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amore ti uccido
R osella Simone
Amore ti uccido
Storie di Femminicidio basate su fatti di cronaca
di Rosella Simone
dedicato a Franca Rame
Indice:
Pag. 1 - Premessa
Pag. 3 - Prefazione
Pag. 18 - Bibliografia
Tredici storie:
Pag 21.
Pag 26.
Pag 38.
Pag 43.
Pag 51.
Pag 62.
Pag 68.
Pag 73.
Pag 81.
Pag 85.
Pag. 88.
Pag 92.
Pag 97.
Il volo della farfalla. Vanessa Scialfa uccisa dal suo ex e gettata dal ponte.
Enna 24 aprile 2012
Non si uccidono così anche i cavalli? Quattro operaie e una bambina morte
sotto il crollo di una palazzina in ristrutturazione. Barletta 4 ottobre 2011
Lègami. Paola Caputo muore durante una sessione di sesso estremo. Roma
10 settembre 2011
Domenica di sangue . Mara Basso uccisa dal marito poliziotto. Genova 11
agosto 2010
Un uomo qualunque. Pippa Bacca uccisa da uno sconosciuto. Istanbul 31
marzo 2008
Diventare maschi. Desirée Piovanelli uccisa da 3 suoi amici durante un
tentativo di stupro. Leno 20 settembre 2008
Appunti per la festa. Carla Bergamin é uccisa dal marito Mauro Antonello,
suicida, insieme a altre 6 persone. Chieri 16 ottobre 2002
Ho ucciso mia madre. Intervista a un matricida. Milano 1997
Ciao Marta. Marta Russo muore per un colpo di pistola accidentale sparato
da Giovanni Scattone. Roma 9 maggio 1997
Oggi si muore Eric Borel, 16 anni, uccide la madre, il padrasto e il
fratellastro e altre 17 persone prima di suicidarsi. Tolone 24 settembre 1995
Bingo! Maria Letizia Cova è uccisa per caso da sassi lanciati per gioco da
un cavalcavia. Tortona 27 dicembre 1997
La finestra sul cortile.
Kitty Genovese Uccisa da un violentatore e
dall'indifferenza. New York 1964
Anche io. Una violenza che non è mai stata denunciata. Genova 1964
Premessa
Le storie narrate sono storie di “normale” violenza, tutte realmente accadute.
Storie di donne uccise da uomini che sono stati loro mariti, ex amanti, padri, compagni
di scuola, amici, datori di lavoro; ma anche perfetti sconosciuti che, da soli o in
branco, hanno stuprato e ucciso.
Non con l'intenzione di ricostruire i fatti ma, attraverso una operazione di pura fantasia,
cercare di entrare nella mente dell'assassino e della vittima per provare a
intuire
perché gli uomini, oggi ancora, uccidono le donne.
Scrivendo ho cercato di capire cosa esprime questa violenza, cosa nasconde, cosa ci
vuole dire. Cosa accade tra l'immaginare e il compiere un delitto? Cosa porta a
quell'acting out irreversibile che è uccidere? Il “femminicidio” nasconde forse un
linguaggio inconsapevole da parte di chi lo agisce? Qualcosa che si assorbe da questo
magma triste nel quale tutti siamo immersi, da questa società in cui il modello
dominante è il consumo usa e getta ma dove pochi hanno tutto e tutti gli altri si
affannano a cercare di avere? Frustrati per definizione. Dove i rituali del potere
esibiscono tette e culi di donne “pronte a tutto”, donne appunto usa e getta. Donne da
“domesticare” di “mettere a servizio” nel meraviglioso mondo della globalizzazione
neoliberista. E non potrebbe essere questo il filo sotterraneo da seguire per cercare di
capire cosa genera questa scia di violenza sulle donne. E, se come ci spiegano i trattati
di vittimologia, il “delitto è interazione”
quale è quella che intercorre tra vittima e
colpevole? E ancora, in quel “qui e ora” determinati in cui si compie il delitto esistono
“stereotipi diffusi” che identificano la vittima con soggetti “destinati” ad essere prede e,
dunque, al “sacrificio”? I cosiddetti “soggetti deboli”: donne, bambini, omosessuali,
poveri?
Racconti sviluppati come invenzione letteraria nella convinzione che chi legge di quel
delitto sulle colonne di un quotidiano immagina il colpevole come un mostro, un
essere spaventoso che spera di non incontrare mai e non vuole sapere che l'assassino
è, spesso, una persona qualunque: l'uomo che ha sposato, il fidanzato respinto, lo
sconosciuto che il caso ha messo sul suo cammino. Ma, se il delitto è descritto in forma
di racconto, può succedere di abbandonare le difese culturali e scoprire che sono
dentro di noi vittima e assassino.
Racconti che narrano fatti violenti non per compiacersi delle crudeltà, l'aggressività e il
masochismo latente che abita la mente della specie, ma per depotenziarne
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l'aggressività. Scriverli quei pensieri, renderli metaforici, ci pare un buon esercizio per
svelare cosa cela quel perbenismo di maniera che ci fa invocare il linciaggio legale
solo per nascondere la nostra propensione alla violenza. E che consente ad alcuni
uomini di nascondere la propria sottile complicità con l'assassino stupratore perché, in
fondo, le donne “se la sono andate a cercare”.
Non esistono gli orchi; esistono uomini e donne, e tutti siamo impastati di violenza sia
subita che agita. Portarla in superficie può, allora, diventare una sorta di terapia.
Una terapia che almeno per me ha funzionato.
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Prefazione
Femminicidio, Femicidio
Femminicidio, è
Con Femicidio si indica l'uccisione “di donne in quanto donne”. Con
Femminicidio si intende ogni forma di violenza psicologica economica normativa
religiosa sociale e fisica subita dalle “donne in quanto donne”.
Femminicido, termine ormai entrato nell'uso comune, amplia il concetto di femicidio
ed è frutto della elaborazione di alcune femministe del Nord e del Sud del continente
americano. Questo neologismo si è rivelato efficace nello svelare le pratiche di
occultamento di una realtà antica come la storia del patriarcato: la responsabilità
sociale della violenza di genere. Un concetto diventato forza propulsiva di un
movimento che, nato in America Latina soprattutto grazie all'azione dalle donne di
molte comunità indigene, ha saputo crescere e coinvolgere donne di ogni parte del
mondo. Un movimento che si è posto l'obiettivo di forzare i poteri statali a riconoscere
“che la violenza degli uomini sulle donne è un problema istituzionale del quale gli stati
devono farsi carico”.
Si ha femminicidio, ribadisce Barbara Spinelli nel saggio omonimo (Franco
Angeli, 2008), “ in ogni contesto storico e geografico, ogni volta che la donna subisce
violenza fisica, psicologica, economica, normativa, sociale religiosa, in famiglia e fuori,
quando non può esercitare “i diritti fondamentali dell'uomo”, perché donna, ovvero in
ragione del suo genere”. Insomma, una donna, diventa oggetto di violenza per il fatto
di essere donna e non corrispondere al modello e ai desideri di un uomo ma anche a
una società che ha una cultura e una economia strutturate sul modello patriarcale
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Leggi, Convenzioni e Decreti
Italia, Europa
Questa impostazione è alla base della Convenzione del Consiglio d’Europa
sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza
domestica ratificata a Istanbul l'11 maggio 2011 e firmata dall'Italia il 27 settembre
2012. La Convenzione è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante
che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma
di violenza domestica. La Convenzione, inoltre, istituisce un meccanismo di controllo
specifico (GREVIO) al fine di garantire l'effettiva attuazione delle sue disposizioni da
parte degli Stati firmatari.
Si tratta di 81 articoli con una premessa che mette in chiaro che "il raggiungimento
dell'uguaglianza di genere de jure e de facto è un elemento chiave per prevenire la
violenza contro le donne" e che "la violenza contro le donne è una manifestazione dei
rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione
sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito
la loro piena emancipazione".
Riconosce "la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul
genere", e che "la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per
mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli
uomini".
Specifica, inoltre, che con l'espressione 'violenza nei confronti delle donne' si intende
una violazione dei diritti umani che comprende "tutti gli atti di violenza fondati sul
genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura
fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la
coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita
privata". Proponendo qualcosa di più articolato che un mero incrimento della pena: un
piano efficace di intervento articolato su tre piani: Prevenzione, Protezione, Punizione.
Importante l'accento posto sulla Prevenzione, intesa come intervento culturale,
soprattutto per un Paese come l'Italia che ha abolito il “delitto d'onore” nel 1981, e che
ha trasformato la normativa che riguardava la violenza sessuale da “reato contro la
morale” a “reato contro la persona” nel 1996!
Occorre dunque una trasformazione culturale profonda che muova verso una diversa
educazione sentimentale dei maschi e che promuova per le donne la sperimentazione
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di autonomia e libertà senza scimmiottare l'aggressività dispiegata dei modelli
maschili.
Al di là di altre considerazione che faremo in seguito qui mi pare il caso di rilevare che
quanto auspicato dalla Convenzione non si raggiunge con un inasprimento delle pene,
quello che, in sintesi, è stato fatto con il DL dell'8 agosto 2013 contro il femminicidio.
Non solo perchè è risaputo che l'inasprimento delle pene non è mai stato efficace a
ridurre il numero dei delitti di qualsiasi genere, semmai ad esasperarne i confini (se, ad
esempio, per un furto in casa paghi, in termini di pena, come un omicidio uno degli
effetti dell'inasparimento delle pene può avere come esito di trasformare ladri di
appartamento in assassini. Per non correre il rischio di essere individuati possono
decidere di non lasciare testimoni).
L'inasprimento delle pene rischia di essere ancor più inefficace nel caso di
maltrattamenti dentro la famiglia, luogo che appartiene al privato, impermiabile a
sguardi esterni; anche perchè, più che spesso, le donne che denunciano non sono
credute non solo nei tribunali, o negli uffici di Polizia ma anche all'interno della loro
cerchia relazionale. Questo perchè gli stereotipi maschilisti sono ancora funzionali a
una società come quella nella quale siamo immersi e, purtroppo, agiscono dentro le
teste degli uomini e delle donne, dentro e fuori la legge.
Un Decreto che, pur mosso da buone intenzioni e con alcune sottolineature positive,
punta tutto sul penale e sul “costo zero” senza prevedere, ad esempio,
interventi
finanziari per le Associazioni che da anni lavorano per aiutare le donne maltrattate (e
gli uomini maltrattanti) sembra rispondere più a obiettivi strumentali e mediatici che di
efficacia. Tra l'altro una eccessiva giurisdicizzazione dei rapporti privati può avere altri
contraccolpi controproducenti, come sottolineato diversi patrocinanti nelle cause di
divorzio.
Uccidere una donna
Perché gli uomini odiano le donne?
Si chiedeva lo scrittore svedese Stieg Larson. Adesso possiamo rispondere: le odiano
perché non corrispondono all'immaginario forgiato nei secoli di madri o puttane che è
alla base della società patriarcale; di donne-cose che non possono esistere se non
appartengono a un uomo. Niente é più pericoloso per questa visione del mondo (che
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appoggia il suo diritto sul concetto di proprietà) che la faticosa costruzione di una
libertà femminile che, dunque, va combattuta con ogni mezzo, persino con la morte.
Ma questo non basta a spiegare perché donne belle e colte, indipendenti
economicamente, restino per anni, sino a che non saranno uccise, al fianco di uomini
violenti e brutali. Perché se è vero che il nominare la cosa “Femminicidio” la rende
visibile, gli dà la forza per diventare battaglia per i diritti delle donne e, più in generale,
di tutte le diversità, a mio avviso ancora non basta.
Occorre svelare a noi stesse quanto patriarcato abbiamo assimilato . E questo vale
soprattutto per noi donne di occidente, che per qualche successo conquistato siamo
rimaste impigliate in un modello di femminile che oscilla tra l'angelo del focolare del
passato, remissiva e autolesionista, e la donna diabolica del presente, aggressiva e
egoista proprio come un uomo.
Perché Barbara Cecioni, giovane imprenditrice, con due bambini, incinta di 8 mesi è
rimasta accanto la marito che la picchiava, la umiliava, la denigrava sino al 24 maggio
2007, giorno in cui il marito la uccide insieme alla bimba che portava in pancia? I
giornali scriveranno “ Amava la sua famiglia e voleva tenerla unita...” ma che amore è
questo, che valore dare a una dedizione così insensata e tremenda? Cosa le ha
impedito di scegliere la libertà e dare ai figli una madre viva, capace di togliersi di
dosso un uomo debole e violento? Perché Mara Basso, giovane commessa dei
magazzini Basko, riesce a liberarsi di un marito aggressivo solo quando scopre
l'ennesimo tradimento? Perché nonostante la consapevolezza del rischio che corre e
che le fa confidare a una collega, commentando l'ennesima donna uccisa: “Leggerete
anche me sui giornali”, non se la sente di vietare l'accesso a casa sua a quell'uomo
pericoloso per sé e i figli? Perché la madre di Sanaa, sgozzata dal padre per onore,
dice: “Perdono mio marito è Sanaa che ha sbagliato?”. Perché una ragazza che ho
incontrata in Liguria su un treno
regionale, di quelli che alle 13,30 raccoglie gli
studenti che rientrano a casa dopo i corsi della mattina, di fronte a tre ragazzotti che la
incitavano a farsi vedere mentre si faceva un ditalino, invece di prenderli a ceffoni
ridacchiava? Pronta ad accettare tutto, anche l'umiliazione, pur di essere considerata
“emancipata” e essere accettata nel gruppo dei maschi. Perché una donna si presta a
fare la pubblicità a un formaggio con lo slogan “non far sapere quanto è buono il
formaggio con le pere” mentre l'obiettivo TV centra i seni prosperosi della suddetta
signora, evidentemente anche lei da “mangiare”? Perché parlamentari donne trovano
“normale” che giovani ragazze aspiranti dive TV debbano farsi toccare il sedere in
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“cene eleganti”. Perchè è così che si fa “carriera”? E infine, perché tante donne
maltrattate una volta al Pronto Soccorso dicono: “Sono caduta dalle scale?”. Paura
certo, e legittima, visto che c'è una disparità di forza e di potere. Perché c'è un
pregiudizio dei corpi dello stato, polizia carabinieri magistratura, che spesso
sottostimano le violenze denunziate dalle donne. Ma c'è anche una soggezione al
modello dominante, una mancanza di stima e di fiducia in sé stesse, un consegnarsi
acritico a un modello stereotipato di famiglia e di potere, una complicità con il mito
della forza e dell'eroe, persino qualcosa di più primitivo. Un imprinting impresso a
dura forza nel corpo e nella mente della donna che la porta a riconoscersi nel ruolo di
“oggetto” che poi è l'anticamera della vittima. Perché non è necessario morire per
diventare vittime. C'è una sorte peggiore che è la “morte in vita”, l'umiliazione
quotidiana della violenza fisica subita insieme al ricatto del denaro, dell'affetto, del
ruolo, del potere.
Insomma, io credo, che per cambiare questa cultura diffusa bisogna proporsi qualcosa
di più radicale di leggi anche volenterose. Occorre riconoscere che la gerarchia dei
sessi è insito nel nostro modello di sviluppo e che l'attuale, profonda, crisi economica
non fa che confermare e rafforzare.
Sono convinta, come hanno sostenuto teoriche femministe latino-americane, che il
permanere, e spesso il riacutizzarsi, della violenza di genere nelle nostre società
occidentali, ancor più nei paesi emergenti e in quei luoghi del pianeta dove si
combattano migliaia di guerre a bassa e alta intensità, abbia una sua specifica funzione
nel riassesto, attraverso la crisi globale, del modello economico neoliberista nel
mercato mondo.
I dati, i soggetti, i perchè
I numeri
Il 95% dei delitti nel mondo riguardano le donne.
Ogni 4 anni nel mondo muoiono ammazzate “perché donne” il numero equivalente di
vittime mietute nell'olocausto dai nazisti. (da The Economist del 24.11.2007)
Secondo il rapporto ISTAT del 21 febbraio 2007 il 36% delle donne italiane dai 6 ai 70
anni ha subito almeno una volta un atto di violenza.
In Italia le donne uccise nel 2009 sono state 119, nel 2010 127, nel 2011 129, 124 nel
2012,
81 nei prime sei mesi del 2013. (Dati raccolti da La Casa delle donne di
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Bologna, pubblicati su www.casadonne.it). Con una media annuale, pressoché
costante, di una donna uccisa “perchè donna” ogni tre giorni!!!
In Finlandia ogni anno 8,65 donne per ogni milione di cittadine finlandesi sono
assassinate nel chiuso delle mura domestiche. Seguono la Norvegia (8,65),
il
Lussemburgo (5,56), la Danimarca (5,42), la Svezia (4,59) poi Italia, Spagna, Portogallo,
Irlanda.
Secondo i dati del rapporto del Consiglio di Europa: in Olanda quasi la metà degli
autori di atti di violenza contro le donne hanno un titolo di studio di livello
universitario; in Francia il 67% degli aggressori sono dirigenti.
Questi numeri fanno riflettere sullo stereotipo del colpevole. Non è, o comunque
molto meno di quello che si vorrebbe credere, l'emigrato povero e “ovviamente”
violento, ma un uomo qualunque, spesso di buona cultura e appartenente a una classe
privilegiata. Un uomo che ha potere.
E' considerando l'enormità di queste cifre che si è cominciato a parlare di femicidio
Il nemico
Nel 63% dei casi è il marito o il partner; nel 36, 8% un ex. Dunque il ”nemico” vive
nella tua casa, dorme nel tuo letto, ha condiviso con te piacere e vita.
Uccide per gelosia, per rabbia, per paura dell'abbandono, della solitudine, per
vendetta, per punizione di una ferita narcisistica che ha sete di sangue.
E non è affatto strano, è dentro la famiglia che nascono, si alimentano, deflagrano le
tensioni represse. E' dentro la famiglia che si nutrono sentimenti contrastanti:
dipendenza, voglia di autonomia, invidie, rancori, ansie di inadeguatezza, mancanza
di riconoscimento. O comunque è dentro la famiglia che vengono assorbite o
esasperate le frustrazioni che accompagnano la vita di tutti. A conferma di quanto
ipotizzato risulta, ad esempio, che le peggiori liti esplodono mezz'ora dopo che i
coniugi sono rientrati a casa dopo il lavoro.
Donne (bambini, adolescenti e vecchi) sono, anche, gli “oggetti” prescelti dallo
sconosciuto, quelli su cui più spesso si scatena la rabbia repressa. Un uomo che si
sente offeso, umiliato si sfoga, come è successo, sul primo che gli capita a tiro; guarda
caso, il più delle volte è una donna.
Perché? Per capire non basta fare una riflessione sul passato, su quella subalternità
obbligata che ha caratterizzato le donne in 4000 anni di storia dell'Occidente.
Certo chi uccide lo fa in balia un impulso predatorio; nel senso che, anche quando il
delitto è premeditato, mi pare, si attinge forza da quel profondo che è dentro di noi. La
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voglia di uccidere appartiene alla specie, per fame, per sesso, per paura, per potere.
Ma, dall'inizio della Storia, sono stati i maschi ad avere il diritto alla proprietà delle
cose, donne comprese, e di disporne a loro piacimento.
Le armi
Più spesso il coltello, simbolo fin troppo evidente di un pene sempre duro e in grado di
penetrare. La pistola anche; ma usa armi da fuoco chi già le possiede, in genere si tratta
di guardie giurate, militari o cacciatori. Spesso le donne sono strangolate, è una
tradizione antica; ha a che fare, da una parte con la “storia” (le donne “per tradizione”
sono state costrette a scegliere per il suicidio la morte per impiccagione) e dall'altra
con l'erotismo. Strangolare è anche una tecnica che esalta il piacere.
Perché uccidono
La costruzione della mascolinità
Per capire perché gli uomini uccidono le donne bisogna, prima, capire come si forma
la mascolinità. Secondo l'antropologa Rita Laura Segato “il crimine di stupro deriva da
un mandato emanato dalla struttura di genere” e spiega: “La costruzione della
mascolinità ubbidisce a processi diversi da quelli della costruzione della femminilità.
In una prospettiva transculturale, ci sono prove che indicano come la mascolinità sia
uno status condizionato dalla sua acquisizione, la quale deve essere confermata con
una certa regolarità durante tutta la vita, mediante un processo di conquista e
superamento di prove, subordinato alla riscossione di tributi da un altro soggetto che,
per la sua posizione in questo ordine di cose, è il fornitore del repertorio di gesti
finalizzati ad alimentare la virilità. Quest'altro soggetto nello stesso momento in cui
consegna il tributo, realizza la propria esclusione dalla casta che consacra.
“In altre parole, affinché un soggetto acquisisca il suo status maschile come un titolo è
necessario che un altro soggetto, pur non possedendo quel titolo, glielo conferisca
mediante un processo persuasivo o impositivo che può efficacemente essere descritto
come tributo. In condizioni socio-politiche “normali” dell'ordine di status, le donne
sono le contribuenti, mentre gli uomini sono i beneficiari. Ne deriva che la struttura che
li relaziona costituisce un ordine simbolico, segnato dalla disuguaglianza e retto
dall'asimmetria di una legge di status che organizza tutti gli aspetti della vita sociale”. E
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allora, forse, la ricostruzione di un simbolico femminile, ma persino la richiesta di
parità, hanno minato dal di dentro il modello maschile e questo spiega, almeno in
parte, perchè ancora oggi gli uomini uccidano le donne, il più delle volte, quando
decidono di lasciarli. Ma non basta.
Cosa nasconde allora, oggi, questo acting out?
Dietro le innumerevoli morti violente di donne qualunque si può intravvedere un
linguaggio, una sorta di risposta maschile alla libertà femminile? Un bisogno di
ristabilire un ordine gerarchico, di riconferma della mascolinità basato su un principio
di disuguaglianza?
Segato afferma che il modello economico liberista tende a ristabilire una “frontiera”
invalicabile tra chi ha e che non ha e non deve avere e a trasformare i cittadini in
sudditi alimentando caste separate di potere. Per procedere in questa direzione, per
ristabilire la disuguaglianza come legge, il primo passo è la conquista del corpo delle
donne.
Il femminicidio dunque non sarebbe tanto un delitto sessuale ma, continua Segato, una
serie di delitti “espressivi”, delitti che intendono comunicare, anche se i soggetti che lo
compiono non lo sanno, “un modo per prendersi una rivincita su chi, a loro modo di
pensare, sta cercando di togliere loro il ruolo di protagonismo produttivo, culturale,
sociale”. Allora picchiare le donne, ucciderle sono gesti
di potere necessari
a
confortare un io grandioso che giorno dopo giorni subisce frustrazioni sanguinose.
In un mondo che si muove tra trasformazione epocale e apocalisse i soggetti sono
sballottati nei sentimenti come una barca senza remi in un mare forza 10. Nella
precarietà estrema può accadere che si finisca per cercare certezze nei conformismi del
passato, in un Dio assertivo e totalitario, nel ritorno a linguaggi stereotipati, ma chiari e
comprensibili: il maschio dominante, la femmina di proprietà, e il potere che decide
per tutti. Le regole rigide, i rituali sono la salvezza per uno psicopatico come per una
società malata di impotenza e paranoica.
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Una società all'insegna dell'impotenza
Nelle nostre società il sesso, per molti, non è così assillante. Il sesso lo trovi dove vuoi,
le donne non custodiscono “la purezza”come si diceva una volta, ma, come prova a se
stesse di libertà, si regalano il sesso facile. Il risultato della libertà sessuale però, invece
di orgie diffuse, sembrerebbe essere una disaffezione alla sessualità, almeno nei
giovani. Soli i vecchi esibiscono le “conquiste” come prova provata di potenza. Il che
non fa che confermare una impotenza diffusa. L'aggressore è spesso un debole, un
impotente, un represso, frustrato nel proprio narcisismo infantile, un esibizionista dal
gesto grandioso che ha bisogno di essere glorificato e sostenuto per sconfiggere la
paura di non essere nulla, per credere di esistere, per non pensarsi “cattivo”.
E siccome lo spettacolo è la cifra del presente ecco che i gesti diventano sempre più
ridondanti; non si uccide solo la moglie o l'amante ma tutta la famiglia e anche lo
sconosciuto che passava di lì.
Uno spettacolo “riprodicibile” che viene replicato per imitazione, per quella
“espressività” del gesto del femminicida di cui scrive Sagato. E allora dal Bangladesh a
Zanzibar a Genova le donne vengono acidificate o bruciate vive.
Uomini deboli e invidiosi che per punire la donna e la sua potenza generatrice
uccidono i propri figli trasformando la tragica Medea in un triste e piagnucoloso
Medeo. Proponendo un modello di maschile vile e rancoroso.
Manca nella nostra società di eterni ragazzi un modello maschile autorevole. E
senza un autorevole modello paterno i giovani maschi non sanno capire la misura del
desiderio, hanno bisogno del branco per confermarsi l'un l'altro la propria virilità. Per
questo accade che stuprino insieme, come in un patto di sangue, mischiano i loro
umori dentro il corpo umiliato posseduto e sconfitto di una donna.
Una società multietnica
I maschi, insomma, hanno perso la bussola, ancor più smarriti quando sono costretti a
lasciare la propria terra, la madre, la casa e se stesso in un altro luogo. Quando un
maschio arriva in un altrove che non lo accoglie, che lo giudica, che non lo vuole
conoscere, da solo, senza le donne della sua casa a frenarlo, a proteggerlo, a
consolarlo, a dominarlo è alla disperazione. Ha perso la forza e, così indebolito dalla
sua stessa paura, può succedere che uccida. Un delitto che è un grido di chi vive nella
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morte e vorrebbe la carezza di una donna, e allora gli sale il sangue agli occhi e uccide
e punisce e si vendica e, almeno, per un poco, si sente potente.
Le nostre società sono diventate multietniche senza aver costruito una cultura
multietnica. Non è solo questione di lingua, di costumi, di tradizioni, di religioni ma
anche di gesti. Che possono sembrare aggressivi senza intenzione. Che diventano feroci
per paura e difesa, da una parte e dall'altra. Una battaglia che viene combattuta sul
corpo delle donne. E se la marocchina Sanaa è uccisa dal padre per difendere l”onore
della famiglia”, un giovane romano prende a pugni una sudamericana che aveva osato
rispondergli.
C'è un razzista in ciascuno di noi, bianchi rossi, neri o gialli. Anche questa è un
impulso difensivo che ci viene dall'età della pietra, difendere il territorio, il gruppo, la
tribù, i nostri tabù da chi è diverso da noi. La cultura dell'accoglienza si costruisce, si
coltiva, si insegna. Ma non è affatto quello che accade nei nostri paesi incarogniti nella
paura di perdere i propri privilegi. E allora, da una parte e dall'altra, si ritorna alla rigida
difesa della propria identità, se non lo fai non esisti. Di fronte a questo
incommensurabile rischio, “non essere”, ogni difesa è buona e efficace come uno
scongiuro. Il fiore della Alpi dei leghisti come l'abito nero integrale delle donne
mussulmane. Sono la paura e l'avidità a costruire il nemico. E la cultura del nemico si
esprime considerando il corpo delle donne un territorio di conquista. Il potere si
conferma e si esercita ponendo limiti al dominio di una donna sul proprio corpo: dal
diniego del diritto di abortire dell'occidente, al corpo femminile celato sotto il burka
dell'Islam, allo stupro come strategia di guerra.
In un mondo globalizzato
dove cercano di consolidarsi nuovi equilibri le guerre più sanguinose sono quelle a
bassa intensità, che non troveranno spazio nei libri di Storia perché sono solo qualche
trafiletto di cronaca che si può in fretta dimenticare. Come il crollo del palazzo di
Barletta dove hanno trovato al morte 4 operaie e una bambina. Un fatto accidentale
ma che ci fa deglutire amaro perché ci riporta all'indietro a quel tragico 8 marzo 1908.
Lì a morire furono 129 operaie a Barletta “solo” quattro perché la “nuova” fabbrica è
oggi dispersa nei sottoscala, in nero, ignota e ignorata. Perché a lavorare lì ci va chi ha
meno diritti: gli emigrati, i bambini, le donne.
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E se, come abbiamo già detto, il mercato e la produzione stanno attraversando un
nuovo ciclo di trasformazione a pagare per prime il costo della crisi di sistema sono le
donne: le prime a perdere il lavoro, ad adattarsi a stipendi ridotti, a caricarsi della cura
dei figli, dei nipoti, dei vecchi.
Uccide il forte o il debole?
Il potere della cura e il potere sul corpo
Tutti gli esseri umano sono nati da donna e questo conferisce al femminile un sapere
sull'altro tremendo. Come madre una donna sa tutto di quel piccolo essere che sarà un
uomo, lo ha lavato, accudito, pulito, pettinato, nutrito, consolato, punito, accarezzato;
lei sa che non può fare a meno di lei, che gli appartiene. Ma quello che affiora nella
modernità è solo l'ombra del potere del femminile: una generica voglia di libertà, di
lavorare, di conoscere l'amore, di vestirsi a proprio gusto. Questa donna
vuole il
comando della propria vita e del clan se ne frega. Di fronte a questo voltafaccia l'uomo
va in confusione e reagisce nel furore. Non sa più per chi e per cosa combatte.
Lasciato a se stesso il guerriero è perduto
Il cavaliere solitario è una invenzione letteraria. Il cavaliere è in armi per salvare la
dama dal drago. Che se ne fa delle terre conquistate, di resistere al nemico se non c'è
un focolare al quale ritornare, se nessuno spazza le macerie dalle case distrutte dalle
guerre?
Smarrito dentro il cambiamento il cacciatore ha paura.
Senza chi puntella la sua gloria senza chi l'amministra si sente debole, infelice e
rancoroso. E ha fame. Fame di protezione, di sicurezza, di focolare.
Gli uomini hanno bisogno del seno accogliente delle donne,
un bisogno inconfessabile ma profondo anche se hanno fatto di tutto per liberarsene,
magari sublimandolo.
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“Sono giunta alla conclusione che l'invidia sia uno dei fattori che maggiormente mina
l'amore e la gratitudine alle loro radici, perché essa colpisce il rapporto più precoce,
quello con la madre”, così inizia Invidia e gratitudine (1957) l'opera più famosa e più
discussa di Melanie Klein (1882-1960). Per lei l'invidia è una forza primordiale,
“costituzionale” scrive, che, “strettamente connessa con la bramosia orale”, ha come
primo oggetto il seno che nutre”. E quindi, a differenza del complesso di Edipo,
riguarda la vita emotiva precoce del bambino, maschio e femmina che sia, e, ne
impedisce, nel caso in cui sia molto forte, la formazione armoniosa dell'io generando
uno stato di confusione che ostacola la capacità di discernere l'amore dall'odio, “di
provare gratitudine e di essere felici”.
Una emozione, l'invidia, che si rafforza nella nostalgia della completezza esperita
durante lo stato prenatale e nell'intensa “angoscia persecutoria messa in moto dalla
nascita”. Questo vale per bambini e bambine, ma a differenza dei maschi le bambine
possono ricreare questo amore assoluto con la maternità. Per gli uomini la perdita è
secca.
