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DI Repubblica - La Repubblica.it
Domenica
il fatto
Il tramonto del dio Dollaro
La
di
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
SANDRO VIOLA e VITTORIO ZUCCONI
l’immagine
Repubblica
Torna la Linea, l’omino del boom
MICHELE SERRA
FOTO EVERETT
Marx e Allen, il vecchio e il nuovo, due maestri della comicità a confronto
in un faccia a faccia di trent’anni fa che sarà pubblicato in Italia
E che racconta storia e retroscena della generazione che ci insegnò a ridere
WOODY ALLEN e GROUCHO MARX
roucho. Deve essere caldo fuori oggi. Nessuno porta il
cappello.
Woody. Sì, si gela. Sono diciassette gradi o giù di lì.
G. Ma se non indossi un cappello vuol dire che non è
freddo.
W. La pensi così?
G. Si può indossare qualcos’altro. Io porto biancheria
pesante (mostra la maglia che indossa sotto la camicia su cui è scritto “Dì
che ti manda Groucho”). Se avessi la mia età, la porteresti anche tu. E ti
metteresti un cappello.
W. Invecchiando si soffre di più il freddo.
G. Hai maledettamente ragione. L’ultima volta che ho visto Chaplin,
tutto quello che mi ha detto è stato: «Copriti bene. Copriti bene».
W. Che anno era quando ti disse così?
G. Fu quando ricevette l’Oscar. Venne in California. Avevamo fatto
colazione insieme e quando stava per andarsene mi mise un braccio intorno alle spalle e disse: «Groucho, copriti bene». Allora non sapevo cosa volesse dire, ma adesso lo so. Perciò, quando invecchierai, indossa
qualcosa di pesante. E anche un cappello.
W. Ho capito.
G. Una volta mi disse: «Vorrei parlare sullo schermo come fai tu». Chaplin era grande ma non lavora più. Ha avuto un insuccesso clamoroso,
La Contessa di Hong Kong. Il peggior film che abbia mai visto. C’era anche Marlon Brando. Voglio andare a vedere il nuovo film di Brando [Ul-
G
timo Tango a Parigi] perché dicono che ci siano molti spunti da prendere.
W. Hai mai visto un film pornografico?
G. No, non mi interessano. Ho visto delle ragazze nude.
W. Hai dato un concerto dopo quello al Carnegie Hall?
G. Sì. Ho suonato a Los Angeles e a San Francisco, per Bill Graham.
San Francisco è una città eccitante.
W. Già. Ed è così piccola, ma è più eccitante di Los Angeles.
G. Ricordo la prima volta che da New York siamo andati a Los Angeles. Allora Beverly Hills non esisteva.
W. Ti piaceva di più allora?
G. Molto di più. A quel tempo si sentiva soltanto il profumo dei boccioli d’arancio e di limone. Chico diceva che in California i fiori non sanno di niente ma che le donne profumano. Avrebbe dovuto sentire.
W. Come si chiamavano gli studi vicino all’aeroporto?
G. Mgm. Abbiamo girato cinque film alla Mgm. Due con Thalberg. Era
il migliore.
W. Lo so, te l’ho sentito dire. Ho sempre sentito pareri molto discordi
su Thalberg. So che tu andavi matto per lui.
G. Era un maestro. Il primo film che ha fatto con noi fu Una notte all’opera. Poi ne abbiamo iniziato un altro, Un giorno alle corse,ed è morto mentre lo giravamo. Era più giovane di me quando morì. Accadde nel
1936. Adesso siamo nel 1974 e sono ancora vivo.
W. Come facciamo a saperlo?
(segue nelle pagine successive)
con un articolo di ANTONIO MONDA
cultura
Cruciverba, pensiero minore del ’900
STEFANO BARTEZZAGHI e EDMONDO BERSELLI
la lettura
Il viso cancellato della piccola Laura
GUILLERMO ARRIAGA
spettacoli
Wim Wenders, tutto sui miei film
GINO CASTALDO e WIM WENDERS
le tendenze
Il verde d’inverno e le piante-scultura
PAOLO PEJRONE e ROSSELLA SLEITER
Repubblica Nazionale
24 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
la copertina
Dialogo sulla comicità
Due maestri della risata a confronto, un botta e risposta
serrato ed esilarante su Chaplin, Keaton, Stanlio e Ollio,
su una stagione filmica irripetibile. Ecco il duello
verbale Woody Allen-Groucho Marx riproposto
da un libro che sarà pubblicato prossimamente in Italia
Groucho
FOTO CORBIS
‘‘
DORMIRE, FORSE
Farò un sonnellino
Se dormo, non fumo
E se non fumo,
non tossisco
Se non tossisco, forse
riesco a dormire
Non è la tosse che
ti porta via, è la bara
(segue dalla copertina)
roucho. Lo so quando mi alzo
al mattino. Se non mi alzo, significa che sono morto.
W. Hai ancora quel letto che…
G. Sì! E se vuoi dormire da me,
beh, non fare il ritroso.
W. È stata la prima volta che ho
visto un letto che ti ronza sotto
i piedi, sotto la schiena, dove ti pare. È quell’interruttore sotto il materasso.
G. Faccio tutto con un telecomando — la
televisione, le luci, tutto — così posso restare
a letto per giorni interi senza dovermi mai alzare.
W. Chi sono i tuoi amici? [...]
G. Ho otto o dieci amici.
W. Perciò durante il giorno ti rilassi, incontri
gli amici e giocate a carte…
G. Non gioco a carte.
W. Non giochi a carte. Cosa fai?
G. Leggo molto. Robaccia.
W. Ah! Non ti annoi dopo due ore che leggi?
G. No. Ne leggo altra. [...]
W. Hai mai seguito qualche tipo di dieta?
G. Mangio tutto quello che voglio. Occasionalmente anche qualche ragazza.
W. Torniamo a Charlie Chaplin. Eravate
amici anni fa?
G.Sì. Lo conobbi più di sessant’anni fa, in Canada. Un paio di settimane fa ho cercato di
guardare uno dei suoi film, ma Chaplin non è
più molto divertente.
W. Penso che abbia fatto tre grandi film. Li
hanno riproposti tutti, e credo che tre siano ancora divertenti, ma gli altri no. Beh, forse tre e
mezzo, direi. Alcuni sono sdolcinati. Mi piacciono Tempi moderni, Luci della città e La febbre dell’oro. Gli altri mi sembrano noiosi. Il
grande dittatore non mi piace, e nemmeno
Monsieur Verdoux e Luci della ribalta. Conoscevi Keaton?
G. Sì.
W. Lo trovavi divertente?
G. Sì. Lavorava con Harpo quando eravamo
alla Mgm. Faceva delle gag.
W. Trovavi divertenti i suoi film? Il navigatore o Come vinsi la guerra?
G. Sì. Il navigatore lo trovo fantastico. Ma sai,
eccetto te, non ci sono più attori comici.
W. Per qualche motivo, adesso nessuno fa
più film comici. Non so perché. La gente me lo
chiede continuamente, ma non so quale sia la
ragione.
G. Sono difficili da fare.
W. Sì, fisicamente difficili, vuoi dire. Non c’è
più nessuno che cerchi di fare un film comico.
Per qualche anno c’è stato Jerry Lewis.
G. L’estate scorsa, quando sono andato in
Francia, mi hanno chiesto cosa pensassi di
G
Marx
IL CINEMA
Da Il ladro di gioielli
del 1929 a L’inferno
ci accusa del 1957
Groucho, con i fratelli
Harpo e Chico
ha portato sul grande
schermo
la comicità surreale
IL TEATRO
Dopo i primi trionfi
a Broadway, nel 1957
Groucho intraprese
la carriera di autore
teatrale senza i fratelli
e divenne presentatore
del quiz televisivo
You Bet Your Life
LE BATTUTE
“All’infuori del cane
il libro è il migliore amico
dell’uomo. Dentro
il cane è troppo scuro
per leggere”
“Non mi interessa
far parte di un club
che mi accetta
fra i suoi membri”
Jerry Lewis e io ho risposto che
quando lavorava con Dean Martin
era molto bravo.
W. La cosa che non riesco a capire
è questa: come mai c’è stata un’epoca
in cui c’erano sei, otto o dieci comici
del tuo calibro — Keaton, Chaplin, te,
Fields — perché in un determinato
momento ce ne sono un sacco e poi, improvvisamente, non ce n’è più nessuno?
G. Non credi che questo abbia a che
vedere con la scomparsa del vaudeville?
Quando è finito il vaudevillenon c’è stato
più spazio per la comicità.
W. Quelli erano tutti comici del vaudeville, del music hall. Per me è una cosa incredibile. Sono stupefatto perché é stato un
po’ come il Rinascimento, come i pittori impressionisti: sono arrivati tutti in una volta.
Hai mai visto un film di Bob Hope che ti sia
piaciuto?
G. Ne ha appena fatto uno, Prenotazione
annullata. Non l’ho ancora visto.
W. E venti anni fa, negli anni Quaranta e Cinquanta?
G. Penso che anni fa, quando recitava con
Crosby, abbiano lavorato molto bene insieme.
Al pubblico piacevano. Hope è un uomo divertente e Bing è un ottimo cantante.
W. Non ho mai trovato divertente Harold
Lloyd. E nemmeno Stanlio e Ollio.
G. Tutto quello che Lloyd sapeva fare era arrampicarsi sugli edifici.
W. Allora, qual era la differenza tra Chaplin e
Keaton? Perché Chaplin era più popolare di
Keaton?
G. Penso che dipenda dal fatto che Keaton ha
fatto un paio di bei film divertenti, mentre Chaplin ne ha fatti molti.
W. Credi? Trovavi divertenti tutti quei tworeelers e quei cortometraggi?
G. No, ma ricordo quando Chaplin ne ha fatto uno intitolato La strada della paura, dove
Chaplin interpreta un poliziotto.
W. Esatto. Quello è molto bello.
G.È un film divertente. Veramente divertente.
W. È molto breve. Penso che Keaton fosse
più bravo come cineasta ma Chaplin era un uomo più divertente.
G. Forse l’epoca degli attori comici è finita,
fatta eccezione per te. [...]
W. Raccontami come hai conosciuto Chaplin in Canada.
G. Non è una gran storia. È stato molto tempo fa. C’erano due teatri, il Pantages e il Sullivan-Cousidine. Non ne avrai mai sentito parlare perché sei troppo giovane.
W. Ho sentito parlare del Pantages.
G. In ogni modo, stavamo recitando in Canada, e anche Chaplin. Stava facendo una
commedia intitolata A
Night at the Club. Era una commedia molto divertente. In quella commedia
c’era una vecchia nobildonna che cantava.
Mentre stava cantando, Chaplin masticava
una mela e gliela sputava in faccia. Questo era
il genere di commedie che faceva sessant’anni
fa. Tutti i miei fratelli giocavano a biliardo. Non
erano dei professionisti, ma erano bravi.
Quando arrivammo a Winnipeg, i ragazzi sparirono alla ricerca di una sala da biliardo. Avevamo un intervallo di circa tre ore prima di partire per la costa. Dal momento che io non gioco a biliardo, non scommetto e non gioco a carte — di tanto in tanto fumo, quello che basta per
tossire — passo davanti a questo squallido teatro, il Sullivan-Considine. Lo supero e sento un
fortissimo scroscio di risate. Così pago dieci
cent e entro. Fu la cosa più divertente che abbia mai visto.
W. Perché la cosa più divertente?
G. Lui era talmente buffo.
W. Cosa faceva?
G. Cose pazzesche. Si muoveva in modo assurdo. Così [Groucho dà una dimostrazione].
W. E gli altri cosa facevano?
G. Dopo tanti anni, non me lo ricordo. Ma so
che conobbi Chaplin a Winnipeg. Lui apparteneva al Sullivan-Considine Circuite noi al Pantagenes Circuit. Aveva una camicia che ha indossato per sei settimane, perché guadagnava
soltanto venticinque dollari a settimana e non
voleva spendere denaro per comprare una camicia pulita. Abbiamo fatto amicizia. La settimana successiva lo andai a trovare in camerino
e gli dissi che lo trovavo eccezionale. In seguito,
durante la tournée canadese ci ritrovammo
ogni settimana nelle stesse
città. Non riesco a ricordare
tutti i posti in cui siamo stati
perché è successo tanto
tempo fa, ma ricordo che
andavamo insieme al casino.
W. Um-hmm.
G. Perché in quelle città
non c’era un posto in cui
un attore potesse andare,
tranne, se si era fortunati, andare a rimorchiare
una ragazza. Ma di regola, non si trattava di
una ragazza. Bisognava andare in una casa
di tolleranza, e imparammo a conoscerci.
Non insieme. Voglio
dire, non stavo insieme a lui. Ero con lui ma non…
W. Ho capito. A quell’epoca non aveva mai
fatto film.
G. Non aveva mai fatto niente.
W. Non parlava mai di film? Ti ha mai detto
che avrebbe voluto farne uno?
G. No, non gli era mai venuto in mente. Aveva molto successo con la sua commedia. Poi,
quando siamo arrivati a Seattle, Mack Sennet lo
vide recitare in A Night at the Club, e si offrì di ingaggiarlo. Un giorno lo incontrai e gli dissi: «Ho
saputo che Mack Sennet ti ha proposto di lavorare con lui, ho saputo che ti offre duecento dollari a settimana». E lui rispose: «Ho rifiutato». Io
esclamai: «Tu devi essere pazzo! Hai rifiutato
duecento dollari a settimana per questa ignobile commedia vaudeville con cui ne guadagni
soltanto venticinque?». Chaplin rispose: «Me
ne rendo conto. Nessuno può valere duecento
dollari a settimana. E se non andassi bene, che
fine farei? Ho rifiutato. Non lavorerò per lui».
Aveva paura, e subito dopo tornò in Inghilterra.
Sei anni dopo lavoravo per l’Orpheum
Circuit…
W. Ti devo interrompere un momento. Saresti stato contento se Sennett all’epoca ti avesse
offerto di comparire in un film?
G. No. Lavoravo assieme ai miei fratelli, ma
loro erano impegnati con il biliardo.
W. Ma supponiamo che Sennett vi avesse voluti tutti a lavorare nel cinema. Cosa avresti pensato a quel tempo? Avresti accettato l’offerta di
Sennett e recitato nel cinema muto?
G. Probabilmente no.
W. Perché no?
G. Perché non pensavamo di essere abbastanza bravi da valere duecento dollari a settimana.
W. Ma questa è la stessa ragione addotta da
Chaplin!
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 25
FOTO GETTY IMAGES
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
‘‘
VIVERE A OVEST
Non so come fai
a vivere in California
Per me è incredibile
che un uomo
della tua acuta
intelligenza
sia capace di vivere
sulla West Coast
Woody
WOODY ALLEN e GROUCHO MARX
G. Sì.
W. Ma quello che voglio capire è se pensi che i
Fratelli Marx avrebbero potuto lavorare per il cinema muto. Ovviamente, Chaplin l’ha fatto. Pensi che voi sareste stati divertenti, avreste potuto recitare in un film muto?
G. Prima di tutto, Harpo non diceva una parola
durante lo spettacolo.
W. Questo è un buon argomento.
G. E, se riusciva a trovare una signora, neanche
Chico parlava.
W. Um…
G. Perciò l’unico che parlava ero io.
W. Sei il perno attorno al quale ruota lo spettacolo. Perciò pensi che se Mack Sennett vi avesse
voluto, i Fratelli Marx avrebbero fatto divertire il
pubblico nel cinema muto?
G. Noi abbiamo fatto dei film muti. Ed è stato il
più grande insuccesso di tutti i tempi.
W. Quando?
G. Attorno al 1921. Abbiamo investito ciascuno
un migliaio di dollari e siamo andati nel New Jersey. L’abbiamo girato prevalentemente lì, in una
proprietà accanto al teatro in cui stavamo lavorando.
W. Com’era intitolato?
G. Humorisk. Non mi ricordo un granché, tranne che io facevo la parte del cattivo, ed è stato
proiettato soltanto una volta, nel Bronx, a una matinée destinata ai bambini. Mi piacerebbe trovarne una copia. In ogni caso, eravamo più interessati a Broadway che al cinema.
W. Broadway era certamente più importante, a
quell’epoca. Ma, come stavi dicendo, sei anni più
tardi Chaplin ritornò…
G. Chaplin ritorna, e noi stavamo recitando per
l’Orpheum Circuit. Io parlavo, Chico parlava e
Harpo non aveva niente da dire. Lui faceva soprattutto delle pantomime. Ed era divertente. Così, a
Los Angeles, riceviamo un invito da parte di Chaplin che ormai è una stella del cinema. Era così ricco che aveva comprato la casa di Mary Pickford.
Era una grande star degli studio che presto visiterai ad Hollywood. Ci invitò a casa sua e c’era un
maggiordomo vestito di nero dietro ogni invitato e
piatti d’oro massiccio. Mangiammo magnificamente! Ma quando mi disse «Nessuno può valere
duecento dollari a settimana», capii che era pazzo,
o qualcosa del genere. Oppure non si sentiva sicuro a recitare nel cinema. Era diventato il più grande divo dello schermo e noi recitavamo ancora
commedie di poca importanza.
W. Dopo aver ottenuto un tale successo, Chaplin ti sembrò diverso?
G. Mi sembrò più ricco.
W. Non ti interessa più scrivere qualcosa?
G. Ho scritto cinque libri. Mi pare sufficiente.
W. Quali ho visto? Ho visto Memoirs of a Mangy
Lover (Memorie di un irresistibile libertino) e…
G. Quello era orribile. Voglio dire, irresistibile…
W. Ho letto The Groucho Marx Letters, ma non
Dal vaudeville al cinema
a colpi di nonsense
ANTONIO MONDA
È
NEW YORK
stato Woody Allen a rendere popolare, in Io e Annie, una delle battute più belle di Groucho Marx: «Non vorrei far parte di un club che accetta come membro uno come me». È una battuta che rimanda immediatamente a una concezione esistenziale basata su insicurezza,
disagio e senso di esclusione. Ma in origine venne pronunciata a proposito di una dolorosa situazione concreta: quando i Marx si trasferirono a Hollywood, i circoli più esclusivi non consentivano l’accesso
agli ebrei e Groucho, che ambiva ad essere ammesso proprio a quei
club, capovolse, con un guizzo di genio, l’offesa della discriminazione, sino a renderla universale.
Hello I must going, il divertentissimo libro di Charlotte Chandler che
è stato ripubblicato in America con una nuova introduzione di Bill Cosby (e che verrà pubblicato in Italia da Frassinelli nel maggio dell’anno prossimo) è una miniera di aneddoti riguardante Groucho, oltre
che una ricchissima raccolta di conversazioni con personalità diverse come Woody Allen (che pubblichiamo in queste pagine), George
Burns, Laureen Bacall, Jack Nicholson e Jack Lemmon. Il libro, realizzato poco prima che Groucho morisse, consegna il ritratto di una personalità esuberante e geniale, imprevedibile e attenta, ma anche riflessiva e malinconica, come lui racconta sin dall’incipit: «Invecchiare è quello che fai se sei fortunato». Groucho sapeva di essere arrivato
al suo ultimo atto, ma non si negava il gusto della battuta folgorante
(«La prossima volta che ti vedo, ricordami di non rivolgerti la parola»).
