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DI Repubblica - La Repubblica.it
Domenica il fatto Il tramonto del dio Dollaro La di DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 SANDRO VIOLA e VITTORIO ZUCCONI l’immagine Repubblica Torna la Linea, l’omino del boom MICHELE SERRA FOTO EVERETT Marx e Allen, il vecchio e il nuovo, due maestri della comicità a confronto in un faccia a faccia di trent’anni fa che sarà pubblicato in Italia E che racconta storia e retroscena della generazione che ci insegnò a ridere WOODY ALLEN e GROUCHO MARX roucho. Deve essere caldo fuori oggi. Nessuno porta il cappello. Woody. Sì, si gela. Sono diciassette gradi o giù di lì. G. Ma se non indossi un cappello vuol dire che non è freddo. W. La pensi così? G. Si può indossare qualcos’altro. Io porto biancheria pesante (mostra la maglia che indossa sotto la camicia su cui è scritto “Dì che ti manda Groucho”). Se avessi la mia età, la porteresti anche tu. E ti metteresti un cappello. W. Invecchiando si soffre di più il freddo. G. Hai maledettamente ragione. L’ultima volta che ho visto Chaplin, tutto quello che mi ha detto è stato: «Copriti bene. Copriti bene». W. Che anno era quando ti disse così? G. Fu quando ricevette l’Oscar. Venne in California. Avevamo fatto colazione insieme e quando stava per andarsene mi mise un braccio intorno alle spalle e disse: «Groucho, copriti bene». Allora non sapevo cosa volesse dire, ma adesso lo so. Perciò, quando invecchierai, indossa qualcosa di pesante. E anche un cappello. W. Ho capito. G. Una volta mi disse: «Vorrei parlare sullo schermo come fai tu». Chaplin era grande ma non lavora più. Ha avuto un insuccesso clamoroso, La Contessa di Hong Kong. Il peggior film che abbia mai visto. C’era anche Marlon Brando. Voglio andare a vedere il nuovo film di Brando [Ul- G timo Tango a Parigi] perché dicono che ci siano molti spunti da prendere. W. Hai mai visto un film pornografico? G. No, non mi interessano. Ho visto delle ragazze nude. W. Hai dato un concerto dopo quello al Carnegie Hall? G. Sì. Ho suonato a Los Angeles e a San Francisco, per Bill Graham. San Francisco è una città eccitante. W. Già. Ed è così piccola, ma è più eccitante di Los Angeles. G. Ricordo la prima volta che da New York siamo andati a Los Angeles. Allora Beverly Hills non esisteva. W. Ti piaceva di più allora? G. Molto di più. A quel tempo si sentiva soltanto il profumo dei boccioli d’arancio e di limone. Chico diceva che in California i fiori non sanno di niente ma che le donne profumano. Avrebbe dovuto sentire. W. Come si chiamavano gli studi vicino all’aeroporto? G. Mgm. Abbiamo girato cinque film alla Mgm. Due con Thalberg. Era il migliore. W. Lo so, te l’ho sentito dire. Ho sempre sentito pareri molto discordi su Thalberg. So che tu andavi matto per lui. G. Era un maestro. Il primo film che ha fatto con noi fu Una notte all’opera. Poi ne abbiamo iniziato un altro, Un giorno alle corse,ed è morto mentre lo giravamo. Era più giovane di me quando morì. Accadde nel 1936. Adesso siamo nel 1974 e sono ancora vivo. W. Come facciamo a saperlo? (segue nelle pagine successive) con un articolo di ANTONIO MONDA cultura Cruciverba, pensiero minore del ’900 STEFANO BARTEZZAGHI e EDMONDO BERSELLI la lettura Il viso cancellato della piccola Laura GUILLERMO ARRIAGA spettacoli Wim Wenders, tutto sui miei film GINO CASTALDO e WIM WENDERS le tendenze Il verde d’inverno e le piante-scultura PAOLO PEJRONE e ROSSELLA SLEITER Repubblica Nazionale 24 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 la copertina Dialogo sulla comicità Due maestri della risata a confronto, un botta e risposta serrato ed esilarante su Chaplin, Keaton, Stanlio e Ollio, su una stagione filmica irripetibile. Ecco il duello verbale Woody Allen-Groucho Marx riproposto da un libro che sarà pubblicato prossimamente in Italia Groucho FOTO CORBIS ‘‘ DORMIRE, FORSE Farò un sonnellino Se dormo, non fumo E se non fumo, non tossisco Se non tossisco, forse riesco a dormire Non è la tosse che ti porta via, è la bara (segue dalla copertina) roucho. Lo so quando mi alzo al mattino. Se non mi alzo, significa che sono morto. W. Hai ancora quel letto che… G. Sì! E se vuoi dormire da me, beh, non fare il ritroso. W. È stata la prima volta che ho visto un letto che ti ronza sotto i piedi, sotto la schiena, dove ti pare. È quell’interruttore sotto il materasso. G. Faccio tutto con un telecomando — la televisione, le luci, tutto — così posso restare a letto per giorni interi senza dovermi mai alzare. W. Chi sono i tuoi amici? [...] G. Ho otto o dieci amici. W. Perciò durante il giorno ti rilassi, incontri gli amici e giocate a carte… G. Non gioco a carte. W. Non giochi a carte. Cosa fai? G. Leggo molto. Robaccia. W. Ah! Non ti annoi dopo due ore che leggi? G. No. Ne leggo altra. [...] W. Hai mai seguito qualche tipo di dieta? G. Mangio tutto quello che voglio. Occasionalmente anche qualche ragazza. W. Torniamo a Charlie Chaplin. Eravate amici anni fa? G.Sì. Lo conobbi più di sessant’anni fa, in Canada. Un paio di settimane fa ho cercato di guardare uno dei suoi film, ma Chaplin non è più molto divertente. W. Penso che abbia fatto tre grandi film. Li hanno riproposti tutti, e credo che tre siano ancora divertenti, ma gli altri no. Beh, forse tre e mezzo, direi. Alcuni sono sdolcinati. Mi piacciono Tempi moderni, Luci della città e La febbre dell’oro. Gli altri mi sembrano noiosi. Il grande dittatore non mi piace, e nemmeno Monsieur Verdoux e Luci della ribalta. Conoscevi Keaton? G. Sì. W. Lo trovavi divertente? G. Sì. Lavorava con Harpo quando eravamo alla Mgm. Faceva delle gag. W. Trovavi divertenti i suoi film? Il navigatore o Come vinsi la guerra? G. Sì. Il navigatore lo trovo fantastico. Ma sai, eccetto te, non ci sono più attori comici. W. Per qualche motivo, adesso nessuno fa più film comici. Non so perché. La gente me lo chiede continuamente, ma non so quale sia la ragione. G. Sono difficili da fare. W. Sì, fisicamente difficili, vuoi dire. Non c’è più nessuno che cerchi di fare un film comico. Per qualche anno c’è stato Jerry Lewis. G. L’estate scorsa, quando sono andato in Francia, mi hanno chiesto cosa pensassi di G Marx IL CINEMA Da Il ladro di gioielli del 1929 a L’inferno ci accusa del 1957 Groucho, con i fratelli Harpo e Chico ha portato sul grande schermo la comicità surreale IL TEATRO Dopo i primi trionfi a Broadway, nel 1957 Groucho intraprese la carriera di autore teatrale senza i fratelli e divenne presentatore del quiz televisivo You Bet Your Life LE BATTUTE “All’infuori del cane il libro è il migliore amico dell’uomo. Dentro il cane è troppo scuro per leggere” “Non mi interessa far parte di un club che mi accetta fra i suoi membri” Jerry Lewis e io ho risposto che quando lavorava con Dean Martin era molto bravo. W. La cosa che non riesco a capire è questa: come mai c’è stata un’epoca in cui c’erano sei, otto o dieci comici del tuo calibro — Keaton, Chaplin, te, Fields — perché in un determinato momento ce ne sono un sacco e poi, improvvisamente, non ce n’è più nessuno? G. Non credi che questo abbia a che vedere con la scomparsa del vaudeville? Quando è finito il vaudevillenon c’è stato più spazio per la comicità. W. Quelli erano tutti comici del vaudeville, del music hall. Per me è una cosa incredibile. Sono stupefatto perché é stato un po’ come il Rinascimento, come i pittori impressionisti: sono arrivati tutti in una volta. Hai mai visto un film di Bob Hope che ti sia piaciuto? G. Ne ha appena fatto uno, Prenotazione annullata. Non l’ho ancora visto. W. E venti anni fa, negli anni Quaranta e Cinquanta? G. Penso che anni fa, quando recitava con Crosby, abbiano lavorato molto bene insieme. Al pubblico piacevano. Hope è un uomo divertente e Bing è un ottimo cantante. W. Non ho mai trovato divertente Harold Lloyd. E nemmeno Stanlio e Ollio. G. Tutto quello che Lloyd sapeva fare era arrampicarsi sugli edifici. W. Allora, qual era la differenza tra Chaplin e Keaton? Perché Chaplin era più popolare di Keaton? G. Penso che dipenda dal fatto che Keaton ha fatto un paio di bei film divertenti, mentre Chaplin ne ha fatti molti. W. Credi? Trovavi divertenti tutti quei tworeelers e quei cortometraggi? G. No, ma ricordo quando Chaplin ne ha fatto uno intitolato La strada della paura, dove Chaplin interpreta un poliziotto. W. Esatto. Quello è molto bello. G.È un film divertente. Veramente divertente. W. È molto breve. Penso che Keaton fosse più bravo come cineasta ma Chaplin era un uomo più divertente. G. Forse l’epoca degli attori comici è finita, fatta eccezione per te. [...] W. Raccontami come hai conosciuto Chaplin in Canada. G. Non è una gran storia. È stato molto tempo fa. C’erano due teatri, il Pantages e il Sullivan-Cousidine. Non ne avrai mai sentito parlare perché sei troppo giovane. W. Ho sentito parlare del Pantages. G. In ogni modo, stavamo recitando in Canada, e anche Chaplin. Stava facendo una commedia intitolata A Night at the Club. Era una commedia molto divertente. In quella commedia c’era una vecchia nobildonna che cantava. Mentre stava cantando, Chaplin masticava una mela e gliela sputava in faccia. Questo era il genere di commedie che faceva sessant’anni fa. Tutti i miei fratelli giocavano a biliardo. Non erano dei professionisti, ma erano bravi. Quando arrivammo a Winnipeg, i ragazzi sparirono alla ricerca di una sala da biliardo. Avevamo un intervallo di circa tre ore prima di partire per la costa. Dal momento che io non gioco a biliardo, non scommetto e non gioco a carte — di tanto in tanto fumo, quello che basta per tossire — passo davanti a questo squallido teatro, il Sullivan-Considine. Lo supero e sento un fortissimo scroscio di risate. Così pago dieci cent e entro. Fu la cosa più divertente che abbia mai visto. W. Perché la cosa più divertente? G. Lui era talmente buffo. W. Cosa faceva? G. Cose pazzesche. Si muoveva in modo assurdo. Così [Groucho dà una dimostrazione]. W. E gli altri cosa facevano? G. Dopo tanti anni, non me lo ricordo. Ma so che conobbi Chaplin a Winnipeg. Lui apparteneva al Sullivan-Considine Circuite noi al Pantagenes Circuit. Aveva una camicia che ha indossato per sei settimane, perché guadagnava soltanto venticinque dollari a settimana e non voleva spendere denaro per comprare una camicia pulita. Abbiamo fatto amicizia. La settimana successiva lo andai a trovare in camerino e gli dissi che lo trovavo eccezionale. In seguito, durante la tournée canadese ci ritrovammo ogni settimana nelle stesse città. Non riesco a ricordare tutti i posti in cui siamo stati perché è successo tanto tempo fa, ma ricordo che andavamo insieme al casino. W. Um-hmm. G. Perché in quelle città non c’era un posto in cui un attore potesse andare, tranne, se si era fortunati, andare a rimorchiare una ragazza. Ma di regola, non si trattava di una ragazza. Bisognava andare in una casa di tolleranza, e imparammo a conoscerci. Non insieme. Voglio dire, non stavo insieme a lui. Ero con lui ma non… W. Ho capito. A quell’epoca non aveva mai fatto film. G. Non aveva mai fatto niente. W. Non parlava mai di film? Ti ha mai detto che avrebbe voluto farne uno? G. No, non gli era mai venuto in mente. Aveva molto successo con la sua commedia. Poi, quando siamo arrivati a Seattle, Mack Sennet lo vide recitare in A Night at the Club, e si offrì di ingaggiarlo. Un giorno lo incontrai e gli dissi: «Ho saputo che Mack Sennet ti ha proposto di lavorare con lui, ho saputo che ti offre duecento dollari a settimana». E lui rispose: «Ho rifiutato». Io esclamai: «Tu devi essere pazzo! Hai rifiutato duecento dollari a settimana per questa ignobile commedia vaudeville con cui ne guadagni soltanto venticinque?». Chaplin rispose: «Me ne rendo conto. Nessuno può valere duecento dollari a settimana. E se non andassi bene, che fine farei? Ho rifiutato. Non lavorerò per lui». Aveva paura, e subito dopo tornò in Inghilterra. Sei anni dopo lavoravo per l’Orpheum Circuit… W. Ti devo interrompere un momento. Saresti stato contento se Sennett all’epoca ti avesse offerto di comparire in un film? G. No. Lavoravo assieme ai miei fratelli, ma loro erano impegnati con il biliardo. W. Ma supponiamo che Sennett vi avesse voluti tutti a lavorare nel cinema. Cosa avresti pensato a quel tempo? Avresti accettato l’offerta di Sennett e recitato nel cinema muto? G. Probabilmente no. W. Perché no? G. Perché non pensavamo di essere abbastanza bravi da valere duecento dollari a settimana. W. Ma questa è la stessa ragione addotta da Chaplin! Repubblica Nazionale LA DOMENICA DI REPUBBLICA 25 FOTO GETTY IMAGES DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 ‘‘ VIVERE A OVEST Non so come fai a vivere in California Per me è incredibile che un uomo della tua acuta intelligenza sia capace di vivere sulla West Coast Woody WOODY ALLEN e GROUCHO MARX G. Sì. W. Ma quello che voglio capire è se pensi che i Fratelli Marx avrebbero potuto lavorare per il cinema muto. Ovviamente, Chaplin l’ha fatto. Pensi che voi sareste stati divertenti, avreste potuto recitare in un film muto? G. Prima di tutto, Harpo non diceva una parola durante lo spettacolo. W. Questo è un buon argomento. G. E, se riusciva a trovare una signora, neanche Chico parlava. W. Um… G. Perciò l’unico che parlava ero io. W. Sei il perno attorno al quale ruota lo spettacolo. Perciò pensi che se Mack Sennett vi avesse voluto, i Fratelli Marx avrebbero fatto divertire il pubblico nel cinema muto? G. Noi abbiamo fatto dei film muti. Ed è stato il più grande insuccesso di tutti i tempi. W. Quando? G. Attorno al 1921. Abbiamo investito ciascuno un migliaio di dollari e siamo andati nel New Jersey. L’abbiamo girato prevalentemente lì, in una proprietà accanto al teatro in cui stavamo lavorando. W. Com’era intitolato? G. Humorisk. Non mi ricordo un granché, tranne che io facevo la parte del cattivo, ed è stato proiettato soltanto una volta, nel Bronx, a una matinée destinata ai bambini. Mi piacerebbe trovarne una copia. In ogni caso, eravamo più interessati a Broadway che al cinema. W. Broadway era certamente più importante, a quell’epoca. Ma, come stavi dicendo, sei anni più tardi Chaplin ritornò… G. Chaplin ritorna, e noi stavamo recitando per l’Orpheum Circuit. Io parlavo, Chico parlava e Harpo non aveva niente da dire. Lui faceva soprattutto delle pantomime. Ed era divertente. Così, a Los Angeles, riceviamo un invito da parte di Chaplin che ormai è una stella del cinema. Era così ricco che aveva comprato la casa di Mary Pickford. Era una grande star degli studio che presto visiterai ad Hollywood. Ci invitò a casa sua e c’era un maggiordomo vestito di nero dietro ogni invitato e piatti d’oro massiccio. Mangiammo magnificamente! Ma quando mi disse «Nessuno può valere duecento dollari a settimana», capii che era pazzo, o qualcosa del genere. Oppure non si sentiva sicuro a recitare nel cinema. Era diventato il più grande divo dello schermo e noi recitavamo ancora commedie di poca importanza. W. Dopo aver ottenuto un tale successo, Chaplin ti sembrò diverso? G. Mi sembrò più ricco. W. Non ti interessa più scrivere qualcosa? G. Ho scritto cinque libri. Mi pare sufficiente. W. Quali ho visto? Ho visto Memoirs of a Mangy Lover (Memorie di un irresistibile libertino) e… G. Quello era orribile. Voglio dire, irresistibile… W. Ho letto The Groucho Marx Letters, ma non Dal vaudeville al cinema a colpi di nonsense ANTONIO MONDA È NEW YORK stato Woody Allen a rendere popolare, in Io e Annie, una delle battute più belle di Groucho Marx: «Non vorrei far parte di un club che accetta come membro uno come me». È una battuta che rimanda immediatamente a una concezione esistenziale basata su insicurezza, disagio e senso di esclusione. Ma in origine venne pronunciata a proposito di una dolorosa situazione concreta: quando i Marx si trasferirono a Hollywood, i circoli più esclusivi non consentivano l’accesso agli ebrei e Groucho, che ambiva ad essere ammesso proprio a quei club, capovolse, con un guizzo di genio, l’offesa della discriminazione, sino a renderla universale. Hello I must going, il divertentissimo libro di Charlotte Chandler che è stato ripubblicato in America con una nuova introduzione di Bill Cosby (e che verrà pubblicato in Italia da Frassinelli nel maggio dell’anno prossimo) è una miniera di aneddoti riguardante Groucho, oltre che una ricchissima raccolta di conversazioni con personalità diverse come Woody Allen (che pubblichiamo in queste pagine), George Burns, Laureen Bacall, Jack Nicholson e Jack Lemmon. Il libro, realizzato poco prima che Groucho morisse, consegna il ritratto di una personalità esuberante e geniale, imprevedibile e attenta, ma anche riflessiva e malinconica, come lui racconta sin dall’incipit: «Invecchiare è quello che fai se sei fortunato». Groucho sapeva di essere arrivato al suo ultimo atto, ma non si negava il gusto della battuta folgorante («La prossima volta che ti vedo, ricordami di non rivolgerti la parola»). Il libro è anche un modo di ripercorrere le tappe di una vita cominciata in una piccola area a dominanza ebraica dell’Upper East Side di Manhattan, dove Julius Marx crebbe insieme a Leonard (Chico), Adolph (Harpo), Herbert (Zeppo) e Milton (Gummo). Il quartiere era stretto tra una zona italiana e una tedesca. Nei primi spettacoli di vaudeville, dove i fratelli erano stati introdotti dalla madre Minnie e dallo zio Al Shean, Groucho propose proprio l’accento tedesco, ma l’atmosfera antigermanica della Prima guerra mondiale finì per danneggiare quella caricatura. La sua maschera inconfondibile, con sigaro, baffoni e sopracciglia disegnate, fu generata proprio dalla fretta dei cambi di scena del vaudeville e diventò immediatamente popolare quanto la camminata a passi lunghi, che venne riproposta in capolavori della commedia come Duck Soup, Un giorno alle corse e Una notte all’opera. La sua modernità è fondata sulla straordinaria velocità con cui era in grado di improvvisare gag di