Gli uomini hanno paura delle donne
Lo dimostra un immaginario pieno di donne guerriere potenti e magnifiche e di
maliarde crudeli e subdole. In più la società contemporanea non fa che elogiarle
attribuendo loro cervelli sopraffini, attitudini multitasking e un smodata voglia di
indipendenza e libertà. Ammesso che sia vero in una società frammentata e preda della
paura una donna così è fastidiosa. Una donna che chiede, che argomenta, che
controbatte, che non sostiene ma chiede libertà, che ha autonomia e la esercita può
diventare un fastidio insopportabili per chi non vuole o non può fare i conti con le
proprio debolezze. La società è gerarchica e ognuno si compiace di essere sopra
qualche altro se no la frustrazione invade come pece nera.
E l'ultima risorsa di un maschio in crisi in una società in crisi è una donna che lo
sostenga, lo nutra, lo compatisca, lo vezzeggi. Questo parlare con ammirazione (che
poi sia vera è da vedere e, soprattutto, da dimostrare) delle donne da parte degli uomini
non fa che accrescere l'invidia maschile e nutrirla di sempre nuove ragioni. All'origine
c'è l'invidia della forza procreatrice della madre, il terrore del suo dominio sul sangue
e sulla morte che gli uomini erano riusciti a controllare rendendo la donna un oggetto
di proprietà di un uomo, non madre potente ma contenitore dei figli dell'uomo. Tutta
frivolezze e accoglienza, forse un po' stupida ma dai seni generosi. Ma adesso è
troppo, sono le ragazze a prendere i voti migliori a scuola, se ne vanno dove vogliono,
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e persino sfidano gli uomini e li comandano. Nuova invidie si aggiungono a quelle
primordiale e il rancore che genera odio si nutre di tutto questo con una avidità che
non lo fa mai ingrassare.
Contemporaneamente dai media e dal potere viene offerta una icona del femminile
tette e culo, bambole intercambiabile, veline da
mostrare e gettare e allora che
importa se una muore! E se non la puoi possedere né quella capace di autonomia e
potenza, né quella da copertina con i grossi seni rifatti e turgidi perché sei solo un
poveraccio umiliato, allora uccidere quell'icona che, in fondo, non esiste e che è
intercambiabile, fa di quel poveraccio di uomo qualcuno al di là della legge, un dio
onnipotente, che finalmente può possedere e godere.
Insomma l'uomo“molle”, di cui scriveva anni fa Élisabeth Badinter, che sembra
annaspare tra i generi, infelice e insoddisfatto, potrebbe trasformarsi invece che in un
maschio accogliente in un nuovo tipo di nemico infelice e insoddisfatto.
L' ambiguità femminile rispetto alla violenza.
Inchiodare la donna al ruolo della vittima non convince
Perché se è vero che alle donne viene insegnato la dipendenza, l'attaccamento alle
persone (nelle nostre società, dove possedere è il valore per eccellenza, agli uomini
viene insegnato l'attaccamento alle cose. Per questo devono sempre ridurre una donna
a cosa per essere sicuri di possederla), dobbiamo riconoscere che le donne non sono
mammolette, non lo sono oggi e non lo sono mai state. Forse quello che manca è una
riflessione sincera su potere e violenza e sull'ambivalenza delle passioni.
Non per edificare nuove pericolose retoriche e neanche per sminuire la responsabilità
del vero colpevole che è l'assassino e il violatore ma per riconoscere, la dove c'è, una
complicità femminile nel riconoscersi nel ruolo della vittima..
Non basta quindi riconoscere che la donna-preda è un mito ancestrale radicato nella
corteccia arcaica del cervello degli uomini, lo è anche in quello delle donne.
Ma anche questo non basta a spiegare la violenza dei maschi sulle donne e la difficoltà
di alcune donne che pure sono colte, hanno un lavoro e sembrerebbero dominare la
loro vita a sganciarsi da rapporti umilianti e violenti.
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Bisogna iniziare con l'ammettere che il ruolo della vittima è, per la donna, fortemente
erotico. Non saprei spiegare altrimenti il successo mondiale fra le donne giovani e
meno giovani di Twilight, e i suoi numerosi epigoni, serie alla Delly con vampiro bello,
ricco e automobile che seduce proprio perché è pericoloso. Per tutti, ma anche per
“lei” l'amata.
E' il desiderio che non si può realizzare, pena la morte, che diventa veicolo di una
passione travolgente. E' la paura che riaccompagna il sesso a farlo ridiventare
potentemente erotico. E le donne devono stare in guarda rispetto a questo
compiacimento della vittima che ha inventato la più stolida delle frasi d'amore: io ti
salverò.
C'è nelle donne la pretesa di saper controllare la violenza degli uomini, una violenza
che, come nelle favole, le salverà dal drago ma non toccherà lei; anzi le darà come
sposo un cavaliere senza macchia e senza paura capace di difendere lei e i figli da ogni
nemico. La parte del potere rosicchiata dalle donne.
Ma chi la difenderà da Lui?
Cosa impedisce alle donne maltrattate di lasciare il “nemico”? Forse, a trattenere una
donna presso il proprio tormentatore c'è, anche, l'incrollabile convincimento, lo
stupore che quel maschio non si arrenda, non si genufletta al potere femminile. A quel
corpo e mente di donna consacrato nel segno della Madre, la Grande dea del
paleolitico che dominava il clan, indicava la via, decideva della vita e della morte e
alla tribù dava bambini e futuro. Quell'uomo è suo, non c'è scampo. Suo e basta.
Disposta a morire ma non a cedere.
Cosa impedisce, allora, alle donne picchiate e violentate di denunciare il violentatore?
Forse anche la vergogna di non essere riuscite a farsi amare. Vissuta come una sconfitta,
un marchio, una colpa.
Non tutti uccidono, non tutte si identificano nel ruolo della vittima,
Spiragli di accoglienza
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C'è anche una società che cerca di sperimentare spiragli di accoglienza Donne e
uomini che si cercano senza volersi possedere, che i figli li amano e li lasciano andare,
che hanno le parole per esprimere i propri sentimenti, e che pensano che ci sia ancora
futuro, un futuro per il quale valga la pena vivere e lasciar vivere.
Ma prima bisogna essere stati capaci di togliere la maschera che ognuno di noi si mette
per farsi accettare, prima di tutto da se stesso.
Perché il “mostro” è dentro di noi, che si faccia assassino o vittima. O tutte e due le
cose assieme. Perché anche chi uccide lo fa sentendosi vittima di un sopruso, di una
offesa, di una non esistenza.
Io uccido dunque esisto.
I racconti che seguono sono un tentativo di entrare nelle menti dei carnefici e delle
vittime, non per raccontare la verità e indugiare tra le pieghe della cronaca, ma per
indagare dentro ciascuno di noi e trovare il nemico interno, quel clandestino
pericoloso che ha una stanza dentro il nostro cervello, che divora con il nostro
stomaco, che batte con il nostro cuore. Non per giustificare ma per com-patire il
demone che agita le nostre pulsioni e così facendo smontarne l'eroismo, la grandiosità,
l'orgoglio, l'invidia, il rancore, la gelosia ossessiva, la colpa, la vergogna. Tutti e tutte
solo piccoli uomini e piccole donne che vogliono crescere. Per farlo, credo, bisogna
osare indagare dentro il nostro io, destrutturarlo sin nelle sue parti più segrete e
accettare di avere paura. Per farlo bisogna transitare dalla cronaca al racconto.
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I RACCONTI
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Il volo della farfalla
Enna, 24 luglio 2012
Enna è un grappolo di case in discesa afferrate al pendio di una rocca alta quasi 1000
metri che svetta, isolata, nel ventre della Sicilia più profonda. Una fortezza naturale
protetta a settentrione da un ampio bosco e da strapiombi di 400 metri. Una
panopticon naturale da dove è possibile controllare una vasta porzione di territorio:
sino al cono innevato dell'Etna che a ovest fa da sentinella fumante e a sud verso
Caltanissetta e il mare. Un insediamento urbano, potremmo dire personalizzandolo,
nato dall'ossessione del nemico.
Abitata sino dal neolitico, l'antica Urbs Inexspugnabilis, è stata via via conquistata da:
sicani, greci, romani, bizantini, svevi che vi hanno costruito l'imponente castello di
Lombardia e la Torre Pisana , da dove si può, se la giornata è limpida, in una sola
panoramica circolare, lanciare lo sguardo su tre mari: lo Ionio, il Tirreno, il Mar
d'Africa. Un tale eccesso di visione da portare alla esaltazione e allo smarrimento.
Perché la dimensione geografica di Enna così isolata e occulta e, insieme, così aperta
può diventare claustrofobica. Sino a costringere a pensare che difendersi e proteggersi
possa diventare una struttura profonda del carattere di questa comunità arroccata in un
nido di aquile.
Gli abitanti sono poco meno di 30.000 di questi: 16.573 vivono a Enna alta; circa un
migliaio al villaggio di Pergusa; il resto a Enna Bassa dove dal 2004, sotto gli auspici
della Ministra Letizia Moratti, è stata fondata Kore, Libera Università Non Statale della
Sicilia. Un'orda di 4000 studenti arrivati da diversi luoghi del Mediterraneo che
scompagina, turba, apre a ignoti altrove questo cuore aspro di Sicilia. Poco più di un
paesone, insomma, - ma anche il capoluogo di provincia più alto e più vasto d'Italia dove “i nativi “ sanno tutto di tutti e si guardano a vista.
Una città, sin dai tempi più remoti, consacrata a divinità femminili, oggi la Vergine
della Visitazione nel passato la Madre Terra, e che vanta un mito fondativo di
prim'ordine: il ratto di Proserpina, la Kore, la fanciulla.
E' attraverso il lago di Pergusa, infatti, che il bramoso dio degli inferi rapisce la vergine
Persefone figlia di Cerere/Demetra e la trascina negli abissi dell'Ade.
Rapita “per amore”, ci assicurano gli antichi costruttori dei miti patriarcali, che
ovviamente, prevedono “sempre” il sacrificio della fanciulla.
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E' questa terra, segnata dalla bellezza e dalla tragedia, lo scenario della nostra storia di
stupro e morte.
Lei si chiama Vanessa, ha vent'anni, occhi grandi, tanti capelli e un nome da farfalla.
Una farfalla notturna con grandi occhi sulle ali, e un destino nel nome. Il nome
completo della farfalla è, infatti, Vanessa Io, e Io è appunto il nome dell'ennesima
vergine violata da Zeus, stupratore seriale in attività permanente.
Lui si chiama Francesco Lo Presti, ha 34 anni; uno sbandato che ha trovato nella
cocaina il fertilizzante per alimentare la sua frustrata vanità e congenita paranoia.
Lei si è diplomata all'Istituto d'Arte e, in attesa di una qualche prospettiva di lavoro e di
vita, si arrangia facendo la barista nei bar degli studenti della nuova fiammante Libera
Università.
Lui ha alle spalle una figlia non riconosciuta, un matrimonio andato a male, tanti lavori
precari e sottopagati. Gira per i locali con la grinta di chi la vita se la gioca a dispetto;
un corpo palestrato, occhiali da studente, una cresta di capelli alla ultimo dei
mohicani, e qualche tiro di neve per fare metropoli e bello e dannato.
Se hai 20 anni e uno che ne ha 14 più di te viene tutte le sere nel bar dove lavori a farti
un filo serrato, a dedicarti la sua euforia da additivi chimici e a fare il cucciolone
calpestato dalla vita ma che, giura, in te ha trovato “la forza di ricominciare” cosa puoi
fare se non finire per credere di esserti innamorata? Di amare di amore puro e eterno
quell'uomo che ha bisogno di te e tu delle sua braccia forti, della sua irrequietezza, che
autorizza e alimenta la tua? Se poi tuo padre lo chiama “quel buono a nulla”, anche se
il dubbio che un po' di ragione ce l'abbia ce l'hai, anzi proprio perché ce l'hai, quel
tuo primo amore “da grande” lo difendi con la testardaggine dei vent'anni. Se poi i tuoi
genitori ti proibiscono di vederlo, è fatta. L'eroina seguirà il suo eroe sino a convivere
con lui nella modesta casa al terzo piano di via Gallina. Sino all'inferno.
Perché vivere con Francesco, era l'inferno. Aveva bisogno di polvere per carburare, e la
polvere costa, e se non ce l'hai diventi cattivo perché la vuoi, ne hai bisogno per
sentirti un uomo, forte, fiero, capace di desiderare. Se ce la fai a farti la pista, se hai
recuperato i soldi in qualche modo, ti senti “a posto”, sicuro come un pistolero. Poi,
quando arriva il down hai paura di tutto e di tutti; specialmente che lei ti tradisca, che
se ne vada. La tua donna non ti può abbandonare, è questione d'onore. E l'onore è
tutto per un uomo.
Tre mesi di convivenza, tre mesi di liti e botte, di riconciliazioni, di amore fatto per
dispetto senza neanche riuscire a godere, che la coca esalta il desiderio ma non riesce
a portarlo a compimento. E lei sotto di lui che ogni volta si sente meno persona, un
buco usato con rabbia.
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E' forse in un momento così, sostiene Francesco, che lei lo ha chiamato “Ale”, il nome
del fidanzatino di Vanessa ai tempi della scuola. L'amore adolescente, quello dei baci
all'ombra di un arco nei vicoli arabi della città vecchia, quello mano nella mano,
quello della nostalgia. Il nome proibito, da cancellare dall'iPhone, dall'agendina, dal
diario, dai contatti facebook, da file e preferiti del portatile.
“Ale”, ha sussurrato lei mentre lui cercava di possederla, mentre lui si sentiva potente, il
padrone, l'uomo che domina, finalmente, la vita. “Ale”, e Francesco che, per
assomigliare a un uomo ha creduto bastasse sviluppare un mucchio di
muscoli in
palestra, va in frantumi. Se neanche la sua donna gli tributa onori e gloria allora è vero
che non vale nulla.
Ma i deboli non hanno strumenti per misurarsi con la sconfitta e Francesco reagisce
come sa, con prepotenza. Sbraita, dà in escandescenze, minaccia, insulta. Vanessa è
contrita, lo guarda con spavento, chiede scusa “Non volevo” ma Francesco è ormai
montato sul pianeta della collera e le sta addosso minaccioso. Lui smania, ulula e lei
non ce la fa a sentirlo, a sopportare tutto quel gridare insulti e cattiverie.
'Questa volta me ne vado”, pensa convinta, e si mette a cercare, concitata, i suoi vestiti
dentro il letto sgualcito, sulla seggiola, per terra.
Ma ha gli occhi pieni di lacrime e non trova niente, contribuisce solo a un po' più di
disordine. Chissà dove si sono nascosti le mutande, il reggiseno, il cellulare!?
Nuda sembra ancora più minuta, uno scricciolo squassato da singhiozzi, capelli
arruffati che, con piccoli gesti incerti, confusi, quasi un tic, cerca di scostare dalla
fronte, dagli occhi, dalla bocca ma è sudata e le ciocche continuano ad appiccicarsi sul
suo viso “Questa volta basta, questa volta è finita”, ripete come un mantra, cercando
di convincere se stessa, finalmente, a un gesto definitivo..
Lui è ancora sdraiato sul letto, la osserva con disgusto, ormai non è più la donna amata,
è solo una cosa che non gli appartiene più.
Un insetto fastidioso che bisogna mettere a tacere.
“Me ne vado!” è Vanessa adesso che urla, vuole che i vicini sentano e farcela davvero,
questa volta, a fuggire. Lui però l'afferrata, la getta sul letto.
Lei non ci sta, si alza d'impeto e va all'armadio, quasi strappa gli abiti dalle stampelle,
apre i cassetti e butta le cose per terra sino a che non trova e si infila le mutandine, poi
i fuseax, la maglietta con le paillette, le scarpe col tacco 12.
Dov'è il cellulare?! si chiede e si mette a carponi a cercarlo sotto i mobili, poi si alza e
scaraventa le cose di qua e di là in preda a un furore disperato.
Anche Francesco è in piede adesso, è nudo alle spalle di Vanessa. Mentre lei piange e
grida, lui, adesso, è freddo come una macchina, i gesti sono mirati e precisi.
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Afferra la scart del DVD, avvolge i due estremi nei pugni, stringe con forza il cavo tra le
dita e con un gesto rapido circonda con quello la gola di Vanessa e stringe, stringe,
stringe.
Vanessa ha bisogno d'aria, scalcia, si divincola, lo graffia in faccia, è una gatta
infuriata, è la vita stessa che lotta per non soccombere e le forze si moltiplicano. Ma il
cavo attorno alla gola è una lama che sega le corde vocali, il sangue pulsa nelle vene
come un boato, il cervello esplode in carenza di ossigeno, i muscoli si sfilaccino senza
più forza, il corpo si affloscia come una vela che ha perduto il vento.
Vanessa ha smesso di lottare e lui la getta sul letto che ormai è un groviglio di lenzuola.
Vanessa è una farfalla a cui un bambino ha stropicciato le ali e non può più volare.
Francesco è in una nuvola di perfetta lucidità, sa quello che deve fare. Si muove sulla
scena del delitto come un attore che conosce la parte che deve recitare.
Prima di tutto mettere ordine, perché, in realtà, non è successo nulla. Non è successo
nulla. Non è successo nulla.
Pulisce e si distrae da quella casa triste, da quella vita senza speranza, da quell'amore
che non si sa come afferrare, da se stesso che non riesce mai ad essere all'altezza dei
suoi sogni.
Poi un rantolo lo riporta lì, in via Gallina: è la cosa sbattuta sul letto che non vuole
morire. Francesco va in cucina, sotto il lavello c'è la varechina, poi va in bagno prende
un grosso batuffolo di cotone, lo imbeve di acido e ritorna in camera da letto, preme
forte sulla bocca e sul viso tumefatto di Vanessa la grossa compressa, sino a far smettere
quei rumori osceni.
Suona forte il cellulare di Vanessa. Francesco fa un balzo come se a urlare fosse stato il
demonio, ma riprende rapido il controllo dei nervi e si mette a cercare il maledetto
oggetto. Ah eccolo!
“Si?”. “Mi passi mia figlia”, chiede brusco Giovanni, il padre di Vanessa. “Non c'è,
aveva un colloquio di lavoro”, risponde Francesco, la voce è tranquilla, senza striature
di paura. “E lascia il cellulare a casa?”, insiste il padre sospettoso. “Lo avrà
dimenticato”, risponde sereno Francesco e chiude la comunicazione.
E adesso cosa ne faccio? Ormai è sera, non può tenere lì quella cosa. L'avvolge dentro
il lenzuolo, se la carica sulle spalle. Vanessa pesa come una farfalla ed è facile
scendere i tre piani della vecchia casa, anche se gli scalini sono ripidi. I vicini, hanno
sentito, hanno commentato ma non si affacciano alla porta delle scale. In fondo è un
po' che quei due pazzi hanno smesso di rompere con
i loro continui litigi.
L'importante è questo.
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Francesco appoggia il fagotto dentro il bagagliaio dell'auto e poi via, verso sud sulla
statale “agrigentina” sino al cavalcavia che sovrasta l'ex miniera di zolfo di Pasquasia.
Si ferma, prende il fagotto e lo butta giù e resta lì' a guardarlo ondeggiare nell'aria,
quasi esitasse a cadere, quasi un volo di farfalla.
Per la prima volta Francesco ha paura, l'incubo è qui e ha sconfitto la realtà. Francesco
la vede ritornare, volando, verso di lui, sorridergli con un ghigno crudele e sputargli in
faccia insulti e sangue. Un orrore che dura una frazione di secondo, il tempo
necessario a un piccolo corpo senza vita di donna, annodato dentro un fagotto, per
compiere un salto nel vuoto di molti metri e impattare, con un rumore sordo, attutito
dalle folte sterpaglie, a terra.
Solo allora Francesco entra in macchina, fa inversione e torna al paese.
La cosa da fare è fare finta di niente. Anzi , meglio, fare finta di essere in ansia per
Vanessa che non è ancora tornata dal suo appuntamento di lavoro. Per due giorni la
cercano i genitori, i fratelli di lei, gli amici della scuola, quelli su facebook, persino la
trasmissione Chi la visto?
Francesco si da' da fare più di tutti. Ma il primo a non credergli è il padre di Vanessa.
Poi è il suo stesso padre che va a chiedere aiuto ai Carabinieri perché il figlio, in stato
di agitazione, minaccia di suicidarsi. E' in astinenza da coca, ormai preda del panico e
vorrebbe soltanto che Vanessa non fosse mai esistita. Ma lei ritorna a volargli attorno
come un'arpia ferita. La vede dovunque congelata in un urlo muto e disumano
stampato sulla faccia, negli occhi, sulle mani.
Venerdì 28, nella tarda mattinata, le ricerche finiscono; il corpo è stato trovato a 15
chilometri da Enna, sotto il cavalcavia. E' avvolto in un lenzuolo che ormai è diventato
grigio. Una piccola mano fuoriesce da quel sudario tra i rovi.
I carabinieri sospettano di quell'uomo allo sbando ma Francesco cerca ancora di
resistere alla verità. Fino a che un carabiniere lo lusinga e lo intrappola: “Dai non ti
preoccupare! L'abbiamo trovata, è viva, è a casa”. “Non è possibile”, mormora, è ormai
solo un ragazzetto sconfitto che supplica comprensione: “Ho fatto una fesseria”,
confessa.
Il narrato è liberamente ispirato alle cronache apparse sul Corriere della sera, la Repubblica, Il Secolo XIX
dal 26 al 28 aprile 2012
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Non si uccidono così anche i cavalli?
Barletta 3 ottobre 2011
Urrà, urrà, urrà!!! Benvenuti alla danza del destino, signore e signori! Sì, perché si sa
quando comincia, ma non si sa quando finirà. E siamo appena all’inizio, gente! Solo
all’inizio.
Barletta 3 ottobre 2011. E' crollata come un biscotto, sbriciolata su se stessa e della
palazzina gialla di tre piani più seminterrato, del terrazzino con la tenda in tinta a righe
bianche e gialle, del refrigeratore dell'aria condizionata che gocciolava fuori dalla
finestra del primo piano, dei mobili vecchi e nuovi, dei ricordi, delle foto di
matrimonio e quelle delle vacanze, dei tesori privati che ogni appartamento nasconde
non è rimasto che un cumulo compatto di tufo e travi, un forte odore di metano e
polvere. Che è dappertutto, nell'aria, sulla strada, nelle case di fronte, sulle facce dei
soccorritori, sui capelli, nelle gole, negli occhi di chi è rimasta la sotto e vorrebbe
respirare, vedere la luce, muovere le gambe, le dita della mano. Ma non ce la fai, sei
immersa in un buio di pece, preda di un terrore totale che attanaglia i polmoni, spazza
via i pensieri e capisci, dal lancinante dolore del tuo corpo, che sei murata dentro
tonnellate di magma polveroso e affondi. A ondate l'incubo più antico e più crudele ti
scuote la ragione: sono sepolta viva!
Mamma, madonnina fa che qualcuno arrivi, che mi salvi, che mi tiri via da qui! Fammi
morire, subito, per pietà! E allora gridi gridi gridi sino a che non hai più voce; sino a
che le corde vocali prendono fuoco e bruciano le parole che si sbriciolano come carta
inaridita e non resta che l'orrore di un urlo muto.
Quando la polvere bianca si è diradata sotto il sole cocente del mezzogiorno è rimasta
in piedi solo una parete con appesi due crocefissi e l'immagine della Madonna dello
Sterpeto e, là sotto, forse ancora vive, sei donne e una bambina che non avrebbe
dovuto essere lì, ma a scuola.
A volte, però il caso sembra avere un'anima, capricciosa e maligna.
Barletta. Lunedì 3 ottobre 2011 - ore 7 La sveglia è alle sette, per chi lavora e per chi va a scuola. Per le mamme no, loro si
alzano prima, quando ancora le ombre non sono state vinte dal sole e, anche se è un
ottobre insolitamente caldo, fa quel freddo piccante, che sa di autunno. Le mamme
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devono preparare la colazione, decidere i vestitini dei bambini, svegliare il marito e i
figli, portare i più piccoli dalla nonna che fa da baby-sitter, i più grandicelli a scuola.
Anche Anna dà la sveglia a “Mati”, la sua Matilde che ormai ha 32 anni ma è pur
sempre la più piccole delle sue figliole, l'ultima rimasta in casa. Una ragazza che non
chiede niente, che lavora sodo, esce solo il sabato e la domenica e che se la merita un
po' di attenzione. Le ha preparato la scatola con il pranzo di mezzogiorno, non vale la
pena tornare a casa per un'ora sola di intervallo. Le polpette di melanzane Anna le ha
preparate la sera prima, qualcuna in più, anche per le altre che restano a pranzare in
laboratorio. Sono sul tavolo già confezionate in un pacchetto di plastica per alimenti,
con i tovaglioli per tutte. Sono sul tavolo vicino alla scodella della colazione, al pane
tagliato, al barattolo di cotognata fatta in casa che le piace tanto, il caffè è sul gas, basta
accendere il fuoco. Anna si avvia per il corridoio, sino alla stanza in fondo, due colpi e:
“Mati, è ora”, e ritorna in cucina dove il caffè già gorgoglia.
Matilde non indugia a letto, Matilde ha il senso del dovere e si alza e va in cucina. “Io
questo lavoro non lo voglio più fare”, borbotta quasi a se stessa. “Lo so, lo so e
speriamo che qualcosa si trova. Ma intanto, figlia mia, ringraziamo la Madonna che c'è
questo. Sai quante confezioni sono state chiuse a Barletta?!”. “Lo so”, risponde un po'
annoiata dalle solite repliche della madre alla propria insoddisfazione. Stare otto,
dodici ore in quel sottano proprio non lo sopporta più; non vuole tanto, almeno poter
guardare fuori da una finestra! Un lavoro da cinesi! Pensa con risentimento. E poi ci
sono le crepe che si sono aperte nei muri da quando sono iniziati i lavori nella
palazzina accanto, e gli scricchiolii che mettono brividi sulla schiena.
Con tre figli di 11, 6, 5 anni da accudire non ha tempo per pensare Mariella Fasanello,
solo di correre. Ma lei di energia ne ha da vendere e così sorride, persino mentre
scalda il latte, mette i calzini al maschio, lava le orecchie alla più piccola e ascolta la
radio: “Ancora una giornata di bel tempo” assicura l'annunciatrice. “Tanto la sotto il
sole chi lo vede!”, ma è solo un pensiero clandestino che le si è infilato per sbaglio
nella testa. Però non la manda giù la risposta che i tecnici del Comune e i VVFF, a dire
dell'inquilino del piano di sopra, avevano dato quando erano stati chiamati per
verificare la sicurezza della palazzina: “Non possiamo mica prevedere il futuro!”.
“Dai, sbrigati a preparare la cartella che arrivi tardi a scuola!”. “Smettila di giocare con
le scarpe, infilale una buona volta”. “Guarda che devo andare a lavorare, mangia il
latte e basta!”. Le solite cose di tutte le mattine, che tre bambini sono tanti e ci
vorrebbe la tata della Sette per tenerli a bada! Ogni tanto le prudono le mani, e qualche
scappellotto ben dato avrebbe voglia di darglielo, ma non ce la fa: urla, minaccia e
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poi...poi li abbraccia. Il grande va a scuola da solo, le piccole alla materna le porta lei,
prima di andare all'opificio.
Emanuela Angelillo non sa ancora quanto costa fare la mamma, si guarda la pancia che
adesso, a cinque mesi, si vede proprio, tonda come un palloncino. Quando sale in
macchina deve sempre combattere, non sa mai come posizionare, per non fare male al
bambino, la cintura di salvataggio. La fascia superiore sopra l'addome, quella inferiore
sotto la pancia, ripassa la lezione della ginecologa, ma si sente una salsiccia! Ride tra
se e lui: Ruggero, lo sai che la tua mamma è una salsiccia!? Già, perché è un “lui”.
Gliel'hanno assicurato dopo l'ecografia: “Suo figlio è maschio!” Emanuele, il marito,
quando sono usciti dalla clinica era alle stelle già si vedeva con il bambino allo Stadio
Cosimo Putilli a fare il tifo per il Barletta Calcio: “Perché anche se la tua quadra non
gioca in serie A ma nella Lega Pro, prima divisione, la passione è passione. E le Furie
rosse sono le meglio!”, e gli luccicavano gli occhi come quando fa l'amore.
I maschi restano sempre un po' ragazzi, pensa Emanuela con tenerezza. Nulla la tocca
in quel periodo, è troppo impegnata in un dialogo serrato con Ruggero. Da un po' si è
abituata a sentirlo muovere, ma la prima volta si era proprio commossa, e spaventata.
Chissà come sta là dentro al buio!? Meno male che è sospeso nell'acqua che è morbida
e senza spigoli.
“Nonna tra sei mesi, prima di compiere i 37 anni. Quasi da Guinness dei primati!”, ci
pensa più che spesso Antonella Zaza. Ma non ce l'ha con sua figlia che a 18 anni è già
incinta. E come avrebbe potuto?! Anche lei aveva fatto lo stesso. E sì che glielo aveva
detto: “Stai attenta che poi un figlio è per tutta la vita”. Ma i bambini le piacciono; era
stata uno dei periodi più felice della sua vita quando era nata sua figlia, così bella, così
sorridente, soffice come la panna, tenera come il burro e soda come il marzapane. Ma
sì, ce l'avrebbero fatta, come sempre. Lei Antonella non ha mai avuto paura di lavorare.
Alla maglieria ci dava anche 14 ore quando arrivavano le commesse, se era necessario.
Che lei non si lamenta di certo di quella fortuna, tanti ne aveva visti chiudere di
maglifici e tante donne rimanere a casa senza soldi per tirare avanti! E se la fame bussa
succede che i figli vanno a fare i manovali alla Sacra Corona Unita. Lei il lavoro lo ha
sempre tenuto, perché è brava e non teme di curvare la schiena. Sa tutto del mestiere, i
trucchi e la pazienza, non per nulla la chiamano “la veterana”. Per il carattere, sempre
disponibile, sempre pronta a dare suggerimenti, consigli, a sedare tensioni. Quando
qualcuno aveva ventilato l'ipotesi che i lavori di ristrutturazione della casa adiacente
avrebbero messo a rischi la stabilità del palazzo dove lavoravano lei aveva smorzato
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l'ansia di tutte con una battuta: Lo avevano detto cinque anni fa e il palazzo è ancora
lì!
