOMENICO RUIU ✦ sorprende nel bosco di sughere di Paùli Maiori di Tuili, mentre le luci radenti dell’ultimo sole incendiano di rosso i tronchi scorticati e si riflettono nel rigagnolo della vicina sorgente. È una Sardegna dalla bellezza selvaggia quella che si profila davanti ai nostri occhi; sembra che non abbia orizzonte e il cielo ti avvolge al di là delle chiome di lecci, roverelle e sughere. Una sensazione primordiale, sottolineata da un possente nitrito in lontananza. “Stanno per arrivare”, mi sussurra Roberto Sanna, 25 anni, guida e responsabile del centro Jara di Villasanta, che organizza visite guidate in questo miniparadiso naturale. Sono i cavallini della Giara, forse gli ultimi cavalli selvaggi d’Europa. Eccoli in fila indiana, l’uno dietro l’altro. Saranno una ventina, con il manto baio o morello, bassi di statura, e vengono alla sorgente per dissetarsi. “Sono quasi dei pony e in media non superano 1 metro e 30 di altezza al garrese”, spiega Sanna, “hanno grandi occhi a mandorla e una fluente criniera. Nell’intera giara ne vivranno 700, dei quali poco più di 300 ap- specie singolari. Vi prosperano insaziabili sanguisughe, i ditischi, grandi e voraci coleotteri acquatici, raganelle e natrici. C’è anche l’unicum: un piccolo crostaceo lungo pochi centimetri e dipinto delicatamente di verde, Lepidurus apus lubbocki, vecchio di 200 milioni di anni, che si è adattato alla perfezione ai cambiamenti stagionali. QUANTO ALLA FAUNA maggiore, le presenze più significative sono il cinghiale, la volpe, la martora, il coniglio selvatico, la lepre e la pernice sarda, lo sparviero che caccia i fringillidi del bosco, il falco pellegrino, e un’infinità di migratori sia di terra (tordi vari, merli, colombacci, beccacce), sia legati alle zone umide (aironi, anatre, beccaccini, falco di palude). Tra gli uccelli nidificanti, si possono ricordare il frosone, la tordela, la tottavilla, e le specie di macchia, come l’averla capirossa, lo zigolo nero e la magnanina. (Domenico Ruiu) GIARA DI GESTURI 27 La sola salvaguardia operante sull’altopiano della Giara di Gèsturi è quella del divieto di caccia, perché l’area viene considerata dalla legge regionale sull’attività venatoria un’Oasi permanente di protezione faunistica: il divieto non vale però sui versanti. Resta invece ancora sulla carta la proposta d’istituire il Parco regionale della Giara di Gèsturi, come previsto dalla legge regionale sui parchi: la n. 31 del 7 giugno 1989. 28 GIARA DI GESTURI ancora in salita porta all’altopiano. Si costeggia il Paùli Oromeo e, a circa 3 chilometri dal parcheggio, a un bivio si svolta a destra in direzione Paùli Bartili-Zeppara Manna. Superato un bosco di sughere (frecce verdi), si toccano Paùli ’e Fenu, tra i più grandi della giara, e quelli di Bartili e Arriscionis, fino ad DOMENICO RUIU COME È PROTETTA no, sino ai paesi; a fine raccolto, gli esemplari sopravvissuti venivano liberati di nuovo sulla giara. Oggi corrono altri pericoli: l’ulteriore inquinamento della razza, definita Equus caballus giarae, causato da incroci con cavalli di taglia superiore; la macellazione; la caccia di frodo. Fortunatamente, ci sono pure progetti di salvaguardia: a Capo Caccia, dal 1976, l’Azienda regionale per le foreste, in 12 chilometri quadrati di natura incontaminata e protetta, ne tiene sotto osservazione una mandria del tutto rinselvatichita. E da sette anni, sulla giara, l’Istituto d’incremento ippico opera per difendere la purezza di questa razza rustica, utile in prospettiva per sistemi di allevamento brado in terre a clima arido abbandonate dall’agricoltura. A vederla da lontano, la Giara di Gèsturi colpisce per la curiosa forma di gigantesca piramide tronca, che ricorda i paesaggi africani delle ambe o quelli spagnoli delle mesas. Si tratta di un vasto altopiano, lungo 12 chilometri e largo 4, con una superficie di 45 chilometri quadrati, che si eleva sulla pianura circostante mediamente di 550 metri. “Non è l’unica giara della Sardegna centro-meridionale: vi si trovano anche le più piccole Giara di Serri e Giara di Simala o di Siddi”, rivela Luca Pinna, delegato regionale del Wwf. L’itinerario consente di scoprire la Giara di Gèsturi nel suo insieme. Si sviluppa ad anello e tocca i principali paùli (gli stagni creati dalle piogge), i boschi di leccio, roverella e sughera e gli ambienti mediterranei a macchia, gariga e prateria dell’altopiano. Ha uno sviluppo di una trentina di chilometri (per effettuarlo a piedi ci vogliono circa 10 ore, soste incluse), la metà in mountain bike. Cartografia: tavolette Igm, 1:25.000, 218 III SO Barùmini e NO Genoni; 217 II NE Gonnosnò e SE Ussaramanna. Equipaggiamento: buona riserva d’acqua e scarpe da trekking. Dal paese di Gèsturi si sale per la strada che va alla giara e dopo 4 chilometri si lascia l’auto al parcheggio di Scala Corte Brocci. S’imbocca la sterrata di fronte che, tra mirto e lentisco, arrivare alla sorgente s’Ala de Mangianu. Fatta una sosta, si riprende il cammino per raggiungere le pendici di Zeppara Manna e un gruppo di stagni chiamati Paùli Maiori. Poi si torna indietro, lungo il limite meridionale dell’altopiano, fino a Paùli Piccia, un altro Paùli Maiori e la vicina sorgente, dove al tramonto i cavallini si dissetano; e da qui, fino al bivio di partenza e il parcheggio. PAOLO RONDINI EGIDIO TRAINITO invito alla visita testimonianze archeologiche A SINISTRA: LA VEDUTA PANORAMICA DELLA GIARA DI GÈSTURI METTE IN EVIDENZA LA CARATTERISTICA STRUTTURA DI QUESTO ALTOPIANO DI ORIGINE VULCANICA. A FRONTE IN ALTO: UNA CAPANNA DI PASTORI IN PIETRA, CON UN CURIOSO ALTARINO SUL RETRO. GIARA DI GESTURI 29 QUI A LATO: L’ALTURA DI LAS PLASSAS, PRESSO BARÙMINI, AI PIEDI DELLA GIARA DI GÈSTURI. IL COCUZZOLO BASALTICO SORMONTATO DAI RUDERI DI UN CASTELLO SVETTA DIETRO IL GIALLO TAPPETO DI CHRYSANTHEMUM CORONARIUM, IN PRIMO PIANO. “Sono il segno di passate eruzioni laviche, in cui il magma traboccò in diversi centri eruttivi dando origine a grandi campi di lava, con scarsa pendenza, che consolidarono sui sedimenti sottostanti. Poi l’azione millenaria dell’acqua e degli agenti atmosferici erose il suolo dove questo non era protetto dalla copertura lavica solidificata, lasciando tale strato basaltico a un’altezza superiore al suolo confinante, che si è abbassato per l’erosione”. In altre parole, l’altezza della giara corrisponde al livello del suolo di circa 3 Vi è un luogo in Sardegna – imprevisto e imprevedibile come il cratere milioni di anni fa. E sul vasto di Ngorongoro – dove gli dèi hanno nascosto un campionario di natutavoliere di Gèsturi si riconora mediterranea con l’apparente intenzione di sottrarla agli uomini: si scono ancora i conetti vulcanici chiama Giara di Gèsturi e perfino chi già la conosce prova sempre, indi Monte Zepparedda (609 mevariato, quel senso di meraviglia che segue a ogni apparizione imtri) e Zéppara Manna (580 meprovvisa, anche se ripetuta, anche se attesa. (Egidio Gavazzi, 1981) tri), vette di oggi e madri di ieri. Preservata dal proprio isolamento e dal lavoro di generazioni di pastori e mandriani, adesso la giara stupisce per la forza naturale. Boschi di querce, macchia mediterranea fittissima, gariga, praterie e stagni ne fanno il rifugio di una IL fauna ricca e varia (vedere il riquadro a pagina 27). E visitandola in quel Per escursioni, meandro di sterrate che la percorrono, si possono pure apprezzare i visite guidate ed resti di 24 nuraghi, lungo il suo perimetro, e antiche capanne in pietra educazione di pastori. Ma nonostante questo patrimonio, manca di un’efficace proteambientale: Centro servizi Jara, statale zione ambientale. “Non è ancora stato istituito il Parco regionale della n. 13 km 40,250 Giara di Gèsturi”, accusa Pinna; “sono trascorsi più di dieci anni dalbivio Villasanta, la proposta che prevedeva l’estensione su 12.102 ettari dell’altopiano Serrenti (Cagliari), e il coinvolgimento di 14 Comuni. Oggi valgono solo i vincoli idro 070 9373022; Internet: www.jara.it geologico e paesaggistico del 1992, e da qualche anno il divieto di Wwf Sardegna, caccia. È troppo poco per tutelare un’area così preziosa di natura e di Cagliari, storia dell’uomo”. E dove si può essere ancora sorpresi dal nitrito 070 670308. dei cavalli selvatici. L’ultimo branco d’Europa. CONTATTO 30 GIARA DI GESTURI NEVIO DOZ ‘‘ ‘‘ BARBA GIA dove il pastore è re BARBAGIA dove il pastore è re DI ANTONELLA COLICCHIA “Occhi nuovi ci vogliono, per capire la Barbagia. Nuove ricerche che sgombrino il campo da stereotipi e pregiudizi”. È tagliente Benedetto Meloni, barbaricino di Austis e sociologo COME È PROTETTA Il Gennargentu è il tetto della Sardegna. Qui in breve spazio si concentrano le uniche cinque cime che superano i 1.800 metri (la più alta, 1.834 m, è Punta La Marmora). Il profilo arrotondato della montagna si deve all’erosione omogenea che ha modellato gli scisti paleozoici che ne costituiscono l’ossatura. Solo alcuni nuclei di granito e spettacolari filoni di porfidi (formidabile quello di Su Susciu) interrompono la continuità del paesaggio. A MANO A MANO CHE SI SALE dal fondovalle, le residuali formazioni di lecceta cedono il passo al bosco rado di roverelle sino all’area sommitale, dove resistono all’imperversare del vento gli arbusti prostrati (ginepro nano, pruno prostrato, ginestra corsica) che fanno da felice corollario a una serie di preziosi endemismi (santolina insulare, ribes sardo, aquilegia), e pure a un cardo esclusivo (Lamyropsis microcephala) di cui si conoscono solo minuscole colonie. All’arrivo dell’estate, il Gennargentu si avvolge dei colori delle fioriture (la delicata viola corsa, l’endemica Armeria morisii, le sassifraghe, i vistosi tappeti di genziane) e della fragranza penetrante dei fiori violacei del timo. QUI VIVONO diverse coppie di aquila reale, che beneficiano dell’abbondanza di mufloni, lepri, piccoli mammiferi e serpenti. La pernice è presente anche alle quote più alte, dove nidificano MUFLONE (OVIS MUSIMON) il culbianco e, probabilmente, la monachella. Nei corsi d’acqua, ricoperti di gallerie di ontano nero, sopravvivono preziose popolazioni di trota sarda assieme all’euprotto (Euproctus platycephalus), la singolare salamandra locale. A NORD E A OVEST del massiccio, il granito prende il posto dello scisto. È un susseguirsi di monti accavallati, che un’erosione eccentrica ha scolpito in forme bizzarre, rivestite di boschi di querce. Il paesaggio rupestre suscita un’avvertibile sensazione d’isolamento. È la Barbagia, cuore segreto della Sardegna, terra antica di pastori, di cinghiali, di rapaci, di presenze elusive, di vecchie tradizioni tenacemente conservate. (Domenico Ruiu) FRANCO TESTA EGIDIO TRAINITO A LATO: PANORAMA DAL “TACCO” CHIAMATO SA CATTEDRALI, NEI DINTORNI DI LÀCONI. A FRONTE: IL MONTE ORTOBENE, SOPRA NUORO, AVVOLTO DALLE NUBI. NELLE PAGINE PRECEDENTI: MUNGITURA A BRUNCU SPINA. APPUNTI DI NATURA La Barbagia rientra in parte nei confini del Parco nazionale del Gennargentu, istituito nel 1998 ma di fatto ancora inesistente. I tacchi di Perda Liana e Texile sono protetti come Monumenti naturali regionali; il Corpo Forestale gestisce la foresta demaniale di Montarbu. DOMENICO RUIU ambientale all’Università di Cagliari. La sua chiave di lettura del paesaggio è racchiusa in un corposo saggio, Famiglie di pastori (Rosenberg & Sellier, 280 pagine, lire 45.000). Si racconta di Siniele, un paese posto sulle pendici occidentali del Gennargentu, dove la Sardegna è pietra, sughere e pecore. Il nome, come quello dei personaggi intervistati, è immaginario, “perché i fatti narrati sono tratti da documenti personali e rischierebbero di ledere l’onore di persone viventi. Onore che, da queste parti, è sacro”. Storie e cifre riportate nel libro di Meloni però sono tutte rigorosamente DOVE SI TROVA vere, frutto d’interviste e di anni di ricerche negli archivi comuLa Barbagia, complesso di regioni nella parte centro-occidentale nali. Capire Siniele significa perdell’isola, si estende lungo il massiccio del Gennargentu. È delimitata ciò capire