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Ho accolto con piacere l`invito dell`autore di questo splendido

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Ho accolto con piacere l`invito dell`autore di questo splendido
Ho accolto con piacere l’invito dell’autore di questo splendido volume sugli alberi monumentali
presenti nel territorio regionale, a scrivere questa breve prefazione che intende sottolineare l’impegno ultraventennale di Valido Capodarca nel diffondere, con passione e competenza, la conoscenza,
la valenza ambientale e culturale della parte più significativa dell’intero patrimonio arboreo marchigiano, quello monumentale.
Questo volume, tra l’altro, costituisce una solida e scientifica base propedeutica a definire quella
parte del Censimento delle Formazioni Vegetali Monumentali delle Marche, previsto dalla Regione
Marche nell’articolo 27 della l.r. 23 febbraio 2005, n. 6, legge forestale regionale, che si occuperà di
descrivere, elencare e sottoporre a specifica tutela, gli elementi vegetali monumentali isolati.
In merito a tale previsione normativa segnalo che la Giunta regionale, su mia proposta, ha già adottato due provvedimenti specifici per l’avvio nel prossimo anno di tale importantissimo Censimento,
che sarà terminato entro 18 mesi dall’avvio del lavoro affidato al Corpo Forestale dello Stato.
Al di là dell’obbligo di legge, il riconoscimento, la valutazione, la descrizione, la tutela, la cura, la
georeferenziazione e l’indicazione tramite apposite immagini e tabelle delle formazioni vegetali monumentali, è quanto di più efficace l’amministrazione regionale possa fare per implementare, in senso assolutamente positivo, la cultura e la conoscenza delle attuali e delle future generazioni circa quelle presenze
vegetali che la legge forestale regionale definisce, in maniera assai pregnante e significativa, come “gli
alberi di qualunque specie, i filari, i gruppi e qualsiasi altro elemento o formazione vegetale di particolare interesse storico-culturale o di particolare pregio naturalistico-paesaggistico, che per età o dimensioni possono essere considerati come rari esempi di maestosità e longevità o che recano un preciso riferimento ad eventi o memorie rilevanti dal punto di vista storico, culturale, o delle tradizioni locali”.
Da tale definizione è ben comprensibile che si tratta del contestuale riconoscimento ed elevazione a massima importanza e funzione pubblica, di uno dei più spettacolari elementi del paesaggio
marchigiano, sia urbano che rurale.
Il Servizio Forestazione della regione Marche, con la determinante collaborazione degli enti
locali territoriali, del Corpo Forestale dello Stato e di appassionati e studiosi come Valido Capodarca,
persegue, con interesse e continuità di azione, l’obiettivo di diffondere nei cittadini un aspetto che,
pur se considerabile come una naturale predisposizione dell’uomo, necessita comunque di adeguato
impegno sul “campo”, per tendere alla massima e puntuale difesa, e sviluppo, di un rilevante interesse pubblico che detiene evidenti implicazioni multifunzionali: socio-culturali, paesistico-ambientali, biologico-naturalistiche, didattico-scientifiche, turistico-ricreative.
Nonostante l’importanza di tutte le funzioni elencate, a noi offerte da ogni formazione vegetale
monumentale, voglio soffermarmi sull’importanza dell’ultima funzione citata, in quanto ritengo che,
nell’ottica di una promozione turistica integrata sia micro che macroterritoriale, le formazioni vegetali
monumentali, una volta segnalate e tabellate come previsto dalla legge forestale regionale, contribuiranno fattivamente nel caratterizzare, innovare e rendere competitiva l’offerta di pacchetti turistici
sempre più completi, gradevoli e presentabili sul mercato, in quanto tangibilmente politematici.
Utilizzando un vocabolo su cui mi sento molto impegnato nelle scelte concernenti le politiche
agricole, agroalimentari e forestali regionali, si potrà offrire ai cittadini ed ai visitatori, un turismo
massimamente “biodiverso”, quindi non solo intelligente e formativo, ma anche sostenibile economicamente, ecologicamente e socialmente.
PAOLO PETRINI
Assessore Regionale
Agricoltura, Forestazione e Pesca
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A distanza di oltre vent’anni dall’opera “Marche - 50 alberi da salvare” la passione e l’impegno
dell’amico Valido Capodarca ci conducono con un’opera ricca ed intensa ad un nuovo viaggio tra i
patriarchi verdi delle Marche.
Un viaggio, perché possa definirsi tale, deve condurre il visitatore a cogliere l’anima del luogo
visitato, a conoscerne la cultura e il paesaggio, a sentirne perfino l’odore ed il sapore.
Le immagini, i testi, gli aneddoti raccontati nel volume permettono proprio questo, di conoscere
le avventure, gli slanci e le cadute dei nostri alberi, capaci davvero di diventare i testimoni del
nostro e dell’altrui tempo, i testimoni del nostro vivere.
Potremmo scrivere una parte significativa della storia marchigiana parlando solo di loro. Il Tasso
del monastero di Fonte Avellana, nel pesarese, ed il Platano del Piccioni, nell’ascolano, sono alcuni
di questi monumenti verdi; accanto ad essi i numerosi e meno famosi alberi che radicano nelle
forre, che segnano i confini dei campi o che abbelliscono i parchi delle dimore storiche.
Quelli marchigiani non sono quasi mai alberi selvaggi e perciò in qualche modo estranei, sono
sempre alberi, per così dire, domestici, vicini all’uomo, con cui hanno condiviso fatica e riposo,
gioie e dolori.
La bellezza del paesaggio marchigiano, di cui gli alberi monumentali sono testimoni di eccezione, sta proprio qui, nell’unione e nell’equilibrio del lavoro con la natura.
I patriarchi verdi sono testimoni di un patto antico, di un’alleanza tra uomo e natura capace di
produrre buoni frutti e di disegnare armonie viventi.
Accanto, gli strappi, gli squarci, le fratture e le cadute a ricordarci come questa armonia sia fragile e meritevole di ogni attenzione e protezione.
Anche per ciò questi alberi sono protetti, perché non vada perduto lo slancio verso l’equilibrio e
la bellezza del nostro vivere quotidiano.
Gli alberi delle Marche sono protetti dalla legge fin dagli anni ’70 e la loro salvaguardia è garantita oggi dalla Legge 23 febbraio 2005 n. 6 “Legge Forestale Regionale”. La tutela riservata agli
alberi monumentali avrà a breve un ulteriore strumento; è ormai in fase di avvio il censimento delle
formazioni vegetali monumentali, previsto da tale legge e frutto di un accordo tra Regione Marche e
Corpo Forestale dello Stato. Il censimento aggiornerà quelli già svolti dal Corpo Forestale dello
Stato negli anni ’70 e nel 1982 e permetterà di definire in maniera ancora più efficace e puntuale le
misure di salvaguardia di ogni albero monumentale.
All’opera di Valido Capodarca, come già era accaduto ventitre anni fa, ha dato il suo fondamentale contributo il Corpo Forestale dello Stato che ho l’onore di dirigere nelle Marche.
Il paziente lavoro dei forestali, garanti del patto uomo-albero e veri custodi dei patriarchi verdi,
insieme alle attenzioni di molti marchigiani ha permesso di conservare questo prezioso patrimonio e
consente ora di presentarlo al grande pubblico.
Ancona, lì 15 ottobre 2007
CESARE CARAMALLI
Comandante Regionale
del Corpo Forestale dello Stato
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INTRODUZIONE
“Ho due notizie da darti, una buona e una cattiva, quale vuoi per prima?”. Così comincia una
nota barzelletta (il seguito è affidato alla fantasia dei vari inventori di freddure).
E’ lo stesso annuncio che vorremmo dare a quei lettori che, ventitre anni or sono, sfogliarono il
nostro “Marche, cinquanta alberi da salvare”, un libro che, per la prima volta nella storia della letteratura, faceva scoprire agli abitanti della nostra regione quanti e quali fossero i monumenti naturali
del loro patrimonio vegetale.
Ci è capitato di leggere, su qualche sito internet, che quel libro, pur non potendo più essere considerato attuale, era molto apprezzabile per la grande messe di notizie che divulgava sui grandi alberi delle Marche.
Questo nuovo libro si propone, pertanto, come primo e forse unico scopo, quello di rinverdire le
notizie di ventitre anni or sono, aggiornandole al momento attuale.
Per questo, è quanto mai calzante la frase con la quale abbiamo dato avvio a questa pagina e
all’intero volume, ed è la frase che intendiamo rivolgere al nostro lettore di ventitre anni fa.
“Ho alcune notizie da darti, parte buone, parte cattive. Quali vuoi conoscere per prime?”.
Abbiamo formulato la domanda e ci forniamo anche la risposta:
“Prima quelle cattive, così ci togliamo subito il pensiero”.
Devi considerare, caro lettore, che il grande albero, anche se al primo impatto può fornire una
rassicurante sensazione di solidità, di salute, di forza, di eternità, è in realtà quanto di più fragile
possa esistere fra gli esseri viventi.
Quasi sempre, il grande albero è anche il più vecchio e, come tale, è soggetto a tutte le minacce
che insidiano i suoi omologhi fra gli altri esseri viventi. Da un momento all’altro può essere colpito
da una malattia o può incorrere in un incidente che lo conduce alla fine.
