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Insegnare un Mestiere, Proporre una Forma

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Insegnare un Mestiere, Proporre una Forma
Insegnare un Mestiere,
Proporre una Forma
transcrição
Daniele Vitale*
I
l mestiere di insegnare
*Nascido em 1945 em
Muralto, na Suíça, forma-se
em
arquitetura
pelo
Politecnico di Milano em 1969
tendo como orientador Aldo
Rossi. Inicia sua carreira acadêmica trabalhando como
assistente de Rossi e desde
1976 é professor titular de
Composição Arquitetônica
junto ao Politecnico di Milano.
Ensinou ainda no Politecnico
di Torino, e também em universidades de outros países,
em particular como “visiting
professor ” na Graduate
School of Design - Harvard,
nos Estados Unidos.
Procurou sempre aliar ao estudo da cidade, dos monumentos e da tipologia construtiva o trabalho de projeto
e a elaboração teórica. Com
Ignazio Gardella, um dos mestres da arquitetura italiana,
colaborou em alguns projetos, como o centro histórico
de Gênova entre os anos de
1969 a 1974 e a Villa Eremo
em Lecco de 1984 a 1986.
Com Aldo Rossi trabalhou em
duas exposições: na XV e na
XVI Triennale di Milano
(“Architettura Internazionale”
de 1973 e “Architettura/
Idea” de 1981). De 1978 a
1981 foi redator de “Lótus
Internacional”, uma das principais revistas da cultura
arquitetônica européia. Dirige com Carlo Olmo a coleção
de textos teóricos “I testimoni
dell’Architettura”, da editora
Allemandi de Turim. Publicou
ensaios, artigos e pesquisas
em numerosos livros e revistas internacionais, tratando
de assuntos como a cidade
européia, a arqueologia e a
arquitetura do racionalismo.
De 1996 a 2000 foi membro
do colégio docente de Doutorado em Composição
Arquitetônica da Università
Iuav di Venezia
r sco
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Ho due mestieri, anche se uno mi sembra di esercitarlo
troppo poco. Il primo mestiere consiste nell’insegnare
nella scuola. L’altro è quello di architetto, ed è quello
più scopertamente amato, anche se praticato con
limiti e difficoltà. È ovvio che i due mestieri si
alimentano e si arricchiscono a vicenda, ma di sicuro
non coincidono, né derivano in modo lineare uno
dall’altro.
Non derivano uno dall’altro, ma hanno tra loro
legami forti. Su questi legami si è soliti sorvolare,
visto che si discute molto del problema
dell’insegnamento e poco (troppo poco) del
problema dell’architettura. In realtà, discutere del
primo serve a eludere il secondo. Ma è evidente
che il problema dell’insegnamento non può esistere
in termini autonomi, cioè a prescindere da un
pensiero e da un atteggiamento su quel che si
pensa che l’architettura debba essere. Non si può
anteporre il problema di come trasmettere al
problema di cosa trasmettere. Anche perché il come
dipende in buona misura dal cosa. E per lo più,
una concezione nel campo dell’architettura suppone
in modo implicito un modo di insegnare.
corpo naturale e come strumento di progresso.
Muove dall’idea che le tecniche siano separabili
dalle scelte culturali alle quali sono intrecciate, e le
riveste di una naturalità e di un’ovvietà che in realtà
non possiedono né possono possedere. Dobbiamo
guardarci da questa tentazione che seguita a proporsi
e che ci cammina accanto.