Il libro è anche un modo di ripercorrere le tappe di una vita cominciata in una piccola area a dominanza ebraica dell’Upper East
Side di Manhattan, dove Julius Marx crebbe insieme a Leonard (Chico), Adolph (Harpo), Herbert (Zeppo) e Milton (Gummo). Il quartiere era stretto tra una zona italiana e una tedesca. Nei primi spettacoli di vaudeville, dove i fratelli erano stati introdotti dalla madre Minnie e dallo zio Al Shean, Groucho propose proprio l’accento tedesco,
ma l’atmosfera antigermanica della Prima guerra mondiale finì per
danneggiare quella caricatura. La sua maschera inconfondibile, con
sigaro, baffoni e sopracciglia disegnate, fu generata proprio dalla
fretta dei cambi di scena del vaudeville e diventò immediatamente
popolare quanto la camminata a passi lunghi, che venne riproposta
in capolavori della commedia come Duck Soup, Un giorno alle corse
e Una notte all’opera. La sua modernità è fondata sulla straordinaria
velocità con cui era in grado di improvvisare gag di fronte ad ogni tipo di situazione e soprattutto su un nonsense rivoluzionario che poteva essere ammiccante quanto assolutamente disorientante.
Groucho era divertito da chi gli ricordava lo slogan del Sessantotto Je
suis Marxiste, tendance Groucho, ma quando l’interlocutore cercava di trascinarlo sulle proprie posizioni ripeteva un’altra battuta memorabile: «Non dimentico mai un volto, ma nel tuo caso farei volentieri un’eccezione».
penso a questo come ad un libro. È stato il primo?
G. Ci sono stati Beds, Many Happy Returns e
Groucho and Me.
W. Quello a cui mi riferisco è Beds. È fuori stampa, ma una persona che conosco ne ha una copia…
G. Io non ne ho neanche una. Non riesco a trovarla. È un libro molto sottile.
W. Hai in programma di fare qualche altro film?
G. Qualcuno sta realizzando un documentario
su di me. Nel frattempo ho in programma di morire…
W. Questo è parlare chiaro! Hai una copia di Animal Crackers?
G. Nessuno ce l’ha. [...]
W. Si direbbe che ricordi un sacco di storie che
risalgono a trentacinque o quarant’anni fa, e questo mi sorprende. Suoni ancora la chitarra?
G. No. Non faccio niente.
W. Niente del tutto? [...]
G. Niente. Mi piace da morire.
W. Ti alzi la mattina e leggi il Times?
G. Il New York Times? No. Lo compro soltanto la
domenica. Non ce la faccio a leggere le notizie per
tutta la settimana. È troppo. Tu lo leggi tutti i giorni?
W. Sì, tutti i giorni. Neanche a me piacciono molto le notizie. Ma le leggo tutti i giorni. [...]
G. Quando verrai in California?
W. Presto. Sto cercando una casa da prendere in
affitto durante le riprese di Il Dormiglione
G. Una casa piccola?
W. In realtà, non so come fai a vivere in California. Per me è incredibile che un uomo della tua
acuta intelligenza sia capace di vivere sulla West
Coast.
G. Ci sono dei buoni negozi di dolci. [...]
W. Ascolta, non so come dirtelo, ma devo andare. [...]
G. Va bene, ti lasceremo da parte un po’ di dolce. Parti domani?
W. Sì.
G. Ho conosciuto una signora in aereo che vorrebbe conoscerti. È una ragazza meravigliosa. Ha
delle magnifiche tette, quella ragazza. Non hai mai
rimorchiato una ragazza in aereo, eh?
W. No. Leggo soltanto.
G. Sai, racconto queste vecchie storie talmente
spesso che me le dimentico. Penso che farò un sonnellino. Se dormo, non fumo. E se non fumo, non
tossisco. Se non tossisco forse riesco a dormire.
Non è la tosse quella che ti porta via, è la bara in cui
ti mettono.
Allen
IL CINEMA
Da Prendi i soldi
e scappa, primo
successo del 1969,
produce in media quasi
un film l’anno. Scrive
e dirige i propri film,
ha recitato spesso
come protagonista
IL TEATRO
La sua carriera
di stand-up comedian
comincia nel 1960:
si esibisce con grande
successo in numerosi
night club newyorchesi
E comincia a scrivere
diverse opere teatrali
LE BATTUTE
“Il mio primo film era
così brutto che in sette
Stati americani aveva
sostituito la pena
di morte”. “Quando
un mio film ha successo,
mi chiedo: come ho
fatto a fregarli ancora?”
Traduzione di Antonella Cesarini
(© 1978 -2006 Doubleday & Company
© 2008 Edizioni Frassinelli,
data d’uscita in Italia maggio 2008)
Di Charlotte Chandler è uscito Ingrid Bergman e nel
marzo 2008 sarà pubblicato Bette Davis,
entrambi per Frassinelli
Repubblica Nazionale
26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
il fatto
I media Usa non lo dicono, l’opinione pubblica lo ignora,
i guru tacciono, l’Amministrazione parla d’altro
Cambi
Ma la supremazia della valuta americana è alle corde
Il tramonto
del dio Dollaro
VITTORIO ZUCCONI
D
WASHINGTON
ollaro. La parola tintinna alle orecchie del
mondo con il suono di quei talleri d’argento boemo ai quali deve il nome. Evoca
sogni di ricchezza, ma soprattutto di sicurezza, di forza e di egemonia, come un transatlantico
inaffondabile tra la flotta di barchette e navigli monetari
sballottati dalle onde delle periodiche “tempeste valutarie”. Vederlo oggi imbarcare acqua speronato dall’euro,
dalla sterlina, dal franco svizzero, persino dall’umile dollaro canadese, che gli statunitensi avevano sempre guardato come tagliando per il Monopoli, è molto più che un
problema finanziario o una questione di commerci. È lo
shock di scoprire che una supremazia apparentemente
inattaccabile, espressione e strumento insieme della supremazia dell’America sul mondo, sta facendo acqua e
rischia di essere un altro dei caduti sotto i colpi della presidenza Bush. Il dollaro è da settant’anni più di uno strumento valutario, di una moneta rifugio o di una riserva
custodita nei forzieri delle nazioni, o nei conti numerati dei despoti e dei trafficanti: è la bandiera che i marines e i fanti sbarcati nelle isole del Pacifico e sulle spiagge di Normandia piantarono, anche acquistandola
con le loro vite, sul mondo.
A noi passeggeri sul “dollaro Titanic”, qui a bordo
del transatlantico America che ignora la crisi dell’almighty dollar, la sola moneta che avesse meritato
l’aggettivo riservato al Signore onnipotente, il sentimento di stupore del mondo arriva attutito, lontano. Tra la completa indifferenza del comandante e
degli ufficiali in plancia, che guardano con benign
neglect, con benevola negligenza la deriva della nave, ben contenti che i rapporti di cambio ostacolino le importazioni mentre favoriscono le esportazioni e ingrossano i profitti delle multinazionali
che fatturano anche in euro, l’America dello
shopping natalizio e dei saldi non avverte ancora
le scosse. L’orchestra dei consumi, quella che fa
ballare due terzi dell’economia americana, continua a suonare. La celebre frase di Richard
Nixon che nel 1971, nel pieno di un altro uragano monetario, rispose al presidente della Fed,
Arhur Burns, preoccupato anche per la lira italiana, «io me ne strafotto della lira», suona oggi autoironica. È la Casa Bianca che sembra “strafottersene
del dollaro” ed è la barchetta lira, diventata la corazzata
euro, a infischiarsene della moneta verde.
Agli elettori dell’America repubblicana, che guida
Chevrolet e Ford, fa acquisti negli hangar commerciali della più grande catena di discount al mondo, la WalMart, mangia carne macellata in Nebraska, patate raccolte in Idaho e indossa camicie cucite in Cina pagate
pochi centesimi all’ora, l’affondamento del dollaro
ben poco interessa. È l’America della “costa blu” e della “riva di sinistra”, la California, delle sponde oceaniche dove milioni di senza documenti sudano per mandare a casa dollari che comprano sempre meno, si calzano scarpe italiane, si guidano auto tedesche e si sogna la vacanza in Toscana-Italia, è questa l’America
dove l’anemia della valuta americana pesa. E qualcuno insinua, come il finanziere James Cramer, conduttore di uno show di Borsa, che a Bush non dispiaccia
troppo punire gli snob che comunque non voteranno
mai repubblicano o le rimesse di quegli immigrati che
in California votano democratico. Ma né a Manhattan
né a Omaha, né a San Francisco o a Cincinnati, ci sono
quei segnali di panico che avrebbero travolto l’Italia,
se avesse visto la vecchia lira affondare.
Sono i centri studi, gli osservatori che cercano di
guardare oltre l’orizzonte dello shopping e dei soliti
cicli di boom and crash, come quelli che stanno squassando il mercato degli immobili e dei mutui, quelli che
annusano il cambio epocale di clima. «Ormai il mondo
ha due monete di riferimento, l’euro e il dollaro, non più
soltanto una, il dollaro», avvertiva già nel 2003 il Cato Institute di Washington, e soltanto perché la Cina, che insieme con il Giappone ha la massima quantità di cambiali del Tesoro americano nelle proprie riserve, puntella ancora la valuta Usa, il “Signore onniponte” non tracolla. Ma l’universo statico dei cambi, costruito a Bretton
Woods sopra l’egemonia politica, militare e culturale degli Stati Uniti dominanti, è divenuto una galassia fluida,
un sistema a due soli, per ora. Almeno fino a quando la
Cina dovesse decidere di calare la carta del proprio yuan
e commerciare utilizzando la propria moneta.
Di questa rivoluzione, che sta portando alle conseguenze inevitabili quello che accadde nel 1971 quando
Nixon fu costretto ad abbandonare la parità fra dollaro e
oro per impedire il saccheggio dei lingotti di Fort Knox
compiuto soprattutto dalla Banque de France, il pubblico che grida felice sugli ottovolanti di Disneyworld, che
intinge patatine fritte nel ketchup di McDonald’s, che
lotta contro le compagnie di assicurazione per le cure
mediche, nulla sa. I grandi media popolari, e anche i giornali di qualità, ignorano il fatto che il dollaro americano
si sia dimezzato di valore rispetto all’euro nell’arco di cinque anni, da quando bastavano 75 centesimi di dollaro
per comperare un euro, al corso di questi giorni quando
ne occorrono praticamente il doppio, 145 centesimi.
L’universo di Internet, pronto a vibrare per ogni voce sulle possibili relazioni saffiche di Hillary Clinton o sulla
biancheria mistica indossata dal mormone Mitt Romney, dorme di fronte al colossale debito americano, ai
miliardi di buoni del Tesoro accatastati nelle casseforti di
Cina e Giappone, al rischio di inflazione che sempre la
svalutazione della propria moneta comporta.
È l’autismo valutario di una nazione abituata a considerare appunto “Dio” la propria moneta, che resiste anche alle voci terrificanti di un possibile passaggio in massa dei produttori di greggio dal dollaro all’euro. O alle non
più tanto velate minacce — l’ultima è dell’agosto scorso
— dei cinesi, che meditano di passare dal dollaro alla valuta europea come principale strumento di riserva. Nella autoreferenzialità di questa amministrazione Bush,
ipnotizzata dalle sirene del “nuovo secolo americano”,
non si sente una voce autorevole, né alla Fed né al Tesoro, riflettere su quale fondamentale ruolo abbiano giocato il dollaro, la sua centralità assoluta, il suo essere il danaro del commercio, delle riserve, dell’ultimo rifugio, nel
creare il secolo americano vero, il Ventesimo. La fissazione della forza militare ha fatto dimenticare che senza
l’egemonia culturale e l’egemonia finanziaria, le armi da
sole non sostengono un impero, neppure se si crede un
impero del Bene.
Qualche pensionato che fino a ieri attraversava le
frontiere con il Canada e il Messico per rifornirsi di medicinali a minor costo in quelle nazioni, sta scoprendo
amaramente che il vantaggio di cambio è svanito e il
dollaro non arriva più lontano come un tempo, né viene accolto come il messia. Gli immobiliaristi di New
York si consolano al pensiero dei futuri acquirenti europei e asiatici che, come accadde già negli anni effimeri dello yen giapponese trionfante, sbarcheranno
per accaparrarsi appartamenti e palazzi in saldo. Ma
nel fondo della coscienza popolare, l’idea che
quella moneta con la sua inconfondibile S barrata stia diventando soltanto una delle tante
valute in un mondo che è costretto ancora
a tenerla nelle riserve, senza più desiderarla, non è ancora penetrata. Soltanto
chi ha speculato un anno fa, o ancora sei
mesi or sono, sul grande ritorno del transatlantico verde, ha scoperto che quel
pugno di dollari si è trasformato in un
pugno di mosche.
LA NASCITA
IL VALORE
I NOMIGNOLI
Il dollaro viene adottato
come valuta degli Stati
Uniti nel 1785, nove anni
dopo la Dichiarazione
d’Indipendenza
Con la legge del 1792
viene fissato il peso
del dollaro in argento:
471.25 grani troy
(circa 30,54 grammi)
Ben presto il dollaro viene
chiamato con una serie
di nomignoli diventati
famosi: buck, bone,
greenback e così via
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27
Ci fu un tempo, ormai lontano, in cui Hemingway
si comprava Parigi con la sua piccola pensione di reduce
E gli inviati speciali viaggiavano al riparo dai guai...
Quel biglietto
era il mondo
SANDRO VIOLA
l dollaro? Bisogna tirar giù dagli scaffali Hemingway e Fitzgerald, per ricordare che cosa fu ai
suoi bei tempi. Leggere qui un brano di Festa mobile, lì un altro di The sun also rises (Fiesta, nella famosa traduzione einaudiana), e poi qualche pagina di Tenera è la notte o di Babilonia rivisitata. Ed
ecco affiorare, in pochi capoversi, la grandezza della moneta americana. Il suo fiabesco potere d’acquisto.
Negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, Hemingway vive a Parigi con la prima moglie Hadley. Dall’America riceve la piccola pensione che lo Stato assicura ai
reduci (Ernest è stato autista d’ambulanze sul fronte italiano), e dal Canada arrivano i magri compensi che il Toronto star gli paga, in dollari americani, per i suoi articoli.
Eppure campa quasi come un re. Nel 1920 un dollaro vale
infatti quindici franchi, nel ‘23 ne vale quasi diciassette,
nel ‘24 supera i diciannove. E con diciannove franchi —
come capiamo da quel senso continuo di felicità che percorre le pagine di Festa mobile — si possono avere una
quantità di cose. Un pranzo alla Closerie des lilas, vari bicchieri di discreti Bordeaux e Sancerre al Select, al Dome e
al Jockey, parecchie tazze di café crème alla terrazza della
Rotonde o della Coupole. E non basta: con il gruzzolo di
dollari che rimedia ogni mese, Hemingway si può permettere persino d’andare ogni tanto sino in Andalusia,
verso Ronda, a pesca di trote.
Lo stesso quando arrivano a Parigi Scott e Zelda Fitzgerald, Harry e Mary Crosby, e tutte le altre famose coppie
americane di quegli anni. Grandi alberghi, un fiume di
champagne, notti di follie. A New York, i guadagni che
Fitzgerald ha ricavato da Di qua dal paradiso e da Belli e
dannati, i generosi compensi che le grandi riviste americane gli stanno pagando per i suoi racconti non consentirebbero una vita tanto dorata. Ma a Parigi il dollaro pesa:
si cambia un Traveller’s cheque in banca, e se ne esce con
le tasche gonfie di franchi.
Né si tratta soltanto di Hemingway e Fitzgerald, o dei ricchi come Harry Crosby e Ford Maddox Ford. A godere della manna-dollaro è l’intera «lost generation», da Pound a
Dos Passos e ad Anderson, tutti a Parigi, tutti senza molti
mezzi, ma tenuti a galla da un cambio tanto propizio da
sembrare miracoloso. Anzi, a pensarci bene, senza il dollaro a diciannove franchi non ci sarebbe stata la «lost generation». Non ci sarebbero stati cioè gli «expatriates»
americani sulle rive della Senna, Gertrude Stein non
avrebbe mai parlato d’una «generazione perduta», e noi
non ci saremmo beati a rievocarla — cinquanta e più anni fa — ogni volta che entravamo al Select, al Dome o alla
Closerie.
La festa mobile durò parecchi anni. Ancora nella seconda metà dei Venti, quando già se n’erano andati Hemingway, Fitzgerald e molti altri scrittori americani, dagli
Stati Uniti continuavano ad arrivare a Parigi coppie celebri e aspiranti artisti. Era in genere gente ricca (basta pensare al Maugham di Il filo del rasoio) che non abitava a
Montparnasse ma all’Avenue Foch, resa ancora più ricca
e prodiga dalla potenza del dollaro. Poi, d’un tratto, giunse la scossa tellurica del ‘29. Il crollo di Wall Street si portò
dietro anche il valore del dollaro, la vita a Parigi si fece costosa, e gli «expatriates» — salvo Henry Miller, che viveva
con molto poco — sparirono.
Ma si trattò d’una eclisse temporanea. Il legame dollaro-Parigi-letteratura americana si riprodusse infatti, tale
e quale, alla fine del secondo conflitto mondiale. A partire dal ‘48-49, poiché il dollaro ha intanto ritrovato la
sua imbattibile robustezza mentre il franco della
Quarta Repubblica zoppica vistosamente, la capitale francese s’empie ancora una volta di scrittori
americani. Di nuovo, una piccola rendita in valuta
americana consente di vivere a Parigi abbastanza
bene, e soprattutto consente di frequentarne giorno e notte i bar. Il quartiere degli americani è adesso Saint Germain-de-Prés, ed è lì che vanno ad abi-
I
tare William Styron, James Jones, Richard Wright, James
Baldwin, William Gardner Smith, ed altri di cui s’è persa la
memoria. Più in là verso il boulevard Saint Michel, tra Gitle-coeur e la Houchette, andranno invece ad attestarsi alcuni anni dopo William Burroughs e Allen Ginsberg.
Oggi il dollaro sbanda, pericola, sembra un ferito che si
sforzi di restare in piedi. Ma allora, l’abbiamo visto, metteva il vento in poppa persino alla letteratura. E non era solo questione di scrittori americani a Parigi. Dagli anni Cinquanta sino alla fine dei Novanta, il biglietto verde è un
“passe-partout”, un “apriti Sesamo” per ogni tipo di viaggio in ogni angolo del mondo. Viaggiare senza dollari (dollari contanti, non Traveller’s), avrebbe significato infatti
andare incontro a qualche guaio. I viaggi dei giornalisti,
per fare un esempio: l’Africa, l’Asia, il Medio Oriente,
l’Urss e i suoi satelliti, come si sarebbero potuti percorrere più o meno tranquillamente senza avere in tasca un rotolo di dollari tenuti insieme da un elastico?
Capitava infatti che un doganiere ugandese, all’aeroporto di Entebbe, negli anni della follia di Idi Amin, bloccasse il giornalista asserendo che nella sua macchina
fotografica c’erano foto di installazioni militari: e che
perciò — se avesse voluto partire — avrebbe dovuto
consegnargli l’apparecchio. Litigare non era il caso,
perché a quel tempo si poteva finire in una prigione di
Kampala per molto meno d’una lite alla dogana. I minuti intanto trascorrevano, il giornalista rischiava di
perdere l’aereo e di dover aspettare due o tre giorni
per il prossimo. Ma il dollaro, un biglietto da venti lasciato scivolare sul banco del doganiere, risolveva
infine la controversia, che mai e poi mai si sarebbe
risolta se il viaggiatore avesse avuto con sé franchi
francesi, marchi tedeschi o lire italiane: biglietti di
banca che l’ugandese non aveva mai visto, anzi
non aveva mai saputo che esistessero.