Gli alberi, come ogni essere vivente, seguono il ciclo eterno stabilito dalla natura e, come tali:
- crescono, perciò, a distanza di ventitre anni, le dimensioni riportate nel citato volume sono
cambiate, in maggiore o minore misura;
- vivono e pertanto sono protagonisti di nuovi episodi che li riguardano, spesso determinati dall’attività umana nei loro confronti; in ventitre anni, molti sono gli eventi di rilievo nella vita
dei 50 patriarchi di allora;
- fanno carriera, nel senso che vengono scoperti e diventano famosi alcuni alberi che allora non
erano stati ancora scoperti;
- si ammalano e questo, come detto, per il grande albero accade con probabilità decuplicata
rispetto agli individui comuni;
- muoiono e quasi sempre lasciano un grande vuoto nel paesaggio e nel cuore della gente che li
ha conosciuti.
Ritornando, perciò, all’annuncio di partenza, diremo al nostro lettore che:
- la notizia cattiva è che molti dei 50 alberi sono scomparsi. Basti considerare che, dei sedici
alberi che, nel libro, appartenevano alla provincia di Ascoli Piceno, ne sono scomparsi ben 7:
quasi la metà! E’ andata un po’ meglio a Macerata: 4 su 14. Questo ci fornisce l’idea di quanto
la loro sopravvivenza sia aleatoria e come si rendano necessarie apposite leggi di tutela.
Ventitre anni sono una inezia, rispetto alla durata media della vita di una grande quercia, assolutamente insufficienti a far sì che altri alberi crescano in tal misura da prendere il loro posto.
- la notizia buona è che altri grandi alberi, in questo stesso lasso di tempo, sono venuti alla luce,
e questa pubblicazione costituisce utile viatico a farli conoscere al grande pubblico.
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Fedele al nostro proposito di fornire prima le notizie cattive, questo libro effettuerà all’inizio un
excursus per far conoscere i grandi alberi che non ci sono più. Il lettore potrà rivedere l’immagine
della pianta ma, recandosi sul posto, non troverà nulla o troverà un rudere che la devozione degli
uomini avrà voluto conservare. Il confronto fra ciò che era e ciò che è, siamo certi, in qualcuno farà
scaturire una sottile vena di rimpianto.
Subito dopo, prenderà avvio il nuovo viaggio. Lungo il tragitto, verranno visitati, uno ad uno,
tutti i più grandi e rappresentativi monumenti vegetali del territorio marchigiano. Per ogni albero
verrà fornito nell’ordine:
- il nome: insieme al nome italiano della specie viene messo anche quello in latino; va inteso che,
ad esempio, nel caso di una quercia, diremo anche se si tratta di una roverella, un rovere, un leccio, ecc.; se siamo al cospetto di un pioppo diremo anche di quale specie è (nero, bianco, tremulo, canadese, ecc.); quando l’esemplare è dotato di un nome proprio con il quale è universalmente conosciuto, è con tale nome che esso sarà chiamato (la Cerquatonda, l’Albero del Piccioni,
ecc.);
- il comune di appartenenza;
- la località esatta in cui la pianta dimora (parco, podere, villa, ecc.)
Seguirà una breve scheda in cui viene fornita una sorta di carta di identità della pianta. Nell’ipotesi più favorevole, verranno forniti i seguenti dati:
- circonferenza del fusto, presa alla canonica altezza di m. 1,30 dal suolo (il cosiddetto “p.u.”,
petto d’uomo); il confronto con le analoghe misure rilevate ventitre anni or sono ci permetterà
di scoprire, con una certa approssimazione, l’età della pianta. Come? dividendo l’incremento
per i ventitre anni trascorsi dall’antico rilevamento, si potrà conoscere l’incremento medio
annuale; dividendo poi la circonferenza del fusto per l’incremento medio annuale, si otterrà la
vita approssimativa della pianta. Si tratterà, è vero, di un metodo con scarso valore dogmatico
(anche perché è ipotizzabile che, con la vecchiaia, il ritmo di crescita non sia più quello dei
primi anni), ma potrà fornire certamente una stima più precisa di quella che, ventitre anni or
sono, venne effettuata sulla scorta del solo esame visivo;
- diametro della chioma, rilevato effettuando la misurazione della proiezione della stessa sul
terreno e facendo la media fra il diametro massimo e quello minimo;
- altezza, calcolata in fotografia, prendendo come riferimento qualcosa, presente in foto, di cui
si conosce l’altezza esatta, oppure partendo dalla misura del diametro della chioma. Facciamo
un esempio: se in una foto la pianta misura dieci centimetri in larghezza e 7 in altezza, sapendo (per averla misurata) che la chioma è di 30 metri, l’altezza sarà data dalla proporzione 30:
10 = X : 7, cioè X = 30 x 7: 10 = 21 metri.
- età: si fornisce una cifra esatta quando si è in presenza di dati certi, quali la conoscenza della
data della messa a dimora dell’albero; si aggiungerà un “circa”, allorché si tratta di una stima
o di un calcolo effettuato con il metodo poc’anzi descritto; per l’età degli alberi della provincia di Macerata ci siamo avvalsi della recente pubblicazione della Provincia “Alberi custodi
del tempo” che verrà citata a più riprese.
Una volta conosciuta la carta d’identità della pianta, di ognuna verranno fornite le immagini
fotografiche. Quasi tutti i nostri personaggi saranno rappresentati in più foto, alcune delle quali
mostreranno il solo fusto fino al primo palco di rami; altre mostreranno la pianta nel suo insieme; le
piante a foglia caduca verranno spesso presentate nelle due versioni, con e senza foglie; quelle che
hanno subito una radicale trasformazione dall’epoca della prima pubblicazione vedranno a confronto le immagini di allora e quelle di oggi.
Seguirà un testo più o meno esteso, dove verrà descritto e raccontato tutto ciò che le foto non riescono a svelare: un’indicazione sul modo di raggiungerla, ove questo comporti delle difficoltà, una
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descrizione di alcune caratteristiche e curiosità non visibili in foto, ma soprattutto tutti quegli episodi storici, aneddoti, leggende, che verranno raccolti dalla bocca della gente del luogo, di coloro che
vivono accanto alla pianta da tanto tempo e che hanno imparato ad amarla e considerarla come un
abitante del paese.
Gli alberi verranno presentati distribuiti lungo un itinerario che sarebbe il più breve da realizzare,
qualora il lettore decidesse di visitarli tutti.
In genere, abbiamo sfruttato le caratteristiche del sistema idrografico della regione che, come
noto, è costituito da fiumi paralleli fra loro che scendono all’Adriatico disposti a “pettine”. Perciò,
nei limiti del possibile, gli alberi verranno descritti risalendo la valle di un fiume e ridiscendendo
per quella successiva.
Osserviamo, ad esempio, la provincia di Ascoli Piceno. Il nostro (non del tutto) immaginario
viaggio prende avvio dall’estremo sud della provincia, vicino al Mare Adriatico, con la Quercia di
san Giacomo della Marca, a Monteprandone, risale la vallata del fiume Tronto e del suo affluente
Fluvione, ridiscende per quella del torrente Tesino, torna verso le montagne attraverso la Val d’Aso,
si riporta al mare per un itinerario che accompagna il torrente Ete Vivo, inverte il cammino percorrendo il bacino del Tenna fino al cuore dei Monti Sibillini, infine torna vicino alla costa lungo il
bacino dell’Ete Morto, con due alberi che dimorano sul territorio comunale di Montegranaro. Su
questo punto del percorso, si innesta il successivo viaggio nell’adiacente territorio della provincia di
Macerata.
Fatte le dovute raccomandazioni ai viaggiatori e allacciate le cinture di sicurezza, non ci resta
che partire.
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(...)
CERQUABELLA
Erano, e sono ancora oggi, molte le querce che vantano questo appellativo, ma la vera, ineguagliabile Cerquabella era questa, tanto nobile da meritare (caso unico in Italia) un tondino di localizzazione sulle carte del Touring Club; tanto famosa da essere nota fin sull’Appennino Emiliano come
la Quercia più bella d’Italia.
Le sue apparizioni su pubblicazioni di ogni genere non si contavano più. Una sua citazione era
stata fatta in “Il patrimonio vegetale delle Marche”, edito dalla regione Marche nel 1981.
Le dimensioni, prima di morire, erano di m. 5,60 la circonferenza del fusto, 34 metri il diametro
della chioma.
Era tale l’affetto che i suoi concittadini, gli abitanti di Montegiorgio, nutrivano per questa pianta, che essa veniva chiamata non solo con il suo nomignolo, ma addirittura senza articolo, così, semplicemente Cerquabella, come si direbbe Maria, Agnese, Teresa...
La sua biografia era ricchissima di episodi e di aneddoti. Sotto la sua chioma per secoli avevano
bivaccato carovane di zingari e la sua ombra aveva offerto riparo a tante famiglie nella tradizionale
scampagnata del Primo Maggio.
Cerquabella aveva anche visto l’assassinio di sua figlia. Questa era a pochi metri da lei, identica
a lei, ma grande la metà: venne sacrificata per allargare la carreggiata della vicina Faleriense.