“Accidenti a quelli del Comune”, borbotta tra sé Giovanna mentre cerca di infilare le
scarpine ai piedi di Rosanna che fa i capricci e non ne vuole sapere. Rosanna ha tre
anni e mezzo e l'argento vivo addosso. Proprio come Pasquale dice di lei. Giovanna ha
30 anni, uno meno di Pasquale, suo marito. Sette anni di convivenza e tre di
matrimonio, ma si vogliono sempre un gran bene anche se vivere non è facile e ci
vuole fatica. Si sono sposati dopo che è nata la bambina, l'hanno fatto per lei, se fosse
stato per loro avrebbero aspettato ancora un po', quando non fossero stati così stretti
con i soldi. Che un matrimonio costa, specialmente in meridione dove non puoi
sposarti alla chetichella: i genitori, due testimoni e via in viaggio di nozze. Qui devi
fare la cerimonia, devi comprare l'abito bianco, devi invitare almeno tutti i parenti al
pranzo e al sud i parenti sono tanti! Lei e Pasquale stavano pagando ancora le rate del
matrimonio. E poi c'era l'asilo per Rosanna, i vestitini, la luce, il gas, un sacco di robe
e, se non ci fosse stata quella buona anima di Salvo, il padrone della confezione, che
pagava tutti i mesi e anche la tredicesima e dava persino le ferie pagate, chissà che fine
avrebbero fatto loro! Altro che scarpine nuove per Rosanna! Certo, lavorava in nero e
assegni niente, ma intanto basta che ce l'abbia l'uomo gli assegni e, grazie a Dio,
Pasquale ce li aveva: poi lei era abituata a faticare, e ferma non ci sapeva stare. Con
quelli pagavano il mutuo, perché avere la casa di proprietà è tutto. Finalmente ce l'ha
fatta a infilare le scarpe a Rosanna, adesso tutte e due sono pronte per uscire. Giovanna
pensa al vestito che indosserà domani sera per l'addio al celibato di Anna, sua cognata.
La bambina andrà dai nonni, è già tutto sistemato.
Tina ha in testa solo l'abito da sposa. Ha avvertito Angela, la proprietaria della
confezione, che nel pomeriggio sarà assente, deve andare con la madre Concetta a
sceglierlo. Ci vuole la mamma quando si prova l'abito bianco! Lo vuole elegante, con i
pizzi e un po' di strascico, come quello di Chaterine Middleton, la moglie del principe
William. Vabbè, anche se non sarà proprio uguale non importa, ma in quello stile lì,
semplice ed elegante. Non vede l'ora di comprarlo per poi descriverlo alle amiche del
maglificio, raccontare dove lo ha comprato, cosa ha detto la commessa,
quale la
stoffa, come i pizzi e loro l'avrebbero presa in giro, bonariamente. “Uffa Tina, ma
proprio non riesci a parlare d'altro?” e avrebbero messo su il CD con quella canzone di
Tiziano Ferro che le piace tanto, così, tanto per farla felice: Voglio farti un regalo/
Qualcosa di dolce/Qualcosa di raro /Non un comune regalo/Di quelli che hai perso/O
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mai aperto/O lasciato in treno /O mai accettato/Di quelli che apri e poi piangi/Che sei
contenta e non fingi/In questo giorno di metà settembre/Ti dedicherò/Il regalo mio più
grande.
Tina Ceci, 37 anni, si sposa finalmente! Ha invitate tutte le amiche.
“Ha occhi bellissimi ma mi saluta appena”, scrive Maria, in fretta, con una scrittura
minuta, per fare stare tutto il suo cuore su una pagina di un Diario piccolo piccolo.
Perché i segreti devono potersi nascondere e un diario, a 14 anni, è più della amica del
cuore. Lo infila nello zaino, ben in fondo che non si veda. Non che non abbia fiducia
nella sua mamma, ma ci sono cose che una ragazzina ha voglia di tenere per sé, è un
modo per diventare grande. Un saluto rapido a quel rompi del fratellino, Angelo ha 8
anni e le starebbe appiccicato come un francobollo! Un bacio frettoloso alla mamma
che le ricorda: “Guarda, che stamane vado con papà a Andria dalla nonna, per vedere
come sta dopo l'operazione. Forse arriviamo per pranzo, o magari no. Comunque
andiamo di filato in bottega, hai capito!?”. “Ma si, me lo hai già detto!”, replica
sbuffando ed è già fuori dalla porta, ha già inforcato la bicicletta e pedala veloce,
scartando abile le macchine parcheggiate in terza fila, verso la sua scuola, il Liceo
Psicosociopedagico Alfredo Casardi.
Maria Cinquepalmi è la figlia dei proprietari della confezione di via Muro Spirito Santo.
Barletta - Ore 12 Le donne sono al lavoro, chi al telaio del maglificio, chi alla confezione a tagliare i fili
sporgenti, applicare le etichette, piegare le maglie e le felpe, imbustare, accatastare. A
fare insomma tutte quelle cose “inutili”che le macchine non sanno fare. I consulenti del
lavoro lo chiamano esternalizzazione, o outsoursing che in inglese suona meglio, ma,
in realtà, è un lavoro da schiave, ripetitivo, ingrato, alienante. Ma alle rivendicazioni
sindacali non ci pensano, meno che mai ora, che di lavoro ce n'è poco e concorrenza
tanta. E poi, sono giorni, che hanno la mente solo ai rumori che provengono dei muri
della casa, rumori maleducati. Da quando hanno ricominciato a scavare per rimuovere
quello che resta della palazzina a fianco sono ricominciati gli scricchiolii e, almeno
così sembra loro, le crepe si sono allargate. “ Ma quando dovevano venire quelli del
Comune a fare le verifiche?”, chiede Antonella interpretando ad alta voce il pensiero di
tutte. “Domani ho sentito dire”, ribatte Giovanna senza alzare gli occhi dal lavoro. Non
le vuole neanche vedere le crepe, ma un tremito le attraversa la voce. Poi di nuovo
silenzio, hanno spento anche la radio tanto tra poco se ne escono a vedere il sole.
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Barletta – ore 12,25 Maria ha appena aperto la porta d'ingesso, ha mollato lo zaino per terra e sta correndo
nel sottoscala per farsi coccolare dalle “ragazze” che lavorano per la sua mamma. E'
contenta perché è uscita un'ora prima da scuola, mancava un professore. Non fa caso
agli scricchiolii, non vede le crepe, ha il cuore in festa e allora non ci si guarda attorno.
Ansima, ha il viso arrossato dallo sforzo perché ha fatto tutta una corsa. E comunque
non avrebbe avuto il tempo di tornare indietro, di scappare. E' accaduto in fretta. I muri
si sono aperti come uno strappo e il tufo si è sgretolato.
Una coppia che sta parcheggiando l'automobile vede cadere sul cofano della loro
vettura i primi calcinacci. Non ci stanno su a pensare, aprono le portiere, scappano.
Appena in tempo per salvarsi e
vedere la palazzina afflosciarsi su se stessa. Un
passante che ha assistito al crollo è stato colto da malore mentre una polvere bianca e
densa, come la nebbia a Pavia, si è sparsa dappertutto, copre le macchine, i terrazzini, i
marciapiedi, le persone. Si posa sui capelli, negli abiti, entra nella gola e fa mancare il
respiro, entra negli occhi e il bruciore acceca.
Quando la polvere si dirada appare un cumulo compatto di macerie.
Chi è rimasto sepolto la sotto?! E' questa la domanda, ma nessuno lo sa. Ci sono tre
appartamenti, ma gli inquilini forse non erano in casa. Qualcuno dice che nello
scantinato c'è un opificio, una impresa familiare. E c'è chi mormora che ci lavorino
anche delle operaie. Forse dieci donne.
Nell'aria un forte odore di gas. Qualcuno ha cominciato a scavare, a mani nude.
Barletta - ore 13 Arrivano il 118, i vigili del fuoco, la polizia, i carabinieri, i finanziari, gli uomini della
protezione civile, i militari del'82esimo reggimento fanteria “Torino”, i reduci
dall'Afghanistan con l'elmetto.
Anche i vigili del fuoco scavano a mani nude.
Sono arrivati i giornalisti, i fotografi, i curiosi, il sindaco e i consiglieri comunali.
Fa un caldo canicolare.
La sotto, sotto le tonnellate di macerie di una casa di tre piani che si è sciolta e ha
trascinato con sé travi, mobili e suppellettili, ci sono delle donne che dopo lo choc di
quella immane frana si stanno ridestando a un “indistinto senso di esistere”. Un
approdare alla coscienza che le sommerge in un oceano di orrore. Un grido terribile,
disperato, che sale dal profondo dell'anima e che vorrebbe risalire al cielo ma la gola è
una grattugia, la bocca è un impasto di gesso spesso e dolciastro e non esce nessuna
voce. Non vorresti aprire gli occhi, perché non vuoi vedere, non vuoi sapere. Ma gli
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occhi bruciano tanto che pensi che qualcuno ti abbia gettato addosso acido corrosivo
e allora ci provi a sollevare le palpebre. Non c'è che buio e gli occhi esistono solo per
il dolore acuminato che trasmettono al cervello. Allora è con impeto che provi a
muovere le mani ma non ce le fai. Non ce la fai a sollevare fino agli occhi le tue mani!
Sono serrate dentro manette fatta di pietra
e il cervello va in frantumi e la paura
divampa come nessuna parola potrà mai raccontare. Ma non svieni, anzi la mente
torna di una lucidità insopportabile, sai dove sei: sepolta sotto metri cubi di macerie. Il
corpo è un ammasso di sofferenza, qualcosa ti pungola proprio sopra la coscia, più il
tempo passa e più ti pare di avere un pugnale che qualche sadico affonda, molto
lentamente, nel tuo fianco. I pensieri si accavallano, si rincorrono veloci e nitidi. Sanno
che sono qui, mi verranno a prendere, devo solo resistere. La mia bambina, la mia
bambina! Mamma aiutami, ti prego mamma! Non riesco più a respirare! Un liquido
caldo ti scorre tra le gambe e quel ruscellare esaspera la percezione dell'arsura che hai
in gola, una gola secca e ruvida come una lima. Arrivano rumori dall'alto. Qualcuno
scava! Fate in fretta, fate in fretta, io soffoco! Madonnina dello Sterpeto aiutami! Devo
stare calma, stanno arrivando, li sento scavare, è arrivato persino un refolo di aria.
Allora ti concentri sul fatto di respirare, anche se il fiato sembra arrancare come una
vecchia berlina in salita. Cerchi di dare un ritmo al respiro, di calmare il tuo cuore che
sembra voler uscire dal petto insieme ai polmoni in cerca di aria.
Barletta – ore13,40 L'odore di gas è fortissimo. C'è la conferma che le tubature del gas si sono
rotte. Intrappolato sotto le macerie è rimasto un numero imprecisato di operaie, alcune
delle quali rispondono ai richiami
dei soccorritori. Lo si è appreso da un medico
anestesista che è sul posto insieme ai vigili del fuoco.
Barletta - ore 13,50 "Passavo da via Roma quando il palazzo è venuto giù e con gli altri ho cominciato a
scavare con le mani", racconta ai giornalisti il panettiere Roberto Sansone. E' lui che ha
trovato Emanuela Angelillo, “ Aveva la gamba incastrata da una trave, sono riuscita a
liberarla e poi, tutti insieme, l'abbiamo portata fuori”. Racconta a frasi concitate,
sopraffatto dall'emozione genuina di chi ha incontrato la vita sotto quel disastro.
Emanuela è sotto choc ma, a parte un trauma facciale, sta bene. Anche il bambino sta
bene. Mentre la donna viene imbragata e trasportata all'ambulanza che la porterà
all'Ospedale i giornalisti, che hanno individuato il marito, gli chiedono quasi urlando
per superare il vocio dei soccorritori, “Sapevate che la palazzina rischiava di
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crollare?!”. “Le autorità ci avevano rassicurato, nessuno ci ha detto che eravamo in
pericolo”, e poi sparisce dentro l'autoambulanza.
Intanto è arrivata una ruspa per accelerare le ricerche. Perché ormai è sicuro, là sotto ci
sono quattro donne e una bambina di 14 anni. I padroni del maglificio, Angela e Salvo
Cinquepalmi, invece sono salvi. Sono qui a assistere impotenti alla macerie delle loro
vite. Perché la sotto c'è più di tutto, il lavoro, quattro donne con cui hanno condiviso la
fatica, i modesti guadagni, il futuro. E la sotto c'è anche Maria. “No, Maria NO!”, recita
ossessiva, senza lacrime mamma Angela. “Gesù, Madonna mia, Madre santa fa che
non sia la sotto, ti prego fa che non ci sia”!.
Sono arrivati anche gli inquirenti. Il procuratore Carlo Maria Capristo, il Pubblico
ministero Giuseppe Maralfa e l'assessore regionale Elena Gentile.
I soccorritori sono coperti di polvere, tutti di sudore. Mai visto un ottobre così caldo.
Barletta – ore 14,51 Il responsabile dell'Eni assicura: “ La causa non è la fuga di gas”.
E chiude,
definitivamente, l'erogazione di gas. Intanto i soccorritori hanno organizzato una
catena umana per portare via i calcinacci, E' arrivato il prefetto Carlo Sessa. Corre la
voce che i soccorritori siano in contatto con le donne sepolte vive, una ha risposto al
cellulare. Si continua a scavare con le mani.
Barletta - ore 16,27 Un bastardino nero annusa tra le macerie. Sale, poi scende, si ferma, scodinzola
sempre nello stesso punto.
Accanto a lui, un uomo in pantaloni gialli e maglietta
azzurra. L’uomo, Lello Amantino, gocciola sudore impastato a polvere: il suo cane ha
trovato qualcosa, segnala ai soccorritori che accelerano i gesti. Si toglie una pietra dopo
l'altra, pezzi di tufo dopo pezzi di tufo. Il cane si agita, continua ad indicare un luogo
ben preciso, una zona vicina all’area dove una volta, non più tardi di qualche ora
prima, c’era il marciapiede. Il cane nero è lì: scodinzola e corre avanti e indietro per la
strada. C'è qualcosa la sotto.
Da Bari, intanto, sono arrivati i reparti cinofili.
Barletta - ore 17 Hanno trovato uno zaino sporco di sangue. “ Lo zaino lei lo posava sempre dentro,
all'ingresso, accanto alla porta e poi usciva”, dice come a se stessa Angela. Deve
sperare, perché così la tiene in vita la sua bambina. “Oppure raggiungeva le ragazze al
piano di sotto”, la speranza è come un filo di ragnatela, basta un soffio di vento e si
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spezza. La signora dagli occhi chiari e la maglietta a righe verde e blu riprende la sua
disperata litania, “ La mia bambina, la mia bambina!”. Quella verità lei non la vuole
sapere. Si lascia abbracciare dallo psicologo che mente per portarla alla spietatezza dei
fatti un poco alla volta, di modo che il cuore non si squarci come le crepe che hanno
distrutto la palazzina di tre piani.
Bugie pietose che non salveranno Maria. Il suo cadavere è vicino alla zaino.
Ci sono ancora cinque donne sotto le macerie.
Un infermiere del 118 grida: “Silenzio! Ho sentito una voce”.
Barletta - ore 19,35 Hanno appena estratto da sotto le pietre e i calcinacci una donna. Ha i capelli e il viso
bianchi di polvere, ma è viva. E' lei che ha risposto al cellulare. Sono passate sette
lunghe ore, si è salvata perché è stata protetta da un vecchio arco. “Mi è cascato il
mondo addosso”, dice, con frasi smozzicate ai soccorritori. Cerca con parole che le
sembrano tutte insufficienti di trasmettere a qualcuno che è vivo tutto l'orrore che ha
provato, che forse non riuscirà mai a spiegare nella sua feroce lucidità. “Ci siamo
accorte delle crepe sulle parete, sul pavimento. Le ragazze si sono alzate per scappare.
Io ero vicino al bagno, d'istinto mi sono accucciata sotto l'arco ed è venuto giù tutto.
Pensavo che nessuno mi avrebbe trovato, che non fosse possibile. Poi ho visto la luce”.
Ma non ha tempo per sé, ci sono ancora le altre la sotto. Le ha sentite urlare, poi
gemere, poi non sa.”Scavata là” ordina, prega i soccorritori che facciano come dice lei,
che ha capito dove sono le altre. Mentre già gli infermieri la stanno portando via
continua la sua accorata supplica. “Scavate lì. Scavate lì”.
La folla l'ha vista: “E' viva!” e applaude, sorride, spera.
Respirare sarebbe necessario, ma sotto quel buio non c'è aria. La mente è spossata e
ogni tanto cede al deliquio che, pietosamente, la trasporta nel mondo del nulla. Poi la
riporta indietro l'annaspare dei suoi polmoni in cerca di aria. Sente rumori che
sembrano voci. Sono voci. Acqua, per piacere, datemi dell'acqua. Qualcuno la chiama,
urla il suo nome. Quel cumulo di dolore che sono ha un nome? Si chiede e si aggrappa
a un lembo di coscienza. E' dentro un gigantesco ventre matrigno che non le permette
di uscire alla vita. Un breve attimo di speranza che ravvivare l'orrore che ormai ha
fatto il nido nella sua mente.
Barletta - ore 21,32 Hanno portato delle potenti fotoelettriche che hanno trasformato il luogo della tragedia
in una sorta di spettacolo macabro. Con spettatori, soprattutto donne. Sono stipate sui
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balconi che si affacciano sulla tragedia e da dove arriva un borbottio sommesso:
pregano. Pregano la Madonna dello Sterpeto che è rimasta appesa sull'ultima parete
ancora in piedi. Come uno scherzo, come un abbaglio.
Si continua a scavare. Si lavora per estrarre un'altra donna che, sembra, fino a poco fa
a risposto ai soccorritori. Lo spettacolo è surreale, irritante e commovente.
Barletta – ore 22,10 Le hanno trovate. Prima Antonella, poi Giovanna. Le hanno trovate i soccorritori
scavando da un cunicolo parallelo a quello principale per evitare ulteriori frane. Le
operazioni di soccorso si fanno concitate. Qualcuno sostiene che sono vive, che le
stanno rianimando, che sono spirate appena estratte dalle macerie, che non ce l'hanno
fatta.
Una cosa è certa nessuno ha più la forza di applaudire. Si respira la morte.
Ancora due operaie mancano all'appello.
Barletta – 23,21 Hanno trovato Matilde.
Barletta - 0,30 L'ultimo, povero corpo estratto è quello di Tina. Che non ha comprato l'abito da sposa.
Bari 4 ottobre.
Le hanno messo in fila sui tavoli di marmo gelido dell'obitorio del Policlinico di Bari.
Giovanna, Matilde, Tina, Antonella e un poco più in là la piccola Maria. Alle 14, il
magistrato ha dato il via libera e i parenti sono scesi a gruppi, abbracciati fra loro. La
donna dagli occhi chiari non ha più speranze, il suo è un monologo che ripete la stessa
insopportabile frase: “E' troppo, è troppo”. Il marito, il padre di Maria cantilena: “E'
colpa mia, è colpa mia. Dovevo esserci io la sotto”. Poi, all'uscita esplode il lamento,
un urlo di puro dolore. Il marito di Tina, un ragazzo magro, nero di capelli, vacilla e lo
devono soccorrere. Tre persone devo essere sedate. La zia di Antonella ferma i
giornalisti come una supplice: “Mia nipote è morta soffocata, era gonfia, aveva il collo
e il viso viola. Aveva il terrore negli occhi. Occhi spalancati, pieni di paura”
I risultati dell'autopsia diranno: Le cause della morte sono state evidenziate dalla
perizia svolta dal medico legale del Policlinico di Bari, Francesco Introna, incaricato
dalla Procura di Trani di fare luce sui decessi. Stando ai primi risultati degli esami svolti
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dal professore quattro vittime del crollo sono morte per “lesioni contusive multiple da
grande traumatismo”.
E' quanto sarebbe stato accertato dalle 'virtuopsie' (una nuova tecnica sperimentata per
la prima volta proprio a Bari) sui corpi. Per la quinta vittima, Antonella Zaza, sarà
invece necessario compiere l'autopsia tradizionale. E' morta dopo dieci ore sepolta viva
in una bara di tonnellate di macerie?!
Ma non eravamo in qualche periferia del mondo, non c'era neppure il terremoto, e
neanche era esplosa la bombola del gas. La palazzina tra Via Muro Spirito Santo e via
Roma a Barletta è a pochi metri dalla centralissima Aldo Moro. Lo scavo che ha fatto
franare la struttura è stato compiuto al di sotto del piano stradale, nell'area, situata tra
una palazzina già messa in sicurezza perché ritenuta pericolante e quella crollata. Le
operazioni di scavo erano riprese, dopo un anno, proprio venerdì; si doveva abbattere
una parete confinante con uno dei muri della palazzina. Quello stesso venerdì gli
abitanti dei tre appartamenti della palazzina, che avevano visto aprirsi strane crepe nel
pavimenti e nei soffitti, avevano chiesto al Comune e ai VVFF un sopralluogo per
verificarne la stabilità strutturale. I tecnici che, venerdì 30 settembre 2011, si erano
presentati per i controlli avevano rassicurato gli abitanti, garantendo un ulteriore e più
approfondito esame il martedì successivo senza revocare, per precauzioni, gli scavi.
Io non so se queste donne hanno parlato, pensato e sperato come è scritto in questa
storia. Sono, però, convinta che quelle quattro operaie e una bambina non avrebbero
dovuto rimanere sepolte sotto metri cubi di tufo perché qualcuno voleva costruire due
piani in più e se ne è fregato di verificare la staticità dai palazzi confinanti e chi doveva
controllare non ha controllato, per incuria, per disinteresse, per abitudine. E che infine
sono morte in un sottoscale per un lavoro di 3,95 euro all'ora, per un subappalto di un
subappalto. Che importa ai grandi nome delle griffes se qualcuno muore; che importa
se pagano 10 quello che poi loro vendono a mille, tanto. a sporcarsi le mani ci sono i
terzisti e i sub terzisti e quelli che vanno a fare i sub sub terzisti in Romania. Salvo e
Angela almeno il made in Italy lo facevano in Italia con mano d'opera italiana. Donne
naturalmente, perché valgono di meno e lo pensano anche loro che “tanto basta il
marito con gli assegni”. Lo pensano perché di quei soldi la famiglia non può fare a
meno, perché questo porco lavoro da catena alla cinese lo hanno chiamato flessibilità
d'impresa. Suona elegante, pulito, globale. La fatica non la vede nessuno, è nascosta
nei sottoscala. La flessibilità, il più delle volte è donna, sono loro ad essere più duttili e
più economiche delle macchine.
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È dura, è vero, ma viviamo in tempi duri! Per dirla col nostro grande Presidente
Herbert Hoover: "La prosperità è qui dietro l’angolo!" E noi come la salutiamo la
Depressione? Ecco come la salutiamo, la Depressione! Coraggio, dateci sotto, gente!
Dateci sotto!
l fatto avvenuto nel 2012 è stata ricostruito dai giornali dell'epoca, i dettagli non rivelati dalle cronache sono
immaginari.
L'incipit e il finale sono tratti da Non si uccidono così anche i cavalli? Film del 1969 diretto daSidney Pollack.
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Lègami
Roma 10 settembre 2012
“Dell'erotismo si può dire che è l'approvazione della vita fin dentro la morte”.
Sento così intensamente il senso di questa frase di Bataille che ne ho paura. E la paura
mi attrae; come la guerra il soldato, come il martirio il santo.
A farmi male l'ho appreso da sola.
Avevo 12 anni. Quando mia madre usciva per andare al lavoro entravo nella sua
stanza. Mi ci trascinava un solletico dentro il bassoventre che cresceva fino a dilagare
su tutta la pelle.
Chiudevo la porta e mi spogliavo davanti allo specchio grande dell'armadio della
camera matrimoniale. Sceglievo tra le cinture di mia madre quelle che mi sembravano
più adatte a legare i seni, a trapassare il sesso che diventava rosso, e, infine, color
inchiostro. Le mollette da stendere pinzate sui capezzoli, a coppie di due.
Non potevo fare diversamente.
Più le corde entravano dentro la pelle, più mi liberavo dal peso della terra e veleggiavo
tra mareggiate di piacere. Partivano da dentro le cosce e si spandevano, a ondate, sino
a che non ero che carne e sesso. Carne che si tendeva, si irrigidiva dentro le cinture di
mia madre per farsi penetrare di più, e riconoscermi. E, subito dopo, smarrirmi, in
bilico tra la vita e la morte, nell'estasi di un enorme singhiozzo.
L'eccesso del mio desiderio mi intimoriva. Quando rientravo da quella sorta di trance,
provavo vergogna di me stessa e mi toglievo le cinture. Mi rivestivo in fretta, con un
sapore di peccato addosso che gelava il sangue ed esaltava il bruciore delle striature
rosse sulla pelle. Che perdurava a lungo, come una lieve escoriazione, come mani che
continuavano a toccare, come nostalgia di un appartenere.
Avevo capito che per soddisfare il desiderio che mi possedeva, così più potente di me,
dovevo “contenerlo”, dovevo farlo soffrire. Il mio era il piacere della vittima.
E' stato allora che
ho cominciato a
ingrassare, per difesa credo. Tra me e gli altri
dovevo interporre un quintale di carne, il mio spazio di sicurezza. Ogni chilo spalmato
sul corpo mi dava piacere, e vergogna. Ogni giorno diventavo più morbida; ogni giorno
la pelle si tendeva, diventava più lucida, come massaggiata nell'olio. Come un invito a
mangiarmi. A punirmi.
La natura del
mio desiderio mi concedeva solo la possibilità di trasgredire, o nella
santità o nella perversione.
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Ho iniziato con la santità, che poi è la trasgressione estrema.
Ancora non sapevo; semplicemente non conoscevo un altro modo per soddisfare il mio
desiderio di infinito. Esagero? Eppure era questo che pensavo. E poi mi piaceva
“mettermi al servizio”, dilapidare una parte di me. Lo facevo “per amore” di Gesù. Lo
guardavo sanguinare appeso alla croce e avrei voluto essere lui. Puro e martire.
“Poverina, è così grassa!”, mi compativano all'Oratorio, non arrivavano a capire che ne
avevo fatto una qualità. Qualcosa che mi metteva fuori misura, fuori dai canoni della
banale bellezza. Non potevo accontentarmi di essere carina; modellavo il mio corpo
come un artista, a mia immagine e somiglianza: una bimba.
Di me, che amavo la notte e lo squallore, dicevano che ero solare: una parola che
detesto, che non vuol dire niente, un complimento che si fa alle donne, soprattutto
quando sono morte. In realtà, nessuno ha veramente cercato di conoscermi, nessuno
mi ha veramente guardato.
Vivevo nell'ombra della donna cannone. Lei sì che era una bravissima ragazza: seria,
vivace, intelligente, socievole, servizievole. Infatti, mi emozionava ogni esercizio di
sottomissione.
Non so dove ho ascoltato questa frase o se l'ho letta da qualche parte, ma mi ha colpito
come una fucilata: “la donna è nata per essere violata”. Mi rombava nella mente,
stordente come il mio desiderio.
Ero tentata da due direzioni contrarie, entrambe violente: perdermi o restare. Ma prima
di tutto, dovevo capire il mio demone, quel piacere indegno che nasceva dal desiderio
di essere usata sino al dolore. Non era il sesso a tentarmi, era qualcosa di molto più
visivo e contorto, più articolato, punitivo, diffuso; certamente masochista, sadico
anche, giocato su moltissimi piani, a incominciare dalla mente.
Era il desiderio del desiderio ha farmi bagnare le mutande, era il desiderio dell'altro,
era il suo sguardo, era che volesse la mia anima in uno modo così rapace da
costringermi alla castità. Volevo la gloria del martirio e farmi assorbire nel grembo
oscuro dell'universo, dove la morte non esiste e non esiste l'io ma un noi che sprigiona
energia creatrice. Ero pazza perché non sapevo.
Mi vergognavo dei miei pensieri e ho rischiato di smarrirmi. Mi sono sentita sbattuta,
come un ulivo nel vento, da rapide oscillazioni d'umore; soffocata da un sentimento
lancinante di vuoto, lacerata tra la voglia di fuggire da ogni confronto e misurarmi nello
scontro più selvaggio. Una sofferenza
incontenibile mentre il pensiero si annodava
attorno a una idea unica e bellissima: morire.
Ormai avevo lasciato il mio piccolo paese, la sicurezza delle cose note. Ero a Roma
capitale, corso di laurea in giurisprudenza. Tutti in famiglia erano certi che sarei stata
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un grande avvocato, avevo una dialettica brillante. Ho imparato, invece, che preferisco
il silenzio alle parole. Magari con un bavaglio sulla bocca.
Osare scrivere il mio desiderio mi eccita. Aveva detto il Master: “Non voglio le tue
parole, scrivimi la tua anima”.
Ma è più difficile di quanto immaginassi. Si può mentire anche a se stesse.
A Roma ero sola e libera ma provavo piacere unicamente nella schiavitù, nello
struggimento dell'attesa. Mi buttavo via.
Un lui arrivava, mi prendeva senza chiedermi niente, senza chiamarmi per nome.
Scavava il mio sesso, lo riempiva, ci esplodeva dentro e se ne andava lasciandomi un
desiderio più lancinante di cento colpi di frusta. E' allora lo imploravo: feriscimi, hai
bisogno di sangue.
Ma come spiegare a un coatto di periferia quali raffinatezze ambivano le mie cosce
bianche, il mio sedere carnoso, le mie braccia piene. Se capiva qualcosa o fuggiva a
gambe levate o mi rivoltava sul dorso e mi prendeva da dietro per non vedere la mia
faccia insoddisfatta sborrando dentro di me, ululando come un cane smarrito.
Mi sono regalata a molti senza provare piacere, un po' di umiliazione forse, ma roba da
provincia. Non mi restava che la solitudine.
Il piacere per me viene dal dolore non dal sesso. Gli umori, odori, sapori, sudori, i
sospiri del letto non mi attraggono è la volontà che c'è dietro che
mi chiama. Mi
facevo usare perché cercavo, senza sapere né dove né come, l'arte del piacere.
Bimba, adesso, nel mio mondo, mi faccio chiamare così.
Una Bimba che ha trovato il “suo” Papà. E quando mi ha regalato la collana di corda
mi sono trovata.
Il più raffinato dei piaceri è la castità, la più lacerante estasi è il dolore, la gloria del
colpevole è la sua maledizione.
La prima volta che mi hai legata è stata come mi avessi deflorata vergine. E' stato un
precipitare nella scoperta di me. Nuda ti guardavo accarezzare le corde come fossero
stati animali da educare, mi sfioravi con la punta delle dita e stringevi legàmi
indissolubili. Il nodo che mi invadeva il sesso era duro e aveva la forma di un fiore; due
corde ravvicinate segnavano un originale decolté e strizzavano i miei capezzoli; una
ragnatela di cime morbide e salde penetrava nelle mie carni che desideravano solo
accoglierle, le mie mani legate dietro la schiena.
Ero totalmente indifesa e ricolma di gratitudine; avevo fede in qual papà che
accarezzava corde di canapa che mi avrebbero avvolto così stretta da concedermi
l'abbandono totale e costringermi all'estasi. A perdermi dentro di me, dentro di te.
Perdermi e basta.
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Quando mi hai slegato ho provato una grande malinconia per le corde.
Mai ero stata così nuda, così esposta, così a disposizione.
Dopo, quando ho osato guardare i segni sul mio corpo, ho pensato che erano belli e
che avrei voluto poterli mostrare. Avrei voluto uscire in strada perché tutti sapessero: io
appartengo.
Le corde mi salvavano. E poi?! Poi tornavo alla mia vita e soffocavo.
Ma ti incontravo di nuovo, e questo mi bastava. Avevo trovato il mio artista. Il mio
corpo si adattava perfettamente alla catene; non era più eccessivo, era materia
plasmabile. Impigliato nella rete liberava la mia mente che cavalcava territori ignoti.