E lo stesso negli anni di Mobutu all’aeroporto
di Kinshasa, altra città dove si finiva facilmente in
galera, quando un sergente della polizia fermava il giornalista, lo spingeva in uno sgabuzzino e
lì l’accusava di traffico di diamanti. Le proteste
non servivano a niente, il congolese continuava a gridare: «J’ai l’ordre de vous arrèter, monsieur». E anche qui, senza il dollaro talismano,
sarebbe finita male. Ma un altro biglietto da
venti faceva il miracolo, e dopo averlo intascato il sergente accompagnava il viaggiatore sino alla scaletta dell’aereo profondendosi in una serie di calorosi «Bon voyage,
monsieur».
No, non si sarebbero potuti dare franchi, marchi o lire
ai telescriventisti di Dacca, ai telegrafisti di Delhi, ai telefonisti del Cairo che rifiutavano — ciascuno con un suo
pretesto: il coprifuoco, un guasto della telescrivente, la
mancanza del visto della censura — di spedire gli articoli
o di dare una comunicazione telefonica. Ma qualche dollaro serviva di colpo, come per magia, ad abbattere l’ostacolo. Né si sarebbe potuta ottenere la colazione in camera negli alberghi sovietici, un whisky in Kuwait, un taxi per
raggiungere la piazza Tienanmen durante la rivolta degli
studenti nell’89, un argento vittoriano al mercato cairota
di Khan al Khalili, qualche pacchetto di sigarette non rumene — cioè fumabili — nella Bucarest degli anni peggiori
di Ceausescu, se non s’avesse avuto in tasca l’amuleto,
quel rotolo di dollari tenuti insieme da un elastico.
E adesso che il biglietto verde cede, retrocede, periclita,
viene in mente un’ultima immagine di quella che fu la
sua leggendaria potenza. Le processioni nei paesi del
Meridione d’Italia, trenta o quarant’anni fa, quando
le madonne procedevano portate a spalla, coperte
di dollari attaccati con la carta gommata, dono degli emigrati lontani ma sempre devoti. La banda
suonava, e se il pomeriggio si faceva un po’ ventoso i biglietti verdi tremolavano leggeri lungo il
manto della madonna.
L’ORO
L’EURO
IL DECLINO
Nel 1900 il valore
del dollaro viene fissato
in oro. Il presidente
Nixon, 71 anni dopo,mette
fine alla convertibilità
Dall’avvento dell’euro
nel 2002, il dollaro non
ha fatto che deprezzarsi,
perdendo quasi la metà
del suo valore di scambio
L’euro, dice l’ex capo
della Fed Greenspan,
potrebbe sostituire
il dollaro nelle riserve
valutarie mondiali
Repubblica Nazionale
28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
l’immagine
Cartoonist di culto
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
Milano, anni Sessanta. Osvaldo Cavandoli inventa
per “Carosello” con un segno grafico asciutto e geniale
un personaggio che è il simbolo dell’Italia del boom:
un omino perseguitato da batoste e sciagure ma che
sempre si rialza e ricomincia a andare, andare, andare...
Ora Gallucci pubblica postuma la sua ultima avventura
E la Linea si innamorò
MICHELE SERRA
a Linea di Osvaldo Cavandoli è una delle non poche
eccellenze italiane che
hanno fatto il giro del mondo, ma la bibliografia in
materia è piuttosto risicata, e anche passeggiando per internet
non è che se ne trovi grande traccia. Né
la Linea né il suo autore sono circonfusi dall’aura mitica, “cult” e anche iperculturale che avvolge molti maestri del
fumetto e del disegno animato. Tanto
che qualche misurato e rammaricato
saluto — quando Cavandoli muore, ottantasettenne, pochi mesi fa — lo tratta da maestro “dimenticato”.
In realtà la Linea, se avesse ancora la
parola, potrebbe rivendicare, con la
L
cosa fantasia di disegnatori, progettisti, artisti che in quegli anni lavorano in
strettissimo contatto con la produzione industriale e le aziende, loro committenti. E da queste vengono sollecitati a fornire un surplus di immagine,
una scintilla di qualità che aiuti a rendersi distinguibili, che serva a galleggiare, in pieno boom economico, sull’onda di piena dei consumi di massa.
Molti marchi industriali sono ancora
in fasce, molte fabbriche sono cattedrali di ferro e fiamme piene di uomini
e donne, ma la loro insegna non è ancora accesa nella Broadway dei consumi. La potenza materiale deve diventare comunicazione immateriale,
linguaggio, cultura popolare, colpire l’immaginazione, imprimersi nel nuovo paesaggio del benes-
Un profilo perfetto, un logo da museo,
nato dalla matita di un disegnatore
meccanico dell’Alfa Romeo con poche scuole
alle spalle e a sedici anni già in fabbrica
sua caratteristica e comica animosità,
una storia profondamente differente
da quella del fumetto d’arte italiano o
francese, così letterario, così intellettuale. Cavandoli era un tecnico (anzi
un “tennico”, come si dice nella sua
Milano). Un disegnatore meccanico
nato professionalmente in Alfa Romeo, dove lavorò da apprendista prima della guerra (era nato sul Garda nel
gennaio del ‘20, visse sempre a Milano). Poche scuole alle spalle, a sedici
anni già in fabbrica. Metalmeccanico è
anche il destino della sua Linea, che diventa famosa come testimonial delle
pentole a pressione Lagostina, verso la
fine dei Sessanta, ancora nel pieno fulgore dell’epopea pubblicitaria di Carosello.
Di quella Milano industriale, dagli
umori artistici intensi e lunari, stilizzati e sobriamente eleganti, la Linea (a
partire dal suo nome-manifesto) è una
figlia molto tipica. Il segno asciutto,
spogliatissimo, ottenuto levando e ancora levando (“cavàndoli”, in questo
senso, è quasi un gioco di parole, nonché un nomen-omen…), è parente
stretto del migliore design milanese. Il
tratto di Cavandoli è tipico della sobrietà funzionale ma anche della gio-
sere. In molti lavorano a questa avventura.
La Linea, con il suo incedere perenne (per esistere e per esprimersi ha bisogno di muoversi incessantemente,
come la scrittura, da sinistra verso destra), esprime fortemente, e non saprei
dire quanto inconsciamente, lo spirito
“progressista” della sua epoca. Progressista, ovviamente, non in senso
politico, ma in senso economico-industriale: la Linea è un omino in marcia, una marcia incidentata a scopo
comico ma
una marcia irresistibile. Il
tracciato che
percorre (e dal
quale è formato, stessa sostanza del suo
percorso) ricorda la linea
mutevole
della grafica dei
bilanci
aziendali,
con tanto di discese ardite e di risalite… Ne è, in un certo senso, l’umanizzazione o meglio la “uomizzazione”, è la linea astratta dei grafici economici che improvvisamente, per
mano del demiurgo Cavandoli, si
anima, prende rilievo, assume sembianze umane. Verrebbe da dire che
la Linea, vista in questa chiave, è quasi un alter-Fantozzi, la messa a fuoco
epico-comica di un minuscolo ingranaggio dell’immane meccanismo industriale che si mette in marcia non si
sa per dove, e attraversa baratri e
prende batoste, ed è perseguitato da
folgori e da sciagure, ma come tutti gli
eroi e come tutti i cartoon si rialza
sempre, e ricomincia ad andare, andare, andare…
Negli spot di Carosello (che allora si
chiamavano réclame…), il demiurgo
si ritaglia una parte molto chiara e cosciente. La mano di Cavandoli, munita di penna, irrompe nel video, come
gli déi nei poemi epici, quando la Linea è in difficoltà, e per superare un
ostacolo, o riaversi da una catastrofe,
invoca l’aiuto del suo protettore. È
quasi una parodia michelangiolesca,
con la mano (in carne e ossa) che appare e con il suo dito magico, la penna,
insuffla nuova vita nell’omino. Come
un elettroencefalogramma piatto che
miracolosamente si rianima, la linea
torna ad essere la Linea: si risolleva e si
rimette in cammino.
Il signor Lagostina era un appassionato di arte moderna. Facile immaginare che la pubblicità, per lui e la sua
azienda di pentole, dovesse essere
qualcosa di più di un banale e stentoreo slogan. Carosello, all’epoca, era
organizzato come uno show in piena
regola, una sequenza di brevi siparietti da affidare ad attori, registi, sceneggiatori. La specializzazione pubblicitaria, con i suoi creativi e i suoi scrittori, era ancora ai primi passi, e rivolgersi a un appassionato di cinema d’animazione era una delle
tante vie per arrivare
al pubblico in maniera riconoscibile.
Osvaldo Cavandoli, pieno delle sue
passioni “tenniche”,
bazzicava già da anni
nel cinema d’animazione. Aveva collaborato
con Nino Pagot, pioniere
italiano del settore, e finirà,
anni dopo, ad animare i disegni di Altan per realizzare i “cor-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29
ti” della Pimpa. Per Carosello, quando
Lagostina lo contatta, aveva già realizzato la Mucca Carolina, pupazzo
graficamente non memorabile ma
popolarissimo tra i bambini per via
dei jingle e dei primi gadget che trasportavano dal video alle case i personaggi della pubblicità. (Da bambino
fui il possessore, molto fiero, di almeno una Mucca Carolina di plastica
gonfiabile, di un paio di Calimeri da
tavolo e di un Ercolino Sempreinpiedi da camera. Le figurine Mira Lanza,
da scovare nei fustini di detersivo frugando nel sapone in polvere, restano
comunque il gadget carosellesco più
ambito e indimenticabile: il trofeo era
nel cuore del Prodotto, la pubblicità
era l’anima delle merci che provava a
rivelarsi alla nostra gnosi domestica).
Rispetto all’universo di Carosello,
giocattolesco, fumettistico in senso
molto tradizionale, la Linea è comunque un vero e proprio shock. L’immagine è quasi metafisica, il gioco grafico, nel suo svolgimento appunto lineare e ininterrotto, affascina adulti e
bambini in maniera indelebile. È
quello che si dice volgarmente un’idea geniale. Ma veramente geniale. E
che il genio sia un “tennico”, un disegnatore industriale, un milanese modesto e di poche parole che rimase per
tutta la vita sostanzialmente appartato rispetto a ogni tipo di ribalta, è cosa che aggiunge ulteriore fascino alla
Linea, e colloca Osvaldo Cavandoli in
un’area tutta sua della memoria grafica italiana.
Più sopra mi è venuto da definire
Cavandoli un “non intellettuale”, ma
pensandoci meglio è un errore. Se c’è
una cosa che l’epopea del design milanese ha insegnato, è che i confini tra
produzione industriale e lavoro intellettuale non sono definiti in partenza.
Naturalmente la dozzinalità, nella
produzione di massa, è molto più che
una possibilità: è quasi una condan-
na. Ma le brute esigenze della produzione, il pulsare impaziente della fabbrica, sono un tale macigno che grava
sulle idee dei “creativi”, da renderle
necessariamente rapide, funzionali,
veloci. È quella “velocità milanese”
così spesso e giustamente derisa per
quanto è spiccia e disumanizzante.
Ma quando è invece precisa e insieme
umana, quando trasforma la “tennica” in sapienza e (di conseguenza) anche in quella bellezza carica di pudore che è la virtù nascosta (molto nascosta, purtroppo) di Milano, allora
nascono i maestri assoluti come Bruno Munari, nascono le vetrine di Danese davanti alle quali incollavo il naso da ragazzino studiando le forme
“facili” ma fantastiche di ogni singolo
oggetto, nasce la levità ludica di molto design, nasce la Linea di Cavandoli.
Fissandone i connotati minimalisti
e insieme l’espressività dilagante,
quasi paperinesca nelle rabbie, quasi
donchisciottesca nei silenzi, rimane
però qualcosa di sfuggente e indecifrabile. Possiamo provare a collocarla
nel suo tempo e perfino nella sua città,
la Linea, Milano e gli anni Sessanta, binari del tram, luci al neon, fabbriche
accese (La Linea, secondo me, quando usciva dal disegno saliva su una
Fiat Ottocentocinquanta). Ma non
riusciamo ad afferrare del tutto da
quale foglio, da quale sbarra di
ferro piegata, da quale svolazzo
grafico Osvaldo Cavandoli sia
riuscito a sortire questo personaggio perfetto, questo logo da
museo, perfino più glorioso e certamente più sexy dell’omino coi baffi
della Bialetti. C’è una specie di inspiegabile shining che aiuta l’autore, il
creativo, il creatore a far nascere dal
nulla il suo eroe. Di questo shining noi
italiani siamo piuttosto ricchi, sarà un
luogo comune dirlo ma è davvero il
nostro bene-rifugio, il nostro antidoto contro le varie crisi strutturali, lo
sfascio civico, la gracilità di tante
strutture e infrastrutture. Come per la
Linea, c’è un estro che risolleva quando si precipita, un estro o magari anche solo una gran fortuna o un incoercibile, inspiegabile ottimismo. Il tragitto prosegue, da sinistra verso destra, da un luogo a un altro, il senso opprimente di stagnazione e di fiacca
che ci prende così spesso, ultimamente, non riguarda la Linea, che continua
a camminare pur non sapendo che
cosa la aspetta oltre il margine della
pagina.
CON REPUBBLICA
È nelle edicole, in vendita a 8,90
euro in più con la Repubblica
e L’espresso, il secondo dvd
di Carosello, la raccolta
dei memorabili antenati
degli spot televisivi
Il tratto dell’autore è tipico della sobrietà
funzionale ma anche della fantasia giocosa
dei progettisti che proprio in quegli anni
lavorano a stretto contatto con l’industria
IL LIBRO
Mon amour Linea di Osvaldo
Cavandoli (da cui sono tratte
le illustrazioni delle pagine), edito
da Gallucci, è un libro di 32 pagine
a colori, costa 18 euro e contiene
un dvd con una raccolta di cartoni
animati che hanno Linea
come protagonista. Sarà
in libreria la prossima settimana
Nel libro, Cavandoli - morto pochi
mesi fa a ottantasette anni - racconta
con semplicità e ironia l’amore,
la coppia, la famiglia
Di Cavandoli Gallucci ha anche
pubblicato Mister Linea
e quell’incredibile venerdì 17
e Nella Vecchia Fattoria
Repubblica Nazionale
30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
i luoghi
Visita alla casa-museo di Giorgio de Chirico per ritrovare,
alla vigilia dell’anniversario della morte, le tracce
del suo lavoro, delle sue abitudini, dei suoi tic. E scoprire
Rifugio d’artista
pagine inedite coperte dalla sua fitta calligrafia con poesie,
brani di romanzi, lettere contenenti riflessioni
sulla sorgente nascosta della sua straordinaria pittura
DOCUMENTI MAI VISTI
Qui accanto, alcuni dei documenti inediti
che pubblichiamo per gentile concessione
dalla Fondazione Giorgio e Isa de Chirico
Da sinistra, la poesia Voyage dans la nuit;
la poesia Hommage à Isa in versione
diversa da quella nota; la poesia L’Italie;
una pagina del romanzo Il sig. Dudron
De Chirico, i versi segreti
LAURA LAURENZI
E
ROMA
ntri in casa sua quasi in punta di piedi.
Lui, si sa, è uno che mette in soggezione. Burbero, pieno di sé. Hai come
l’impressione che il maestro stia al
piano di sopra, chiuso nel suo atelier a dipingere,
con le finestre sprangate e la luce lattea che scende dall’alto, dal lucernario sul soffitto. Ti viene
spontaneo parlare sottovoce, mentre ti dicono:
prego signora, si accomodi in salotto.
Tutto è rimasto com’era. Casa Museo di Giorgio
de Chirico, nel cuore del cuore di Roma: piazza di
Spagna numero 31, guardando la scalinata il portone sulla destra, il seicentesco Palazzetto dei Borgognoni. Lui occupava gli ultimi tre piani: uno per
vivere; uno per dormire, sognare i suoi quadri e dipingerli; l’ultimo per la servitù, come si diceva ai
suoi tempi. Due terrazze con una vista panoramica a 360 gradi che ti accieca, sette balconi affacciati
sulla Barcaccia e sull’obelisco con la statua dell’Immacolata, il brusio dei turisti che sale dal basso. «Dicono che Roma sia il centro del mondo e
che piazza di Spagna sia il centro di Roma», scrisse in Memorie della mia vita, «io e mia moglie
quindi si abiterebbe nel centro del centro del
mondo, quello che sarebbe il colmo in fatto di centrabilità ed il colmo in fatto di antieccentricità».
La casa, quando nel 1947 de Chirico e la sua seconda moglie Isabella Pakzswer vi andarono ad
abitare, versava in condizioni disastrose: «In alcune stanze ci pioveva persino dentro», annotò l’artista, «ed erano piene di scarafaggi d’ogni grandezza e d’ogni colore». Valse la pena restaurarla: il
pictor optimus vi abitò per trentun anni, fino alla
morte, avvenuta il 20 novembre del 1978. Da nove
anni è diventata un museo, la sua galleria privata:
alle pareti i quadri che già c’erano, una sessantina,
tutti del maestro. Ogni stanza — anche i bagni, anche le camere da letto — è rimasta com’era, con
l’unica eccezione della cucina, trasformata in ufficio, con i fax, i computer, l’archivio della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico. Pochi e colti i turisti, prevalentemente non italiani. La visita è su appuntamento e va prenotata (06 6796546). Costa
cinque euro e li vale fino all’ultimo centesimo.
Per terra i tappeti persiani originari, solo la guida
rossa è un’innovazione. Nel primo dei tre salotti,
tappezzato di ritratti della severa moglie-manager
(Isabella come Najade, Isabella signora alto borghese in pelliccia di leopardo, Isabella nei panni di una
dama rinascimentale, Isabella desnuda) c’è la poltrona preferita da de Chirico, isolata, rivestita da una
sobria copertina di cotone grigio. È qui che de Chirico dopo cena guardava la televisione fumandosi un
mezzo sigaro toscano. Il suo programma preferito
era Carosello, il suo vezzo era mettersi davanti al televisore azzerando l’audio, anche quando c’era il Festival di Sanremo, come fosse un acquario.
Ecco i quadri del periodo barocco e quelli del periodo neometafisico, disseminati di enigmi e di rebus, gli autoritratti in abiti del Seicento che de Chirico si faceva prestare dal Teatro dell’Opera, i mariparquet, i manichini archeologici, gli oracoli intabarrati, le sibille allarmanti, i minotauri pentiti. Il Ritorno del figliol prodigo è uno degli ultimi: aveva ottantasette anni quando lo dipinse, morì a novanta.
Una fuga di salotti, gran divani di velluto a quattro
posti, tende pesanti, damaschi pomposi, mobili anni Cinquanta, lampadari solenni di cristallo o di vetro soffiato, caminetto sormontato da una battaglia
di gladiatori. Ecco il carrello dei liquori con ancora le
bottiglie originali piene a metà: il Punt e Mes, che era
il suo preferito, la Grappuva Fabbri, un amaro al tartufo di Norcia. La camera da pranzo, con il tavolo ro-
tondo allungabile di mogano tirato a lucido, contiene oltre agli argenti un’impressionante collezione
di nature morte, che lui preferiva chiamare vite silenti: ananas ma con l’Apollo del Belvedere sullo
sfondo e il mar Egeo, cedri e mele cotogne su cui vigila con gli occhi vuoti Pallade Atena.