Il testo del vecchio volume si chiudeva con queste parole:
“E’ come se l’albero stesso, con un respiro affannoso e rantolante, supplichi l’uomo: stammi lontano, lasciami morire in pace!
E allora tiriamoci in disparte e assistiamo con trepidazione ed angoscia all’agonia di questo grande vecchio, fino a che arriverà la fine di un inverno non molto lontano, quando tutti gli altri alberi si
ricopriranno ancora di verde, ma per questo vecchio non ci sarà più primavera”.
Era il 1984, quando il libro vedeva la luce della stampa. La foto che mostrava la pianta era dell’estate dell’anno precedente. Cerquabella era rifiorita anche nella primavera dello stesso anno.
Trascorse un nuovo inverno. Nella primavera del 1985 il vecchio gigante si risvegliò ancora, ma le
foglie erano veramente poche e distribuite solo su alcune parti.
Capitati sul posto, raccogliemmo alcune ghiande e le seminammo nell’estremo tentativo di assicurare una discendenza all’eccezionale pianta, ma queste avevano già perduto ogni capacità di
germinare.
Nuovo inverno, nuova primavera. Nel 1986, i suoi vicini scrutarono a lungo, ogni giorno, con la
speranza di scorgere qualche germoglio, magari con una fioritura anche tardiva, fino a che si arresero: Cerquabella non c’era più.
Il suo cadavere rimase intatto per qualche tempo, ma alla fine l’amministrazione comunale fu
costretta a far eliminare tutti i rami, che rischiavano di cadere su qualche curioso o passante.
Oggi Cerquabella è ridotta a un rudere, impressionante per le sue dimensioni e per tutti i significati allegorici che sembra voler trasmettere a chi lo osserva. Cerquabella era un albero che avrebbe
meritato un monumento per la sua incomparabile bellezza, ma non ce n’è stato bisogno: il suo
monumento se l’è eretto da sola.
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La foto del 1983 mostra l’imponenza e la bellezza di Cerquabella, anche se il declino appare in piena evidenza
E’ il 1987: Cerquabella è morta da un anno, ma il suo cadavere viene lasciato per qualche tempo in piedi
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Ciò che resta, ora, di Cerquabella e che tutti i viandanti in transito sulla Faleriense non mancano di notare.
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La «CERQUA DE CAPITA’»
Nel citato libro, la pianta viene presentata come “Quercia della tenuta Concetti”, in località
Cisterna, comune di Montegiorgio. In realtà essa recava un nome personale e proprio come “Cerqua
de Capità” era conosciuta.
Era una pianta ormai molto nota, tanto da avere avuto l’onore della pubblicazione di una sua
immagine su un numero della rivista Qui Touring.
Non erano, tuttavia, le dimensioni (prima della disgrazia la circonferenza del suo tronco era salita a m. 5,16) o l’aspetto particolarmente gradevole a renderla famosa, quanto la sua posizione: essa
era considerata, infatti, “la pianta più visibile d’Italia”. Collocata sull’apice esatto di un colle che, a
sua volta, emergeva su quelli circostanti, la Cerqua de Capità era visibile, nelle giornate prive di
foschia, addirittura da 40 km di distanza. Per questo, durante il secondo conflitto mondiale, essa
costituiva un importante punto di riferimento militare.
Nel corso della sua plurisecolare esistenza, e proprio a causa della sua posizione, la Quercia era
stata più volte colpita dai fulmini e questi, a lungo andare, avevano indebolito la consistenza del suo
legno.
Una notte dei primi di marzo del 2001, nel corso di una furiosa tempesta di vento che venne
segnalata anche in servizi televisivi a diffusione nazionale, uno dei due grossi rami in cui si suddivideva il fusto cadde al suolo. Così disteso, sembrava esso stesso una grossa quercia. Infatti la sua circonferenza era di ben m. 3,70! Vale a dire quanto il fusto di una quercia già di grandi dimensioni.
Erano trascorse poche settimane ed erano appena tre giorni che il contadino aveva provveduto a
sgomberare il ramo caduto, quando venne giù anche l’altro.
Così si stagliava la gigantesca Cerqua del Capità, la pianta più visibile d’Italia, sul culmine di un
alto colle fra Montegiorgio e Rapagnano
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La Cerqua de Capità aveva, tuttavia, una caratteristica che ne offuscava in parte la bellezza: il
fusto, per un’altezza compresa fra uno e tre metri dal suolo, era avvolto da una selva di polloni.
Proprio questi fanno sì che essa debba essere considerata, ancora oggi, una pianta viva. L’enorme
apparato radicale della Quercia, infatti, privato del compito di alimentare una chioma di adeguate
dimensioni, ha inviato tutte le sue risorse verso questi polloni, che nel corso della prima estate erano
talmente cresciuti da avvolgere completamente il fusto.
Oggi, la Cerqua de Capità è ancora al suo posto ma, così ridotta, ha perso per sempre il suo pregio primario: l’evidenza.
La prima fase del
dramma si è conclusa: sono i primi di
marzo del 2001; una
furiosa tempesta di
vento, di notte, ha privato la Cerqua de
Capità di oltre metà
della chioma. Quello
che resta, subirà la
stessa sorte dopo
poche settimane
Questo è ciò che
resta, oggi, della
Cerqua de Capità
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(...)
ASCOLI PICENO – Via Salaria
L’“Albero del Piccioni” (Platanus orientalis)
Circonferenza
Altezza
Chioma
Età
m. 8,70
m. 23
m. 24
anni 1000 (?)
Accanto al grande tronco dell’Albero del Piccioni, un cartello esplicativo fatto apporre dalla V
Circoscrizione del comune di Ascoli, quella di Mozzano, forniva i dati salienti che permettevano di
conoscere meglio il monumento naturale.
Per i dati scientifici venivano forniti quelli relativi alla circonferenza, all’altezza, alla chioma e
all’età. Riteniamo che essi, oltre che rilevati direttamente sulla pianta, possano essere stati desunti
dal nostro libro “Marche, cinquanta alberi da salvare”, in quanto collimavano perfettamente, come
riteniamo che dallo stesso libro sia stata attinta la notizia del primato di circonferenza in ambito
regionale. (Il primato, tuttavia, alla stessa stregua di quanto avviene per quelli sportivi, è stato successivamente demolito dalla scoperta di un albero nettamente superiore sotto questo profilo, albero
che conosceremo fra poche pagine).
Il cartello compiva, tuttavia, un piccolo, veniale errore: i 24 metri relativi allo sviluppo della
chioma non si riferiscono alla circonferenza, bensì al diametro.
Proseguendo, il cartello recitava:
“La denominazione “di Piccioni” deriva probabilmente dal fatto che l’albero si trovasse nei terreni di Piccione Parisani, nobile ascolano del 18° secolo, ed era spesso citato nei documenti cittadini
come riferimento e limite per i lavori di manutenzione della via Salaria; la strada entrava poi nel territorio del comune di Mozzano.
Secondo una tradizione popolare il nome deriverebbe invece dal celebre brigante Giovanni
Piccioni comandante degli “Ausiliari Pontifici” durante la Repubblica Romana (1849) e nel brigantaggio antiunitario (1860-61). Piccioni era nato a S. Gregorio di Acquasanta Terme nel 1798 ed era
stato catturato nel 1863. Morì al carcere Malatesta di Ascoli nel 1868”.
La prima apparizione del nome “Albero di Picciò” è del 1718 in alcuni documenti che parlano di
lavori sulla Salaria, con attribuzione di proprietà a Piccione Parisani.
L’ affascinante possibilità che la pianta abbia mille anni scaturisce invece da un documento del
marzo 1109 dove si dichiara che tale Ranieri del fu Ferrone vendeva alla sorella Benedetta delle
terre “super infra civitate asculana in locum qui dicitur ipsum platanum”. Era lui?
L’Albero del Piccioni è oggi, senza tema di smentite, la pianta più conosciuta non solo della provincia di Ascoli Piceno, ma dell’intera regione. Se questo primato gli poteva essere conteso, fino a
venti anni fa, dalla Cerquabella di Montegiorgio, con la morte della pianta rivale, nulla e nessuno
resta oggi a disputargli la palma.
La classificazione ufficiale definisce la pianta “Platanus orientalis”, anche se molte perplessità
continuano a sussistere, allorché si vanno ad esaminare attentamente le sue caratteristiche morfologiche, in particolare le foglie, che non sono palmate nella caratteristica forma di quelle di ogni platano, ma presentano insenature molto profonde, tanto da toccare le nervature centrali, e i “picchi”
sono sensibilmente più aguzzi. Quasi certamente si tratta di un antico ibrido fra piante di specie
diversa. Si sa che gli ibridi sono sterili e il fatto che il Nostro non abbia mai avuto una progenie, in
tanti secoli di vita, non ne potrebbe essere una prova?
La parte anatomica più vistosa della pianta è, ovviamente, il tronco. Misurato a petto d’uomo,
esso raggiunge la circonferenza di metri 8,70. Quello che desta perplessità è la considerazione
che questa è la stessa misura di ventitre anni or sono. In ventitre anni, cioè, l’Albero del Piccioni
non è cresciuto di un centimetro. Solo la circonferenza di base, allora di metri 10.30, si è portata
oggi a 10.40.