fronte ad ogni tipo di situazione e soprattutto su un nonsense rivoluzionario che poteva essere ammiccante quanto assolutamente disorientante. Groucho era divertito da chi gli ricordava lo slogan del Sessantotto Je suis Marxiste, tendance Groucho, ma quando l’interlocutore cercava di trascinarlo sulle proprie posizioni ripeteva un’altra battuta memorabile: «Non dimentico mai un volto, ma nel tuo caso farei volentieri un’eccezione». penso a questo come ad un libro. È stato il primo? G. Ci sono stati Beds, Many Happy Returns e Groucho and Me. W. Quello a cui mi riferisco è Beds. È fuori stampa, ma una persona che conosco ne ha una copia… G. Io non ne ho neanche una. Non riesco a trovarla. È un libro molto sottile. W. Hai in programma di fare qualche altro film? G. Qualcuno sta realizzando un documentario su di me. Nel frattempo ho in programma di morire… W. Questo è parlare chiaro! Hai una copia di Animal Crackers? G. Nessuno ce l’ha. [...] W. Si direbbe che ricordi un sacco di storie che risalgono a trentacinque o quarant’anni fa, e questo mi sorprende. Suoni ancora la chitarra? G. No. Non faccio niente. W. Niente del tutto? [...] G. Niente. Mi piace da morire. W. Ti alzi la mattina e leggi il Times? G. Il New York Times? No. Lo compro soltanto la domenica. Non ce la faccio a leggere le notizie per tutta la settimana. È troppo. Tu lo leggi tutti i giorni? W. Sì, tutti i giorni. Neanche a me piacciono molto le notizie. Ma le leggo tutti i giorni. [...] G. Quando verrai in California? W. Presto. Sto cercando una casa da prendere in affitto durante le riprese di Il Dormiglione G. Una casa piccola? W. In realtà, non so come fai a vivere in California. Per me è incredibile che un uomo della tua acuta intelligenza sia capace di vivere sulla West Coast. G. Ci sono dei buoni negozi di dolci. [...] W. Ascolta, non so come dirtelo, ma devo andare. [...] G. Va bene, ti lasceremo da parte un po’ di dolce. Parti domani? W. Sì. G. Ho conosciuto una signora in aereo che vorrebbe conoscerti. È una ragazza meravigliosa. Ha delle magnifiche tette, quella ragazza. Non hai mai rimorchiato una ragazza in aereo, eh? W. No. Leggo soltanto. G. Sai, racconto queste vecchie storie talmente spesso che me le dimentico. Penso che farò un sonnellino. Se dormo, non fumo. E se non fumo, non tossisco. Se non tossisco forse riesco a dormire. Non è la tosse quella che ti porta via, è la bara in cui ti mettono. Allen IL CINEMA Da Prendi i soldi e scappa, primo successo del 1969, produce in media quasi un film l’anno. Scrive e dirige i propri film, ha recitato spesso come protagonista IL TEATRO La sua carriera di stand-up comedian comincia nel 1960: si esibisce con grande successo in numerosi night club newyorchesi E comincia a scrivere diverse opere teatrali LE BATTUTE “Il mio primo film era così brutto che in sette Stati americani aveva sostituito la pena di morte”. “Quando un mio film ha successo, mi chiedo: come ho fatto a fregarli ancora?” Traduzione di Antonella Cesarini (© 1978 -2006 Doubleday & Company © 2008 Edizioni Frassinelli, data d’uscita in Italia maggio 2008) Di Charlotte Chandler è uscito Ingrid Bergman e nel marzo 2008 sarà pubblicato Bette Davis, entrambi per Frassinelli Repubblica Nazionale 26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 il fatto I media Usa non lo dicono, l’opinione pubblica lo ignora, i guru tacciono, l’Amministrazione parla d’altro Cambi Ma la supremazia della valuta americana è alle corde Il tramonto del dio Dollaro VITTORIO ZUCCONI D WASHINGTON ollaro. La parola tintinna alle orecchie del mondo con il suono di quei talleri d’argento boemo ai quali deve il nome. Evoca sogni di ricchezza, ma soprattutto di sicurezza, di forza e di egemonia, come un transatlantico inaffondabile tra la flotta di barchette e navigli monetari sballottati dalle onde delle periodiche “tempeste valutarie”. Vederlo oggi imbarcare acqua speronato dall’euro, dalla sterlina, dal franco svizzero, persino dall’umile dollaro canadese, che gli statunitensi avevano sempre guardato come tagliando per il Monopoli, è molto più che un problema finanziario o una questione di commerci. È lo shock di scoprire che una supremazia apparentemente inattaccabile, espressione e strumento insieme della supremazia dell’America sul mondo, sta facendo acqua e rischia di essere un altro dei caduti sotto i colpi della presidenza Bush. Il dollaro è da settant’anni più di uno strumento valutario, di una moneta rifugio o di una riserva custodita nei forzieri delle nazioni, o nei conti numerati dei despoti e dei trafficanti: è la bandiera che i marines e i fanti sbarcati nelle isole del Pacifico e sulle spiagge di Normandia piantarono, anche acquistandola con le loro vite, sul mondo. A noi passeggeri sul “dollaro Titanic”, qui a bordo del transatlantico America che ignora la crisi dell’almighty dollar, la sola moneta che avesse meritato l’aggettivo riservato al Signore onnipotente, il sentimento di stupore del mondo arriva attutito, lontano. Tra la completa indifferenza del comandante e degli ufficiali in plancia, che guardano con benign neglect, con benevola negligenza la deriva della nave, ben contenti che i rapporti di cambio ostacolino le importazioni mentre favoriscono le esportazioni e ingrossano i profitti delle multinazionali che fatturano anche in euro, l’America dello shopping natalizio e dei saldi non avverte ancora le scosse. L’orchestra dei consumi, quella che fa ballare due terzi dell’economia americana, continua a suonare. La celebre frase di Richard Nixon che nel 1971, nel pieno di un altro uragano monetario, rispose al presidente della Fed, Arhur Burns, preoccupato anche per la lira italiana, «io me ne strafotto della lira», suona oggi autoironica. È la Casa Bianca che sembra “strafottersene del dollaro” ed è la barchetta lira, diventata la corazzata euro, a infischiarsene della moneta verde. Agli elettori dell’America repubblicana, che guida Chevrolet e Ford, fa acquisti negli hangar commerciali della più grande catena di discount al mondo, la WalMart, mangia carne macellata in Nebraska, patate raccolte in Idaho e indossa camicie cucite in Cina pagate pochi centesimi all’ora, l’affondamento del dollaro ben poco interessa. È l’America della “costa blu” e della “riva di sinistra”, la California, delle sponde oceaniche dove milioni di senza documenti sudano per mandare a casa dollari che comprano sempre meno, si calzano scarpe italiane, si guidano auto tedesche e si sogna la vacanza in Toscana-Italia, è questa l’America dove l’anemia della valuta americana pesa. E qualcuno insinua, come il finanziere James Cramer, conduttore di uno show di Borsa, che a Bush non dispiaccia troppo punire gli snob che comunque non voteranno mai repubblicano o le rimesse di quegli immigrati che in California votano democratico. Ma né a Manhattan né a Omaha, né a San Francisco o a Cincinnati, ci sono quei segnali di panico che avrebbero travolto l’Italia, se avesse visto la vecchia lira affondare. Sono i centri studi, gli osservatori che cercano di guardare oltre l’orizzonte dello shopping e dei soliti cicli di boom and crash, come quelli che stanno squassando il mercato degli immobili e dei mutui, quelli che annusano il cambio epocale di clima. «Ormai il mondo ha due monete di riferimento, l’euro e il dollaro, non più soltanto una, il dollaro», avvertiva già nel 2003 il Cato Institute di Washington, e soltanto perché la Cina, che insieme con il Giappone ha la massima quantità di cambiali del Tesoro americano nelle proprie riserve, puntella ancora la valuta Usa, il “Signore onniponte” non tracolla. Ma l’universo statico dei cambi, costruito a Bretton Woods sopra l’egemonia politica, militare e culturale degli Stati Uniti dominanti, è divenuto una galassia fluida, un sistema a due soli, per ora. Almeno fino a quando la Cina dovesse decidere di calare la carta del proprio yuan e commerciare utilizzando la propria moneta. Di questa rivoluzione, che sta portando alle conseguenze inevitabili quello che accadde nel 1971 quando Nixon fu costretto ad abbandonare la parità fra dollaro e oro per impedire il saccheggio dei lingotti di Fort Knox compiuto soprattutto dalla Banque de France, il pubblico che grida felice sugli ottovolanti di Disneyworld, che intinge patatine fritte nel ketchup di McDonald’s, che lotta contro le compagnie di assicurazione per le cure mediche, nulla sa. I grandi media popolari, e anche i giornali di qualità, ignorano il fatto che il dollaro americano si sia dimezzato di valore rispetto all’euro nell’arco di cinque anni, da quando bastavano 75 centesimi di dollaro per comperare un euro, al corso di questi giorni quando ne occorrono praticamente il doppio, 145 centesimi. L’universo di Internet, pronto a vibrare per ogni voce sulle possibili relazioni saffiche di Hillary Clinton o sulla biancheria mistica indossata dal mormone Mitt Romney, dorme di fronte al colossale debito americano, ai miliardi di buoni del Tesoro accatastati nelle casseforti di Cina e Giappone, al rischio di inflazione che sempre la svalutazione della propria moneta comporta. È l’autismo valutario di una nazione abituata a considerare appunto “Dio” la propria moneta, che resiste anche alle voci terrificanti di un possibile passaggio in massa dei produttori di greggio dal dollaro all’euro. O alle non più tanto velate minacce — l’ultima è dell’agosto scorso — dei cinesi, che meditano di passare dal dollaro alla valuta europea come principale strumento di riserva. Nella autoreferenzialità di questa amministrazione Bush, ipnotizzata dalle sirene del “nuovo secolo americano”, non si sente una voce autorevole, né alla Fed né al Tesoro, riflettere su quale fondamentale ruolo abbiano giocato il dollaro, la sua centralità assoluta, il suo essere il danaro del commercio, delle riserve, dell’ultimo rifugio, nel creare il secolo americano vero, il Ventesimo. La fissazione della forza militare ha fatto dimenticare che senza l’egemonia culturale e l’egemonia finanziaria, le armi da sole non sostengono un impero, neppure se si crede un impero del Bene. Qualche pensionato che fino a ieri attraversava le frontiere con il Canada e il Messico per rifornirsi di medicinali a minor costo in quelle nazioni, sta scoprendo amaramente che il vantaggio di cambio è svanito e il dollaro non arriva più lontano come un tempo, né viene accolto come il messia. Gli immobiliaristi di New York si consolano al pensiero dei futuri acquirenti europei e asiatici che, come accadde già negli anni effimeri dello yen giapponese trionfante, sbarcheranno per accaparrarsi appartamenti e palazzi in saldo. Ma nel fondo della coscienza popolare, l’idea che quella moneta con la sua inconfondibile S barrata stia diventando soltanto una delle tante valute in un mondo che è costretto ancora a tenerla nelle riserve, senza più desiderarla, non è ancora penetrata. Soltanto chi ha speculato un anno fa, o ancora sei mesi or sono, sul grande ritorno del transatlantico verde, ha scoperto che quel pugno di dollari si è trasformato in un pugno di mosche. LA NASCITA IL VALORE I NOMIGNOLI Il dollaro viene adottato come valuta degli Stati Uniti nel 1785, nove anni dopo la Dichiarazione d’Indipendenza Con la legge del 1792 viene fissato il peso del dollaro in argento: 471.25 grani troy (circa 30,54 grammi) Ben presto il dollaro viene chiamato con una serie di nomignoli diventati famosi: buck, bone, greenback e così via Repubblica Nazionale DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27 Ci fu un tempo, ormai lontano, in cui Hemingway si comprava Parigi con la sua piccola pensione di reduce E gli inviati speciali viaggiavano al riparo dai guai... Quel biglietto era il mondo SANDRO VIOLA l dollaro? Bisogna tirar giù dagli scaffali Hemingway e Fitzgerald, per ricordare che cosa fu ai suoi bei tempi. Leggere qui un brano di Festa mobile, lì un altro di The sun also rises (Fiesta, nella famosa traduzione einaudiana), e poi qualche pagina di Tenera è la notte o di Babilonia rivisitata. Ed ecco affiorare, in pochi capoversi, la grandezza della moneta americana. Il suo fiabesco potere d’acquisto. Negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, Hemingway vive a Parigi con la prima moglie Hadley. Dall’America riceve la piccola pensione che lo Stato assicura ai reduci (Ernest è stato autista d’ambulanze sul fronte italiano), e dal Canada arrivano i magri compensi che il Toronto star gli paga, in dollari americani, per i suoi articoli. Eppure campa quasi come un re. Nel 1920 un dollaro vale infatti quindici franchi, nel ‘23 ne vale quasi diciassette, nel ‘24 supera i diciannove. E con diciannove franchi — come capiamo da quel senso continuo di felicità che percorre le pagine di Festa mobile — si possono avere una quantità di cose. Un pranzo alla Closerie des lilas, vari bicchieri di discreti Bordeaux e Sancerre al Select, al Dome e al Jockey, parecchie tazze di café crème alla terrazza della Rotonde o della Coupole. E non basta: con il gruzzolo di dollari che rimedia ogni mese, Hemingway si può permettere persino d’andare ogni tanto sino in Andalusia, verso Ronda, a pesca di trote. Lo stesso quando arrivano a Parigi Scott e Zelda Fitzgerald, Harry e Mary Crosby, e tutte le altre famose coppie americane di quegli anni. Grandi alberghi, un fiume di champagne, notti di follie. A New York, i guadagni che Fitzgerald ha ricavato da Di qua dal paradiso e da Belli e dannati, i generosi compensi che le grandi riviste americane gli stanno pagando per i suoi racconti non consentirebbero una vita tanto dorata. Ma a Parigi il dollaro pesa: si cambia un Traveller’s cheque in banca, e se ne esce con le tasche gonfie di franchi. Né si tratta soltanto di Hemingway e Fitzgerald, o dei ricchi come Harry Crosby e Ford Maddox Ford. A godere della manna-dollaro è l’intera «lost generation», da Pound a Dos Passos e ad Anderson, tutti a Parigi, tutti senza molti mezzi, ma tenuti a galla da un cambio tanto propizio da sembrare miracoloso. Anzi, a pensarci bene, senza il dollaro a diciannove franchi non ci sarebbe stata la «lost generation». Non ci sarebbero stati cioè gli «expatriates» americani sulle rive della Senna, Gertrude Stein non avrebbe mai parlato d’una «generazione perduta», e noi non ci saremmo beati a rievocarla — cinquanta e più anni fa — ogni volta che entravamo al Select, al Dome o alla Closerie. La festa mobile durò parecchi anni. Ancora nella seconda metà dei Venti, quando già se n’erano andati Hemingway, Fitzgerald e molti altri scrittori americani, dagli Stati Uniti continuavano ad arrivare a Parigi coppie celebri e aspiranti artisti. Era in genere gente ricca (basta pensare al Maugham di Il filo del rasoio) che non abitava a Montparnasse ma all’Avenue Foch, resa ancora più ricca e prodiga dalla potenza del dollaro. Poi, d’un tratto, giunse la scossa tellurica del ‘29. Il crollo di Wall Street si portò dietro anche il valore del dollaro, la vita a Parigi si fece costosa, e gli «expatriates» — salvo Henry Miller, che viveva con molto poco — sparirono. Ma si trattò d’una eclisse temporanea. Il legame dollaro-Parigi-letteratura americana si riprodusse infatti, tale e quale, alla fine del secondo conflitto mondiale. A partire dal ‘48-49, poiché il dollaro ha intanto ritrovato la sua imbattibile robustezza mentre il franco della Quarta Repubblica zoppica vistosamente, la capitale francese s’empie ancora una volta di scrittori americani. Di nuovo, una piccola rendita in valuta americana consente di vivere a Parigi abbastanza bene, e soprattutto consente di frequentarne giorno e notte i bar. Il quartiere degli americani è adesso Saint Germain-de-Prés, ed è lì che vanno ad abi- I tare William Styron, James Jones, Richard Wright, James Baldwin, William Gardner Smith, ed altri di cui s’è persa la memoria. Più in là verso il boulevard Saint Michel, tra Gitle-coeur e la Houchette, andranno invece ad attestarsi alcuni anni dopo William Burroughs e Allen Ginsberg. Oggi il dollaro sbanda, pericola, sembra un ferito che si sforzi di restare in piedi. Ma allora, l’abbiamo visto, metteva il vento in poppa persino alla letteratura. E non era solo questione di scrittori americani a Parigi. Dagli anni Cinquanta sino alla fine dei Novanta, il biglietto verde è un “passe-partout”, un “apriti Sesamo” per ogni tipo di viaggio in ogni angolo del mondo. Viaggiare senza dollari (dollari contanti, non Traveller’s), avrebbe significato infatti andare incontro a qualche guaio. I viaggi dei giornalisti, per fare un esempio: l’Africa, l’Asia, il Medio Oriente, l’Urss e i suoi satelliti, come si sarebbero potuti percorrere più o meno tranquillamente senza avere in tasca un rotolo di dollari tenuti insieme da un elastico? Capitava infatti che un doganiere ugandese, all’aeroporto di Entebbe, negli anni della follia di Idi Amin, bloccasse il giornalista asserendo che nella sua macchina fotografica c’erano foto di installazioni militari: e che perciò — se avesse voluto partire — avrebbe dovuto consegnargli l’apparecchio. Litigare non era il caso, perché a quel tempo si poteva finire in una prigione di Kampala per molto meno d’una lite alla dogana. I minuti intanto trascorrevano, il giornalista rischiava di perdere l’aereo e di dover aspettare due o tre giorni per il prossimo. Ma il dollaro, un biglietto da venti lasciato scivolare sul banco del doganiere, risolveva infine la controversia, che mai e poi mai si sarebbe risolta se il viaggiatore avesse avuto con sé franchi francesi, marchi tedeschi o lire italiane: biglietti di banca che l’ugandese non aveva mai visto, anzi non aveva mai saputo che esistessero. E lo stesso negli anni di Mobutu all’aeroporto di Kinshasa, altra città dove si finiva facilmente in galera, quando un sergente della polizia fermava il giornalista, lo spingeva in uno sgabuzzino e lì l’accusava di traffico di diamanti. Le proteste non servivano a niente, il congolese continuava a gridare: «J’ai l’ordre de vous