Isili, Austis, Orgosolo, a est da Gennargentu e Ogliastra, a nord dal Supramonte Aritzo, Belvì. “Leggerne” il terrie dalla Gallura, a sud dal Campidano, a ovest dalla valle del Tirso. torio aspro e roccioso, modellato dai venti, fatto di pascoli rudi, monotoni, inospitali. Dove l’unica traccia della presenza umana sono gli ovili di pietra e di ginepro, e i paesi restano ancora isolati e refrattari ad aprirsi a culture diverse dalla tradizione. “Il paesaggio risulta segnato dall’organizzazione pastorale estensiva”, spiega il sociologo. “Un modello ecologico-economico raro, che non prevede più l’originaria alternanza fra pascoli e colture di cereali”. L’agricoltura estensiva infatti è scomparsa negli anni Sessanta, in coincidenza con le grandi ondate migratorie che hanno letteralmente spopo- ✦ BARBAGIA 35 la strada di sinistra, che in circa 6 chilometri giunge a s’Arcu ’e su Pirastu Trottu. Da qui, risalite a destra sul crinale fino al sentiero anulare intorno a Perda ’e Liana. Si può tornare a San Girolamo sui propri passi, o scendere lungo un itinerario un po’ più complesso (tratteggiato sulla carta) che incrocia Rio sa Onna, costeggia Rio Sammuccu e torna al bivio iniziale aggirando Serra s’Ilixi. DOMENICO RUIU La visita ideale attraverso le terre di Barbagia e l’incanto della foresta di Montarbu comincia a bordo del Trenino Verde, pittoresco convoglio locale: si sale a Orroli e, dopo uno straordinario itinerario fra le terre dei pastori, che comprende anche il transito sul ponticello da capogiro che si affaccia sulla contorta valle del lago Flumendosa, si scende alla fermata San Girolamo. Per informazioni: Ferrovie di Sardegna, settore turistico, e fax 070 580246; prenotazioni: Direzione esercizio, Cagliari, 070 580075, fax 070 581765. Da San Girolamo si va a piedi: la meta è Perda ’e Liana, imponente torrione calcareo che domina la foresta. Scesi dal treno, procedete lungo la ferrovia in direzione del tunnel da cui si è appena usciti. Sulla destra, prendete la mulattiera che sale ripida per circa 250 metri, fino a incrociare la carreggiabile forestale da imboccare ancora verso destra. Dopo 600 metri si arriva alla casermetta forestale di Montarbu; continuate sulla strada per s’Arcu e su Pirastu Trottu. Dopo 2 chilometri e mezzo c’è un primo bivio, con strada che s’immette da destra; andate oltre. Percorsi altri 200 metri, trovate un secondo bivio. Scegliete PAOLO RONDINI invito alla visita lato i paesi della Sardegna centrale. Coltivazioni a parte, l’ambiente è rimasto immutato. Tra aprile e giugno, i pascoli sono in piena fase vegetativa e tale periodo coincide con I TACCHI CALCAREI? la maggiore produttività delle greggi, quando le pecore hanno appena I tacchi sono costituiti da una figliato e vengono munte ogni giorserie di altipiani calcarei incisi e no. In autunno invece, il ritardo separati da profonde vallate, delle piogge può arrivare a mettere alti qualche centinaio di metri, in crisi l’economia: pascoli gialli e che poggiano su un substrato di aridi, pecore sottoalimentate, morìa scisti grigi e porfidi rossastri. di agnelli. “A differenza che sulle Per spiegarne l’origine occorre Alpi, non vi sono malghe, stalle, né sifare un viaggio indietro nel tempo. Con tre fondamentali stemi d’irrigazione”, fa notare Meloni. tappe, l’ultima delle quali “I pastori delle montagne e delle alcoincide con la chiusura della te colline della Barbagia compiono Tetide (l’oceano che divideva la una transumanza a senso unico”. zolla eurasiatica da quella Scendono lungo la media e bassa valle del Tirso fino ai pascoli non coltivati del Campidano settentrionale o fino ai monti di Pula e Teulada, dove abbonda la macchia. Pagano un canone ai commercianti caseari che spesso sono proprietari o affittuari terrieri. “L’aspetto più esclusivo di queste terre, retaggio dell’alternarsi tra pascolo e agricoltura, è però l’uso del Cumonale”, sottolinea Meloni. “Significa ‘terra di tutti’. Da sempre è utilizzata, a rotazione, dalle famiglie di pastori che vi spostavano le greggi in cerca di foraggio. È terra per la quale ogni Comune fissa ancora una percentuale da adibire a seminerio (coltivazioni di cereali), a ghiandatico, legnatico o pascolo, e stabilisce quali famiglie possano accedere alla raccolta (di grano, ghiande, legname) e quale canone debbano pagare. È soprattutto per l’uso di queste terre, inserite in un complesso e parcellizzato sistema di proprietà agraria unico della Barbagia, che si sono perpetuate antiche faide, vere e proprie guerre di paese, fenomeni di abigeato e incendi e, non ultima, la strenua opposizione alla creazione di un parco. Il suo funzionamento (vedere a pagina 94) prevedrebbe infatti chiarezza e trasparenza sull’utilizzo del suolo. Pratiche (o divieti) di semina e di pascolo, opere di manutenzione degli ovili, che fermino l’erosione e l’incuria. Oggi una cinquantina di gruppi pastorali piuttosto forti occupano queste terre quasi a loro piacimento e le amministrazioni non riescono a contrastarli”. DANIELE PELLEGRINI (2) A LATO: IL “TACCO” DI TEXILE. IN BASSO: GINEPRI SECOLARI PRESSO ARCU CORREBOI. NELLA PAGINA A FRONTE: LA PARETE CALCAREA DI PILINCANIS NEL GENNARGENTU. SONO NATI NEL MARE africana), la formazione del Mediterraneo e delle sue isole. 240 MILIONI DI ANNI FA. Alla fine dell’era Paleozoica, quella porzione della crosta terrestre che successivamente sarebbe diventata la Sardegna conobbe un periodo di tranquillità dal punto di vista tettonico. Per circa 70 milioni di anni, fino al Giurassico, gli agenti atmosferici erosero le rocce metamorfiche e cristalline di cui era fatta, creando un vasto altopiano ondulato. 170 MILIONI DI ANNI FA (Giurassico). Movimenti verticali della crosta terrestre inabissarono la regione, che fu ricoperta da un mare poco profondo (epicontinentale, per i geologi). In queste acque calde e vitali sedimentarono le rocce calcaree, piene di fossili di molluschi, che costituiranno in seguito i tacchi. 130 MILIONI DI ANNI FA (fine del Giurassico). La regione riemerge definitivamente. Sul vasto altopiano calcareo si forma una rete idrografica che dà origine a profonde valli e rilievi calcarei isolati: appunto i tacchi. Negli ultimi 7 milioni di anni (Plio-pleistocene) l’erosione fluviale e carsica causa una drastica riduzione dei calcari e il riaffioramento delle rocce paleozoiche (570240 milioni di anni fa). Un processo che continua sotto i nostri occhi. (Valerio Agnesi) BARBAGIA 37 DANIELE PELLEGRINI ISTITUITO CON DECRETO MINISTERIALE NEL 1998 MA DURAMENTE OSTEGGIATO DALLA POPOLAZIONE LOCALE. ‘‘ ‘‘ DONNE DI DÈSULO NEL TIPICO COSTUME BARBARICINO. IL PAESE SI TROVA NEL PARCO NAZIONALE DEL GENNARGENTU, La donna, nei periodi di assenza del pastore, prende tutti i pesi sulle spalle. Un po’ diventa il capo, un maschio a metà, va all’orto, innaffia, raccoglie le olive. Una sola divenne bandito, a Orgosolo, si chiamava Paska Devaddis. (Giuseppe Fiori, 1968) IL CONTATTO Wwf, Nuoro, 0784 288016-202953. Ad Aritzo: Proloco, 0784 629808; Museo etnografico, 0784 629223. A Dèsulo: Proloco, 0784 619887. Su Internet: www. parcogennargentu.it: link sui singoli comuni, ambienti, itinerari. 38 BARBAGIA Capito ciò, si può fare un passo ulteriore. Scoprire che le terre dei pastori non sono tutte uguali. Antropologi e geografi parlano in effetti, al plurale, di Barbagie. “Questo intarsio di orizzonti piatti, profondamente sconnesso e inciso, è composto da diversi cantoni, per molto tempo isolati l’uno dall’altro”, scrive Michel Le Lannou (1941). “È un sistema che va dal massiccio del Gennargentu, dai Supramonti interno e costiero, dalla Gallura meridionale fino al solco del Tirso”, spiega il geomorfologo Valerio Agnesi. “Semplificando, vi sono comprese: la Barbagia di Bitti, segnata dal bastione calcareo del Monte Albo; quelle di Orotelli, di Ollolai e di Belvì. Quest’ultima risulta caratterizzata dal sistema dei tacchi calcarei (vedere il riquadro nella pagina precedente) intervallati dalle valli scistose del più ricco bacino idrografico sardo: al centro c’è il rilievo di Perda ’e Liana, dal quale partono i tre corridoi dell’alto Flumendosa e dei rii Flumineddu e Pardu. Tra queste valli si estende, infine, la Barbagia Seulo”. Diverse Barbagie, stesso habitat e stesse architetture. Qui il lavoro contadino (campi di pochi ettari coltivati a grano, orzo, fagioli, fave, patate, qualche vigna, un po’ di ulivi e, sui pendii più elevati, mandorli) non ha lasciato tracce, a parte alcune capanne, rifugio provvisorio quando piove. Fanno eccezione, nella Barbagia centro-meridionale, Dèsulo e Fonni, dove il territorio consente la presenza di cereali, castagni, peri e ciliegi fino a 1.200-1.300 metri; gli orti arrivano a 1.600 e i coltivi recintati (detti “terre chiuse”) s’incastrano nei terreni da pascolo secondo una geometria della sussistenza in cui non si spreca neppure un palmo di terra. In prossimità dei villaggi, si trovano siepi e muri a secco. Gli animali vivono rigorosamente fuori dell’abitato. I cuìles (ovili) stanno in montagna e svolgono la doppia funzione di riparo per gli animali e per l’uomo. La zona per le pecore è a cielo aperto, contraddistinta da sa corte (dove vengono chiuse per la mungitura). Nei dintorni s’incontra spesso una chiesetta campestre. Nei paesi le case sono addossate l’una all’altra, sovrastate dal campanile o dalla sagoma di qualche palazzetto baronale. Colpisce la densità degli abitati, in confronto ai vasti spazi spopolati dove si pratica la pastorizia. E colpisce anche l’antica (bio)edilizia: le case in granito (di Olzai, Gavoi, Fonni), con travi e porte in castagno o ginepro, mattoni in terra cruda, battenti in ferro. Di estrema modernità, buon auspicio per il futuro. NURA GHI le radici NURAGHI le radici T E S T O D I S T E FA N O A R D I T O F O T O D I A N G E L O M E R E U Senza i nuraghi, la Sardegna sarebbe un’altra cosa. Da un capo all’altro dell’isola, le fortezze di pietra sorvegliano le vie di conessuno o tracce municazione e i pascoli, occhieggiano sulle città e i paesi, ≥ 0,1/km2 sembrano ricordare ai frettolosi uomini e donne d’oggi la lunghezza e la complessità della loro storia. Alcuni di essi – i più noti – sorgono vicino alle strade, ma non hanno perso per questo in suggestione. Il nuraghe Santu Antine si alza accanto alla Carlo Felice (la strada più trafficata, che unisce Sassari a Cagliari) in territorio di Torralba. Il Palmavera, il più bello del nordovest, lo sfiorano i turisti diretti a Capo Caccia. Il Losa, imponente e famoso, è sullo svincolo tra la Carlo Felice e la superstrada per Olbia. SU NURAXI, IL GIGANTE Altri celebri siti – Su Nuraxi a Barùmini, il nuraghe Scavato tra 1949 e 1955, il nuraghe Genna Maria di VillanovaSu Nuraxi di Barùmini, 60 km da forru, il Lughèrras dell’altoCagliari, è il complesso megalitico piano di Abbasanta – si tropiù importante dell’isola. Gli studi vano in angoli più tranquilstratigrafici hanno evidenziato li. Altri ancora, come lo stra4 fasi di costruzione (in colori ordinario nuraghe Mereu diversi nella piantina). Alla più del Supramonte di Orgosolo, antica (fase A) risale la torre sorvegliano i luoghi più selcentrale, 10 metri di diametro, in vaggi della Sardegna. origine completata in altezza da una I nuraghi sono tanti, tanterza camera (ora ne restano due) e tissimi. Le carte dell’Igm ne da una ghiera in aggetto. La torre fu segnalano 3.117, gli archeologi poi inglobata (fase B) in un bastione a 4 lobi che però si rovinò al punto da richiedere l’erezione di un muro di rifascio spesso 3 metri (fase C). Dopo, Su Nuraxi decadde, assorbito nelle costruzioni del circostante villaggio (fase D): nel IX secolo a.C. l’aspetto era già più o meno quello attuale. 0,1- 0,35/km2 0,35 - 0,6/km2 ≤ 0,6/km2 DOVE SI TROVANO PA O L O R O N D I N I ( 2 ) I nuraghi sono presenti in tutta la Sardegna, variamente distribuiti (sopra, le aree colorate indicano la densità per km2). La concentrazione più alta è negli altipiani di Abbasanta, Campeda e della Valle dei Nuraghi: attraversati dalla statale 131 Carlo Felice, si raggiungono facilmente anche dalla superstrada che collega quest’ultima con Olbia. FASE A XVI-XIV secolo a.C. FASE B XIV-XII secolo a.C. FASE C XIII-X secolo a.C. FASE D X sec. a.C.