Intatta scivolavo e affondavo in una gloria di latte e miele.
Difesa da me stessa mi trovavo.
Al Nirvana ci sono arrivata a piccoli passi. In principio c'è stato l'amore per la
fotografia, poi le notti a parlare, a dire quello che non avrei mai neanche osato pensare.
Con te tutto era semplice. Nel tuo mondo avevo trovato il mio.
Potevo andare da sola.
Ma, a volte, mi sorprendo a interrogarmi: sono io questa?! Oppure cerco di
nascondere, con un viaggio nel buio, un bisogno disperato di non essere dimenticata?!
Cosa sono disposta a fare per farmi amare?! Per non rimanere senza carezze, sia pure
di corde?
Mi sono fatta giocare mentre pensavo di stare al gioco, per sembrarti diversa, unica,
speciale? Per tenerti per me.
E invece devo attenermi alle regole del nostro gioco, lasciarmi sperimentare con te, con
un'altra, con altri? E' questo che voglio davvero?! O voglio te, e sono disposta a tutto. O
cerco d'altro. Un salto, un buio, un nulla.
L'appuntamento è per questa sera. Io, tu e quell'altra. Giocata a tre sul filo della morte.
No, io e lei sulle corde e te a guardare la tua opera. Chi di noi si salverà? Non tu. Non
io che ho scelto di fare l'equilibrista per guardare in faccia l'altra mentre tu ti compiaci
della tua opera. Un po' come dio che ha creato le farfalle e gli uomini per lasciarli
morire.
Ti farò godere mentre sono in bilico tra l'odio e l'amore? Mentre mi umilio per
diventare una regina? O sarò solo un'impiccata che non può neppure scalciare anche
se le manca il respiro?
Sai cosa ho capito? Che è con la morte che parlo, è lei che cerco di sedurre, è lei che
mi deve amare. Oppure è che per marchiarti a fuoco, per rimanere l'unica farfalla della
tua collezione devo inchiodarti al mio destino?
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Non voglio farti del male. Ma è che questa notte ho paura. Mi sento debole, sento che
mi pesa il cuore, potrei non farcela ad essere all'altezza dei tuoi desideri. Per questo mi
gonfio di adrenalina, come una guerriera che sta per andare in battaglia. La mia vita
nelle tue mani. La tua nelle mie.
Kinbaku-bi, la schiavitù è bellezza. Me lo hai insegnati tu.
Questa sera verrò.
Roma, 10 settembre 2011 .
da Il Messaggero “ Una studentessa universitaria di 24 anni è morta soffocata e un'altra
di 23 è all'ospedale in gravi condizioni, dopo essere state legate con delle corde
durante un gioco erotico giapponese. Tutto è avvenuto in piena notte nel garage di un
complesso di uffici pubblici della Agenzia delle Entrate alla periferia di Roma, dove
lavorava la ragazza ricoverata. Le giovani erano in compagnia di un ingegnere romano
di 42 anni, che è stato arrestato con l'accusa di omicidio volontario. Le ragazze, erano
appese con una corda legata al collo e fatta passare sopra a un tubo del soffitto, con un
meccanismo simile a quello della bilancia, secondo le regole dell'antica arte
giapponese: lo Shibari.
L'ingegnere, come hanno ricostruito gli agenti della squadra mobile, ha immobilizzato
le donne , seminude, consenzienti, secondo l'arte giapponese delle legature. Dopo aver
passato una corda da rocciatori attorno al corpo delle due, ha gettato il capo opposto
della fune a cavallo di un tubo sul soffitto e ha ripetuto l'operazione con l'altra. Poi ha
tirato su le ragazze che sono rimaste sospese in aria, una attaccata all'altra, sfiorandosi
la pelle, mentre l'ingegnere guardava e forse fotografava.
Il gioco consiste nel mantenersi in equilibrio nel vuoto alla stessa altezza, sapendo chi i
corpi devono “fondersi”, perché il dolore, il piacere, la stessa sopravvivenza dipendono
dalla simultaneità dei movimenti del partner.
Quando una delle due è svenuta, la corda si è stretta attorno al collo e l'ha strangolata.
Il suo peso , ormai senza controllo, ha fatto schizzare verso l'alto la giovane romana, la
quale, a sua volta, è andata incontro a un principio di soffocamento.
L'ingegnere ha subito capito che le cose si stavano mettendo male. E' corso in
macchina. Ha preso un coltello. Ha tagliato la fune. Ha salvato la ragazza di Roma.
L'altra non respirava più.
Allora ha telefonato lui stesso al 118, il numero della ambulanza, chiedendo aiuto e ha
avvertito la polizia”.
Il narrato è liberamente ispirato a un fatto di cronaca avvenuto a Roma nel 2012
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Domenica di sangue
Genova 11 agosto 2010
Non gli piaceva mangiare dalla madre, soprattutto la domenica. La domenica,
ragionava, un uomo ha il diritto di sedersi a tavola a casa sua, con la moglie e le figlie e
la tovaglia buona, anche!
Sua madre parlava ma lui aveva la testa in quel pensiero che montava come la
maionese e diventava un vortice che lo risucchiava, attanagliandolo a quell'unico filo
sino a diventare ossessione, sino a fare male.
Anche sua madre mangiava cercando di tenere, il più possibile, gli occhi nel piatto.
Ogni tanto, era più forte di lei, alzava lo sguardo, per carpire i sentimenti del figlio ma
cercando di non farsene accorgere. Soprattutto, di non lasciar trapelare l'ansia che la
invadeva. Avvertiva qualcosa di malsano nel modo in cui il figlio, gli occhi stranamente
sgranati, fissava un punto indefinito della tovaglia, la pasta al sugo infilzata nella
forchetta sospesa tra il piatto e il niente.
“Fabrizio, non hai fame?”, chiede la madre e si morderebbe la lingua per essersi
lasciata sfuggire una inflessione della voce troppa apprensiva. Ci voleva poco a Fabrizio
per far saltare il tavolo e farsi rapire dall'ira.
Fabrizio non ha sentito. Lui non ascolta più nessuno se non il rancore che si porta
dentro come l'annuncio di un temporale. “Cosa hai detto?”, chiede distratto e senza
aspettare risposta si infila tra le labbra la pasta rossa di salsa e mastica, al rallentatore,
come se la bocca non fosse sua. “Niente, niente”, si affretta a rispondere la madre che
ha paura di aggiungere qualsiasi cosa.
Quell'uomo che mangia al tavolo come un estraneo è suo figlio ma lei non sa più come
maneggiare quest'uomo che è diventato una bomba ad orologeria.
E' sempre stato una testa matta. Di quelli che quando gli si arroventa il sangue non
capisce più nulla e si esalta sino al parossismo. Pronto al gesto smodato, eroico,
selvaggio. A 40 anni è rimasto l'adolescente in sella al motorino rosso fiamma sempre
in impennata a farsi ricorrere dai vigili.
Voleva dimostrare il suo valore, credo, soprattutto, a se stesso. Ma mi tirava scema, e
guai a dirgli qualcosa! Se ne scappava e finiva al cimitero dove era sepolto suo padre.
Gli mancava; non riusciva a perdonargli di essere morto e averlo lasciato solo.
Quando otto anni fa è morto anche lo zio, una sorta di padre vicario, non c'è più stato
verso di contenere le sue, incontrollate, esplosioni. Da far paura. Quando poi gli passa
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la mattana, piange, chiede scusa, disperato come un bambino. Fragile come un
bambino.
Fabrizio mangia in automatico mentre i pensieri corrono come un treno che sta per
deragliare. Come cavalli imbizzarriti, scoordinati e violenti.
Ero il suo eroe, quante volte me l'ha detto Mara! Quel ricordo si era incastrato nelle
circonvoluzioni del suo cervello e non voleva uscirne. Sono settimane che quella frase
gli risuona nella mente, con il verbo al passato che brilla al fosforo.
Quel verbo gli incendia i pensieri come le fiamme dell'inferno, gli trapana il cervello e
il petto senza remissione. E' San Sebastiano trafitto da mille frecce avvelenate che lo
torturano e gli duole tutto il corpo come se il pensiero si fosse fatto carne.
La sua ammirazione mi consolava! Ed è come un lampo di intuizione che gli acceca i
sensi e poi sparisce, è già dimenticato. Ora sa solo che vorrebbe morire. Anzi forse è
già morto e non se ne è accorto nessuno.
Mara, mi disprezza, lo sento. Come non fossi più io, ma un poveraccio e basta. E'
lontana, assente. A volte, persino, quando le parlo, nel rispondermi, alza la voce.
E' allora che perdo il controllo. Non vorrei che mi accadesse, vorrei farla ragionare con
tranquillità, serenamente. Farle capire che ho ragione, che capisco di aver fatto male a
tradirla, che mi dispiace e che tutto deve tornare come prima.
Prima quando? Quando mi amava.
Perché la colpa è sua, è lei che ha smesso di amarmi proprio nel periodo in cui io
avevo più bisogno! Non capisce, continua a ripetere che non mi crede più e non riesce
neanche a guardarmi in faccia, come se le facessi ribrezzo. E' allora che mi sale un
calore che parte dallo stomaco e arriva alla radice dei capelli; una arsura che mi fa
contrarre i muscoli, mi fa agire d'istinto come un animale minacciato. E voglio solo
vedere la paura nei suoi occhi; mi piace di più del suo disprezzo.
Quando ha smesso di amarmi? Deve essere stato quando mi hanno assegnato alla
Procura, a difendere le donne dai mariti violenti. Io, che mi ero arruolato carabiniere
mica solo per lo stipendio! E magari è vero che sono un po' depresso come dice mia
madre ma chi non lo sarebbe dopo aver scelto un lavoro dove mettere alla prova il mio
coraggio essere costretto a fare un lavoro da frocio!
Sì, tutto il male è iniziato da lì.
In Tribunale mi ero fatto l'amante, è vero, ma un uomo ha diritto a un po' di
consolazione, o no?! Avevo bisogno di qualcuno che mi stimasse, che fosse orgoglioso
di me, qualcuno per cui ero ancora un uomo.
L'amante? Buona anche quella! Ma che cosa le era venuto in mente di andare da Mara
a spiattellarle tutto, e anche molto di più. Le avevo detto che volevo lasciare mia
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moglie, che ero stanco, che avevo bisogno di lei ma sono cose che si dicono a
un'amante, è normale! E invece quella è partita e ha messo su un chachacha del cazzo!
Ecco, mi ha manipolato. Le donne mi hanno sempre manipolato: mia madre, mia
moglie, le mie figlie, persino l'amante!
Mara dice che sono un violento, che le faccio paura. Ma un uomo o lo ami o lo devi
temere, se no è finito. Mi ha trattato, come uno scolaretto. Dopo che la tipa del
Tribunale è andata a parlarle, certo le donne sono pazze!, mi ha cacciato.
“Fuori da casa mia!”, urlava, così forte che le bambine si sono messe a piangere e io
me ne sono andato via sbattendo la porta; non sopportavo quel stridio di voci e pianti.
Si, è vero le ho gridato sulla faccia, “ti ammazzo” e avevo in mano un coltello. Non le
ho fatto niente però ma lei si è messa a piangere e le bambine a gridare e io ho creduto
che il cranio si lacerasse in mille brandelli e sono scappato.
Mica sono andato dall'amante, sono andato al piano di sopra, da mia madre. E lo sa
Iddio quanto ho penato per fare la pace, poi.
Un anno e otto mesi a fare il figlio di mamma, a dormire nel lettino e a farmi le seghe
come da adolescente. Alla fine ce l'ho fatta a convincerla a passare una vacanza
assieme. Però aveva aggiunto, “Lo faccio per le bambine”. Anche se avrebbe fatto
meglio a dire, “Lo faccio per noi”, o, almeno, a tacere.
Siamo andati in Puglia, come una famiglia. Noi due e le bimbe. Sono stato perfetto, un
gentiluomo. Ho fatto visita a tutti i parenti, al mare ho giocato con le bambine, le ho
portate a mangiare la pizza. Ma lei non era più lei, e non per colpa mia.
C'era di mezzo un altro, ne ero certo.
Dovevo sapere, ero nel mio diritto.
Ho chiesto e richiesto, ma lei continuava a negare. Ho azzardato anche qualche
trabocchetto da interrogatorio per cercare di farla cadere in contraddizioni.
Ho jobbato a fare l'uomo di mondo, “Se hai un altro puoi dirmelo tranquillamente.
Dopo quello che ho fatto ne avresti anche il diritto!”, ho scandito e poi ho taciuto
fingendo di essere interessato al paesaggio. E lei, “No, nessun amante. Non potrei fare
sesso con altro uomo, ancora. Ma un amico sì, qualcuno con cui parlare, ridere.
Qualcuno gentile, di cui non avere paura”. “Ah”, ho mormorato ma ci ero rimasto
secco. Mi avesse pugnalato al fegato mi avrebbe fatto meno male.
Mi si erano gonfiate le vene delle mani da quanto stringevo il coltello. Quando me ne
sono accorto l'ho lasciato cadere sulla tovaglia e ho nascosto le mani sotto il tavolo.
Fabrizio guarda la sua mano che brandisce la forchetta con le penne infilzate come
fosse un coltello. Per una frazione di secondo osserva stupito le sue dita serrate a
pugno, poi le apre di scatto e la forchetta precipita, rimbalza sul piatto semivuoto e la
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salsa schizza sul tavolo spruzzando la tovaglia bianca di gocce di pomodoro, rosse
come piccole macchie di sangue.
La madre sobbalza ma si ricompone subito. Finge di non essersi accorta del disastro
combinato dal figlio sulla tovaglia della domenica. “Quando ha quell'aria invasata è
meglio assecondarlo”, pensa, ma non riesce ad evitare la smorfia di paura che le torce
la bocca perché quel rumore metallico nel silenzio della cucina le era sembrato
sinistro. Si rende conto, ed è la cosa che più le fa male, che ha paura.
Paura di suo figlio, paura per suo figlio.
Ma Fabrizio è altrove. Fabrizio sorride a fior di labbra, gli occhi brillano di eccitazione,
gli è venuta una idea che gli sembra bellissima; l'idea giusta per rimettere le cose a
posto, per sfidare Mara ad amarlo ancora. Basta rimuginare idee fisse, io e Mara
dobbiamo andare in piscina come ai vecchi tempi. Vedrà che sono in forma, che sono
ancora un uomo che le altre donne le invidiano.
Si alza dal tavolo, il tovagliolo cade sotto la sedia, ma Fabrizio non ci fa caso dice, la
voce appena un po' pià alta del necessario: “ Vado da Mara, andiamo in piscina
assieme”.
La madre non fa in tempo a replicare, Fabrizio sta aprendo la maniglia della porta di
ingresso, è già sul pianerottolo. E' in pantofole.
Le facevano male le caviglie, si era tolte le scarpe e si era sdraiata sul divano. Non
aveva fame, aveva solo voglia di stendersi e riposare.
Erano le una e mezza di domenica ed era appena rientrata da lavoro. Gestire il banco
salumeria al supermercato vuol dire stare tutto il giorno in piedi, non fermarsi mai,
sollevare mille volte pesanti cosce di prosciutto, allungarsi sul bancone per prendere le
cose. Vuol dire farsi un culo tanto per quattro sporchi soldi al mese e sorridere ai clienti
anche se ti fanno male i piedi e la vita ti sta facendo fessa e tu hai la testa per aria. E
meno male che ce l'ho, pensa, mi aiuta a tener fuori da casa e dalla testa quel pazzo di
mio marito.
Quell'uomo ormai le fa solo pena, e paura. Ha ancora le chiavi di casa, ricorda Mara.
Non ha osato togliersele per non farlo arrabbiare di più, ma anche per le bambine che
non riescono a capire perché papà deve suonare la porta per entrare. Lei non ce le fa a
fare la cattiva, non è mai stata capace. Prima perché lo amava, poi per le bambine,
adesso perché lo teme.
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Aveva lottato per Fabrizio, lo aveva voluto anche se qualche amica la aveva messa in
guardia: Quello è schizzato, che te ne fai di uno così? Ma a lei piaceva, non tanto alto
ma un fusto. E poi sulla moto sembrava invincibile. Era stato il suo eroe!
Lo aveva sposato in Chiesa, per amore. Ed era sincera quando aveva giurato di amarlo
per sempre. Ci aveva provato forte, anche quando si era resa conto che di eroico in lui
c'era solo l'acciaio della moto. Un ragazzino fragile e vendicativo, così insicuro da
diventare violento. Ma aveva tenuto duro, perché lei Mara era credente, e il matrimonio
è una cosa seria. Aveva tenuto duro anche se lui, di amanti ne aveva avute più di una,
ma all'ultima aveva detto basta.
Se una donna ha il coraggio di venire a casa tua a dirti: “Sa, amo suo marito e lui ama
me, ho pensato che dovesse saperlo”. Cosa fai? Ci rimani di sale, altro che Sara che
guarda Gomorra! Perché se una ti dice questo o è una esaltata, e lei non me la
sembrava, o quel vile di tuo marito l'ha autorizzata a pensare che poteva farlo. Un
autentico vigliacco che non aveva neanche la dignità di difendere le sue scelte. Prima
manda avanti l'altra e poi giura e spergiura di non amarla, sostenendo che è “quella là”
che si é montata la testa. Che lui non ne voleva più sapere che sì, ecco, avremmo fatto
così: lui le dava il suo cellulare e lei il suo. Prova provata che nessuno avrebbe tradito!
Una trovata da bambini! Gesù, come aveva potuto prendere una cantonata simile!
Doveva stare attenta. Cosa le diceva la sua amica Marta?: “Guardi gli uomini sotto la
lente dei tuoi occhioni azzurri e in ogni uomo sogni di vedere il paladino coraggioso e
puro che ti porterò via sul suo cavallo bianco”.
Stava facendo lo stesso errore con il ragazzo? Il ragazzo era entrato nella sua vita da
pochi mesi. Non lo aveva cercato, piuttosto era stato lui che si era fatto avanti e le
aveva parlato. Con il cuore, le pareva, e senza pretendere niente. All'inizio era così
turbata dalla violenza di Fabrizio che non riusciva neanche a guardarli gli altri uomini,
li fuggiva. Ma il ragazzo aveva un modo di fare che la rassicurava. Era gentile e sapeva
usare le parole. Aveva anche un fisico stupendo, una tartaruga sul torace da urlo e dei
tatuaggi! Mara trovava molto sexy quei segni tribali sul corpo di un maschio.
“Devo fare attenzione alla mia mania di cercare San Giorgio e di ritrovarmi a convivere
con il Drago!”, si ripeteva come uno scongiuro. “Questa volta sarò più accorta, ho
capito quali sono le mie debolezze. Almeno. spero”.
Lentamente sente che i suoi
muscoli si stanno decontraendo, si abbandona a quel
piccolo piacere di concedere al suo corpo il tempo del riposo e lasciare la mente
libera di rincorreva pensieri birichini attorno a un ragazzo dai bicipite possenti. Che
bello, pensava, una domenica tranquilla, il marito da sua madre, le figlie dai nonni.
“Finalmente un pomeriggio tutto per me”.
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Forse si era addormentata perché il rumore delle chiavi nella toppa l'ha fatta sussultare.
Ha aperto gli occhi, l'ha visto e li ha richiusi sperando che fosse solo un brutto sogno.
Quando li ha riaperti di nuovo Fabrizio stava già urlando. “Ero venuto a chiederti se ti
andava di venire in piscina”.
Cercava di sembrare gentile ma gli si storcevano le labbra dalla tensione e il tono della
voce era di un diapason troppo alto. “Sono stanca”, ha risposto Mara. Sebbene confusa
e ancora insonnolita è cosciente che aver fatto una smorfia al vederselo lì davanti
all'improvviso.
Sapeva che sarebbe stato meglio evitarlo ma era davvero troppo stanca per riuscire a
controllarsi. In fondo voleva solo un pomeriggio tranquillo da
passare sdraiata sul
divano di casa sua, e dimenticare tutto, anche la paura. Ma lui era lì, le vene del collo
già gonfie, gli occhi cattivi anche se si sforzava di trovare parole gentile, “Pensavo ti
avrebbe fatto piacere, ti è sempre piaciuto andare in piscina” e mentre parla si avvicina
al divano.
Mara si alza di scatto e barcolla per il brusco cambio di stato, lui allunga le braccia per
sorreggerla e lei si ritrae, spaventata. Lui le è addosso, le parla con foga e alcune gocce
di saliva arrivano sulle labbra di Mara, che solleva il gomito per pulirsi e intanto si
volta, da le spalle all'uomo e si avvia verso la cucina: “Faccio il caffè, mi hai svegliato”.
“Si, ma poi andiamo”.
Mara si fa forza, cerca di calmare la sua rabbia per quella intrusione inopportuna; cerca
di parlare con calma, scandendo le parole ma senza alzare la voce, “Ti ho detto che
sono stanca”, taglia corto e si avvicina al lavandino, prende la caffettiera dal ripiano, la
apre, riempe una metà d'acqua, poi va al frigorifero per prendere il barattolo del caffè
ma lui le è addosso. “Per quello là però non sei stanca!”, sputa le parole con disprezzo
e la prende per un braccio e la scuote e il barattolo della polvere di caffè cade a terra.
“Lasciami stare!”, ha la voce stridula Mara mentre si ritrae lontano dall'uomo come se
avesse visto un ratto. Ma lui le è di nuovo addosso, preme il suo corpo contro il suo,
Mara pensa che è freddo come la morte.
L'uomo la sbatte contro il tavolo e cerca di baciarla; suda acido, ha l'alito che sa di
cibo mal masticato e di
selvatico. Il bordo del tavolo è come una lama e le sta
entrando nelle pelle. Mara si divincola e con un balzo si allontana.
Nella mano destra Fabrizio stinge un coltello. Stupidamente Mara si ritrova a pensare:
“Dove lo avrà preso? li ho nascosti tutti!”.
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Un primo colpo è al petto, così netto e violento che Mara contrae le spalle e la testa le
rimbalza indietro e poi avanti sino a sbattere sullo sterno, apre gli occhi e vede il
sangue colare tra i seni e allora urla, urla, urla e cerca di allontanare quel pazzo da lei,
ma Fabrizio è forte, è una furia che colpisce e colpisce ancora.
Mara non sente dolore, è la vita stessa che le impone di non lasciarsi andare, di vincere
lo stupore, l'orrore e le impone di resistere.
Si dibatte, cerca di sfuggire dall'abbraccio mortale; ci riesce, arranca verso la porta
d'ingresso, Deve arrivare alle scale e lì urlare a più non posso, qualcuno deve sentirla!
Una mazzata le schianta la schiena, inciampa, ma non cade, la vita vuole vivere e lei
resiste, deve solo arrivare sino all'ingresso ma altre lingue di acciaio penetrano dentro il
suo corpo; ardendo si portano via la sua vita.
Mara cade, il sangue divora il pavimento.
Mara non ha più forza per reagire, gli occhi dilatati dal terrore guardano quest'uomo
belva che l'afferra per i capelli, la solleva e una lama di coltello vibra nella sua gola.
Non muore ancora Mara, è a terra supina, non sente più le gambe, sente un liquido
appiccicoso sulle braccia e sulle guance. capisce che è sangue, il suo.
Rantola, qualcosa le gorgoglia nella gola e pensa un ultimo pensiero: Non voglio che le
bambine mi vedano così.
Il coltello si è spezzato, Fabrizio si sorprende a stringere, ancora con furia, solo un
manico spezzato. E' come se risalisse da un orrido così profondo da arrivare dal cuore
della terra sin dentro la cucina di casa sua.
C'è sangue dappertutto. Per un tempo breve e terribile si era sentito Dio, padrone della
vita e della morte, e adesso, con quel manico di coltello spezzato stretto in pugno si
sente uno stupido. Non sa cosa deve fare e allora si mette a correre. Corre via da lì, da
quel corpo contorto, da quel sangue, da se stesso, da quella merda che è la vita.
Cosa faccio? Pensa e trema come la gazzella inseguita dal leone, perché adesso sa
quello che ha fatto, reagisce come l'uomo primordiale: scappa. Ma è anche un uomo
moderno, un carabiniere che ha introiettato certi automatismi. Il primo gesto cosciente
e insieme istintivo é gettare via il telefonino: le belve impauriti nascondono le tracce
della fuga.
Scende le scale a salti, la madre, che è uscita sul pianerottolo appena sentito i rumori,
le urla, i colpi lo vede, dalla ringhiera, scendere le scale di corsa, quattro scalini per
volta, coperto di sangue, gli occhi fuori dalle orbite e gli grida. “Cosa hai fatto?” ma
non è una domanda è un grido di sgomento.
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E' arrivato in strada, la BMW è parcheggiata là davanti, la inforca e parte sgommando
con l'ennesima impennata, l'ultima della sua vita. Dopo cento metri alla prima curva
va a sbattere contro un'auto in sosta e cade. Si rialza, è di nuovo sulla moto, ha perso
le ciabatte. Schiaccia l'acceleratore con i piedi nudi. Di nuovo è sulla strada, in corsa
verso l'oblio.
E' l'istinto che lo conduce sulla provinciale grigia che va in alto, sui monti dietro Pegli,
per nascondersi nei boschi, a intanarsi come una lepre inseguita dai cani.
A piangere e implorare sulla tomba del suo papà, come Gesù sulla croce: “Elì. Elì,
lamà sabàctani”. Ma Fabrizio che ne sa dell'ultimo grido di Gesù! Sa però che anche
lui è stato abbandonato e si commuove su se stesso, maledice la sua sfortuna che lo ha
fatto incrociare quel maledetto sguardo di lei. Così nemico, così lontano da non poterlo
sopportare.
Ha gli occhi annebbiati dalle lacrime l'uomo grande e grosso che adesso piange e si
intenerisce sul proprio destino mentre corre sul suo destriero d'acciaio verso il nulla e
la foresta. La sera incombe e le curve non si vedono bene soprattutto se hai un velo
davanti agli occhi. Le ruote scivolano in curva e la moto si piega sul lato sinistro, la
gamba rimane impigliata tra la moto e l'asfalto mentre la BMW continua a slittare verso
il bordo della strada e il crac delle ossa del ginocchio sovrasta il grugnito del motore
imballato. Un dolore lancinante.
Voglio morire pensa, ma il dolore è troppo forte per riuscire a pensare a uccidersi.
E' stata la madre ha trovare la nuora nell'appartamento di sotto agonizzante in un mare
di sangue. Ha avvertito i colleghi del figlio che lo hanno trovato dopo tre ore. Alla
ricerca hanno preso parte numerose pattuglie di Carabinieri ed anche un elicottero.
Il maresciallo Fabrizio Bruzzone è stato trovato, inebetito, a pochi chilometri di
distanza, nei pressi del cimitero di Pegli, dove si trova la tomba del padre.
Era il 10 agosto 2010
I fatti raccontati, avvenuti nell'agosto 2010, fanno riferimento alla cronaca dei giornali dell'epoca e sono
riportati attraverso un narrato immaginario
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Un uomo qualunque
Istanbul aprile 2008
'Se l'era proprio voluta', la frase gli risuonava nel cervello come il ritornello di quelle
canzoni sciocche che si incistano nei neuroni e non li mollano più.
'Non si va in giro da sole', rimuginava nervoso tra sé e sé. 'Vestite di bianco poi! A
sproloquiare di matrimonio con la terra, di femminilqualcosaechicacchioseloricorda,
del gesto artistico e l'incontro. Lo volevi l'incontro e lo hai trovato!'.
Adesso che tutto era finito Marat ce l'aveva con lei. Era arrabbiato con la donna
straniera perché non riusciva a togliersela dalla testa. Qualunque cosa cercasse di fare
lei era lì, a dargli il tormento. Lo costringeva a ripassare i gesti e le parole, a risentire gli
odori, i rumori; soprattutto i fruscii. Come se volesse in quel modo ritornare indietro nel
tempo, fermarlo quel gesto.
O almeno giustificarlo. La sentiva che parlava e parlava: 'Non dava tregua. All'inizio da
spocchiosa, anche se sorrideva e faceva la carina. Perché faceva la carina! e intanto
sventolava cineprese e cellulari di ultima generazione.
'Che ci faceva a fare l'autostop una che aveva i soldi per prendere gli autobus? Non lo
sapeva che se cerchi trovi?'. Si ripeteva i ragionamenti fatti sino alla sfinimento; affinché
ripetendoli, diventassero più veri.
'Le donne devono stare a casa, imparare a essere modeste se non vogliono guai. Non
devano andare in giro a provocare!', e di questo era convinto, verità sacrosanta,
argomento decisivo. Se Marat aveva fatto quello che aveva fatto era per una questione
morale.
'Sì, proprio di morale! Perché lei provocava; si era persino tolta le scarpe appena salita
in macchina! Aveva detto che doveva riscaldarsi i piedi. Ma mica basta aver freddo per
comportarsi da sfacciata! Non ce l'avevo neanche per la testa di farmela, avevo altro a
cui pensare. Ma quella veniva dall'Italia e soldi ne doveva avere visto da come se ne
fregava di sporcare un vestito tutto di raso. Raso buono e pizzi fatti a mano. Me ne
intendo io di stoffe. Da ragazzino per qualche mese ho fatto il garzone da un sarto', e si
scaldava Marat, compiacendosi dei suo ragionamenti che, a ripeterli, gli sembravano
sempre più convincenti.
La seconda cosa, dopo il vestito, che aveva adocchiato era stato il borsone che la
donna si trascinava dietro. Un verde strano, “verde acido” gli aveva spiegato la ragazza
ma a lui interessava solo quello che ci doveva essere dentro, soldi, carte di credito,
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gioielli forse che anche se faceva la barbona si capiva che stava al caldo a casa sua.
'Ma quelle hanno la voglia di strafare, di andare in giro per il mondo a provocare i
poveretti', gli sembrava proprio una bella frase, giusta soprattutto. Perché in tutta quella
storia, in definitiva, la vittima era lui.
Non le piaceva neanche, doveva avere più di trentanni. E lui le donne le voleva fresche,
gelsomini appena sbocciati. E poi aveva un cattivo odore, non quello sensuale e
saporito che devono avere le donne. No, lei sapeva di fatica, di pensieri, di ambizioni.
'Ce l'aveva con l'arte, e a me che me frega dell'arte, mica si mangia! Io glielo avevo
chiesto così, tanto per provare, se mi portava in Italia. Ci sarei anche andato, tanto cosa
lasciavo? Una moglie arrabbiata e una famiglia traditrice. I figli? Beh, i figli si sarebbero
dati da fare, come aveva fatto lui per tutti i 38 anni della sua vita.
Lei si era messa a ridere e aveva continuato a parlare di levatrici, di Beirut, di pace.
'Chiacchiere, però in Italia non mi portava, voleva sacrificarsi per tutti ma quando un
povero vero lo vedeva da vicino gli faceva schifo alla donna dell'Italia', ragionava tra sé
e sé corrucciato e gesticolava, per sottolineare anche col corpo quei ragionamenti che
lo facevano ancora arrabbiare.