Per accedere al de Chirico segreto bisogna salire
al piano superiore. Le due camere da letto si fronteggiano: quella di Isabella è più ampia, ha un letto
matrimoniale damascato e un tavolo basso con portacipria, spazzole, rossetti e flaconi di vecchie eau de
toilette come “Magie noire” allineati davanti allo
specchio. La finestra, munita di sbarre, affaccia sul
retro: il “retro” è la scalinata di Trinità dei Monti in
tutto il suo fulgore e nelle sue geometrie barocche,
le rampe, l’obelisco, l’ingresso del salotto di Maria
Angiolillo. Stessa vista per il maestro, ma la sua camera da letto è la vera sorpresa della casa: un loculo, la cella di un monaco, lo scompartimento di un
vagone letto, minuscola, bianca, spoglia, ascetica.
Pochissimi oggetti, qualche libro ingiallito come
Kandinsky und Ich, un modellino alto un palmo della Pietà di Michelangelo, e un lettino che sembra
quello di un ospedale, quasi un giaciglio.
In fondo al corridoio l’atelier. Più che un atelier,
l’antro dell’alchimista. Ecco su un tavolo una bilancia, un fornello, ciotole, pestelli, ampolle, spatole,
pennelli, polveri misteriose con cui de Chirico, per
lunghi anni, rischiando anche di intossicarsi, si faceva i colori da solo. Ed ecco due tavolozze ancora
incrostate, la scatola con i carboncini, i pastelli a cera spezzati, i Caran d’Ache, la cassetta coi tubetti di
colore a olio semispremuti e un vecchio santino di
Padre Pio sul coperchio. Su una sedia è appoggiato
il camice grigio scuro del pittore: è sporco, sembra
se lo sia appena tolto.
«Nella mia casa di piazza di Spagna ho pure un
magnifico studio, che sta al quinto piano», scrisse
sempre nelle Memorie della mia vita, «dalla terrazza del mio studio vedo spesso splendidi spettacoli
celesti, cieli tersi e cieli caliginosi, tramonti infuocati, notti di luna ed effetti notturni con le nubi cerchiate di giallo pallido, come in certe marine di
maestri olandesi e fiamminghi. Io sono sempre
pronto con matite e colori...». Eppure le tende restavano quasi sempre chiuse, come oggi. «Bisogna
dipingere quello che non si vede», amava ripetere
de Chirico. Su due cavalletti due quadri ancora in
lavorazione: una copia del Tondo Doni di Michelangelo lasciata a metà e una grande tela tutta grigia su cui cominciava a prendere forma il profilo di
una donna nuda sdraiata. Sul retro, appesi al legno
dell’intelaiatura, amuleti di ogni tipo: corni, gobbi,
ferri di cavallo, il campanaccio di una mucca. L’a-
“Caro Apollinaire, le spiego
l’essenza della mia arte”
GIORGIO DE CHIRICO
Pubblichiamo due brani tratti da due lettere inedite di Giorgio de Chirico al poeta Guillaume
Apollinaire. La prima è datata 26 gennaio 1914; la seconda è di poco successiva. Le trascrizioni di entrambe sono conservate presso la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico
o ricevuto il vostro bigliettino; non mancherò venerdì prossimo di venire da voi alle
tre. Spero quel giorno di avere il piacere di passare con voi il pomeriggio e la sera. Mia
madre e mio fratello desiderano molto fare la vostra conoscenza e per questo vi pregherei di venire a cena da noi. Vorrei sapere quali sono le pietanze che preferite. Cercherò di
venire da voi mercoledì, ma se ne fossi impedito siate così gentile da avvertirmi con un biglietto per dirmi se accettate di cenare e che cosa preferireste mangiare. È questa una cosa assai importante, come fa osservare Nietzsche in Ecce Homo, e non vorrei in alcun modo che si
facciano dei piatti che possano dispiacervi.
Ho costruito in questi ultimi tempi dei quadri che mi hanno causato gioie purissime.
***
Vi porterò uno di questi giorni L’énigme d’une journée [attualmenteal MoMA di New York,
ndr]; per il quadro di mademoiselle Laurencin ho pensato oggi al titolo Mystère d’un moment
perché le varie cose che vi sono rappresentate appaiono in tutto l’imprevisto di certi momenti
in cui l’essenza intima degli oggetti ci appare in tutta la sua realtà metafisica. La somiglianza
che c’è tra l’immaginazione che ho e le cose come appaiono nella vita può essere comparata
alla somiglianza che c’è tra la fisionomia di una persona come la si vede in sogno e la fisionomia della stessa persona nella realtà; è e nello stesso tempo non è la stessa persona.
Sono convinto perciò di avere mostrato un nuovo cammino in arte.
H
Più che un atelier, la stanza al piano superiore
dell’appartamento di piazza di Spagna
è l’antro di un alchimista: una bilancia,
un fornello, ciotole, pestelli, ampolle, polveri
raldo delle Muse Inquietanti era superstizioso.
Piccola e modesta la scrivania. Sopra, alla rinfusa su un panno, la sua collezione di pipe. Anche la
grande foto in cornice del fratello Alberto Savinio,
con una scritta a mano: bisogna guardare alla tomba come si guarda in una culla. Li chiamavano i due
Dioscuri: a Roma si frequentarono poco, ruppero
per motivi mai chiariti, le mogli non andavano
d’accordo, i critici d’arte li avevano quasi messi uno
contro l’altro. Ma quando nel ‘52 Savinio morì, il
fratello gli depose una corona d’alloro sul capo e da
quel giorno, per i ventisei anni che gli restarono da
vivere, portò (quando doveva mettersela) una cravatta nera in segno di lutto.
Sulla scrivania sono appoggiati anche la feluca e
lo spadino che de Chirico sfoggiò quando entrò a
far parte dell’Accademia di Francia, fra gli immortali, nel 1974. «Lo accompagnai a Parigi in quel viaggio. L’ambasciatore italiano non intervenne neppure alla cerimonia. A livello ufficiale de Chirico veniva ignorato: basta pensare che quando morì, nel
1978, Giulio Carlo Argan non andò neppure ai suoi
funerali, né come sindaco di Roma, né come critico d’arte», ricorda Toni Porcella, il gallerista che gli
organizzò le ultime due mostre e che siede nel consiglio d’amministrazione della Fondazione. «Era
un amico di mio nonno, è stato mio testimone di
nozze, si presentò in chiesa con due disegni arrotolati sottobraccio. Dicono che ci somigliamo, Sgarbi sostiene addirittura che sono suo figlio naturale,
ma è solo una battuta. Ho avuto il privilegio di poterlo frequentare. Mi chiedeva spesso soldi, ma in
modo paradossale. Mi faceva trovare certi biglietti
minatori scritti sui tovagliolini di carta del Caffè
Greco: se non mi consegnerà la cifra di cento milioni in contanti entro mezzogiorno le farò saltare
la galleria con una potente carica di tritolo. Scherzava, come quando al ragazzino che gli chiedeva un
autografo diceva: dammi prima cinquanta lire.
Avevano, lui e la moglie, la fama di essere tirchi. Non
è così, in realtà facevano beneficenza ma non volevano che si sapesse. Gli piaceva il lusso un po’ pomposo: sognava di vivere all’Hotel Plaza di Roma o al
Danieli di Venezia».
Fuori dalle mura domestiche si calava nella parte dell’artista-vate, del genio compreso, narciso e
superuomo, anarchico moderato come gli piaceva definirsi. Tutte le mattine verso mezzogiorno
(«gli uomini di genio devono dormire molto», ripeteva) andava prima al Baretto di via Condotti e
poi al Caffè Greco. «Il Caffè Greco è l’unico posto
dove ci si può sedere e aspettare la fine del mondo», decretò. «Spesso pagava la consumazione
con un disegnino su un tovagliolo per il cameriere da cui si faceva anche dare un po’ di resto. Emanava carisma, sembrava uscito da un suo quadro»,
racconta Gianni Battistoni, presidente dell’Associazione Via Condotti. A una signora che gli chiese posso chiamarla maestro? rispose: chiamami
Peroni, sarò la tua birra. Se gli domandavano cosa
pensava di questo o quel pittore, diceva sempre:
segreto professionale. Marta Marzotto, per un
lungo periodo sua dirimpettaia in piazza di Spagna, lo ricorda in pigiama, la sera, affacciato a uno
dei suoi balconi, a sbirciare le feste che la contessa dava a casa sua: «Da me c’erano Renato Guttuso, Parise, Moravia, Nico Naldini. De Chirico, di
fronte, guardava, guardava, facendo finta di non
guardare».
Per il trentennale della morte, l’anno prossimo,
si prepara una grande mostra che sarà curata, come il catalogo, da Achille Bonito Oliva. Ci saranno
quadri di de Chirico ma anche opere di artisti a lui
collegati. Nei giorni scorsi, il 31 ottobre, si è inaugurata a New York, alla Fondazione Onassis, la mostra Giorgio de Chirico e la Grecia, viaggio attraverso la memoria. Resterà aperta fino al 6 gennaio.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31
FOTOMONTAGGIO
L’illustrazione di questa
pagina è un montaggio
di alcune foto scattate
da Mimmo Frassineti / Agf
nella casa-museo
di Giorgio de Chirico
su alcune opere
del pittore,
un Autoritratto
e Interno metafisico
con biscotti
Repubblica Nazionale
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
Caselle vuote come lacune da riempire, parole sulla punta
della lingua, frammenti dispersi di attività neuronale
che cercano posto in una griglia di numeri e definizioni
Che cos’è questo gioco così popolare e così raffinato, così diffuso e così intimo?
CULTURA*
Da due generazioni una famiglia vive e respira enigmistica. Uno di loro
ha cercato di dare un senso a questa storia con un libro: “L’orizzonte verticale”
C
R
PAROLE
C
I
A
T
E
Il pensiero minore
del Novecento
STEFANO BARTEZZAGHI
a storia del cruciverba e della sua invenzione non incomincia nel vuoto, bensì in
un luogo assolutamente affollato, e anche
caotico: un luogo in cui non è facile orizzontarsi. Si tratta di un quadro immaginario, una tela o più probabilmente un affresco che ritrae gli uomini e le donne che hanno percorso
— se non “fatto” — il Ventesimo secolo: il Novecento.
Gli individui che compaiono nell’opera non portano
i volti di personaggi storici — Adolf Hitler, Mick Jagger,
Margaret Thatcher, Padre Pio. Il pittore ha avuto l’idea
di rappresentare non gli individui ma le categorie umane, e così troviamo raffigurati il giocatore di golf, la panettiera, il metalmeccanico, l’evasore fiscale, la babysitter, il baby-pensionato, l’ubriacone, la ciclista: ognuno rappresenta una figura professionale, una classe sociale, uno stato civile, ma anche uno sport, un hobby,
una condizione transitoria, a volte uno stato d’animo.
A saperlo cercare, in questo affresco sterminato e pullulante si trova anche l’uomo che risolve il cruciverba,
con la sua attitudine a ripiegarsi in sé e con il suo ideale
anonimato. È seminascosto ma la sua posizione nel
quadro non è molto distante dal centro. Ha un giornale
ripiegato in una mano, è seduto su un seggiolino e poggia il braccio con il giornale sulle ginocchia. Con l’altra
mano tiene una matita di quelle che hanno la gomma
sul capo opposto alla punta: più un’idea di gomma che
una gomma effettivamente funzionante, anche perché
durante questo momento di indugio la mano ha portato la gomma alla bocca, e il solutore di cruciverba (sicuro di passare come al solito inosservato) ci sta giocherellando con i denti. Potrebbe trattarsi di una donna, e al-
L
lora avrebbe un contegno più composto, il giornale sarebbe meno spiegazzato, l’aria pensosa un po’ più ironica.
La sua posa potrebbe parere un’imitazione, certo assai meno intensa, di quella della famosa scultura del
Pensatore di Rodin. A cosa pensava, del resto, il Pensatore di Rodin? Nel progetto dello scultore quell’uomo
con la fronte appoggiata sulla mano doveva essere Dante, in meditazione alle porte dell’Inferno: è rimasta una
posa che però oggi non è molto comune. Il nostro solutore, la nostra solutrice non condividono tutta quella solennità: ma è anche vero che nel quadro del Novecento
non ci sono molti altri personaggi intenti in un pensiero. C’è un filosofo che scrive e uno che parla, ci sono molti religiosi (di diverse specie, confessioni e ranghi) che
pregano, uno studioso che legge, uno scienziato che
traffica in laboratorio, un appassionato di yoga che medita, ma nessuno di questi riproduce la postura che pure, desueta come è, continua a essere ritenuta tipica del
pensiero. È una postura che, anzi, sembra essersi beffardamente spostata a caratterizzare certi pensatori minori: lo scacchista, il compilatore della schedina, uno
scolaro che si lambicca per scrivere un tema, il concorrente che “si concentra” sulla domanda fatale del telequiz; ovvero certe assenze di pensiero: l’uomo disperato per amore, l’agente finanziario seduto su un gradino
a Wall Street nel crepuscolo di un Venerdì Nero, il pescatore in attesa, il saltatore prima della rincorsa; o infine certe parodie di pensiero: il pendolare attonito in metropolitana, la ragazza che dorme in biblioteca, lo stitico in bagno.
Parrebbe quasi che i pensieri più importanti di quel
secolo siano arrivati da sé, come uccelli attratti da uno
spargimento di miglio su un sagrato.
Nessuno si figurerebbe più l’attività del ricercatore,
dello scrittore, del filosofo come una speculazione avvenuta nel silenzioso isolamento di un pensatoio. Lo
scienziato è un ricercatore di fondi per la sua ricerca, lo
scrittore frequenta eventi in cui tramandare la leggenda
della genesi della sua scrittura, il filosofo è un professore che parla dalla lavagna o in un cenacolo di allievi: l’esperienza del pensiero — quando avviene — non avviene in un luogo e in una modalità propri. I pensieri cercati, i pensieri elaborati, i pensieri che hanno richiesto la
posa del pensatore erano altro: lacune da riempire, parole sulla punta della lingua, frammenti dispersi di attività neuronale.
Per quanto se ne capisce dal quadro, colui, colei che
pensa al cruciverba potrebbe essere seduto sullo strapuntino di un treno o di una metropolitana, o su una seggiola da mare, o nella sala comune di un ospedale. Quello potrebbe persino essere il primo cruciverba, nella vita linguistica di quella persona: e allora c’è caso che la sua
perplessità sia davvero vasta, e investa il gioco stesso.
Cosa sono queste caselle? Cosa significano questi numeri? Cosa significa orizzontali? E verticali? (per molti
italiani la parola orizzontali e la parola verticali hanno
costituito il primo enigma da risolvere: sono state le prime parole che il cruciverba ha fatto imparare loro).
Da dove si comincia? Pochi incominciano a giocare
leggendo i manuali: forse nessuno. Il più delle volte ci si
ispira all’esempio dato da altri, o affrontando direttamente il gioco capendolo a mano a mano che si procede:
anche i bambini che apprendono la lingua madre, e poi
gli adulti che imparano una seconda lingua, spesso sono
portati a giocare con le parole che stanno imparando più
di quanto non capiti a chi la lingua la domini già. Se il nostro solutore, la nostra solutrice fa parte della schiera di
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
Un popolo
di cruciverbisti
EDMONDO BERSELLI
ssorto, pacifico, tollerante, il “popolo” dei cruciverba prospera dappertutto, negli scompartimenti ferroviari come nelle sale d’attesa, negli ambulatori medici come in sala professori; e naturalmente in molte poltrone in molti salotti. Sempre ammesso che si possa
definirlo “popolo”, è chiaro. In quanto categoria sociologicamente generica, il popolo è un tutto; mentre i solutori di
parole crociate sono una realtà puntiforme, un’entità diffusa a macchia di leopardo, una specie di diagramma a dispersione nella società tutta.
Li si riconosce, in pubblico, innanzitutto per una certa ritrosia. Non basta la presenza della Settimana enigmisticaper
fare il cruciverbista, e neanche qualsiasi altra rivista di giochi
solitari. Ci vuole una psicologia, uno stile, la capacità di immergersi nella propria modesta ma sempre nuova liturgia.
Occorre anche quel tanto di lieve e scostante pudore che scoraggia gli altri dall’interessarsi alle definizioni e ai processi cognitivi innescati dalle orizzontali e dalle verticali.
Dopo di che, il cultore di quella semplice arte sarà uno
qualsiasi: il cruciverba è una pratica interclassista, che rifiuta le distinzioni per censo o le spaccature del bipolarismo. Perché non appena si entra a far parte di quella categoria (anche qui: ammesso ma non facilmente concesso
che si tratti di una categoria), scatta un meccanismo che privilegia la competenza, ovvero la rapidità e la congruenza
delle associazioni mentali, la capacità di
raschiare il fondo del proprio archivio
mnemonico, e soprattutto quell’impalpabile tecnicalità enigmistica che consiste nell’incasellare centinaia di definizioni, molte di esse a loro modo “classiche”, fondate su principi omogenei,
matrici di altre definizioni riconoscibili
e quindi deducibili e decifrabili.
Al fondo della maggiore o minore bravura nel risolvere le parole crociate, vale uno schema: cioè che la preparazione
di cultura generale serve a qualcosa,
cioè si trasmette anche alla soluzione IL LIBRO
delle definizioni, ma non è affatto deci- L’orizzonte verticale
siva; mentre è risolutiva piuttosto la (388 pagine, 24 euro)
specializzazione cruciverbistica. Ciò di Stefano Bartezzaghi,
vuol dire che un luminare, un intellet- è edito da Einaudi
tuale, un barone universitario, uno e sarà in libreria
scienziato, un enciclopedista, potrebbe martedì prossimo
essere facilmente battuto, se non pos- È il primo libro italiano
siede i fondamentali del puzzle, da un interamente dedicato
anziano signore con la quinta elemen- al cruciverba
tare che invece padroneggia da anni tut- e alla sua storia,
te le tecniche, le sofisticazioni, le trap- che comincia
pole, le citazioni, le mitologie e le agu- quasi un secolo
dezas di cui sono cosparse le caselle nu- fa nella New York
merate dei cruciverba.
degli anni Dieci
Cosicché la scienza del cruciverba è
una conoscenza largamente “celibe”,
che a nulla serve veramente se non a risolvere altri cruciverba. Per questo il volto del cruciverbista si illumina talvolta di un leggero sorriso allorché risolve
un joke, o evita un tranello, oppure riconosce una definizione incontrata magari anni prima: è sempre un piccolo
trionfo, quando la risposta del solutore intercetta la trovata del definitore e le dà scacco.
Poi naturalmente occorre intendersi. Tranne che per i costruttori di cruciverba, le parole crociate costituiscono uno
svago. Democratico, alla portata di tutti, non nevrotico, e
anzi blandamente rassicurante, perché ciascuno può trovare il livello di difficoltà che gli si attaglia. E dunque, se ciascuno è l’artefice della propria fortuna, ossia del cruciverba
che riesce a completare, il mondo si conforma secondo gerarchie non troppo conflittuali, componendo un ordine
non lontano dalla perfezione. Il popolo dei cruciverbisti si
rivela un universo di individui: tuttavia capaci di riconoscersi al primo sguardo, al primo dubbio, al primo gesto vittorioso quando la matita riempie le ultime caselle.