Ma accanto a questa vi è un’altra deviazione, più
difficile da discutere perché legata al prestigio di
grandi maestri. Essi si proponevano non come maestri
di architettura, ma di intelligenza e di umanità, e a
volte davvero erano tali. L’esempio più semplice e
convincente che io possa portare è quello di Ernesto
Nathan Rogers. Prima di Aldo Rossi e accanto a lui,
Rogers è stato il mio professore. Egli rappresentava
in modo pieno un modo di insegnare: non insegnava
il mestiere che si suppone la scuola debba
trasmettere, ma un punto di vista e una comprensione
profonda delle cose. Era maestro di cultura,e prima
che di cultura, di critica e di riflessione. Introduceva
all’esercizio laico della ragione, e lo faceva con una
certa improntitudine e malizia. Alle cose
dell’architettura non arrivava in modo diretto, ma
ampliando lo sguardo e ponendo problemi. Rogers
non stringeva sulla cosa che doveva insegnare, ma
allargava a un arco ampio di interessi, tanto che
Questo è dunque il primo punto sul quale fermarsi.
attraverso di lui gli studenti scoprivano la filosofia,
la letteratura, l’arte, il cinema, il teatro. E diventava
un’educazione per loro determinante. Questo
atteggiamento era legato in Rogers a un suo modo
L’insegnamento non può limitarsi a trasmettere
tecniche e capacità. Quando pretende di farlo, è
perché le assume come neutre e attribuisce loro
un ruolo improprio. Le separa cioè dalle ragioni
di essere architetto: ed era un modo denso ma
problematico ed incerto, dove ogni volta sembrava
di dover ripartire daccapo, senza la forza di un mondo
di forme compatto e definito. In questo, Rogers
cui sono legate per farle diventare a loro volta una
ragione. È un punto di vista “neo-tecnico” che è
dilagato in molte scuole e in particolare in quelle
di ingegneria e nei Politecnici. Ed è un punto di
era simile ad altre figure centrali dell’architettura
italiana e in particolare a Giuseppe Samonà e a
Ludovico Quaroni. Tutti e tre, nell’insegnare,
tendevano a non indicare in modo preciso né “da
vista basato sul vecchio mito della tecnica come
dove partire”né “dove arrivare”. Il fatto che non si
Insegnare attraverso le tecniche,
insegnare per via di cultura
revista de pesquisa em arquitetura e urbanismo
programa de pós-graduação do departamento de arquitetura e urbanismo
eesc-usp
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Insegnare un Mestiere, Proporre una Forma
Figura 1: Rembrandt van
Rijn, La lezione d’anatomia
del dottor Tulp, 1632, L’Aja,
Mauritshuis.
pronunciassero sul terreno sul quale gli studenti
erano chiamati ad operare, finiva per indurre
smarrimento. In realtà, cercavano di sfuggire al
problema più difficile da affrontare, che era quello
oltre la quale ciascuno doveva proseguire da sé. In
sostanza, non si voleva suggerir loro un mondo
preventivo di forme.
Facoltà di Architettura e desde 2000 é coordenador do
Doutorado em Composição
Arquitetônica do Politecnico
di Milano. Venceu diversos
concursos de arquitetura na
Itália e fora dela; é autor de
projetos para cidades italianas e de outros países, em
particular espanholas.
dell’influenza che il professore esercita sugli
studenti. Questa influenza era vista come “illiberale”
e dunque vissuta con imbarazzo. Gli studenti, si
pensava, avevano una loro inclinazione interiore
Una cittadella di figure
O professor Daniele Vitale é
responsável juntamente com
o professor Joubert Lancha
pelo Convênio Internacional
firmado entre o Politecnico di
Milano e o Departamento de
Arquitetura e Urbanismo da
Escola de Engenharia de São
Carlos – EESC – USP. No
âmbito desse convênio o professor Vitale vem colaborando desde 2004 como pesquisador e professor visitante
junto ao Programa de PósGraduação em Arquitetura e
Urbanismo da EESC – USP.
(N.T. e R.)
mai interamente rivelata, che dovevano essere liberi
di scoprire, e che anzi dovevano essere condotti a
scoprire, seguendo un loro personale cammino. E
dunque per un cammino precostituito non li si
poteva né li si voleva instradare.