'Ma che guerra e guerra, la guerra è la vita di tutti i giorni, quella che ti svegli e già hai
qualcosa da pagare, o c'è la moglie che chiede soldi per la spesa. Lei, l'taliana, se ne
andava in vacanza e invece di dare a chi soldi non ha chiede favori. Perché la benzina
io la pago; specie questo catorcio di Tata con un motore sbiellato che beve petrolio
come fosse raki.
'E non taceva. A me le donne che parlano fanno rizzare l'uccello. Mica per altro, per
metterglielo in bocca e farle zittire. E poi mi solleticava il brusio continuo, come di api
d'estate, del suo vestito pieno di svolazzi, che ogni volta che cambiavo marcia mi
sfiorava la mano e il braccio, un tocco lieve come di pelle di vergine'.
“Dove vai?” le avevo chiesto. “A Beirut”, aveva risposto. “Beh, a Beirut non ti ci porto
proprio, ma a Gezbe sì”. “C'è il mare”, aveva aggiunto lui. Aveva capito che l'italiana
aveva voglia di incontrare il mare.
Sulla E 5 persino i Tir superavano la mia Tata nera ma lei non sembrava avere fretta e
neanche io. Cicalava come fanno le donne quando sono eccitate, o hanno paura. Non
capivo tutto quello che diceva, un po' d'inglese lo so e anche di francese, per via dei
turisti che infestano Istanbul, ma
lei parlava veloce come se la stesse rincorrendo
qualcuno. A me non importava, se voleva parlare, affari suoi! Ogni tanto le davo
un'occhiata, le si erano arrossate le gote e si era tolta la mantella bianca con un fruscio
da altare. O da harem.
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'Adesso la tocco', pensavo. Ma esitavo, non per altro ma non avevo voglia di sprecare
tempo in sdolcinature, una botta però gliela avrei data. Questo sì. La guardavo e
cercavo di capire il tipo. Ma c'è poco da capire le donne sono tutte uguali, dicono di
no, piangono, fanno un po' di scena e poi se le metti sotto per bene miagolano come
gattine in calore. Sì, se l'era proprio voluta!', concludeva scuotendo la testa con forza,
a confermare la bontà del suo ragionare. Ma non c'era un punto finale, perché la sua
mente continuava e continuava a ripassare, ogni gesto, uno per uno. Un ripetere che si
faceva ossessione.
Lui, Marat quel giorno se la voleva solo godere. Si sentiva frizzante quella mattina,
mentre guidava il suo vecchio trabiccolo verso il mare. Sudava, nonostante il vento
freddo del nord che entrava dagli spifferi dell'abitacolo sgangherato della Tata nera.
Fumava Malboro rosse e tirava su di naso. Aveva un rabbocco di coca per la mattina.
Era uno ganzo, mica si faceva sorprendere dal down del giorno dopo, si era tenuto un
quartino per il venerdì. 'La festa va festeggiata, accidenti!', si ripeteva e si sentiva
furbissimo.
Continuava ad alzarsi dal sedile e, tenendo il volante con la sinistra, aggiustava
ossessivamente lo specchietto retrovisore per guardarsi e, ogni tanto, strizzava l'occhio
per simpatia verso se stesso. 38 anni e già calvo!! Cercava di non farci caso ma gli dava
fastidio. Anzi, a dirla tutta, lo faceva proprio incazzare. Lo faceva sentire già vecchio,
già sconfitto, già senza futuro fortunato.
Pensieri cattivi che ogni tanto svolazzavano nel suo cervello come farfalle nere e gli
montava una rabbia in corpo che non aveva nessuna intenzione di tenere a bada.
Doveva guardarsi alla specchio; vedersi riflesso gli dava la sicurezza di esistere. Perché
a volte pensava pensieri che non capiva, emozioni che lo turbavano senza superare la
barriera della coscienza. Perché a volte aveva il sospetto di non esistere per nessuno,
neanche per se stesso. Come l'altro giorno a Istanbul, quando in mezzo alla marea di
gente indaffarata che sembrava correre verso una meta, convinta di esistere, lui si era
sentito trasparente. E solo.
Anche questa mattina, mentre guidava tra una doppia fila di macchine farcite di uomini
al volante si era sentito smarrito. Aveva attorno una moltitudine ma nessuno lo vedeva.
Un swisss e fuggivano via. Forse la loro vita aveva un senso?
“Cazzo”, aveva quasi gridato. Gli era sembrato di sentire sua moglie che piangeva e lo
rimproverava, che lo rimproverava e piangeva mentre lui la picchiava, con una furia
che lo agitava dal di dentro, e la prendeva a calci a ceffoni a pugni sino a che non
taceva. Allora stava meglio, si calmava, sentiva di esistere.
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Perché lui, Marat, se li fotteva tutti quei borghesucci inscatolati nelle loro automobili
che correvano timorosi e impettiti alla Moschea, e alle loro casette di mogli noiose e
figli petulanti. Lui si era rotto dei rimproveri di quella frignona di sua moglie e anche
delle maledizioni di suo padre. Non lo volevano? Al diavolo tutti, aveva in mente un
mucchio di cose, lui. Gliela avrebbe fatta vedere di cosa era capace!
Appena avesse avuto il colpo di fortuna che si meritava sarebbe tornato da loro e li
avrebbe smerdati. In quel quartiere di sfigati ci sarebbe tornato solo per farla morire di
invidia quella puttana di sua moglie, ci sarebbe tornato vestito di seta e con un
orologio d'oro grosso così al polso. Lui come fare i soldi lo sapeva, gli bastava un po' di
fortuna. Aveva tutto ben chiaro in testa.
Quando l'aveva vista gli era proprio venuto da strofinarsi gli occhi. Anche perché erano
arrossati e bruciavano. “Una puttana vestita di bianco!?”. Non ci poteva credere. 'Una
puttana vestita di bianco che fa l'autostop a una pompa di benzina!? Una bella pompa
di quelle fatte bene col risucchio', e intanto rideva e si grattava le palle sistemando più
comodo il pene che gli si stava gonfiando.
Forse non si sarebbe neanche fermato se non fosse stato per quel prurito all'uccello.
Non gli piacevano le turiste, erano pallide e molli e con
capelli slavati. Lui aveva
sempre preferito le brune, con occhi profondi sotto ciglia di velluto e pelle d'ambra. E
poi erano sfrontate e sfacciate, senza grazia; a lui le donne piacevano più ritrose e
sensuali. Ma tutte, turche o no, in cerca di quello: di infilarsi un bel bastone sodo tra le
gambe. “Tutte puttane”, aveva concluso ad alta voce, soddisfatto. E aveva frenato
proprio di fianco alla donna con l'abito bianco da sposa.
“Dova vai?”, aveva chiesto nel suo inglese sgangherato. “A sud”, aveva risposto lei grata
e sorridente. “Sali allora”. E la dama in bianco era volata nell'abitacolo con un gran
frusciare di gonne buttando la sacca verde nel pick up.
Quell'uomo non le piaceva, tutto brillantina e odore acre di sigarette vecchie. Ma ci
sono giorni
che buttano male. Come quel venerdì. Sarà stato per il tempo. La
temperatura quella mattina era scesa, il vento soffiava dritto dai Balcani e portava
memorie di neve. Il vestito la infastidiva, si gonfiava come un paracadute e il raso
tormentato dal vento emetteva un brusio metallico che sembrava un lamento. Si
formavano mulinelli d'aria che si avventavano sulla gonna, si insinuavano tra le
sottogonne, salivano sino alle cosce, come mani.
Erano quasi due ore che aspettava un passaggio ma non c'era stato uno capace di
tirarla su; camion e automobili sfrecciavano senza esitazione, a velocità da autostrada.
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Gli autisti, tutti uomini, passavano impettiti, rigidi, sguardo fisso sulla strada, fingendo
di non vedere la donna vestita di bianco.
Solo dopo, dallo specchietto retrovisore, allora sì, convinti di non essere visti, la
cercavano con gli occhi. Se non avesse fatto tanto freddo, se il muezzin non avesse già
cominciato a chiamare i fedeli alla Jum'ah, per la liturgia del mezzogiorno, più di uno
si sarebbe fermato per capire il mistero della donna vestita da sposa che faceva
l'autostop per Beirut.
Per Beirut?! Ce n'è di gente stralunata al mondo, si dicevano e andavano oltre, senza
neanche rallentare. Era venerdì, dovevano andare alla Moschea.
Giuseppina, sapeva esattamente cosa pensavano gli automobilisti che passavano senza
fermarsi. Ma lei sorrideva a tutti, nonostante che ormai fosse stanca e si fosse seduta
sopra il borsone verde acido che si trascinava dietro dal'8 marzo. Il giorno della
partenza trionfale da Milano di Giuseppina Pasqualino di Marineo, alias Pippa Bacca, e
Silvia Moro, artiste. La loro performance era il viaggio; in autostop avrebbero
attraversato 11 paesi in guerra fino ad arrivare a Gerusalemme, la città contesa. Due
donne, in candido abito da sposa griffato Krizia, avrebbero attraversato i confini e i
conflitti. A sfidare l'odio con l'amore, a scommettere sull'incontro. A farsi arte, a farsi
metafora in sangue e raso.
Pensarci la esaltava, le dava un percezione di potenza, di intangibilità. Non l'aveva mai
neanche sfiorato il dubbio che l'innocente è preparato per il sacrificio.
Intanto però era bloccata, da ore, a quella stazione di benzina e faceva freddo. Avrebbe
fatto meglio ad accettare l'offerta di Abdul, il camionista amico di altri che la
conoscevano. Gli autisti dei TIR che scavallavano i Balcani avevano messo sotto la loro
protezione le due ragazze. Dopo Aziz, il primo che le aveva caricate mentre cercavano
di raggiungere Zagabria, si erano passati la voce via onde radio: “Ci sono due angeli
sulla strada che fanno l'autostop”.
Come Marat anche Aziz era turco. Autista di un camion che andava in Bulgaria. Le
aveva scrutate dall'alto dell'abitacolo con
un punto interrogativo disegnato sulla
faccia: “Siete spose in fuga?”, aveva chiesto in inglese, in dubbio se ridere o aiutare.
Poi, quando gli avevano spiegato il loro progetto, aveva scosso la testa da destra a
sinistra, assentendo come uno che ha capito ed era rimasto in silenzio. Solo dopo
alcuni, lunghissimi minuti muti, la fronte aggrottata, aveva mormorato serio, fissando
l'asfalto davanti a sé: “E' molto poetico”.
Era stato un viaggio faticoso ma ricco. E adesso: a Gerusalemme! capitale per due
popoli e tre religioni. Il solo luogo dove, per gli ebrei, esiste l'altare del sacrifico.
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Giuseppina pensava, 'Il terribile fascino del sacro è intuire l'amore del dio, il terribile
fascino del viaggio è la possibilità di creare il tempo e lo spazio dell'incontro”.
Non quella mattina però. Sarà stato per quel gelo, o per essersi lasciata alle spalle
Istanbul e i suoi minareti d'oro al tramonto, il traffico insopportabile e l'odore del
sangue dei capretti sgozzati per l'Aid el Adha. La festa era stata tre giorni prima, ma
nelle strade persisteva un odore di ferro, appiccicoso come un'ossessione.
Aveva
voglia di andare via, lasciarsi quella moltitudine di case macchine e vite alle spalle
nella speranza di incontrare il mare, e l'orizzonte. Ma intanto era bloccata lì, in
quell'aria di servizio sgangherata e maleodorante di nafta bruciata e motori stressati dal
nome buffo e difficile da pronunciare: Bayramoglu
“L'opera d'arte è un fatto solitario, puoi condividere un progetto ma il percorso è
personale, è un entrare dentro di sé, spogliare la verità e, nuda e innocente, offrirsi
all'incontro”, ne era convinta. Per questo quando si era separata da Silvia quella
mattina aveva provato un sentimento quasi di trionfo, una sorta di esaltazione e un
pungente desiderio di lacrime. 'Kairos, kairos kairos', ripeteva e pensava proprio al
contesto del tempo e dello spazio in cui la prova dovrà essere affrontata.
Però l'incontro tardava e faceva freddo.
Quando la Tata nera si è fermata di fronte a lei, Giuseppina è salita senza esitare con
un sorriso sulle labbra, negli occhi, nel cuore. Ha gettato la sacca dietro e si è
accomodata di fianco al conducente.
'L'uomo come un piccolo dio premia chi ha fede in lui', ripeteva mentalmente, come
un mantra rassicurante. Lo aveva guardato a viso aperto, calma, serena, fiduciosa. Lui
aveva lanciato sguardi di traverso, untuosi, tra la bramosia e il servilismo; non l'aveva
mai guardata dritto negli occhi e sudava copiosamente, eppure non faceva affatto
caldo. Aveva la fronte lucida come chi ha vampate di calore, e tirava in continuazione
su di naso come chi ha un attacco di raffreddore o si è fatto di qualcosa. Le pupille
luccicavano come punte di spilli, o come quelle di un rettile. 'Gezba é a pochi
chilometri', si diceva per rassicurarsi. 'Lì lo saluto, ringrazio e scendo', e continuava a
sorridere.
L'italiana a un certo punto se era zittita. Guardava fuori dal finestrino e aveva smesso di
fare la carina. A Marat era sembrato di leggere nel suo ultimo sguardo del disprezzo.
Proprio come sua moglie, quella strega. E gli era saltata la mosca al naso.
'Cosa si crede quella, di essere migliore di me?!', era stato il pensiero involontario che
gli aveva attraversato il cervello. Senza neanche accorgersene si era messo a premere
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sull'acceleratore, aveva bisogno di coraggio, di sfogare un po' dell'adrenalina che
aveva addosso.
Singhiozzando la vecchia Tata era partita al galoppo e l'italiana si era voltata di scatto,
quasi con stizza. “Può rallentare per piacere?”, aveva chiesto. E lui aveva accelerato.
“Mi faccia scendere, per favore!”. Adesso l'italiana aveva perso il tono educato da
principessa, la voce le usciva imperiosa e un po' stridula. “Si fermi!”. Gridava, adesso.
“Non sopporto che le donne alzino la voce con me”, aveva sibilato e le aveva tirato un
ceffone di forza, tanto che la macchina aveva sbandato e gli automobilisti dietro di lui
si erano messi a suonare il clacson stizziti.
L'italiana aveva sbattuto la tempia contro la portiera, adesso era davvero spaventata.
Armeggiava con la porta, voleva aprirla. Marat sudava come un appestato e sentiva il
sangue bollirgli nella testa, 'Cosa fa la cretina!', gli urlava il cervello ma non aveva
detto niente.
Intanto era arrivato allo svincolo con la D 100, la strada che porta sulle montagne e
con un brusco colpo di sterzo aveva preso la strada di sinistra. La ragazza era stata
sbalzata prima contro la portiera per poi rimbalzare addosso a Marat che l'aveva
respinta con un pugno secco alla tempia.
La strada in salita aveva costretto la Tata a rallentare, il motore usurato dai troppi
chilometri arrancava a fatica..
La ragazza se ne stava accucciata sul sedile, in uno stato di ansia febbrile, da animale
braccato. Non parlava, lo fissava con odio, concentrata sulla scatto che le avrebbe
consentita di scappare.
Marat non pensava, spezzoni di pensieri si accatastavano nella sua mente, gli sembrava
di essere divorato dall'arsura. Anche lei, come sua moglie, lo guardava e nei suo occhi
c'era solo disprezzo. Lui voleva leggerci la paura.
C'era una deviazione lì vicino, lui la conosceva. Un'altra svolta e una rapida frenata.
E' seduta il più lontano possibile da lui, aggrappata alla maniglia della portiera, è un
grumo di muscoli pronti allo scatto, una piccola tigre o una gattina impaurita costretta
alla fuga o all'attacco, il vestito bianco le ostacola i movimenti, tradisce con il suo
scricchiolio ogni suo gesto. Aveva capito che Marat si sarebbe fermato, non era il
momento di mettersi ad urlare, era chiaro che nessuno avrebbe sentito, doveva
concentrarsi nello scatto. Maledetto vestito da sposa!
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Marat l'aveva afferrata con una mano per i capelli e la strattonava, con l'altra frugava
famelico sotto la gonna. Ma quella gatta furiosa non si arrendeva, continuava a battersi.
Nessuno dei due urlava, era un duello tra nemici impegnati allo spasimo.
Marat ormai è un cane rabbioso, la colpisce, la colpisce e colpisce ancora. Le strappa i
vestiti, le mutandine e intanto cerca di aprirsi la patta, ma l'abitacolo dalla Tata è
piccolo e quella puttana sembra non averne mai abbastanza di botte!
Quando, alla fine, la mette sotto non si accorge neanche che le sta stringendo il collo
nella mano. E l'altra tra le cosce a cercare di infilare il suo uccello che non ne vuole
sapere di fare il suo mestiere dentro il buco che è, per lui, ormai, quella donna. E quel
maledetto vestito di raso che si impiglia da tutte le parti cosparso di farfalle, rosso
sangue.
Ecco ce l'ha fatta, è dentro, sente il suo calore, sente che la carne morbida lo stringe,
un buco che lo calza a pennello e lui perde ogni controllo. Vola oltre la rabbia, è
potente, e il maschio e stringe quel collo bianco mentre con un singhiozzo viene
dentro di lei.
Cosa pensava Giuseppina in quegli attimi, mentre un uomo le spezzava le ali, le
spezzava a lei, a lei che voleva volare? Cantava forse, “Della guerra sono stanca ormai/
al lavoro di un tempo tornerei/a un vestito da sposa o qualcosa di bianco/per
nascondere questa mia vocazione, al trionfo ed al pianto".
Pensava al vestito che assorbiva sperma e sangue.
Era una sconfitta o una vittoria la sua?
Era andata allo sposo come il capretto al sacrificio. Un atto sacro sprecato con un
cretino incontrato per caso o per destino. Matrimonio di sangue, consumato
nell'orrore.
Ancora e ancora la storia delle donne. Non c'era arte in quel morire o forse ce n'era
troppa.
Se non fosse stato per quel vestito da sposa che le si impigliava tra le gambe forse ce
l'avrebbe fatta a scappare, a chiedere aiuto, a nascondersi.
Ma non è sempre così? la sposa vestita di bianco si consegna, innocente, allo sposo
che la farà sanguinare.
Dicono che nell'atto del morire ricordi tutta la vita. Quella di Giuseppina è stata breve
e intensa. Aveva in mente tanti progetti incompiuti per i quali non avrebbe più avuto
tempo. Tante cose che avrebbe voluto e potuto fare e invece tutto finiva ai bordi di una
autostrada, per mano di un balordo che conosceva solo l'invidia per tutte le altre vite
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che non erano la sua, un cretino qualunque uccideva l'artista. La stessa golosa invidia
di chi squarcia a coltellate la Gioconda, livido di impotente furore.
Ma che triste morire di marzo un giorno prima dell'inizio della primavera.
Non sentiva più dolore e neanche vergogna. C'è un momento in cui, quando l'offesa è
troppo grave, quando capisci che non ce la fai a difenderti, ti consegni alla visione del
nulla. C'è un momento in cui la mancanza di ossigeno fa ubriacare il cervello che si
dona alla morte sorridendo.
Non ci rivedremo Gerusalemme! La straniera aveva messo la sua vita nelle mani di un
mediocre, un mostro da nulla, così poca cosa da non poter riconoscere la bellezza e
averne paura.
Non sapeva Giuseppina che la bellezza fa paura?
Era successo tutto il contrario di quello che aveva sperato, il quadro era venuto alla
rovescia. O forse era la sua visione ad essere sbagliata?
Avrebbe potuto morire nella disperazione, ma ha ricordato chi era, una donna sapiente
che la vita la amava. Moriva, ma non era sconfitta. Qualcuno sul suo corpo buttato via
come un oggetto usato avrebbe scritto: caduto sul campo durante una ricerca estetica.
Ma cosa c'è di estetico nel morire? Che bellezza c'è in un corpo straziato dalla croce,
un corpo che esala umori dai sapori forti. Cosa c'è di amorevole in un altare destinato
alla vittima e al suo sacrificio?
No, non era quello che aveva in mente quando si era messa in viaggio. Che strano
però, aveva lavato i piedi alle levatrici in omaggio al loro mettere al mondo la vita.
Aveva osato ripercorrere i gesti del Nazareno e quello che le stava succedendo era il
contrappasso del Padre che castigava l'audacia di una donna?! Espiava l'hubris di aver
voluto esercitare la grazia del femminile e la beffarda vendetta divina la rimetteva al
suo posto: quello della vittima? Oppure è che la via crucis è il destino di chi parla
d'amore?
L'italiana è morta. Marat ha consumato tutta l'adrenalina che aveva in corpo, è stanco.
Scende dall'abitacolo e barcolla. Ci vorrebbe un tiro di coca ma nell'eccitazione il
pacchetto di stagnola che aveva da parte deve essere caduto chissà dove. Ormai è
scesa la sera ed è piena di ombre; una sera disperata, inutile cercare. Marat tira un
calcio alla terra e solleva foglie e terriccio. Vorrebbe scappare, andare in un bar a
strozzarsi di raki, a pensare a niente.
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La ragazza! Avrebbe voluto che sparisse così come era apparsa, in una nuvola di raso.
Un miraggio a una stazione di benzina. E invece eccola lì, incastrata dentro la sua
macchina.
Deve liberarsi di quella cosa, nasconderla da qualche parte.
Gira intorno all'automobile, apre la portiera del passeggero, la afferra per le ascelle e la
cala a terra. Il corpo di lei è più bianco del raso e nella notte sembra brillare, come un
segnale, come una inutile richiesta di soccorso.
Deve seppellire quella cosa. Deve trovare un posto riparato dove la terra non sia troppo
dura. Intanto il buio si è fatto più fitto ed è costretto ad accendere i fari.
Là, un po' più avanti, tra i rami bassi degli alberi sembra il posto giusto. La trascina, il
corpo pesa come una montagna eppure è così magra! Forse è il vestito che è pesante,
forse è la morte che lo calpesta.
In ginocchio, come un cane affannato, Marat scava. Con le mani dapprima, poi con un
ferro che ha scovato sull'auto. Ormai è notte ed è stufo, ha voglia di lasciare quel
posto, di fuggire, di dimenticare.
Forse è per la antica paura dei morti che ritornano o forse un rigurgito di pietà che
distende il vestito nella fossa, ci adagia sopra il corpo nudo e fragile e lo ricopre di terra
e di foglie.
Si alza infine, si avvia barcollando alla macchina e: accidenti la borsa! Se ne era
dimenticato. La apre, sente che dopo tutta quella fatica merita una ricompensa. Trova
una spazzola, un pettine verde, gomitoli di lana, pochi contanti e un cellulare.
Il cellulare lo sanno tutti che è pericoloso, ma Marat è veramente un cretino, ha la
memoria di un pesciolino rosso e l'avidità di un uomo piccolo piccolo.
...e se tu uscissi da lì
ti farei sedere sull’orlo del letto
ti metterei sotto i piedi la mia pelle di lupo
con la testa chinata e le mani giunte starei davanti a te
ti guarderei, gioia, ti guarderei stupito
come sei bella, Dio mio, come sei bella
l’aria e l’acqua d’Istanbul nel tuo sorriso
la voluttà della mia città nel tuo sguardo
o mia sultana, o mia signora, se tu lo permettessi
e se il tuo schiavo Nazim Hikmet l’osasse
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sarebbe come se respirasse e baciasse
Istanbul sulla tua guancia
ma sta’ attenta
sta’ attenta a non dirmi “avvicinati”
mi sembra che se la tua mano toccasse la mia
cadrei morto sul pavimento.
Così cantava il poeta turco Nazim Hikmet dal carcere a Munevver in Anatolia, nel
1944, ma Marat non lo aveva mai letto.
Murat Karatash, l' assassino di Giuseppina Pasqualino è stato arrestato il 12 aprile
2008, una settimana dopo il delitto, grazie all' intercettazione del segnale inviato dal
cellulare di Giuseppina: l' uomo lo aveva riacceso dopo avervi inserito la propria
scheda telefonica. Karatash ha confessato di aver prima violentato in macchina e poi
strangolato Giuseppina nei pressi della località di Gebze, non lontano da Istanbul.
L'assassino ha condotto gli inquirenti nel bosco di Ballikayalar in cui aveva
abbandonato il cadavere sotto uno strato di terriccio, fogliame e rami secchi. L'edizione
online del quotidiano Hürriyet, uno dei grandi giornali turchi, il giorno dell'arresto
apriva con il titolo «Utaniyoruz», «Ci vergogniamo».
Il racconto fa riferimento alle cronache apparse sui giornali dell'epoca riportate secondo un narrato
immaginario.
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Diventare maschi
Leno 28 settembre 2002
Da quando Nico era sta beccato a rubare biciclette ed era stato allontanato dal Music
Pub - biliardo e videogiochi, “l'unico posto decente di tutto Leno“ si dicevano fra loro
tirandosela da intenditori di locali “giusti” - Nico, Nicola, Mattia e Giovanni si
incontravano alla cascina Ermengarda, chiamata così perché, si narra che vi avesse
dormito una notte Desiderata, la moglie ripudiata, per questioni di potere, da re Carlo
detto il Grande. L'Ermengarda è una delle tante cascine abbandonate, distante poche
centinaia di metri dalle loro abitazioni; tutti, infatti, abitano nei villini a schiera di via
Romagna, periferia di Leno, prospero villaggione a 21 chilometri da Brescia, terra fertile
e bestiame.
Non che fossero proprio amici, si riunivano così, per fare cricca; non avevano molta
scelta, al paese nessuno li vedeva di buon occhio, ne i grandi ne i coetanei. Erano
scartati, considerati dei balordi attaccabrighe come ce ne sono in ogni paese. Ma se
rientri in questa categoria è come portare la stella di Davide. Cosa puoi fare allora se
non essere quello che gli altri vedono in te? Anzi, esageri; per esistere, per essere
qualcosa se proprio non riesci ad essere qualcuno.
Insomma, un quartetto di sfigati composto da tre ragazzini e un adulto.
Giovanni Erra, operaio in una fonderia a San Zeno Navigli, sposato con un figlio di 8
anni è un bamboccione di 36 anni con il cervello di 16. Un uomo-bambino bisognoso
di protezione, ansioso e spaccone, prepotente e insicuro, un pasticcione che sogna di
fare il colpo grosso ma in cerca perenne di approvazione, o, almeno, di una mamma;
da cinque anni è in cura per depressione e per problemi sessuali. Erra è uno che la vita
l'ha assaggiata poco e sempre nei luoghi sbagliati: qualche tiro di coca, qualche pera di
eroina, nei night club a spiare le spogliarelliste, a sudare desiderio e non concludere
niente. La moglie, donna potente ed energica, disposta a molto pur di salvare le
apparenze di dignità borghese, ha rilegato “lo stupido” in una cameretta vicino alla
stanza del figlio.
Del carattere di Nico, 16 anni, sappiamo poco, un tipo chiuso, conosciuto da tutti
come una attaccabrighe, figlio di mandriano, come tanti da queste parti. Nico non ha
voglia di studiare o forse non ce la fa, pare che la sua passione principale sia giocare
alla
playstation.
Ogni tanto fa qualche lavoretto come manovale
e si allena alla
carriera di “balordo” rubando le gomme delle biciclette.
Mattia, detto Bibo perché dice sempre di sì, ha 14 anni, fragile nel fisico e nel carattere.
A scuola è ripetente, ma vuole fare il meccanico come suo papà. Insomma un bambino
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alle prese con l'adolescenza e un groviglio di ormoni, desideri e emozioni per il quale
non ha ancora trovato le parole per dipanarlo.
Anche Nicola ha 16 anni, a scuola ha smesso di andarci dopo due bocciature alle
medie. “Bastava dover preparare una interrogazione per avere la febbre a 40”, dice,
così ha mollato e si è messo a fare il muratore. Un mestiere che ama quasi quanto il
suo motorino e la sua famiglia.
Una compagnia nata dal bisogno di ciascuno di loro di non sentirsi troppo soli. E' “il
gruppo di uguali” in cui tutti e quattro si rifugiano per spacciarsi da fighi e imparare a
diventare “uomini”.
Anche quel 26 settembre 2002 si sono dati appuntamento alla vecchia cascina per
decidere cosa fare. E' il loro territorio segreto, la soglia oltre la quale si passa dal reale
all'immaginario, dalla insicurezza alla potenza. E' li che progettano le loro “avventure”,
le modeste trasgressioni di provincia che rivivono, instancabilmente, in racconti infiniti,
ripetute e ingigantite, più vere del vero. “Ti ricordi quella volta che? E quell'altra? Ti
ricordi, ti ricordi...””.
Sono quattro “cavalieri” frustrati che nessuna dama ha scelto per portare i suoi colori
così si assolvono dalla paura giocando a chi la spara più grossa in fatto di sesso e di
cazzi. E poi c'è la noia che è mortale in questa provincia dove se qualcosa succede è
protetta dalla omertà, dove quel che conta sono i soldi, e dove un uomo deve essere un
uomo: il che vuol dire averlo più lungo, più duro e avere molte donne, o almeno farlo
credere agli altri maschi della compagnia.
Che si fa in questi pomeriggi pigri e sonnolenti di settembre? ”Dai Giovanni andiamo
sulla provinciale a lanciare lazzi alle puttane negre”. E' il loro modo di sfogare gli
ormoni impazziti dei 16 anni con gli occhi. “Spariamo quattro calci al pallone per
strada tanto per rompere i coglioni alla gente del paese così ci divertiamo un po'”. Ma
Giovanni non ha voglia di sbattersi e così tira fuori il solito discorso che li attizza tutti e
quattro: parlare di Lei. Di Desirée, la più bella ragazza di Via Romagna, occhi profondi
e sorriso così intelligente e sicuro da farla sembrare già donna, anche se ha solo 14
anni e ha appena iniziato a frequentare la prima liceo scientifico a Manerbio, 5
chilometri più in là.
Desirée, la desiderata, è l'argomento forte del gruppo, tutti ne sono un po' innamorati:
troppo altera, troppo gentile, troppo intelligente, troppo pura,
troppo donna. Un
troppo che fa male a questi cuccioli di uomo incapaci di crescere, invidiosi e impauriti
di fronte a un femminile esploso all'improvviso e che ha trasformato la loro amica di un
tempo in una sorta di aristocratica.
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“In una smorfiosa”, rimugina con rabbia Nicola che ha per lei una selvaggia
adorazione dai tempi delle elementari. Desirée è una idea fissa nei suoi pensieri, la
vorrebbe...mangiare. Appropriarsene, divorarla, diventare lei. Vorrebbe non averne
paura, vorrebbe legarla a se con catene pesanti, vorrebbe che lo amasse, vorrebbe che
lo supplicasse di proteggerla, vorrebbe penetrarla, squarciarla con una lama.
E' lui che, con la solita bramosia, chiede ad Erra di lei. Perché Giovanni, “l'adulto” si è
spacciato con i ragazzini da seduttore, da colui che è riuscito a farsi amare dalla più
desiderata delle ragazze di Leno. E lo confida ai tre che lo ascoltano con ammirazione
e odio, “E' più brava di mia moglie”, a letto vuole fare intendere, e poi tace seminando
nell'aria afrori di sperma e sudore.