Il fusto presenta tre aperture. La più appariscente, quella che fornisce il più facile accesso alla
capiente caverna interna, si colloca sul lato est, si sviluppa su tutta l’altezza del tronco e misura
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Fusto dell’Albero del Piccioni, visto dal lato est
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circa un metro di larghezza fino ad altezza d’uomo per poi restringersi gradatamente.
All’epoca del personaggio cui l’albero deve il nome, questa apertura non esisteva ma c’era già
quella, più piccola, di circa 60-70 cm di diametro, posta alla sommità del fusto, fra i rami del primo
palco. Una terza porta, più piccola, alla base, è visibile dalla Salaria per chi proviene da ovest.
L’interno del tronco è una vasta caverna di metri 2,40 sul diametro maggiore e 2,10 su quello minore
In quanto albero più famoso delle Marche, l’Albero del Piccioni ha goduto e gode dell’onore di
molteplici apparizioni sulla carta stampata.
Negli anni Settanta il Rodilossi, nella sua “Guida di Ascoli Piceno”, ne parla così a pagina 211:
“Più avanti, sulla destra, si ammira l’enorme Albero del Piccione, un eccezionale platano di
almeno sei-sette secoli di vita, legato alle prime Crociate, ai briganti (Piccione di Colloto, secolo
XVI, o Giovanni Piccioni, morto nel 1864...)”
Il nome della pianta, ma senza foto, appare nella pubblicazione della regione Marche “Il patrimonio vegetale delle Marche”, del 1981.
Nel 1984, ovviamente, l’albero compare, con ampio spazio, nel citato libro “Marche, cinquanta
alberi da salvare”, con addirittura l’onore della copertina.
C’è da annotare un particolare. Fino alla pubblicazione di questo libro, il nome dell’albero alternava diverse varianti, dall’Albero del Piccione all’Albero di Piccione, a Albero del Piccioni, a
Albero di Piccioni. Successivamente esso si è affermato definitivamente come “Albero del
Piccioni”.
Anche un ristorante, aperto di recente a qualche centinaio di metri, reca il nome, appunto, di
“Albero del Piccioni”.
Nel 1989, la pianta viene ovviamente ad occupare un meritatissimo posto nel I volume di Alberi
Monumentali d’Italia, curato dal dottor Lucio Bortolotti, per ordine della Direzione Generale
Economia Montana e Foreste (in pratica, il Comando del Corpo Forestale). Il Bortolotti, tuttavia, le
rende il non lieve torto di pubblicare una foto di quella che il sentimento popolare ritiene la “parte
posteriore” della pianta. E’ ovvio che in una pianta non esista un davanti e un didietro. Poiché ogni
pianta è rotonda, ogni parte è davanti e dietro allo stesso tempo. Poiché, tuttavia, il tronco del
Nostro possiede una vistosa porta, è su questa parte che la gente colloca idealmente il davanti. La
foto del Bortolotti la ritrae, invece, sulla parte opposta. Dalla conoscenza diretta e personale dell’autore, del suo scrupolo e della sua abilità di fotografo, è da ritenere che il passaggio dell’ispettore
forestale presso il Platano sia avvenuto di pomeriggio, quando la porta è in ombra.
Il Platano, da decenni, secoli forse, è stato sempre lambito dalla via Salaria, che transitava, sfiorandolo pericolosamente (per gli automobilisti) accanto al piede.
Negli ultimi venti anni, la viabilità attorno all’Albero del Piccioni è mutata più volte. Per un
certo tempo, chi transitava sulla Salaria ha visto alla propria altezza la sommità della pianta. Oggi
un nuovo tracciato si è sviluppato all’altezza del tronco, ma a circa 5 metri dalla pianta.
L’A.N.A.S., molto accortamente, ha realizzato una piazzola di sosta proprio all’altezza del
Platano, onde consentire ai visitatori di parcheggiare con agio le auto e recarsi a visitare l‘albero,
senza interferire con il traffico veloce dell’arteria stradale; sul guard-rail è stato addirittura lasciato
un piccolo varco di accesso.
Questo accorgimento, tuttavia, non ha impedito il verificarsi, di recente, di un accidente che ha
fatto scomparire il cartello. La ragione sta in un incidente avvenuto di notte verso la fine del novembre 2004. Un camion, provenendo da Mozzano in direzione di Ascoli, forse per un colpo di sonno
dell’autista, invece di effettuare la curva a destra che la strada compie all’altezza dell’Albero, se ne
è fuggito per la tangente, investendo una vettura che proveniva dall’altro senso, trascinandola insieme a sè oltre il guard-rail e andando infine a fermarsi contro il tronco dell’Albero, travolgendo
anche il cartello. Ancora oggi, e per tutta la vita, il camionista potrà ringraziare l’Albero del
Piccioni per avergli salvato la pelle: infatti, se non si fosse fermato contro il tronco, il pesante automezzo sarebbe precipitato oltre il ciglione, per terminare la corsa in fondo al dirupo, due o trecento
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Visione invernale dell’Albero del Piccioni; visibile anche sul guard-rail il varco di accesso
L’Albero del Piccioni nel pieno rigoglio della sua versione estiva
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metri più in basso, sul letto del Tronto.
L’incidente, comunque, è stato un efficace banco di collaudo della solidità della pianta, che non
si è spostata di un centimetro, nonostante il terribile urto.
Sul piazzale, oggi, si fermano visitatori di ogni genere, soprattutto famiglie con bambini. Sullo
stesso piazzale, purtroppo, non è difficile trovare anche oggetti assai poco raccomandabili: ci riferiamo alle siringhe lasciate dai tossicodipendenti, con tutto il loro carico di pericolosità.
Ma, alfine, chi era il Piccioni cui il Platano deve il nome? Lasciati da parte il lontano Piccione di
Colloto e il prosaico nome di Piccione Parisani, la fantasia popolare è stata eccitata soprattutto dal
Giovanni Piccioni, famoso brigante del XIX secolo. Ne parleremo, ancora una volta, riprendendo
dal vecchio libro, parola per parola, il testo della lettera con la quale la guardia forestale Pietro Fiori
della Stazione Forestale di Ascoli ce ne parlò a suo tempo.
“Giovanni Piccioni era un ufficiale dello Stato Pontificio, con residenza operativa nel comune di
Valle Castellana (TE), al confine con lo Stato Borbonico. Quando le lotte per la rivendicazione dei
territori pontifici da parte dei Repubblicani (mazziniani e garibaldini) si fecero più aspre e si presagiva la fine, lo Stato Pontificio abbandonò, soprattutto dal punto di vista finanziario, molti presidii,
tra questi quello comandato dal Piccioni. Questi e con lui i suoi subordinati si sbandarono e si diedero ad atti di brigantaggio.
Piccioni trovò facile nascondiglio per i suoi atti di pirateria nel Platano posto lungo la Salaria, nel
quale si calava dall’apertura centrale, dall’alto, per attendere indisturbato le carrozze e i carri che
trasportavano merci.
La storia si protrasse per un certo tempo e la gente, presa dal panico, cominciò a passarvi, se
costretta, solo a gruppi, per difendersi reciprocamente.
Dopo l’unificazione dell’Italia, il Piccioni venne arrestato da un ufficiale del Regno mentre, travestito da monaco, era a San Benedetto del Tronto, in attesa del treno per fuggire. Condotto al carcere Malatesta di Ascoli, vi morì.
E’ opportuno aggiungere un aneddoto che può aiutare a delineare la figura del brigante. Piccioni,
ormai abbandonatosi a questa vita della quale menava vanto in quanto nessuno riusciva a catturarlo,
spaziava con i suoi atti di brigantaggio anche presso i contadini vicini, ma lo faceva più per spavalderia che per utile o necessità. Infatti egli, in particolare, quando era tempo di cavoli, li rubava e,
sulla parte rimasta, lasciava un soldo. Al mattino i contadini, nel vedere ciò, dicevano subito: “E’
passato Piccioni”.
(Fra gli informatori dai quali l’agente forestale Pietro Fiori assunse a suo tempo le notizie, figurava un discendente dell’ufficiale dei Carabinieri che, 120 anni prima, aveva effettuato l’arresto del
brigante; egli conservava, con giusto orgoglio, la sciabola del suo illustre antenato).
In realtà, Giovanni Piccioni non fu un volgare ladro di strada. Occorre prendere atto della realtà
storica che l’unificazione del Regno d’Italia non avvenne senza conflitti, ma essa venne strenuamente contrastata, soprattutto da coloro che, indossando una divisa e avendo giurato fedeltà a un
sovrano, a questo stesso giuramento intendevano restare fedeli. Lo stesso fenomeno avvenne nel
confinante Regno di Napoli. Giovanni Piccioni, perciò, difese il Papato dal 1861 fino al 1863 quando, tradito dai suoi compagni, venne arrestato.
Scomparso il brigante, l’Albero cominciò ad essere meta di gite domenicali da parte degli ascolani, almeno fino all’avvento dell’automobile. Le “tracce” del passaggio della gente, unite all’azione
degli agenti atmosferici e ad un naturale processo di invecchiamento, hanno condotto l’Albero alle
condizioni nelle quali esso si mostra attualmente.
43
(...)