A
chi ha già superato i modesti ostacoli proposti dalle regole del cruciverba, e ha esaurito una volta per tutte l’aspetto «grammaticale» del suo compito, allora è molto
probabile che stia semplicemente risolvendo. Ha letto
una definizione e sta cercando di scioglierne il mistero.
Prova a scandagliare la memoria alla ricerca di una nozione che al momento non pare disponibile. Prova a
scandagliare quella memoria particolare in cui sono riposti gli altri cruciverba risolti, perché le nozioni non
provviste dalla scuola o dalle altre fonti della cultura personale a volte sono fornite dalla memoria enigmistica
(senza il cruciverba quanti conoscerebbero il fiume
Aar?) O forse sta guardando lo schema, contando una sequenza di caselle, considerando gli incroci, ripassando
mentalmente l’alfabeto per riempire magari una sola casella ancora in bianco. Il colosso di? Manca solo l’iniziale, e allora bisogna fare tutto il giro, Aodi, Bodi, Codi, Dodi, Eodi, Fodi, Godi, Hodi, Iodi, Jodi, Kodi, Lodi (il Colosso di Lodi?), Modi, Nodi, Oodi, Podi, Qodi, Rodi… E se
quella casella bianca si incrocia con una «Grossa ondata», allora avremo un maBoso, maCoso, maDoso… o un
maRoso?
Il pensiero minore è almeno in parte calcolo. Ci sono
stati filosofi come Charles S. Peirce o scrittori logici e paradossali come Lewis Carroll che hanno costruito complicati sistemi grafici che avrebbero dovuto permettere
di calcolare sillogismi. Il cruciverba è un grafo che non
combina pensieri ma singole lettere. È solo un gioco,
non svela verità universali, ma in compenso funziona
perfettamente e lo zelo con cui il solutore lo affronta pare quasi un accanimento di verifica, il tentativo di trovare il nodo fasullo del tappeto, la magagna che smentisca
il funzionamento perfetto della vana macchina cruciverbistica.
Inutilmente invece si cercherebbe in
questo quadro traccia dell’autore di cruciverba. Costruire cruciverba
è una strana attività, che richiede di spezzare le
parole, rompere i vincoli invisibili che normalmente saldano lettera a lettera, ordire intrecci scrivendo e cancellando, scrivendo e cancellando, scrivendo e cancellando, evocare fiumi asiatici in combinazione con atti notarili, avverbi lievemente desueti e valenti soprani…
Questa attività viene svolta da persone che sfuggono alle categorie. Nessuna raffigurazione riesce a conferire
dei tratti “tipici” a questo enciclopedista bizzarro, che si
annoia dell’ordine alfabetico, lo surroga con il cesello di
un rompicapo e sarebbe imbarazzato da qualsiasi frequentazione intellettuale. Fra coloro che hanno fatto
questo singolare mestiere non ce n’è uno che assomigli
all’altro: si comincia con un giornalista inglese trapiantato a New York, si prosegue con una segretaria americana e ci si sperderà in una piccola folla di persone diverse (solo in Italia: il nobile possidente terriero sardo, il
cappellaio ferrarese, il portinaio di Mantova, lo scultore
di Carrara, il perito chimico lombardo…) tutte già rappresentate nel Quadro del Novecento ma solo per altri
versi. «Autore di cruciverba» non è una categoria: è solo
un’evoluzione possibile della categoria del solutore. E
forse — la terza è anche l’ultima possibilità che gli lasciamo — il solutore raffigurato nel Quadro del Novecento sta appunto pensando di costruire un suo proprio
cruciverba, e di passare dall’altra parte della griglia.
© 2007 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
SCHEMA LIBERO
Dall’alto,
il primo numero
della Settimana
enigmistica del 1932;
la Domenica
dei giuochi del 1936;
La settimana
comunistica
del maggio 1953;
L’ora enigmistica
dell’agosto 1946;
la copertina
del manuale
cruciverbistico
di Toddi del 1925;
Rabano Mauro,
De laudibus
Sanctae Crucis
Repubblica Nazionale
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la lettura
Verità scomode
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
Una famiglia sconvolta dal dolore di una perdita
Un bambino che lotta per non dimenticare
Un uomo che consuma la sua vita per far tornare
un conto che non torna. È uno dei racconti inediti,
ora in arrivo in Italia, del messicano
Guillermo Arriaga, lo scrittore dietro a film come
“Amores Perros”, “21 grammi” e “Babel”
Storia di un fratello
e una sorella
dal viso cancellato
Q
GUILLERMO ARRIAGA
uandocompii sei anni mi fecero una festa. Era un sabato, lo so perché ho controllato adesso il calendario di quell’anno. Quel giorno lo rammento a sprazzi.
Ricordo vagamente alcuni miei compagni delle elementari che non ho più
rivisto e di cui confondo i nomi. Ricordo un pagliaccio chiassoso, una pignatta a forma di astronave
spaziale, verde con dei nastri di seta rossi sulle punte, e un dolce di vaniglia con la glassa di cioccolato.
Ricordo mia madre che applaudiva, mio padre che
tirava la corda della pignatta, le zie di Sinaloa che mi
salutavano con un bacio e i nonni che mi regalavano qualcosa di giallo. Ricordo il mio cane legato al
tronco del fico, che abbaiava ai bambini che gli correvano intorno. Ma soprattutto ricordo Laura, la
mia sorella minore, con indosso il pigiama, affacciata alla finestra della sua stanza, che ci guardava
rompere la pignatta masticando una canna da zucchero. Aveva pianto tutta la mattina perché non le
avevano permesso di venire alla festa: da tre giorni
aveva febbre e dolori muscolari.
Una settimana dopo, dalla stessa finestra, osservai i miei genitori che la avvolgevano in una coperta azzurra e la facevano salire in macchina per portarla in ospedale. Fu l’ultima volta che la vidi.
Il martedì o il mercoledì seguente — la memoria
è impalpabile e m’impedisce di ricordare con
chiarezza — fu mia nonna, e non mia madre, che
venne a prendermi a scuola. Parlò qualche minuto con la professoressa e poi mi portò a casa sua.
Durante il tragitto mi disse che Laura era malata,
Infine il silenzio
si estese anche al resto
della famiglia
Sembrava che Laura
non fosse mai esistita
che i miei genitori dovevano badare a lei e che presto sarebbe guarita. Mentiva: mia sorella era morta qualche ora prima.
Restai da mia nonna quattro giorni, poi altri quattro con zia Carmina e altri tre a casa di zio Pablo. Nessuno di loro tornò a parlarmi di mia sorella. Neanche i miei genitori quando mi chiamavano al telefono. In tutto quel periodo non tornai a scuola. Passavo le mattine insieme a Beatriz, la più giovane delle
mie zie, che spesso interrompeva i nostri giochi per
guardare assorta un punto fisso.
La sera zia Carmina e zio Pablo mi portavano a
mangiare il gelato, oppure alle giostre o a fare acquisti, cercando sempre di distrarmi con una falsa
allegria. Non capii bene cosa stava accadendo finché non tornai a casa e scoprii l’assenza di Laura e di
tutto quello che la ricordava. Mancava tutto di lei: la
sua voce un po’ rauca, i suoi sorrisi, la sua andatura
irrequieta, i mobili della sua stanza, le sue tende rosa, le sue bambole, le sue scatole di dolci, i suoi vestiti, i suoi disegni fatti a matita. E mancavano, soprattutto, le sue fotografie. In casa non rimase alcuna traccia sulla sua esistenza: i miei genitori avevano deciso di disfarsi del mondo della figlia morta.
Dopo qualche tempo, smisero perfino di pronunciare il suo nome. Alle domande su di lei, i miei
genitori rispondevano farfugliando parole incomprensibili, per poi cambiare subito argomento. Infine il silenzio si estese anche al resto della famiglia.
Sembrava che Laura non fosse mai esistita.
Quanto a me, la sua scomparsa mi pesò profondamente. Mi mancava, soprattutto di sera, quando
giocavamo a nascondino, o con le macchinine, o a
vestire e svestire le bambole, o con le pistole ad acqua. Malgrado la differenza di sesso ci capivamo bene ed era raro che litigassimo.
All’inizio i miei genitori fecero uno sforzo per alleviare la mia solitudine. Mi leggevano delle fiabe o
mi portavano al cinema. Poi le loro ferite li fecero
chiudere in se stessi e poco a poco mi abbandonarono, fino a trascurarmi del tutto. Le sere si trasformarono in un silenzioso scorrere delle ore, che mi
tediava e mi angosciava.
Il mio ricordo di Laura prese a scolorire e cominciai a dimenticare i suoi lineamenti, i suoi gesti, il
suo modo di guardare. Il suo viso svaniva dalla mia
mente e non c’era neanche una fotografia per recuperarlo. La sua immagine si ridusse essenzialmen-
te a un unico momento: quello in cui, avvolta in una
coperta azzurra, partiva verso l’ospedale. Furono
giorni difficili, che adesso considero come i più
amari della mia vita. Mi avrebbe aiutato molto, in
quel frangente, avere l’opportunità di salutarla, di
parlare con lei, di giocare con i suoi giocattoli fino a
renderli inservibili, di darle un bacio nella bara. I
miei genitori pensarono il contrario e togliendomela di netto mi lasciarono senza niente a cui afferrarmi. Non mi dissero neanche il giorno esatto
della sua morte, né la causa. Rimasi con l’idea che
gli uomini fossero troppo schiavi della morte.
Una sera, mentre giocavo in salone, misi la mano tra i cuscini di un sofà, in cerca di una monetina
che era scivolata in fondo. Trovai la testa di una piccola bambola, che un tempo era stata la preferita di
mia sorella. Mi sentii tristemente felice. Senza volerlo, Laura aveva lasciato una sua traccia, che violava il sequestro protettivo dei miei genitori.
Cominciai a frugare per casa e trovai un ciuccio
impolverato sotto il frigorifero, una pantofola in
fondo all’armadio a muro e un suo disegno tutto
stropicciato tra gli arnesi arrugginiti di mio padre.
La mia archeologia fraterna, seppure con pochi
reperti, mi permise in qualche modo di incontrarla ancora.
Sette mesi dopo la sua morte, mia madre annunciò a una cena di famiglia di essere incinta. Mia nonna la abbracciò e mio padre brindò con i miei zii.
Quanto a me, la notizia mi fece infuriare: la presi come un atto sleale dei miei genitori nei confronti
miei e di Laura.
La gestazione di mio fratello Javier abbondò di
cure e attenzioni fin dal principio. Alla prima avvisaglia di malessere, mia madre si metteva a letto facendosi viziare tutto il tempo da mio padre e da mia
nonna. Io risentii di quella gravidanza troppo vigilata, che mi rubava ulteriormente l’affetto materno.
I nove mesi trascorsero senza complicazioni e il
parto avvenne in modo normale. I miei genitori, lo
capisco ora, considerarono la nascita di Javier come un’opportunità per superare la perdita della figlia. Così Javier crebbe sotto il segno di un’assenza
che causava ancora paura e dolore, e che fece di lui
un bambino superprotetto e insicuro.
Presto maturai una rivalità cieca e smisurata nei
confronti di mio fratello. Non perdevo occasione di
infastidirlo, interrompendo bruscamente il suo riposo pomeridiano, rompendogli i giocattoli o anche solo pizzicandolo sulle gambe. Lo facevo sempre di nascosto, per non essere sorpreso dai miei
genitori. Quando mi scoprirono mi castigarono
con durezza e mi proibirono di avvicinarmi a lui, il
che non fece che aumentare la mia gelosia nei suoi
riguardi.
A tre anni, Javier era diventato un bambino capriccioso e ipersensibile, che piagnucolava alla minima provocazione. Spesso lo paragonavo a Laura,
e dal confronto usciva sempre perdente. Laura me
la ricordavo tranquilla e dolce, mentre Javier semplicemente non lo sopportavo. La mia guerra personale contro di lui cessò quando nacque Martín,
l’altro mio fratello. All’epoca ero già un bambino di
undici anni e non m’interessava più infastidirne
uno di quattro. Inoltre l’attenzione intorno al nuovo nato consentì a Javier di liberarsi un po’ delle
premure asfissianti dei miei genitori, e il suo carattere divenne meno conflittuale. O almeno cessarono i suoi improvvisi scatti di rabbia, che tanto m’irritavano. Martín si dimostrò simile a Laura sotto
molti aspetti. Come lei aveva i capelli ricci e le gambe leggermente arcuate. Il temperamento era quasi identico, con un gusto del pericolo che gli faceva
fare cose assai rischiose per un bambino, come saltare giù dal letto a castello o accarezzare cani sconosciuti. Non riuscii mai ad andarci d’accordo:
avevamo troppi anni di differenza.
Sia Martín che Javier crebbero senza un’idea
chiara di Laura. Più che una sorella, Laura era un’astrazione, un essere che si era volatilizzato in una
fase remota della storia familiare. Non c’era niente
che li unisse a lei. Non bastava aver condiviso lo
stesso buco dentro le viscere materne, aver succhiato la vita dagli stessi capezzoli, avere il suo stesso sangue. No, per loro lei era appena una frase, una
descrizione avvolta nella nebbia.
L’ingresso nell’adolescenza inasprì il mio carattere. Litigavo continuamente coi miei genitori, ai
quali in fondo non perdonavo il modo in cui avevano sradicato il ricordo di mia sorella. Mi faceva
rabbia che festeggiassero i compleanni dei miei
fratelli e omettessero il giorno in cui era nata la loro figlia morta.
Non alludevano mai a quel giorno impossibile in
cui Laura avrebbe compiuto cinque anni. Quando,
durante una riunione familiare, glielo rinfacciai,
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
ILLUSTRAZIONE GIPI
IL LIBRO
Si intitola come una strada di Città del Messico,
Retorno 201, la raccolta di racconti di Guillermo
Arriaga che Fazi manda in libreria il 30 novembre
(260 pagine, 16 euro). Arriaga descrive l’umanità
e i drammi che si trovano nei film di Iñárritu,
di cui è stato sceneggiatore, come Amores Perros,
21 grammi e Babel. Criminali spietati
o inconsapevoli; ladri uccisi ferocemente;
dolori inspiegabili, amore e violenza
perennemente intrecciati
nostre risate, la voce un po’ rauca di Laura, i suoi
scherzi, le frasi di mia madre giovane.
In una delle scatole trovai alcune lettere. Le aveva
scritte mia madre a Laura dopo la sua morte. Le raccontava quello che succedeva nel mondo, che continuava a esistere senza di lei, dandole notizie di mio
padre, di mia nonna, di me. Alcune avevano anche
una data recente, di appena due o tre anni prima.
C’era in ogni linea scritta la sensazione di una colpa
smisurata, di un dolore mai digerito.
Contemplai le foto e gli oggetti di mia sorella per
tutta la notte, fino al mattino. Ascoltai la cassetta
un’altra volta. I ricordi tornarono nitidi e, lungi dal
farmi male, mi riconciliarono col mio passato.
Il giorno dopo mostrai ai miei figli il contenuto
delle scatole. Parlai di Laura, regalai loro i suoi giocattoli perché li usassero fino a renderli inservibili.
Lasciai che disegnassero sui suoi disegni e vestissero e svestissero le sue vecchie bambole. Ai miei fratelli regalai alcuni dei suoi oggetti. A Javier il bauletto e le lettere di mia madre. A Martín i vestitini, perché li usasse la sua figlia piccola. Invitai zia Beatriz a
cena al ristorante, io e lei da soli.
Volevo sapere una volta per tutte com’era morta
mia sorella. Beatriz lo sapeva e quindi, senza tanti
preamboli, mi narrò la causa della morte di Laura:
la scuola aveva organizzato una gita in un piccolo
zoo privato, con l’idea che i bambini dovessero imparare a convivere sia con le specie domestiche che
con quelle selvagge, a dare da mangiare alle capre,
a raccogliere le uova delle anatre, a toccare la pelle
di una vipera, ad accarezzare i cervi.
Quel giorno lo zoo era pieno zeppo, perché erano arrivate in visita tre scuole insieme. Dovettero
Mia madre annunciò
di essere incinta
Mia nonna la abbracciò
e mio padre brindò
La notizia mi fece infuriare
PAOLO
FLORES D’ARCAIS
Alla ricerca
della sinistra perduta
MicroMega 6/07
“la legalità è il potere
dei senza potere”
(Václav Havel)
GIANNI BARBACETTO
EZIO MAURO
Politica in salsa Mastella PAOLO FLORES D’ARCAIS
Prodi e Veltroni, legalità
GHERARDO COLOMBO e antipolitica, la sinistra
e la casta
L’Italia opaca
PIERCAMILLO DAVIGO
GRAZIA MANNOZZI
La restaurazione
maldestra
LUIGI DE MAGISTRIS
La legalità democratica
e i suoi nemici
BRUNO TINTI
Sicurezza di casta
SALVATORE BORSELLINO
Buoni solo da morti
E articoli di
CARLO VULPIO
MARCO REVELLI
GIUSEPPE ARNONE
ANTONIO MASSARI
ALESSANDRO BRESCIA
MARIO PORTANOVA
FURIO COLOMBO
MARGHERITA ASTA
BEATRICE BORROMEO
NICOLA GRATTERI
don MARCELLO COZZI
FRANCO CORDERO
MARGHERITA HACK
ANDREA CAMILLERI
Il naufragio di Prodi
CARLO LUCARELLI
I ragazzi
del nuovo impegno
SABINA GUZZANTI
TgUnico
MARCO TRAVAGLIO
D’Alema/Unipol,
la storia completa
SONIA ALFANO
vs
CLEMENTE MASTELLA
Un faccia a faccia
senza perifrasi
GIANRICO CAROFIGLIO
Racconto di una
sconfitta di mafia
non dissero nemmeno una parola e continuarono
a cenare senza scomporsi.
Dopo cena, mia zia Beatriz mi portò in una stanza per parlarmi a quattr’occhi. Mi chiese di dimenticare, disse che era inutile rimestare in un passato
da cui tutta la famiglia s’era appena riavuta e che,
per quanto lo volessimo, non si poteva far niente
per riportare Laura tra noi. Furioso, le gridai che ero
stufo di tutto quel mutismo e quel riserbo, che non
sapevo neanche di che cosa fosse morta mia sorella e che per colpa dei miei genitori nemmeno me la
ricordavo più.
Beatriz aprì la sua borsa e estrasse dal portafogli
una piccola fotografia di Laura. Me la diede e rivedendo il suo viso scoppiai a piangere. Mia zia mi abbracciò e disse che non potevo neanche immaginare quanto avessero sofferto i miei genitori e quanto
si fossero impegnati, magari senza essere capiti, per
non farmi soffrire.
Sarebbe arrivato il momento, disse, in cui lei stessa mi avrebbe rivelato tutto sulla morte di mia sorella, e io avrei scoperto quanto fosse stata dura.
Piansi a lungo e, quando finalmente tornammo in
sala da pranzo, mio padre era lì da solo, e piangeva
anche lui.
Riposi la fotografia insieme agli altri oggetti di Laura. La sua immagine, le parole di Beatriz e il pianto di
mio padre placarono la mia ansia e la mia furia. Ma
il riserbo intorno a Laura continuò ancora per molti
anni. In qualche modo accettai le regole del gioco e
cominciai a dimenticare e, soprattutto, a comprendere. Mi sposai ed ebbi due figlie e un figlio. La più
grande la chiamammo Raquel, come sua madre.