- III sec. d.C. 42 NURAGHI IL NURAGHE SU NURAXI, BARÙMINI. PAGINE PRECEDENTI: IL NURAGHE SANTA SABINA, NELLE CAMPAGNE DI SILANUS. A Gli altipiani centrali della Sardegna danno la possibilità di fare molte escursioni a piedi, a cavallo o in mountain bike. Attenzione: spesso orientarsi è difficile perché i sentieri non risultano evidenti, e la segnaletica non c’è. Non è questo il caso, comunque, per l’itinerario da Torralba a Bonorva (a lato): tutto in terreno aperto, non presenta problemi di orientamento. Percorso a piedi, richiede 4-5 ore. Si parte dal centro di Torralba; imboccata la vecchia statale per Cagliari, dopo circa 1.500 metri si piega a sinistra, si passa sotto la superstrada, si sale alla chiesetta di San Giorgio e si scende a visitare il nuraghe Santu Antine, con quello di Barùmini il maggior esempio di architettura megalitica. Si riparte verso il ben visibile nuraghe Oes, si attraversa la ferrovia e si continua sull’altopiano, scavalcando i muri a secco delle tanche, fino al nuraghe Don Furadu. Superato un ponte si procede a sud senza via obbligata, aggirando a sinistra lo sperone roccioso che regge il nuraghe Feruledu. Una salita nel vallone di Campu de Olta porta a una strada sterrata, che a sua volta immette su quella asfaltata che proviene da Giave. Seguendo quest’ultima si passa accanto ai caratteristici Tres Nuraghes per salire infine a Bonorva. Il ritorno si può effettuare in treno (le corse utili sono però pochissime). PAOLO RONDINI invito alla visita ne hanno censiti oltre 8.000. I primi vennero costruiti quasi 4.000 anni fa, quando l’uomo aveva già eretto nell’isola luoghi di culto e le sepolture rupestri poi chiamate domus de janas (case delle fate). Altrettanto primordiali, e affascinanti, sono i santuari a pozzo: come quello presso Santa Cristina, sull’altopiano di Abbasanta, o Su Tempiesu presso Orune, nel Nuorese. Qui gli antichi Sardi praticavano il culto dell’acqua e celebravano sacrifici. Pozzi e scalinate, chiusi da coperture in pietra che li riparavano dalle intemperie, stupiscono per stato di conservazione ed eleganza. Da quello che sappiamo di loro, i Sardi del Paleolitico e del Neolitico erano dei pacifici agricoltori. Il quadro cambiò con l’arrivo delle nuove armi di bronzo. Diventati prevalentemente pastori (una caratteristica destinata a durare nei millenni), gli abitanti dell’isola si diedero a guerricciole e saccheggi su larga scala. “Da allora noi sardi siamo uniti nell’invidia, e divisi nella pace”, commenta Gavino Ledda, lo scrittore di Sìligo (Sassari) autore di Padre padrone. I costruttori dei nuraghi non erano dediti solo alla guerra. Per conoscerli meglio, è bene parlare con Giovanni Lilliu, il decano dell’archeologia sarda (è nato a Barùmini 87 anni fa) che, oltre a dirigere il memorabile scavo di Su Nuraxi, ha fornito un contributo decisivo alle ricerche sui primi abitanti dell’isola. “Prima delle invasioni fenicie, puniche e romane, la Sardegna era ricca, legata al resto del mondo mediterraneo”, rivela lo studioso. “La sua civiltà aveva molte affinità con quella della Grecia arcaica. Gli insediamenti nuragici ci hanno dato sculture di pietra e bronzo, vasi, armi raffinate che testimoniano di una cultura complessa ed evoluta”. Fiorente dal 1800 fino al 400 a.C., la civiltà nuragica era di tipo pastorale, divisa in tribù analoghe a quelle dei popoli italici della Penisola: governate da capi eletti, vivevano in uno stato di conflittualità permanente. È il succedersi di attacchi e scorrerie a spiegare l’impressionante proliferazione dei nuraghi. Nonostante gli scontri, la Sardegna intorno al 1000 a.C. era aperta e prospera. “Gli scavi hanno dimostrato che i Sardi nuragici sapevano navigare, e commerciavano con le Baleari, la Grecia e il Me- IL NURAGHE LOSA, SULL’ALTOPIANO DI ABBASANTA: CON LA SUA STRUTTURA A TRE LOBI, È FRA I PIÙ BELLI E MEGLIO CONSERVATI. A FRONTE: IL NURAGHE MANNU NELL’ENTROTERRA DI CALA GONONE, DA POCO RESTAURATO. L’ARCHEOLOGIA Reperti e testimonianze della Sardegna nuragica sono custoditi nei musei archeologici di Torralba ( 079 847298), Ittireddu ( 079 767623), Dorgali ( 0784 96113), Sardara ( 070 938613) e Villanovaforru ( 070 9300050). In quest’ultimo centro merita una visita la bottega di Roberta Cabiddu ( 070 9300001), artista che lavora riproducendo lo stile e le tecniche artigiane degli antichi. Da non perdere, ovviamente, i musei archeologici di Cagliari ( 070 655911) e Sassari ( 079 272203). L’elenco dei musei dell’isola è sul sito www.emmeti.it/Arte/Sardegna. NURAGHI 45 APPUNTI DI NATURA ‘‘ CREDITO FRANCO TESTA in sardo, è uno scinco dal corpo lucido e tozzo Nelle campagne di Esporlatu, nel Goceano, con piccole zampe. Quando il nuraghe ha ancora c’è un nuraghe dal nome strano: Erismanzanu. la camera interna gli ospiti più usuali sono Significa ieri mattina e come mai abbia questo i pipistrelli. Ma nel Supramonte, pure i mufloni nome non si sa. La stranezza più evidente di quel cercano a volte riparo nei resti delle torri nuraghe sono però i quattro lecci alti 3 metri che nuragiche. Sui terreni umidi sono invece i rospi crescono rigogliosi sulla cima della torre. Proprio a rintanarsi tra le grosse pietre, mentre la il leccio, assieme al lentisco, è uno dei problemi testuggine marginata (Testudo marginata) vi si maggiori per gli studiosi che scavano i nuraghi ritira nelle ore notturne. perché le sue radici penetrano profondamente (Egidio Trainito) nella struttura in pietre della costruzione, spesso sconvolgendone le parti basse. dio Oriente. Calcoliamo che allora ANCHE ROVERELLE e frassini a l’isola desse da vivere a 200-250.000 persone: un livello a cui si tornerà volte rendono arduo il lavoro solo nel XV secolo”, prosegue Lildegli archeologi; mai comunque liu. “Come i Greci che si riunivano come la salsapariglia (Smilax a Olimpia o a Delfi, i Sardi delle aspera), che avvolge i ruderi età del Bronzo e del Ferro s’incontracon le sue fronde intricate e spinose. Nemico degli vano in santuari che dovevano godearcheologi, questo arbusto (che re di qualche forma di extraterritoin Toscana chiamano rialità. La tendenza a vedere nel GONGILO stracciabrache) ha però doti passato le radici di certi stereotipi (CHALCIDES OCELLATUS) officinali. Il decotto ottenuto di chiusura e arretratezza associati dalle radici essiccate (altri all’isola è un grave errore, in cui gli adoperano le bacche) è usato storici cadono periodicamente”, in varie zone dell’isola come sottolinea il professore. diuretico, per le infiammazioni A mettere termine a questa “età dell’oro” furono, alla fine, le occudi reni, fegato e prostata, pazioni straniere. I Fenici, giunti intorno all’XI secolo a.C., si limitaroper le dermatiti, e soprattutto no a fondare modesti empori costieri. Invece i Cartaginesi, sbarcati contro il mal di pancia. nel 535 a.C., cominciarono a conquistare l’interno. “La guerra, lunga e SE CHIEDETE invece a sanguinosa, spinse i Sardi a ritirarsi nelle zone più impervie e a isolarsi dal punto di vista economico e culturale. Una situazione che un archeologo qual è l’animale continuò sotto Roma e ancora nel Medioevo”, conclude Lilliu. che s’incontra più spesso Ma il racconto storico e la visita dei musei e dei nuraghi più noti – nei nuraghi, la risposta Santu Antine, Losa, Palmavera, Barùmini – non bastano per capire i arriverà immediata: il gongilo Sardi di 3.000 anni fa. Il fascino di queste opere dell’uomo si esprime in (Chalcides ocellatus). Tilicuccu, tiligugu, ziricuccu pieno nel loro rapporto con gli spazi, i rilievi, la vegetazione dei paesaggi in cui si elevano. Chi non teme le scarpinate può andare nel Supramonte e incamminarsi verso il nuraghe Mereu o il villaggio di Tiscali, nascosto in una profonda dolina. Ben più comodo è percorrere gli altipiani del cuore dell’isola, dove il paesaggio è rimasto quasi immutato nei millenni. Tra la Valle dei Nuraghi e gli altipiani di Abbasanta e Campeda, le sughere, il basalto, gli esigui appezzamenti a pascolo permettono d’immaginare la Sardegna com’era al tempo dei pastori nuragici. Centinaia di piccoli e grandi ruderi si confondono con le rocce, spuntano all’improvviso tra asfodeli e ferule. Gli uomini dalle armi di bronzo sembrano potersi materializzare dal nulla. PER SAPERNE DI PIÙ Claudio Finzi, Le città sepolte della Sardegna, Newton Compton, 1982. Rainer Pauli, Sardegna, Idea Libri, 1990 (il capitolo sull’archeologia). Stefano Ardito, Sui sentieri della storia, De Agostini, 1992, e A piedi in Sardegna I, Iter, 1993 (per le escursioni tra i nuraghi). È tutto un popolo a mostrarsi nelle statuine bronzee di Sardegna; dai capi, i re pastori, ai guerrieri, alle donne dolenti per la morte dei figli in combattimento; dagli umili popolani contadini e artigiani ai pastori di buoi; dagli eroi ai superstiti delle continue razzie e guerriglie. E inoltre animali, domestici e selvatici, modellini di nuraghi, faretrine votive, e tante, tantissime navicelle, segno tangibile di un’abitudine al mare. (Claudio Finzi, 1982) 46 NURAGHI ANCORA IL NURAGHE SANTA SABINA. NELL’AREA RESTANO ANCHE UN POZZO CULTUALE E UNA TOMBA. DOMENICO RUIU STAGNI COSTIERI le perle contese GUIDO ALBERTO ROSSI STAGNI COSTIERI le perle contese DI ANTONELLA COLICCHIA Assolti. Così, il 24 ottobre 1996, la pretura di Oristano ha mandato a casa Giuseppe ed Emiliano Sanna e Fabrizio Paddi. A trascinarli sul banco degli imputati era stata la famiglia Manca. ✦ DOVE SI TROVANO Gli stagni costieri interessano soprattutto la provincia di Oristano (oltre 5.500 ettari, 3.000 dei quali nella penisola del Sinis). Segue Cagliari, con 1.600 ettari nei dintorni della città. Zone umide minori sono disseminate nell’immediato entroterra di molti tratti di litorale. Proprietaria dello stagno di Mistras, affidato in gestione alla Cooperativa Molluschicoltori, non tollerava che i ragazzi calassero la lenza e considerassero le acque lagunari possesso di tutti. “Sono demaniali”, ha invece ribadito il giudice. Un principio generale, introdotto con una legge regionale (la 39 del 1956), difeso dai tribunali in decine di processi e confermato dalla Corte Costituzionale. La legge, che abolisce i diritti feudali sugli stagni, non fu certo un regalo. La strapparono i poverissimi pescatori di Cabras a suon di scioperi, occupazioni, scontri con la polizia. Oggi le zone umide che circondano Oristano – 5.500 ettari di vasche e canali scavati per farvi confluire il pesce dal mare aperto, vederlo crescere e venderlo – sono nelle loro mani. FRANCO TESTA (2) ✦ POLLO SULTANO (PORPHYRIO PORPHYRIO) APPUNTI DI NATURA Gli stagni dell’Oristanese sono un grandioso mosaico naturale. Cabras, vasto e circondato da un fitto ed esteso canneto, oltre a ospitare migliaia di anatidi e di folaghe, è l’ambiente ideale per l’airone rosso, il tarabusino e lo schivo tarabuso, che vi nidificano regolarmente. Paùli Maiori, di modeste dimensioni e al centro di una piana intensamente coltivata e pascolata, è circondato dal più esteso canneto naturale della Sardegna, dove vive una delle più importanti popolazioni di pollo sultano dell’isola. Per facilità e abbondanza di specie è preferibile però s’Ena Arrubia. Durante il passo 50 STAGNI COSTIERI GOBBO RUGGINOSO (OXYURA LEUCOCEPHALA) autunnale la superficie dell’acqua appare spesso interamente ricoperta di uccelli: folaghe, moriglioni, mestoloni, alzavole, morette, rari fistioni turchi e, nelle zone prossime al mare, avocette e fenicotteri. Il complesso degli stagni di Marceddì e San Giovanni (divisi solo da uno sbarramento artificiale) è una grande laguna aperta a diretto contatto con il mare. D’inverno la popolano edredoni e beccacce di mare. Infine Sale ’e Porcus, nella penisola del Sinis: una laguna temporanea interdunale, priva di collegamenti al mare, alimentata esclusivamente dall’acqua piovana e salata per evaporazione. È un luogo incantato. A fine estate, quando i temporali