Circonferenza
Altezza
Chioma
Età
ROTELLA – Madonna di Montemisio
Roverella (Quercus pubescens)
m. 4,86
m. 22
m. 19
anni 350 circa
L’abbinamento di un grande albero con una struttura religiosa (convento, santuario, eremo, ecc.)
costituisce un fenomeno abbastanza frequente. Fra i casi più appariscenti e felici, c’è quello del
Santuario di Montemisio, dedicato alla Madonna della Conciliazione, con la sua Quercia.
Sulla pianta, divenuta negli ultimi venti anni una vera celebrità, si potrebbe scrivere un intero
romanzo, tanto è ricca di eventi la sua biografia. Il problema è solo quello di dare un certo ordine a
queste vicende e, per farlo, utilizzeremo tre personaggi; per l’esattezza, tre sacerdoti.
Il primo di essi è don Geremia Merletti, parroco di Montemisio venti anni or sono. A questo
sacerdote si deve la ricostruzione della vita passata della pianta. Per far ciò egli si avvalse della collaborazione, a livello informativo, di altri suoi compaesani, in particolare dello scrittore Domenico
Gabrielli e dell’allora comandante della stazione forestale di Castignano, maresciallo Everaldo
Palombi.
La piccola ghianda che, germogliando, diede origine a questo prodigio che ancora oggi si perpetua, dovrebbe essere caduta al suolo attorno alla metà del ’600. Per conseguenza, la Quercia dovrebbe avere oggi 350 anni circa.
Certamente, essa faceva già parte del querceto che determinò l’attuale collocazione dell’abitato
di Capradosso. Si racconta che, agli inizi del Settecento, essendo franato l’abitato, sorgesse una
disputa fra gli abitanti del paesino sulla scelta del luogo dove ricostruirlo. La proposta di rifare le
case sul ripiano dove ora è il santuario venne bocciata a causa delle formiche da cui il bosco era
invaso.
“Essa era già vigorosa – scrive il Gabrielli – quando, nella seconda metà del Settecento, le acque
limacciose del Torbidello trascinarono a valle il meraviglioso convento francescano di cui ora si
vedono le fondamenta. Certo, se così può dirsi, rimase sgomenta nel perdere la compagnia dei fraticelli oranti. Questo meraviglioso albero vide risorgere l’attuale santuario mariano nel 1782.
Certamente esso gioì perché da quel momento folle di fedeli si assidevano all’ombra della sua benefica frescura. Quanto ossigeno ha erogato questo maestoso e colossale laboratorio chimico! Certo,
sarebbe l’ideale se fossero rimasti assieme a questo gli altri meravigliosi alberi di cui era ricca la
zona; ma sembra che molti di questi furono sacrificati con l’avvento della ferrovia per l’impianto
dei binari”.
L’occasione nella quale “folle di fedeli si siedono alla sua frescura”, come informa il Gabrielli,
avviene ogni anno il 15 di agosto: proprio in quel giorno si celebra la festa della Madonna Assunta,
il sagrato si riempie di fedeli e l’ombra della Quercia, complice l’immancabile canicola, diviene
l’angolo più ambito.
Il secondo sacerdote, che ha legato il suo nome alle sorti della pianta, si chiamava don Giuseppe
Castelli ed era arciprete di Capradosso negli anni intorno al 1920.
Questo prete aveva già venduto la Quercia ad alcuni commercianti di legname, che l’avrebbero
macellata al solo scopo di ricavarne legna.
L’operazione di taglio era già iniziata ed i primi colpi di scure avevano già intaccato la base del
tronco, quando la povera pianta venne salvata a furor di popolo, quello stesso popolo che aveva
imparato ad amarla per la frescura che essa aveva sempre e a tutti elargito.
Si dice che i contadini del luogo fossero stati categorici con il prete:
“Se tu tagli la pianta, noi ti tagliamo la testa!”
A ricordo di quel terribile momento e di quei tragici colpi di scure che si erano abbattuti sulla
pianta, ancora oggi si osserva una cicatrice alla base del tronco.
A parlarci ancora della Quercia, ma con riferimento ad avvenimenti più recenti, è ancora
55
Così appariva, ventitre anni or sono, la monumentale Quercia antistante la chiesa della Madonna di Montemisio, alle
falde del monte dell’Ascensione
Il Santuario di Montemisio oggi. Evidente la trasformazione avvenuta ad opera di don Angelo, ma anche lo stato di
invecchiamento della Quercia
56
Il fusto, tormentato dalle vicissitudini e dall’età, della Quercia della Madonna di Montemisio.
57
Domenico Gabrielli, questa volta non per scritto, ma a viva voce.
Qualche anno fa – riferisce il Gabrielli – la Soprintendenza ai Monumenti ha fatto eseguire uno
scavo nei dintorni della Quercia ed è venuto alla luce uno spesso muro, che si dice di epoca romana
e che dalla Quercia si dirige in direzione del cancello d’ingresso. Esso passa a poco più di due metri
dalla pianta. Lo scavo ha permesso così di far vedere che, da quella parte, le radici sono cortissime,
essendo state bloccate, nella crescita, dallo stesso muro. Per spiegare come la chioma possa essere
stata alimentata nei secoli, occorre ipotizzare uno sviluppo straordinario delle radici dalla parte
opposta oppure molto in profondità nel terreno.
Con il terzo sacerdote siamo giunti all’attualità. Le vicende non sono ancora storia, ma cronaca.
Chi osserva le foto della chiesa e del ripiano di ventitre anni fa e le confronta con la situazione
attuale vede che molte cose sono cambiate e decisamente in meglio.
Artefice di tutto una sola persona, don Angelo Ciancotti (ecco il terzo prete!). Il giovane sacerdote, parroco di Ripaberarda, una di quelle persone che, come si suol dire, “non hanno la terra sotto i
piedi”, che “una ne fanno e cento ne pensano”, allorché gli venne assegnata la cura della chiesa, si
innamorò letteralmente del posto.
Possedendo un grande talento di architetto e di muratore, egli si rimboccò letteralmente le maniche e si diede al restauro e alla trasformazione di tutto il complesso, con il recupero e l’ampliamento
degli edifici esistenti, la costruzione di fontane e di laghetti, l’allestimento di una splendida Via
Crucis fatta di massi disposti lungo un itinerario con sopra attaccate delle formelle in cotto.
Lo stesso amore egli ha mostrato nei confronti della vecchia Quercia che, palesando essa forti
segni di sofferenza, ha provveduto a far risanare con l’eliminazione di molte parti morte e di polloni
lungo il fusto che rubavano alla pianta energia vitale. Addirittura, egli è giunto ad innaffiarla, inondando spesso e in abbondanza tutto il terreno attorno alle radici. Tutte queste operazioni hanno contribuito ad allungare, non si sa fino a quando, la vita del patriarca, che probabilmente conta più dei
350 anni che gli esperti gli attribuiscono. Se si dovesse dar retta al suo tasso di sviluppo annuale (11
cm in 22 anni, cioè mezzo centimetro l’anno), la pianta dovrebbe contare almeno 900 anni, tanti
quanti ne sarebbero serviti per raggiungere gli attuali 486 centimetri. E’ ovvio, il ragionamento non
ha alcuna base solida, anche perché la salute della pianta non è delle più floride, con il fusto già
completamente cavo, ed è ovvio che negli ultimi anni essa abbia molto rallentato la sua crescita.
L’ultimo episodio che ha visto la Quercia come protagonista è relativo alla sua apparizione nella
rubrica di Maurizio Blasi su TG3. Mentre il giornalista illustrava le bellezze e la storia del
Santuario, il cameraman dedicava ampie e suggestive inquadrature al massiccio tronco e ai nodosi
rami della pianta.
Il giorno in cui essa dovrà salutarci, ha già pronta, a poche centinaia di metri, chi ne potrà raccogliere l’eredità. Lasciando Montemisio per riprendere la provinciale, vale la pena apportare una
lieve modifica all’itinerario. Allorché la strada asfaltata compie una curva a sinistra, mentre, proseguendo diritto, c’è una stradina ghiaiosa, si suggerisce di prendere quest’ultima: dopo un centinaio
di metri apparirà un nuovo splendido esemplare di Quercia, roverella anch’essa, alta 25 metri, dal
fusto altissimo di m. 4,18 di circonferenza e dalla chioma molto arrotondata e armoniosa, di 26
metri di diametro: la degnissima erede della Quercia della Madonna di Montemisio.
58
Circonferenza
Altezza
Chioma
Età
CASTIGNANO – Contrada Monte
Roverella (Quercus pubescens)
m. 3,50
m. 17
m. 20
anni 200 circa
Mancherebbe qualche centimetro alla bella Quercia di contrada Monte per avere pieno diritto ad
essere inclusa in questa raccolta; ma dove non arrivano le dimensioni, suppliscono una figura esteticamente molto apprezzabile e soprattutto le storie, non tutte belle, ma sicuramente importanti, che
essa è in grado di raccontare.
La si raggiunge agevolmente da Castignano, prendendo la strada per Ascoli Piceno. Allorché si
giunge al bivio per Capradosso, la Quercia ci si para davanti, proprio in mezzo al bivio.
Proprietaria della pianta è da sempre la famiglia Villa, residente sul luogo ma, a seguito di vari
ampliamenti della sede stradale, forse oggi essa entra nella fascia di pertinenza della Provincia.