Si viveva invece dentro un’altra e ricorrente illusione:
ed era che l’architettura si potesse insegnare
attraverso il discorso sull’architettura. Ma nessun
discorso in architettura è autosufficiente e può di
per sé condurre a un sistema di forme. Tra discorso
e sistema di forme può tutt’al più determinarsi una
rete di corrispondenze, di analogie, di tensioni,
non un gioco di coincidenze. Ciò che accadeva, era
che gli studenti venissero portati a una soglia di
discorso a volte ben argomentata e ben costruita,
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Ma come si può iniziare ad essere architetti, se non
partendo anche da un mondo di forme? Non è
forse vero che si progetta attingendo a una “cittadella
mentale” di forme e figure, che ciascuno di noi
possiede, e che si altera e si arricchisce col tempo,
e che ogni volta entra in risonanza con le occasioni
e con i temi che siamo chiamati ad affrontare? Non
è forse vero che il bagaglio di immagini e di
esperienze di cui lo studente dispone quando entra
nella scuola, si modifica e si ricostituisce in rapporto
a coloro che assume come maestri?
Fatto sta che l’esito di quel volersi ritrarre ed astenere
dei maestri è sovente paradossale. Roberto Gabetti,
con cui tante volte mi sono confrontato nella facoltà
di architettura di Torino, sosteneva di voler lasciare
agli studenti uno spazio il più possibile ampio e di
non voler determinare il loro lavoro. Ma tendeva a
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Insegnare un Mestiere, Proporre una Forma
Figura 5: Sandro Botticelli,
Madonna col bambino e
cinque angeli (Madonna del
Magnificat) , 1408-1480,
particolare; Firenze, Galleria
degli Uffizi.
circondare di riserbo e di pudore il risultato e
rifuggiva dal discuterne: e il risultato era quello di
un’aula piena di disegni che a lui e alla sua opera
e naturale avversaria. Non si vuol vedere come nella
realtà esistano modi diversi di imitare. Non si vuol
vedere come l’imitazione non sia un fatto solo
linearmente si rifacevano, e non solo
nell’impostazione e nel significato, ma nei particolari
formali e nelle modalità degli schizzi. Di questo
dunque dobbiamo essere avvertiti: che quando il
spontaneo, ma supponga tecniche che svolgono
un ruolo di interposizione e di mediazione rispetto
alla cosa imitata. Non si vuol vedere come essa
possa traghettare a porti diversi e alimentare diversi
problema dell’influenza non viene affrontato,
controllato e guidato, esso emerge per vie improprie
e in modi imprevisti e surrettizi.
immaginari. Non si vuole vedere, insomma, come
esistano imitazioni buone e cattive, proprio come
esistono modi buoni e cattivi di insegnare.
Imitazione e rapporto personale
Ma con questo discorrere di imitazione, non voglio
sfuggire al nodo più difficile e crudo. Il nodo più
crudo è la radice personale che l’insegnamento
La difficoltà che quei nostri maestri evitavano, viene
in chiaro se rovesciamo il problema, e per un
momento ci chiediamo non come si insegna, ma
come si impara. È chiaro infatti che per una parte
importante si impara imitando. L’imitazione è uno
dei meccanismi basilari di ogni apprendimento e
da essa non è possibile prescindere. Ma almeno
nel campo dell’insegnamento artistico, la si è
demonizzata, mostrandola come antagonista della
creatività. L’imitazione deprimerebbe la creatività
sino a soffocarla, e dunque ne costituirebbe la prima
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comunque conserva e che è per noi fonte di
inquietudine. Si insegna influenzando in modo sia
diretto che indiretto una persona altra da noi: e in
questa influenza si può d’improvviso non
riconoscersi. Accade a volte di avere un’idea che
pare bella e convincente e di trasmetterla nella scuola;
accade che quell’idea la raccolga e la traduca una
mano curiosa di studente; accade che quella mano
sia non solo poco addestrata e poco avvezza, ma
soprattutto diversa dalla tua; accade che essa faccia
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Insegnare un Mestiere, Proporre una Forma
per suo conto ciò che tu avresti voluto fare, ma in
termini alla fine spostati e che non riesci a condividere.
un’umana eredità. Ed era una realtà conoscibile
con il rigore con cui è solita conoscere la scienza.
Ho letto questo imbarazzo anche in Aldo Rossi e
nel suo atteggiamento ambivalente nella scuola.
