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Alcuni dubbi di ortografia e grammatica
da F. Bruni, G. Alfieri, S. Fornasiero, S. Tamiozzo Goldmann, Manuale di scrittura e comunicazione, Bologna, Zanichelli, 1997 1. Alcuni dubbi di ortografia e grammatica Quando si scrive, capita a tutti di essere colti da incertezze riguardo alla corretta grafia di una parola: profiquo o proficuo? entusiasta o entusiasto? se stesso o sé stesso? onnisciente o onniscente? efficiente o efficente? intravedere o intravvedere? accelerare o accelerare? suppletivo o supplettivo? proprio o propio? un po’ o un pò? province o provincie? noi sogniamo o noi sognamo? egli legge o lui legge? le carceri o i carceri? purché non nuoccia o purché non nuocia? è piovuto o ha piovuto? lo voglio dire o voglio dirlo? la giudice Maria Rossi o il giudice Maria Rossi? E si potrebbe continuare ancora a lungo. In ogni caso, avere trasalimenti e dubbi di questo genere è un buon segno, perché dimostra che la nostra coscienza linguistica è sveglia e reattiva, e sa riconoscere le zone critiche all’interno delle convenzioni ortografiche e grammaticali che regolano l’italiano scritto. Chi invece non si pone alcun problema, spesso è destinato a commettere molti errori, del tutto inconsapevolmente, senza aver l’occasione di rimediare. Cosa fare in questi casi? È facile che la pigrizia ci spinga alla soluzione che prevede il minimo sforzo: chiediamo aiuto al fratello più grande, all’amica brava a scuola, al vicino di scrivania laureato in Lettere; oppure cambiamo la frase per aggirare l’ostacolo. Ma sappiamo tutti che basterebbe alzarsi dal tavolo e consultare il dizionario per risolvere l’incertezza; cosa ancor migliore, se per lavoro o per studio si deve scrivere di frequente, sarebbe tenere a portata di mano anche una grammatica di consultazione (e anche questo Manuale di scrittura e comunicazione). Infatti il dizionario dirime quasi sempre il dubbio ortografico, ma non spiega l’origine e il senso di una certa grafia, né la regola in base alla quale un accento è richiesto o meno, un apostrofo è necessario o erroneo (Finestra 1). Prendiamo il caso di efficiente: il dizionario ne fornisce la grafia e dà indicazioni anche sulla pronuncia ponendo un accento tonico sulla penultima -e-; avverte poi che si tratta di un aggettivo; ne spiega il significato (‘persona o cosa rispondente in pieno alle proprie funzioni o ai propri fini’); può far riferimento ad alcuni usi fissi della parola (per esempio segnalare che esiste in grammatica il complemento di causa efficiente e dire di cosa si tratta). Se il nostro è un dizionario storico, riporterà anche la prima attestazione di questo termine e qualche esempio tratto da testi letterari; se invece è un dizionario etimologico ci farà sapere che la parola deriva dal latino efficiens, -entis (quest’ultima è la forma del caso genitivo). Tuttavia, non è compito del dizionario soffermarsi sulle ragioni della presenza, in questo aggettivo, del gruppo grafico -cie-, che in italiano compare solo eccezionalmente. Questo è compito della grammatica. E infatti, consultando una grammatica potremo apprendere sia la regola grafica sia le sue eccezioni. La regola dice che l’italiano scritto rappresenta il suono dolce (ossia palatale) della -e- attraverso le grafie -ci- e -ce(città, vicino, dolci; cena, faccenda, vivace; acciaio; micio; marciume); poiché si dispone di -ce-, non vi è alcuna necessità di scrivere -de-, se non nei casi in cui l’accento cade proprio su quella -i-, come in farmacie. Le eccezioni sono però numerose: di certo a scuola abbiamo imparato che si scrive cielo (“Volta celeste”) e cieco (“privo della vista”), esiti di forme latine dittongate (rispettivamente caelum e caecus), e che attraverso 1 da F. Bruni, G. Alfieri, S. Fornasiero, S. Tamiozzo Goldmann, Manuale di scrittura e comunicazione, Bologna, Zanichelli, 1997 tale grafia le due parole si distinguono da altre di uguale