A raccontarci tutto ciò che si conosce sulla storia della Quercia è Franco Villa, 56 anni.
Secondo quanto asseriva suo nonno Francesco Villa, combattente della Prima Guerra Mondiale,
deceduto nel 1961, la pianta era già esistente, e di belle dimensioni, all’epoca della sua fanciullezza.
Sommando il secolo trascorso dall’infanzia di Francesco, all’età che avrebbe potuto avere una quercia già grande, non si va lontani dal vero se le si attribuiscono due secoli di vita.
Sotto l’ombra della Quercia, un monumento commemorativo invita a tacere e riflettere. Fu proprio in quel punto che avvenne l’episodio più tragico fra tutti quelli cui la pianta dovette assistere
nel corso della sua bisecolare esistenza.
Era il 16 giugno 1944. La data ci riporta, d’incanto, a un momento particolare della nostra storia
La Quercia di Castignano, contrada Monte, in veste invernale
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Fusto della Quercia de “Il Monte”; si nota la disposizione a candelabro del primo palco di rami; sullo sfondo il
Monumento ai Caduti.
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patria: la Guerra, il Passaggio del Fronte, la Liberazione...
Proprio in quei giorni, nel corso di un’azione partigiana, era stato ucciso un soldato tedesco e, come
consuetudine e prassi, sulla base degli ordini impartiti da Hitler, il comandante tedesco avrebbe dovuto
uccidere dieci italiani per ogni tedesco. Senonché, questo comandante, di fede cattolica ed anche
osservante della stessa, non ebbe cuore di effettuare per intero la carneficina. Eseguito il rastrellamento e catturati i primi quattro italiani capitati a tiro, li fece condurre proprio sotto la Quercia, dove vennero fucilati. Due dei quattro appartenevano alla famiglia Villa ed uno, Giuseppe, era proprio il fratello
di Francesco.
C’è da aggiungere che, a distanza di sessanta anni dall’evento, qualche testimone... auricolare dei
fatti conserva ancora un ricordo positivo di questo comandante tedesco. Racconta Giovanni Orazi,
82enne, allora residente a Carassai, che la fucilazione non sarebbe avvenuta in unica soluzione, ma
che i quattro sarebbero stati uccisi singolarmente, sul posto dove i soldati tedeschi li avevano rintracciati. Giunti a casa della famiglia Villa, essi avrebbero ucciso subito il giovane Domenico sull’aia di casa. All’udire gli spari, il padre Giuseppe sarebbe uscito di casa, si sarebbe gettato disperato ad abbracciare il figlio morente e sarebbe stato ucciso proprio in questo suo gesto d’amore.
Subito dopo l’eccidio, il comandante tedesco si sarebbe recato presso i suoi superiori a raccontare l’episodio e ad essi che gli chiedevano: “Ne hai uccisi almeno 10, come ci ha ordinato il Fuhrer?”
“Oh, anche di più!”, avrebbe risposto, mentendo.
Qualche anno dopo, il 18 maggio del 1950, al termine dell’annuale festa di San Gabriele
La Quercia de “Il Monte” in abito estivo
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dell’Addolorata, patrono del luogo, il signor Francesco, che faceva parte del comitato dei “festaroli”, si accorse che erano avanzati dei soldi con i quali egli propose, e ottenne, che venisse eretto il
monumento a ricordo delle vittime.
La pianta, al di là dei tragici episodi di cui è stata testimone, è stata sempre una presenza importante nella vita delle varie generazioni dei Villa, che l’hanno sempre considerata quasi come un
membro della famiglia.
La forma del primo palco di rami è curiosa e molto caratteristica, assomigliando a un candelabro.
Proprio sopra i bracci di questo candelabro veniva in passato collocata la “fascinara”, cioè una catasta di fascine di legna. La collocazione in quel posto aveva la funzione di favorire l’essiccazione
della legna stessa e renderla presto utilizzabile nel camino di casa. C’era, tuttavia, una seconda
ragione, recondita e inconfessata. La legna era, nei tempi passati, l’unica risorsa energetica, per
riscaldarsi e per cucinare; pertanto, doveva bastare per tutto l’anno, fino a quando, cioè, non si rendeva disponibile quella proveniente dalle potature dell’anno successivo. Il fatto che la catasta fosse
collocata in un posto così difficile da raggiungere, se non con l’uso di una pericolosa scala a pioli,
era un incentivo a fare economia e a far durare quanto più possibile le fascine, una volta prelevate.
La bella Quercia viene periodicamente sottoposta a manutenzione e potature di rinvigorimento e,
confessa il signor Franco, egli non incontra soverchie difficoltà, allorché ne fa richiesta, a ottenere
l’interessamento del personale della competente stazione forestale, quella di Castignano, e l’intervento di ditte specializzate.
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MONTALTO MARCHE – Cerquatonda
La “Cerquatonda” (Quercus pubescens)
Circonferenza
Altezza
Chioma
Età
m. 5,20
m. 20
m. 27
anni 300
La toponomastica italiana fa frequente riferimento ad essenze boschive (Cerreto, Rovereto,
Castagneto, ecc.) o a singoli alberi (Abetone, Leccio, Platano, ecc.). Quasi sempre, tuttavia, l’albero
che ha dato il nome alla località è scomparso da molto tempo e il più delle volte non se ne conserva
neppure la memoria. In alcuni rari casi, invece, la pianta in questione è ancora presente sul posto.
La “Cerquatonda” costituisce uno di questi sporadici casi. Se si prende una cartina dell’I.G.M., si
vedrà che la contrada viene chiamata, appunto, Cerquatonda, anche se la pianta non viene indicata
con nessun segno particolare.
A dire il vero, qualcuno sostiene che non sia questa la vera Cerquatonda, ma che essa abbia ereditato il nome da un albero precedente. Gli abitanti del luogo, però, concordano nel sostenere che di
Cerquatonda ce n’è, e ce n’è sempre stata, una sola.
Il simpatico e curioso nome deriva dalla conformazione stessa della pianta e di tutte le sue componenti, a partire dal fusto. E’ vero che i fusti di tutti gli alberi sono rotondi, cioè cilindrici, ma
quello della Cerquatonda lo è ancora di più: sembra quasi di sentirla palpabile, questa rotondità.
Ancor più l’appellativo si attaglia alla conformazione della chioma. I rami hanno la medesima
lunghezza in tutte le direzioni e, se si tracciasse, sul terreno, una linea coincidente con la proiezione
della chioma su di esso, si otterrebbe un cerchio perfetto, con al centro il fusto.
La biografia della Cerquatonda deve essere stata nutrita di avvenimenti in ogni epoca ma, per il
fatto che nessuno, purtroppo, abbia provveduto in passato a prenderne nota, essi sono ormai tutti
nascosti dalla nebbia dell’oblio.
Si potrà ricordare di un ramo, rivolto verso la stradina adiacente, reciso per lasciar passare una
trebbiatrice. Tutto quel che si conosce e che abbiamo fin qui sintetizzato è raccontato nel più volte
citato volume sui grandi alberi delle Marche.
Molto ricca di episodi è, al contrario, la storia della pianta susseguente alla sua apparizione nel
libro che l’aveva portata prepotentemente alla ribalta.
Tutti questi episodi hanno avuto come protagonista e attore principale il comune di Montalto
Marche al quale occorre dare atto di essere stato uno dei pochi comuni italiani i quali, coscienti di
possedere un monumento in grado di dare lustro a tutto il paese, non solo lo hanno valorizzato con
iniziative tese a farlo conoscere, ma sono anche intervenuti con provvedimenti appropriati allorché
esso ha corso pericoli per la sua salute.
La prima di queste encomiabili iniziative è stata quella di apporre sulla strada provinciale un cartello turistico con l’indicazione della pianta stessa che ha assunto, pertanto, anche agli occhi del
passante distratto, un valore non indifferente.
Ancor più il comune ha dimostrato di tenere da conto la sua splendida pianta, allorché questa,
intorno al 1998, ha mostrato segni di sofferenza. Nel volgere di poco tempo tutti i rami periferici si
sono seccati e le prospettive non erano affatto rosee: in mancanza di un intervento immediato, la
fine sarebbe arrivata nel volgere di poche stagioni, come era già avvenuto alla sua ancora più famosa sorella, la Cerquabella di Montegiorgio.
Provvidenziale e avveduta è stata la decisione del Comune di Montalto Marche, che ha deliberato la spesa di 1,3 milioni di lire per il risanamento della pianta.
Con il coordinamento del maresciallo Everaldo Palombi, comandante della stazione forestale di
Castignano, l’intervento, effettuato fra l’11 e il 12 marzo 1999, è stato affidato non ad una ditta
forestale, né a giardinieri, ma ad un... rocciatore, Alfredo Giannini di Montefortino. Abituato ad
arrampicarsi sulle pareti verticali del massiccio dei Monti Sibillini, il Giannini ha fatto valere le sue
doti acrobatiche sugli altrettanto vertiginosi ma meno stabili rami della Cerquatonda.
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A confronto, la splendida silhouette della Cerquatonda, nel suo aspetto invernale, in una foto di ventitre anni fa e in una di
oggi, nella stessa prospettiva: si nota come la potatura, pur inevitabile, ne abbia in qualche modo disarmonizzato la figura.