Non dalle condizioni del mestiere si doveva dunque
partire, né da un dibattito ad esso interno, ma da
quel mondo nobile e pietrificato che è l’architettura
e che da sempre vive fuori di noi, indifferente allo
Rossi sosteneva giustamente che una scuola deve
insegnare e che questo comporta un certo grado
di schematismo e di ripetizione. Meglio una scuola
che sappia indirizzare e che lo faccia a prezzo di
semplificazioni, piuttosto che una scuola agnostica
che non sa indicare una direzione. Rossi è sempre
stato combattuto tra il compiacimento per gli esiti
a volte schematici e imitativi del suo insegnamento
(gli studenti che rifacevano il Gallaratese, o che
ripetevano le sue case di Berlino), e dunque per
quello che gli sembrava il formarsi embrionale di
una scuola, e il fastidio che quegli stessi risultati
svolgersi delle umane vicende. Così che al metodo
e alla maieutica di Rogers, Rossi opponeva
l’ambizione a costruire nella scuola un sistema: un
sistema ordinato di conoscenze che diventasse anche
sistema di enunciati e di principi. Come se
l’architettura potesse essere riconfigurata come un
castello vasto e ordinato. E come se del castello
non si cercassero tanto le immagini, quanto la
struttura e la legge. Struttura e legge di cui la scuola
doveva impadronirsi, per porle a base di un nuovo
disegno.
alla fine gli procuravano.
Insegnare attraverso un sistema
Figura 7: Antonio e Paolo
Mola (attribuzione), Armadio
con oggetti (una clessidra, un
cofanetto, un breviario, una
scatola) tarsia lignea della
sagrestia della Basilica di San
Marco a Venezia, fine
Quattrocento.
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Rossi, da giovane, aveva in realtà creduto in una
strada diversa. Essa è per gran parte rappresentata
nel suo primo libro, L’architettura della città, dove,
anche se in modo ricco e ambiguo, l’architettura è
intesa come una realtà positiva e naturale e come
Così Rossi, promuovendo il diffondersi degli studi
urbani e tipologici, aveva dato fiato a un
atteggiamento antico, che era quello del positivismo
e del naturalismo. Eppure, dietro il castello che
immaginava di costruire, già si affacciava un sistema
altro di elementi, di figure, di private ossessioni.
Ed era la sua architettura che si veniva costituendo
e che si formava per vie sconosciute e altre rispetto
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Insegnare un Mestiere, Proporre una Forma
LOUIS KAHN, Forma e
progettazione (da “The voice
of America”, 1960), in
CHRISTIAN
NORBERG
SCHULZ, Louis Kahn. Idea e
con
la
immagine ,
collaborazione di Jan Georg
Digerud, Officina edizioni,
Roma, 1980, p. 71.
1
2
Ibidem.
3
ALDO ROSSI, Autobiografia
scientifica, Pratiche Editrice,
Parma 19901, 19932, pp. 3233.
a quell’ordinato conoscere. Ed era fatta di oggetti
nudi e scarnificati, come quelli di una città di Sironi.
Dentro diversità anche profonde, c’è parentela tra
questa idea dell’inizio in Kahn e il procedimento di
Era a questa città diversa e surreale che gli studenti
tendevano a guardare, anche se a volte
confondendola con la prima.
Rossi. Rossi riprende nei suoi progetti elementi
che hanno assunto stabilità e costanza e li rielabora
puristicamente e geometricamente in una sorta di
abaco ideale. È dunque un procedimento “icastico”,
Partire dall’inizio
il suo, che tende a fissare un repertorio elementare
di figure. Ma è anche una ricerca sul momento
germinale della forma e del suo primitivo costituirsi;
uno scandaglio in una sorta di memoria remota e
Ma voglio provare ad uscire da queste difficoltà e
da questi disagi proponendo due considerazioni,
che mi paiono almeno in parte indicare una via
d’uscita e una possibilità. La prima considerazione
è che vi sono modi diversi di proporre dei mondi
formali. Louis Kahn ripeteva spesso di «amare gli
inizi». «È bene che la mente torni all’inizio: perché,
per qualsiasi attività umana costituita, l’inizio è il
momento più meraviglioso»1. Esprimeva con questo
la sua aspirazione alla ricerca dell’essenziale.