arrèter, monsieur». E anche qui, senza il dollaro talismano, sarebbe finita male. Ma un altro biglietto da venti faceva il miracolo, e dopo averlo intascato il sergente accompagnava il viaggiatore sino alla scaletta dell’aereo profondendosi in una serie di calorosi «Bon voyage, monsieur». No, non si sarebbero potuti dare franchi, marchi o lire ai telescriventisti di Dacca, ai telegrafisti di Delhi, ai telefonisti del Cairo che rifiutavano — ciascuno con un suo pretesto: il coprifuoco, un guasto della telescrivente, la mancanza del visto della censura — di spedire gli articoli o di dare una comunicazione telefonica. Ma qualche dollaro serviva di colpo, come per magia, ad abbattere l’ostacolo. Né si sarebbe potuta ottenere la colazione in camera negli alberghi sovietici, un whisky in Kuwait, un taxi per raggiungere la piazza Tienanmen durante la rivolta degli studenti nell’89, un argento vittoriano al mercato cairota di Khan al Khalili, qualche pacchetto di sigarette non rumene — cioè fumabili — nella Bucarest degli anni peggiori di Ceausescu, se non s’avesse avuto in tasca l’amuleto, quel rotolo di dollari tenuti insieme da un elastico. E adesso che il biglietto verde cede, retrocede, periclita, viene in mente un’ultima immagine di quella che fu la sua leggendaria potenza. Le processioni nei paesi del Meridione d’Italia, trenta o quarant’anni fa, quando le madonne procedevano portate a spalla, coperte di dollari attaccati con la carta gommata, dono degli emigrati lontani ma sempre devoti. La banda suonava, e se il pomeriggio si faceva un po’ ventoso i biglietti verdi tremolavano leggeri lungo il manto della madonna. L’ORO L’EURO IL DECLINO Nel 1900 il valore del dollaro viene fissato in oro. Il presidente Nixon, 71 anni dopo,mette fine alla convertibilità Dall’avvento dell’euro nel 2002, il dollaro non ha fatto che deprezzarsi, perdendo quasi la metà del suo valore di scambio L’euro, dice l’ex capo della Fed Greenspan, potrebbe sostituire il dollaro nelle riserve valutarie mondiali Repubblica Nazionale 28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA l’immagine Cartoonist di culto DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 Milano, anni Sessanta. Osvaldo Cavandoli inventa per “Carosello” con un segno grafico asciutto e geniale un personaggio che è il simbolo dell’Italia del boom: un omino perseguitato da batoste e sciagure ma che sempre si rialza e ricomincia a andare, andare, andare... Ora Gallucci pubblica postuma la sua ultima avventura E la Linea si innamorò MICHELE SERRA a Linea di Osvaldo Cavandoli è una delle non poche eccellenze italiane che hanno fatto il giro del mondo, ma la bibliografia in materia è piuttosto risicata, e anche passeggiando per internet non è che se ne trovi grande traccia. Né la Linea né il suo autore sono circonfusi dall’aura mitica, “cult” e anche iperculturale che avvolge molti maestri del fumetto e del disegno animato. Tanto che qualche misurato e rammaricato saluto — quando Cavandoli muore, ottantasettenne, pochi mesi fa — lo tratta da maestro “dimenticato”. In realtà la Linea, se avesse ancora la parola, potrebbe rivendicare, con la L cosa fantasia di disegnatori, progettisti, artisti che in quegli anni lavorano in strettissimo contatto con la produzione industriale e le aziende, loro committenti. E da queste vengono sollecitati a fornire un surplus di immagine, una scintilla di qualità che aiuti a rendersi distinguibili, che serva a galleggiare, in pieno boom economico, sull’onda di piena dei consumi di massa. Molti marchi industriali sono ancora in fasce, molte fabbriche sono cattedrali di ferro e fiamme piene di uomini e donne, ma la loro insegna non è ancora accesa nella Broadway dei consumi. La potenza materiale deve diventare comunicazione immateriale, linguaggio, cultura popolare, colpire l’immaginazione, imprimersi nel nuovo paesaggio del benes- Un profilo perfetto, un logo da museo, nato dalla matita di un disegnatore meccanico dell’Alfa Romeo con poche scuole alle spalle e a sedici anni già in fabbrica sua caratteristica e comica animosità, una storia profondamente differente da quella del fumetto d’arte italiano o francese, così letterario, così intellettuale. Cavandoli era un tecnico (anzi un “tennico”, come si dice nella sua Milano). Un disegnatore meccanico nato professionalmente in Alfa Romeo, dove lavorò da apprendista prima della guerra (era nato sul Garda nel gennaio del ‘20, visse sempre a Milano). Poche scuole alle spalle, a sedici anni già in fabbrica. Metalmeccanico è anche il destino della sua Linea, che diventa famosa come testimonial delle pentole a pressione Lagostina, verso la fine dei Sessanta, ancora nel pieno fulgore dell’epopea pubblicitaria di Carosello. Di quella Milano industriale, dagli umori artistici intensi e lunari, stilizzati e sobriamente eleganti, la Linea (a partire dal suo nome-manifesto) è una figlia molto tipica. Il segno asciutto, spogliatissimo, ottenuto levando e ancora levando (“cavàndoli”, in questo senso, è quasi un gioco di parole, nonché un nomen-omen…), è parente stretto del migliore design milanese. Il tratto di Cavandoli è tipico della sobrietà funzionale ma anche della gio- sere. In molti lavorano a questa avventura. La Linea, con il suo incedere perenne (per esistere e per esprimersi ha bisogno di muoversi incessantemente, come la scrittura, da sinistra verso destra), esprime fortemente, e non saprei dire quanto inconsciamente, lo spirito “progressista” della sua epoca. Progressista, ovviamente, non in senso politico, ma in senso economico-industriale: la Linea è un omino in marcia, una marcia incidentata a scopo comico ma una marcia irresistibile. Il tracciato che percorre (e dal quale è formato, stessa sostanza del suo percorso) ricorda la linea mutevole della grafica dei bilanci aziendali, con tanto di discese ardite e di risalite… Ne è, in un certo senso, l’umanizzazione o meglio la “uomizzazione”, è la linea astratta dei grafici economici che improvvisamente, per mano del demiurgo Cavandoli, si anima, prende rilievo, assume sembianze umane. Verrebbe da dire che la Linea, vista in questa chiave, è quasi un alter-Fantozzi, la messa a fuoco epico-comica di un minuscolo ingranaggio dell’immane meccanismo industriale che si mette in marcia non si sa per dove, e attraversa baratri e prende batoste, ed è perseguitato da folgori e da sciagure, ma come tutti gli eroi e come tutti i cartoon si rialza sempre, e ricomincia ad andare, andare, andare… Negli spot di Carosello (che allora si chiamavano réclame…), il demiurgo si ritaglia una parte molto chiara e cosciente. La mano di Cavandoli, munita di penna, irrompe nel video, come gli déi nei poemi epici, quando la Linea è in difficoltà, e per superare un ostacolo, o riaversi da una catastrofe, invoca l’aiuto del suo protettore. È quasi una parodia michelangiolesca, con la mano (in carne e ossa) che appare e con il suo dito magico, la penna, insuffla nuova vita nell’omino. Come un elettroencefalogramma piatto che miracolosamente si rianima, la linea torna ad essere la Linea: si risolleva e si rimette in cammino. Il signor Lagostina era un appassionato di arte moderna. Facile immaginare che la pubblicità, per lui e la sua azienda di pentole, dovesse essere qualcosa di più di un banale e stentoreo slogan. Carosello, all’epoca, era organizzato come uno show in piena regola, una sequenza di brevi siparietti da affidare ad attori, registi, sceneggiatori. La specializzazione pubblicitaria, con i suoi creativi e i suoi scrittori, era ancora ai primi passi, e rivolgersi a un appassionato di cinema d’animazione era una delle tante vie per arrivare al pubblico in maniera riconoscibile. Osvaldo Cavandoli, pieno delle sue passioni “tenniche”, bazzicava già da anni nel cinema d’animazione. Aveva collaborato con Nino Pagot, pioniere italiano del settore, e finirà, anni dopo, ad animare i disegni di Altan per realizzare i “cor- Repubblica Nazionale DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29 ti” della Pimpa. Per Carosello, quando Lagostina lo contatta, aveva già realizzato la Mucca Carolina, pupazzo graficamente non memorabile ma popolarissimo tra i bambini per via dei jingle e dei primi gadget che trasportavano dal video alle case i personaggi della pubblicità. (Da bambino fui il possessore, molto fiero, di almeno una Mucca Carolina di plastica gonfiabile, di un paio di Calimeri da tavolo e di un Ercolino Sempreinpiedi da camera. Le figurine Mira Lanza, da scovare nei fustini di detersivo frugando nel sapone in polvere, restano comunque il gadget carosellesco più ambito e indimenticabile: il trofeo era nel cuore del Prodotto, la pubblicità era l’anima delle merci che provava a rivelarsi alla nostra gnosi domestica). Rispetto all’universo di Carosello, giocattolesco, fumettistico in senso molto tradizionale, la Linea è comunque un vero e proprio shock. L’immagine è quasi metafisica, il gioco grafico, nel suo svolgimento appunto lineare e ininterrotto, affascina adulti e bambini in maniera indelebile. È quello che si dice volgarmente un’idea geniale. Ma veramente geniale. E che il genio sia un “tennico”, un disegnatore industriale, un milanese modesto e di poche parole che rimase per tutta la vita sostanzialmente appartato rispetto a ogni tipo di ribalta, è cosa che aggiunge ulteriore fascino alla Linea, e colloca Osvaldo Cavandoli in un’area tutta sua della memoria grafica italiana. Più sopra mi è venuto da definire Cavandoli un “non intellettuale”, ma pensandoci meglio è un errore. Se c’è una cosa che l’epopea del design milanese ha insegnato, è che i confini tra produzione industriale e lavoro intellettuale non sono definiti in partenza. Naturalmente la dozzinalità, nella produzione di massa, è molto più che una possibilità: è quasi una condan- na. Ma le brute esigenze della produzione, il pulsare impaziente della fabbrica, sono un tale macigno che grava sulle idee dei “creativi”, da renderle necessariamente rapide, funzionali, veloci. È quella “velocità milanese” così spesso e giustamente derisa per quanto è spiccia e disumanizzante. Ma quando è invece precisa e insieme umana, quando trasforma la “tennica” in sapienza e (di conseguenza) anche in quella bellezza carica di pudore che è la virtù nascosta (molto nascosta, purtroppo) di Milano, allora nascono i maestri assoluti come Bruno Munari, nascono le vetrine di Danese davanti alle quali incollavo il naso da ragazzino studiando le forme “facili” ma fantastiche di ogni singolo oggetto, nasce la levità ludica di molto design, nasce la Linea di Cavandoli. Fissandone i connotati minimalisti e insieme l’espressività dilagante, quasi paperinesca nelle rabbie, quasi donchisciottesca nei silenzi, rimane però qualcosa di sfuggente e indecifrabile. Possiamo provare a collocarla nel suo tempo e perfino nella sua città, la Linea, Milano e gli anni Sessanta, binari del tram, luci al neon, fabbriche accese (La Linea, secondo me, quando usciva dal disegno saliva su una Fiat Ottocentocinquanta). Ma non riusciamo ad afferrare del tutto da quale foglio, da quale sbarra di ferro piegata, da quale svolazzo grafico Osvaldo Cavandoli sia riuscito a sortire questo personaggio perfetto, questo logo da museo, perfino più glorioso e certamente più sexy dell’omino coi baffi della Bialetti. C’è una specie di inspiegabile shining che aiuta l’autore, il creativo, il creatore a far nascere dal nulla il suo eroe. Di questo shining noi italiani siamo piuttosto ricchi, sarà un luogo comune dirlo ma è davvero il nostro bene-rifugio, il nostro antidoto contro le varie crisi strutturali, lo sfascio civico, la gracilità di tante strutture e infrastrutture. Come per la Linea, c’è un estro che risolleva quando si precipita, un estro o magari anche solo una gran fortuna o un incoercibile, inspiegabile ottimismo. Il tragitto prosegue, da sinistra verso destra, da un luogo a un altro, il senso opprimente di stagnazione e di fiacca che ci prende così spesso, ultimamente, non riguarda la Linea, che continua a camminare pur non sapendo che cosa la aspetta oltre il margine della pagina. CON REPUBBLICA È nelle edicole, in vendita a 8,90 euro in più con la Repubblica e L’espresso, il secondo dvd di Carosello, la raccolta dei memorabili antenati degli spot televisivi Il tratto dell’autore è tipico della sobrietà funzionale ma anche della fantasia giocosa dei progettisti che proprio in quegli anni lavorano a stretto contatto con l’industria IL LIBRO Mon amour Linea di Osvaldo Cavandoli (da cui sono tratte le illustrazioni delle pagine), edito da Gallucci, è un libro di 32 pagine a colori, costa 18 euro e contiene un dvd con una raccolta di cartoni animati che hanno Linea come protagonista. Sarà in libreria la prossima settimana Nel libro, Cavandoli - morto pochi mesi fa a ottantasette anni - racconta con semplicità e ironia l’amore, la coppia, la famiglia Di Cavandoli Gallucci ha anche pubblicato Mister Linea e quell’incredibile venerdì 17 e Nella Vecchia Fattoria Repubblica Nazionale 30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 i luoghi Visita alla casa-museo di Giorgio de Chirico per ritrovare, alla vigilia dell’anniversario della morte, le tracce del suo lavoro, delle sue abitudini, dei suoi tic. E scoprire Rifugio d’artista pagine inedite coperte dalla sua fitta calligrafia con poesie, brani di romanzi, lettere contenenti riflessioni sulla sorgente nascosta della sua straordinaria pittura DOCUMENTI MAI VISTI Qui accanto, alcuni dei documenti inediti che pubblichiamo per gentile concessione dalla Fondazione Giorgio e Isa de Chirico Da sinistra, la poesia Voyage dans la nuit; la poesia Hommage à Isa in versione diversa da quella nota; la poesia L’Italie; una pagina del romanzo Il sig. Dudron De Chirico, i versi segreti LAURA LAURENZI E ROMA ntri in casa sua quasi in punta di piedi. Lui, si sa, è uno che mette in soggezione. Burbero, pieno di sé. Hai come l’impressione che il maestro stia al piano di sopra, chiuso nel suo atelier a dipingere, con le finestre sprangate e la luce lattea che scende dall’alto, dal lucernario sul soffitto. Ti viene spontaneo parlare sottovoce, mentre ti dicono: prego signora, si accomodi in salotto. Tutto è rimasto com’era. Casa Museo di Giorgio de Chirico, nel cuore del cuore di Roma: piazza di Spagna numero 31, guardando la scalinata il portone sulla destra, il seicentesco Palazzetto dei Borgognoni. Lui occupava gli ultimi tre piani: uno per vivere; uno per dormire, sognare i suoi quadri e dipingerli; l’ultimo per la servitù, come si diceva ai suoi tempi. Due terrazze con una vista panoramica a 360 gradi che ti accieca, sette balconi affacciati sulla Barcaccia e sull’obelisco con la statua dell’Immacolata, il brusio dei turisti che sale dal basso. «Dicono che Roma sia il centro del mondo e che piazza di Spagna sia il centro di Roma», scrisse in Memorie della mia vita, «io e mia moglie quindi si abiterebbe nel centro del centro del mondo, quello che sarebbe il colmo in fatto di centrabilità ed il colmo in fatto di antieccentricità». La casa, quando nel 1947 de Chirico e la sua seconda moglie Isabella Pakzswer vi andarono ad abitare, versava in condizioni disastrose: «In alcune stanze ci pioveva persino dentro», annotò l’artista, «ed erano piene di scarafaggi d’ogni grandezza e d’ogni colore». Valse la pena restaurarla: il pictor optimus vi abitò per trentun anni, fino alla morte, avvenuta il 20 novembre del 1978. Da nove anni è diventata un museo, la sua galleria privata: alle pareti i quadri che già c’erano, una sessantina, tutti del maestro. Ogni stanza — anche i bagni, anche le camere da letto — è rimasta com’era, con l’unica eccezione della cucina, trasformata in ufficio, con i fax, i computer, l’archivio della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico. Pochi e colti i turisti, prevalentemente non italiani. La visita è su appuntamento e va prenotata (06 6796546). Costa cinque euro e li vale fino all’ultimo centesimo. Per terra i tappeti persiani originari, solo la guida rossa è un’innovazione. Nel primo dei tre salotti, tappezzato di ritratti della severa moglie-manager (Isabella come Najade, Isabella signora alto borghese in pelliccia di leopardo, Isabella nei panni di una dama rinascimentale, Isabella desnuda) c’è la poltrona preferita da de Chirico, isolata, rivestita da una sobria copertina di cotone grigio. È qui che de Chirico dopo cena guardava la televisione fumandosi un mezzo sigaro toscano. Il suo programma preferito era Carosello, il suo vezzo era mettersi davanti al televisore azzerando l’audio, anche quando c’era il Festival di Sanremo, come fosse un acquario. Ecco i quadri del periodo barocco e quelli del periodo neometafisico, disseminati di enigmi e di rebus, gli autoritratti in abiti del Seicento che de Chirico si faceva prestare dal Teatro dell’Opera, i mariparquet, i manichini archeologici, gli oracoli intabarrati, le sibille allarmanti, i minotauri pentiti. Il Ritorno del figliol prodigo è uno degli ultimi: aveva ottantasette anni quando lo dipinse, morì a novanta. Una fuga di salotti, gran divani di velluto a quattro posti, tende pesanti, damaschi pomposi, mobili anni Cinquanta, lampadari solenni di cristallo o di vetro soffiato, caminetto sormontato da una battaglia di gladiatori. Ecco il carrello dei liquori con ancora le bottiglie originali piene a metà: il Punt e Mes, che era il suo preferito, la Grappuva Fabbri, un amaro al tartufo di Norcia. La camera da pranzo, con il tavolo ro- tondo allungabile di mogano tirato a lucido, contiene oltre agli argenti un’impressionante collezione di nature morte, che lui preferiva chiamare vite silenti: ananas ma con l’Apollo del Belvedere sullo sfondo e il mar Egeo, cedri e mele cotogne su cui vigila con gli occhi vuoti Pallade Atena. Per accedere al de Chirico segreto bisogna salire al piano superiore. Le due camere da letto si fronteggiano: quella di Isabella è più ampia, ha un letto matrimoniale