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Il fusto estremamente regolare della Cerquatonda
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Tutte le parti secche sono state asportate e col materiale di risulta è stata eretta una catasta di
circa cinquanta quintali di legna.
Con l’arrivo della primavera, il patriarca era rifiorito a nuova vita, pur se decurtato sensibilmente
in ampiezza (diametro della chioma ridotto a 26 metri dai 30 iniziali).
Purtroppo, attraverso i tagli effettuati, si è potuto anche vedere come il corpo della Cerquatonda
sia tutto solcato da interminabili gallerie di larve di insetti che, a meno di un intervento radicale nei
loro confronti, porteranno a morte sicura il patriarca nel giro di pochi anni.
Fra le decisioni del comune di Montalto, una, non direttamente rivolta alla pianta, si è rivelata
tuttavia deleteria: quella di autorizzare la costruzione della vistosa casa a pochi metri da essa.
Questo ha avuto una conseguenza imprevista e imprevedibile.
Il famoso e imponente censimento dei grandi alberi italiani, disposto dalla Direzione Generale
Economia Montana e Foreste e realizzato negli anni Ottanta, aveva portato alla pubblicazione, nel
1989, del primo volume dell’opera “Alberi Monumentali d’Italia”, curata dal dottor Lucio Bortolotti, autore, oltre che degli scarni testi, anche delle bellissime foto. Al Bortolotti era toccata anche la
scelta di quali alberi inserire nell’opera, selezionandone 300 fra i 7000 segnalati. La Cerquatonda,
pur possedendo i requisiti, venne bocciata.
Da noi personalmente interpellato sulle ragioni dell’esclusione: “Purtroppo – ci ha spiegato il
dottore forestale – il valore della pianta è stato deturpato dalla presenza della casa: da qualsiasi parte
mi disponessi per realizzare la foto, non riuscivo ad eliminarla dall’inquadratura; perciò, ho deciso
di rinunciare alla pianta stessa”. La risposta desta non poche perplessità; le foto di queste pagine
dimostrano che la casa può essere benissimo esclusa.
Ultima notizia sulla Cerquatonda: una delle due vecchie case vicine è stata ristrutturata e oggi
ospita un agriturismo che ha preso il nome, appunto, di Cerquatonda. Il titolare non avrebbe potuto
scegliere “sponsor” più efficace.
La splendida figura della Cerquatonda in veste estiva
66
(...)
Circonferenza
Altezza
Chioma
Età
CALDAROLA – Castello Pallotta
Pino domestico (Pinus pinea)
m. 3,76
m. 33
m. 15
anni 180 (o 400?)
La targhetta metallica apposta ai suoi piedi proclama:
“Albero piantato nel 1598 a ricordo dell’ospitalità offerta al Castello dal cardinale Evangelista
Pallotta al Papa Clemente VIII”.
L’affermazione starebbe, pertanto, ad indicare un’età di oltre 400 anni per il monumentale Pino
domestico del Castello Pallotta, a Caldarola.
I recenti accertamenti fatti effettuare dal Corpo Forestale con il metodo resistografico del professor Bongarzoni avrebbero ridimensionato questa età riconducendola a dimensioni più... arboree:
il Pino conterebbe 180 anni.
Quale valore, allora, si dovrebbe conferire alla tradizione che da sempre ne ha fatto un albero
quadrisecolare? E’ possibile che, al momento della visita del papa, sia stato piantato un albero a
ricordo dell’evento, in seguito scomparso e sostituito dal Pino? Il custode del castello, signor Gabriele, informa di un altro pino, più alto e più grande dell’attuale, morto per cause naturali e abbattuto nel 1985. Qualche piccola incongruenza nelle date deve esserci, in quanto il libro “Il patrimonio vegetale delle Marche” del 1981 parla di un solo pino, che è, appunto, quello ancora vivente. La
nostra stessa visita per realizzare “Marche, cinquanta alberi da salvare” era avvenuta nel 1982 e non
avevamo trovato traccia dell’altro pino. A questo punto vale la pena aprire un interessante dibattito
perché, questa volta, vi sono le immagini a parlare e queste indurrebbero a pensare che, nel caso di
questa pianta, il metodo del professor Bongarzoni abbia potuto prendere un piccolo abbaglio.
Nessun albero della regione, infatti, è graficamente documentato quanto il Nostro.
All’interno della Collegiata di San Martino, infatti, è presente un dipinto di anonimo del Settecento che mostra una veduta della Caldarola dell’epoca. Nel dipinto, dall’interno delle mura del
Castello Pallotta, emerge la figura di un grande Pino.
Prima obiezione: potrebbe trattarsi del Pino precedente in seguito sparito e sostituito da quello
attuale, ma...
Una fotografia con veduta di Caldarola del 1882, mostra il Castello Pallotta e nello stesso punto
lo stesso grande Pino.
Seconde obiezione: potrebbe essere sempre il Pino precedente, ancora in vita in quella data e
sparito in epoca successiva; potrebbe, cioè, trattarsi del Pino di cui fa menzione il signor Gabriele,
ma, attenzione...
La foto è del 1882, cioè di 125 anni fa. Se, come afferma il Bongarzoni, il Pino attuale contasse
180 anni, a quell’epoca ne avrebbe avuti 55; perciò, vicino al Pino della foto se ne dovrebbe vedere
uno più piccolo, di 55 anni appunto. Invece, nella foto se ne vede uno solo e questo, data la mole,
non può avere 55 anni.
Altre foto della collezione della famiglia Pallotta, risalenti anch’esse alla fine dell’Ottocento,
evidenziano sempre la presenza del Pino e sempre di belle dimensioni.
Infine, la tradizione di famiglia si è tramandata sempre la presenza delle stesso Pino e non ha mai
parlato di un...cambio della guardia con un esemplare più antico.
Più antico di lui, sempre secondo i calcoli del Bongarzoni, all’interno dello stesso castello, è il
malandato tasso che ha addirittura aperto una breccia in un muro e che presenta vistosi segni di cure
molto datate, con il fusto riempito da mattoni e cemento a tamponare un’enorme ferita.
Il Pino è, dunque, da molto tempo, una celebrità. In “Marche, cinquanta alberi da salvare” figura, con poche righe descrittive, in appendice al capitolo di Macerata fra gli “Altri alberi di interesse”. Notevole risalto, per contro, gli è stato dato nel recente “Alberi, custodi del tempo” della
Provincia di Macerata, dove gli viene riconosciuto il primato in dimensioni fra i pini della provin-
173
cia. In ambito regionale esso deve cedere invece per pochi centimetri al suo simile di
Cupramarittima (senza considerare il “cugino”, il Pino d’Aleppo di Porto Sant’Elpidio).
Il suo stesso aspetto, in particolare la povertà della sua chioma, denuncerebbe non poche avversità incontrate dalla pianta nell’arco della sua esistenza, quali fulmini, tempeste, ecc. Al contrario,
rivela sempre il signor Gabriele, l’impoverimento della chioma è solo conseguenza dell’età.
Un certo aiuto al suo non comune sviluppo può essere derivato alla pianta dal fatto che nei pressi
passava il fossato costruito a difesa del castello stesso, che poi è stato colmato con sabbia e sabbione, materiali nei quali le radici della pianta possono essersi mosse con notevole agio. Anche se non
avesse un’età eccezionale quale quella che la targhetta vorrebbe assegnargli – fa osservare lo scrittore Eno Santecchia, di Caldarola - il Pino potrebbe essere stato testimone di tanta vita svoltasi nel
castello. In particolare, trovandosi esso di fronte alle vecchie scuderie (ora trasformate in salone per
ricevimenti), avrà assistito all’arrivo e alla partenza di tanti personaggi importanti, quale la Regina
Cristina di Svezia in visita a Caldarola. In un suo articolo dal titolo “Passeggiata nel parco basso del
castello Pallotta”, lo stesso Santecchia così parla
del Pino:
“Giunti nei pressi del
ponte levatoio, il cammino è sbarrato dal pino
domestico (Pinus pinea)
più vecchio delle Marche:
la sua alta e un po’ sfoltita
chioma si vede a qualche
chilometro di distanza. Il
pino sovrasta tutti come
un patriarca; si può concedere questa orgogliosa
superiorità avendo visto
sgretolare parecchi muri
dai terremoti che nei
Dipinto settecentesco all’interno della Collegiata di San Martino: il Pino è ben pre- secoli hanno colpito la
sente e rigoglioso nello stesso posto in cui lo vediamo oggi
zona! Il pino fu messo a
dimora nel 1598 in occasione della visita di Clemente VIII, il Pontefice
che, due anni dopo, non
fece nulla per salvare
Giordano Bruno dal
rogo”.
Il libro della provincia, infine, presenta un
terzo albero del castello,
un bagolaro, che tuttavia
qui trascuriamo, non
essendo di dimensioni
tali da meritare un posto
in quest’opera.