pronuncia, ossia celo (‘io nascondo’) e ceco (‘abitante della Repubblica Ceca’). Hanno la grafia -cie- anche alcuni sostantivi di origine latina (specie, superficie, società), nonché i nomi composti col suffisso -iere (lo stesso che si trova in cavaliere, infermiere, romanziere): è corretto quindi scrivere braciere e pasticciere, proprio per mantenere la riconoscibilità del suffisso (benché le parole imparentate con queste, come brace e pasticceria, vadano con -ce-). Ancora, terminano in -cie i plurali di quei sostantivi femminili che al singolare finiscono per vocale + cia , come camicia -» camicie, socia -» socie, acacia -» acacie (lo stesso discorso vale per i femminili in vocale + gia); invece, le parole che escono in consonante + cia (e + gia) formano il plurale con -ce (e -ge): mancia -» mance, arancia -» arance, faccia -»facce. Infine, conservano la grafia -cie- della loro base etimologica i quattro aggettivi derivanti dai participi presenti latini efficiente, sufficiente, insufficiente, deficiente: si tratta di aggettivi di tradizione dotta, che non hanno subito il logoramento dell’uso popolare ma sono stati mutuati direttamente dalle forme latine, e perciò si scrivono in maniera diversa dai loro fratelli facente, confacente, soddisfacente (pure derivanti dal latino facio) i quali invece, avendo «abitato» per lungo tempo nella lingua italiana, ne hanno acquisito normalmente anche le convenzioni grafiche. 2. Elisione e troncamento Quando una parola termina per vocale non accentata, e la successiva inizia a sua volta con vocale, è possibile che la prima delle due vocali scompaia del tutto nella pronuncia, cioè subisca un’elisione. Per segnalare questa caduta si scrive, alla fine della prima parola, un apostrofo [’]. Per esempio, nella frase In quell’istante l’uomo sentì tutto l’orrore dell’invidia ci sono ben quattro elisioni, e di conseguenza quattro apostrofi; non scriveremmo mai In quello istante lo uomo sentì tutto lo orrore della invidia. Tuttavia, in molti altri casi sta al gusto di chi scrive decidere se far ricorso all’elisione o no: la frase Quest’amministratore è pieno d’iniziativa suona quasi altrettanto bene nella forma Questo amministratore è pieno di iniziativa, senza alcuna elisione. Ci sono dunque parole che di preferenza si elidono, e altre per le quali si può decidere di volta in volta. Fra le prime ricordiamo gli articoli determinativi singolari lo e la (l’amico, l’elicottero, l’elefante; l’anima, l’eventualità, l’indole), le preposizioni articolate che ne derivano (all’inferno, sull’atlante; dall’origine, dell’umanità, nell’ipotesi), l’articolo determinativo maschile plurale gli, solo davanti a parole che iniziano per i(gl’interessi ma gli alpini, gli estremisti, gli orfani, gli ussari), l’articolo indeterminativo femminile una (un’aquila, un’infermiera), gli aggettivi dimostrativi questo e quello (quest’abito, quest’aria; quell’antiquario, quell’edizione), la preposizione di (giardino d’inverno, parole d’oggi, vino d’annata), l’avverbio e pronome ci, solo davanti a e-, i- (c’era, c’entra, c’interessa). A proposito di quest’ultimo punto, va sottolineato che non sono corrette le grafie, pure assai diffuse ultimamente, c’ho messo molto tempo, c’hai da fumare, non c’hanno niente da fare: intanto si tratta di forme tipiche del parlato, e poi, scritte così, andrebbero lette con la e- dura (cioè velare, come in casa). Per rendere il suono dolce della e- è necessario scrivere ci ho messo molto tempo, ecc. Se dopo il femminile una l’elisione è normale, va invece ricordato che mai si deve mettere l’apostrofo dopo il maschile un, nemmeno davanti a parola che inizia per vocale. Si scrive infatti sempre e solo un amico, un epistolario, un ombrello, un impermeabile, così come davanti a consonante si scrive un carteggio, un bicchiere, un meridiano. In altre parole, il maschile un non è l’elisione di uno, ma il suo troncamento. Si parla di troncamento quando