L’essenziale stava nel significato originario di una
attività e nel suo supporre un rapporto con i luoghi
e con gli spazi. Ma stava anche nel risalire ai principi
costitutivi della forma. «La forma non ha niente a
che fare con condizioni contingenti. In architettura,
Figura 3: Gianfilippo Usellini,
L’Accademia, 1926, Milano,
collezione privata.
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significa un’armonia di spazi adatta a una certa
attività dell’uomo»2.
inconscia. «Forse l’osservazione delle cose è stata
la mia più importante educazione formale; poi
l’osservazione si è tramutata in una memoria di
queste cose. […] Ma questo elenco tra
immaginazione e memoria non è neutrale: esso
torna sempre su alcuni oggetti … […] Potrei chiedermi
cosa significa il reale in architettura, Per esempio
un fatto dimensionale, funzionale, stilistico,
tecnologico: potrei scrivere un trattato. Ma penso
piuttosto a questa light house, a un ricordo, a
un’estate»3.
Non proseguo su questo terreno, perché porta a
questioni difficili. Ma potremmo dire che come
l’architetto, anche chi insegna ha la necessità di
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Insegnare un Mestiere, Proporre una Forma
“partire dagli inizi”: cioè di porre il problema della
forma in termini fondativi, risalendo alla radice. È
Dunque il buon maestro è colui che non sfugge
alla responsabilità di insegnare, ma intuisce quando
vero che la forma è sempre più forte dei meccanismi
che la generano o dei procedimenti che la
accompagnano: e tuttavia è bene che essa venga
riportata a questi suoi fondamenti e dunque legata
deve ritirarsi. Il buon maestro è colui che non insegna
solo attraverso la propria maniera personale, ma
mostra un modo di percorrere la realtà e di
appropriarsene. E alla realtà a un certo punto sa
a una ricerca di ascendenze e di senso.
rimandare. Fa cioè in modo che gli studenti non
procedano solo imitando i maestri, ma lentamente
imparino ad imitare la realtà.
Rimandare alla realtà
La seconda considerazione riguarda il modo in cui
la realtà può e deve tornare ad essere terreno di
insegnamento. Per questo, chiudo questo testo al
modo in cui ne avevo chiuso uno simile tanti anni
fa. Tanti anni fa leggevo e amavo Bertolt Brecht. In
BERTOLT BRECHT, Me-Ti.
Libro
delle
svolte ,
introduzione e traduzione di
Cesare Cases, Giulio Einaudi
editore, Torino 19703, p. 66.
4
Figura 2: Felice Casorati, Gli
scolari, 1927-1928, Palermo,
Civica Galleria d’Arte Moderna Empedocle Restivo.
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un suo scritto in cui, per potere esprimere difficili
verità, era costretto a travestirle con abiti “cinesi”,
Brecht metteva in bocca al saggio Me-ti la
considerazione che segue. «Ogni maestro deve
imparare a smettere di insegnare, quando ne è
giunto il momento. È questa un’arte difficile.
Pochissimi sono in grado di farsi sostituire, a tempo
debito, dalla realtà. Pochissimi sanno quando hanno
La realtà è per un architetto composita. La realtà è
il mondo delle architetture. La realtà è l’esperienza
piena di tensione delle città. La realtà è il sapere
tramandato che si è fissato nella disciplina e nei
libri. È un corpo muto e immenso, che comprende
in sé le alternative e le possibilità. Solo un occhio
sbilanciato e amoroso può riconoscervi parentele
e fili. Solo esso può trarvi alimento, per costruire
quell’ideale Museo d’architettura che è alla base
di ogni progetto. Questo dovrebbe fare una buona
scuola: costruire un Museo composito che conservi
coralità, pur ospitando propensioni e passioni
diverse.
finito di insegnare»4.
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