damascato e un tavolo basso con portacipria, spazzole, rossetti e flaconi di vecchie eau de toilette come “Magie noire” allineati davanti allo specchio. La finestra, munita di sbarre, affaccia sul retro: il “retro” è la scalinata di Trinità dei Monti in tutto il suo fulgore e nelle sue geometrie barocche, le rampe, l’obelisco, l’ingresso del salotto di Maria Angiolillo. Stessa vista per il maestro, ma la sua camera da letto è la vera sorpresa della casa: un loculo, la cella di un monaco, lo scompartimento di un vagone letto, minuscola, bianca, spoglia, ascetica. Pochissimi oggetti, qualche libro ingiallito come Kandinsky und Ich, un modellino alto un palmo della Pietà di Michelangelo, e un lettino che sembra quello di un ospedale, quasi un giaciglio. In fondo al corridoio l’atelier. Più che un atelier, l’antro dell’alchimista. Ecco su un tavolo una bilancia, un fornello, ciotole, pestelli, ampolle, spatole, pennelli, polveri misteriose con cui de Chirico, per lunghi anni, rischiando anche di intossicarsi, si faceva i colori da solo. Ed ecco due tavolozze ancora incrostate, la scatola con i carboncini, i pastelli a cera spezzati, i Caran d’Ache, la cassetta coi tubetti di colore a olio semispremuti e un vecchio santino di Padre Pio sul coperchio. Su una sedia è appoggiato il camice grigio scuro del pittore: è sporco, sembra se lo sia appena tolto. «Nella mia casa di piazza di Spagna ho pure un magnifico studio, che sta al quinto piano», scrisse sempre nelle Memorie della mia vita, «dalla terrazza del mio studio vedo spesso splendidi spettacoli celesti, cieli tersi e cieli caliginosi, tramonti infuocati, notti di luna ed effetti notturni con le nubi cerchiate di giallo pallido, come in certe marine di maestri olandesi e fiamminghi. Io sono sempre pronto con matite e colori...». Eppure le tende restavano quasi sempre chiuse, come oggi. «Bisogna dipingere quello che non si vede», amava ripetere de Chirico. Su due cavalletti due quadri ancora in lavorazione: una copia del Tondo Doni di Michelangelo lasciata a metà e una grande tela tutta grigia su cui cominciava a prendere forma il profilo di una donna nuda sdraiata. Sul retro, appesi al legno dell’intelaiatura, amuleti di ogni tipo: corni, gobbi, ferri di cavallo, il campanaccio di una mucca. L’a- “Caro Apollinaire, le spiego l’essenza della mia arte” GIORGIO DE CHIRICO Pubblichiamo due brani tratti da due lettere inedite di Giorgio de Chirico al poeta Guillaume Apollinaire. La prima è datata 26 gennaio 1914; la seconda è di poco successiva. Le trascrizioni di entrambe sono conservate presso la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico o ricevuto il vostro bigliettino; non mancherò venerdì prossimo di venire da voi alle tre. Spero quel giorno di avere il piacere di passare con voi il pomeriggio e la sera. Mia madre e mio fratello desiderano molto fare la vostra conoscenza e per questo vi pregherei di venire a cena da noi. Vorrei sapere quali sono le pietanze che preferite. Cercherò di venire da voi mercoledì, ma se ne fossi impedito siate così gentile da avvertirmi con un biglietto per dirmi se accettate di cenare e che cosa preferireste mangiare. È questa una cosa assai importante, come fa osservare Nietzsche in Ecce Homo, e non vorrei in alcun modo che si facciano dei piatti che possano dispiacervi. Ho costruito in questi ultimi tempi dei quadri che mi hanno causato gioie purissime. *** Vi porterò uno di questi giorni L’énigme d’une journée [attualmenteal MoMA di New York, ndr]; per il quadro di mademoiselle Laurencin ho pensato oggi al titolo Mystère d’un moment perché le varie cose che vi sono rappresentate appaiono in tutto l’imprevisto di certi momenti in cui l’essenza intima degli oggetti ci appare in tutta la sua realtà metafisica. La somiglianza che c’è tra l’immaginazione che ho e le cose come appaiono nella vita può essere comparata alla somiglianza che c’è tra la fisionomia di una persona come la si vede in sogno e la fisionomia della stessa persona nella realtà; è e nello stesso tempo non è la stessa persona. Sono convinto perciò di avere mostrato un nuovo cammino in arte. H Più che un atelier, la stanza al piano superiore dell’appartamento di piazza di Spagna è l’antro di un alchimista: una bilancia, un fornello, ciotole, pestelli, ampolle, polveri raldo delle Muse Inquietanti era superstizioso. Piccola e modesta la scrivania. Sopra, alla rinfusa su un panno, la sua collezione di pipe. Anche la grande foto in cornice del fratello Alberto Savinio, con una scritta a mano: bisogna guardare alla tomba come si guarda in una culla. Li chiamavano i due Dioscuri: a Roma si frequentarono poco, ruppero per motivi mai chiariti, le mogli non andavano d’accordo, i critici d’arte li avevano quasi messi uno contro l’altro. Ma quando nel ‘52 Savinio morì, il fratello gli depose una corona d’alloro sul capo e da quel giorno, per i ventisei anni che gli restarono da vivere, portò (quando doveva mettersela) una cravatta nera in segno di lutto. Sulla scrivania sono appoggiati anche la feluca e lo spadino che de Chirico sfoggiò quando entrò a far parte dell’Accademia di Francia, fra gli immortali, nel 1974. «Lo accompagnai a Parigi in quel viaggio. L’ambasciatore italiano non intervenne neppure alla cerimonia. A livello ufficiale de Chirico veniva ignorato: basta pensare che quando morì, nel 1978, Giulio Carlo Argan non andò neppure ai suoi funerali, né come sindaco di Roma, né come critico d’arte», ricorda Toni Porcella, il gallerista che gli organizzò le ultime due mostre e che siede nel consiglio d’amministrazione della Fondazione. «Era un amico di mio nonno, è stato mio testimone di nozze, si presentò in chiesa con due disegni arrotolati sottobraccio. Dicono che ci somigliamo, Sgarbi sostiene addirittura che sono suo figlio naturale, ma è solo una battuta. Ho avuto il privilegio di poterlo frequentare. Mi chiedeva spesso soldi, ma in modo paradossale. Mi faceva trovare certi biglietti minatori scritti sui tovagliolini di carta del Caffè Greco: se non mi consegnerà la cifra di cento milioni in contanti entro mezzogiorno le farò saltare la galleria con una potente carica di tritolo. Scherzava, come quando al ragazzino che gli chiedeva un autografo diceva: dammi prima cinquanta lire. Avevano, lui e la moglie, la fama di essere tirchi. Non è così, in realtà facevano beneficenza ma non volevano che si sapesse. Gli piaceva il lusso un po’ pomposo: sognava di vivere all’Hotel Plaza di Roma o al Danieli di Venezia». Fuori dalle mura domestiche si calava nella parte dell’artista-vate, del genio compreso, narciso e superuomo, anarchico moderato come gli piaceva definirsi. Tutte le mattine verso mezzogiorno («gli uomini di genio devono dormire molto», ripeteva) andava prima al Baretto di via Condotti e poi al Caffè Greco. «Il Caffè Greco è l’unico posto dove ci si può sedere e aspettare la fine del mondo», decretò. «Spesso pagava la consumazione con un disegnino su un tovagliolo per il cameriere da cui si faceva anche dare un po’ di resto. Emanava carisma, sembrava uscito da un suo quadro», racconta Gianni Battistoni, presidente dell’Associazione Via Condotti. A una signora che gli chiese posso chiamarla maestro? rispose: chiamami Peroni, sarò la tua birra. Se gli domandavano cosa pensava di questo o quel pittore, diceva sempre: segreto professionale. Marta Marzotto, per un lungo periodo sua dirimpettaia in piazza di Spagna, lo ricorda in pigiama, la sera, affacciato a uno dei suoi balconi, a sbirciare le feste che la contessa dava a casa sua: «Da me c’erano Renato Guttuso, Parise, Moravia, Nico Naldini. De Chirico, di fronte, guardava, guardava, facendo finta di non guardare». Per il trentennale della morte, l’anno prossimo, si prepara una grande mostra che sarà curata, come il catalogo, da Achille Bonito Oliva. Ci saranno quadri di de Chirico ma anche opere di artisti a lui collegati. Nei giorni scorsi, il 31 ottobre, si è inaugurata a New York, alla Fondazione Onassis, la mostra Giorgio de Chirico e la Grecia, viaggio attraverso la memoria. Resterà aperta fino al 6 gennaio. Repubblica Nazionale DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31 FOTOMONTAGGIO L’illustrazione di questa pagina è un montaggio di alcune foto scattate da Mimmo Frassineti / Agf nella casa-museo di Giorgio de Chirico su alcune opere del pittore, un Autoritratto e Interno metafisico con biscotti Repubblica Nazionale 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 Caselle vuote come lacune da riempire, parole sulla punta della lingua, frammenti dispersi di attività neuronale che cercano posto in una griglia di numeri e definizioni Che cos’è questo gioco così popolare e così raffinato, così diffuso e così intimo? CULTURA* Da due generazioni una famiglia vive e respira enigmistica. Uno di loro ha cercato di dare un senso a questa storia con un libro: “L’orizzonte verticale” C R PAROLE C I A T E Il pensiero minore del Novecento STEFANO BARTEZZAGHI a storia del cruciverba e della sua invenzione non incomincia nel vuoto, bensì in un luogo assolutamente affollato, e anche caotico: un luogo in cui non è facile orizzontarsi. Si tratta di un quadro immaginario, una tela o più probabilmente un affresco che ritrae gli uomini e le donne che hanno percorso — se non “fatto” — il Ventesimo secolo: il Novecento. Gli individui che compaiono nell’opera non portano i volti di personaggi storici — Adolf Hitler, Mick Jagger, Margaret Thatcher, Padre Pio. Il pittore ha avuto l’idea di rappresentare non gli individui ma le categorie umane, e così troviamo raffigurati il giocatore di golf, la panettiera, il metalmeccanico, l’evasore fiscale, la babysitter, il baby-pensionato, l’ubriacone, la ciclista: ognuno rappresenta una figura professionale, una classe sociale, uno stato civile, ma anche uno sport, un hobby, una condizione transitoria, a volte uno stato d’animo. A saperlo cercare, in questo affresco sterminato e pullulante si trova anche l’uomo che risolve il cruciverba, con la sua attitudine a ripiegarsi in sé e con il suo ideale anonimato. È seminascosto ma la sua posizione nel quadro non è molto distante dal centro. Ha un giornale ripiegato in una mano, è seduto su un seggiolino e poggia il braccio con il giornale sulle ginocchia. Con l’altra mano tiene una matita di quelle che hanno la gomma sul capo opposto alla punta: più un’idea di gomma che una gomma effettivamente funzionante, anche perché durante questo momento di indugio la mano ha portato la gomma alla bocca, e il solutore di cruciverba (sicuro di passare come al solito inosservato) ci sta giocherellando con i denti. Potrebbe trattarsi di una donna, e al- L lora avrebbe un contegno più composto, il giornale sarebbe meno spiegazzato, l’aria pensosa un po’ più ironica. La sua posa potrebbe parere un’imitazione, certo assai meno intensa, di quella della famosa scultura del Pensatore di Rodin. A cosa pensava, del resto, il Pensatore di Rodin? Nel progetto dello scultore quell’uomo con la fronte appoggiata sulla mano doveva essere Dante, in meditazione alle porte dell’Inferno: è rimasta una posa che però oggi non è molto comune. Il nostro solutore, la nostra solutrice non condividono tutta quella solennità: ma è anche vero che nel quadro del Novecento non ci sono molti altri personaggi intenti in un pensiero. C’è un filosofo che scrive e uno che parla, ci sono molti religiosi (di diverse specie, confessioni e ranghi) che pregano, uno studioso che legge, uno scienziato che traffica in laboratorio, un appassionato di yoga che medita, ma nessuno di questi riproduce la postura che pure, desueta come è, continua a essere ritenuta tipica del pensiero. È una postura che, anzi, sembra essersi beffardamente spostata a caratterizzare certi pensatori minori: lo scacchista, il compilatore della schedina, uno scolaro che si lambicca per scrivere un tema, il concorrente che “si concentra” sulla domanda fatale del telequiz; ovvero certe assenze di pensiero: l’uomo disperato per amore, l’agente finanziario seduto su un gradino a Wall Street nel crepuscolo di un Venerdì Nero, il pescatore in attesa, il saltatore prima della rincorsa; o infine certe parodie di pensiero: il pendolare attonito in metropolitana, la ragazza che dorme in biblioteca, lo stitico in bagno. Parrebbe quasi che i pensieri più importanti di quel secolo siano arrivati da sé, come uccelli attratti da uno spargimento di miglio su un sagrato. Nessuno si figurerebbe più l’attività del ricercatore, dello scrittore, del filosofo come una speculazione avvenuta nel silenzioso isolamento di un pensatoio. Lo scienziato è un ricercatore di fondi per la sua ricerca, lo scrittore frequenta eventi in cui tramandare la leggenda della genesi della sua scrittura, il filosofo è un professore che parla dalla lavagna o in un cenacolo di allievi: l’esperienza del pensiero — quando avviene — non avviene in un luogo e in una modalità propri. I pensieri cercati, i pensieri elaborati, i pensieri che hanno richiesto la posa del pensatore erano altro: lacune da riempire, parole sulla punta della lingua, frammenti dispersi di attività neuronale. Per quanto se ne capisce dal quadro, colui, colei che pensa al cruciverba potrebbe essere seduto sullo strapuntino di un treno o di una metropolitana, o su una seggiola da mare, o nella sala comune di un ospedale. Quello potrebbe persino essere il primo cruciverba, nella vita linguistica di quella persona: e allora c’è caso che la sua perplessità sia davvero vasta, e investa il gioco stesso. Cosa sono queste caselle? Cosa significano questi numeri? Cosa significa orizzontali? E verticali? (per molti italiani la parola orizzontali e la parola verticali hanno costituito il primo enigma da risolvere: sono state le prime parole che il cruciverba ha fatto imparare loro). Da dove si comincia? Pochi incominciano a giocare leggendo i manuali: forse nessuno. Il più delle volte ci si ispira all’esempio dato da altri, o affrontando direttamente il gioco capendolo a mano a mano che si procede: anche i bambini che apprendono la lingua madre, e poi gli adulti che imparano una seconda lingua, spesso sono portati a giocare con le parole che stanno imparando più di quanto non capiti a chi la lingua la domini già. Se il nostro solutore, la nostra solutrice fa parte della schiera di Repubblica Nazionale DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 Un popolo di cruciverbisti EDMONDO BERSELLI ssorto, pacifico, tollerante, il “popolo” dei cruciverba prospera dappertutto, negli scompartimenti ferroviari come nelle sale d’attesa, negli ambulatori medici come in sala professori; e naturalmente in molte poltrone in molti salotti. Sempre ammesso che si possa definirlo “popolo”, è chiaro. In quanto categoria sociologicamente generica, il popolo è un tutto; mentre i solutori di parole crociate sono una realtà puntiforme, un’entità diffusa a macchia di leopardo, una specie di diagramma a dispersione nella società tutta. Li si riconosce, in pubblico, innanzitutto per una certa ritrosia. Non basta la presenza della Settimana enigmisticaper fare il cruciverbista, e neanche qualsiasi altra rivista di giochi solitari. Ci vuole una psicologia, uno stile, la capacità di immergersi nella propria modesta ma sempre nuova liturgia. Occorre anche quel tanto di lieve e scostante pudore che scoraggia gli altri dall’interessarsi alle definizioni e ai processi cognitivi innescati dalle orizzontali e dalle verticali. Dopo di che, il cultore di quella semplice arte sarà uno qualsiasi: il cruciverba è una pratica interclassista, che rifiuta le distinzioni per censo o le spaccature del bipolarismo. Perché non appena si entra a far parte di quella categoria (anche qui: ammesso ma non facilmente concesso che si tratti di una categoria), scatta un meccanismo che privilegia la competenza, ovvero la rapidità e la congruenza delle associazioni mentali, la capacità di raschiare il fondo del proprio archivio mnemonico, e soprattutto quell’impalpabile tecnicalità enigmistica che consiste nell’incasellare centinaia di definizioni, molte di esse a loro modo “classiche”, fondate su principi omogenei, matrici di altre definizioni riconoscibili e quindi deducibili e decifrabili. Al fondo della maggiore o minore bravura nel risolvere le parole crociate, vale uno schema: cioè che la preparazione di cultura generale serve a qualcosa, cioè si trasmette anche alla soluzione IL LIBRO delle definizioni, ma non è affatto deci- L’orizzonte verticale siva; mentre è risolutiva piuttosto la (388 pagine, 24 euro) specializzazione cruciverbistica. Ciò di Stefano Bartezzaghi, vuol dire che un luminare, un intellet- è edito da Einaudi tuale, un barone universitario, uno e sarà in libreria scienziato, un enciclopedista, potrebbe martedì prossimo essere facilmente battuto, se non pos- È il primo libro italiano siede i fondamentali del puzzle, da un interamente dedicato anziano signore con la quinta elemen- al cruciverba tare che invece padroneggia da anni tut- e alla sua storia, te le tecniche, le sofisticazioni, le trap- che comincia pole, le citazioni, le mitologie e le agu- quasi un secolo dezas di cui sono cosparse le caselle nu- fa nella New York merate dei cruciverba. degli anni Dieci Cosicché la scienza del cruciverba è una conoscenza largamente “celibe”, che a nulla serve veramente se non a risolvere altri cruciverba. Per questo il volto del cruciverbista si illumina talvolta di un leggero sorriso allorché risolve un joke, o evita un tranello, oppure riconosce una definizione incontrata magari anni prima: è sempre un piccolo trionfo, quando la risposta del solutore intercetta la trovata del definitore e le dà scacco. Poi naturalmente occorre intendersi. Tranne che per i costruttori di cruciverba, le parole crociate costituiscono uno svago. Democratico, alla portata di tutti, non nevrotico, e anzi blandamente rassicurante, perché ciascuno può trovare il livello di difficoltà che gli si