cade la vocale finale (in alcuni casi la sillaba finale) di una parola senza che sia compromessa la pronunciabilità della parola stessa; ciò può avvenire solo a condizione che l’ultima consonante sia l, m, n, r (sono parole tronche, per esempio, castel, naturai, fior, amor, voler, saprem, signor, han, suor, miglior, ecc). Si noti che la parola tronca può essere seguita indifferentemente da una vocale o da una consonante: amor eterno va altrettanto bene che amor costante, e così anche signor Aliprandi e signor Visconti, suor Ottavia e suor Mercedes, miglior amico e miglior piazzamento. Non va dimenticato che anche qual è una forma tronca, sia al maschile che al femminile, perché si può dire tanto qual buon vento che qual meraviglia. Pertanto qual è, in tutti i casi, va scritto senza apostrofo. Lo stesso vale per tal. 2 da F. Bruni, G. Alfieri, S. Fornasiero, S. Tamiozzo Goldmann, Manuale di scrittura e comunicazione, Bologna, Zanichelli, 1997 Nel caso dell’aggettivo buono, notiamo che si può usare la forma tronca buon al maschile (buon umore, buon ragazzo) purché non davanti a parole che inizino con s + consonante o z- (in questo caso un buono strumento, il buono zampognaro); al femminile invece si usa la forma piena buona (buona usanza, buona donna, buona stella), ferma restando la possibilità di elisione davanti a vocale (la buon’anima). Ancora diverso il comportamento di bello, grande, santo: questi aggettivi hanno una forma tronca maschile che può essere usata davanti a consonante (bel quadro, gran filibustiere e anche, al femminile, gran carriera, san Giovanni); davanti a vocale, si ha possibilità di elisione sia al maschile che al femminile (bell’aspetto, bell’avventura o bella avventura; grand’ufficiale, grand’invettiva o grande invettiva; sant’Eusebio, sant’Orsola o santa Elisabetta); davanti a s + consonante si ricorre alla forma piena (bello stile, grande stupido, santo Stefano), così come davanti a z- per i primi due aggettivi (bello zuccone, grande zaino), mentre santo ricorre anche in questo caso alla forma tronca (san Zaccaria, san Zeno). Casi particolari di parole tronche terminanti per vocale e non per l, m, n, r, sono costituiti da po’ (= poco), ca’ (= casa), mo’ (= modo), be’ (= bene), oltre che dagli imperativi da’ (= dai!), di’ (= dici!), fa’ (= fai!), sta’ (= stai!), va’ (= vai!). Come si vede, tutti questi monosillabi vanno scritti con l’apostrofo. 3. L’accento L’uso corrente, in italiano, è di segnare l’accento grafico solo sulle parole tronche (od ossitone, cioè quelle che lo portano sull’ultima sillaba), come civiltà, caffè, giovedì, cantò, ragù. Non è necessario invece segnare la sillaba tonica delle altre parole, siano esse accentate sulla penultima (parossitone o piane) o sulla terzultima (proparossitone o sdrucciole) o anche più indietro (come le bisdrucciole capitano, visitano). Un discorso a parte va fatto per i monosillabi. Qui l’accento grafico non serve a dirimere dubbi di pronuncia, perché l’accento tonico non può cadere che su quell’unica sillaba; serve invece come elemento di distinzione fra parole che hanno lo stesso suono: per esempio, nella frase Ne fa di cotte e di crude tutto il dì l’accento spetta al sostantivo dì (‘giorno’), che così non può essere confuso con la preposizione semplice di. Altrettanto avviene con le coppie seguenti: è (verbo) ed e (congiunzione); te (sostantivo) e te (pronome personale); sé (riflessivo) e se (congiunzione); dà (3a pers. sing. del presente indicativo) e da (preposizione semplice); né (congiunzione) e ne (pronome e avverbio); sì (avverbio) e si (pronome); là (avverbio) e la (articolo); lì (avverbio) e li (pronome); ché (congiunzione, equivale a poiché) e che (pronome relativo e congiunzione). In generale, la convenzione ortografica sembra orientata secondo un criterio «di economia»: sulla parola di uso più comune non va l’accento, che viene riservato invece a quella meno frequente. Portano l’accento