ripristinano la laguna, si colora di rosa: sono i fenicotteri che ogni anno, puntualmente, ritornano dopo aver nidificato nelle acque francesi della Camargue. (Domenico Ruiu) VEDUTA AEREA DELLO STAGNO DI CABRAS, IL PIÙ ESTESO DELLA PROVINCIA DI ORISTANO. NELLA DOPPIA PAGINA PRECEDENTE: UN GRUPPO DI FENICOTTERI ROSA NELLO STAGNO DI SALE ’E PORCUS, NEL COMUNE DI SAN VERO MILIS. COME SONO PROTETTI invito alla visita PONTIS, A CABRAS. SULLA SPONDA, I RESTI DI UN RIPARO DI CANNE. O meglio, in quelle delle cooperative che gestiscono la pesca, e degli abitanti sui quali incombe una sfida: difendere il delicato ecosistema di terra e acqua da cui dipende l’economia locale e tramandare una cultura che è scolpita nel paesaggio. L’ambiente e la storia dello stagno di Cabras, e la gerarchia feudale della peschiera, sono stati raccontati con insuperata efficacia da Giuseppe Fiori nel suo Baroni in laguna (Edizioni del Bogino, Cagliari, 1961). A quarant’anni di distanza, lo scenario non è molto cambiato. Stessi canali, qualche bicicletta che li costeggia, le barche in fila nel porticciolo. I pescatori riposano sulle sedie impagliate, fuori delle case. È cambiata però l’economia. Nel 1600 le acque erano demaniali, cioè della Corona spagnola. Finché Filippo IV chiese ingenti prestiti a un genovese, Gerolamo Vivaldi, offrendo come garanzia stagni, peschiere e dipendenze di Cabras e Santa Giusta. Nel 1853, gli eredi di Vivaldi cedettero gli stagni a un barone di Oristano: don Salvatore Carta. Le 36 famiglie di eredi (Carta-Boi-Corrias) sono quelle che si opposero per tutti gli anni Cinquanta all’abolizione dei diritti feudali (in soldoni, pretendere il pagamento di un canone e decidere a chi concedere il diritto di pesca). “Dal 1982, quando la Regione sottrasse la gestione ai baroni, pesca e manutenzione vengono affidate a cooperative di pescatori”, spiega Francesco Meli, detto Caboni (il gallo), presidente della IL FASSONE Nuova Cooperativa Pontis. “Attualmente, a un consorzio di 11 società, che dà lavoro a 390 adIn sardo, su fassoi. È la tipica detti. Le acque (40 milioni di metri cubi) fornibarca costruita con il fieno palustre, scono 3.000-4.000 quintali di pesce. Il novellame a parte gli scalmi di canna e i sostegni in tamerice, tradizionalmente utilizzata dai palamitai (pescatori (muggini, spigole, orate, sogliole, anguille) endi anguille) che vi trasportavano il palamito (corda tra dal mare, trova nutrimento e cresce senza allunga e fitta di ami) e una fiocina. La struttura cun mangime. Può capitare (l’ultima volta è staè la stessa delle imbarcazioni in uso presso antiche to nel 1999) di vedere i pesci a galla, a pancia in civiltà: quelle egizie di papiro, quelle peruviane su. Il caldo qui ha fatto evaporare l’acqua e del lago Titicaca e di Dioca, sul Golfo Persico. marcire la materia organica. Risultato: 2.200 etSotto: l’evoluzione nei secoli, in 4 fasi, di su fassoi. tari di fango puzzolente da spalare dai fondali, 1 2 spettacolo è offerto dalla vegetazione di piante resistenti alla salsedine (salicornia, giunchi e tamerici), ideale per la nidificazione di molte specie di uccelli. Perfetta per fare birdwatching la parte nord-occidentale dello stagno. (Dario Cossu) DOMENICO RUIU PESCHIERA supera un maneggio e si devia a sinistra su una sterrata. Si prosegue, ancora per 1 chilometro e mezzo, fino ad arrivare alla riva settentrionale di Paùli ’e Sali. Da qui si avanza, a piedi o in bicicletta, costeggiando le rive dei due stagni, separati da una lunga e stretta lingua di terra e basse dune. L’habitat, la vegetazione e le numerose specie di uccelli rari (tra cui il pollo sultano) rendono la visita di estremo interesse. MISTRAS. Da Cabras, passato il canale scolmatore, s’imbocca sulla sinistra una strada bianca e, all’altezza dell’itticoltura Sa Còcciula Bogài, si svolta a destra. Giunti sulle rive, il primo LO STAGNO DI S’ENA ARRUBIA, DI FRONTE ALLA PINETA DI ARBOREA (ORISTANO). 3 4 PAOLO RONDINI LA Ogni stagno merita la visita, da affrontare binocolo alla mano, con due semplici accorgimenti: scarpe comode (stivali in autunno-inverno) e prodotti antizanzare (in primavera-estate). A chi ha poco tempo ne consigliamo tre, all’insegna della varietà. Piccoli e di acque salmastro-dolci Mar ’e Paùli e Paùli ’e Sali; più grande e salato quello di Mistras. Prima di esplorarli, è bene osservarne i contorni dall’alto della Torre del porto di Cabras, da cui si domina l’incantevole puzzle di terra, acqua e mare dell’Oristanese. MAR ’E PAÙLI E PAÙLI ’E SALI. Sono entrambi sul lato nordorientale dello stagno di Cabras. Lasciato l’abitato si percorre l’asfaltata verso Riola per circa 1 chilometro e mezzo, si PAOLO RONDINI EGIDIO TRAINITO Come zone umide d’importanza internazionale, gli stagni sardi sono protetti dalla Convenzione di Ramsar. La legge Galasso inoltre li sottopone ai vincoli validi per le zone di grande interesse paesaggistico. La Regione si limita a definire gli stagni “oasi faunistiche” dov’è vietata la caccia e a stabilire, come avviene in mare, periodi di riposo biologico durante i quali è proibito pescare. Paùli ’e Sali è stato gestito dal Wwf assieme alla Cooperativa Pontis per due anni, nell’ambito di un progetto Life dell’Unione Europea. Ma l’amministrazione comunale non ha garantito la continuità, com’è accaduto anche a Paùli Maiori e a s’Ena Arrubia. Nel Cagliaritano, la zona di Molentargius-Saline-Poetto è inclusa, dal 1989, nelle aree protette regionali. (D. C.) MOLENTARGIUS E LE SALINE Cagliari è circondata da una sequela di stagni. A nord-ovest, l’ampia laguna di Santa Gilla, ricca di pesce e meta abituale di folaghe, limicoli, aironi, soprattutto cormorani. Più a sud, le saline di Macchiareddu, separate dal mare da uno stretto cordone dunale, ideali per volpoche, avocette e fenicotteri. A est, a ridosso della periferia urbana, Molentargius e Quartu, tra i più importanti stagni del Mediterraneo. Qui sono state censite 180 specie avicole e, nei giorni d’intenso movimento migratorio, sono state contate 20.000 presenze. “LO STAGNO DI MOLENTARGIUS, fino a non molti anni fa, veniva percepito come un buco di quella grande ciambella che è Cagliari: uno spazio dai confini incerti, dalla funzione dubbia, colpito dal degrado e dall’inquinamento. Un intralcio all’espansione della città”. Perciò, Vincenzo Tiana, Stefano Pira e altri studiosi e ambientalisti sardi hanno fatto due cose. Conoscere il passato di questi 1.600 ettari di laguna e saline, e progettarne il IL CONTATTO futuro. “Diecimila anni fa Molentargius era già un centro di produzione del sale, risorsa che è stata la ricchezza di Cagliari fino all’Ottocento, quando lo sviluppo della ‘catena del freddo’ ha ridotto l’importanza del sale come conservante per gli alimenti”, spiega Pira. “Nel Settecento, nel porto rimanevano stabilmente ancorate 50 navi svedesi (che trasportavano il sale in Scandinavia dove veniva usato per conservare aringhe e sardine)”. LA PRODUZIONE È CESSATA 17 anni fa e da tale cambiamento sono derivati svantaggi (perdita del lavoro), ma pure opportunità. “Chiusi gli impianti (motopompe comprese), il livello dell’acqua scende anche di decine di centimetri al giorno”, continua Pira. “Pioggia e scarichi urbani hanno aumentato la quota d’acqua dolce e materiale organico, che ha favorito l’arrivo dell’avifauna”. Oggi siamo a un passo dall’istituzione di un parco. Una legge trasferirà alla Regione il demanio delle saline. E, con esso, 120 miliardi per la bonifica. Una parte servirà all’area protetta per cui l’Associazione pro parco di Molentargius-Saline-Poetto si batte da anni. DANIELE PELLEGRINI il ‘raccolto’ bruciato nei falò”. Una scena d’altri tempi, se non fosse per gli indennizzi pagati dalla Regione e per un discusso progetto del Consorzio di Bonifica. Obiettivi: immettere nello stagno acqua dolce (nella misura ideale per l’acquacoltura) prelevandola dal fiume Tirso, attraverso il canale Mar ’e Foghe. E praticare iniezioni di ossigeno liquido, in tre diverse zone, per evitare il fenomeno dell’eutrofizzazione. “Interventi da attuare con il pieno accordo tra comunità scientifica, pescatori e protezionisti”, avverte Mena Manca, che allo stagno ha dedicato il libro I pescatori di Cabras (S’Alvure Edizioni, Oristano, 1990). Mentre gli stagni, con i pesci che vi ingrassavano, venivano tolti dalle mani dei baroni per essere affidati a coloro che ci lavoravano, prendeva sempre più corpo una nuova consapevolezza. Si è capito, insomma, che il valore complessivo di questi specchi d’acqua non si può limitare a puro fatturato: che è fatto anche di elementi naturali, flora e fauna, ed estetici. E che, in quanto tale, appartiene a tutta la collettività. “Ridurre il numero dei cormorani (oltre 10.000 esemplari) che saccheggiano le peschiere (un problema irrisolto), proteggere i canneti, monitorare temperatura e salinità delle acque sono un impegno globale”, sottolinea Mena Manca. “Se un aspetto della vita degli stagni entra in crisi, s’incrina l’intero sistema economico-ecologico”. E allora, addio pesca, addio turismo, addio tutto. Tornerebbero i tempi dei baroni in laguna. Molto attiva nella zona di Cagliari, dove ha una segreteria ( 070 655230) e un sito Internet (www.apmolentargius. sardegna.it), è l’Associazione pro parco di MolentargiusSaline-Poetto, presieduta da Vincenzo Tiana. (Ettore Arrigoni degli Oddi, 1901) 54 STAGNI COSTIERI CAGLIARI VISTA DALLE SALINE SANTA GILLA DOVE, DAL 1993, NIDIFICANO I FENICOTTERI ROSA. NELLA PAGINA A FRONTE: UN AIRONE SOSTA NELLO STAGNO DI CABRAS. DI ENRICO PINNA ‘‘ ‘‘ ...nuvole viventi adombrano il cielo, confondendosi roteanti nell’aria: è il carnevale degli acquatici... STAGNI COSTIERI 55 DANIELE PELLEGRINI MINIERE cuore di tenebre TESTO DI METELLO VENÈ FOTO DI VITTORIO GIANNELLA Manlio, che là dentro ha sputato l’anima, ha pianto e ha perso più di un amico, dice che la miniera è un’assurdità. “Un monumento al vuoto, un edificio a rovescio: invece di aggiungere ✦ DOVE SI TROVANO La stragrande maggioranza delle miniere sarde si trova nel Sulcis-Iglesiente, nella Sardegna sud-occidentale (provincia di Cagliari), in un’area che occupa circa 2.500 chilometri quadrati da Fluminimaggiore, a nord, fino a Capo Teulada, a sud (il punto più meridionale dell’isola). I centri più importanti sono Iglesias (Iglesiente), Carbonia e Sant’Antioco (Sulcis). 58 MINIERE mattoni li togli, invece di costruire disgreghi”. Il punto di partenza per un viaggio nelle cattedrali a testa in giù, che voltano le spalle al cielo per cercare il buio, può essere proprio un incontro con Manlio Massole, minatore per vocazione e poeta per natura, che un giorno di tanti anni fa mollò un comodo posto di maestro alle scuole elementari di Buggerru (Cagliari) per scendere a scavare sottoterra, “mettere le mani addosso alla vita e farci la lotta, dannazione”. È lui uno dei più appassionati cantori del Sulcis-Iglesiente, l’“altra” Sardegna: A DESTRA: LA LAVERIA LAMARMORA (1897). 