L’altra Natalia e il maschio Rodrigo, come me.
Morì mio padre e quasi immediatamente anche
mia madre. Poco tempo dopo, zia Beatriz mi chiamò
per dirmi che mia madre le aveva lasciato alcune cose e che voleva darle a me. Erano due scatole di cartone sigillate col nastro adesivo. Appena le aprii, fui
assalito di colpo dal respiro del mio passato.
Sistemate in ordine cronologico, c’erano decine
di fotografie di mia sorella. C’erano anche alcuni
suoi giocattoli, i suoi disegni, i suoi vestitini; un bauletto con dentro dei riccioli, dei nastri per capelli,
delle monetine e un chiodo argentato; il libro di Pollicino, che mia madre ci leggeva tutte le sere perché
era il nostro preferito. C’era anche una cassetta, con
delle canzoncine cantate da noi due. Si sentivano le
fare a gara per guadagnarsi l’ingresso alle varie gabbie e ai recinti.
Laura vinse l’opportunità di prendere in braccio
un cucciolo di volpe grigia. Mentre lo alzava felice
per mostrarlo a una compagna, il cucciolo le morse
il dorso della mano sinistra. Ridendo nervosa, mia
sorella lasciò l’animale, facendolo cadere dall’alto.
La maestra le guardò la ferita e, vedendo che si trattava di un’incisione poco profonda, le disse che sarebbe guarita con un po’ di saliva.
Mia sorella tornò a casa con un cerottino sulla mano e un aneddoto da raccontare, ignorando di avere nel sangue il virus scuro della rabbia.
Neanche mia madre diede importanza alla ferita
e quando scoprirono che la volpe era portatrice del
male mia sorella presentava già sintomi della fase
avanzata.
Non ci fu speranza. Laura morì atrocemente in
una stanza senza luce, tra ondate crescenti di convulsioni e spasmi che la soffocarono, con la mano afferrata a quella di mio padre.
Quando Beatriz terminò di parlare, il suo viso non
tradiva alcuna emozione. Sembrava che avesse raccontato quella storia già mille volte, e pianto a sufficienza. Mi guardai intorno. Gli altri avventori parlavano, ridevano, mangiavano, mentre al mio tavolo il
tempo sembrava sospeso. Sul viso di Beatriz tornò la
stessa espressione assorta di quando interrompeva
i nostri giochi. Avrei voluto dire qualcosa, ma non ci
riuscii. Pagai il conto e ce ne andammo in silenzio.
Arrivai a casa ed entrai in camera dei miei figli.
Dormivano tutti e tre. Natalia abbracciata a una
delle bambole di Laura. Entrai nella mia stanza. Raquel mi aspettava stesa sul letto, leggendo una rivista. Mi domandò com’era andata e le risposi seccamente: «Bene».
Avrei voluto stendermi al suo fianco, lasciarmi
stringere e sentirmi dire che tutto andava bene davvero. Mi limitai a darle un bacio sulla fronte.
Lei spense la luce e io scesi in salotto. Ascoltai la
cassetta. Quando finì la tirai fuori dallo stereo e feci
a pezzi il nastro, insieme a tutte le foto di Laura che
riuscii a trovare. Salii di nuovo nella mia stanza. Mi
misi a letto e chiusi gli occhi. Ricordai mia sorella avvolta in una coperta azzurra mentre partiva per l’ospedale e piansi tutta la notte senza fermarmi.
Traduzione di Stefano Tummolini
(© 2007 Fazi Editore srl)
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
SPETTACOLI
Una retrospettiva al Torino Film Festival celebra
il regista tedesco. Che, per ciascuna delle sue opere,
ha accettato di registrare un video in cui racconta
la nascita della sceneggiatura, i retroscena del set, i vezzi degli attori
Ne abbiamo trascritti e selezionati alcuni, ricavandone l’autoritratto
di uno dei protagonisti più amati del cinema contemporaneo
Wenders
story
“Vi racconto i film della mia vita”
A
WIM WENDERS
lice nelle città. È un film a
cui sono molto, molto affezionato. Quando lo girai,
nell’estate del 1972, avevo
ventisette anni. Non ero
contento di ciò che avevo
fatto fino ad allora. Non ero sicuro di voler
continuare a fare il regista. Potevo rimettermi a fare il critico, o a dipingere. Quindi
pensai che dovevo fare un film per dimostrare a me stesso che questo era ciò che
avrei fatto per tutta la vita: fare film. Così decisi di fare un film molto personale. Scrissi
la sceneggiatura di Alice nelle città da solo.
In realtà, scrissi la sceneggiatura solo per
chiedere i finanziamenti, ma appena iniziammo le riprese la lasciai perdere, e continuammo a scrivere mentre giravamo il
film. Questo si rivelò un metodo che mi piaceva molto, con cui mi sentivo molto a mio
agio. La troupe apprezzò molto questo modo di lavorazione on the road. Era una piccola troupe, eravamo in tutto otto persone.
Non avevamo molti soldi, ma a volte quando non hai molti soldi hai tutto ciò che ti serve, e a volte quando hai un sacco di soldi
non hai abbastanza. In Alice nelle cittàsentivo di avere abbastanza di tutto. Lo girammo molto velocemente, in quattro settimane, in 16mm, e mentre lo montavo con
Peter Przygodda, mi resi conto che sì, avrei
continuato a fare il regista.
Falso movimento. È il primo film di Nastassja Kinski. La conobbi in una discoteca,
a Monaco. Stava ballando, era bellissima, e
io cercavo una ragazza della sua età. Mandai la mia ragazza a chiederle se potevo parlare con sua madre, perché non volevo andare lì e dirle: “Salve, sono un regista, vuoi
fare un film con me?”. Andai a trovare sua
madre il giorno dopo. Non volevano dirmi
quanti anni avesse, perché per entrare in
discoteca doveva avere sedici anni. All’inizio mi dissero che aveva quindici anni, ma
alla fine lei confessò di avere quattordici
anni, e quando le facemmo il contratto
venne fuori che ne aveva tredici. Andava
ancora a scuola e non era mai stata davanti ad una macchina da presa.
Nel corso del tempo. Fu girato nell’estate del 1975. È davvero il road movie per eccellenza, perché non c’era una sceneggiatura, c’era solo un itinerario. Avevo una
grande cartina della Germania. Percorsi da
nord a sud il confine tra le due Germanie,
una strana terra di nessuno proprio nel
mezzo del paese. I giovani se ne andavano
da lì, era una regione abbandonata. Il Muro era una strana presenza, proprio in mezzo al paese. Io seguii il Muro e feci un film in
bianco e nero. Con una troupe ridottissima, otto persone, ma girato in 35mm. Conoscevo bene l’itinerario, l’avevo già percorso due volte, e avevo visitato tutte le cittadine, i villaggi e le città più grandi lungo il
confine tra le due Germanie — ovviamente, sul versante occidentale del confine —
in cui ancora c’erano dei cinema. Il “Re della strada”, il personaggio principale, va di
cinema in cinema a riparare i proiettori. Ha
un grande camion e fa sempre questa strada, da solo sul suo camion. Ma stavolta, nella nostra storia, ha qualcuno che gli fa compagnia. Incontra Kamikaze. Questa era l’unica cosa scritta che avevamo, la prima scena, la prima pagina di dialogo: come i due
si incontrano. Kamikaze, che sta guidando
la sua volkswagen, finisce dentro al fiume
Elba, che segnava la linea di confine tra le
due Germanie. Da quel punto in avanti,
non c’era più sceneggiatura. La scrivevo sera dopo sera, fu un’esperienza fantastica.
L’amico americano. Girai questo film
nell’autunno del 1976. Era tratto da un romanzo di Patricia Highsmith. I suoi libri mi
piacciono molto, li ho letti tutti. Il mio preferito era The Cry of the Owl. Così scrissi al
suo editore e gli chiesi se potevo trarne un
film. Mi risposero di no, i diritti erano già
stati acquistati da una casa di produzione
americana. Quindi la mia seconda scelta fu
The Tremor of Forgery. Scrissi un’altra lettera. Settimane dopo mi risposero: “No, i
diritti sono già stati comprati”. Allora passai in rassegna tutti i romanzi della High-
LA SCOPERTA DI NASTASSJA
Sopra, Nastassja Kinski in una scena tratta da Paris, Texas
Sotto, un fotogramma da Land of Plenty, La terra dell’abbondanza
smith che amavo e il risultato era sempre lo
stesso: non c’erano diritti disponibili. Alla
fine ricevetti una lettera direttamente da
Patricia Highsmith: “Ho saputo che vorrebbe acquistare i diritti dei miei romanzi.
Venga a trovarmi”. Lei viveva in Svizzera. Io
andai là e la conobbi. Viveva da sola in una
piccola casa, con tanti gatti. Fu molto gentile. Mi offrì tè e biscotti, e poi volle saperne
di più su di me, chi ero e perché ero così affascinato dai suoi romanzi. Le dissi la verità. Fu un incontro piacevole. Alla fine lei
andò alla sua scrivania e tirò fuori un manoscritto: “È vero, tutti i miei romanzi sono
opzionati da produzioni americane, ma
questo l’ho appena finito e nemmeno il
mio editore ne sa nulla. Quindi posso assicurarle che i diritti di questo sono disponibili”. Era il manoscritto di Ripley’s Game.
Così Ripley’s Game divenne la base di The
American Friend.
Dennis Hopper e Bruno Ganz erano due
attori con metodi molto diversi, e quindi
sul set di The American Friend si scontrarono. Bruno era molto coscienzioso. Era il
suo primo film commerciale, e si era preparato meticolosamente. Bruno era sui
trentacinque anni e aveva lavorato solo in
teatro. Dennis, al contrario, non aveva mai
fatto teatro, solo film, e arrivò senza nessuna preparazione. Ma a ogni ciac, Dennis
era sempre pronto, preciso. Bruno era molto infastidito dal fatto che questo tizio, che
non aveva nemmeno letto la sceneggiatura, fosse così bravo davanti alla macchina
da presa. Così, uno dei primi giorni delle riprese, in mezzo a una scena, all’improvviso cominciarono a picchiarsi. E non era in
sceneggiatura. Cominciarono a prendersi
a pugni. Prima che ce ne accorgessimo,
erano a terra con il naso rotto. Sembravano
due gatti. Dovemmo interrompere la ripresa. Se ne andarono insieme e quel giorno
non li vidi più. Il giorno dopo arrivarono.
Erano ridotti uno straccio. Erano stati tutta
la notte fuori. Non potei girare neanche
quel giorno, ma da allora divennero grandi
amici. E da quel giorno Dennis venne sempre a chiedermi la sceneggiatura, per leg-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
LA RETROSPETTIVA
Il venticinquesimo Torino Film Festival (23 novembre-1 dicembre),
per il primo anno diretto da Nanni Moretti, dedica una delle due retrospettive
(a cura di Stefano Francia di Celle) al regista tedesco Wim Wenders: verranno
riproposte tutte le sue opere, dai primi cortometraggi girati a Monaco fino
a uno degli ultimi lavori, inedito in Italia, il corto Invisible Crimes. Tra gli oltre
cinquanta titoli, la versione integrale, anche questa mai vista in Italia, di Fino
alla fine del mondo. Wenders sarà protagonista di un incontro con Nanni
Moretti (il 24 novembre alle 17 al cinema Massimo) e di una tavola rotonda
all’Università di Torino (il 26 alle 11 nell’aula magna del rettorato). A lui è anche
dedicato un libro monografico edito da Il Castoro. Le testimonianze di
Wenders pubblicate in queste pagine sono inedite e tratte dai video registrati
apposta per il Festival, che saranno proiettati prima di ciascun film
gerla insieme a me e prepararsi. Bruno
Ganz, invece, quando volevo parlare con
lui della scena, mi diceva: “No, la improvviso”. Impararono molto l’uno dall’altro.
Nick’s film. Il progetto fu un’idea di Nicholas Ray. Un paio d’anni dopo L’amico
americano, ero a Hollywood a lavorare su
Hammett. Nick mi chiamò e mi disse:
“Wim, non sto bene, sono appena uscito
dall’ospedale”. Era già la seconda volta che
lo operavano. Aveva un cancro ai polmoni:
“Mi è rimasto un solo desiderio. Mi piacerebbe fare un altro film. Per me da solo sarebbe difficile realizzarlo, ma insieme, forse possiamo farcela”. Ci sedemmo ad un
tavolo per parlarne e poco dopo cominciammo a girare, perché sapevamo che
c’era poco tempo. Alla fine il film divenne
un documentario, il cui argomento è, più o
meno, la morte di Nick. Io e tutta la troupe
eravamo pieni di dubbi. Ci chiedevamo se
avevamo il diritto di filmare un uomo in
quello stato, di fare un film così personale
sulla morte di un uomo, su un uomo che
muore. Parlai più volte con i suoi medici.
Dicevo loro che era meglio fermarsi, che
non si poteva continuare. Ma loro mi dissero che interrompere sarebbe stato peggio. Quindi andammo avanti fino all’ultimo, quando Nick passava ormai la maggior parte delle giornate in ospedale, dove
lo riempivano di antidolorifici. E poi un
giorno capimmo che non potevamo più
andare avanti. Poche settimane dopo Nick
morì. Nick restò lucidissimo fino all’ultimo. Facemmo una bella ripresa con lui, la
scena più lunga del film, quando lui alla fine dice: “Stop”.
Paris, Texas. Il film fu girato nell’estate
del 1983 e tutto funzionò come per magia.
Fu girato in America in modo clandestino.
Avevo una troupe europea, erano tutti in
America con visti turistici, giravamo senza
nessuna autorizzazione, con un budget limitato. Alla fine il sindacato dei camionisti
ci scoprì e dovemmo assumere dieci autisti. Questo ci costò una settimana di riprese. Alla fine dovemmo fare il film con metà
del budget programmato, perché il dollaro
L’opera “Nel corso
del tempo”
è molto particolare:
non c’era traccia
di sceneggiatura,
c’era solo una strada
quell’anno andò alle stelle. A volte, quando
hai meno soldi di quanto vorresti, devi sostituirli con qualcos’altro, che è molto più
prezioso dei soldi, cioè con l’immaginazione. Per Paris, Texasfummo costretti ad usare molta immaginazione.
Io e Sam Shepard avevamo scritto mezza sceneggiatura, perché Sam doveva venire con me durante le riprese, così avremmo
scritto la seconda metà mentre giravamo.
Ma quando cominciammo a girare, Sam
non era più disponibile. Stava girando un
film con Jessica Lange, perché si era innamorato follemente di lei. Il film si intitolava
Country. E lo giravano nel nord degli Stati
Uniti, mentre io stavo girando nel caldo ro-
L’ultimo road movie
tra i colori di Palermo
GINO CASTALDO
L
PALERMO
a trattoria Shangai è nel cuore della Vucciria, un colorato pezzo di casbah con le stoviglie disegnate a tinte pastello, come nelle vecchie case del sud. È una veranda al primo piano
di un palazzetto che affaccia nella piazza del
mercato. Ma per un giorno è chiusa ai clienti
abituali. Wim Wenders l’ha scelta come set per
le ultime riprese di Palermo shooting (titolo
provvisorio). Tutt’intorno gli abitanti della
Vucciria guardano imperturbabili, curiosi, ma
anche tranquilli, «cool» li definisce la sorella del
regista, Ella Wenders. Continuano a vendere
ostriche, a passeggiare, i motorini passano con
intere famiglie a bordo, le voci del mercato si
mescolano con quelle della troupe che dal balcone chiedono ai passanti di muoversi da una
parte piuttosto che dall’altra. Ciac, motore,
azione, ma la vita scorre senza interruzioni.
Una situazione talmente normale che in una
pescheria a pochi metri dal set scoppia una
mezza rissa, spunta un coltellaccio, poi tutto si
ricompone in un attimo, sotto lo sguardo attento di un signore vestito come un guappo
d’altri tempi, cravatta e cappello color turchese fiammante, scarpe bicolori.
Il film racconta la storia di Sinn, un fotografo
berlinese interpretato dal cantante rock Campino, che ha successo, soldi, libertà, insomma
tutto quello che si suppone possa desiderare
un giovane di talento. Ma qualcosa si rompe, si
incrina irrimediabilmente. Sinn parte per uno
di quei viaggi indeterminati, incerti, alla ricerca di qualcosa che ancora non è chiaro. E finisce a Palermo dove una serie di avvenimenti, e
ovviamente anche l’incontro con una donna,
Flavia, interpretata da Giovanna Mezzogiorno,
gli ribaltano completamente la prospettiva che
fino a quel momento aveva avuto sulla vita.
Di qui sono passati anche Dennis Hopper,
Lou Reed, Patti Smith, ospiti della storia narrata, confermando la forte propensione che
Wenders ha sempre mostrato nei confronti
della musica, a partire dalla scelta del protagonista che è il frontman di una band, popolarissima in Germania, che si chiama Die Toten Hosen.
Come spesso capita a Wenders anche il suo è
una sorta di viaggio di ricerca. La sceneggiatura è tutt’altro che rigida, cambia ogni mattina,
mettendo a dura prova la flessibilità di Campino che è abituato ai ruggenti palchi rock e molto meno ai ritmi e alle tecniche specifiche della
recitazione cinematografica. Del resto alcuni
tra i suoi migliori film come Nel corso del tempo, Paris Texas, Il cielo sopra Berlino, per non
parlare dei documentari, li ha realizzati con
sceneggiature scritte a metà o addirittura inesistenti. Questo per essere aperto all’impatto
con un nuovo luogo, per assorbirne sensazioni
e suggerimenti, e così ha fatto con Palermo,
non solo uno sfondo, piuttosto un luogo dell’anima, così intenso da provocare nel protagonista mutamenti profondi, o meglio un processo
di morte e rinascita, un paesaggio così forte da
entrare prepotentemente nella sceneggiatura
e scandirne i tempi.
vente del Texas. Quindi ero senza sceneggiatore e dovetti più o meno inventarmi la
seconda parte del film da solo. Mandai il
mio schema a Sam, o forse gliene parlai al
telefono, perché all’epoca il fax non esisteva. In una notte Sam, su nel Wisconsin,
scrisse i dialoghi della seconda parte e me li
dettò al telefono nel bel mezzo della notte.
Io li scrissi a macchina per darli agli attori il
giorno dopo, e così Sam riuscì a finire la sceneggiatura del film.
Buena Vista Social Club. Io e Ry Cooder
stavamo lavorando insieme alla colonna
sonora di The End of Violence. Vedevo che
aveva qualcosa di strano. Se ne stava seduto lì, a guardare il vuoto. Allora gli chiesi: “Ry,
LA SCENA
Qui sopra, una scena di Don’t come
knocking (Non bussare alla mia porta)
Nella foto grande, un’immagine
tratta dal film Nel corso del tempo
che Wenders realizzò a trent’anni,
nell’estate del 1975
Tutte le foto di queste pagine
sono tratte dal volume Wim Wenders
(a cura di Stefano Francia di Celle,
Il Castoro, 288 pagine, 98 foto, 26 euro)
che cos’hai? Dobbiamo lavorare. Dove
sei?”. E alla fine mi rispose: “Sono ancora all’Avana”. “Che succede all’Avana?”. E lui:
“Ho registrato la migliore musica della mia
vita, laggiù”. A fine giornata, quando lasciammo lo studio, mi diede delle cassette e
disse: “Questo è il pre-missaggio. Ma devi
riportarmelo domani”. Non avevo più un
mangianastri a casa, ce l’avevo solo in macchina, così ascoltai la cassetta mentre guidavo verso casa e... era elettrizzante. Veramente roba da impazzire. Non avevo mai
sentito una musica così trascinante in tutta
la vita. Ascoltai quella cassetta tre volte.