attaglia. E dunque, se ciascuno è l’artefice della propria fortuna, ossia del cruciverba che riesce a completare, il mondo si conforma secondo gerarchie non troppo conflittuali, componendo un ordine non lontano dalla perfezione. Il popolo dei cruciverbisti si rivela un universo di individui: tuttavia capaci di riconoscersi al primo sguardo, al primo dubbio, al primo gesto vittorioso quando la matita riempie le ultime caselle. A chi ha già superato i modesti ostacoli proposti dalle regole del cruciverba, e ha esaurito una volta per tutte l’aspetto «grammaticale» del suo compito, allora è molto probabile che stia semplicemente risolvendo. Ha letto una definizione e sta cercando di scioglierne il mistero. Prova a scandagliare la memoria alla ricerca di una nozione che al momento non pare disponibile. Prova a scandagliare quella memoria particolare in cui sono riposti gli altri cruciverba risolti, perché le nozioni non provviste dalla scuola o dalle altre fonti della cultura personale a volte sono fornite dalla memoria enigmistica (senza il cruciverba quanti conoscerebbero il fiume Aar?) O forse sta guardando lo schema, contando una sequenza di caselle, considerando gli incroci, ripassando mentalmente l’alfabeto per riempire magari una sola casella ancora in bianco. Il colosso di? Manca solo l’iniziale, e allora bisogna fare tutto il giro, Aodi, Bodi, Codi, Dodi, Eodi, Fodi, Godi, Hodi, Iodi, Jodi, Kodi, Lodi (il Colosso di Lodi?), Modi, Nodi, Oodi, Podi, Qodi, Rodi… E se quella casella bianca si incrocia con una «Grossa ondata», allora avremo un maBoso, maCoso, maDoso… o un maRoso? Il pensiero minore è almeno in parte calcolo. Ci sono stati filosofi come Charles S. Peirce o scrittori logici e paradossali come Lewis Carroll che hanno costruito complicati sistemi grafici che avrebbero dovuto permettere di calcolare sillogismi. Il cruciverba è un grafo che non combina pensieri ma singole lettere. È solo un gioco, non svela verità universali, ma in compenso funziona perfettamente e lo zelo con cui il solutore lo affronta pare quasi un accanimento di verifica, il tentativo di trovare il nodo fasullo del tappeto, la magagna che smentisca il funzionamento perfetto della vana macchina cruciverbistica. Inutilmente invece si cercherebbe in questo quadro traccia dell’autore di cruciverba. Costruire cruciverba è una strana attività, che richiede di spezzare le parole, rompere i vincoli invisibili che normalmente saldano lettera a lettera, ordire intrecci scrivendo e cancellando, scrivendo e cancellando, scrivendo e cancellando, evocare fiumi asiatici in combinazione con atti notarili, avverbi lievemente desueti e valenti soprani… Questa attività viene svolta da persone che sfuggono alle categorie. Nessuna raffigurazione riesce a conferire dei tratti “tipici” a questo enciclopedista bizzarro, che si annoia dell’ordine alfabetico, lo surroga con il cesello di un rompicapo e sarebbe imbarazzato da qualsiasi frequentazione intellettuale. Fra coloro che hanno fatto questo singolare mestiere non ce n’è uno che assomigli all’altro: si comincia con un giornalista inglese trapiantato a New York, si prosegue con una segretaria americana e ci si sperderà in una piccola folla di persone diverse (solo in Italia: il nobile possidente terriero sardo, il cappellaio ferrarese, il portinaio di Mantova, lo scultore di Carrara, il perito chimico lombardo…) tutte già rappresentate nel Quadro del Novecento ma solo per altri versi. «Autore di cruciverba» non è una categoria: è solo un’evoluzione possibile della categoria del solutore. E forse — la terza è anche l’ultima possibilità che gli lasciamo — il solutore raffigurato nel Quadro del Novecento sta appunto pensando di costruire un suo proprio cruciverba, e di passare dall’altra parte della griglia. © 2007 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino SCHEMA LIBERO Dall’alto, il primo numero della Settimana enigmistica del 1932; la Domenica dei giuochi del 1936; La settimana comunistica del maggio 1953; L’ora enigmistica dell’agosto 1946; la copertina del manuale cruciverbistico di Toddi del 1925; Rabano Mauro, De laudibus Sanctae Crucis Repubblica Nazionale 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la lettura Verità scomode DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 Una famiglia sconvolta dal dolore di una perdita Un bambino che lotta per non dimenticare Un uomo che consuma la sua vita per far tornare un conto che non torna. È uno dei racconti inediti, ora in arrivo in Italia, del messicano Guillermo Arriaga, lo scrittore dietro a film come “Amores Perros”, “21 grammi” e “Babel” Storia di un fratello e una sorella dal viso cancellato Q GUILLERMO ARRIAGA uandocompii sei anni mi fecero una festa. Era un sabato, lo so perché ho controllato adesso il calendario di quell’anno. Quel giorno lo rammento a sprazzi. Ricordo vagamente alcuni miei compagni delle elementari che non ho più rivisto e di cui confondo i nomi. Ricordo un pagliaccio chiassoso, una pignatta a forma di astronave spaziale, verde con dei nastri di seta rossi sulle punte, e un dolce di vaniglia con la glassa di cioccolato. Ricordo mia madre che applaudiva, mio padre che tirava la corda della pignatta, le zie di Sinaloa che mi salutavano con un bacio e i nonni che mi regalavano qualcosa di giallo. Ricordo il mio cane legato al tronco del fico, che abbaiava ai bambini che gli correvano intorno. Ma soprattutto ricordo Laura, la mia sorella minore, con indosso il pigiama, affacciata alla finestra della sua stanza, che ci guardava rompere la pignatta masticando una canna da zucchero. Aveva pianto tutta la mattina perché non le avevano permesso di venire alla festa: da tre giorni aveva febbre e dolori muscolari. Una settimana dopo, dalla stessa finestra, osservai i miei genitori che la avvolgevano in una coperta azzurra e la facevano salire in macchina per portarla in ospedale. Fu l’ultima volta che la vidi. Il martedì o il mercoledì seguente — la memoria è impalpabile e m’impedisce di ricordare con chiarezza — fu mia nonna, e non mia madre, che venne a prendermi a scuola. Parlò qualche minuto con la professoressa e poi mi portò a casa sua. Durante il tragitto mi disse che Laura era malata, Infine il silenzio si estese anche al resto della famiglia Sembrava che Laura non fosse mai esistita che i miei genitori dovevano badare a lei e che presto sarebbe guarita. Mentiva: mia sorella era morta qualche ora prima. Restai da mia nonna quattro giorni, poi altri quattro con zia Carmina e altri tre a casa di zio Pablo. Nessuno di loro tornò a parlarmi di mia sorella. Neanche i miei genitori quando mi chiamavano al telefono. In tutto quel periodo non tornai a scuola. Passavo le mattine insieme a Beatriz, la più giovane delle mie zie, che spesso interrompeva i nostri giochi per guardare assorta un punto fisso. La sera zia Carmina e zio Pablo mi portavano a mangiare il gelato, oppure alle giostre o a fare acquisti, cercando sempre di distrarmi con una falsa allegria. Non capii bene cosa stava accadendo finché non tornai a casa e scoprii l’assenza di Laura e di tutto quello che la ricordava. Mancava tutto di lei: la sua voce un po’ rauca, i suoi sorrisi, la sua andatura irrequieta, i mobili della sua stanza, le sue tende rosa, le sue bambole, le sue scatole di dolci, i suoi vestiti, i suoi disegni fatti a matita. E mancavano, soprattutto, le sue fotografie. In casa non rimase alcuna traccia sulla sua esistenza: i miei genitori avevano deciso di disfarsi del mondo della figlia morta. Dopo qualche tempo, smisero perfino di pronunciare il suo nome. Alle domande su di lei, i miei genitori rispondevano farfugliando parole incomprensibili, per poi cambiare subito argomento. Infine il silenzio si estese anche al resto della famiglia. Sembrava che Laura non fosse mai esistita. Quanto a me, la sua scomparsa mi pesò profondamente. Mi mancava, soprattutto di sera, quando giocavamo a nascondino, o con le macchinine, o a vestire e svestire le bambole, o con le pistole ad acqua. Malgrado la differenza di sesso ci capivamo bene ed era raro che litigassimo. All’inizio i miei genitori fecero uno sforzo per alleviare la mia solitudine. Mi leggevano delle fiabe o mi portavano al cinema. Poi le loro ferite li fecero chiudere in se stessi e poco a poco mi abbandonarono, fino a trascurarmi del tutto. Le sere si trasformarono in un silenzioso scorrere delle ore, che mi tediava e mi angosciava. Il mio ricordo di Laura prese a scolorire e cominciai a dimenticare i suoi lineamenti, i suoi gesti, il suo modo di guardare. Il suo viso svaniva dalla mia mente e non c’era neanche una fotografia per recuperarlo. La sua immagine si ridusse essenzialmen- te a un unico momento: quello in cui, avvolta in una coperta azzurra, partiva verso l’ospedale. Furono giorni difficili, che adesso considero come i più amari della mia vita. Mi avrebbe aiutato molto, in quel frangente, avere l’opportunità di salutarla, di parlare con lei, di giocare con i suoi giocattoli fino a renderli inservibili, di darle un bacio nella bara. I miei genitori pensarono il contrario e togliendomela di netto mi lasciarono senza niente a cui afferrarmi. Non mi dissero neanche il giorno esatto della sua morte, né la causa. Rimasi con l’idea che gli uomini fossero troppo schiavi della morte. Una sera, mentre giocavo in salone, misi la mano tra i cuscini di un sofà, in cerca di una monetina che era scivolata in fondo. Trovai la testa di una piccola bambola, che un tempo era stata la preferita di mia sorella. Mi sentii tristemente felice. Senza volerlo, Laura aveva lasciato una sua traccia, che violava il sequestro protettivo dei miei genitori. Cominciai a frugare per casa e trovai un ciuccio impolverato sotto il frigorifero, una pantofola in fondo all’armadio a muro e un suo disegno tutto stropicciato tra gli arnesi arrugginiti di mio padre. La mia archeologia fraterna, seppure con pochi reperti, mi permise in qualche modo di incontrarla ancora. Sette mesi dopo la sua morte, mia madre annunciò a una cena di famiglia di essere incinta. Mia nonna la abbracciò e mio padre brindò con i miei zii. Quanto a me, la notizia mi fece infuriare: la presi come un atto sleale dei miei genitori nei confronti miei e di Laura. La gestazione di mio fratello Javier abbondò di cure e attenzioni fin dal principio. Alla prima avvisaglia di malessere, mia madre si metteva a letto facendosi viziare tutto il tempo da mio padre e da mia nonna. Io risentii di quella gravidanza troppo vigilata, che mi rubava ulteriormente l’affetto materno. I nove mesi trascorsero senza complicazioni e il parto avvenne in modo normale. I miei genitori, lo capisco ora, considerarono la nascita di Javier come un’opportunità per superare la perdita della figlia. Così Javier crebbe sotto il segno di un’assenza che causava ancora paura e dolore, e che fece di lui un bambino superprotetto e insicuro. Presto maturai una rivalità cieca e smisurata nei confronti di mio fratello. Non perdevo occasione di infastidirlo, interrompendo bruscamente il suo riposo pomeridiano, rompendogli i giocattoli o anche solo pizzicandolo sulle gambe. Lo facevo sempre di nascosto, per non essere sorpreso dai miei genitori. Quando mi scoprirono mi castigarono con durezza e mi proibirono di avvicinarmi a lui, il che non fece che aumentare la mia gelosia nei suoi riguardi. A tre anni, Javier era diventato un bambino capriccioso e ipersensibile, che piagnucolava alla minima provocazione. Spesso lo paragonavo a Laura, e dal confronto usciva sempre perdente. Laura me la ricordavo tranquilla e dolce, mentre Javier semplicemente non lo sopportavo. La mia guerra personale contro di lui cessò quando nacque Martín, l’altro mio fratello. All’epoca ero già un bambino di undici anni e non m’interessava più infastidirne uno di quattro. Inoltre l’attenzione intorno al nuovo nato consentì a Javier di liberarsi un po’ delle premure asfissianti dei miei genitori, e il suo carattere divenne meno conflittuale. O almeno cessarono i suoi improvvisi scatti di rabbia, che tanto m’irritavano. Martín si dimostrò simile a Laura sotto molti aspetti. Come lei aveva i capelli ricci e le gambe leggermente arcuate. Il temperamento era quasi identico, con un gusto del pericolo che gli faceva fare cose assai rischiose per un bambino, come saltare giù dal letto a castello o accarezzare cani sconosciuti. Non riuscii mai ad andarci d’accordo: avevamo troppi anni di differenza. Sia Martín che Javier crebbero senza un’idea chiara di Laura. Più che una sorella, Laura era un’astrazione, un essere che si era volatilizzato in una fase remota della storia familiare. Non c’era niente che li unisse a lei. Non bastava aver condiviso lo stesso buco dentro le viscere materne, aver succhiato la vita dagli stessi capezzoli, avere il suo stesso sangue. No, per loro lei era appena una frase, una descrizione avvolta nella nebbia. L’ingresso nell’adolescenza inasprì il mio carattere. Litigavo continuamente coi miei genitori, ai quali in fondo non perdonavo il modo in cui avevano sradicato il ricordo di mia sorella. Mi faceva rabbia che festeggiassero i compleanni dei miei fratelli e omettessero il giorno in cui era nata la loro figlia morta. Non alludevano mai a quel giorno impossibile in cui Laura avrebbe compiuto cinque anni. Quando, durante una riunione familiare, glielo rinfacciai, Repubblica Nazionale DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 ILLUSTRAZIONE GIPI IL LIBRO Si intitola come una strada di Città del Messico, Retorno 201, la raccolta di racconti di Guillermo Arriaga che Fazi manda in libreria il 30 novembre (260 pagine, 16 euro). Arriaga descrive l’umanità e i drammi che si trovano nei film di Iñárritu, di cui è stato sceneggiatore, come Amores Perros, 21 grammi e Babel. Criminali spietati o inconsapevoli; ladri uccisi ferocemente; dolori inspiegabili, amore e violenza perennemente intrecciati nostre risate, la voce un po’ rauca di Laura, i suoi scherzi, le frasi di mia madre giovane. In una delle scatole trovai alcune lettere. Le aveva scritte mia madre a Laura dopo la sua morte. Le raccontava quello che succedeva nel mondo, che continuava a esistere senza di lei, dandole notizie di mio padre, di mia nonna, di me. Alcune avevano anche una data recente, di appena due o tre anni prima. C’era in ogni linea scritta la sensazione di una colpa smisurata, di un dolore mai digerito. Contemplai le foto e gli oggetti di mia sorella per tutta la notte, fino al mattino. Ascoltai la cassetta un’altra volta. I ricordi tornarono nitidi e, lungi dal farmi male, mi riconciliarono col mio passato. Il giorno dopo mostrai ai miei figli il contenuto delle scatole. Parlai di Laura, regalai loro i suoi giocattoli perché li usassero fino a renderli inservibili. Lasciai che disegnassero sui suoi disegni e vestissero e svestissero le sue vecchie bambole. Ai miei fratelli regalai alcuni dei suoi oggetti. A Javier il bauletto e le lettere di mia madre. A Martín i vestitini, perché li usasse la sua figlia piccola. Invitai zia Beatriz a cena al ristorante, io e lei da soli. Volevo sapere una volta per tutte com’era morta mia sorella. Beatriz lo sapeva e quindi, senza tanti preamboli, mi narrò la causa della morte di Laura: la scuola aveva organizzato una gita in un piccolo zoo privato, con l’idea che i bambini dovessero imparare a convivere sia con le specie domestiche che con quelle selvagge, a dare da mangiare alle capre, a raccogliere le uova delle anatre, a toccare la pelle di una vipera, ad accarezzare i cervi. Quel giorno lo zoo era pieno zeppo, perché erano arrivate in visita tre scuole insieme. Dovettero Mia madre annunciò di essere incinta Mia nonna la abbracciò e mio padre brindò La notizia mi fece infuriare PAOLO FLORES D’ARCAIS Alla ricerca della sinistra perduta MicroMega 6/07 “la legalità è il potere dei senza potere” (Václav Havel) GIANNI BARBACETTO EZIO MAURO Politica in salsa Mastella PAOLO FLORES D’ARCAIS Prodi e Veltroni, legalità GHERARDO COLOMBO e antipolitica, la sinistra e la casta L’Italia opaca PIERCAMILLO DAVIGO GRAZIA MANNOZZI La restaurazione maldestra LUIGI DE MAGISTRIS La legalità democratica e i suoi nemici BRUNO TINTI Sicurezza di casta SALVATORE BORSELLINO Buoni solo da morti E articoli di CARLO VULPIO MARCO REVELLI GIUSEPPE ARNONE ANTONIO MASSARI ALESSANDRO BRESCIA MARIO PORTANOVA FURIO COLOMBO MARGHERITA ASTA BEATRICE BORROMEO NICOLA GRATTERI don MARCELLO COZZI FRANCO CORDERO MARGHERITA HACK ANDREA CAMILLERI Il naufragio di Prodi CARLO LUCARELLI I ragazzi del nuovo impegno SABINA GUZZANTI TgUnico MARCO TRAVAGLIO D’Alema/Unipol, la storia completa SONIA ALFANO vs CLEMENTE MASTELLA Un faccia a faccia senza perifrasi GIANRICO CAROFIGLIO Racconto di una sconfitta di mafia non dissero nemmeno una parola e continuarono a cenare senza scomporsi. Dopo cena, mia zia Beatriz mi portò in una stanza per parlarmi a quattr’occhi. Mi chiese di dimenticare, disse che era inutile rimestare in un passato da cui tutta la famiglia s’era appena riavuta e che, per quanto lo volessimo, non si poteva far niente per riportare Laura tra noi. Furioso, le gridai che ero stufo di tutto quel mutismo e quel riserbo, che non sapevo neanche di che cosa fosse morta mia sorella e che per colpa dei miei genitori nemmeno me la ricordavo più. Beatriz aprì la sua borsa e estrasse dal portafogli una piccola fotografia di Laura. Me la diede e rivedendo il suo viso scoppiai a piangere. Mia zia mi abbracciò e disse che non potevo neanche immaginare quanto avessero sofferto i miei genitori e quanto si fossero impegnati, magari senza essere capiti, per non farmi soffrire. Sarebbe arrivato il momento, disse, in cui lei stessa mi avrebbe rivelato tutto sulla morte di mia sorella, e io avrei scoperto quanto fosse stata dura. Piansi a lungo e, quando finalmente tornammo in sala da pranzo, mio padre era lì da solo, e piangeva anche lui. Riposi la fotografia insieme agli altri oggetti