20.000 ettari di suolo e relativo sottosuolo, SERVIVA A SEPARARE PIOMBO montagne e pianure plasmate e rimodelE ZINCO DALLE SCORIE. late da 40 miniere e 3.000 immobili mineIN BASSO: LA MINIERA SECONDO IL PITTORE ALIGI rari. Un’isola nell’isola, che sa di piombo, SASSU (1950). NELLE carbone, zinco e rame (la quasi totalità PAGINE PRECEDENTI: del prodotto nazionale) ed evoca soffeLA MINIERA DI MONTEPONI. renza e disperate lotte sindacali; una realtà che negli anni di piena attività mineraria (tra il 1850 e i primi anni Sessanta) ti faceva “abbandonare ogni mattina il sole per sprofondare nell’umidità grigia” e oggi, in epoca di Internet e globalizzazione, offre le sue ferite, i suoi magnifici ruderi e i suoi uomini alla memoria. “Le pale meccaniche ormai tacciono, ma il nostro mondo non morirà”, ci disse Manlio nel 1995, quando chiuse l’ultima miniera. “Sogno un grande parco minerario, visite guidate ai vecchi impianti, ex minatori pronti a raccontarsi”. E il sogno, in effetti, si è realizzato. O quasi. Nel senso che in questi anni il parco è stato fatto, l’hanno chiamato Parco geominerario storico e ambientale della Sardegna, l’ha riconosciuto come sito d’interesse mondiale nientemeno che l’Unesco, nel 1997. Pec- ‘‘ ‘‘ MINIERE cuore di tenebre “Bisogna scendere. Sottoterra. All’imbocco del pozzo si lasciano il sole e le nuvole. Si lasciano la moglie e i figli. Solo Dio, forse, ci si porta appresso nella parte più intima di noi se anch’Egli non ci abbandona laggiù fuggendo la materia più profonda. Nel terribile mondo della roccia e del buio sopravvivono solo uomini di roccia e di buio che hanno necessità di dimenticare la coscienza di essere uomini”. (Manlio Massole, minatore e poeta, 1993) MINIERE 59 SOPRA: IL POZZO DI ESTRAZIONE SANTA BARBARA; È IL “GIOIELLO” DELLA MINIERA DI SAN GIORGIO. IN BASSO, A DESTRA: LE “MONTAGNE ROSSE”, DEPOSITI DI SCORIE PRESSO MONTEPONI. COME SONO PROTETTE Dal 1997, le aree minerarie sarde sono sotto l’egida dell’Unesco, che nell’ambito della nuova rete mondiale dei geositi-geoparchi ha istituito il Parco geominerario storico e ambientale della Sardegna, promosso dalla Regione e dall’Emsa (Ente minerario sardo). Il territorio dell’isola è stato diviso in 8 aree; la principale (65 per cento del parco) è quella del Sulcis-IglesienteGuspinese. L’intento è di conservare e valorizzare il patrimonio architettonico delle miniere dismesse, aprendole al turismo e impiegando gli ex minatori e i loro familiari in attività “socialmente utili”. L’area comprende anche due parchi naturali: Monte LinasMarganai (a nord-est di Iglesias, 22.000 ettari) e Sulcis (tra Carbonia e Cagliari, 68.868 ettari). 60 MINIERE cato che, tra cavilli burocratici e ritardi legislativi (ed è storia di questi giorni), tutto è ancora sulla carta. Compresa la “riconversione” di ex addetti al settore estrattivo in attività “socialmente utili” (turismo in loco, bonifica del territorio). Così, da un lato vedi gioielli di archeologia industriale in piedi per miracolo; dall’altro incontri uomini e donne che reclamano un futuro, e lo fanno nel classico stile del minatore disoccupato: occupando. Come Rosina Carta, di anni 88, che nel giugno scorso si è autoreclusa nei cunicoli di Porto Flavia, dove da piccola seguiva il padre cavatore, a capo di un gruppetto di donne. O come Giampiero Pinna, 50 anni, già presidente dell’Ente minerario sardo (adesso in liquidazione) e consigliere regionale diessino, paladino degli “uomini di pietra”: nel novembre 2000 ha lasciato il suo ufficio di Cagliari per scendere nelle gallerie di Monteponi, a Iglesias, dove al momento in cui scriviamo è tuttora asserragliato con 400 fedelissimi. In attesa che il parco decolli, l’agenda dell’Igea (l’istituto di ripristino ambientale nato dalle costole dell’ente minerario) è fitta d’impegni. Occorrono molti soldi (circa 2.000 miliardi preventivati), e il tempo stringe. Dagli anni Cinquanta, quando cominciò il lento e graduale abbandono delle miniere perché era venuta meno la convenienza alla “coltivazione”, il degrado ha fatto passi da gigante. L’acqua è risalita dalle falde freatiche, allagando e danneggiando gli impianti. Ruggine e salinità hanno corroso i palazzi delle direzioni, le falegnamerie, i pozzi, gli eleganti archi ottocenteschi delle laverie. Per le strutture che rischiavano il crollo, come la straordinaria laveria Lamarmora di Nebida (foto a pagina 59) e il capolavoro d’ingegneria Porto Flavia (vedere il riquadro a pagina 62), sono già stati effettuati corposi lavori di restauro. Altre stanno aspettando il restyling. E presto partiranno dei veri e propri progetti di “destinazione archeologica”: a Montevecchio, vicino alla cittadina di Guspini, il sindaco Tarcisio Agus preannuncia la “messa a punto di un percorso sotterraneo completo, attraverso la miniera, lungo 800 metri”. Così, insomma, verrà valoriz- APPUNTI DI NATURA È una mattina di aprile del 1952. Francesco Salis, 25 anni, professione minatore, infila dei candelotti di esplosivo in un tratto di parete della miniera di San Giovanni, a 5 chilometri da Iglesias. L’attesa. Lo scoppio. E la meraviglia: quando il polverone si dirada, al di là del muro “si scorse il paradiso”. Fu scoperta così, per puro caso, durante il duro lavoro di un pugno di operai, una delle cavità carsiche più antiche e affascinanti della Sardegna: la grotta di Santa Barbara (qui sopra; vedere anche Airone Sardegna, maggio 1994). Costituita da un grande salone ovoidale (50 metri di larghezza, 70 di lunghezza e 25 di altezza; potrebbe contenere un palazzo di quattro piani) e da un canalone inferiore che finisce in un laghetto, questa cavità è considerata fra le più antiche del mondo: le dimensioni dei colonnati calcarei mineralizzati a piombo e zinco che la contraddistinguono, e soprattutto l’esclusiva presenza di cristalli di barite (solfato di bario) a nido d’ape, hanno permesso di datarne l’origine a oltre 500 milioni di anni fa. Nel corso dell’esplorazione, il visitatore resta colpito dalle straordinarie forme di alcune concrezioni: le “canne d’organo”, incredibile cascata calcarea; le “orecchie d’elefante”, stalattiti che sembrano sfoglie; la cosiddetta “ballerina”, che il tempo ha modellato a forma di bambola. Per il momento, l’accesso a Santa Barbara avviene sempre attraverso il “buco” aperto dal minatore Salis, ed è quindi vietato ai turisti. Nel progetti del parco geominerario, tuttavia, rientra pure uno studio per una sua futura fruibilità. (segue a pagina 64) MINIERE 61 1 PAOLO RONDINI 3 4 2 PORTO FLAVIA, CAPOLAVORO DA SCOGLIERA 1 Piombo e zinco, in arrivo dalla vicina laveria, entrano nella galleria superiore trasportati da un convoglio a trazione elettrica. 2 Il minerale viene scaricato in 9 grandi silos, che a loro volta lo riversano sul nastro trasportatore della galleria inferiore. 3 Il nastro porta il minerale verso lo sbocco sul mare, dov’è montato un braccio mobile. 4 Piombo e zinco, attraverso il braccio orientato, finiscono nella stiva del mercantile. Si apre sulla scogliera antistante il faraglione del Pan di Zucchero, e a vederlo pare un castello delle favole, con quel nome di donna inciso a caratteri cubitali e le finestrine buie che guardano nel vuoto. Invece, è una delle più straordinarie opere d’ingegneria mineraria al mondo. Realizzato nel 1924 dall’ingegner Cesare Vecelli, della società francese Vieille Montagne, che volle dedicarlo alla figlia morta prematuramente, Porto Flavia aveva lo scopo di facilitare il trasporto di piombo e zinco dai vicini impianti di Masua al mare, dove stavano in attesa apposite imbarcazioni. Fino ai primi anni Venti, le operazioni erano infatti affidate unicamente al sudore dei minatori, che portavano a spalle il minerale in recipienti da 50 chili e lo caricavano sulle bilancelle, piccoli vascelli a vela. COME FUNZIONAVA. Con l’inaugurazione di Porto Flavia tutto cambiò. Nel ventre della montagna si scavarono due gallerie sovrapposte. In quella superiore entrava una sorta di trenino a trazione elettrica, con i vagoncini colmi di piombo e zinco in arrivo dalla laveria; il materiale veniva poi riversato in nove grandi silos, che lo passavano su un nastro trasportatore montato nella galleria inferiore (vedere il disegno). Quest’ultimo sbucava all’esterno, sul mare, attraverso un braccio mobile che scaricava direttamente i minerali su grossi mercantili, che da allora in avanti sostituirono le piccole e inadeguate bilancelle. La resa di Porto Flavia era di circa 500 tonnellate di piombo e zinco all’ora: otto volte in più rispetto ai metodi tradizionali. L’impianto venne abbandonato negli anni Sessanta. IL “GIOIELLO” OGGI. Potrebbe ormai essere questione di giorni: dopo un’accurata sistemazione dei percorsi interni, Porto Flavia è praticamente pronto per le visite guidate. In attesa dell’apertura, la struttura può essere ammirata in tutta la sua maestosità anche dal mare. Info: Il faro di Masua, 0781.47125, e-mail: [email protected] A SINISTRA: LA MINIERA DI MASUA. DA QUI IL MINERALE VENIVA PORTATO AL VICINO IMPIANTO DI PORTO FLAVIA (A FRONTE E IN ALTO), CHE LO RIVERSAVA DIRETTAMENTE NELLE STIVE DELLE NAVI. 62 MINIERE MINIERE 63 invito alla visita strade asfaltate strade sterrate miniere I CONTATTI Su Iglesias e dintorni: Biblioteca comunale di Iglesias (Cagliari), 0781 41795. Per visite al bacino minerario: Cooperativa La Gherardesca, Iglesias (CA), 0781 33850. Museo etnografico e Tempio di Antas: 0781 580990. 64 MINIERE dopo circa 8 chilometri si arriva alla miniera di Nebida, nel cuore del golfo di Gonnesa: da non perdere la discesa (400 scalini) alla splendida laveria Lamarmora, costruita nel 1897 e ristrutturata. Procedendo sull’asfalto si giunge alla miniera di Masua: ne fa parte l’impianto di Porto Flavia (vedere il riquadro a pagina 62). Proprio di fronte alla costa, si staglia il caratteristico scoglio calcareo chiamato Pan di Zucchero PAOLO RONDINI L’“anello” Iglesias-Fluminimaggiore-Iglesias (circa 100 chilometri) è sicuramente la via più indicata per esplorare il parco geominerario. Gran parte del percorso è asfaltata e si può effettuare in auto; una mountain bike a bordo è comunque auspicabile, per affrontare gli sterrati più stretti nei pressi degli impianti. Prima di lasciare Iglesias, vale la pena fare una visita ai reperti intorno alla città: il villaggio abbandonato di Seddas Moddizzis (strada per Carbonia, grande sterrata a sinistra all’altezza del cavalcavia della statale 126); nei pressi, il pozzo Santa Barbara della miniera San Giorgio, le miniere di San Giovanni e di Monteponi. Seguendo poi le indicazioni per il mare, (133 metri). All’altezza delle ultime case di Masua ha inizio uno stradone in salita che porta al villaggio minerario di Montecani. Continuando ancora, si ridiscende verso la costa; lasciata sulla destra la miniera di Acquaresi, a sinistra s’imbocca una stradina per l’incantevole Cala Domestica, ideale per un tuffo e un po’ di sole. Più avanti, si arriva a Buggerru (laveria di Malfidano) e si procede lungo la bellissima spiaggia di Portixeddu. Ripiegando all’interno, s’incontra un bivio: a sinistra si va alle miniere di Ingurtosu e Montevecchio, a destra si passa Fluminimaggiore. La strada che prosegue per Iglesias (la statale 126) offre interessanti deviazioni verso la grotta di Su Mannau (lunga 7 chilometri), il tempio punico romano di Antas e le cosiddette “miniere montane”. zato il bello della Sardegna mineraria. E pure il brutto. Perché miniera è anche scorie, e buchi nella roccia, e fanghi di scarto intrisi di zinco, piombo, cadmio. Inquinano, certo. Ma sono parte integrante di un paesaggio davvero unico. A Monteponi, per esempio, subito fuori Iglesias, si trovano le “montagne”. Costeggiano la provinciale, hanno un’altezza di una ventina di metri e al tramonto, col sole radente, si tingono di rosso. I curiosi le ammirano, i turisti le scalano, i naturalisti le odiano: non sono altro che gli scarti zincosi della vicina miniera. Però verranno risparmiati. Li metteranno in sicurezza, in modo che non si dilavino a ogni temporale, inquinando pericolosamente l’ambiente. Così anche la natura chiuderà un occhio di fronte a uno degli ultimi, fragili ricordi degli oscuri “palazzi al contrario”. PER SAPERNE DI PIÙ Un libro: Paesaggi e architetture delle miniere (Sandro Mezzolani e Andrea Simoncini, Editrice Archivio fotografico sardo, 1993, 394 pagine, 120.000 lire). E due siti Internet: www.sulcisiglesiente.it (su storia del territorio, singoli paesi, archeologia e turismo) e web.tiscalinet.it/forparcogeominerario (per informazioni sul parco minerario). DOMENICO RUIU LA COSTA dove volano i grifoni D I S T E FA N O A R D I T O Molti litorali dell’isola aspirano al titolo di costa più bella della Sardegna. Se il granito e le acque della Costa Smeralda sono ✦ DOVE SI TROVA L’ultima roccaforte del grifone sardo è la costa nord-occidentale dell’isola, tra Bosa e Capo Caccia. La si raggiunge in pochi chilometri da Porto Torres (dove arrivano i traghetti da Genova) e in circa 150 da Olbia. Da Cagliari, si segue la statale 131 Carlo Felice fino a Macomer, e qui si devia verso Bosa. Si può anche utilizzare