Continuai a guidare intorno a casa per ore,
solo per ascoltarla. Il giorno dopo, riportai
la cassetta a Ry e gli
chiesi: “Chi sono i ragazzi con cui hai inciso questa musica incredibile?”. Lui rise e
mi disse: “Non sono
esattamente dei ragazzi”. E mi raccontò
la storia di Compay
Segundo, che aveva
più di novant’anni,
di Ruben Gonzalez,
che ne aveva più di
ottanta,
anche
Ibrahim Ferrer aveva quasi ottant’anni.
E io non riuscivo a
crederci. Qualche
mese dopo mi
chiamò e disse:
“Wim, ci torno la prossima settimana”. E io:
“Dove?”. E lui: “All’Avana”. Mi diede cinque
giorni per mettere insieme una troupe e trovare un po’ di soldi per andare all’Avana con
lui. Cominciammo a girare appena scesi
dall’aereo. Restammo lì a girare per tre settimane. Mai divertito tanto. Non sembrava
nemmeno di lavorare. Era come ballare.
Videopresentazioni prodotte per il 25°
Torino Film Festival da Wenders Images
e Museo Nazionale del Cinema; regia
di Marcel Wehn, traduzione
e adattamento Sub-ti, Londra
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
i sapori
Tradizione e novità
Nei giorni dell’arrivo in tavola del nuovo extravergine,
gli chef internazionali si cimentano a San Sebastian
in ricette che cambiano forma e consistenza al principe
dei condimenti. E infrangono così antichi tabù
itinerari
Lo svizzero Köbi Wiesendanger ha disegnato per Alessi
il “taste-huile” (degusta-olio): nella piccola oliva
d’acciaio con piattino, coperchio e beccuccio, si esaltano
le sfumature di aroma e sapore. Poi si condisce il piatto
Ravioli
EXTRAVERGINE CON COLATURA
DI ALICI E CAPPERI DI PANTELLERIA
Sfoglia farcita con sfere
di extravergine congelate, ottenute
montando olio, colatura di alici,
capperi, aglio e addensante
di manioca. Con questa ricetta
il toscano Andrea Menichetti
di Caino ha vinto il premio
internazionale di San Sebastian
Sformato
CALDO DI CIOCCOLATO
CON CUORE DI EXTRAVERGINE
Il dessert culto di Aimo & Nadia
all’esterno è come un piccolo
soufflé di cioccolato
Ma all’interno il cuore morbido
è composto da un’emulsione
di extravergine di olive Nocellara
del Belice con acqua, cioccolato,
tuorlo d’uovo e burro di cacao
Zuppetta di pesce
CON GELATO
ALL’OLIO DEL GARDA
Alla Rucola di Sirmione, Gionatha
Bignotti serve un mix di pesci,
molluschi e crostacei crogiolati
con olio e pomodoro, arricchito
da un crostino di pane all’olio
Sopra, una pallina di gelato
ottenuto mantecando latte,
zucchero, extravergine e sale
L’oro di S. Marzano
CON GELATINA D’OLIO
Il dolce-non-dolce creato
dal salernitano Salvatore De Riso
viene servito in barattolo
All’interno, crema leggera
al basilico, biscotto
all’extravergine e salsa gelatinata
di San Marzano. Rifinitura
con una foglia di basilico fritta
e una goccia di gelatina d’olio
San Sebastian (Spagna)
Verona
Andria (Ba)
Da domani, l’antica
Donostia basca accoglie
i più grandi chef
del mondo
per il congresso
Mejor de la gastronomia
In contemporanea
si svolge l’edizione del premio internazionale
di alta cucina con olio extravergine
Non solo vino,
nella città-madre
delle fiere agricole
e alimentari, sede storica
della più prestigiosa
manifestazione
mondiale sull’olio
di qualità: il Sol. Concorsi, degustazioni,
creazioni gastronomiche e cultura oleicola
Appoggiata sulle colline
della Murgia, famosa
per le ottime burrate,
è circondata da vigneti
e uliveti, vivificati
dall’alternarsi di brezze
montane e marine
Ogni anno ospita il premio Biol, dedicato
agli extravergine biologici
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
SILKEN AMARA PLAZA
Plaza Pio XII 7
Tel. (+34) 943-464600
Camera doppia da 120 euro, colazione inclusa
LA RESIDENZA VERONA HOUSE
Via Antonio Provolo 3
Tel. 045-8089311
Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa
LAMA DI LUNA
Località Montegrosso
Tel. 0883-569505
Camera doppia da 130 euro
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
MARTINEZ
Abutzuaren 31
Tel. (+39) 943-424965
Chiuso giov. e ven. a pranzo, menù da 20 euro
ADRIANO
Via Moschini 26
Tel. 045-913877
Chiuso dom. e lun. a pranzo, menù da 50 euro
ARCO MARCHESE
Via Arco Marchese 1
Tel. 0883-557826
Chiuso dom. e mar., menù da 25 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
PICABEA
Calle Matia 46
Tel. (+34) 943-214762
FRANTOIO SALVAGNO
Contrada Gazzego 1, Nesente Valpantena
Tel. 045-526046
AZIENDA BIO PIZZOLORUSSO
Via Lorenzo Bonomo 52
Tel. 0883-555506
Olio
da
mangiare
nero cuore di olio tiepido.
itorno al futuro. C’era una volta l’oliva, che diE dire che non è facile trasformare l’olio. Dopo anni di tenvenne olio, per poi tornare oliva, o quasi. Ricontativi, per dargli la stessa forma tonda inventata per il caffè,
quista dello stato solido, smarrito per il tempo
la crema di piselli e le finte olive, lo chef catalano chiese socdella frangitura. Bottiglie demodé, cucchiai inucorso agli scienziati dell’università di Barcellona. Risultato:
tili, bocconi di pane orfani della scarpetta.
una macchina capace di modificare le molecole, incapsuNei giorni che celebrano l’avvento dell’olio nuolando l’olio con un complicato procedimento inverso alla
vo, un selezionatissimo parterre di cuochi di mezzo mondo afsferificazione.
fina allo spasimo la calibratura della ricetta con cui concorreDa lì in poi, la ricerca si è allargata, come dire, a macchia d’ore alla sesta edizione di Jaén, Paraìso Interior, il premio interlio: sono arrivati i pop-corn d’olio di Dani Garcia, i ravioli rinazionale nato in terra basca, dedicato all’olio in versione propieni d’extravergine addensato di
tagonista.
mamma e figlio Menichetti (Caino), la
Tutto è cominciato quando la nuova
gelatina d’olio per il manzo bresciano
cucina ha scelto di infrangere i tabù delrielaborato da Vittorio Fusari.
le consistenze. L’olio, allora, era infalliMa il valore delle spremute d’olive,
bilmente liquido. Al massimo, si poteva
fondamentale in basi e condimenti,
discettare sulla sua densità, allungarlo
nelle ricette creative — dove la “tessitucon aceto o limone per smagrirne l’imra” dell’olio viene messa in discussione
patto al palato o trasformarlo in salsa
e ripensata — non ammette deroghe.
grazie alle proteine del rosso d’uovo.
Perché un olio difettato o corretto con
Poi è successo. Qualcuno ha scoperto
la chimica per riparare a scarsa qualità
la vertigine degli abissi calorici oleari e
di base o ritardata frangitura è incompromosso i condimenti cosiddetti alterpatibile con le manipolazioni gastronativi: salse di soia e yogurt magrissimi,
nomiche. Negli ultimi anni sono nati
oli impalpabili e fascinose misture d’aloli realizzati con tecniche sempre più
ghe. Per dare addosso al mostro-ingrasLICIA
GRANELLO
soffici, che preservano al massimo prosatore, esaltando i nuovi dressingimpalfumi e fragranze primarie, e biologici fipabili, si sono inventate ragazze-grissinalmente emancipati dall’antinomia salubre-uguale-meno e staccionate da saltare a pie’ pari. Così, l’extravergine ha
diocre.
dovuto reinventarsi una collocazione di prestigio in cucina. E
Dall’azoto liquido agli addensanti naturali, lasciatevi tentaprima ancora che i dietologi riabilitassero, i cuochi recuperasre dal fascino delle nuove forme dell’olio. Ma prima armatevi
sero, i consumatori capissero, sono nati gli oli da masticare.
del nuovo taste-l’huile voluto da Lorenzo Piccione, produttoAll’inizio, fu il Bulli, con la sua rutilante giostra tecnologica.
re virtuoso a Chiaramonte Gulfi, Ragusa: annusate, assaggiaLe gocce d’acqua d’olive tuffate in alginato, poi rapprese nel
te, e poi cominciate a giocarci. In caso di insuccesso, regalatecloruro calcico, secondo l’ormai copiatissima tecnica della
vi una gita a Verona, dove oggi, giorno di chiusura di Agrifood
sferificación: imitazioni perfette di olive, coperte d’olio, con
— buona evoluzione dell’attempata Fiera Agricola —, gli chef
tanto di foglia d’alloro a guarnire. La gelatina di maionese modell’Associazione italiana giovani ristoratori europei deliziedellata come piccoli gnocchi delicati. L’extravergine tessuto
ranno i visitatori con i loro virtuosismi gourmand. Masticare
e filato a diventare una caramella-gomitolo setosa e croccanl’olio sarà un meritato divertimento.
te. La pralina gelata capace di offrire al primo morso il suo te-
R
Tecnoviaggio
dall’oliva
alla neo-oliva
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
I BON BON
Nell’immagine, bon bon preparati con gelatina d’olio
Fotografia di Raymond Meier
Uova
Al ristorante tristellato Akelare,
alle spalle di San Sebastian,
Paesi Baschi, Pedro Subijana
riduce il peperone a succo
e lo lega con l’addensante
vegetale agar agar. Olio freddo
e contagocce per modellare
il liquido inspessito a forma
di piccole uova
Mousse di yogurt
Le sorelle Fischietti, cuoche
del ristorante campano Oasis
hanno messo a punto
un abbinamento squisito
Le uova, montate
con zucchero e arricchite
con yogurt, sono addensate
a bagnomaria. In aggiunta,
olio e panna fresca montata
Sud
Un velo di divina trasparenza
MARINO NIOLA
significa olio, indica anche una persona importante,
ergine, incorruttibile, splendente, puro e qualun’autorità. Un pezzo da novanta in grado di ammorche volta anche santo. Non sono le virtù di un
bidire ogni attrito, di rendere fluida ogni situazione,
asceta che ha rinunciato ai piaceri del mondo.
di far andare tutto liscio come l’olio. E huilé, oltre che
Ma i prodigiosi attributi dell’olio, il re dei condimenunto, vuol dire illuminato. Proprio come una lampati, il divino esaltatore di sapori che dona luce, profuda a olio.
mo e splendore al gusto. Aggiungendo alla voluttà la
Se oggi i grandi chef riscoprono l’olio non fanno che
verità. Una verità letteralmente ri-velata. Perché esirimettere le cose al loro posto, restituendo al succo
stono regioni del sapore misteriose e inesplorate, stadell’ulivo tutta la sua dignità di luce del sapore, di diati supremi di beatitudine, livelli superiori di conomante da gustare. Non più semplice portatore di guscenza gastrosofica che solo il velo trasparente dell’osto, riflettore sparato su pesci carni e verdure per esallio rende accessibili. Come una lente magica che spatarne l’eccellenza. Ma cibo a tutti gli effetti.
lanca le porte della percezione e costringe anche la
In questo senso i pionieri dell’olio gourmand inpietanza più insipida a scoprire le sue grazie segrete.
frangono oggi un limite che in realtà la vera cucina poUn “apriti sesamo” insomma, come ben sapeva la
polare non ha mai preso veramente sul serio. Le brusaggezza popolare che faceva dell’olio il simbolo di
schette, tanto amate dagli stranieri come sintesi
una superiore capacità di vedere, di una illuminazioestrema del nostro gusto, un concentrato di Italia
ne visionaria.
spremuta a freddo, per i nostri contadini sono sempre
Secondo un’antica leggenda europea ogni cento
state un modo per mangiare l’olio, non certo il pane.
anni i tesori nascosti nelle profondità della terra anChe peraltro, nelle regioni a grande vocazione olearia,
drebbero di diritto al diavolo, ovviamente felice di inha sempre avuto il pudore di farsi da parte, di scomcamerare tutto quel ben di Dio senza muovere un diparire di fronte alla potenza sorgiva dei nostri oli, cato. C’è un solo modo per fregare il malloppo al re delrichi del medesimo splendore minerale che illumina
le tenebre. Ungere di olio, naturalmente extravergicerti paesaggi di Piero della Francesca e di Leonardo.
ne, il dito di un bambino. L’oscurità si farà d’un tratto
Espressioni diverse di uno stesso genius loci.
chiara e le montagne diventeranno per incanto traSfere di extravergine congelate, emulsioni che disparenti. Trovare il tesoro diventa così un gioco da raventano sculture, sfoglie croccanti, grappoli di gelatigazzi. E tutto grazie a un dito condito.
ne. È la nuova frontiera dei cercatori d’olio. Ricette
Legare e separare, congiungere e disgiungere, coche hanno la traslucenza ghiacciata dei cieli cristalliprire e scoprire, è questa coincidenza degli opposti
ni del Paradiso dantesco. È la trasparenza che si fa mache fa dell’olio un cibo e un simbolo, capace di dire e
teria. E trasforma la fisiologia del gusto in meccanica
condire. Cioè di mediare cibi e persone, sapori e sadei fluidi celesti.
peri. È per questo che in francese la parola huile, che
V
Un monosillabo battezza
la ricetta grazie alla quale
il modenese Massimo Bottura
è entrato nell’Olimpo
della cucina d’olio: il gelato
di extravergine si sposa
al cioccolato bianco,
coperto con un croccante
di olive e capperi
in gelatina agrodolce
Mousse
DI CIOCCOLATO CON OLIO
AROMATIZZATO AL MANDARINO
Altra virtuosa commistione
tra extravergine e cioccolato
nel dessert creato dal marchigiano
Moreno Cedroni, servito
con scaglie di sale Maldon
e un calice di Sherry. Stessa
tipologia d’olio per la versione
estrema con ricci di mare
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
le tendenze
Cactus, ciclamini, orchidee phalenopsis, narcisi o erbe
selvatiche. Nei vasi sapientemente distribuiti in salotto
trionfano le specie “scolpite” o “intrecciate” facili
da coltivare, ma di sicuro effetto scenografico
Ecco cosa scegliere e come orientarsi nella cura
delle nuove compagne d’appartamento
Interni di moda
ZAMIA
CARISSA
CACTUS
MURRAIA
ORCHIDEA
La luce non è il suo problema,
ma l’acqua, e il ristagno, sì. Lasciate
che il terreno passi dal secco all’umido
con un intervallo di un’intera giornata
Tenete le foglie pulite con una spugna
Gli inglesi la chiamano la prugna
di Natale. Datele un buon drenaggio,
non esagerate con l’acqua perché
al secco resiste bene. Non fatele
mancare la luce naturale
Facile, sì, ma in casa controlliamo
il terriccio, acido e sabbioso. Offriamo
tutta la luce solare possibile e poca
acqua. Resiste al freddo secco,
non all’umido: sopravvive a meno 10
Trattatela come un agrume,
alla cui famiglia appartiene, dandole
luce e sole. Se appoggiate la mano
sul terriccio, dovete sentirlo fresco,
non bagnato. Il drenaggio è fondamentale
Appoggiatela su una base sempre
umida, non un sottovaso. Tenetela
lontana dalla luce elettrica, scegliete
una finestra esposta a sud. Bagnatela
con acqua a temperatura ambiente
ROSSELLA SLEITER
e vogliamo scolpite, strane, con la luce
che filtra tra un ramo e un altro, con le
foglie che disegnano l’aria come un
graffito il muro. Le vogliamo in terra,
ma terra leggera, quasi polvere, in modo da spostarle con facilità per seguire, o fuggire, non un capriccio, ma la luce e il calore. Comunque, per gli amanti delle piante in casa,
un gruppo che conta milioni di persone in Italia e
miliardi nel mondo, questo è il momento più delicato: si avvicina il Natale, pioveranno doni con foglie e radici e dovranno essere quelli giusti. Quali?
Primo nella lista è il fico d’India, l’opuntia di antica memoria, pianta politicamente scorretta — si è
detto che il nostro era il «Paese dei fichi d’India» —
ma che risponde in pieno alla voglia di scultura.
Nulla è più bello della sua crescita disordinata,
delle sue pale che in modo imprevedibile decidono di prendere a destra o a sinistra, in multipli pari o secondo uno schema di numeri primi. E le spine? E i bambini, o il cane, o il gatto, come possono
convivere con una scultura viva sì, ma soprattutto
pericolosa? Convivono male, anzi non convivono
per nulla, è infatti una pianta da single o da coppie
senza figli.
Dal massimo al minimo: nuovissimo e molto ricercato è il ciclamino piccolo, come quello che cresce nel sottobosco, e profumato come se fosse appena colto. Accanto ai bulbi già in fiore, forzati apposta per colorare l’appartamento, che per la prima
volta cominciano a colonizzare le nostre case quasi fossimo diventati tutti inglesi, fanno una bella accoppiata. Perché l’appassionato di piante non si limita mai a una sola presenza, ma ne ha tante, un po’
ovunque, cercando di evitare l’ingresso (è da condominio) e la camera da letto (non è salubre). Per il
resto si scatena. Un fico d’India accanto alla libreria; due o tre orchidee phalenopsis, (possibilmente
dello stesso colore) sul tavolo con le fotografie; ciclamini e narcisi accanto alle bottiglie per l’aperitivo; un cuscino della suocera, o più d’uno, vicino al
computer, per assorbirne le radiazioni, è l’ultima
leggenda metropolitana di grande successo; una
L
Piante-scultura
per far vivere la casa
dracena pleomele adottata piccola, coltivata negli
anni, e fatta crescere per la gioia degli amici; da aggiungere all’alloro intrecciato, alla murraia, alla carissa e alla zamia, appoggiate sul pavimento nell’angolo giusto, dove non c’è fonte di calore né luce
diretta, ma non fa freddo e non è buio.
La carissa in altri climi cresce bene anche in giardino, ma siccome non ama il freddo, nei mesi invernali sta meglio in casa. Una volta scoperta questa sua doppia vita, il mercato si è illuminato: perché non offrirla come pianta da interni? Ha i rami
spinosi, è rigida, ma d’estate fiorisce di bianco, dimostrando gratitudine e riconoscenza a chi ha saputo portarla in buona salute fino a quel momento, mantenendola in piena luce. La murraia è profumata, ha una corteccia marrone chiaro che stacca con la chioma leggera e sempreverde. Per star
bene ha bisogno di sentirsi in un clima tropicale,
con molta luce, tanta umidità e un terriccio pieno
di sabbia, torba e niente terra. Richiede una cura
sapiente, per esempio il controllo dell’umidità
provocata dal nebulizzatore pieno di acqua distillata, passato sulle foglie almeno una volta al giorno. La zamia invece vuole poca acqua, solo una volta ogni sette giorni, e molta luce. Il fico d’India ne
chiede ancora meno, ma se vedete che le pale diventano vuote e rugose, o la casa è troppo fredda o
l’acqua è davvero troppo poca. Il cuscino della suocera immagazzina acqua e fa tutto da solo, uno
sguardo al colore e alle spine vi dirà se si trova bene in casa vostra e se le cure che gli state dando sono quelle giuste, ma soprattutto non dategli acqua
se lo vedete impallidire.