Giovanni mente, ma è vero che Desirée è salita sulla sua macchina “per fare un giro”,
ha anche fatto qualche volta la baby sitter al figlio di Erra. E vero anche che Erra la
lusinga inviandole con insistenza SMS.
E' per impotenza e per invidia che cascano gli dei; se non puoi averla l'uva, come la
volpe della favola, dici che è acerba. Ed è proprio la donna che sai che non potrai mai
avere che ti fa venire la voglia di disprezzare, di declassarla a puttana, una “cosa” da
usare e buttare via come un sacchetto di abiti usati.
In fondo sono solo quattro piccoli uomini che non possono confessarsi di avere paura
del sesso e invidia della sicurezza che ostentano le ragazze come Desirée, mentre loro
non sanno ancora se sono pulcini o galli. E' Erra, l'adulto che la moglie ha rilegato in
una stanza vicino a quella del figlio, e che ha una amante con la quale non fa niente
tranne guardarla, che fa il gradasso e si allarga più del solito, ormai invaghito delle sue
stesse invenzione. E'lui che spara tra quel
branco di sfigati una specie di bomba
emotiva: “Portiamola qua, vedrete che ci sta”.
E' come lanciare la fantasia al cielo e osare il proprio desiderio. Una sfida tra maschi
alla prova della virilità. Non è niente di più che una chiacchiera in realtà; una
spacconata come tante altre già dette. Ma questa volta no, quella promessa di sesso
facile, di sesso finalmente, e di vendetta, non si perde nel dimenticatoio come le altre,
entra nel sangue.
Di Nicola soprattutto che da tre mesi soffre come un cane. Lei ha iniziato un'altra vita,
va al Liceo di Manerbio, ha cambiato paese, classe sociale, status, lei è una donna. Si
è messa con uno di Ostiano che tutti chiamano Toni, un tipo qualunque tutto casa
chiesa e lavoro (Nicola lo sa perché è andato a indagare su quel tipo che usciva con la
“sua” ragazza) e non lo guarda più. E poi, da quando ha litigato con Ivano, il fratello di
Desirée, per la storia del motorino e non può più andare a casa a trovare l'amico, è
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fuori dalla grazia di Dio. Perché hai voglia a ripeterti che ce ne sono mille di ragazze,
anche più belle di lei. Ma poi, quando sei solo, anche se non vuoi, ci pensi sempre.
La storia con Ivano gli rode ancora e tanto. Non era colpa sua, era per colpa di Ivano
che non sapeva guidare così erano caduti tutte due e Ivano si era rovinato il motorino
nuovo di pacca. Quel vigliacco davanti a suo padre aveva dato la colpa di tutto a lui.
Glielo aveva proprio gridato in faccia, “La colpa è tua, sei stato tu a frenare perché sei
uno scemo e non sai fare altro che lo scemo!”. Quello “scemo” gli bruciava addosso, lo
umiliava, lo lasciava irrimediabilmente solo e sconfitto.
Nicola aveva perso tutto: il motorino, l'amico del cuore, Desirée. “Lo scemo” glielo
avrebbe restituito con gli interessi a Ivano, avrebbe capito allora e l'avrebbe capito
anche sua sorella chi era Nicola! Gli ritorna nel ricordo l'intensità di emozioni provate
quando aveva aggiunto nel file del suo computer dedicato a lei la foto di una modella
lacerata da quattro profonde coltellate.
“Perché non la portiamo nella cascina?” ridice Erra che ormai si è invaghito della sua
invenzione, lui “l'adulto”, quello che il sesso lo conosce, li sta sfidando a una prova di
coraggio. “Frocio chi non viene”, dice e pensa di averla sparata così grossa che nessuno
oserà metterlo alla prova.
E' un gioco, un gioco dove ciascuno mette del suo, secondo il suo carattere. Mattia si fa
grande come il grande che ha appena parlato e rinforza, “Quella mocciosa di Desy si
merita una lezione”. Nico fa il finto disinteressato. Nicola ascolta poi, da vero capo, si
lancia a programmare, sino a decidere l'ordine nel quali violenteranno il loro comune
oggetto del desiderio. Desirée non è più la loro amica, non è più una persona reale è il
regalo che si meritano per aver inventato questa nuova trasgressione dove il sesso
diventa facile e non fa più paura, dove, insieme, il gruppo di maschi insicuri fonderà,
immergendosi in lei, il rito di iniziazione al mondo dei maschi.
Non si rendono conto che quello che stanno organizzando è uno stupro e un omicidio.
Mentre decidono come procedere, cosa comprare, quale inganno escogitare per
convincerla a seguirli sino alla cascina, come ucciderla, dove nascondere il corpo
decidono anche di spogliarla “per far credere che ad assalirla sia stato un maniaco”!!!
La mattina del 28 settembre Nicola acquista un caricabatterie adattabile al cellulare di
Desy (hanno deciso, per depistare le indagini, di inviare al fratello di lei, Ivano, tramite
una scheda che Nicola ha rubato in un campeggio di Jesolo, un SMS che dice “Sto
bene, non preoccupatevi non torno a casa”), un sacchetto di cellofan per nascondere
gli indumenti sporchi di sangue e, infine, nel supermercato del paese, un coltello da
cucina Kaiman, 20 centimetri di lama. A Nico il compito di procurarsi delle fascette
autobloccanti per immobilizzarla.
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Lunedì 28 settembre. Sono le 16 quando Desirée, dopo aver fatto i compiti, esce di
casa “Torno tra un'ora”, dice. Esce ma invece di andare a casa della sua amica si
incammina in direzione della cascina Ermengarda, Nicola le ha detto che c'è una
nidiata di gattini affamati e lei non ce l'ha fatta a dire di no. Ha un debole per quei
batuffoli pelosi e non sopporta l'idea che abbiano fame. E va alla cascina; va
all'incontro con Nicola anche se non si fida di quel ragazzo ansioso e nevrotico che le
fa la corte e la minaccia da quando erano bambini.
Quello che è successo dentro le mura sgretolate e sporche del secondo piano della
cascina Ermengarda non è del tutto chiaro. Nicola sostiene di averle chiesto “Di
diventare la sua unica confidente, la sua amica del cuore”, ma con un coltello di 20
centimetri in tasca. Sappiamo anche che tutte e quattro i congiurati arriveranno dentro
la cascina. Nico forse era già dentro. Sono loro due che provano a immobilizzaree la
ragazza che pesa trenta chili ma che di fronte alla minaccia di quei due infoiati, dello
schifo, deldisprezzoo ha le forze centuplicate e i due non riescono a tenerla ferma.
Mattia arriva in quel momento, forse non ci voleva andare alla cascina, aveva la partita
di calcio lui! Ma è finita troppo presto e non sa che scusa trovare di fronte al gruppo.
Così, lentamente, sperando di arrivare in tempo a vedere qualcosa e, ancor più, di non
trovare nessuno, arriva alla cascina. Sale le scale di legno e “Aiutami a tenerla ferma”,
grida Nico mentre Nicola paonazzo di rabbia e di fatica cerca, goffo e sudato, di
violarla. “Mi fai pena e mi fai schifo”, sibila l'indomita Desirée che si divincola come
una leonessa. Nicola ormai è in guerra, quello non è più un gioco è una sfida all'ultimo
sangue. Invidia e paura gli accecano le emozioni; lui sta lottando per diventare un vero
maschio, non può perdere; né va della sua stessa vita.
La prima coltellata è nel costato, ma chissà dove ha preso Desy quell'energia
sovrumana che la fa sgusciare dalle mani sudate dei suoi carcerieri e che la porta a
fuggire giù per le scale verso la luce e la salvezza.
Anche Erra, l'adulto, è andato alla cascina. Prima ha fatto un bel pisolino e poi si è
detto, ”Andiamo a vedere cosa è successo”. E' lui che la ferma e la riporta indietro
nelle mani dei torturatori. O forse non è così, lui era già lì a guardare, come sempre, e
la ferma e la riporta indietro, e la consegna a morte certa. Di più, le toglie l'ultima fede
negli uomini.
Ma lei fugge ancora e va verso la finestre, pronta a tutto pur di sfuggire a quel branco di
feroci cretini che la riagguantano e la fermano con due, o forse tre, fendenti tra le
scapole che la fanno cadere a terra a gemere per un'ora e mezza di agonia.
Erra e Nico cercarono di sollevarla e Nico le sferra un ultimo, inutile, colpo alla gola. Il
branco partecipa compatto al rito di iniziazione e morte, come è stato deciso in quel
66/101
“leale” patto tra uomini. Leali tra loro sino a che, individuati dagli inquirenti, non si
tradiranno l'un l'altro.
Dice l'antropologa Rita Laura Segato “il crimine di stupro deriva da un mandato
emanato dalla struttura di genere” e spiega: “La costruzione della mascolinità ubbidisce
a processi diversi
da quelli della costruzione della femminilità. In una prospettiva
transculturale, ci sono prove che indicano come la mascolinità sia uno status
condizionato dalla sua acquisizione, la quale deve essere confermata con una certa
regolarità durante tutta la vita, mediante un processo di conquista e superamento di
prove, subordinato alla riscossione di tributi da un altro soggetto che, per la sua
posizione in questo ordine di cose, è il fornitore del repertorio di gesti finalizzati ad
alimentare la virilità. Quest'altro soggetto nello stesso momento in cui consegna il
tributo, realizza la propria esclusione dalla casta che consacra”.
I fatti sono liberamente ispirati a un fatto di cronaca riportato da
Repubblica dal 5 al 17 ottobre 2002
La Stampa, Il Corriere della sera, la
67/101
Appunti per la festa
Chieri 17 ottobre 2002
La festa è oggi. Ha calcolato i tempi, deciso le armi, definita la tecnica e gli obiettivi.
Per una settimana, seduto sullo sgabello sistemato nel vano servizi dell'autocaravan
New Jersey noleggiato l'8 ottobre presso la Expocar di Torino, ha osservato le abitudini
degli obbiettivi e le ha annotate, scrupolosamente, su un vecchio quaderno a quadretti.
Ha appuntato anche la sequenza temporale della sua entrata in scena, l'abbigliamento
da indossare, le precauzioni da prendere per non essere interrotto prima di portare a
termine l'attacco. Ha ripassato con la mente, infinite volte, giorno dopo giorno, i vari
step e adesso è pronto.
8, 25
Mauro Antonello, 40 anni, ex carpentiere, spegne l'ultima sigaretta in un
portacenere zeppo di mozziconi, ha la gola arida e si autorizza a bere ancora un sorso
d'acqua, poi getta la bottiglietta di plastica in un mucchio di altre buttate a caso per il
camper. Un sorso di antivomito e, una dietro l'altra, tre pastiglie antipanico. Ha già
indosso i calzoni multitasche tipo militare, le scarponcini leggeri, la T-shirt.
E' calmo, padrone di sé, tutto è stato programmato con ordine meticoloso; se non ci
sono imprevisti, e non ci devono essere, l'operazione andrà a buon fine in due minuti.
Poi, tutto sarà finito.
8,28
Lo scuolabus è in ritardo. Avrà incontrato qualche intoppo, pensa senza
emozioni, deve solo pazientare qualche minuto ancora. Ha indossato il piumino
perché la mattina presto, di fine ottobre, a Chieri è già tempo di brina.
E' tempo di completare la vestizione. Si alza lentamente, apre la zip della giacca
perché ha bisogno di aria ed é meglio non opprimere il torace con pressioni aggiuntive;
sono accorgimenti necessari, e Mauro lo sa bene, a prevenire e contenere reazioni
emotive incontrollate.
Poi, si cala il cappello con la visiera sulla fronte e mette i tappi nelle orecchie.
8,29
Ha legato alla caviglia la fondina con il revolver calibro 38, nella custodia
ascellare ha una semiautomatica Tamfoglio calibro 9 per 21; stretta in pugno la
mitraglietta Falcon bifilare a colpo singolo in canna; il laser per esterno è stato tarato a
25 metri. Lo ha comprato all'ultimo momento. Esattamente alle tre di pomeriggio di ieri
nel suo negozio preferito, la Tecnoarmi, di via Casteldelfino, 5 a Torino. E' il dispositivo
68/101
di attacco usato dai corpi speciali quando, in una irruzione, si deve “saturare
l'ambiente”: un colpo una persona. Esattamente quello che ci vuole per lui.
Chissà perché gli ritorna addosso il fastidio che aveva provato quando il proprietario
dell'armeria aveva cercato di ficcanasare nei suoi affari in modo così
inopportuno.
Quando gli aveva chiesto mezzo chilo di polvere da sparo e pallottole Holopoint,
quelle con l'ogiva a punta cava a impatto devastante, si era permesso di fargli notare
che si trattava di pallottole vietate per la difesa personale. Ricordava però, con un
piacere quasi fisico, come lo aveva zittito: “Non si preoccupi. Dove tiro io non ci sono
problemi”, secco e definitivo.
Ma il negoziante si era rivelato un tipo tenace nella sua invadenza; quando gli aveva
chiesto di vedere il laser, invece di farsi i fatti suoi, aveva cercato di dissuaderlo o di
strappargli qualche informazione buttando lì un confidenziale: “Perché vuole buttare
via tanti soldi per un marchingegno che non le serve a niente?”.Neanche avessero
succhiato il latte dalla stessa mammella!
Lui, allora, aveva sollevato, molto lentamente, gli occhi, lo aveva guardato dritto in
faccia, per un lungo attimo in silenzio, e gli aveva detto la verità, ”Io mi diverto così”.
8,30
L'autobus ancora non si vede. Andrea e Davide, i due figli di suo cognato, sono
già usciti. Non potevano essere tra gli obiettivi per una questione di tempi tecnici,
pazienza! Alla fine aveva deciso che la punizione doveva essere chirurgica, senza
danni collaterali, colpire la colpevole e i suoi complici.
La bambina no, lei doveva vivere; poi, col tempo, avrebbe capito da che parte stava la
giustizia. Ma Carla, sua moglie, sarebbe stata punita severamente per la sua cattiveria,
per la sua testardaggine, per la sua stupidità.
Era scappata dalla casa coniugale dopo cinque anni di matrimonio e si era rifugiata dei
suoi, e adesso voleva il divorzio dicendo a tutti che luui era un violento! Lui che aveva
provato in tutti i modi a ricomporre la sua famiglia, che mille volte aveva tentato di
farla ragionare! Ma lei restava sorda alla sue preghiere.
D'altronde non aveva mai capito niente e non c'era da stupirsi se continuava a
perseverare nell'errore. Era cattiva. Non voleva capire che solo lui sapeva cosa era
giusto per lei, che era tutta una questione di ordine. Ma lei no, disubbidiva.
Magari disubbidire proprio no, piuttosto agiva di malavoglia. Era stato costretto a
tenerla sotto controllo giorno e notte per evitare che sbandasse. Aveva persino dovuto
lasciare il lavoro per educarla!
E lei cosa faceva?! Lei andava in giro a lamentarsi che, oltre alla bidella, la obbligava a
fare le pulizie nelle case dei vicini! E allora?! C'era bisogno di soldi e toccava a lei
69/101
guadagnarli, lui era troppo impegnato a ristabilire l'ordine naturale, che esiste dalla
notte dei tempi: l'uomo comanda la donna ubbidisce.
Carla invece si ostinava a non capire che quando la puniva, e solo allora, sentiva di
amarla. L'accusava di pisciare apposta fuori dal water, e allora?!
L'ubbidienza si
impara attraverso l'umiliazione.
“Mia figlia capirà”, pensava. “Da gerande capirà che ho fatto quello che era necessario
fare. E' tutto scritto nelle lettere, una per ciascuno. Non sono un maleducato, chiedo
scusa e spiego perché l'ho fatto. Ma non potevo permettere che mia moglie vivesse
senza di me. Non potevo permettere che lei vivesse mentre io morivo”.
8,35
“Che fine ha fatto l'autobus? Avrebbe dovuto essere già qui”, si chiede. Il vano
servizi del camper è claustrofobico, con tutta quella roba addosso si sente soffocare.
Ancora qualche minuto di pazienza e poi sarà tutto finito.
Vuole divorziare quella là! Non capisce che giudici e avvocati vogliono solo soldi,
soldi, soldi. Che per loro siamo niente altro che una pratica, pezzi di carta non
persone, non un padre e una figlia! Loro ci fanno gli affari con la sofferenza della
gente!
Come ragionavano quelli là non lo capiva proprio. Era stata Carla a scappare dalla casa
coniugale con la bambina e il torto era suo!? Che merda di mondo è questo! Secondo
loro avrebbe dovuto vedere sua figlia una volta alla settimana, “e allora meglio niente”,
glielo avevo gridato sul muso a tutta quella ghenga di sfruttatori. “Senza Carla, come
faccio a vivere, io che non posso lavorare, che ho sempre i dolori alle mani” cercavo si
spiegare. “Però a sparare ce la fai”, replicava lei. Le potevo rispondere: 'Io sparo per
vivere?'
Cosa può capire una donna di una pistola, di una raffica di colpi sparati contro un
bersaglio. La guerra è cosa da uomini. Una pistola la puoi accarezzare, smontare,
lubrificare, ascoltarne la voce mentre riassembli i pezzi: 6 volte click e il caricatore è
riempito, clack e lo infili nell'impugnatura, roarr ed è armata, sollevi il cane e metti la
sicura poi basta impugnarla saldamente, schiacciare il grilletto e bang bang bang.
8,41
Ma quando arriva questo autobus! Le pupille si sono fatte aguzze a forza di
scrutare la strada, ha le orecchie tese per carpire il rumore conosciuto del bus, ma non
sente niente. “Quel minchione di autista si sarà messo a cincischiare con qualcuno”,
borbotta. Peccato non uccidere anche lui. “Pota!”, gli sarebbe piaciuto spappolargli
quella faccia di bronzo. Non gliela aveva mai mollata la bambina. Ripeteva, senza
avere il coraggio di guardarlo negli occhi, che non poteva, che la madre gli aveva e70/101
spli-ci-ta-men-te chiesto di non affidare la bambina a nessuno. E non lo diceva ma si
capiva che pensava: specialmente a lei. A me che sono il padre!!!
Se oggi sono qui è perché lo hanno voluto loro; non mi hanno lasciato altra giustizia se
non la mia. Qualcuno, dopo, mi chiamerà pazzo, altri diranno che il mio è stato un
gesto orribile, incomprensibile; qualcuno, forse, mi considererà una vittima delle
circostanze e cercherà di capire la mie ragioni, altri, lo so, si identificheranno e mi
vedranno come un eroe. Nessuno però potrà chiamarmi vile!
Mauro si sente più e meglio di un terrorista, si sente il nuovo attore di una nuova
guerra, quella dove tutti muoiono. Perché lui sul tavolo da gioco di questo atto di forza
esemplare getta il carico più pesante: la sua vita.
Per lui la violenza è un gesto morale, serve ad imporre la propria realtà al nemico. E'
un atto di intelligenza e va usato “senza restrizioni, senza risparmio di sangue”.
8,54
Eccolo! Lo scuolabus sta percorrendo via Parini e si dirige verso la villetta
numero 3. Sua figlia esce di casa accompagnata dalla madre, Carla Bergamin, e dalla
nonna, Teresa Gobbo. La bambina sparisce dentro il pulmino giallo che la porterà a
scuola e le due donne rientrano ciascuna nella propria casa.
Mauro apre la porta del camper parcheggiato dietro la casa di Pino, tre isolati prima
della casa dove abita Carla, ma dal lato opposto.
Borgo Venezia è un quartiere residenziale alle porte di Torino, lo chiamano così da
quando è stato colonizzato dai veneti, emigrati qui con la piena del Po e l'alluvione del
Polesine. Sono villette senza pretese, a due piani con giardinetto, allineate, una di
seguito all'altra, sullo stessa strada di periferia. Abitazioni decorose come la gente che
ci vive aggruppate per blocchi familiari.
Qui tutti si conoscono e si danno, a vicenda, una mano. Per Mauro sono tutti nemici, e
questa, per lui, è il momento di suonare il degheio.
8,55
Carla scende gli scalini dal retro del primo piano della villetta bifamiliare, si
dirige verso la macchina, una Y10 bordeaux parcheggiata.
Mauro entra in azione, ripassa a fior di labbra le istruzioni che ha scritto sul suo
quadernetto, “Importante. Appena esce dalle scale scendi dal camper e aspetta dietro la
cinta di Maurizio”. Fatto.
Adesso “su obiettivo con camminata decisa ma calma”. “Quando lei gira l'angolo
affrettati senza correre”.
Carla sta mettendo in moto il motore, Mauro le è di fronte mitraglietta in pugno,
“Appena obiettivo ti guarda spara” e lui spara.
71/101
Prima attraverso il parabrezza, poi dal finestrino laterale e infine un colpo di grazia alla
nuca.
“Passata soglia cancello carrabile chiuderne un'anta”.
“Sparare a tutto nel raggio di 25 metri.
Se qualcuno osserva creargli panico, ma non più di due doppiette. Primaria
importanza scovare obiettivi”.
8,56
Decio Guerra, il vicino che abitava al pianterreno di via Parini 5, compare sulla
soglia di casa allarmato dai colpi di arma da fuoco. E' un obiettivo.
“ Fermo sulle gambe quando spari” e Mauro spara, a bruciapelo.
La moglie Laura Cerrato la sorprende in cucina e la fredda. I due pensionati avevano il
torto di sorvegliare la bambina quando la mamma era al lavoro.
Adesso, scavalca la recinzione che lo divide dal giardinetto dove abitano la suocera e i
cognati. Il laboratorio tessile del cognato è a piano terra, entra. Uccide Teresa Gobbo,
71 anni, la madre di Carla.
Spara anche a Pierangela Gramaglia, 31 anni, operaia appena arrivata al lavoro; non ha
avuto neanche il tempo di alzarsi da dietro il telaio. Non ha previsto superstiti.
8,57
“Se necessario gettarsi a terra per colpire meglio”. I due cognati stanno
scappando dal giardino, lui li insegue e li raggiunge. Spara prima a Margherita Fyles,
42 anni, poi a Sergio Bergamin.
“ Se bisogno riordino idee o arrivo sirene, non fuga all'esterno ma penetrare da finestra
in casa” ed è quello che fa. Ma la casa, come supponeva, è vuota, Davide è a scuola,
frequenta l'Istituto di grafica dai salesiani e Andrea è all'Università.
Sale sino alla mansarda, si siede sul divano, impugna la calibro 38 e spara.
I carabinieri lo hanno trovato così, fasciato nel giubbotto nero dei Corpi Speciali il
petto trapassato da una pallottola. Accanto a lui la pistola e la mitraglietta ormai
scariche. La semiautomatica l'aveva lasciata vicina al corpo di una delle vittime, si era
inceppata.
Ha scritto il filosofo e sociologo francese
Jean Baudrillard, “ La tattica del modello
terroristico consiste nel provocare un eccesso di realtà e nel far crollare il sistema sotto
tale eccesso”.
Il racconto è liberamente ispirato a un fatto di cronaca riportato da la Repubblica del 16/17 ottobre 2002
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Ho ucciso mia madre
Milano 1997
7 novembre, carcere di...
Oggi sono stato dallo psicologo.
Ha definito la mia, " una personalità a doppio
spessore". Insomma ambivalente, una specie di contenitore di opposti, odio e amore,
perfettamente scissi tra loro. Adesso, sdraiato in branda, solo, i miei compagni di cella
sono all'aria, cerco di analizzarmi da questo punto di vista. Non mi riconosco. Eppure
so di aver ucciso mia madre, eppure so di averle voluto bene. Anche adesso le voglio
bene, povera mamma.
La famiglia era tutto per me. Non mi sento capace di odio. Sono forse capace di furore?
Cosa era stato che mi aveva fatto reagire contro mio padre quella volta che mi aveva
schiaffeggiato per una risposta sgarbata. Ricordo che lo avevo spinto con un impeto che
non ero riuscito a capire. E che lo aveva spaventato. A ripensarci mi viene da
considerare che mi aveva guardato con una intensità particolare, con stupore e, forse,
addirittura con riverenza. Aveva visto me, non suo figlio.
Oppure sono io che castello, per trovare una giustificazione a quel terribile gesto che,
io, proprio io ho compiuto?.
20 novembre
Questa notte ho sognato mia madre. É stato un sogno particolarmente dolce. Ci
parlavamo, seduti l’uno di fronte all’altra, nel salotto della televisione. Era una
conversazione pacata, tranquilla. Di solito invece c’era qualcosa di sbagliato nel suo
modo di parlarmi. No, sbagliato non è la parola giusta. Ma un sotteso, indulgente
rimprovero che mi metteva a disagio.
Lo stesso che usava quando lei e papà mi
venivano a ritirare dalla casa della balia, la sera dopo il lavoro, quando ero piccolo.
“Cosa mi avete portato?”, ho chiesto loro tutte le sere sino al mio decimo compleanno.
Mia madre me l’ha ricordata spesso quella assurda, ripetuta richiesta; senza mai dirlo
esplicitamente mi la rinfacciava, quasi fosse un tradimento verso la famiglia. E aveva
ragione, loro lavoravano per tutti noi, perché avessimo una casa più bella, di proprietà,
perché io potessi studiare, per vivere meglio. Ma io non riuscivo a non chiederlo. Mi
dicevano , “Bisogna che anche tu ti renda responsabile verso la famiglia”. Capivo che
quellaera l’unica cosa veramente importante e cercavo di comportarmi come la
mamma avrebbe voluto, ma dalla vicina non ci stavo bene, ogni tanto mi assaliva un
freddo terrore senza nome.
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Sono sicuro che se "quel giorno" la mamma mi avesse chiamato per nome, mi avesse
detto, “Daniele fermati, cosa fai!”, mi avrebbe richiamato alla realtà e mi sarei fermato.
Invece, mentre ero sul suo corpo e cercavo, sì, di non farla soffrire però ucciderla e non
ci riuscivo, lei ripeteva, “Oh mamma, oh Dio!”. Come se non mi riconoscesse, come
se fossi un’altra persona che le stava facendo male. Questo mi ha fatto pensare, molto.
Per qualche tempo, poi, ho temuto che non mi avesse mai voluto bene. E invece so che
mi ha voluto bene. Anche se aveva un modo tutto suo per dimostrarmelo.
23 novembre
Avevo trent’anni e mi chiamava, “Sciocchino”. “Ma dai sciocchino, non prendertela!
Quella ragazza non vale niente, e poi non è adatta a te. Una che è già stata con un
altro non è una ragazza per bene”. Ero d’accordo con lei ma ero lo stesso disperato.
O forse invece non provavo niente. Perché, più ci penso e più mi pare di non essere
mai stato particolarmente infelice. Ero confuso sui miei sentimenti: una parte di me
pensava che avrei dovuto essere disperato, l’altra analizzava gelidamente i fatti.
Comunque avrei voluto essere preso più sul serio. E, invece, la questione finiva lì,
liquidata, senza nessuna importanza. L’unica cosa importante era la famiglia.
E il
lavoro.
Finché era stato vivo mio padre, dopo il diploma di perito chimico, avevo dato una
mano nell’agenzia immobiliare che possedevamo in città, ma avrei voluto un lavoro
mio. Avevo anche tentato; per un certo periodo avevo fatto il consulente finanziario per
una società d'investimento, anche il tirocinante in un laboratorio farmaceutico ma i
miei continuavano a dirmi, “Perché andare a lavorare sotto padrone, resta in casa”.
Finivo sempre per fare quello che volevano loro, e tornavo in agenzia. Dove ero a
disposizione.
Mia madre doveva
andare a fare la spesa? Io dovevo lasciare tutto, prendere la
macchina e accompagnarla. E anche se doveva andare dalla sarta, o dal medico. Non
chiamava mio padre, chiamava me. Era ovvio, scontato. Anche per mio padre.
Ma se anche io ero la famiglia, perché non avevo voce in capitolo, perché non si
chiedeva il mio parere? Spesso avevo recriminato questo suo atteggiamento che non mi
lasciava nessuno spazio per me. Ma lei continuava a dire che ero giovane, che non
capivo, che dovevo imparare. Continuava a trattarmi come un bambino. E finivo
sempre per fare quello che voleva lei.
...pomeriggio
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Ho raccontato queste cose allo psicologo, mi ha chiesto se provavo rancore verso i miei
genitori. Ci ho pensato bene, e ho risposto di, “No”. Ed è la verità. Non credo di aver
mai provato rancore nei loro confronti,
gli volevo bene.
E poi non riuscivo ad
immaginare altra vita che quella. Era solo quella la realtà, l’unica possibile.
Come si fa a provare risentimento per l’unico mondo che esiste per te. Forse è per
questo che adesso, qui in questa galera, mi sento finalmente nato? Perché ho visto altri
mondi, perché riesco ad immaginarli!
É bizzarra la vita.
27 novembre
Questa mattina mi sono svegliato di ottimo umore. Chissà perché mi erano venuti in
mente i mesi del militare. Il Car, soprattutto. Tre mesi a Roma. Il periodo più bello della
mia vita.
Il periodo più lungo lontano da casa. Anzi, l’unico. Non avevo fatto proprio niente di
particolare: una pizza con gli amici della camerata, qualche passeggiata per la città.
Stavo bene. A me è sempre bastato poco per vivere.
Non ho mai avuto molte esigenze. Ho sempre vissuto con la paghetta mensile. In
agenzia non ho mai preso un vero stipendio. Tutto quello che si guadagnava andava
nelle casse della famiglia, per comprare la casa. Avevamo in mente una villetta
bifamiliare, una per i miei genitori e l’altra per me e mia moglie, una volta che mi fossi
sposato.
O almeno era questo che aveva in mente mia madre. Io, ogni volta che se ne parlava
dicevo, “Beh, vedremo. Non è detto che io e mia moglie...”. La mamma non mi faceva
neppure finire e continuava a progettare il nostro futuro.
Non riusciva a pensarmi separato da lei, neanche io d’altronde. Per cui non ho mai
insistito. Non sono mai stato capace di oppormi ai suoi, ai loro progetti. Mi sentivo un
tutt’uno con loro, sentivo che avevano ragione quando dicevano che l’unica cosa
importante era la famiglia, la nostra. Io mi sentivo forte solo quando facevo esattamente
quello che volevano loro.
Forse mio padre mi avrebbe lasciato un po’ più di libertà. Me lo aveva anche detto,
“Capisci, se torni tardi la mamma soffre. Il male minore è che tu dia un orario e lo
rispetti”. Era il male minore e lo rispettavo.
A trent’anni avevo una serata libera alla settimana. Il giovedì, sino a mezzanotte. Se
ritardavo telefonavo, ma cercavo di evitarlo. Sapevo che mia madre avrebbe
incominciato a lamentarsi. Soffriva di esaurimento, era consuetudine per lei prendere
calmanti. Un quarto d’ora di ritardo e già immaginava catastrofi, si sentiva mancare,
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aveva le palpitazioni. Mio padre si scocciava. “E poi”, mi rimproverava lei, “a casa non
ci sei mai”.
Non c’ero perché lavoravo. E lavoravo fino a tardi, magari sino alle dieci di sera. E il
sabato facevo l’allenatore di una squadra di calcio di ragazzini in parrocchia. A meno
che non andassi a pescare con i miei genitori.