di Laura. La sua immagine, le parole di Beatriz e il pianto di mio padre placarono la mia ansia e la mia furia. Ma il riserbo intorno a Laura continuò ancora per molti anni. In qualche modo accettai le regole del gioco e cominciai a dimenticare e, soprattutto, a comprendere. Mi sposai ed ebbi due figlie e un figlio. La più grande la chiamammo Raquel, come sua madre. L’altra Natalia e il maschio Rodrigo, come me. Morì mio padre e quasi immediatamente anche mia madre. Poco tempo dopo, zia Beatriz mi chiamò per dirmi che mia madre le aveva lasciato alcune cose e che voleva darle a me. Erano due scatole di cartone sigillate col nastro adesivo. Appena le aprii, fui assalito di colpo dal respiro del mio passato. Sistemate in ordine cronologico, c’erano decine di fotografie di mia sorella. C’erano anche alcuni suoi giocattoli, i suoi disegni, i suoi vestitini; un bauletto con dentro dei riccioli, dei nastri per capelli, delle monetine e un chiodo argentato; il libro di Pollicino, che mia madre ci leggeva tutte le sere perché era il nostro preferito. C’era anche una cassetta, con delle canzoncine cantate da noi due. Si sentivano le fare a gara per guadagnarsi l’ingresso alle varie gabbie e ai recinti. Laura vinse l’opportunità di prendere in braccio un cucciolo di volpe grigia. Mentre lo alzava felice per mostrarlo a una compagna, il cucciolo le morse il dorso della mano sinistra. Ridendo nervosa, mia sorella lasciò l’animale, facendolo cadere dall’alto. La maestra le guardò la ferita e, vedendo che si trattava di un’incisione poco profonda, le disse che sarebbe guarita con un po’ di saliva. Mia sorella tornò a casa con un cerottino sulla mano e un aneddoto da raccontare, ignorando di avere nel sangue il virus scuro della rabbia. Neanche mia madre diede importanza alla ferita e quando scoprirono che la volpe era portatrice del male mia sorella presentava già sintomi della fase avanzata. Non ci fu speranza. Laura morì atrocemente in una stanza senza luce, tra ondate crescenti di convulsioni e spasmi che la soffocarono, con la mano afferrata a quella di mio padre. Quando Beatriz terminò di parlare, il suo viso non tradiva alcuna emozione. Sembrava che avesse raccontato quella storia già mille volte, e pianto a sufficienza. Mi guardai intorno. Gli altri avventori parlavano, ridevano, mangiavano, mentre al mio tavolo il tempo sembrava sospeso. Sul viso di Beatriz tornò la stessa espressione assorta di quando interrompeva i nostri giochi. Avrei voluto dire qualcosa, ma non ci riuscii. Pagai il conto e ce ne andammo in silenzio. Arrivai a casa ed entrai in camera dei miei figli. Dormivano tutti e tre. Natalia abbracciata a una delle bambole di Laura. Entrai nella mia stanza. Raquel mi aspettava stesa sul letto, leggendo una rivista. Mi domandò com’era andata e le risposi seccamente: «Bene». Avrei voluto stendermi al suo fianco, lasciarmi stringere e sentirmi dire che tutto andava bene davvero. Mi limitai a darle un bacio sulla fronte. Lei spense la luce e io scesi in salotto. Ascoltai la cassetta. Quando finì la tirai fuori dallo stereo e feci a pezzi il nastro, insieme a tutte le foto di Laura che riuscii a trovare. Salii di nuovo nella mia stanza. Mi misi a letto e chiusi gli occhi. Ricordai mia sorella avvolta in una coperta azzurra mentre partiva per l’ospedale e piansi tutta la notte senza fermarmi. Traduzione di Stefano Tummolini (© 2007 Fazi Editore srl) Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 SPETTACOLI Una retrospettiva al Torino Film Festival celebra il regista tedesco. Che, per ciascuna delle sue opere, ha accettato di registrare un video in cui racconta la nascita della sceneggiatura, i retroscena del set, i vezzi degli attori Ne abbiamo trascritti e selezionati alcuni, ricavandone l’autoritratto di uno dei protagonisti più amati del cinema contemporaneo Wenders story “Vi racconto i film della mia vita” A WIM WENDERS lice nelle città. È un film a cui sono molto, molto affezionato. Quando lo girai, nell’estate del 1972, avevo ventisette anni. Non ero contento di ciò che avevo fatto fino ad allora. Non ero sicuro di voler continuare a fare il regista. Potevo rimettermi a fare il critico, o a dipingere. Quindi pensai che dovevo fare un film per dimostrare a me stesso che questo era ciò che avrei fatto per tutta la vita: fare film. Così decisi di fare un film molto personale. Scrissi la sceneggiatura di Alice nelle città da solo. In realtà, scrissi la sceneggiatura solo per chiedere i finanziamenti, ma appena iniziammo le riprese la lasciai perdere, e continuammo a scrivere mentre giravamo il film. Questo si rivelò un metodo che mi piaceva molto, con cui mi sentivo molto a mio agio. La troupe apprezzò molto questo modo di lavorazione on the road. Era una piccola troupe, eravamo in tutto otto persone. Non avevamo molti soldi, ma a volte quando non hai molti soldi hai tutto ciò che ti serve, e a volte quando hai un sacco di soldi non hai abbastanza. In Alice nelle cittàsentivo di avere abbastanza di tutto. Lo girammo molto velocemente, in quattro settimane, in 16mm, e mentre lo montavo con Peter Przygodda, mi resi conto che sì, avrei continuato a fare il regista. Falso movimento. È il primo film di Nastassja Kinski. La conobbi in una discoteca, a Monaco. Stava ballando, era bellissima, e io cercavo una ragazza della sua età. Mandai la mia ragazza a chiederle se potevo parlare con sua madre, perché non volevo andare lì e dirle: “Salve, sono un regista, vuoi fare un film con me?”. Andai a trovare sua madre il giorno dopo. Non volevano dirmi quanti anni avesse, perché per entrare in discoteca doveva avere sedici anni. All’inizio mi dissero che aveva quindici anni, ma alla fine lei confessò di avere quattordici anni, e quando le facemmo il contratto venne fuori che ne aveva tredici. Andava ancora a scuola e non era mai stata davanti ad una macchina da presa. Nel corso del tempo. Fu girato nell’estate del 1975. È davvero il road movie per eccellenza, perché non c’era una sceneggiatura, c’era solo un itinerario. Avevo una grande cartina della Germania. Percorsi da nord a sud il confine tra le due Germanie, una strana terra di nessuno proprio nel mezzo del paese. I giovani se ne andavano da lì, era una regione abbandonata. Il Muro era una strana presenza, proprio in mezzo al paese. Io seguii il Muro e feci un film in bianco e nero. Con una troupe ridottissima, otto persone, ma girato in 35mm. Conoscevo bene l’itinerario, l’avevo già percorso due volte, e avevo visitato tutte le cittadine, i villaggi e le città più grandi lungo il confine tra le due Germanie — ovviamente, sul versante occidentale del confine — in cui ancora c’erano dei cinema. Il “Re della strada”, il personaggio principale, va di cinema in cinema a riparare i proiettori. Ha un grande camion e fa sempre questa strada, da solo sul suo camion. Ma stavolta, nella nostra storia, ha qualcuno che gli fa compagnia. Incontra Kamikaze. Questa era l’unica cosa scritta che avevamo, la prima scena, la prima pagina di dialogo: come i due si incontrano. Kamikaze, che sta guidando la sua volkswagen, finisce dentro al fiume Elba, che segnava la linea di confine tra le due Germanie. Da quel punto in avanti, non c’era più sceneggiatura. La scrivevo sera dopo sera, fu un’esperienza fantastica. L’amico americano. Girai questo film nell’autunno del 1976. Era tratto da un romanzo di Patricia Highsmith. I suoi libri mi piacciono molto, li ho letti tutti. Il mio preferito era The Cry of the Owl. Così scrissi al suo editore e gli chiesi se potevo trarne un film. Mi risposero di no, i diritti erano già stati acquistati da una casa di produzione americana. Quindi la mia seconda scelta fu The Tremor of Forgery. Scrissi un’altra lettera. Settimane dopo mi risposero: “No, i diritti sono già stati comprati”. Allora passai in rassegna tutti i romanzi della High- LA SCOPERTA DI NASTASSJA Sopra, Nastassja Kinski in una scena tratta da Paris, Texas Sotto, un fotogramma da Land of Plenty, La terra dell’abbondanza smith che amavo e il risultato era sempre lo stesso: non c’erano diritti disponibili. Alla fine ricevetti una lettera direttamente da Patricia Highsmith: “Ho saputo che vorrebbe acquistare i diritti dei miei romanzi. Venga a trovarmi”. Lei viveva in Svizzera. Io andai là e la conobbi. Viveva da sola in una piccola casa, con tanti gatti. Fu molto gentile. Mi offrì tè e biscotti, e poi volle saperne di più su di me, chi ero e perché ero così affascinato dai suoi romanzi. Le dissi la verità. Fu un incontro piacevole. Alla fine lei andò alla sua scrivania e tirò fuori un manoscritto: “È vero, tutti i miei romanzi sono opzionati da produzioni americane, ma questo l’ho appena finito e nemmeno il mio editore ne sa nulla. Quindi posso assicurarle che i diritti di questo sono disponibili”. Era il manoscritto di Ripley’s Game. Così Ripley’s Game divenne la base di The American Friend. Dennis Hopper e Bruno Ganz erano due attori con metodi molto diversi, e quindi sul set di The American Friend si scontrarono. Bruno era molto coscienzioso. Era il suo primo film commerciale, e si era preparato meticolosamente. Bruno era sui trentacinque anni e aveva lavorato solo in teatro. Dennis, al contrario, non aveva mai fatto teatro, solo film, e arrivò senza nessuna preparazione. Ma a ogni ciac, Dennis era sempre pronto, preciso. Bruno era molto infastidito dal fatto che questo tizio, che non aveva nemmeno letto la sceneggiatura, fosse così bravo davanti alla macchina da presa. Così, uno dei primi giorni delle riprese, in mezzo a una scena, all’improvviso cominciarono a picchiarsi. E non era in sceneggiatura. Cominciarono a prendersi a pugni. Prima che ce ne accorgessimo, erano a terra con il naso rotto. Sembravano due gatti. Dovemmo interrompere la ripresa. Se ne andarono insieme e quel giorno non li vidi più. Il giorno dopo arrivarono. Erano ridotti uno straccio. Erano stati tutta la notte fuori. Non potei girare neanche quel giorno, ma da allora divennero grandi amici. E da quel giorno Dennis venne sempre a chiedermi la sceneggiatura, per leg- Repubblica Nazionale DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 LA RETROSPETTIVA Il venticinquesimo Torino Film Festival (23 novembre-1 dicembre), per il primo anno diretto da Nanni Moretti, dedica una delle due retrospettive (a cura di Stefano Francia di Celle) al regista tedesco Wim Wenders: verranno riproposte tutte le sue opere, dai primi cortometraggi girati a Monaco fino a uno degli ultimi lavori, inedito in Italia, il corto Invisible Crimes. Tra gli oltre cinquanta titoli, la versione integrale, anche questa mai vista in Italia, di Fino alla fine del mondo. Wenders sarà protagonista di un incontro con Nanni Moretti (il 24 novembre alle 17 al cinema Massimo) e di una tavola rotonda all’Università di Torino (il 26 alle 11 nell’aula magna del rettorato). A lui è anche dedicato un libro monografico edito da Il Castoro. Le testimonianze di Wenders pubblicate in queste pagine sono inedite e tratte dai video registrati apposta per il Festival, che saranno proiettati prima di ciascun film gerla insieme a me e prepararsi. Bruno Ganz, invece, quando volevo parlare con lui della scena, mi diceva: “No, la improvviso”. Impararono molto l’uno dall’altro. Nick’s film. Il progetto fu un’idea di Nicholas Ray. Un paio d’anni dopo L’amico americano, ero a Hollywood a lavorare su Hammett. Nick mi chiamò e mi disse: “Wim, non sto bene, sono appena uscito dall’ospedale”. Era già la seconda volta che lo operavano. Aveva un cancro ai polmoni: “Mi è rimasto un solo desiderio. Mi piacerebbe fare un altro film. Per me da solo sarebbe difficile realizzarlo, ma insieme, forse possiamo farcela”. Ci sedemmo ad un tavolo per parlarne e poco dopo cominciammo a girare, perché sapevamo che c’era poco tempo. Alla fine il film divenne un documentario, il cui argomento è, più o meno, la morte di Nick. Io e tutta la troupe eravamo pieni di dubbi. Ci chiedevamo se avevamo il diritto di filmare un uomo in quello stato, di fare un film così personale sulla morte di un uomo, su un uomo che muore. Parlai più volte con i suoi medici. Dicevo loro che era meglio fermarsi, che non si poteva continuare. Ma loro mi dissero che interrompere sarebbe stato peggio. Quindi andammo avanti fino all’ultimo, quando Nick passava ormai la maggior parte delle giornate in ospedale, dove lo riempivano di antidolorifici. E poi un giorno capimmo che non potevamo più andare avanti. Poche settimane dopo Nick morì. Nick restò lucidissimo fino all’ultimo. Facemmo una bella ripresa con lui, la scena più lunga del film, quando lui alla fine dice: “Stop”. Paris, Texas. Il film fu girato nell’estate del 1983 e tutto funzionò come per magia. Fu girato in America in modo clandestino. Avevo una troupe europea, erano tutti in America con visti turistici, giravamo senza nessuna autorizzazione, con un budget limitato. Alla fine il sindacato dei camionisti ci scoprì e dovemmo assumere dieci autisti. Questo ci costò una settimana di riprese. Alla fine dovemmo fare il film con metà del budget programmato, perché il dollaro L’opera “Nel corso del tempo” è molto particolare: non c’era traccia di sceneggiatura, c’era solo una strada quell’anno andò alle stelle. A volte, quando hai meno soldi di quanto vorresti, devi sostituirli con qualcos’altro, che è molto più prezioso dei soldi, cioè con l’immaginazione. Per Paris, Texasfummo costretti ad usare molta immaginazione. Io e Sam Shepard avevamo scritto mezza sceneggiatura, perché Sam doveva venire con me durante le riprese, così avremmo scritto la seconda metà mentre giravamo. Ma quando cominciammo a girare, Sam non era più disponibile. Stava girando un film con Jessica Lange, perché si era innamorato follemente di lei. Il film si intitolava Country. E lo giravano nel nord degli Stati Uniti, mentre io stavo girando nel caldo ro- L’ultimo road movie tra i colori di Palermo GINO CASTALDO L PALERMO a trattoria Shangai è nel cuore della Vucciria, un colorato pezzo di casbah con le stoviglie disegnate a tinte pastello, come nelle vecchie case del sud. È una veranda al primo piano di un palazzetto che affaccia nella piazza del mercato. Ma per un giorno è chiusa ai clienti abituali. Wim Wenders l’ha scelta come set per le ultime riprese di Palermo shooting (titolo provvisorio). Tutt’intorno gli abitanti della Vucciria guardano imperturbabili, curiosi, ma anche tranquilli, «cool» li definisce la sorella del regista, Ella Wenders. Continuano a vendere ostriche, a passeggiare, i motorini passano con intere famiglie a bordo, le voci del mercato si mescolano con quelle della troupe che dal balcone chiedono ai passanti di muoversi da una parte piuttosto che dall’altra. Ciac, motore, azione, ma la vita scorre senza interruzioni. Una situazione talmente normale che in una pescheria a pochi metri dal set scoppia una mezza rissa, spunta un coltellaccio, poi tutto si ricompone in un attimo, sotto lo sguardo attento di un signore vestito come un guappo d’altri tempi, cravatta e cappello color turchese fiammante, scarpe bicolori. Il film racconta la storia di Sinn, un fotografo berlinese interpretato dal cantante rock Campino, che ha successo, soldi, libertà, insomma tutto quello che si suppone possa desiderare un giovane di talento. Ma qualcosa si rompe, si incrina irrimediabilmente. Sinn parte per uno di quei viaggi indeterminati, incerti, alla ricerca di qualcosa che ancora non è chiaro. E finisce a Palermo dove una serie di avvenimenti, e ovviamente anche l’incontro con una donna, Flavia, interpretata da Giovanna Mezzogiorno, gli ribaltano completamente la prospettiva che fino a quel momento aveva avuto sulla vita. Di qui sono passati anche Dennis Hopper, Lou Reed, Patti Smith, ospiti della storia narrata, confermando la forte propensione che Wenders ha sempre mostrato nei confronti della musica, a partire dalla scelta del protagonista che è il frontman di una band, popolarissima in Germania, che si chiama Die Toten Hosen. Come spesso capita a Wenders anche il suo è una sorta di viaggio di ricerca. La sceneggiatura è tutt’altro che rigida, cambia ogni mattina, mettendo a dura prova la flessibilità di Campino che è abituato ai ruggenti palchi rock e molto meno ai ritmi e alle tecniche specifiche della recitazione cinematografica. Del resto alcuni tra i suoi migliori film come Nel corso del tempo, Paris Texas, Il cielo sopra Berlino, per non parlare dei documentari, li ha realizzati con sceneggiature scritte a metà o addirittura inesistenti. Questo per essere aperto all’impatto con un nuovo luogo, per assorbirne sensazioni e suggerimenti, e così ha fatto con Palermo, non solo uno sfondo, piuttosto un luogo dell’anima, così intenso da provocare nel protagonista mutamenti profondi, o meglio un processo di morte e rinascita, un paesaggio così forte da entrare prepotentemente nella sceneggiatura e scandirne i tempi. vente del Texas. Quindi ero senza sceneggiatore e dovetti più o meno inventarmi la seconda parte del film da solo. Mandai il mio schema a Sam, o forse gliene parlai al telefono, perché all’epoca il fax non esisteva. In una notte Sam, su nel Wisconsin, scrisse i dialoghi della seconda parte e me li dettò al telefono nel bel mezzo della notte. Io li scrissi a macchina per darli agli attori il giorno dopo, e così Sam riuscì a finire la sceneggiatura del film. Buena Vista Social Club. Io e Ry Cooder stavamo lavorando insieme alla colonna sonora di The End of Violence. Vedevo che aveva qualcosa di strano. Se ne stava seduto lì, a guardare il vuoto. Allora gli chiesi: “Ry, LA SCENA Qui sopra, una scena di Don’t come knocking (Non bussare alla mia porta) Nella foto grande, un’immagine tratta dal film Nel corso del tempo che Wenders realizzò a trent’anni, nell’estate del 1975 Tutte le foto di queste pagine sono tratte dal volume Wim Wenders (a cura di Stefano Francia di Celle, Il Castoro, 288 pagine, 98 foto, 26 euro) che cos’hai? Dobbiamo lavorare. Dove sei?”