Se tutto questo vi sembra troppo esotico o strano, ricordatevi della rucola di campo. Basta aggiungere una sola foglia all’insalata per dare sapore, basta guardare il fiore giallo per dire, come
in Via col vento, «domani è un altro giorno». Nei
garden tutti la vogliono, tutti la cercano. Nei campi quasi nessuno la riconosce, ma questa è un’altra storia.
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DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
DRACENA
CUSCINO DELLA SUOCERA
NARCISI
MINI CICLAMINI
ALLORO INTRECCIATO
Non più di tre ore di luce diretta
al giorno e terreno leggero. Se le foglie
cadono avete esagerato con il caldo
o col freddo. Se scoloriscono, la luce
è poca. Se si afflosciano, troppa acqua
Mai sotto i 5 gradi, bene la temperatura
intorno ai 20-25. Molta luce, niente
acqua in inverno, poca d’estate
Poche le specie in natura, tante
e preziose nelle collezioni botaniche
Teneteli nella stanza più fresca
e luminosa della casa. Spostateli,
come fossero soprammobili
dove volete solo per un breve tempo
Dopo la fioritura, i bulbi sono da buttare
Ricreate le condizioni del sottobosco:
mezz’ombra, buona circolazione d’aria,
acqua indiretta. Immergete il vaso
nell’acqua quando il terriccio è secco,
scolate prima di metterlo sul sottovaso
Difficile fargli del male. Gli va bene
qualsiasi terriccio, resiste al caldo,
al freddo, al secco. Ma non esagerate
Dategli un vaso capiente, nutritelo
con acqua e, a volte, un po’ di concime
Una serra di profumi
per scaldare il Grande Nord
PAOLO PEJRONE
arebbe sufficiente fare due passi negli affollati ed annuali
Chelsea Flower Showsper capire l’importanza delle serre e dei
“conservatories” nei giardini “contemporanei”. A centinaia
vengono proposti: legno, alluminio, ferro e vetri. Di tutte le combinazioni, suggestioni e grandezze. Il mercato inglese, quello del
Grande Nord, come Norvegia e Svezia, la Germania, l’Olanda, il
Belgio e la Francia, si sono buttati con entusiasmo in questo “luminoso” modo di vivere e convivere con le piante: i giardini da posti coltivati e curati diventano posti addirittura protetti e coperti. In
un mondo di sicurezze strapagate e ricercate ogni inconveniente
“naturale” per le piante deve esser previsto ed evitato.
Quando re Carlo Alberto chiese al Sada, alla fine degli anni Trenta dell’Ottocento, di disegnargli la famosa, grande, bellissima serra di Racconigi, i tempi erano “maturi”: le aranciere spaziose di Versailles, quelle splendide di Venaria, quelle strane e categoriche di
Sanssouci e tutte quelle, innumerevoli, dei grandi castelli d’Europa avevano già “dato” ed insegnato. Tutto era nato più di due secoli
prima seguendo la moda degli agrumi in vaso che Caterina de’ Medici aveva proposto, mostrato ed imposto alla vecchia corte di
Francia. In tutti i grandi castelli si costruirono fabbricati luminosi
e riparati necessari a custodire i vasi di limoni, di aranci, di melograni e gelsomini: portavano sotto i soli freddi e deboli d’Europa i
profumi attraenti e lontani della Sicilia, dell’Andalusia, della mitica Smirne, di Cipro e di Rodi.
All’avanguardia, primi fra tutti, secondo gli storici, furono
appunto i Medici che, ricchi, moderni e raffinatissimi, si
buttarono nell’esaltante avventura della coltivazione,
con l’aiuto strategico di studiosi, ricercatori (e soprattutto di giardinieri meravigliosi, di gran lunga i
migliori d’Europa). Tra Petraia e Castello, si coltivarono tutti gli agrumi possibili che arabi, indiani e turchi potevano avere nei loro giardini e serragli... E con
gli agrumi vennero i gelsomini, i corbezzoli, i fichi e i
mirti (quelli a fiore doppio e profumato furono simbolo, insieme ai fiori d’arancio e alle bouvardie, dei matrimoni asburgici e boemi). Gli agrumi, forti dei loro fiori e poi
dei loro frutti, la fecero da mattatori. Chi poteva resistere di fronte
a un limone, con fiori e frutti allo stesso momento, o a un arancio
dalle lucide foglie e dai frutti così colorati e profumati?
Alla Reggia di Venaria, forte evidentemente della prevista e lunga
catalessi invernale degli agrumi, il Castellamonte a metà del Seicento previde di adibire ad aranciera uno stanzone lunghissimo,
praticamente interrato, a volta di mattone e a bocche di lupo: poco
illuminato. Anche se ampia e funzionale, in seguito non fu più giudicata adatta o sufficiente: dopo una sessantina d’anni fu richiesto
allo Juvarra di disegnare la grandissima, splendida e meravigliosa
Citroniera (e per fortuna nostra, ora splendidamente restaurata).
Sempre i Savoia, più tardi, in virtù delle loro maestranze espertissime, divennero “coltivatori” un po’ unici, e certamente i più
provetti in Europa, di esotici ananassi. Le loro fruttiere in certi periodi dell’anno ne mostravano il successo e l’abbondanza... Il calore necessario alla coltivazione era il frutto di un’antica schermaglia,
espertissima e raffinatissima, di fermentazioni mitigate, prolungate e corrette dei generosi letami freschi di cavallo e di vacca. Il calore prodotto si convogliava sotto i vetri che coprivano le “abaches”, piccole e facilmente manovrabili serre interrate.
Sempre a metà Ottocento, grandissime ed espertissime furono
le realizzazioni di Joseph Paxton che, al servizio (attivissimo ed efficientissimo) del duca di Devonshire, costruì le serre più raffinate
dell’epoca: usando il ferro, il legno e il vetro, riuscendo a costruire
con esperienza e successo delle enormi ed acrobatiche strutture.
Serre che portarono in seguito a dar forma al famoso Cristal Palace, supremo suggello di una vita giardiniera. Fu simbolo di modernità vera ed intelligente: l’Esposizione Universale del 1851 incoronò la luce e la trasparenza (e la vita che da essa proviene) come il
simbolo di un’epoca di conquiste e di successi, figlia dell’industriale progresso.
Contemporanee, e forse più modeste e meno simboliche, furono le serre di frutta che in Inghilterra nel periodo vittoriano producevano pesche, albicocche, susine, ciliege, fragole e banane. Soprattutto nei periodi più difficili ed incredibili: sempre puntando
al massimo show per Natale e Capodanno. Con l’esperienza di
giardinieri capaci e raffinati, e con l’uso sofisticato di temperature
e ombreggiamenti, si potevano ottenere le frutta a mo’ di primizia.
Un mondo sofisticato e preciso di coltivazioni differenti portò alla
realizzazione di serre speciali, adatte alla coltivazione di piante
speciali: serre per orchidee, tropicali e umide, serre temperate e
ombrose per le felci, serre soleggiate e ariose per la coltivazione di
viti e delle frutta, serre fresche per piante di montagna, serre caldissime, anch’esse tropicali e umide, per i rari fiori di giada, il famoso strongylodon macrobotrys.
E il modesto e comune bow window? Gloria delle case post-vittoriane, è stato il posto dove la borghesia di città e di paese ha coltivato di tutto. Soprattutto fiori esotici: del resto l’oriente, i suoi profumi e i suoi colori hanno da sempre acceso la fantasia e le speranze, sollecitando appassionati e giardinieri...
S
Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 NOVEMBRE 2007
l’incontro
Bacchette magiche
Ha diretto orchestre in tutto il mondo,
ma ha un rapporto privilegiato
con Israele per via, dice, dell’antica
religione monoteistica di famiglia
Considera Vienna una seconda casa,
il suo “salotto”. Abita
a Los Angeles, ma
è con l’India che
non ha mai interrotto
i rapporti. Il suo sogno,
ripete, è invecchiare
“immerso nella sacralità
della grande natura”
del Kashmir. Resterà solo un sogno,
aggiunge, “perché a un maestro
piace morire sul podio”
Zubin Mehta
l sogno del direttore d’orchestra
Zubin Mehta è trascorrere la sua
vecchiaia in Kashmir, «immerso
nella sacralità della natura, in
una casa da cui si veda il punto di confluenza tra i fiumi Gange e Jamuna».
Pensa a quei cieli, a quelle foreste, a
quelle montagne. Spesso fantastica sui
sapori speziati dell’India: «Sono indiano al cento per cento, dentro e fuori.
Nessuna cucina mi soddisfa tanto,
neanche quella italiana, che pure è meravigliosa, diciamo che merita il secondo posto. Nessuna terra mi appartiene
così intimamente come il mio paese.
Da tempo abito a Los Angeles e ho
un’altra casa in Toscana, adorata da
mia moglie Nancy, che ne ha fatto il suo
rifugio ideale. Ma che felicità tornare a
Bombay, dove sono nato. Apro la finestra e mi affaccio su un flusso di migliaia di persone, oceani incredibili di
umanità. Scendo per strada ed è come
nuotare, mi piace confondermi tra la
folla senza che nessuno mi riconosca».
Musicista di splendente e pluriennale successo, Mehta è una star senza
frontiere, accolto sul podio delle migliori orchestre occidentali. Figlio del
violinista e direttore Mehli Mehta (che
creò a Bombay la prima formazione
sinfonica indiana), aveva poco più di
vent’anni quando diresse i Wiener
Philharmoniker e poi i Berliner. Allievo
di Hans Swarowsky a Vienna, dove conobbe Daniel Barenboim e Claudio
Abbado, amici e complici da allora e
per sempre, è stato plasmato fin da ragazzo (a diciott’anni sbarcò in Europa,
proprio in senso letterale, approdando
in Italia via mare per poi raggiungere
l’Austria in treno) dall’aureo linguaggio stilistico della suprema civiltà mu-
mi fraterni, l’amore del padre per la figlia che, per intesa spirituale, per lui è
quasi una fidanzata. Tutto è concreto,
vivido, riconoscibile».
Zubin ha una fede incrollabile nella
musica classica, nel suo potere di pacificare e superare differenze, nella sua
eterna attualità: «Si dice che il pubblico è invecchiato, che non c’è ricambio,
che dilaga la crisi. Ma anche quand’ero giovane ci si lamentava che i giovani
non venissero ai concerti. Quelli che
oggi sono maturi o vecchi dove stavano cinquant’anni fa? Non erano forse i
giovani di allora? Io credo che non ci sia
alcuna flessione d’interesse: semplicemente la musica classica si fa capire
e apprezzare di più da chi ha superato i
quarant’anni. Crescendo si comprende meglio il senso e il peso della cultura, diventa più necessaria. Non a caso i
musei non traboccano di ventenni.
Credo che non ci sia
alcuna flessione
di interesse:
semplicemente
la musica classica
si fa capire
e apprezzare
di più da chi
ha superato
i quarant’anni
FOTO GRAZIA NERI
I
VIENNA
sicale occidentale. Per questo considera Vienna la sua seconda casa: «Ogni
volta che ci arrivo è come entrare nel
mio salotto».
Lungo i decenni, con risultati gloriosi, ha governato la Los Angeles Philharmonic e la Filarmonica di New York, ha
diretto uno dei più prestigiosi teatri lirici del mondo, la Staatsoper di Monaco di Baviera, ed è stato nominato «direttore a vita» della Israel Philharmonic. Eppure non dimentica, non rinnega, non ha mai dato l’anima intera all’Occidente. Insiste nel cullarsi in nostalgie speciali: «In famiglia sono
cresciuto parlando un dialetto della
lingua gujarati, la stessa del Mahatma
Gandhi. Ho avuto un rapporto fortissimo con i miei genitori, entrambi molto
longevi. Mio padre è morto a novantaquattro anni, mia madre a novantasei,
e quando avevo più di sessant’anni potevo ancora conversare con loro ogni
giorno. Uno dei motivi per cui li chiamavo spesso era il piacere di usare la
mia lingua, che ho perso da quando
non ci sono più. Adesso, quando telefono a mio fratello Zarin a New York,
gli parlo in gujarati e lui mi risponde in
inglese. Per me è una tragedia».
Di leggendaria bellezza da giovane,
un rubacuori con pochi confronti, un
mito di avvenenza persino a Hollywood, in mezzo ai divi del cinema,
molti dei quali sono stati suoi amici,
oggi Zubin Mehta, nato nel ‘36, è un
settantenne affascinante, il volto liscio
con la pelle d’ambra, il gioco malizioso
del sorriso, la testa regale, da leone
buono. Il nostro incontro avviene a
Vienna, seconda tappa (dopo Varsavia
e prima di Francoforte e Baden-Baden)
di una tournée europea alla guida dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, che Mehta chiama «la mia famiglia italiana», e che dirige come
maestro principale dall’85. Con l’amato Zubin sul podio (amato perché ha
un’indole calda e generosa), l’orchestra ha debuttato nella sala viennese
del Musikverein, il più ambìto e sontuoso tra gli spazi musicali (è sede del
Concerto di Capodanno), con due serate dall’esito trionfale. In programma
figuravano tra l’altro una Prima Sinfonia di Brahms limpida e contrastata e
una Patetica di Ciaikovskij di struggimento inevitabile. In coda una suite di
italianissimi bis: Puccini, Verdi, Mascagni. Platea vibrante di emozione,
persino Zubin, lassù sul podio, pareva
commosso.
«Certo che mi commuovo, accade
sempre, non c’è routine. Sono i miei
musicisti ad ispirarmi», spiega. Niente,
racconta, gli dà più piacere del dirigere
l’Eroica di Beethoven. E soprattutto il
Don Giovanni di Mozart, che «è insieme pathos e commedia, capace di provocare il pianto e il riso. Potrei dirigere
quest’opera in ogni momento della
mia vita. E anche La Valchiria di Wagner: mi toccano nel profondo i sentimenti che vi sono espressi, i forti lega-
Però a Firenze, qualche mese fa, ho diretto Wagner: L’Oro del Reno e La Valchiria, con l’allestimento del gruppo
teatrale spagnolo Fura dels Baus, e il
pubblico è accorso foltissimo, tutto
esaurito e con una forte componente
giovanile, c’è stato un gran passaparola. Sono convinto che noi musicisti
possiamo ancora parlare al cuore della
gente, di ogni generazione».
Zubin, che ama tanto Wagner, ha
cercato di eseguirlo anche in Israele, a
cui lo lega un rapporto d’intensa affezione e di fervido sostegno politico.
Non ha mai rinunciato a dirigervi concerti, neppure in situazioni estreme.
Quando scoppiò la Guerra dei sei giorni riuscì a raggiungere Israele fortunosamente, su un aereo da trasporto della El Al, sedendo su casse zeppe di munizioni (ma questo lo avrebbe scoperto solo all’arrivo): voleva stare vicino ai
suoi amici israeliani. E una notte che
era a Gerusalemme, all’Hotel King David, un proiettile forò la parete sopra il
suo letto, mentre dormiva: «Ho un
buon angelo custode, gli spari non mi
hanno svegliato». Quando volle proporre a Israele il preludio e la morte d’amore dal Tristano e Isotta di Wagner in
sala esplose il finimondo: «Insulti, grida, gente che tentava di salire in palcoscenico, aggressioni fisiche agli orchestrali, un caos furioso. Nel pubblico
c’era gente che aveva sentito Wagner
nei lager, e che aveva ancora il numero
tatuato sul braccio. Non si può non rispettare certe emozioni. D’altra parte
la storia della musica degli ultimi centocinquant’anni sarebbe impensabile
senza Wagner».
Perché tanto incondizionato amore
per Israele? Non c’entra il fatto che Zubin fa parte di una minoranza? Mehta
discende da un’aristocratica famiglia
di antica tradizione parsi, i seguaci di
Zarathustra che fuggirono dalla Persia
per sottrarsi al dominio arabo che aveva islamizzato la loro terra: «Oggi i parsi sono ottantamila nel mondo, di cui
sessantamila in India: una fetta minima della popolazione indiana. Forse
anche per questo sono legato a Israele.
La nostra religione, un monoteismo
fondato sul conflitto tra luce e tenebre,
ha qualche analogia con l’apocalittica
giudaica. Abbiamo affinità culturali
con gli ebrei: come loro diamo un’enorme importanza all’educazione e alla beneficenza, aiutiamo molto i nostri
poveri. Santi, per noi, sono gli elementi naturali, il fuoco, l’acqua, la terra, per
questo non possiamo bruciare o seppellire i nostri morti. Vengono posti in
una grande fossa circolare murata dove li mangiano gli avvoltoi, e c’è uno
sbocco che porta le ossa al mare. Si
chiama Torre del Silenzio. Nel nostro
tempio si prega il fuoco, una forza che
può distruggere e creare, e il mese di
aprile è dedicato all’acqua. Ricordo
mia madre che pregava davanti al mare».
Della sua India è fiero, ma con riser-
ve polemiche: «Mi riempie d’orgoglio
l’esplosione economica del paese e
l’impressionante sviluppo delle nuove
tecnologie, ma trovo insopportabile
l’idea che il sessanta per cento degli
abitanti di Bombay non abbia acqua
potabile. Quando ho cominciato a lavorare in America, nel ‘61, ero quasi l’unico indiano conosciuto negli Stati
Uniti. Oggi non c’è ospedale né borsa
né compagnia finanziaria dove non lavorino gli indiani. Sono gli artefici delle infrastrutture americane. Però in India, su un miliardo e duecento milioni
di abitanti, solo quattrocento milioni
sanno leggere e scrivere. Gli altri vivono nell’ignoranza e nella povertà. In alcuni villaggi vige ancora il sistema per
cui si ammazzano le figlie femmine, in
quanto meno utili per i lavori nei campi. È spaventoso».
In India ha miriadi di parenti e cugini («quando dirigo a Bombay devo aumentare le repliche dei concerti per
poterli invitare tutti»), ma numerosi
membri della sua famiglia vivono altrove. Dalla prima moglie, Carmen, canadese (che dopo il divorzio da Zubin
ha sposato suo fratello Zarin Mehta,
oggi sovrintendente della New York
Philharmonic), ha avuto due figli che lo
hanno già reso nonno, e che vivono l’una a Montréal e l’altro a Philadelphia. È
americana Nancy, bellezza bionda ed
ex attrice, sposata nel ‘69 e da allora
compagna inseparabile di Zubin, da
cui non ha avuto figli. E in più il maestro
ha due figli nati fuori dai matrimoni,
una a Los Angeles e l’altro in Israele.
«Mi piace l’idea d’invecchiare tra i nipoti, vorrei vederli tanto di più. Se avessi quella certa casa in Kashmir verrebbero a trovarmi? Temo proprio di no.
Per questo il Kashmir resta solo un sogno». E allora meglio non smettere di
dirigere, fino alla fine dei suoi giorni: «A
noi direttori piace morire sul podio».
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LEONETTA BENTIVOGLIO
Repubblica Nazionale
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