Ero supercinetico allora, avevo sempre qualcosa da fare, qualcosa che mi impedisse di
tornare a casa. E se erano impegni di lavoro era meglio, perché se uscivo con qualche
ragazza la mamma aveva sempre qualcosa da ridire. Era in queste occasione che stava
più male.
30 novembre
Oggi è venuto l’avvocato. Mi ha detto che il processo è stato fissato. Non avevo voglia
di decidere la linea difensiva, in fondo sono reo confesso.
So solo che presenteremo la perizia psichiatrica. I miei periti sosterranno la
seminfermità mentale.
Chissà quando è incominciato tutto? Forse quando mi ha lasciato Marta.
Non capiva perché non le presentassi mia madre. Potevo dirle che quasi sicuramente a
mia madre non sarebbe piaciuta? Che mia madre si vergognava della nostra casa? E
allora pensavo che anche io dovevo vergognarmene, e che per questo non invitavamo
mai nessuno?
Da quando papà era morto d’infarto, il progetto della villetta bifamiliare era sfumato.
C’erano state un sacco di spese, e poi io non riuscivo a stare dietro all’agenzia,
praticamente era chiusa. Ma non potevo dirlo alla mamma, così tutte le mattine uscivo
alla solita ora, “Per andare in ufficio” e la sera rientravo e raccontavo di come andavano
bene gli affari. Ma la mamma da qualche giorno aveva cominciato a farmi un mucchio
di domande, e sembrava decisa a venire in ufficio.
Non ero particolarmente preoccupato di quella minaccia. In quel periodo vivevo in
una sorta di esaltazione; siccome non potevo cambiare la realtà, la inventavo, così la
mamma era contenta e se ne stava un po’ tranquilla, e anch’io.
Ormai ero intrappolato in un mondo fatto di bugie. Ma più che spaventato ne ero
esaltato, ero convinto che, in qualche modo, tutto si sarebbe accomodato.
Mi sorprendevo a spacciare palle con estrema disinvoltura, con una tale ricchezza di
particolari che, quasi quasi, mi convincevo anch’io della loro verità. Avevo raccontato
di un
prodigioso affare che stavo per concludere, un affare di miliardi, e allora
avremmo comprato la villetta. Era quello che dicevo a tutti, parenti e amici.
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Amici? Non credo di averne mai avuti. Mentivo con tutti ma Marta sapeva che in ufficio
non girava una carta. Lei era del mestiere. E mi chiedeva spiegazioni. “É meglio che ci
lasciamo”, le ho detto per tutta risposta.
Risento ancora la mia voce che, senza tradire emozioni, le diceva quella frase. E lei che
rispondeva, “”D’accordo”.
Una ferita al cuore, ma sorridevo. Non ho cambiato
espressione. Ero come sempre, tranquillo, sereno, gentile mentre pensavo
freneticamente a quello che avrei dovuto fare e dire, mentre cercavo di spiare dentro la
sua mente, di interpretare ogni suo gesto.
Volevo disperatamente che mi dicesse, “Ti voglio bene, Daniele. Questo solo importa”.
Invece non diceva niente e io continuavo a sorridere e a pensare, molto freddamente,
a come mi sarei ucciso. Perché era certo che mi sarei ucciso. Non era forse per questo
che avevo rubato quelle pillole a mia madre? Sarebbe stato un cocktail micidiale e
definitivo. Quando Marta è uscita dall’agenzia era buio. Per istinto ho guardato
l’orologio: le sette e mezza, dovevo telefonare alla mamma. “Fra quanto arrivi, è tutto il
giorno che ho il cuore in gola”. Per me era come un riflesso condizionato, dovevo
andare a casa.
1 dicembre
Ho sognato di nuovo la mamma. Era venuta a scuola a parlare con i professori.
Precisamente con la proff di lettere, “Daniele”,
insisteva la professoressa, “si può
sapere perché non hai risposto all’interrogazione?”. “Guardi che aveva studiato, l’ho
visto io”, cercava di difendermi la mamma. “D’accordo signora, ci credo ma io vorrei
lo stesso sapere da Daniele perché non ha risposto”. Io guardavo la mamma e aspettavo
che rispondesse. Era un sogno o un ricordo?
Ieri lo psicologo mi ha chiesto se tra me e la mamma ci fossero stati gesti affettuosi. Ho
risposto, “Si, naturalmente”. Poi, tornando in cella, ho cercato di visualizzare quei
momenti. Erano stati pochissimi. A pensarci bene tra noi non c’erano gesti, qualche
bacio sulla guancia, ma non ricordo nessun vero abbraccio. Forse non ce n’era
bisogno, noi eravamo “la famiglia”. Eravamo un tutt’uno, dunque ci volevamo bene.
Non è così?!
É venuta a trovarmi mia zia, la sorella di mia madre. “Lei era la mia migliore amica,
perché l’hai fatto?”, mi ha chiesto. “Era la mia mamma”, le ho risposto.
7 dicembre
Oggi c’è stata la mia deposizione al processo. Era molto attesa, i giudici togati avevano
un’aria professionale, quelli popolari tenevano gli occhi inchiodati alla mia bocca, una
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delle donne continuava a fissare le mie mani, i giornalisti erano venuti al completo e
c’era anche il "mostro", io.
Eppure io so che l’ho uccisa per amore.
Non potevo più continuare con la finzione dei miei favolosi affari inesistenti. E tutto
quello per il quale avevo vissuto sino ad allora sarebbe crollato, la mia famiglia sarebbe
sprofondata nella vergogna. Avevo deciso che saremmo morti entrambi, era quella la
cosa giusta da fare.
Non potevo suicidarmi e basta, lei, mi dicevo, sarebbe stata disperata: vive per me,
non ha nessun altro oltre me. Ero perfettamente consapevole di questa fatto. Però
quella sera, quando sono tornata a casa, non avevo ancora chiaro cosa fare. Volevo che
dormisse, che riposasse senza chiedermi niente.
Ero riuscito a farle ingerire una mistura di pastiglie, degli ipnoinducenti che mia madre
era solita prendere per dormire e che io precedentemente avevo polverizzato. Pensavo
che avrei alzato la dose giorno dopo giorno, sarebbe morta senza accorgersene e senza
soffrire. A quel punto anch’io avrei ingerito il mio cocktail, tutto in una volta.
Era venerdì sera. La mamma quasi subito aveva accusato dei capogiri e una strana
sonnolenza però non aveva voluto andare a letto. Aveva insistito per rimanere in salotto
a guardare la televisione. Ma poi non ce l’ha più fatta e l’ho accompagnata in camera
sua. Lamentava un forte malessere, e voleva chiamare il medico, ma l’avevo convinta
ad aspettare. Questo farmaco, anche se non era questo lo scopo per cui lo avevo usato,
le provocava una sorta di sudditanza nei miei confronti. Era condiscendente, come
addolcita. Mi faceva uno strano effetto vederla così: prendeva per oro colato tutto
quello che le dicevo. Mi suscitava un forte sentimento di tenerezza.
L’ho aiutata a togliersi la vestaglia e ad entrare sotto le coperte. E lei si è addormentata
quasi subito. Ho spento la luce e sono andato in camera mia.
Ricordo di aver dormito profondamente.
La mattina appena sveglio sono andato da lei, era ancora stordita ma più lucida della
sera precedente. Stranamente opponeva una forte resistenza al farmaco, probabilmente
perché aveva una lunga abitudine alle benzodiazepine. Stava infatti parlando al
telefono con una sua cugina, si lamentava di quello strano malessere
e voleva
chiamare il medico. Ho cercato di convincerla a riprendere la medicina della sera
prima, ma lei non voleva. Non riuscivo a farle sentire ragione. É stato allora che sono
andato in cucina e ho preso il coltello.
Il reperto medico parla di dodici ferite, una, quella mortale: al cuore.
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12 gennaio
Oggi c’è stata la sentenza. Sono stato condannato a 24 anni. I giornalisti erano
scatenati, tutti intorno alla gabbia, mi chiamavano per nome e mi davano del tu,
“Daniele cosa provi?”. Io non provavo niente. “Per me è uguale”, ho detto. Poi i
carabinieri mi hanno messo le manette, mi hanno fatto salire sul blindato e mi hanno
riportato in carcere.
I miei compagni di cella non mi hanno chiesto niente. La radio e le televisione aveva
già dato l’annuncio.
Io sono andato nel gabinetto ho preparato la caffettiera, l’ho messa a bollire sul
campingas,
poi ho messi i cucchiaini nei bicchieri infrangibili, due cucchiai di
zucchero per Vincenzo, quattro per Carlo, a lui piace molto dolce, nessuno per me. Io
il caffè lo preferisco amaro.
E' difficile pensare l'omicidio di una madre da parte del figlio dentro il termine
“femminicidio” perchè la radice “femmina” sembra avere, almeno in italiano, una forte
cadenza sessuata, “madre”, invece, no. La mamma è un essere a parte, buona o cattiva
che sia, non “può” fare assonanza con sesso. E invece la mamma è una donna, più o
meno preparata al compito a cui è stata consegnata dalla natura e dalla storia, di
partorire e allevare figli, maschi o femmine che siano. E in questa storia tutto ciò ha un
peso. “Daniele” durante tutta l'intervista è mantenuto un atteggiamento composto e un
parlare pacato che, per me che lo ascoltavo, strideva fortemente con i contenuti di ciò
che mi stava raccontando. Per andare oltre lo sgomento in cui anche io rischiavo di
precipitare mentre “Daniele” mi raccontava l'orrore di quella gabbia in cui erano
pregionieri lui e sua madre ho dovuto cercare di accompagnarlo. Di essere lui e ho
visto “Daniele” come un bambino di 30 anni, simbioticamente legato alla madre, il “ il
bambino della mamma”, poco più di una “femminuccia”. Una madre che lo assilla, lo
lega a sè e non gli lascia nè spazio nè vita. “Daniele”, posseduto
dell'ansia, dalla paura dell'impotenza e della passività individua in sua madre
l'ostacolo che gli impedisce di appartenere a pieno titolo al mondo dei maschi e decide
di “toglierlo di mezzo”. Non può semplicemente andarsene, se lei vive lui le
appartiene; a essere messa a repentaglio, infatti, è la sua stessa virilità, la sua identità
maschile. Per portare fino in fondo il suo proposito deve convincersi che “lo fa per
amore” e che anche lui morirà con lei, diade perfetta e unita per sempre. Ma la madre
non soccombe ai sonniferi e allora? “A' la guerre comme à la guerre”, “Daniele” va in
cucina, prende un coltello, si sdraia (questo è il termine usato) sul corpo della madre e
l'accoltella. L'equilibrio culturale è ristabilito, adesso è lui quello che ha posseduto il
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corpo prepotente, pauroso della donna. Adesso, e solo adesso, può diventare “un
uomo”.
Il racconto è il risultato di una intervista fatta da me a un giovane reo confesso di matricidio. Il nome è di
fantasia, la scansione è mia, le parole sono sue. E' stato pubblicato da Marie-Claire
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Ciao Marta
Venerdì 9 maggio 1997
Venerdì 9 maggio
Una studentessa di 22 anni, Marta Russo, è stata ferita stamattina
tra le 11,40 e le 11,45 mentre stava passeggiando con un'amica, Jolanda Ricci, in una
stretta via fra le facoltà di Scienze Statistiche, Scienze politiche e Giurisprudenza. La
ragazza è stata trasportata al reparto di neurotraumatologia del policlinico Umberto I,
e, secondo quanto si è appreso, sarebbe in coma profondo. Fonti dei carabinieri hanno
reso noto che la studentessa è stata colpita nella zona temporale sinistra da un proiettile
di calibro ridotto che si è spezzato in tre parti. Gli investigatori stanno analizzando,
insieme al medico legale e al magistrato Carlo La Sapienza, gli esiti delle Tac per capire
la traiettoria del proiettile e sapere così da che altezza è stato sparato il colpo. Secondo
quanto si è appreso, Marta Russo è fidanzata da due anni con Luca Bincelli e vive nella
zona Tuscolana. Da giovane è stata campionessa di scherma. Anche il padre Donato
era molto conosciuto e apprezzato come maestro di scherma. Qualche anno fa però ha
abbandonato l'attività e si è trasferito con la famiglia al sud.
Sabato 10 maggio
Digos e polizia scientifica setacciano la zona dell'agguato alla
studentessa Marta Russo. Non sono ancora stati trovati né il bossolo del proiettile né la
pistola. Dai rilievi eseguiti è emerso che il proiettile è stato sparato da una distanza
"fino ad un massimo di sette metri". L'inclinazione è "leggermente" dall'alto verso il
basso. Fatto che confermerebbe l'ipotesi che la persona ha sparato all'interno del bagno
dell'edificio che ospita la Facoltà di Scienze politiche e Scienze statistiche. Ma questa,
è stato precisato, è un'ipotesi "ad esclusione", poiché nel bagno, dai rilievi, non è
emerso nulla che possa confermare il fatto che qualcuno da lì abbia effettivamente
sparato. Secondo il terzo comunicato ufficiale diffuso poco dopo le ore 18 dal direttore
sanitario del policlinico Umberto I di Roma, Giuseppe Graziano, "La paziente è in stato
di coma ed in respirazione assistita. I parametri vitali rimangono stabili".
Domenica 11 maggio
Potrebbe non essere stato il bagno della Facoltà di Scienze
statistiche il luogo da cui è partito il colpo che ha ridotto in fin di vita Marta Russo. A
farlo supporre sarebbe il fatto che un colpo di pistola sparato da dentro il gabinetto
avrebbe provocato un forte rimbombo. Nessuna, però, delle persone che si trovavano
all'interno dell'edificio, sembrerebbe aver udito quel rumore. Potrebbe quindi cadere
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l'ipotesi che lo sconosciuto abbia sparato all'interno dell'Università. Durante un nuovo
sopralluogo, terminato alle 19 e durato complessivamente 8 ore, è stato trovato un
bossolo. Gli investigatori lo stanno vagliando ma ritengono che non dovrebbe essere
quello sparato dalla pistola che ha colpito Marta Russo.
Lunedì 12 maggio
Due cartucce a salve calibro otto, non esplose, sono state trovate
ieri dagli agenti della Questura di Roma nelle vicinanze dell'ufficio della società che
gestisce le pulizie nell'Ateneo. Le due cartucce, è stato spiegato dagli investigatori, non
possono essere dello stesso tipo di quella che ha ferito la studentessa. Si tratta di
munizioni utilizzate per pistole volgarmente chiamate "scacciacani". I due reperti sono
stati trovati in un locale di servizio, di norma non usato dagli studenti. Restano in piedi
tutte le piste, da quella di matrice politica a quella di una vendetta per amore, anche se
in procura, ufficialmente, prevalgono quelle della casualità, cioè del colpo partito in
maniera accidentale per una disgrazia, e quella dell'errore di mira.
Martedì 13 maggio
"Le condizioni cliniche di Marta Russo sono peggiorate. L'ultimo
esame elettroencefalografico eseguito ha documentato l'assenza di attività bioelettrica
cerebrale". Questo il contenuto dell'ottavo bollettino medico. Gli inquirenti hanno
interrogato per ore, due notti fa, le nove persone che lavorano per l'impresa di pulizie
che ha un appalto nell'Università. A concentrare i sospetti su di loro è stato il
ritrovamento di tre pistole giocattolo che, stando ai risultati dalle analisi della
scientifica, non sono assolutamente in grado di sparare nonostante fossero stati fatti
tentativi per modificarle.
Mercoledì 14 maggio
I genitori di Marta Russo hanno autorizzato la donazione degli
organi della ragazza. Lo si è appreso al Policlinico dal direttore dell'ospedale
universitario, Giuseppe Graziano, che alle 23,40 ha letto ai cronisti il decimo bollettino
sanitario. Alle 22, ha spiegato Graziano, si è riunita ufficialmente la commissione di
medici che dovrà osservare la paziente per sei ore e quindi autorizzare l'espianto, che
sarà eseguito dunque alle 4. Subito dopo, ha aggiunto, come disposto dal magistrato,
verrà effettuata anche l'autopsia. Dal corpo della giovane sono stati prelevati il cuore, il
fegato, i reni, le cornee e il pancreas che verrà utilizzato per estrarre l'insulina.
Un corteo di 5.000 persone tra studenti, docenti e personale dell'ateneo ha sfilato
questa mattina in silenzio lungo il viale principale, è passato davanti al rettorato, alle
spalle della statua della Minerva, ed è arrivato sino al punto in cui, venerdì scorso,
Marta è stata ferita a morte. In testa al corteo, 10 ragazze portavano lo striscione giallo
con la scritta "per Marta".
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Giovedì 15 maggio
Venerdì, quando Marta Russo è stata colpita, nello stanzino
dell'impresa di pulizie "La Pul-tra" c'erano soltanto tre persone. Lo ha detto la
responsabile della ditta all'Università la Sapienza, che lavora all'Ateneo da più di 25
anni. "Io stessa, venerdì", ha spiegato la donna, "ho distribuito le buste paga alle 9,30.
Gli addetti, una decina, tutti bravi ragazzi, sono andati in banca a depositare il denaro.
Al momento del ferimento c'ero solo io e due operai che giocavano a carte". Gli addetti
si occupano delle pulizie dei vialetti, dei locali di alcune facoltà e dell'affissione di
manifesti, hanno un orario di lavoro che va dalle 6,30 alle 9,30 e dalle 14,30 alle
17,30. "Domenica", ha aggiunto, "sono stati interrogati tutti i dipendenti, ma non temo
nulla perché gli inquirenti stanno sbagliando strada". Altri due impiegati della Sapienza
sono stati torchiati dalla magistratura. Da perquisizioni sarebbero emerse due pistole
"detenute irregolarmente" e balisticamente compatibili col proiettile che ha ucciso la
studentessa, forse una calibro 22.
Domani i funerali di Marta Russo.
Ci sono voluti 8 anni e 4 giudizi per arrivare, il 16 dicembre 2003,
alla verità
processuale, che ha condannato: Giovanni Scattone per omicidio colposo a 6 anni di
carcere e all'interdizione perpetua dai Pubblici uffici; Salvatore Ferraro per aver aiutato
Scattone a nascondere l'arma, 4 anni più 5 anni di interdizione dai Pubblici uffici;
Francesco Liparota per favoreggiamento, 2 anni.
Scattone e Ferraro, all'epoca del delitto avevano circa 30 anni, erano assistenti
universitari, e, secondo la sentenza definitiva, si trovavano nella Sala 6 dell'Istituto di
Filosofia del Diritto dell'Università La Sapienza di Roma da dove, è stato accertato, è
partito il proiettile che ha ucciso Marta Russo. La sentenza si regge su tre testimoni
oculari, la confessione di Liparota (confermata dalla madre) e un imponente insieme di
indizi tra loro concordanti.
Certo non è tutto chiaro. Per esempio la principale testimone Gabriella Alletto ha
sostenuto che nell'aula al momento dello sparo c'era un quarto uomo di cui non ha
distinto le sembianze. Un quarto uomo non è mai stato trovato ed è sparito dal
processo. Una testimonianza la sua che, inoltre, arriva con un certo ritardo. Per non
dire delle intimidazione e dell'omertà, sottolineate da più parti, con la quale si è
tentato, all'interno dell'Università, di coprire gli autori del delitto, come se il potere
dovesse e potesse essere al di sopra della legge e la morte di una ragazza al di sotto
della giustizia.
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E c'è chi ha sottolineato, a ragione o a torto non sappiamo, l'imperizia dei giudici nel
condurre il processo. Un processo che, comunque, ha diviso l'opinione pubblica tra
colpevolisti e innocentisti.
Non abbiamo elementi sufficienti per diventare partigiani di una tesi o dell'altra, né
stabilire, se e come, la giustizia è stata ostacolata. Ci interessa di più una ipotesi per
assurdo, entrata nel processo ma subito abbandonata perché ritenuta non credibile, e
cioè che Marta muore, certamente per un colpo partito per sbaglio, dalla mano di
qualcuno che si compiaceva di ragionare, riflettere, conversare su un tema scabroso: il
delitto senza movente, il delitto perfetto.
Parole, comunque, niente di definitivo. Una sorta di gioco ipotetico, insomma, in cui
qualcuno si mette nella parte di Dio. E poi, per puro piacere, per provare - proprio
come si prova un abito troppo audace che sappiamo non metteremmo mai - il brivido
dell'onnipotenza, per vantarsi con il discepolo di sempre del solito cinismo, si mette
alla finestra e mima il gesto definitivo. Quello del “fiero figlio del padre” che dà corpo,
arma in pugno, alla violenza rigeneratrice che salva l'uomo dalla mediocrità borghese
e lo innalza al piedistallo dell'illuminato.
Il super uomo è entrato in scena, si gonfia di superbia e prende la mira.
Quale il bersaglio? Una donna naturalmente, meglio, una fanciulla; una a caso, ma pur
sempre una preda per destino e...spara, senza volere.
Lo perde il suo stesso orgoglio, potremmo dire la “sua fede”. O, più semplicemente, la
sua imperizia e la realtà si accende di morte vera.
La messa in scena del superuomo si trasforma in una tragedia dove un cretino disperato
vorrebbe svegliarsi da quello che deve sembrargli un sogno cattivo. Vorrebbe svegliarsi
e non sapere niente di Marta, perché è viva, perché è solo una dei 160 mila studenti
dell'Università La Sapienza di Roma, e, appunto per questo, non interessa a nessuno. O
solo ai suoi amici, al suo fidanzato, alla sua mamma. E se la prende con il destino
bastardo per quell'incontro imposto dal caso che li vuole indissolubilmente legati l'uno
all'altra, una vittima e un assassino. Qualcuno che non può perdonare Marta di essergli
transitata troppo vicino. Qualcuno che pregherà Dio di salvarlo, e maledirà Dio per
averlo beffato. Per aver tramutato un gioco del cazzo, con una pistola del cazzo, con
un proiettile del cazzo, in un evento senza scampo.
Per aver trasformato un gioco da dimenticare in una tragedia per sempre.
La costruzione degli avvenimenti si attiene alle cronache dei giornali dell'epoca, alcune supposizioni sono del
tutto immaginarie. Il racconto è apparso, con qualche modifica, su D-la Repubblica delle donne
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Oggi si muore
Eric Borel 24 settembre 1995
Camminava tranquillamente, senza affrettarsi, tenendo in mano, ben dritta, una
carabina. A ogni sagoma che vedeva si fermava, e, con calma, aggiustava la mira e
sparava. Alla testa, sempre.
Oggi la realtà si era adeguata ai sui sogni che, stranamente, non gli faceva più paura. E
neanche sentiva più quell'aggressione dell'anima, quello sconquasso di dentro che da
tempo ormai gli trapanava i giorni e torturava le notti in incubi di morte dai quali si
svegliava sudato e sconvolto e muto. Muto sì, perché loro non dovevano sapere. Non
dovevano sapere quanto a dismisura fosse cresciuto il suo odio, quanto quel mostro
lacerasse il suo amore. Perché la cosa più terribile era che c'era in lui una nostalgia di
loro che somigliava all'amore.
Tutta la notte era rimasto acquattato nel vigneto, sotto la pioggia, gli occhi fissi sulle
prime case di Cuers, poche migliaia di abitanti in quel Mezzogiorno francese, così
verde, dolce e pigro che sta attorno a Tolone.
Occhi fissi su case basse e platani “innocenti”. Era proprio quel mascheramento di
purezza che lo faceva impazzire di furore. Che lo aveva
fatto impazzire di furore.
Perché adesso era calmo, perfettamente calmo. Adesso sapeva cosa fare.
7,30 Ora. A passi sicuri si avvia verso la casa di Alain, il suo “migliore amico”. Non si
può sbagliare, ce l'ha stampata in testa la
faccia sorridente di Alain, sempre così
allegro, così estroverso, cosi ammirato, così amato. Alain, l'unico amico di tutta la sua
vita. Il solo in 16 anni di vita.
Già perché Eric Borel, il ragazzo che avanza a passi lenti imbracciando una carabina e
in tasca 50 pallottole ha 16 anni. 16 giovanissimi anni che a lui sembrano 16 anni di
galera.
Alain Guillemette è pronto, pronto per prendere l'autobus con i suoi amici per andare a
Tolone, all'Istituto professionale per elettrotecnici che frequentano entrambi. É contento
che Eric sia venuto a chiamarlo. «Forse gli è passata e avrà smesso di sclerare», pensa. É
contento Alain, lui non se ne fa di menate, lui é del tipo vivi e lasci vivere e vivi più
che puoi. In fondo che problema é se lui si é messo con Caroline, la sorellastra di Eric
che ha 13 anni e mezzo.
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Scende le scale di corsa, zaino in spalla, saltando i gradini Alain. Con lui c'è Pascal il
vicino di casa. Apre la porta d'ingresso e vede. Vede la canna del fucile dritto negli
occhi e la faccia di Eric distesa, quasi un sorriso sulle labbra serrata, un sorriso sereno e
triste come quello dell'angelo della vendetta. «Cosa fai, sei matto?!». Ma Eric ha già
sparato, ma Eric ha già ripreso la sua lenta passeggiata; Alain e Pascal sono a terra.
Mio Dio é così facile morire!
7,36
Non che il tempo abbia importanza in questa sequenza. Tutto é durato solo
mezz'ora, cioè da qui all'eternità.
Cammina lento Eric, il fucile ben dritto imbracciato davanti a sé. Il suo é un percorso di
guerra. Si spara a tutto quello che si muove.
Bam bam. Un vecchio cade al lato della strada, riverso vicino ai tavolini non ancora
disposti in ordine sul marciapiede.
Bam, una donna si inginocchia e lascia cadere per terra un sacchetto unto, che si apre
e ne esce un croissant ancora caldo. Un lamento alle sue spalle, un lamento di donna.
Anche sua madre Jeanne, anzi Marie-Jeanne Parenti, ex ufficiale dell'esercito, urlava e
piangeva quando la sera prima, era solo la sera prima!?, era entrata in casa dopo la
messa del pomeriggio e aveva capito che sotto la coperta macchiata di sangue c'erano i
corpi di Yves, il patrigno di Eric, e di Jean Yves il fratellastro.
Jean Yves, medita Eric, sarebbe stato anche un undicenne accettabile se non fosse stato
per quel suo nome eccessivo, escludente. Jean Yves! il figlio diletto del padre e della
madre, di Jean(ne) e di Yves. Per forza doveva morire. E doveva morire anche Yves, il
falso padre. Eric lo detestava da quando si era accorto che era il suo viso che si
sovrapponeva a quello del suo vero padre e che lo faceva confondere. Era la sua faccia
che gli impediva di ricordare suo padre. Anche per questo dopo aver sparato li aveva
presi a martellate, per demolire per sempre le loro facce. Ma soprattutto li odiava
perché gli avevano, tutte e due, rubato le donne. Sua madre prima e poi anche
Caroline. Avevano detto che era un schifoso che andava a letto con la sorella. Ma
Caroline non era sua sorella, era il suo amore.
7,41
Bam, bam. Due colpi precisi e cadono un uomo e una donna senza neanche
avere il tempo di ritirare i soldi che stavano prelevando dal bancomat.
7,44
Bam. Un uomo cade. É un vecchio che rotola sull'asfalto, gridando, sin quasi ai
suoi piedi. Eric si ferma e lo guarda. Pensa, impassibile, che non ha mirato bene e che
tutto quel gridare fa disordine. Come sua madre che urlava e urlava e allora le aveva
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sparato. Poi aveva indossato la giacca blu ed era uscito nella notte. Si é perso Eric in
quell'altro brandello di vivida realtà ma torna.
Torna qui dall'uomo che urla e che si copre di sangue. Bam, dritto al cervello e di
nuovo é silenzio.
Spara ancora e ancora Eric sino a che i corpi muti nella morte saranno 13, e quelli
storditi dal dolore otto. Ma a contarli saranno gli altri; quelli che resteranno vivi, dopo.
8,00
Eric é nella piazza del villaggio e ci sono i gendarmi ad attenderlo. Come nei
film. I gendarmi e i vigili del fuoco nei film non ci sono mai. «Arrenditi», gli gridano.
«Che brutta la realtà», pensa Eric. «É come nei sogni».
Per questo si é messo la canna del fucile in bocca e ha sparato.
Gli avvenimenti narrati sono liberamente ispirati alle cronache dei giornali dell'epoca. Il racconto è stato
pubblicato su D-la Repubblica nel 1997
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Bingo!
Tortona 23 dicembre 1997
Dove Passando per l'autostrada Tortona si fa notare per la guglia alta sulla quale una
Madonna dorata spicca sulla città che si stende ai suoi piedi placida, provinciale e un
po' démodée. Trentamila anime e neanche un cinema. Una cittadina quieta con i
portici, la piazza, la stazione ferroviaria e quella degli autobus che mantengono i
collegamenti con la campagna nella quale Tortona scivola dolcemente, senza fratture.
Prima, forse dieci anni fa, c'erano le fabbriche, poi le hanno smantellate, una dopo
l'altra. Non è povera Tortona, anche se non ha la ricchezza sfacciata di Lodi con i suoi
negozi grandi firme; mostra un decoro borghese, senza scosse, rassicurante. La messa
la domenica mattina, il pomeriggio la partita di calcio quando la squadra locale - il
magico "Derthona" - gioca in casa, il mercato il sabato, poi il Club del bowling, il Caffè
Teatro, il Pub El Paso, la discoteca Meyerling, il Mercatone Zeta e una noia mortale.
Se non ci fosse l'automobile.
L'automobile è come la libertà, ti porta dove vuoi, magari ad Alessandria. O anche sino
a vedere il mare, quel mobile azzurro che sta oltre la ripida salita del Turchino. O
almeno potrebbe.
Ma chi ce l'ha i soldi per la benzina, chi ce l'ha i sogni per arrivare sino a
quell'orizzonte senza limiti? I sogni, in questo caso, bastano appena per arrivare sino al
cavalcavia della Cavallosa. Un ponte sopra l'autostrada Torino-Piacenza, a guardar
passare la macchine, quelle che vanno per davvero in un altro dove. Oggetti ibridi, fatti
di lamiere e corpi umani. Feticci del viaggio, della ricchezza, del desiderio. A volte
sarebbe bello fermarle.
Crash! È un rumore sensuale, di ferro e sangue. Quanti sono i morti per incidenti
stradali? Uno all'ora. Ma allora perché le fabbricano? Forse perché un uomo ha meno
significato di una macchina.
Chi Prima che questa storia avesse inizio erano solo dei ragazzi, amici da bar, fratelli,
cugini e fidanzate. Poi sono diventati un branco, una banda, la "banda delle teste
vuote". Otto ragazzi e due macchine, o forse undici ragazzi e tre macchine.
Nella ridda di confessioni e ritrattazioni, di arresti e scarcerazioni, solo il processo
potrà forse chiarire partecipazioni e responsabilità. E forse neanche il processo, perché
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il rito della giustizia cerca di fermare i fatti, di renderli unici e incontrovertibili. Ma la
verità a volte è più complicata, bizzarra, contorta.
Come un'auto sventrata.