. E alla fine mi rispose: “Sono ancora all’Avana”. “Che succede all’Avana?”. E lui: “Ho registrato la migliore musica della mia vita, laggiù”. A fine giornata, quando lasciammo lo studio, mi diede delle cassette e disse: “Questo è il pre-missaggio. Ma devi riportarmelo domani”. Non avevo più un mangianastri a casa, ce l’avevo solo in macchina, così ascoltai la cassetta mentre guidavo verso casa e... era elettrizzante. Veramente roba da impazzire. Non avevo mai sentito una musica così trascinante in tutta la vita. Ascoltai quella cassetta tre volte. Continuai a guidare intorno a casa per ore, solo per ascoltarla. Il giorno dopo, riportai la cassetta a Ry e gli chiesi: “Chi sono i ragazzi con cui hai inciso questa musica incredibile?”. Lui rise e mi disse: “Non sono esattamente dei ragazzi”. E mi raccontò la storia di Compay Segundo, che aveva più di novant’anni, di Ruben Gonzalez, che ne aveva più di ottanta, anche Ibrahim Ferrer aveva quasi ottant’anni. E io non riuscivo a crederci. Qualche mese dopo mi chiamò e disse: “Wim, ci torno la prossima settimana”. E io: “Dove?”. E lui: “All’Avana”. Mi diede cinque giorni per mettere insieme una troupe e trovare un po’ di soldi per andare all’Avana con lui. Cominciammo a girare appena scesi dall’aereo. Restammo lì a girare per tre settimane. Mai divertito tanto. Non sembrava nemmeno di lavorare. Era come ballare. Videopresentazioni prodotte per il 25° Torino Film Festival da Wenders Images e Museo Nazionale del Cinema; regia di Marcel Wehn, traduzione e adattamento Sub-ti, Londra Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 i sapori Tradizione e novità Nei giorni dell’arrivo in tavola del nuovo extravergine, gli chef internazionali si cimentano a San Sebastian in ricette che cambiano forma e consistenza al principe dei condimenti. E infrangono così antichi tabù itinerari Lo svizzero Köbi Wiesendanger ha disegnato per Alessi il “taste-huile” (degusta-olio): nella piccola oliva d’acciaio con piattino, coperchio e beccuccio, si esaltano le sfumature di aroma e sapore. Poi si condisce il piatto Ravioli EXTRAVERGINE CON COLATURA DI ALICI E CAPPERI DI PANTELLERIA Sfoglia farcita con sfere di extravergine congelate, ottenute montando olio, colatura di alici, capperi, aglio e addensante di manioca. Con questa ricetta il toscano Andrea Menichetti di Caino ha vinto il premio internazionale di San Sebastian Sformato CALDO DI CIOCCOLATO CON CUORE DI EXTRAVERGINE Il dessert culto di Aimo & Nadia all’esterno è come un piccolo soufflé di cioccolato Ma all’interno il cuore morbido è composto da un’emulsione di extravergine di olive Nocellara del Belice con acqua, cioccolato, tuorlo d’uovo e burro di cacao Zuppetta di pesce CON GELATO ALL’OLIO DEL GARDA Alla Rucola di Sirmione, Gionatha Bignotti serve un mix di pesci, molluschi e crostacei crogiolati con olio e pomodoro, arricchito da un crostino di pane all’olio Sopra, una pallina di gelato ottenuto mantecando latte, zucchero, extravergine e sale L’oro di S. Marzano CON GELATINA D’OLIO Il dolce-non-dolce creato dal salernitano Salvatore De Riso viene servito in barattolo All’interno, crema leggera al basilico, biscotto all’extravergine e salsa gelatinata di San Marzano. Rifinitura con una foglia di basilico fritta e una goccia di gelatina d’olio San Sebastian (Spagna) Verona Andria (Ba) Da domani, l’antica Donostia basca accoglie i più grandi chef del mondo per il congresso Mejor de la gastronomia In contemporanea si svolge l’edizione del premio internazionale di alta cucina con olio extravergine Non solo vino, nella città-madre delle fiere agricole e alimentari, sede storica della più prestigiosa manifestazione mondiale sull’olio di qualità: il Sol. Concorsi, degustazioni, creazioni gastronomiche e cultura oleicola Appoggiata sulle colline della Murgia, famosa per le ottime burrate, è circondata da vigneti e uliveti, vivificati dall’alternarsi di brezze montane e marine Ogni anno ospita il premio Biol, dedicato agli extravergine biologici DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE SILKEN AMARA PLAZA Plaza Pio XII 7 Tel. (+34) 943-464600 Camera doppia da 120 euro, colazione inclusa LA RESIDENZA VERONA HOUSE Via Antonio Provolo 3 Tel. 045-8089311 Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa LAMA DI LUNA Località Montegrosso Tel. 0883-569505 Camera doppia da 130 euro DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE MARTINEZ Abutzuaren 31 Tel. (+39) 943-424965 Chiuso giov. e ven. a pranzo, menù da 20 euro ADRIANO Via Moschini 26 Tel. 045-913877 Chiuso dom. e lun. a pranzo, menù da 50 euro ARCO MARCHESE Via Arco Marchese 1 Tel. 0883-557826 Chiuso dom. e mar., menù da 25 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE PICABEA Calle Matia 46 Tel. (+34) 943-214762 FRANTOIO SALVAGNO Contrada Gazzego 1, Nesente Valpantena Tel. 045-526046 AZIENDA BIO PIZZOLORUSSO Via Lorenzo Bonomo 52 Tel. 0883-555506 Olio da mangiare nero cuore di olio tiepido. itorno al futuro. C’era una volta l’oliva, che diE dire che non è facile trasformare l’olio. Dopo anni di tenvenne olio, per poi tornare oliva, o quasi. Ricontativi, per dargli la stessa forma tonda inventata per il caffè, quista dello stato solido, smarrito per il tempo la crema di piselli e le finte olive, lo chef catalano chiese socdella frangitura. Bottiglie demodé, cucchiai inucorso agli scienziati dell’università di Barcellona. Risultato: tili, bocconi di pane orfani della scarpetta. una macchina capace di modificare le molecole, incapsuNei giorni che celebrano l’avvento dell’olio nuolando l’olio con un complicato procedimento inverso alla vo, un selezionatissimo parterre di cuochi di mezzo mondo afsferificazione. fina allo spasimo la calibratura della ricetta con cui concorreDa lì in poi, la ricerca si è allargata, come dire, a macchia d’ore alla sesta edizione di Jaén, Paraìso Interior, il premio interlio: sono arrivati i pop-corn d’olio di Dani Garcia, i ravioli rinazionale nato in terra basca, dedicato all’olio in versione propieni d’extravergine addensato di tagonista. mamma e figlio Menichetti (Caino), la Tutto è cominciato quando la nuova gelatina d’olio per il manzo bresciano cucina ha scelto di infrangere i tabù delrielaborato da Vittorio Fusari. le consistenze. L’olio, allora, era infalliMa il valore delle spremute d’olive, bilmente liquido. Al massimo, si poteva fondamentale in basi e condimenti, discettare sulla sua densità, allungarlo nelle ricette creative — dove la “tessitucon aceto o limone per smagrirne l’imra” dell’olio viene messa in discussione patto al palato o trasformarlo in salsa e ripensata — non ammette deroghe. grazie alle proteine del rosso d’uovo. Perché un olio difettato o corretto con Poi è successo. Qualcuno ha scoperto la chimica per riparare a scarsa qualità la vertigine degli abissi calorici oleari e di base o ritardata frangitura è incompromosso i condimenti cosiddetti alterpatibile con le manipolazioni gastronativi: salse di soia e yogurt magrissimi, nomiche. Negli ultimi anni sono nati oli impalpabili e fascinose misture d’aloli realizzati con tecniche sempre più ghe. Per dare addosso al mostro-ingrasLICIA GRANELLO soffici, che preservano al massimo prosatore, esaltando i nuovi dressingimpalfumi e fragranze primarie, e biologici fipabili, si sono inventate ragazze-grissinalmente emancipati dall’antinomia salubre-uguale-meno e staccionate da saltare a pie’ pari. Così, l’extravergine ha diocre. dovuto reinventarsi una collocazione di prestigio in cucina. E Dall’azoto liquido agli addensanti naturali, lasciatevi tentaprima ancora che i dietologi riabilitassero, i cuochi recuperasre dal fascino delle nuove forme dell’olio. Ma prima armatevi sero, i consumatori capissero, sono nati gli oli da masticare. del nuovo taste-l’huile voluto da Lorenzo Piccione, produttoAll’inizio, fu il Bulli, con la sua rutilante giostra tecnologica. re virtuoso a Chiaramonte Gulfi, Ragusa: annusate, assaggiaLe gocce d’acqua d’olive tuffate in alginato, poi rapprese nel te, e poi cominciate a giocarci. In caso di insuccesso, regalatecloruro calcico, secondo l’ormai copiatissima tecnica della vi una gita a Verona, dove oggi, giorno di chiusura di Agrifood sferificación: imitazioni perfette di olive, coperte d’olio, con — buona evoluzione dell’attempata Fiera Agricola —, gli chef tanto di foglia d’alloro a guarnire. La gelatina di maionese modell’Associazione italiana giovani ristoratori europei deliziedellata come piccoli gnocchi delicati. L’extravergine tessuto ranno i visitatori con i loro virtuosismi gourmand. Masticare e filato a diventare una caramella-gomitolo setosa e croccanl’olio sarà un meritato divertimento. te. La pralina gelata capace di offrire al primo morso il suo te- R Tecnoviaggio dall’oliva alla neo-oliva Repubblica Nazionale DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 I BON BON Nell’immagine, bon bon preparati con gelatina d’olio Fotografia di Raymond Meier Uova Al ristorante tristellato Akelare, alle spalle di San Sebastian, Paesi Baschi, Pedro Subijana riduce il peperone a succo e lo lega con l’addensante vegetale agar agar. Olio freddo e contagocce per modellare il liquido inspessito a forma di piccole uova Mousse di yogurt Le sorelle Fischietti, cuoche del ristorante campano Oasis hanno messo a punto un abbinamento squisito Le uova, montate con zucchero e arricchite con yogurt, sono addensate a bagnomaria. In aggiunta, olio e panna fresca montata Sud Un velo di divina trasparenza MARINO NIOLA significa olio, indica anche una persona importante, ergine, incorruttibile, splendente, puro e qualun’autorità. Un pezzo da novanta in grado di ammorche volta anche santo. Non sono le virtù di un bidire ogni attrito, di rendere fluida ogni situazione, asceta che ha rinunciato ai piaceri del mondo. di far andare tutto liscio come l’olio. E huilé, oltre che Ma i prodigiosi attributi dell’olio, il re dei condimenunto, vuol dire illuminato. Proprio come una lampati, il divino esaltatore di sapori che dona luce, profuda a olio. mo e splendore al gusto. Aggiungendo alla voluttà la Se oggi i grandi chef riscoprono l’olio non fanno che verità. Una verità letteralmente ri-velata. Perché esirimettere le cose al loro posto, restituendo al succo stono regioni del sapore misteriose e inesplorate, stadell’ulivo tutta la sua dignità di luce del sapore, di diati supremi di beatitudine, livelli superiori di conomante da gustare. Non più semplice portatore di guscenza gastrosofica che solo il velo trasparente dell’osto, riflettore sparato su pesci carni e verdure per esallio rende accessibili. Come una lente magica che spatarne l’eccellenza. Ma cibo a tutti gli effetti. lanca le porte della percezione e costringe anche la In questo senso i pionieri dell’olio gourmand inpietanza più insipida a scoprire le sue grazie segrete. frangono oggi un limite che in realtà la vera cucina poUn “apriti sesamo” insomma, come ben sapeva la polare non ha mai preso veramente sul serio. Le brusaggezza popolare che faceva dell’olio il simbolo di schette, tanto amate dagli stranieri come sintesi una superiore capacità di vedere, di una illuminazioestrema del nostro gusto, un concentrato di Italia ne visionaria. spremuta a freddo, per i nostri contadini sono sempre Secondo un’antica leggenda europea ogni cento state un modo per mangiare l’olio, non certo il pane. anni i tesori nascosti nelle profondità della terra anChe peraltro, nelle regioni a grande vocazione olearia, drebbero di diritto al diavolo, ovviamente felice di inha sempre avuto il pudore di farsi da parte, di scomcamerare tutto quel ben di Dio senza muovere un diparire di fronte alla potenza sorgiva dei nostri oli, cato. C’è un solo modo per fregare il malloppo al re delrichi del medesimo splendore minerale che illumina le tenebre. Ungere di olio, naturalmente extravergicerti paesaggi di Piero della Francesca e di Leonardo. ne, il dito di un bambino. L’oscurità si farà d’un tratto Espressioni diverse di uno stesso genius loci. chiara e le montagne diventeranno per incanto traSfere di extravergine congelate, emulsioni che disparenti. Trovare il tesoro diventa così un gioco da raventano sculture, sfoglie croccanti, grappoli di gelatigazzi. E tutto grazie a un dito condito. ne. È la nuova frontiera dei cercatori d’olio. Ricette Legare e separare, congiungere e disgiungere, coche hanno la traslucenza ghiacciata dei cieli cristalliprire e scoprire, è questa coincidenza degli opposti ni del Paradiso dantesco. È la trasparenza che si fa mache fa dell’olio un cibo e un simbolo, capace di dire e teria. E trasforma la fisiologia del gusto in meccanica condire. Cioè di mediare cibi e persone, sapori e sadei fluidi celesti. peri. È per questo che in francese la parola huile, che V Un monosillabo battezza la ricetta grazie alla quale il modenese Massimo Bottura è entrato nell’Olimpo della cucina d’olio: il gelato di extravergine si sposa al cioccolato bianco, coperto con un croccante di olive e capperi in gelatina agrodolce Mousse DI CIOCCOLATO CON OLIO AROMATIZZATO AL MANDARINO Altra virtuosa commistione tra extravergine e cioccolato nel dessert creato dal marchigiano Moreno Cedroni, servito con scaglie di sale Maldon e un calice di Sherry. Stessa tipologia d’olio per la versione estrema con ricci di mare Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 le tendenze Cactus, ciclamini, orchidee phalenopsis, narcisi o erbe selvatiche. Nei vasi sapientemente distribuiti in salotto trionfano le specie “scolpite” o “intrecciate” facili da coltivare, ma di sicuro effetto scenografico Ecco cosa scegliere e come orientarsi nella cura delle nuove compagne d’appartamento Interni di moda ZAMIA CARISSA CACTUS MURRAIA ORCHIDEA La luce non è il suo problema, ma l’acqua, e il ristagno, sì. Lasciate che il terreno passi dal secco all’umido con un intervallo di un’intera giornata Tenete le foglie pulite con una spugna Gli inglesi la chiamano la prugna di Natale. Datele un buon drenaggio, non esagerate con l’acqua perché al secco resiste bene. Non fatele mancare la luce naturale Facile, sì, ma in casa controlliamo il terriccio, acido e sabbioso. Offriamo tutta la luce solare possibile e poca acqua. Resiste al freddo secco, non all’umido: sopravvive a meno 10 Trattatela come un agrume, alla cui famiglia appartiene, dandole luce e sole. Se appoggiate la mano sul terriccio, dovete sentirlo fresco, non bagnato. Il drenaggio è fondamentale Appoggiatela su una base sempre umida, non un sottovaso. Tenetela lontana dalla luce elettrica, scegliete una finestra esposta a sud. Bagnatela con acqua a temperatura ambiente ROSSELLA SLEITER e vogliamo scolpite, strane, con la luce che filtra tra un ramo e un altro, con le foglie che disegnano l’aria come un graffito il muro. Le vogliamo in terra, ma terra leggera, quasi polvere, in modo da spostarle con facilità per seguire, o fuggire, non un capriccio, ma la luce e il calore. Comunque, per gli amanti delle piante in casa, un gruppo che conta milioni di persone in Italia e miliardi nel mondo, questo è il momento più delicato: si avvicina il Natale, pioveranno doni con foglie e radici e dovranno essere quelli giusti. Quali? Primo nella lista è il fico d’India, l’opuntia di antica memoria, pianta politicamente scorretta — si è detto che il nostro era il «Paese dei fichi d’India» — ma che risponde in pieno alla voglia di scultura. Nulla è più bello della sua crescita disordinata, delle sue pale che in modo imprevedibile decidono di prendere a destra o a sinistra, in multipli pari o secondo uno schema di numeri primi. E le spine? E i bambini, o il cane, o il gatto, come possono convivere con una scultura viva sì, ma soprattutto pericolosa? Convivono male, anzi non convivono per nulla, è infatti una pianta da single o da coppie senza figli. Dal massimo al minimo: nuovissimo e molto ricercato è il ciclamino piccolo, come quello che cresce nel sottobosco, e profumato come se fosse appena colto. Accanto ai bulbi già in fiore, forzati apposta per colorare l’appartamento, che per la prima volta cominciano a colonizzare le nostre case quasi fossimo diventati tutti inglesi, fanno una bella accoppiata. Perché l’appassionato di piante non si limita mai a una sola presenza, ma ne ha tante, un po’ ovunque, cercando di evitare l’ingresso (è da condominio) e la camera da letto (non è salubre). Per il resto si scatena. Un fico d’India accanto alla libreria; due o tre orchidee phalenopsis, (possibilmente dello stesso colore) sul tavolo con le fotografie; ciclamini e narcisi accanto alle bottiglie per l’aperitivo; un cuscino della suocera, o più d’uno, vicino al computer, per assorbirne le radiazioni, è l’ultima leggenda metropolitana di grande successo; una L Piante-scultura per far vivere la casa dracena pleomele adottata piccola, coltivata negli anni, e fatta crescere per la gioia degli amici; da aggiungere all’alloro intrecciato, alla murraia, alla carissa e alla zamia, appoggiate sul pavimento nell’angolo giusto, dove non c’è fonte di calore né luce diretta, ma non fa freddo e non è buio. La carissa in altri climi cresce bene anche in giardino, ma siccome non ama il freddo, nei mesi invernali sta meglio in casa. Una volta scoperta questa sua doppia vita, il mercato si è illuminato: perché non offrirla come pianta da interni? Ha i rami spinosi, è rigida, ma d’estate fiorisce di bianco, dimostrando gratitudine e riconoscenza a chi ha saputo portarla in buona salute fino a quel momento, mantenendola in piena luce. La murraia è profumata, ha una corteccia marrone chiaro che stacca con la chioma leggera e sempreverde. Per star bene ha bisogno di sentirsi in un clima tropicale, con molta luce, tanta umidità e un terriccio pieno di sabbia, torba e niente terra. Richiede una cura sapiente, per esempio il controllo dell’umidità provocata dal nebulizzatore pieno di acqua distillata, passato sulle foglie almeno una volta al giorno. La zamia invece vuole