il vicinissimo aeroporto di Alghero-Fertilia. famosi nel mondo e le falesie e le calette del golfo di Orosei sono le uniche a meritare la definizione di wilderness, la splendida costa di Alghero e Bosa può rivendicare un altro pregio. È un po’ meno selvaggia, e certamente meno nota; solo lì comunque è possibile ammirare l’elegante volo planato del grifone. Fino a un secolo fa, il grande avvoltoio era diffuso praticamente in tutta l’isola. Vent’anni or sono lo si poteva osservare ancora nel Supramonte di Oliena. Oggi sono allo studio alcuni progetti di reintroduzione. Le uniche colonie autoctone, però, nidificano nel nord-ovest della Sardegna, sui calcari di Capo Caccia e sulle La roccia è coperta di scure falesie di basalto che domacchie e cespugli bassi, minano l’estuario del Temo. il colore sembra scarso Distanti in linea d’aria una giacché il nero domina cinquantina di chilometri, questi con il grigio: ma quel nedue ambienti hanno paesaggi ro, quel grigio diventano piuttosto diversi tra loro, anche colori di straordinaria se uniti – oltre che dalla contiintensità sotto quel cielo guità geografica e dall’icona del e quelle nuvole attizzati grifone – dalla bellezza, dalla visenza posa dal vento. cinanza del mare, dalla forza del (Guido Piovene, 1961) maestrale che spazza le alture della Nurra con una violenza sconosciuta al resto della regione. Tra i due sorge Alghero, cuore della Sardegna catalana e città più bella dell’isola (vedere il riquadro a pagina 70). Verso nord, i bianchissimi calcari di Capo Caccia formano il promontorio più spettacolare di tutta la Sardegna, e offrono il più tipico dei paesaggi costieri mediterranei. Poco ripido a oriente, dove pendii rivestiti di fitta macchia scendono in direzione dell’insenatura di Porto Conte, il capo presenta un aspetto prettamente dolomitico in direzione del mare aperto, dove le scogliere verticali si allungano per chilo- ‘‘ ‘‘ ✦ COME È PROTETTA Anche se non figura sugli elenchi ufficiali, l’Arca di Noè (4.000 ettari) è una delle più importanti aree protette della Sardegna, ed è formalmente compresa dal 1999 nel Parco regionale di Porto Conte (5.200 ettari) che è però assolutamente inesistente sul terreno. Non c’è traccia nemmeno delle riserve naturali di Capo Caccia (2.515 ettari) e della Valle del Temo (4.699 ettari), previste dalla legge regionale n. 31 del 1989. La legge nazionale n. 979 del 1982 ha previsto l’istituzione della Riserva marina di Capo Caccia-Isola Piana. 68 LA COSTA DEI GRIFONI VITTORIO GIANNELLA LA COSTA dove volano i grifoni LE BIANCHE SCOGLIERE DI CAPO CACCIA. NELLE PAGINE PRECEDENTI: LA COSTIERA DI BOSA OSPITA L’ULTIMA COLONIA DI GRIFONI DELLA SARDEGNA. Santa Maria, e nelle poderose fortificazioni (qui sopra, i bastioni) scandite dalle torri di San Giovanni, degli Ebrei e de l’Esperò Reial (lo Sperone Reale). L’integrazione fra catalani e sardi è iniziata nel 1708 con la fine della dominazione spagnola, e si è progressivamente consolidata. Parlare di contrapposizione tra i due gruppi, oggi, sarebbe sbagliato e fuorviante. Non c’è dubbio, però, che la gente de L’Alguèr conservi uno stretto rapporto con Barcellona e la Catalogna, e che Alghero e Sassari – che pure distano solo 35 chilometri – non si amino troppo. I sassaresi, per andare al mare, preferiscono puntare verso Stintino e Castelsardo. NEVIO DOZ (2) LA PRESENZA DI OVINI ALLEVATI ALLO STATO BRADO ASSICURA AI GRIFONI ABBONDANZA DI CIBO. 70 LA COSTA DEI GRIFONI metri, sfiorando i 300 metri di altezza. Queste rocce hanno attirato l’attenzione di grandi nomi dell’alpinismo come Cesare Maestri, Alessandro Gogna e Manolo. Dal piazzale dove termina la strada asfaltata, i 656 gradini della Escala del Cabiròl (la scala del capriolo, in catalano) conducono alla Grotta di Nettuno, che si apre al livello del mare e contende a quella del Bue Marino il titolo di principale “grotta turistica” dell’isola. All’interno, dove una lapide ricorda le visite di re Carlo Alberto, si trovano un lago dalle acque trasparenti, ampi saloni e imponenti formazioni di stalattiti (la più vistosa è la cosiddetta “Reggia”). Ancora più a nord, oltre la torre cinquecentesca della Pegna che segna con i suoi 271 metri il punto più elevato del promontorio, un vasto pianoro ondulato è il cuore dell’Arca di Noè, la riserva di 4.000 ettari gestita dall’Azienda forestale regionale che protegge la ricca avifauna locale e vari mammiferi “importati” da altre parti della Sardegna. Le strade sterrate e i sentieri dell’area protetta consentono di avvistare daini sardi, mufloni, cavallini della Giara e asini bianchi dell’Asinara. Verso il largo, altrettanto spettacolari e rocciose di Capo Caccia, l’Isola Foradada e l’Isola Piana sono frequentate dal falco pellegrino e dalla berta, uno dei più rari uccelli marini italiani. I grifoni nidificano sulle pareti di Punta Cristallo, e continuano purtroppo a diminuire di numero. Oggi si parla di non più di due o tre esemplari. Non sappiamo se gli avvoltoi siano stati disturbati dagli scalatori (pochissimi) o dai motoscafi (fin troppi) che passano ai piedi della scogliera in estate. Non c’è dubbio, però, che le pecore e i pastori sono spariti da tempo dal promontorio di Capo Caccia, dalla costa invito alla visita La strada che collega in 63 chilometri Bosa con Capo Caccia è una delle più panoramiche della Sardegna, e permette di osservare con calma la costa. Lasciata Bosa (meritano una visita il castello e la chiesa di San Pietro extra Muros) il tracciato sale fino a un piccolo valico, poi scende in direzione del mare. Questa è la zona dov’è più facile avvistare i grifoni. Poco più avanti, merita una deviazione a piedi la ben visibile Torre Argentina, che si raggiunge prendendo un’evidente carrareccia. Poi la strada si alza di nuovo fino alle pendici di Monte Mannu: alcuni slarghi consentono di posteggiare per ammirare dall’alto i canaloni e le scogliere di Capo Marargiu. Un lungo tratto solitario ma meno spettacolare conduce alla spiaggia di Cala Griecas e all’inizio del litorale di Alghero. La zona è ottima per fare un bagno. Oltrepassata la città, la visita del nuraghe Palmavera precede l’arrivo a Porto Conte, una delle insenature più belle della Sardegna. Imboccando la strada per Santa Maria La Palma e Sassari si possono raggiungere Porto Ferro e il lago di Baratz. Accanto al borgo PAOLO RONDINI I turisti arrivati ad Alghero possono credere di aver sbagliato paese. Nei cartelli stradali le vie si chiamano carrer, le piazze plaça, le porte portal. Anche il dialetto della città che i suoi abitanti chiamano L’Alguèr non è il Logudorese parlato nel resto della provincia di Sassari, ma una forma arcaica di catalano: la lingua di Barcellona e delle Baleari. Tra le comunità “straniere” immigrate a partire dal Medioevo in Sardegna (liguri a Carloforte, ponzesi a Cala Gonone, còrsi alla Maddalena), quella dei catalani di Alghero è la più consistente. A far traversare loro il mare, dal 1355, furono gli Aragonesi che avevano conquistato da poco l’isola. Scopo dichiarato, “tenir apretada e sotmesa la naciò sarda”. Per un secolo, come i neri nella Johannesburg prima di Mandela, i sardi furono ammessi in città solo dall’alba al tramonto. Per lavorare. La ricchezza e l’importanza militare della Alghero catalana si manifestano ora nel gotico della chiesa di San Francesco, del suo chiostro e del Duomo di GIANMARIO MARRAS ALGHERO, ECHI DI CATALOGNA punti di particolare interesse dell’itinerario di Tramariglio si trova l’ingresso dell’Arca di Noè. La successiva salita porta al piazzale del Belvedere, affacciato sull’Isola Foradada, da cui comincia il sentiero (un’ora e mezzo tra andata e ritorno) per la torre della Pegna. La strada termina al piazzale di Capo Caccia da dove parte la Escala del Cabiròl. L’estremità del promontorio è un’area militare e chiusa al pubblico. IL PITTORESCO CENTRO STORICO DI BOSA, AFFACCIATO SUL TEMO E DOMINATO DAL CASTELLO. MASSIMO DEMMA Il grifone ha appena finito di lisciarsi le penne. Avverte il refolo buono e si lascia cadere nel vuoto ad ali aperte. Scivola verso l’alto, e l’orizzonte si spalanca. Di fronte a un mare intensamente blu, si estende la lunga dorsale carsica che unisce Punta Cristallo al monumentale spuntone di Capo Caccia. Di qua le due grandi isole, la Piana e la Foradada; di là invece un dolce avvallamento occupato in parte da una pineta artificiale: lo chiamano l’Arca di Noè ed è un piccolo eden ricco di fauna (anche cavalli della Giara e asini albini dell’Asinara) e di eccezionali specie botaniche, come un vasto tappeto di centaurea LA COSTA A NORD DI BOSA (SI RICONOSCE TORRE ARGENTINA) BATTUTA DALLA MAREGGIATA. GRIFONE (GYPS FULVUS) PERNICE SARDA (ALECTORIS BARBARA) orrida, astragali e pulvini di ginestra corsica, circondato da palme nane e ginepri contorti. ORA IL GRANDE RAPACE fa rotta verso sud e punta su Capo Marargiu. Il paesaggio, scosceso e precipite, è tipicamente pastorale. Nelle dorsali più spoglie sono sopravvissuti solo alcuni lecci modellati dalla furia del maestrale. È posto buono per pernici, lepri e conigli selvatici. Vi abbondano piccoli roditori e rettili, per la gioia di poiane e gheppi. Doppiato Capo Marargiu sarà l’andesite, antica roccia vulcanica con molte sfumature, a comporre il paesaggio generosamente coperto di lentisco e di olivastro. Il pascolo è brado, così capita spesso che un capo vada a male. Della sua presenza si accorgeranno per primi i corvi imperiali e le cornacchie grigie. Poi sarà il turno della volpe. Infine arriveranno loro, i grifoni. I rapaci si alzano nella tarda mattinata, quando l’aria riscaldata dal sole offre le correnti ascensionali che li sostengono senza fatica. sempre più antropizzata di Alghero e anche dalla piana bonificata della Nurra, diventata ormai da qualche decennio una delle zone agricole più fertili di tutta la regione. Trenta chilometri più a sud, il paesaggio è completamente diverso. Fra le creste e i torrioni rocciosi di Monte Mannu e il tranquillo centro storico di Bosa, si affacciano sul Mar di Sardegna lo stesso basalto e le stesse querce da sughero che formano verso l’interno gli altipiani di Abbasanta e della Campeda. Muri di pietre costruiti dai pastori con fatica secolare separano i fazzoletti (verdi per gran parte dell’anno, gialli e riarsi in estate) dei pascoli e dei campi. Quando il maestrale soffia e il cielo appare corrucciato, è facile immaginare di essere in Cornovaglia o in Irlanda. Tra Cala Griecas, Capo Marargiu, Torre Argentina e Bosa, si viaggia lungamente senza incontrare tracce di presenza umana. Qui, al contrario che a Capo Caccia, il grifone gode di ottima salute. Lo confermano le strisce bianche degli escrementi che macchiano la roccia e segnalano che ci sono dei nidi, fatti con rami, frasche e asfodeli sulle pareti di Badde Orca e del Monte Pittada. Ogni giorno gli avvoltoi si lanciano in volo verso la strada costiera, sorvolano Bosa e la foce del Temo, prendono quota con larghi centri concentrici. Quindi virano decisamente a oriente, e puntano verso i pascoli degli altipiani dell’entroterra. Lì trovano le carcasse di pecore e capre di cui hanno bisogno per nutrirsi. “Anche quest’anno è andata bene”, sorride Saverio Biddau, la guida naturalistica di Bosa che condivide con l’amico Antonello Cossu il difficile ruolo di guardiano dei grifoni. “All’ottantina di adulti che hanno costruito i loro nidi sulla costa si sono aggiunti una dozzina di piccoli che hanno preso il volo a primavera. Pure stavolta birdwatcher, escursionisti e fotografi sono stati attenti. Se ci si apposta come si deve, e si conoscono i luoghi, i grifoni adulti possono essere osservati senza problemi. Avvicinarsi ai nidi nel periodo della cova, invece, può provocare la fuga dei genitori e la morte per fame dei piccoli”. “Ho iniziato a fotografare i grifoni trent’anni fa, tra le rocce del Supramonte. Poi la diminuzione delle pecore e dei pastori li ha cacciati dalle montagne dell’interno. Ora vengo a cercarli qui, sul litorale di Bosa, dove gli avvoltoi sembrano destinati a durare”, spiega Domenico Ruiu, il più noto fotografo di animali dell’isola. Chissà se un giorno, anziché dirigersi nell’entroterra, qualche giovane grifone nato sulle falesie di Bosa spiccherà il volo per ritornare a Capo Caccia. DOMENICO RUIU (2) FRANCO TESTA APPUNTI DI NATURA SOLO POCHI ALBERI RIESCONO A RESISTERE ALLA FORZA DEL VENTO, COME QUESTO LECCIO SCARNIFICATO DAL MAESTRALE SUI PENDII DEL MONTE MANNU. IL CONTATTO Per vedere i grifoni, conviene affidarsi alle guide Saverio Biddau ( 0347 7691333) e Antonello Cossu ( 0347 5482718). Informazioni sull’Arca di Noè si possono richiedere all’Ispettorato delle Foreste di Sassari ( 079 2088940). La Cooperativa Dulcamara ( 079 999197) raggruppa una dozzina di aziende agrituristiche della Nurra. LA COSTA DEI GRIFONI 73 EGIDIO TRAINITO TANCHE i muri dell’arraffa-arraffa TANCHE i muri dell’arraffa-arraffa ‘‘ DI ALBANO MARCARINI A volte il paesaggio si può paragonare a una pila di vecchi no i lembi delle copie vecchie di mesi. Gli angoli sono un po’ DOVE SI TROVANO Questo genere di paesaggio si può ancora incontrare in alcune parti degli altipiani centro-settentrionali dell’isola. Le zone di più fitto impianto sono l’altopiano di Abbasanta, il Meilogu e la Campeda, il bordo della Planargia. Ciò non toglie, comunque, che il reticolo delle tanche persista anche in altre zone – come nel Nuorese –, seppure in forma frammentata e degradata. 