All'inizio comunque erano otto. Paolo Bertocco, 25 anni, alla guida della Y10 rossa
della sorella, con lui in macchina ci sono: suo cugino Gabriele Furlan, 27 anni,
Roberto Siringo, 24 anni. Sulla Tipo verde scuro: gli altri fratelli Furlan Sandro, 22 anni,
Paolo, 25, e Franco, 29, Loredana Vezzaro, 19 anni, fidanzata di Sandro, e "un uomo
col pizzetto".
A parlare di fronte al procuratore Aldo Cuva sono Gabriele, Loredana, Sandro, Roberto.
Si autoaccusano, ritrattano, fanno nomi. Uno è quello di Gianni Mastarone, 26 anni,
indicato come l'uomo col pizzetto. Parlano anche di una Peugeot 306 con a bordo
Francesco Lauria e Michele Faiella. Fanno anche il nome di un uomo di 40 anni,
Claudio Montagner, appassionato di motociclette "tutte cromate" e tatuaggi. Questi
ultimi tre sono scarcerati dopo pochi giorni perché provvisti di un solido alibi. Loro,
forse, sono gli assassini. La vittima è una giovane donna: Maria Letizia Berdini. L'arma
del delitto: un sasso bianco dal peso di 3 chili.
Quando
Il 27 dicembre tra le 19,45 e le 20,05. Faceva molto freddo, 10 sotto zero, e
tirava un vento da ghiacciare le mani.
Che cosa
Un delitto, naturalmente. Un delitto che grida pietà, per la vittima e per i
suoi ignavi assassini.
L'appuntamento è alle 18 al solito posto, il Caffè Teatro, il bar nel centro di Tortona.
Dove se no? Prima Sandro è passato a prendere Loredana, la sua ragazza, che lavora
come commessa al centro commerciale Oasi. Poi al bar a prendere la solita birra,
giocare ai soliti videogiochi, dire le stesse cose. Al bar c'è anche Paolo, il fratello di
Sandro. E altri.
"Sfigati come me", confiderà al giornalista de La Stampa Luca, un amico dei fratelli
Furlan. "A casa loro sono in otto e hanno solo sei sedie. A Tortona è così: o sei figlio di
qualcuno, e allora non giri al bar Teatro o all'Oasi, perché il pomeriggio studi e il
sabato e la domenica vai nella casa in montagna, se è inverno. Se è estate al mare. Ma
noi siamo un altro giro. Sfigati, sfigati".
"Che si fa?". Voglia di andare a casa non ce n'è, meglio un salto al Mercatone Zeta,
tanto per fare qualcosa. La Tipo verde è fuori, pronta a correre i pochi chilometri che
separano il centro di Tortona dal capannone tutto neon e merci sulla statale.
A comprare no, ci vogliono i soldi. E di quelli ce ne sono pochi. Dice sempre Luca: "I
lavori che trovi sono saltuari, dove ti fai un culo così e sei sempre sporco. Guarda che
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qui cerchiamo tutti un lavoro pulito, che ti danno la divisa e i guanti. Il sogno è che ci
prendano alla fabbrica della gomma. Alla Michelin".
Il Mercatone è un ritrovo per famiglie e ragazzi, tra un giro di carrello e l'altro ci si
incontra, ci si saluta, si parla un po'. E finiti i soldi si torna a casa. Qui a Tortona mica
ci sono i cineclub, i circoli culturali, i centri sociali dove incontrarsi e fare musica e
magari farsi lo spinello. Tortona è una città sana, non ci sono postacci come a Milano il
Leoncavallo. A Tortona non c'è niente di niente. C'è solo il Cavalcavia della Cavallosa
dove sotto passano le macchine.
Dice Luca: "L'unico stress della Michelin è che è a Spinetta Marengo, cioè mezz'ora di
macchina a andare, mezz'ora a tornare. L'ideale sarebbe che aprisse qui, a Tortona.
Mio cugino è alla rigenerazione copertoni, dice sempre che gli piace. All'inizio ti fanno
un contratto formazione lavoro, cioè solo 10 mesi. Poi però ti prendono per sempre, e
allora, come mio cugino, puoi pensare a comprarti la macchina".
Al Mercatone Zeta i tre incontrano gli altri quattro: Paolo Bertocco, Gabriele Furlan,
forse suo fratello Franco, e Robertino Siringo che si è appena comprato un berrettino
della Harley Davidson. Forse ci sono anche altri, quelli della terza macchina o altri
ancora, o forse sono solo loro otto, o magari sette.
"Che si fa?". Perché non prendiamo un po' di sassi qui nel parcheggio del supermercato
e giochiamo a fare centro? Partono, come hanno fatto altre volte, a giocare l'avventura
più stupida, la più sgangherata, come spesso hanno fatto i ragazzi. Partono, decisi a
sfidare la vita, la propria e quella degli altri. Via con la macchina a fare crash, palpitare
di lamiere e sangue, unica "vita" conosciuta.
Dice Luca: "... ma la macchina da Dio è la Mercedes, l'unica". Era una Mercedes anche
la macchina che ha fatto uscire fuori strada il trattore di Arnaldo, il padre degli otto
fratelli Furlan, e l'ha ridotto che non ha più potuto lavorare in campagna. Anche l'auto
su cui stanno viaggiando Maria Letizia Berdini e suo marito Lorenzo Bossini è una
Mercedes.
Dirà Loredana al procuratore di Tortona: "I sassi li abbiamo presi nel posteggio del
supermercato poi siamo andati sul cavalcavia. Io sono rimasta un po' a distanza, ma li
ho visti buttare le pietre. Due le passavano, altri due in piedi sul guardrail le tiravano di
sotto. Hanno continuato anche quando si sono accorti di aver colpito le auto. Anzi
erano contenti di questo, esultavano". Bingo!
Perché. Per gioco, senza sapere che quel gioco avrebbe fatto di loro degli assassini.
Perché, scrive J.G. Ballard nell'introduzione a Crash (Bompiani), "il matrimonio tra
ragione e incubo che ha dominato il XX secolo ha generato un mondo sempre più
ambiguo. Il paesaggio delle comunicazioni è attraversato da spettri di sinistre
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tecnologie e dai sogni che il denaro può comprare. Perché voyeurismo, disgusto di sé,
la base infantile dei nostri sogni e dei nostri desideri - questi mali della psiche - sono
ora culminati nella perdita più atroce del secolo: la morte del sentimento".
E allora tutti i giochi sono possibili, persino uccidersi o uccidere.
Mercoledì 15 gennaio
Davanti alla Procura di Tortona in piazza delle Erbe ci sono
tanti cittadini perbene, forse 400 onesti cittadini di Tortona. Aspettano dalle 10 di
mattina di veder uscire i killer di Maria Letizia Berdini. Quando esce il primo, il volto
nascosto sotto un giubbotto che qualche carabiniere gli ha gettato addosso, la folla si
esalta, schiumante di rabbia. Urla: "Impiccate quei bastardi!". "Gente del genere
bisogna lapidarla in piazza!". Bingo!
Il racconto è liberamente ispirato a un fatto di cronaca. E' stato pubblicato su D-la Repubblica delle donne nel
1997
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La finestra sul cortile
13 marzo 1964. 82-70 Austeen Street, Kew Gardens, Queens, New York.
E poi dormivo. Avevo avuto una di quelle giornatine che ti sfasciano, ce ne avevo
messo a prendere sonno! Quando sei nervoso, quando i pensieri ti girano nella testa a
mille, neanche ce la fai a lasciarti andare. Finché, al caldo, tra le lenzuola, la
stanchezza ha avuto il sopravvento.
Poi qualcosa si è intrufolato nei miei sogni. Un grido, sembrava. Ma forse mi sbagliavo,
forse era solo qualcosa che era caduto. Mi sono rigirato nel letto, mi sono rintanato
stretto tra le lenzuola, ho premuto forte la testa sul cuscino, volevo che quel suono se
ne andasse, che mi lasciasse stare.
Io volevo solo dormire. Ne avrò il diritto no!
Ma ormai ero sveglio, un'ansia strana mi era cascata addosso, tanto che ho pensato,
prendendomi in giro da solo, che avevo paura del buio. Così mi sono alzato deciso a
perlustrare la casa e cacciar via la paura.
Sì, avevo paura. Anche gli uomini grandi e grossi come me possono conoscere la
paura.
Al piano di sotto faceva freddo, forse la signora delle pulizie aveva toccato il
termostato. Ma era tutto in ordine, perfetto e silenzioso.
"Aiuto!". Qualcuno gridava proprio fuori dalla finestra della mia cucina. Una donna.
Era la voce di una donna, una voce giovane, terrorizzata.
Ma era una richiesta di aiuto o ero io che immaginavo quel grido?
Questo mi chiedevo; ma era davvero troppo presto per avere testa per questo tipo di
cose. Erano le tre e venti del mattino! Le persone per bene a quell'ora dormono!
Insomma, che ne potevo sapere io!? Toccava a me agire?!
Sì, certo che ho pensato che stesse succedendo qualcosa di brutto. Ma poteva anche
non essere così. Poteva essere una lite tra innamorati. Succede, no? Vai a ballare, bevi
un po', poi i giovani oggi si strafanno di tutte le schifezze possibili e perdono la testa e
gridano e se ne dicono di ogni. Non c'è più rispetto oggi, e se ti intrometti smettono di
litigare fra loro e insultano te.
Io ho i miei principi, mi attengo alla saggezza dei proverbi: tra moglie e marito non
mettere dito.
"Aiuto, mi stanno uccidendo, aiuto!".
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C'era terrore in quella voce. Stava succedendo qualcosa di grosso. Ma toccava a me
intervenire? Perché proprio io? Io non sono il tipo che si intromette in situazioni che
non lo riguardano, non voglio essere coinvolto in risse da strada. E poi che ci faceva
quella donna a quell'ora fuori di casa, le ragazze per bene a quell'ora dormono, e non
svegliano quelli che devono lavorare.
Mi dovevo svegliare alle sette, quella mattina avevo un importante impegno di lavoro.
Dovevo trattare un affare da molti zeri, dovevo essere lucido. Dovevo dormire, non
erano affar mio le risse tra teppisti.
Intanto le luci di molte finestre si erano accese. Che ci pensino loro, visto che sono così
svegli da accendere la luce. Meglio così, stavo già per infilarmi i calzoni e uscire...
"Lascia stare quella donna!", ha gridato qualcuno dalla finestra.
Ho sentito le suole delle scarpe calpestare il selciato, un passo frettoloso e furtivo, poi il
rombo di un motore che si accende. Meno male, l'aggressore se ne va.
Sì, sì ho detto aggressore, ha capito bene. Chiaro che ho pensato a una violenza, che
domande! Ma ormai era tutto finito. Potevo accendere la luce. Ma non l'ho fatto.
Come un ladro spiavo da dietro la tendina la strada, la luce obliqua del lampione e
quella giovane donna per terra che si rialzava. Era anche piuttosto bella: capelli corti
tagliati a caschetto, un corpo sottile ma pallida come una bandiera bianca, come la
morte. Si stava alzando, a fatica, certo, ma si stava alzando. Avrei potuto aprire la porta,
farla entrare in casa, affrirle un bicchiere d'acqua, chiamarle un taxi... ma ormai era
tutto passato.
E io ero proprio stanco e non ne potevo più di tutto quel baccano.
Adesso ce ne andiamo tutti a dormire, domani è un altro giorno. E questa notte è da
dimenticare. Però qualcuno dovrebbe dirlo a queste ragazze moderne di non andare in
cerca di guai e disturbare le persone perbene che lavorano, di giorno, e che hanno
diritto a un buon sonno.
Le luci delle finestre si spengono a una a una come occhi a cui è tolta la luce. Il viale
alberato non è più il luogo oscuro di un probabile delitto ma è tornato a essere una
normale strada di un quartiere per bene del Queens, New York. Mica siamo ad Harlem,
qui.
Non so perché sono rimasto attaccato a quella maledetta finestra a guardare fuori. Poi
ne hanno fatto uno scandalo, i giornali hanno parlato di "responsabilità morale", hanno
cianciato di indegnità, ironizzando sul nostro quartiere di "new-yorkesi perbene"...
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come fosse una colpa essere per bene. Hanno blaterato di individualismo colpevole,
egoismo, vigliaccheria.
Io vorrei solo non essere stato a quella finestra, vorrei non aver visto niente. Vorrei poter
dimenticare. E invece sono rimasto lì, dall'idiota che sono, come un vampiro assetato
di sangue. Questo, a volte, mi viene da pensare, come uno sciocco. Come se la colpa
fosse davvero mia. Perché l'uomo è tornato, è tornato quasi subito. È tornato alle spalle
della ragazza e l'ha colpita. E lei di nuovo a gridare, con quella voce stridula che mi
faceva venire i nervi. Avrei voluto che tacesse, che almeno quell'uomo la facesse
tacere.
Da dove quella lì prendesse tutta quella voce non lo so, gridava e gridava. E le luci si
sono accese di nuovo. Poi ho letto sui giornali che un vicino aveva chiamato un amico
per dire quello che stava succedendo sotto la sua finestra. Ma, mi chiedo, se aveva fatto
trenta poteva fare trentuno, e chiamare la polizia. Perché non l'ha fatto? Eh? perché non
l'ha FATTOOO!!??
Ma sì sto calmo, sto calmo. È che lei mi fa innervosire, mi guarda con quell'aria finta
compassionevole, ma io lo so cosa pensa, lo so che mi giudica. E chi glielo dà questo
diritto, a lei? Lei crede di essere diversa, migliore. Sarebbe intervenuta, LEI? Facile
crederlo, adesso. E invece avrebbe fatto come me, come hanno fatto tutti. Zitti e muti a
godersi lo spettacolo.
Lo ha detto anche quel Moseley, l'assassino, l'ha detto sprezzante, come se un
assassino potesse permettersi di pontificare. L'ha detto al processo, con una
supponenza tale che solo per questo avrebbero dovuto mandarlo alla camera a gas: "Lo
sapevo che quelli non si sarebbero mossi". Quelli eravamo noi; per lui, solo dei
codardi.
"Mi ammazzano!", gridava e gridava. E l'uomo si è di nuovo allontanato. E lei a carponi
che si trascinava verso l'ingresso del palazzo sul retro.
E poi quel Moseley è tornato ancora.
"Muoio!", si é messa a gridare. "Muoio". E poi più niente. Erano le tre e cinquanta. Lo
so con certezza perché ho guardato l'orologio. Che strano, vero, come se volessi
prendere nota di tutto.
Gli altri particolari li ho letti sui giornali. Perché io alla polizia che è arrivata subito
dopo, qualcuno deve averla chiamata, non l'ho detto che mi ero svegliato, che avevo
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visto tutto dalla finestra. Incollato a quella morte là fuori, come se davvero a ucciderla
fossi stato io.
Sentivo quasi l'odore del sangue. Sentivo il sangue nella gola, come lei; sentivo
soffocare la vita, come lei. E come l'assassino non poteva smettere di colpire, io non
potevo smettere di guardare.
I giornali hanno scritto che l'ha violentata prima di lasciarla lì, riversa sulla strada, il
corpo penetrato da tredici ferite da coltello.
Kitty Genovese, di anni 28, mentre tornava dal lavoro fu ripetutamente accoltellata
all'alba del 13 marzo 1964 in questa via di Kew Gardens, quartiere borghese del
Queens, New York, a pochi passi da casa. 38 persone udirono le sue grida di aiuto ma
benché l'assalto dell'assassino fosse durato più di mezz'ora nessuno chiamò la polizia
se non dopo che l'omicidio era stato consumato. Sei giorni dopo Wiston Mosely fu
arrestato. Riconosciuto colpevole al processo, è stato condannato al carcere a vita.
Ma che dire di chi ha sentito e visto e non ha fatto niente? Certo è legittimo avere
paura, ma si tratta solo di paura, o di egoismo, o c'è anche una sottile forma di
complicità? Quella intesa che certi maschi hanno fra loro quando si tratta di donne.
Quella stessa che vede nel bunga bunga solo la questione privata di un uomo che si
può permettere quello che vuole e non la messa in atto di un rapporto di potere tra un
uomo che possiede molto denaro e dei corpi di donna.
Scrive Rita Laura Segato in Territorio, sovranità e crimini da secondo stato: la scrittura
sul corpo delle donne assassinate, interessantissimo saggio sui femminicidi di Ciudad
Jarez: “Prima di sentir parlare di Ciudad Juarez, tra il 1993 e il 1995 avevo fatto una
ricerca sulla mentalità dei condannati per stupro reclusi nel carcere penitenziario di
Brasilia (Segato, 2003).
L'ascolto di quanto riferito dai reclusi, tutti condannati per aggressioni sessuali
realizzate nell'anonimato della strada nei confronti di vittime sconosciute, supporta la
fondamentale tesi femminista, secondo la quale i crimini sessuali non sono opera di
singoli individui deviati, malati mentali o emarginati sociali. Sono piuttosto
l'espressione di una struttura simbolica profonda che organizza i nostri atti e le nostre
fantasie in modo da renderle intellegibili agli altri. In altre parole: l'aggressore e la
collettività condividono l'immaginario di genere, parlano lo stesso linguaggio, possono
capirsi”.
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E poiché viviamo la globalizzazione usare le donne come corpi, stuprarle, ucciderle
fanno parte della stessa categoria di significati, in un contagio che non risparmia
nessun paese del globo da occidente a oriente, del nord o del sud del mondo. Stuprare
e uccidere le donne sono, scrive Segato: ”...atti comunicativi. Quando si installa un
sistema di comunicazione con un alfabeto violento è difficile disinnescarlo: diventa
linguaggio”
Liberamente ispirato a un fatto di cronaca è uscito su D-la Repubblica delle donne
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Anche io
Genova 1964
Mentre racconto di queste donne non posso nascondermi.
Raccontare quello che anche a me, come a migliaia di altre, è accaduto mi pare un
modo per dare più senso a questa raccolta; per condividere con le altre, non la morte,
fortunatamente per me, ma, questo sì, l'umiliazione, lo sgomento, la vergogna, il senso
di colpa. Non loro narrate e io che le racconto, ma noi “protagoniste” di una violenza
che ci ha imposto il ruolo della vittima e, adesso parlo solo per me, anche quello della
complice.
Conosco cosa significa essere “usata”, mi è successo e non ero mai riuscita a parlarne.
Conosco la paura, quella senza rimedio di chi si arrende e non ha più orgoglio.
Conosco la fine di ogni illusione di eroismo.
Conosco la repulsione verso quella parte di me stessa che si era sottomessa impotente.
Conosco il pudore miserevole che mi ha reso incapace a denunciare.
Sono qui con le altre per non morire di silenzio.
Non ho saputo difendermi. Mi pensavo una “guerriera”, e anche se allora non c'erano
immaginari laici e popolari di donne capaci di combattere ma eroine romantiche
allaMaria di West side story,io mi immaginavo come una corsara di città. O almeno di
essere in grado di guardare sprezzante negli occhi il mio aguzzino. E invece mi sono
scoperta una donnetta che chiedeva pietà. Sorpresa come una stupida di trovarsi
davanti a un nemico invece che a un amante. Incapace di spiegarmi perché, in una
cucina vista tetti ero diventata una cosa e non una persona. Improvvisamente
consapevole che a eccitare quel maschio non era la verginità che si poteva prendere e
potevo regalare ma lo stupro, la violazione, la ferita, il sangue.
E poi, neanche io ero sicura che gli spazi che mi ero conquistata con i denti mi
spettassero di diritto. Anche se ero certa di non volerli perdere pensavo, con rancore
verso me stessa: non avrei dovuto essere lì. Avrei dovuto essere più cauta, più modesta.
Quello che mi stava succedendo era colpa mia.
Tra vittima e carnefice si attiva, a volte, un liaisons pericolosa: la preda si illude di farsi
amare dal predatore o, almeno, di sedurlo. In fondo è un sorta di sfida tra chi è dotato
da armi diseguali: un contendente ha la seduzione e la forza; l'altro ha la seduzione e
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la debolezza. Twilight insegna. Se perdi non sei più l'eroina e neanche la principessa,
sei sola una cosa.
Eppure c'è una audacia incredibile nelle donne. Un uomo non si azzarderebbe mai a
portare nel proprio appartamento una sconosciuta più grande e più muscolosa di lui.
La contropartita di questa avventatezza femminile è il sogno d'amore; ma, se lei fallisce
il bersaglio di tanto coraggio, non resteranno che briciole di fiducia, troppo spesso
sporche di sangue.
Non l'ho mai raccontato a nessuno. E' successo molti anni fa, a Genova. Ero matricola
universitaria a Economia e commercio, in un lontanissimo 1964. Una provinciale
arrivata in città “con la piena”, sprovveduta, timida, arrogante, avida. Volevo tutto, è un
difetto della mia generazione. Probabilmente di tutte le generazioni a 20 anni. Volevo
esistere, riempirmi di sapere, curiosare mondi. E ce n'erano da conoscere!
Sotto la Casa della Giovane, pensionato per studentesse, c'era vico Croce Bianca che,
quando ero arrivata, era la strada delle prostitute d'età. Pochi mesi dopo erano arrivati i
primi transessuale da marciapiede. Molto, ma molto più interessanti! Soprattutto per me
che, per la prima volta, li vedevo in carne e piume. La mia dirimpettaia sfoggiava tette a
balconcino, spalle da nuotatore e una lingua, per me nuovissima, ricca di invenzioni
caustiche e battute fulminanti. Sul davanzale della minuscola finestra sul vicolo aveva
sistemato come portafiori lo stand dei Mimoset, allora i primi assorbenti usa e getta.
Passavo ore ad ascoltarla, a sgamare i suoi clienti, a sorprenderla quando usciva in
leopardo e unghie rosso sangue.
Alla mia università non andavo quasi mai, preferivo i bar di San Martino, il bel palazzo
di Lettere in via Balbi e uno scantinato in un vicoletto sotto via Garibaldi sede del
Movimento Federalista Europeo. Là succedevano cose molto più interessanti.
Nei bar mi facevo corteggiare dai ragazzi, alle facoltà scientifiche ce n'era un bel
mucchio di giovani in libertà! San Martino era interessante perché ci potevi trovare
anche dei “foresti”, soprattutto a ingegneria navale. E' li che ho conosciuto Daniel,
l'amico amico di tutta la vita ormai. Daniel, é portoghese, mi aveva agganciato con una
battuta: Con quegli occhi ci vorrebbe uno sfondo più sofferto. In effetti ero grassottella
ma gli occhi bistrati con cura sembravano grandi e misteriosi.
O almeno lo speravo.
A Balbi c'era movimento, qualcosa di irrequieto, come una cospirazione ironica,
insolente, antiautoritaria che rendeva frizzante l'atmosfera tra i loggiati dell'austero
palazzo. Sembrava una piccola Barkley, dove poteva persino avverarsi un sogno di
rivolta. Ma io mi ero iscritta al Movimento Federalista Europeo, serio, compassato,
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preparato. Dovevo conquistarmi una reputazione da intellettuale. Poi c'erano i
vernissage, i localacci di via Prè, la terrazza Martini, la Feltrinelli e due teatri di prosa
due.
La mia passione era la polvere del palcoscenico. Alla selezione per entrare alla scuola
di teatro del Duse avevo portato, tremante, un monologo di Jean Cocteau (allora ero
tutta per la Francia: Barbara, Leo Ferrè, George Brassens, Jean Paul Sartre, Simone de
Beauvoir, Violet Leduc, ...) Il bugiardo. Interpretare un uomo mi faceva sentire
spregiudicata e forte. E poi, se mi avessero rifiutato, non sarebbe stata colpa mia.
Me la tiravo da dura ma ero insicura. Insicura perché ero donna. Allora pensavo che
sarebbe stato molto meglio nascere uomo.
Il teatro è un mondo dove transita molta bohéme, molti parassiti, molti intellettuali veri
e molti d'accatto. Ma io non ero ancora in grado di distinguere; guardavo tutto e tutti
avidamente con i miei occhioni fortemente bistrati nero per fare un po' Montparnasse.
Tra i tanti che incontravo all'uscita delle lezioni c'era un tipo che si spacciava come
amico di attori più famosi, che parlava di letteratura e si diceva poeta. Si chiamava D.
A. Io che dimentico tutto, soprattutto i nomi, quello ce l'ho inciso in quel lato del
cervello dove nasce la vergogna.
Insomma me la tiravo da intellettuale europea e cercavo di scrollarmi di dosso la
provincia osando qualche modesta originalità. Il trucco pesante, i maglioni neri, il
basco sui capelli, i cineforum, le conferenze, il teatro e qualche conoscenza “in the
dark side”. Il fatto era che non avevo occhi e tempo sufficienti per “groccare” tutto
quello che di nuovo mi offriva la città.
Lui se la tirava da strano. Da poeta scapigliato, sempre un po' con la testa altrove;
spacciava conoscenze e parlava parlava parlava. A me che arrivavo da Alassio era
sembrato non il logorroico egocentrico che era ma un esistenzialista alla Albert Camus,
vacillante tra l'essere e l'esistere.
Ero lusingata dalla sua attenzione; forse anche qualcosa di più. Soprattutto dopo che mi
aveva concesso di leggere le sue poesie.
Non erano affatto brutte. Tutte scritte rigorosamente a matita: “Perché?”, gli avevo
chiesto stupita da quello che a me era sembrato uno spreco. “Perché la matita
svanisce”, aveva risposto serio guardando oltre, forse l'orizzonte.
Accidenti quanto era poetico! Con quello mi aveva definitivamente accalappiato. Così,
spesso, uscendo dalle lezioni, finivamo a bere qualcosa da Giavotto parlando fitto fitto
di cose serie e “importanti”.
Avevo quasi vent'anni, lui qualcuno di più. Mi sembrava grande e mi piaceva pensare
di averlo conquistato con la mia intelligenza.
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Siamo andati avanti così per un po'. Una sera, poco prima del giorno fissato per il
saggio di fine corso,
mi fa: “Hai mangiato?”. Non ce l'avevo fatta a mandare giù
qualcosa prima delle lezioni e avevo fame. “Vieni da me, ci facciamo due spaghetti”.
L'idea era ottima e abbondante.
Stava in una casa dei vicoli molo spennacchiata ma, all'ultimo piano e cucina con
vetrata sui tetti bigi di Genova. Molto in carattere con il personaggio. Per arrivarci
c'erano un mucchio di scale buie; non ci avevo fatto caso, ero infervorata e concentrata
sul nostro intenso conversare.
Entriamo, chiude la porta a chiave e mi porta subito in cucina. Il sugo è pronto, basta
bollire la pasta. “Un po' di vino?”. Certo. Poi, la memoria ma fa degli sgambetti, alcuni
fatti riemergono altri sono laggiù in fondo a un abisso dove non ce la faccio ad arrivare.
Mi pare di ricordare che abbiamo riso, che eravamo rossi in viso, forse eccitati. Ma io
ho “il rientro” in pensionato alle 22 per cui mi alzo e lo aiuto a sparecchiare. Sono
voltata verso l'acquaio, sento il suo corpo che mi schiaccia con forza, a far male e mi
bacia sul collo. Stupore ma anche un brivido di emozione. Per superare l'imbarazzo
sorrido e lo scanso. E' allora che è iniziato l'inferno. Senza un motivo, per pura ferocia.
Mentre mi allontano di un passo, sorrido ancora, lui mi afferra un braccio con forza, mi
sbatte sul divano macilento che è nella cucina. Non ho ancora paura, credo di non
aver capito bene, che è solo un gioco. Ma non lo è.
Mi è addosso, cerca di sollevarmi la gonna, infoiato come un cane. Reagisco e lui mi
prende a schiaffi. Schiaffi cattivi. Lotto, ma non riesco a liberarmi, a sottrarmi a quel
suo corpo massiccio sopra di me. Urlo. “Sta zitta”, sibila a voce bassa, quasi arrochita
dallo sforzo. Non potevo fare niente per difendermi, era tremendo. Per lo stupore, per
lo sgomento. Perchè era più forte di me.
Ero sconcertata dalla mia impotenza, non c'era nulla che potessi fare. Neanche
scappare. Qualcosa di mai provato mandava in frantumi il mio orgoglio. “Sta zitta”,
diceva con voce fredda e occhi cattivi. Avevo paura e mi facevo schifo. Una stupida
che si faceva insozzare da un poeta di merda.
Però non riusciva a compiere l'opera e più non ci riusciva più si infuriare. Una rabbia
gelida e feroce alternata a momenti sconvolgenti, in cui mi spiegava, come a una
bambina cretina e inadeguata, che il suo cazzo era fatto apposto per le vergini.
”Vedi”, diceva costringendomi a guardarlo, “E' fatto a punta”. Cercava di accollarmi la
responsabilità del suo insuccesso
mentre mi strattonava di qua e di là, contro le
seggiole, contro il muro.
Un chiacchierare assurdo ma che mi faceva capire che non dovevo temere per la vita,
voleva divertirsi e più reagivo più lui si divertiva. Non avevo via di uscita.
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E allora c'è un momento in cui non ce la fai più, cedi alla stanchezza, al dolore e ti
dichiari sconfitta. Purché tutto questo finisca.
Che ore sono? Mi cacceranno dal pensionato, mio padre mi ammazza, devo uscire di
qui. E allora resto immobile, sia quel che sia. Sono vinta. Quello addosso mi schiaccia,
mi sovrasta, mi fa male.
E' stato allora che ho sentito girare la chiave della porta d'ingresso e dei passi. “Sono
salva”, ho ripreso a sperare e con uno strattone l'ho spinto via e sono andata incontro
al mio angelo. In effetti era una persona che conoscevo, un suo amico, G. V.
Ricordo, e mi umilia ancora in modo insopportabile, che mi sono buttata in ginocchio
e l'ho pregato: “Aiutami!Fammi uscire!”, quell'altro era dietro di me.
G. mi ha guardato, mi ha spinto via, è entrato in una stanza e ha chiuso la porta. Ho
sperimentato allora qualcosa
che non voglio rivivere, la fine della speranza, della
bellezza, la fiducia tradita e l'orgoglio dissolto tra le lacrime.
Non potevo “essere degna del mio tormento”, avevo perso tutto. Si era aperta una falla
nell'universo e c'ero caduta dentro.
Il resto non lo racconto. Non so come, forse gli era passata la scimmia, ma verso le
quattro ha aperto la porta e mi ha fatto uscire. Ero piena di lividi e tremavo. Non mi ha
lasciato sino a che non sono arrivata al pensionato. Si giustificava, probabilmente aveva
paura che lo denunciassi. Ma non l'ho fatto. Sono rimasta chiusa nella mia stanza due
giorni. I lividi ci hanno messo un po' di più a passare. La vergogna mi accompagna
ancora.
Dal pensionato mi hanno cacciata perché ero arrivata dopo le 22, non mi hanno
chiesto niente. Anche mio padre e mia madre hanno preferito non indagare troppo. Il
saggio di teatro? Non l'ho fatto. E la poesia non la capisco più.
I fatti narrati sono realmente accaduti all'autrice così come raccontati nel testo. I nomi di chi le ha usato
violenza le sono noti e mai dimenticati. Purtroppo, su consiglio del proprio avvocato, non avendo denunciato
all'epoca dei fatti è stata costretta a mettere solo le iniziali.
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