inoltre i monosillabi ciò, può, già, più, chiù (altro nome dell’assiuolo, uccello notturno, simile a un piccolo gufo, provvisto di due lunghi ciuffi sul capo, diffuso nelle regioni paleartiche), piè. Altri monosillabi invece vanno scritti senza accento, ma lo passano ai loro composti: si tratta di blu, fa, re, sta, sto, su, tre, va, che producono forme composte accentate come rossoblù, contraffà, viceré, sottostà e sottostò, quassù, trentatré, riva. Si noti che sulla -e- si possono segnare due tipi di accento: grave [-è] a indicare che la vocale ha suono aperto (come in è, cioè, caffè), oppure acuto [-é] per rappresentare un suono chiuso (come in sé, né, perché, poiché, sicché, affinché, ecc): è bene abituarsi a distinguere sempre correttamente un gruppo dall’altro. Un’ultima curiosità riguarda il riflessivo sé, che (quando è da solo) va scritto con accento acuto: la vecchia convenzione ortografica che raccomandava di scriverlo senza accento qualora fosse accompagnato da stesso e medesimo ultimamente viene sottoposta a molte critiche, in quanto si tratterebbe di un’inutile complicazione della norma, sicché la grafia sé stesso sta velocemente prendendo piede. Al momento attuale si può ancora ritenere che tutte e due le scelte siano accettabili. Si ricordi comunque che va sempre senza accento (in quan- 3 da F. Bruni, G. Alfieri, S. Fornasiero, S. Tamiozzo Goldmann, Manuale di scrittura e comunicazione, Bologna, Zanichelli, 1997 to si tratta di una particella atona) il se riflessivo che s’incontra in frasi del tipo Se ne pentiranno, Andarsene, Se ne sta facendo beffe. 4. Il passivo II modo più semplice e diretto di costruire una frase consiste nell’assumere come soggetto la persona o la cosa che compie l’azione (per esempio Io guardo, Tu corri, II delitto non paga); se poi l’azione ricade su qualcuno o qualcosa, e se il verbo è transitivo, si avrà anche un complemento oggetto (Io sbuccio una mela). Come tutti sanno, questo modello di frase può essere ribaltato: la costruzione attiva si trasforma allora in passiva, il complemento oggetto diventa soggetto, mentre quello che prima era soggetto diventa un complemento d’agente (se si tratta di persona o animale) o di causa efficiente (se si tratta di un’entità inanimata). La frase precedente, volta in forma passiva, suona così: Una mela è sbucciata (o viene sbucciata) da me. In primo piano adesso c’è la mela, e quell’io che materialmente compie l’azione di sbucciare è messo in disparte, grammaticalmente declassato: il passivo ha cambiato in maniera netta il punto di vista del discorso. Se poi si osserva la parte verbale della frase si nota che, per realizzare lo stesso modo e tempo (indicativo presente), nella costruzione attiva basta una parola, sbuccio, mentre in quella passiva ce ne vogliono due, è sbucciata oppure viene sbucciata: questo perché la costruzione passiva richiede un ausiliare (per lo più essere o venire ma anche, meno frequenti, finire, andare). Quale che sia il modo e tempo della frase attiva, possiamo verificare che la corrispondente passiva conta, nel verbo, una forma in più: La nostalgia mi distrugge / Sono distrutto dalla nostalgia Hanno perduto quelle lettere / Quelle lettere sono andate perdute Si punirà ogni indisciplina / Ogni indisciplina sarà punita Rosella ha costruito il modellino / II modellino è stato costruito da Rosetta Non avranno chiarito tutto / Non tutto sarà stato chiarito La tintura rovinerà i capelli / capelli finiranno rovinati dalla tintura. Se quella passiva, come pare, è una costruzione non solo «innaturale» ma anche gravosa, in quanto costringe a usare forme verbali complesse e ingombranti, ci sarebbe da aspettarsi una sua tendenza a scomparire. Invece si può tranquillamente affermare che il passivo gode di buona salute e non sembra risentire affatto delle spinte semplificatorie di cui la lingua italiana è vittima in questi anni. Anzi, è più facile che vengano segnalati degli abusi