76 TANCHE gualciti, le pieghe non sono più perfette, la carta è ingiallita. Così è per certi paesaggi che non reggono il peso della modernità. Ne restano schiacciati ma talvolta, ai margini o negli interstizi, conservano elementi di continuità, qualche nesso con il passato. Sono quelle piccole cose – un sistema di disporre i campi o erigere case, l’uso dei materiali, una data vegetazione, una geomorfologia – che in origine, e in modo ben più importante, erano servite a identificarlo come “un” paesaggio, diverso da altri. Alcuni studiosi chiamano gli effetti di questa progressiva involuzione “archeologia del paesaggio”. Non si limitano a cercare le ultime tracce dei paesaggi del passato, ma tentano anche di ricostruirne le vicende, scorrendo la pila dall’alto verso il basso. Se dovessimo applicare tale metodo alla Sardegna, l’area maggiormente indicata sarebbe quella degli altipiani centro-settentrionali e gli oggetti di studio la tanca e il vidazzone: due reliquati di paesaggio, di forma e struttura diversissime, ma decisivi per la storia della Sardegna rurale. SOPRA E A FRONTE: TANCHE A RIPOSO E COLTIVATE SULL’ALTOPIANO DI Per i non sardi questi termini ABBASANTA, NELL’ORISTANESE. NELLE suonano forse oscuri. Ci soccorre PAGINE PRECEDENTI: SANTA MARIA l’agronomo Francesco Gemelli ISCALAS A COSSOINE, NELLA CAMPEDA. che, intorno al 1776, scrive: “Le tanche, così appellate dal sardo ‘tancare’, cioè chiudere, sono terreni serrati di siepe, o di muro. Intendo invece vidazzoni le terre divise ab antiquo con una linea ideale in due o più regioni, una d’esse ogni anno destinasi alla seminagione, restando l’altra all’uso del pascolare”. Due modi di definire lo spazio rurale, chiuso o aperto a seconda del tipo di conduzione: privata, o “particolare”, nella tanca; pubblica e collettiva nel vidazzone. Quest’ultimo è una corruzione del termine habitacione: lo riporta la Carta de Logu, atto amministrativo della fine del XIV secolo relativo ai terreni esclusivi di una data comunità. Sin da epoca remota, infatti, ogni villaggio aveva terre di sua pertiNEVIO DOZ (2) ✦ ‘‘ Tutta la media valle del Tirso è frammentata in parcelle, dette tancas, dalle forme irregolari, piccole e nude quelle in prossimità dei villaggi, più vaste e cosparse di macchie e qua e là di querce da sughero quelle più lontane; tutte comunque circondate da muri nerastri formati da grossi blocchi di basalto, che raramente presentano delle brecce e che impediscono la visuale a ogni osservatore che non si metta in posizione più elevata, per esempio su un nuraghe. (Alberto Mori, 1966) nenza. L’isolamento e le condizioni naturali spingevano all’organizzazione autonoma delle comunità. I lotti lunghi e stretti del vidazzone erano sorteggiati tutti gli anni tra i capifamiglia. Si gettava il seme in una delle due “regioni” lasciando l’altra a riposo, ripasciuta per 12 mesi dal pascolo degli ovini. “Ci fu un tempo, non molto lontano”, sintetizza lo scrittore Salvatore Cambosu in Miele amaro, “in cui la terra era aperta come un mare, dove pastori e contadini affrontavano le stagioni, godendola sotto consuetudinarie intese, e spartizioni rotatorie: in una specie di comunismo rurale”. Riservate alle vigne, agli orti, agli uliveti che cingevano da vicino il villaggio, le tanche avevano una distribuzione più limitata; gli unici latifondi riguardavano le terre più lontane e accidentate, dominio assoluto dei pastori transumanti. Questo prevalente sistema dell’uso collettivo delle terre superò usurpazioni feudali, aggressioni coloniche esterne e ogni altro tentativo di spoliazione arrivando intatto alle soglie dell’Ottocento. Il suo improvviso scardinamento avvenne con la legge delle Chiudende, emanata il 6 ottobre 1820 da Vittorio Emanuele I. Il provvedimento, sostenuto tacitamente dai pochi grandi possidenti e, in buona fede, da chi pensava che lo sviluppo della proprietà privata fosse uno strumento di progresso, diede facoltà ai Comuni di frazionare il loro demanio, ven- LEGENDA 1 il reticolo delle tanche nella campagna di Abbasanta: allontanandosi dal centro abitato, aumenta l’estensione degli appezzamenti cintati. I punti rossi indicano i nuraghi. 2 ricostruzione del vidazzone nei pressi di Muravera. Le terre, di proprietà comune e sorteggiate ogni anno, erano in parte lasciate a pascolo e in parte coltivate. PAOLO RONDINI (2) giornali. Giorno dopo giorno, la pila aumenta. Sotto, spunta- ● ● ● ● ● strade asfaltate sentieri bordati da muri muri a secco ● ● ●● ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● seminativo pascolo ● ● ● ● ● ● 1 2 MASSIMO DEMMA UPUPA (UPUPA 78 EPOPS) TANCHE UNA DELLE ROCCE VULCANICHE DI invito alla visita Circondata da muretti di pietra, lei stessa tutta in pietra, la chiesa di Santa Maria Iscalas domina la campagna di Cossoine, circa 40 km a sud di Sassari. Da qui può partire un giro – in bicicletta o in auto – che, cercando ciò che resta del sistema delle tanche, porta a scoprire un paesaggio rurale di rara suggestione. Da Santa Maria Iscalas si va a imboccare verso nord la Carlo Felice (principale arteria dell’isola) fino a Giave, dove si possono vedere i pinnetti, piccoli edifici rustici coperti in pietra quasi a imitare le rocce vul- caniche sparse nella campagna. Da qui a Bonorva (visitare il museo archeologico) e poi, con una deviazione, al paese-fantasma di Rebeccu: un pugno di vicoli stretti e vecchie case in pietra abbandonate. Nella piana sottostante, decine di appez- SPARSE NELLA CAMPAGNA GIAVE, NEL LOGUDORO. EGIDIO TRAINITO dendolo, affittandolo o addirittura regalandolo a privati. Il muro o la siepe servirono per circoscrivere e difendere i nuovi diritti acquisiti. E vennero dei momenti in cui il muro fu il riparo dietro al quale asserragliarsi armati, perché, come si può intuire, si verificarono abusi di ogni genere, aggravati dalla mancanza di qualsiasi censo o catasto. La legge non diede i risultati dichiarati. I contadini non avevano i capitali per sfruttare i fondi; molti non furono neppure in grado di realizzare le chiusure, indispensabili per legittimare le proprietà. Per i possidenti e per quanti godevano di una certa autorità fu gioco facile incamerare a prezzi irrisori ciò che i più miseri non potevano mantenere. Si diffuse un detto, valido evidentemente per pochi: “Qui hat tanca hat banca” (Chi ha tanca ha “tavola”, ossia è benestante). Così, l’immobilismo e l’arretratezza che si volevano combattere diventarono invece prassi comune e nel chiuso orizzonte della tanca si retrocedette spesso all’incolto o al pascolo brado. Infinite le ricadute negative: il riaprirsi dell’atavico astio con i pastori PIETRE IN EQUILIBRIO APPARENTEMENTE (costretti a pagare per accedere PRECARIO NEL MURO DI UNA TANCA ai pascoli chiusi), la discontinua SULL’ALTOPIANO DI ABBASANTA. NELLA vocazione colturale e la polvePIANURA, DOVE NON C’ERA PIETRA, LE TANCHE ERANO DELIMITATE DA SIEPI. rizzazione (attraverso le eredità) dei fondi, la nascita di un proletariato alla mercé dei padroni. Nel 1860 il Nuorese fu teatro di una sommossa popolare (detta del Su connottu, “il conosciuto”) che rivendicava il ripristino delle antiche consuetudini, ritenute più eque. Ma la conseguenza più visibile fu la trasformazione di migliaia di ettari di campagne aperte in una frastagliata maglia di campi cintati. Vennero impilati miliardi di pietre per centinaia di chilometri, a volte per perimetrare proprietà d’infime dimensioni. Se in pianura, non disponendo di pietre, le tanche si dividevano con le siepi, negli altipiani la presenza dei muri diventò ossessiva. Ne furono assoggettati i tavolati vulcanici centro-occidentali, il Nuorese, le colline dell’Anglona, del Logudoro e del Sassarese. Ne rimasero esenti la Barbagia e il Gerrei, terre a prevalenza pastorale, e le pianure meridionali. Dopo le riforme fondiarie del dopoguerra, le ricomposizioni e la mai troppo deprecata disattenzione verso questi segni della memo- zamenti agricoli testimoniano le successive divisioni di proprietà che hanno scomposto il paesaggio sardo. Tornati sulla strada principale, il giro finisce a Sant’Andrea Prius, la cui necropoli con le Domus de Janas (tombe ipogee scavate nella trachite) è uno dei siti archeologici più importanti e forse meno noti della Sardegna. (E. T.) PAOLO RONDINI Probabilmente nessuno saprà mai quanti chilometri di muretti a secco percorrano le campagne, le colline e gli altipiani rocciosi dell’entroterra sardo. Incredibile per estensione, questo ambiente artificiale è stato evidentemente apprezzato da una moltitudine di piccoli animali: rettili, uccelli e mammiferi ci vivono dentro, vi si riproducono e vi trovano rifugio. L’UCCELLO più caratteristico è l’upupa, inconfondibile per il volo sfarfallante, che depone le uova e alleva i figli nelle nicchie tra i sassi. Non occorre il suo andirivieni a segnalare la presenza del nido, basta usare l’olfatto: il suo odore forte e acre non può passare inosservato. A minacciare il nido dell’upupa ci pensa un altro inquilino dei muretti a secco: la donnola. Piccola e furtiva, trova anch’essa rifugio tra le pietre, dove spesso sceglie anfratti grandi abbastanza per farne la propria tana e partorire. BIACCHI E LUCERTOLE escono dai loro nascondigli quando la temperatura sale. Il rettile più particolare che si può incontrare sui muretti a secco dell’isola è però l’algiroide nano (Algyroides fitzingeri). Endemico di Sardegna e Corsica, è davvero un peso piuma, lungo solo 4 cm (coda esclusa). Pure il tarantolino (Phyllodactylus europaeus) di giorno si nasconde nei pertugi delle tanche: geco di abitudini unicamente notturne, è tipico delle isole del Tirreno e si distingue dagli altri gechi per il colore scuro, le punte delle dita allargate e la coda rigonfia, quando, come spesso accade, è rigenerata. (Egidio Trainito) NEVIO DOZ APPUNTI DI NATURA ria, dell’immensa trama petrosa restano solo alcuni brani. A guardarli non rendono la dimensione del fenomeno, però forse bastano a spiegarlo. Bisogna tuttavia salire l’altopiano di Abbasanta, aggirarsi per le campagne di Borutta nella zona del Meilogu, scandagliare la Campeda fra Macomer e Bonorva. Lì, forse, di fronte all’avida pretesa di un possesso mai scritto sulle carte, anche se fisicamente tracciato sulla terra, si possono capire le crude parole di un vecchio ritornello sardo: “Tancas serradas a muru/fattas a s’afferra-afferra/si s’ifferru esseret terra/si haìan serradu puru” (Tanche cinte da muro/frutto dell’arraffa-arraffa/se all’inferno ci fosse terra/avrebbero recintato pure quella). PER SAPERNE DI PIÙ M. Le Lannou, Pastori e contadini di Sardegna, Edizioni della Torre, Cagliari, 1992. A. Terrosu Asole, “I