poca acqua, solo una volta ogni sette giorni, e molta luce. Il fico d’India ne chiede ancora meno, ma se vedete che le pale diventano vuote e rugose, o la casa è troppo fredda o l’acqua è davvero troppo poca. Il cuscino della suocera immagazzina acqua e fa tutto da solo, uno sguardo al colore e alle spine vi dirà se si trova bene in casa vostra e se le cure che gli state dando sono quelle giuste, ma soprattutto non dategli acqua se lo vedete impallidire. Se tutto questo vi sembra troppo esotico o strano, ricordatevi della rucola di campo. Basta aggiungere una sola foglia all’insalata per dare sapore, basta guardare il fiore giallo per dire, come in Via col vento, «domani è un altro giorno». Nei garden tutti la vogliono, tutti la cercano. Nei campi quasi nessuno la riconosce, ma questa è un’altra storia. Repubblica Nazionale DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 DRACENA CUSCINO DELLA SUOCERA NARCISI MINI CICLAMINI ALLORO INTRECCIATO Non più di tre ore di luce diretta al giorno e terreno leggero. Se le foglie cadono avete esagerato con il caldo o col freddo. Se scoloriscono, la luce è poca. Se si afflosciano, troppa acqua Mai sotto i 5 gradi, bene la temperatura intorno ai 20-25. Molta luce, niente acqua in inverno, poca d’estate Poche le specie in natura, tante e preziose nelle collezioni botaniche Teneteli nella stanza più fresca e luminosa della casa. Spostateli, come fossero soprammobili dove volete solo per un breve tempo Dopo la fioritura, i bulbi sono da buttare Ricreate le condizioni del sottobosco: mezz’ombra, buona circolazione d’aria, acqua indiretta. Immergete il vaso nell’acqua quando il terriccio è secco, scolate prima di metterlo sul sottovaso Difficile fargli del male. Gli va bene qualsiasi terriccio, resiste al caldo, al freddo, al secco. Ma non esagerate Dategli un vaso capiente, nutritelo con acqua e, a volte, un po’ di concime Una serra di profumi per scaldare il Grande Nord PAOLO PEJRONE arebbe sufficiente fare due passi negli affollati ed annuali Chelsea Flower Showsper capire l’importanza delle serre e dei “conservatories” nei giardini “contemporanei”. A centinaia vengono proposti: legno, alluminio, ferro e vetri. Di tutte le combinazioni, suggestioni e grandezze. Il mercato inglese, quello del Grande Nord, come Norvegia e Svezia, la Germania, l’Olanda, il Belgio e la Francia, si sono buttati con entusiasmo in questo “luminoso” modo di vivere e convivere con le piante: i giardini da posti coltivati e curati diventano posti addirittura protetti e coperti. In un mondo di sicurezze strapagate e ricercate ogni inconveniente “naturale” per le piante deve esser previsto ed evitato. Quando re Carlo Alberto chiese al Sada, alla fine degli anni Trenta dell’Ottocento, di disegnargli la famosa, grande, bellissima serra di Racconigi, i tempi erano “maturi”: le aranciere spaziose di Versailles, quelle splendide di Venaria, quelle strane e categoriche di Sanssouci e tutte quelle, innumerevoli, dei grandi castelli d’Europa avevano già “dato” ed insegnato. Tutto era nato più di due secoli prima seguendo la moda degli agrumi in vaso che Caterina de’ Medici aveva proposto, mostrato ed imposto alla vecchia corte di Francia. In tutti i grandi castelli si costruirono fabbricati luminosi e riparati necessari a custodire i vasi di limoni, di aranci, di melograni e gelsomini: portavano sotto i soli freddi e deboli d’Europa i profumi attraenti e lontani della Sicilia, dell’Andalusia, della mitica Smirne, di Cipro e di Rodi. All’avanguardia, primi fra tutti, secondo gli storici, furono appunto i Medici che, ricchi, moderni e raffinatissimi, si buttarono nell’esaltante avventura della coltivazione, con l’aiuto strategico di studiosi, ricercatori (e soprattutto di giardinieri meravigliosi, di gran lunga i migliori d’Europa). Tra Petraia e Castello, si coltivarono tutti gli agrumi possibili che arabi, indiani e turchi potevano avere nei loro giardini e serragli... E con gli agrumi vennero i gelsomini, i corbezzoli, i fichi e i mirti (quelli a fiore doppio e profumato furono simbolo, insieme ai fiori d’arancio e alle bouvardie, dei matrimoni asburgici e boemi). Gli agrumi, forti dei loro fiori e poi dei loro frutti, la fecero da mattatori. Chi poteva resistere di fronte a un limone, con fiori e frutti allo stesso momento, o a un arancio dalle lucide foglie e dai frutti così colorati e profumati? Alla Reggia di Venaria, forte evidentemente della prevista e lunga catalessi invernale degli agrumi, il Castellamonte a metà del Seicento previde di adibire ad aranciera uno stanzone lunghissimo, praticamente interrato, a volta di mattone e a bocche di lupo: poco illuminato. Anche se ampia e funzionale, in seguito non fu più giudicata adatta o sufficiente: dopo una sessantina d’anni fu richiesto allo Juvarra di disegnare la grandissima, splendida e meravigliosa Citroniera (e per fortuna nostra, ora splendidamente restaurata). Sempre i Savoia, più tardi, in virtù delle loro maestranze espertissime, divennero “coltivatori” un po’ unici, e certamente i più provetti in Europa, di esotici ananassi. Le loro fruttiere in certi periodi dell’anno ne mostravano il successo e l’abbondanza... Il calore necessario alla coltivazione era il frutto di un’antica schermaglia, espertissima e raffinatissima, di fermentazioni mitigate, prolungate e corrette dei generosi letami freschi di cavallo e di vacca. Il calore prodotto si convogliava sotto i vetri che coprivano le “abaches”, piccole e facilmente manovrabili serre interrate. Sempre a metà Ottocento, grandissime ed espertissime furono le realizzazioni di Joseph Paxton che, al servizio (attivissimo ed efficientissimo) del duca di Devonshire, costruì le serre più raffinate dell’epoca: usando il ferro, il legno e il vetro, riuscendo a costruire con esperienza e successo delle enormi ed acrobatiche strutture. Serre che portarono in seguito a dar forma al famoso Cristal Palace, supremo suggello di una vita giardiniera. Fu simbolo di modernità vera ed intelligente: l’Esposizione Universale del 1851 incoronò la luce e la trasparenza (e la vita che da essa proviene) come il simbolo di un’epoca di conquiste e di successi, figlia dell’industriale progresso. Contemporanee, e forse più modeste e meno simboliche, furono le serre di frutta che in Inghilterra nel periodo vittoriano producevano pesche, albicocche, susine, ciliege, fragole e banane. Soprattutto nei periodi più difficili ed incredibili: sempre puntando al massimo show per Natale e Capodanno. Con l’esperienza di giardinieri capaci e raffinati, e con l’uso sofisticato di temperature e ombreggiamenti, si potevano ottenere le frutta a mo’ di primizia. Un mondo sofisticato e preciso di coltivazioni differenti portò alla realizzazione di serre speciali, adatte alla coltivazione di piante speciali: serre per orchidee, tropicali e umide, serre temperate e ombrose per le felci, serre soleggiate e ariose per la coltivazione di viti e delle frutta, serre fresche per piante di montagna, serre caldissime, anch’esse tropicali e umide, per i rari fiori di giada, il famoso strongylodon macrobotrys. E il modesto e comune bow window? Gloria delle case post-vittoriane, è stato il posto dove la borghesia di città e di paese ha coltivato di tutto. Soprattutto fiori esotici: del resto l’oriente, i suoi profumi e i suoi colori hanno da sempre acceso la fantasia e le speranze, sollecitando appassionati e giardinieri... S Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007 l’incontro Bacchette magiche Ha diretto orchestre in tutto il mondo, ma ha un rapporto privilegiato con Israele per via, dice, dell’antica religione monoteistica di famiglia Considera Vienna una seconda casa, il suo “salotto”. Abita a Los Angeles, ma è con l’India che non ha mai interrotto i rapporti. Il suo sogno, ripete, è invecchiare “immerso nella sacralità della grande natura” del Kashmir. Resterà solo un sogno, aggiunge, “perché a un maestro piace morire sul podio” Zubin Mehta l sogno del direttore d’orchestra Zubin Mehta è trascorrere la sua vecchiaia in Kashmir, «immerso nella sacralità della natura, in una casa da cui si veda il punto di confluenza tra i fiumi Gange e Jamuna». Pensa a quei cieli, a quelle foreste, a quelle montagne. Spesso fantastica sui sapori speziati dell’India: «Sono indiano al cento per cento, dentro e fuori. Nessuna cucina mi soddisfa tanto, neanche quella italiana, che pure è meravigliosa, diciamo che merita il secondo posto. Nessuna terra mi appartiene così intimamente come il mio paese. Da tempo abito a Los Angeles e ho un’altra casa in Toscana, adorata da mia moglie Nancy, che ne ha fatto il suo rifugio ideale. Ma che felicità tornare a Bombay, dove sono nato. Apro la finestra e mi affaccio su un flusso di migliaia di persone, oceani incredibili di umanità. Scendo per strada ed è come nuotare, mi piace confondermi tra la folla senza che nessuno mi riconosca». Musicista di splendente e pluriennale successo, Mehta è una star senza frontiere, accolto sul podio delle migliori orchestre occidentali. Figlio del violinista e direttore Mehli Mehta (che creò a Bombay la prima formazione sinfonica indiana), aveva poco più di vent’anni quando diresse i Wiener Philharmoniker e poi i Berliner. Allievo di Hans Swarowsky a Vienna, dove conobbe Daniel Barenboim e Claudio Abbado, amici e complici da allora e per sempre, è stato plasmato fin da ragazzo (a diciott’anni sbarcò in Europa, proprio in senso letterale, approdando in Italia via mare per poi raggiungere l’Austria in treno) dall’aureo linguaggio stilistico della suprema civiltà mu- mi fraterni, l’amore del padre per la figlia che, per intesa spirituale, per lui è quasi una fidanzata. Tutto è concreto, vivido, riconoscibile». Zubin ha una fede incrollabile nella musica classica, nel suo potere di pacificare e superare differenze, nella sua eterna attualità: «Si dice che il pubblico è invecchiato, che non c’è ricambio, che dilaga la crisi. Ma anche quand’ero giovane ci si lamentava che i giovani non venissero ai concerti. Quelli che oggi sono maturi o vecchi dove stavano cinquant’anni fa? Non erano forse i giovani di allora? Io credo che non ci sia alcuna flessione d’interesse: semplicemente la musica classica si fa capire e apprezzare di più da chi ha superato i quarant’anni. Crescendo si comprende meglio il senso e il peso della cultura, diventa più necessaria. Non a caso i musei non traboccano di ventenni. Credo che non ci sia alcuna flessione di interesse: semplicemente la musica classica si fa capire e apprezzare di più da chi ha superato i quarant’anni FOTO GRAZIA NERI I VIENNA sicale occidentale. Per questo considera Vienna la sua seconda casa: «Ogni volta che ci arrivo è come entrare nel mio salotto». Lungo i decenni, con risultati gloriosi, ha governato la Los Angeles Philharmonic e la Filarmonica di New York, ha diretto uno dei più prestigiosi teatri lirici del mondo, la Staatsoper di Monaco di Baviera, ed è stato nominato «direttore a vita» della Israel Philharmonic. Eppure non dimentica, non rinnega, non ha mai dato l’anima intera all’Occidente. Insiste nel cullarsi in nostalgie speciali: «In famiglia sono cresciuto parlando un dialetto della lingua gujarati, la stessa del Mahatma Gandhi. Ho avuto un rapporto fortissimo con i miei genitori, entrambi molto longevi. Mio padre è morto a novantaquattro anni, mia madre a novantasei, e quando avevo più di sessant’anni potevo ancora conversare con loro ogni giorno. Uno dei motivi per cui li chiamavo spesso era il piacere di usare la mia lingua, che ho perso da quando non ci sono più. Adesso, quando telefono a mio fratello Zarin a New York, gli parlo in gujarati e lui mi risponde in inglese. Per me è una tragedia». Di leggendaria bellezza da giovane, un rubacuori con pochi confronti, un mito di avvenenza persino a Hollywood, in mezzo ai divi del cinema, molti dei quali sono stati suoi amici, oggi Zubin Mehta, nato nel ‘36, è un settantenne affascinante, il volto liscio con la pelle d’ambra, il gioco malizioso del sorriso, la testa regale, da leone buono. Il nostro incontro avviene a Vienna, seconda tappa (dopo Varsavia e prima di Francoforte e Baden-Baden) di una tournée europea alla guida dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, che Mehta chiama «la mia famiglia italiana», e che dirige come maestro principale dall’85. Con l’amato Zubin sul podio (amato perché ha un’indole calda e generosa), l’orchestra ha debuttato nella sala viennese del Musikverein, il più ambìto e sontuoso tra gli spazi musicali (è sede del Concerto di Capodanno), con due serate dall’esito trionfale. In programma figuravano tra l’altro una Prima Sinfonia di Brahms limpida e contrastata e una Patetica di Ciaikovskij di struggimento inevitabile. In coda una suite di italianissimi bis: Puccini, Verdi, Mascagni. Platea vibrante di emozione, persino Zubin, lassù sul podio, pareva commosso. «Certo che mi commuovo, accade sempre, non c’è routine. Sono i miei musicisti ad ispirarmi», spiega. Niente, racconta, gli dà più piacere del dirigere l’Eroica di Beethoven. E soprattutto il Don Giovanni di Mozart, che «è insieme pathos e commedia, capace di provocare il pianto e il riso. Potrei dirigere quest’opera in ogni momento della mia vita. E anche La Valchiria di Wagner: mi toccano nel profondo i sentimenti che vi sono espressi, i forti lega- Però a Firenze, qualche mese fa, ho diretto Wagner: L’Oro del Reno e La Valchiria, con l’allestimento del gruppo teatrale spagnolo Fura dels Baus, e il pubblico è accorso foltissimo, tutto esaurito e con una forte componente giovanile, c’è stato un gran passaparola. Sono convinto che noi musicisti possiamo ancora parlare al cuore della gente, di ogni generazione». Zubin, che ama tanto Wagner, ha cercato di eseguirlo anche in Israele, a cui lo lega un rapporto d’intensa affezione e di fervido sostegno politico. Non ha mai rinunciato a dirigervi concerti, neppure in situazioni estreme. Quando scoppiò la Guerra dei sei giorni riuscì a raggiungere Israele fortunosamente, su un aereo da trasporto della El Al, sedendo su casse zeppe di munizioni (ma questo lo avrebbe scoperto solo all’arrivo): voleva stare vicino ai suoi amici israeliani. E una notte che era a Gerusalemme, all’Hotel King David, un proiettile forò la parete sopra il suo letto, mentre dormiva: «Ho un buon angelo custode, gli spari non mi hanno svegliato». Quando volle proporre a Israele il preludio e la morte d’amore dal Tristano e Isotta di Wagner in sala esplose il finimondo: «Insulti, grida, gente che tentava di salire in palcoscenico, aggressioni fisiche agli orchestrali, un caos furioso. Nel pubblico c’era gente che aveva sentito Wagner nei lager, e che aveva ancora il numero tatuato sul braccio. Non si può non rispettare certe emozioni. D’altra parte la storia della musica degli ultimi centocinquant’anni sarebbe impensabile senza Wagner». Perché tanto incondizionato amore per Israele? Non c’entra il fatto che Zubin fa parte di una minoranza? Mehta discende da un’aristocratica famiglia di antica tradizione parsi, i seguaci di Zarathustra che fuggirono dalla Persia per sottrarsi al dominio arabo che aveva islamizzato la loro terra: «Oggi i parsi sono ottantamila nel mondo, di cui sessantamila in India: una fetta minima della popolazione indiana. Forse anche per questo sono legato a Israele. La nostra religione, un monoteismo fondato sul conflitto tra luce e tenebre, ha qualche analogia con l’apocalittica giudaica. Abbiamo affinità culturali con gli ebrei: come loro diamo un’enorme importanza all’educazione e alla beneficenza, aiutiamo molto i nostri poveri. Santi, per noi, sono gli elementi naturali, il fuoco, l’acqua, la terra, per questo non possiamo bruciare o seppellire i nostri morti. Vengono posti in una grande fossa circolare murata dove li mangiano gli avvoltoi, e c’è uno sbocco che porta le ossa al mare. Si chiama Torre del Silenzio. Nel nostro tempio si prega il fuoco, una forza che può distruggere e creare, e il mese di aprile è dedicato all’acqua. Ricordo mia madre che pregava davanti al mare». Della sua India è fiero, ma con riser- ve polemiche: «Mi riempie d’orgoglio l’esplosione economica del paese e l’impressionante sviluppo delle nuove tecnologie, ma trovo insopportabile l’idea che il sessanta per cento degli abitanti di Bombay non abbia acqua potabile. Quando ho cominciato a lavorare in America, nel ‘61, ero quasi l’unico indiano conosciuto negli Stati Uniti. Oggi non c’è ospedale né borsa né compagnia finanziaria dove non lavorino gli indiani. Sono gli artefici delle infrastrutture americane. Però in India, su un miliardo e duecento milioni di abitanti, solo quattrocento milioni sanno leggere e scrivere. Gli altri vivono nell’ignoranza e nella povertà. In alcuni villaggi vige ancora il sistema per cui si ammazzano le figlie femmine, in quanto meno utili per i lavori nei campi. È spaventoso». In India ha miriadi di parenti e cugini («quando dirigo a Bombay devo aumentare le repliche dei concerti per poterli invitare tutti»), ma numerosi membri della sua famiglia vivono altrove. Dalla prima moglie, Carmen, canadese (che dopo il divorzio da Zubin ha sposato suo fratello Zarin Mehta, oggi sovrintendente della New York Philharmonic), ha avuto due figli che lo hanno già reso nonno, e che vivono l’una a Montréal e l’altro a Philadelphia. È americana Nancy, bellezza bionda ed ex attrice, sposata nel ‘69 e da allora compagna inseparabile di Zubin, da cui non ha avuto figli. E in più il maestro ha due figli nati fuori dai matrimoni, una a Los Angeles e l’altro in Israele. «Mi piace l’idea d’invecchiare tra i nipoti, vorrei vederli tanto di più. Se avessi quella certa casa in Kashmir verrebbero a trovarmi? Temo proprio di no. Per questo il Kashmir resta solo un sogno». E allora meglio non smettere di dirigere, fino alla fine dei suoi giorni: «A noi direttori piace morire sul podio». ‘‘ LEONETTA BENTIVOGLIO Repubblica Nazionale