di passivo, soprattutto nella scrittura giornalistica, come nell'esempio che riproduciamo: Le salme dei naufraghi sono state recuperate e sono state trasportate all'istituto di medicina legale, dove è stato compiuto il riconoscimento ufficiale; la tragedia è avvenuta perché la nave era carica, è stata sballottata dalle onde e si è inclinata; è stato dato il segnale di SOS; è arrivata un’altra nave, ma una delle sue lance di salvataggio è stata sollevata da un’onda e scaraventata contro la prua della nave. Le operazioni di soccorso sono state riprese stamani all’alba: il recupero delle salme è stato fatto da un elicottero; i corpi sono stati trasportati all’aeroporto. Il ministro ha ordinato che sia data assistenza alle famiglie delle vittime. Da testi di questo genere risulta abbastanza chiaro un primo vantaggio della costruzione passiva, cioè la possibilità di tenere in ombra dei soggetti anonimi o ininfluenti ai fini della cronaca (i soldati che materialmente hanno recuperato le salme, i singoli parenti che hanno compiuto il riconoscimento, le onde del mare), portando invece al centro dell’attenzione anche grammaticale ciò che veramente interessa ai lettori (le salme dei naufraghi, le operazioni di soccorso, l’assistenza alle famiglie). Basta provare a volgere all’attivo la prima parte del pezzo per rendersi conto che il risultato è insipido e privo di un argomento coerente: Qualcuno ha recuperato le salme dei naufraghi e le ha trasportate all’istituto di medicina legale, dove (i parenti) hanno compiuto il riconoscimento ufficiale; [...] le onde hanno sballottato la nave e questa si è inclinata; qualcuno ha dato il segnale di SOS; è arrivata un’altra nave, ma un’onda ha sollevato una delle sue lance di salvataggio e l’ha scaraventata contro la prua della nave. Il passivo risulta ancor più funzionale negli articoli di cronaca nera, soprattutto quando il rapinatore o l’assassino non ha volto né nome e mal si presterebbe a essere usato come soggetto, mentre le sue vittime (i 4 da F. Bruni, G. Alfieri, S. Fornasiero, S. Tamiozzo Goldmann, Manuale di scrittura e comunicazione, Bologna, Zanichelli, 1997 suoi «complementi oggetti») possono proficuamente essere promosse, grazie alla costruzione grammaticale, a vere protagoniste della storia, pur avendo soltanto subito l'azione. 8. L’uso di ne Ne deriva dall’avverbio di luogo latino inde (= da lì) e anche in italiano il suo primo significato è avverbiale, come nelle frasi: Posso dirti che il teatro è pienissimo: ne (= da lì) vengo proprio adesso Me ne (- da lì, o da qui) andrò senza rimpianti. Inoltre, ne può avere anche funzione di pronome: in questo caso sostituisce le locuzioni di lui, di lei, di ciò, di loro, da lui, da lei, da ciò, da loro (o anche di questo, di questa ecc), come negli esempi: Domani parlerò di Cesare e ne (= di lui) metterò in luce l’astuzia strategica Irene è bellissima: ne (= di lei) ammiro soprattutto gli occhi Ne (= di ciò) conosciamo molti esempi Ho perso di vista i compagni di scuola, e ormai ne (= di loro) frequento solo due Ecco il teste: ne (= da lui) apprenderete la dinamica dell’incidente Silvana è una vera amica: ne (= da lei) ricevo sempre ottimi consigli Ne (= da ciò) siamo rimasti molto colpiti Ho letto i due libri e ne (= da essi, da questi) ho ricavato molte informazioni utili. Sia in funzione di avverbio che di pronome, la particella ne diventa enclitica (cioè “si attacca” alla fine di un’altra parola) quando accompagna un verbo di modo non finito (infinito o gerundio), come si può vedere nelle coppie di frasi che seguono: Me ne (- da qui) vado -> Devo proprio andarmene Piangeva mentre se ne (= da lì) allontanava -> Piangeva allontanandosene Ne (= di lui, di lei, di loro) apprezzo lo zelo -> Posso apprezzarne lo zelo Gli voglio bene anche se non ne (= di lui) sopporto la pedanteria -> Gli voglio bene pur non sopportandone la pedanteria Me ne (= di ciò) vanto -> Posso davvero vantarmene. 5