paesaggi d’altipiano e il mondo pastorale”, in La Sardegna, vol. I, Edizioni della Torre, 1982. L. Del Piano, La sollevazione delle Chiudende, Cagliari, 1971. TANCHE 79 VITTORIO GIANNELLA PISCINAS il nostro Sahara VITTORIO GIANNELLA PISCINAS il nostro Sahara DI METELLO VENÈ “È stata un po’ come una storia d’amore, di quelle brevi e violente, che ti rimangono per sempre qui”. La manona tocca il cuore e il Grande Arrabbiato, con le iniziali maiuscole come PROTETTA 82 PISCINAS ‘‘ ‘‘ piace a lui, si riscopre Grande Innamorato. Di più: “Prigioniero di una magia che mi terrà avvinto a sé fino all’ultimo dei miei giorni”, dice Giampaolo Pansa, 66 anni, condirettore de L’Espresso, notista ✦ politico al vetriolo e scrittore di rara maestria. Travolto da un’insolita passione nell’azzurro mare di Sardegna: non donne, ma dune. Quelle di Piscinas, in Costa Verde: 5 chilometri quadrati di Sahara in provincia di Cagliari, maestose colline d’ocra alte fino a 60 metri che il vento ha cesellato granello su granello e la natura ha guarnito qua e là di erbe spartane e ginepri secolari. “In Italia non c’è nulla di più DOVE SI TROVA bello”, gongola l’illustre Stregato dalla Duna. E ti racconta di un amore nato nel più classico dei modi: la voglia di vacanza, un conoL’area di Piscinas occupa scente che fa le presentazioni... “Un giorno di pochi anni fa ti leggo circa 5 chilometri quadrati un trafiletto di un collega che parla di un paradiso di sabbia e mare lungo la Costa Verde cristallino, con in mezzo uno strano alberghetto ricavato da un anti(Sardegna sud-occidentale), a co deposito minerario. Così, a scatola chiusa, ho prenotato una cacirca 100 chilometri da mera per qualche giorno: avevo in mente la trama di un nuovo roCagliari. È attraversata dal manzo e tanto bisogno di un posto tranquillo”. Rio Piscinas e dal Rio Il seguito della storia è scritto proprio fra le righe di quel romanzo, Naracauli. I centri abitati uscito nel 1998 e appena ristampato: Ti condurrò fuori dalla notte (Sperpiù importanti della ling Paperback, 14.500 lire). Trama: un giornalista del Corriere della zona sono Arbus e Guspini. Sera sparito nel nulla, un’intraprendente ragazza francese che lo cerca. E lo trova: fuggito da tutto e da tutti, indovinate un po’ dove? “In NELLA PAGINA A FRONTE: LO verità, pensavo di farlo finire in Maremma. Ma un paio di giorni a PiSPARTO (AMMOPHILA LITTORALIS), PIANTA TIPICA DI QUESTI AMBIENTI, scinas sono bastati a farmi cambiare idea: il luogo ideale per esiliarsi CONSOLIDA LE DUNE. PAGINE dalla realtà non poteva essere che qui”. PRECEDENTI: LA MOLE DELLE DUNE, E già lo immagini, mentre pensa, e scrive, e arranca sugli immensi ALTE FINO A 60 METRI, SI STAGLIA pendii sabbiosi, ed entra in un mondo “che ti accoglie e ti parla”. Il SUL VERDE DELL’ENTROTERRA. fustigatore dei piani alti del Palazzo che cede ai piani alti della Costa Verde, “le dune come regine COME È che mostrano al mare le loro corone L’area delle dune fa parte della Riserva naturale del Monte Arcuentu di ginepro”. Il cronista di razza e Rio Piscinas, che si estende per 10.972 ettari; che si appassiona, e, pur ribaa sud confina con la Riserva naturale di Capo Pecora, promontorio dendo “non sono un ecologo”, tufaceo (con imponenti cordoni di dune) di 1.659 ettari. trascorre le serate a documentarNel cuore del piccolo Sahara sardo, l’antico deposito minerario collegato alla miniera di Ingurtosu, oggi trasformato si nella piccola biblioteca delin un alberghetto, è stato dichiarato monumento nazionale l’Hotel Le Dune, l’alberghetto ex (1985) dal ministero dei Beni Culturali deposito che da queste parti è per il suo particolare interesse storico e artistico. un esempio di come archeologia Angela era tesa a un solo obiettivo: scorgere la striscia azzurra del mare, sotto il globo rosso del sole che si avviava al tramonto. E di lì a poco, finalmente, si rese conto di essere al primo traguardo del suo viaggio: una calma distesa d’acqua, di un bel grigio lucente, e attorno la perfezione delle dune, macchiate di arbusti verde scuro, mentre la sabbia le sembrò una crema spalmata dovunque, di colore identico a quello del cappuccino con la panna. Ma qualche istante dopo, Angela fece la prima delle tante scoperte che il mondo di Piscinas teneva in serbo per lei: le dune possedevano mille facce, e le esibivano una dopo l’altra in un batter d’occhio, per ordine del sole e del cielo. Difatti, nell’avvicinarsi all’albergo, la sabbia le parve già più scura, quasi marrone, la pelle liscia di un enorme e pacifico animale, sdraiato ventre a terra per scrutare il mare. (Giampaolo Pansa, 1998) FRANCO TESTA/COLL. NATTA GRUCCIONE (MEROPS APIASTER) 84 PISCINAS industriale e turismo possano andare d’amore e d’accordo. Perché nasce la duna? In che modo il vento costruisce castelli di sabbia che cambiano forma ma non cascano mai? Fa un certo effetto sentirselo spiegare da uno che non s’è mai occupato di ecosistemi, ma la competenza acquisita scarpinando tra mare e montagna è indiscussa: “Volevo impadronirmi del segreto di un piccolo universo, dove tutto sembra finito e, invece, tutto è rimasto vivo”. Finito come il mondo minerario, di cui pure Piscinas fa parte (vedere il servizio a pagina 56); vivo come le dune, le sue piante e i suoi animali. E allora ecco la storia del vento, che per millenni soffia da nord-ovest e rintuzza la sabbia verso l’entroterra; ecco i cumuli color crema colonizzati da vegetali psammofili (letteralmente, amici della sabbia): la gramigna delle spiagge, lo sparto pungente, i ginepri che si prostrano assecondando le raffiche. Piante che chiedono poco, sopportando alti tassi di salinità e facendo quasi a meno dell’acqua, e danno molto: è il fitto reticolo delle loro radici, infatti, DOMENICO RUIU SOPRA: UN RAMO SECCO CREA DELICATI GIOCHI D’OMBRA SULLA SABBIA DELLE DUNE. A FRONTE: CERVI (UNA FEMMINA CON IL CERBIATTO E UN MASCHIO) NELLA MACCHIA CHE SI ESTENDE ALLE SPALLE DELLE DUNE DI PISCINAS. QUASI STERMINATA, LA SOTTOSPECIE PROPRIA DELL’ISOLA (CERVUS ELAPHUS CORSICANUS) È OGGI IN NETTA RIPRESA. Lo scenario fatato di Piscinas si spalanca all’improvviso davanti agli occhi del visitatore che percorre la strada. Questa scende in strette curve, fra ruderi spettrali e bosco magnificamente invadente, da Montevecchio, paese-mausoleo dell’epopea mineraria. Le dune si ergono alte e si allontanano per più di 3 chilometri dal mare, insinuandosi nel bosco e nella rigogliosa macchia. La sabbia, sottilissima e ambrata, copre tutto, assecondando gli umori dei venti, così che il paesaggio è perennemente mutevole. A dare fissità ci provano tenaci lentischi, cespugliosi ginepri coccoloni, filliree, corbezzoli e rudi olivastri, resi striscianti dalla violenza dei venti. Cannucce selvatiche, sparse tamerici e giunchi indicano che in passato c’era l’acqua. E poi euforbie e cisti, e soprattutto una diffusa presenza floreale che, all’approssimarsi della precoce primavera, spruzza di colori la sinuosa coltre dorata. Caute pernici frequentano il limitare delle dune, mentre le lepri vi si addentrano costantemente. Come le volpi, che scavano la tana sotto le radici dei ginepri. In primavera arrivano i gruccioni, che nidificano a frotte nei pressi del vicino rigagnolo. Topi selvatici, scarabei, piccoli passeriformi tessono trame di segni sulla sabbia, per testimoniare la vita sulla duna. MA LA SCARICA PESANTE di adrenalina al naturalista curioso l’assicura la visione delle evidenti tracce del cervo sardo (Cervus elaphus corsicanus). Orme inconfondibili svelano lunghe traversate allo scoperto, raccontando una frequentazione che parrebbe fuori luogo soltanto immaginare. Scampato a uno stermino che sembrava incombente, il cervo sardo sta conoscendo qui nuova abbondanza. Diversi esemplari vivono ai confini delle dune, che attraversano regolarmente, offrendo all’osservatore paziente e fortunato un’emozione indescrivibile. (Domenico Ruiu) ‘‘ DANIELE PELLEGRINI APPUNTI DI NATURA Angela comprese di essere soltanto una formicuzza al cospetto della Grande Duna: un’entità che ti catturava, ti rimpiccioliva e ti annullava. Si fermò a osservare Viotti che marciava più spedito ed era già abbastanza lontano, dentro la vallata di sabbia costeggiante il bastione rivolto all’hotel. Gli sembrò un microscopico bambino che procedeva lasciandosi alle spalle orme come capocchie di spillo. E destinato, di lì a poco, a diventare invisibile sullo sfondo della piana di Piscinas. (Giampaolo Pansa, 1998) che consolida e stabilizza la duna, un po’ come succede con l’intelaiatura metallica nel cemento armato. “Con la storia di documentarmi per ambientare il libro, in quel periodo a Piscinas ci sono tornato spesso, in ogni stagione”, rivela Pansa. E dall’album dei ricordi saltano fuori, nell’ordine: i bagni in piena estate nell’acqua “di un turchese perfetto, ma calda no”; l’escursione in una notte d’inverno per scovare i cervi sardi (vedere anche il riquadro a pagina 85), con “i loro occhi brillanti nel buio, piccoli faretti fissi, o gemme fosforescenti”. E un paesaggio che contrappone la mobilità nervosa della duna, mai uguale a se stessa, pronta a cambiar forma e colore a seconda di come la accarezzi il sole, all’immutabilità assoluta del mare. “Ho letto da qualche parte che piace a chi invecchia proprio perché è sempre lo stesso e non ti fa pensare al tempo che scorre. Il tempo qui è fermo”, dice Pansa. E l’ha fatto dire pure a Bruno Viotti, quello del libro, quel giornalista Stregato dalla Duna che gli assomiglia fin troppo e, guardacaso, è protagonista “del romanzo che mi è più caro”. PAOLO RONDINI IL TRACCIATO DEL BREVE ITINERARIO CHE PROPONIAMO. PAGINA A FRONTE: GLI UNICI MODI PER ESPLORARE LE DUNE SONO A CAVALLO O, COME QUI, A PIEDI; NON SONO ASSOLUTAMENTE AMMESSI I MEZZI MOTORIZZATI. invito alla visita Chi va a Piscinas non può fare a meno di pernottare (o quantomeno fare una visita) al suggestivo Hotel Le Dune ( 070 977130, fax 070 977230). Ricavato da un deposito minerario della vicina miniera di Ingurtosu, grazie all’intraprendenza del proprietario Sergio Caroli, ospita tra l’altro un’interessante biblioteca sulla zona. Da non perdere, inoltre, la vicina cittadina di Guspini. LA BANCA DEL TEMPO Si trova proprio a Guspini. Scopo: “raccogliere il patrimonio dei cittadini (non quello finanziario ma l’altro, quello delle idee e della 86 PISCINAS DOMENICO RUIU SOTTO: memoria) e reinvestirlo in verde urbano” (da Montevecchio, edito dal Comune di Guspini, lire 15.000). Così un’area abbandonata ai margini della città si è trasformata in giardini a tema: c’è l’Aiuola dei ricordi, con la bicicletta e i ferri del mestiere dell’ex minatore Angelino; il Giardino delle donne del mondo, con canti, poesie e favole raccontati da ragazze di tutte le età; il Giardino del Paradiso, con le piante e le essenze dell’Antico Testamento; e addirittura il Giardino della “libridine”, aiuole dedicate a libri e notizie utili. Info: 070 974362. A CAVALLO SULLE DUNE Esplorare le montagne di sabbia di Piscinas a piedi è affascinante, ma piuttosto faticoso. Una buona alternativa è una bella cavalcata che, partendo dai dintorni di Guspini, arrivi praticamente sul mare (vedere la cartina). La proposta è del Centro ippico Grazia Deledda ( 338 5443679; minimo 5-6 persone, prezzo da concordare), situato in località Coa Nueddas, a un paio di chilometri dal centro abitato. Si comincia seguendo una vecchia ferrovia, attraversando le interessanti strutture minerarie di Montevecchio; poi ci s’immette nel bosco (si può anche incontrare il cervo sardo) e si costeggia il Rio Piscinas fino alle dune. Il tempo di percorrenza dell’itinerario è di circa 4 ore. A seconda delle esigenze, si può fare colazione e cena al sacco oppure al ristorante. I CONTATTI Per qualsiasi informazione turistica sulla zona di Piscinas, Guspini, Montevecchio e Arbus si può contattare Informacittà ( 070 972537; valido anche per chiedere una guida naturalistica, utile soprattutto se si vogliono organizzare escursioni per vedere i cervi) oppure Promoserapis ( 368 53899).