Foto dell’abitato di Caldarola del 1882: il Pino è ancora al suo posto, meno rigoglioso
rispetto a quello del dipinto ma con qualche ramo in più di oggi (foto archivio Pallotta)
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Il Pino secolare del Castello Pallotta con veduta del ponte levatoio e della cinta muraria dalla quale emerge la chioma
dell’antichissimo Tasso
175
Circonferenza
Altezza
Chioma
Età
CALDAROLA – Bozzolone
Roverella (Quercus pubescens)
m. 4,50
m. 25
m. 26
anni 200 circa
A volte, i più bei monumenti naturali si nascondono, ignoti a tutti, a pochi passi da casa nostra.
La splendida Roverella situata in località Bozzolone, a non più di duecento metri dal centro di
Caldarola, ne è un esempio lampante.
L’albero principe della cittadina maceratese, quello a tutti noto, è, senza dubbio, il vetusto Pino
domestico del Castello Pallotta. Eppure, a confronti fatti circa dimensioni e pregi estetici, la Quercia
lo sovrasta, e non di poco. Così come il Pino, anche la Quercia ha la sua interessante storia da raccontarci.
Aspetto invernale della Quercia di Caldarola
176
Per molti decenni (secoli, forse) sul poggio che ospita la Quercia c’era una casa colonica di proprietà della famiglia Marchetti. Attorno alla casa, fra gli altri alberi, spiccavano tre grandi querce.
L’ultimo proprietario, Vincenzo, amava raccontare che ai tempi della sua fanciullezza (stiamo parlando, forse, dei primi decenni del secolo scorso) esse erano tutte avvolte dall’edera, delle cui bacche sono ghiotti alcuni uccelli, quali tordi, merli e cesene. All’epoca della fruttificazione essi accorrevano numerosi e chiassosi a cibarsene. Della cosa approfittava il padre di Vincenzo, cacciatore, il
quale, comodamente appostato con la doppietta dietro le finestre di casa, procurava con essi la cena
per la famiglia.
Con gli anni, poi, come avvenuto per migliaia di case coloniche delle campagne marchigiane,
anche la casa dei Marchetti venne abbandonata e cadde sempre più in rovina.
A quei tempi, comandante della stazione dei Carabinieri di Caldarola era il maresciallo Antonio
Bello leccese. Legato a lui da amicizia, anche per la comune passione per la caccia, il vecchio
Marchetti, pur di non veder morire la sua vecchia proprietà, esortava spesso il sottufficiale ad acquistarla e a restaurarla.
Il maresciallo si fece convincere: una ventina di anni or sono acquistò il rudere della casa con
seimila metri quadrati di terreno sui quali la natura aveva ormai preso il sopravvento e, nei ritagli di
tempo, cominciò una lenta e meticolosa operazione di restauro. Demolì il rudere della casa accatastando in ordine tutti i mattoni, eliminò le sterpaglie, piantò un uliveto e tante piante da frutto.
E le famose tre querce? Vennero tutte e tre completamente liberate dall’edera ma quella centrale,
la più bella, era ormai morta, colpita da un violento fulmine alcuni anni prima, fulmine che aveva
offeso e ferito anche la più piccola. Il fusto, alto e massiccio, venne venduto ai cantieri navali di
Ancona e oggi, trasformato in peschereccio, sta solcando da qualche parte le onde dell’Adriatico. Il
resto della pianta divenne tanta, tanta legna da caminetto.
Lo scettro di regina della tenuta passò alla sua sorella, la titolare di questa pagina, che oggi è certamente una delle più belle querce della vallata del Chienti. Il fusto è una armoniosa e slanciata
colonna di almeno 8 metri di altezza e 1,40 metri di diametro. Esso sarebbe ancora più alto e il suo
diametro ancora maggiore se fosse possibile rilevare le misure a una quota inferiore, ma buona parte
della base della pianta è stata sommersa dalla terra spostata nell’esecuzione dei vari lavori.
Nonostante il suo prepotente sviluppo verticale, la Quercia ha anche una notevole estensione in
orizzontale, con una chioma che estende la sua ombra su un’area di 26 metri di diametro in ogni
direzione.
La pianta sembra fare da elemento catalizzatore di un ritrovato equilibrio della natura. Da buon
cacciatore pentito, il maresciallo (ora in pensione) ha creato le condizioni di una vita agevole a ogni
specie di animali: spontanei arrivano i colombi e le gazze nidificano fra i rami della grande
Quercia. Ogni tanto qualcuno scompare, azzannato da una donnola o una faina, secondo la spietata
legge della natura. Lungo una scarpata a trenta metri dalla Quercia una tana accoglie una famiglia di
quattro istrici.
Degno compagno della grande Quercia, forse suo coetaneo, accanto alla nuova casa in costruzione del maresciallo, svetta un maestoso pino domestico con un fusto di m. 3,02 di circonferenza. Si
sa che i pini amano allungare le loro radici tutte in orizzontale, a fior di terra, e il maresciallo osserva e controlla, con un po’ di apprensione nello sguardo, il pavimento dalla sua casa.
177
Il fusto colonnare della Roverella di località Bozzolone, presso Caldarola
178
Circonferenza
Altezza
Chioma
Età
CALDAROLA – Vestignano
Roverella (Quercus pubescens)
m. 5,00
m. 18
m. 15
oltre 400 anni
Pochi alberi, o nessuno forse, sono stati testimoni di vicende drammatiche e cruente quanto l’antichissima Roverella di Vestignano. La pianta deve avere un’età notevolissima, a giudicare dal suo
aspetto e dalla posizione difficile sulla quale è nata e cresciuta. Come si può anche vedere dalle
immagini, essa viene utilizzata dai suoi proprietari, la famiglia Pesaresi, residente nei pressi della
pianta, per allestirvi il presepe in occasione delle festività natalizie, utilizzando le cavità sotto le sue
radici che sembrano fatte a bella posta.
Intorno agli anni Cinquanta del secolo scorso, nei pressi della Quercia vennero trovate ossa
umane, che starebbero ad indicare che il terreno ad essa circostante, in passato potrebbe essere stato
adibito a cimitero
Il piccolo borgo di Vestignano, insieme alla vicina Montalto, sono legati al più grave eccidio mai
compiuto nelle Marche nel corso della guerra partigiana. Da qualche anno il comune di Caldarola
ha istituito un “Sentiero della Resistenza”: lungo il tragitto di km 1,5 sul quale è scorso tanto sangue, sono stati apposti cippi e lapidi commemorative.
Su questi monti si svolgeva un’intensa attività partigiana, ma insieme ai combattenti si nascondevano giovani ventenni renitenti alla leva che avevano il solo torto di essere in età da servizio militare e che, nel marasma del momento, cercavano solo di sfuggire alla deportazione in Germania in
caso di cattura da parte dei tedeschi. Tutti, partigiani e renitenti, vennero travolti dagli eventi di quei
giorni. Le vicende sono state raccontate in diverse pubblicazioni, ma quelli relativi agli episodi
accaduti nei pressi della Quercia sono descritti in un articolo di Eno Santecchia, pubblicato il 24
gennaio 2001 sul settimanale “Nuovo Chienti e Potenza”, edito a Camerino.
“Mercoledì 22 marzo 1944 – racconta il Santecchia – era il primo giorno di primavera, ma faceva un freddo intenso, c’era nebbia e nevischio. Verso le ore 4,00 una colonna di circa cento militi
nazi-fascisti muove da Muccia per Montalto e Vestignano. E’ loro intenzione di sferrare un attacco
contro i partigiani che, al riparo delle montagne della zona, attuano la tattica del mordi e fuggi, causando non pochi problemi ai tedeschi.
Alcuni patrioti sfuggiti all’accerchiamento di Montalto cercano scampo verso Vestignano, ma
quasi contemporaneamente due autocarri nazi-fascisti raggiungono l’abitato di Vestignano con l’intento di impedire la fuga da quella parte.
Il ventiduenne Nicola Peramezza, preso tra due fuochi, si getta nel fosso Arrà sito nei pressi della
Roverella, ma viene colpito mortalmente e finito a colpi di baionetta. Altri tre (Mario Ramundo,
Guidobaldo Orizi e Lauro Cappellacci) cercano inutilmente rifugio nel forno di Agamennoni, ma
vengono scoperti e uccisi sul posto. Al termine del rastrellamento, lungo la strada sottostante località Tribbio di Montalto, i nazi-fascisti fucilarono e gettarono nella scarpata altri 26 partigiani
(Eccidio di Montalto).
Sul cippo poco lontano dalla Roverella si può leggere:
“Qui nel candore della neve simbolo della sua purezza nell’alba tragica del 22 marzo 1944 cadeva Peramezza Nicola falciato da mitraglia fratricida”. Prosegue poi con una bellissima frase:
“O viandante soffermati e prega per chi non ultimo tra una schiera di eroi ha sacrificato la vita
per ridonare alla Patria libertà e indipendenza”.
179
La Quercia di Vestignano in versione... natalizia
180
SAN VITO DI CAMERINO – Villa Battibocca
Roverella (Quercus pubescens)
Circonferenza
Altezza
Chioma
Età
m. 5,40
m. 20
m. 19
anni 400 circa
Una dozzina di anni fa, nel corso della stesura dell’opera in tre volumi “Immagini ed Evoluzione
del Corpo Automobilistico”, che mi era stata commissionata dal Comando del Corpo stesso, mi
recai in quel di Anagni (FR), a rendere visita a un personaggio veramente “unico”. Si chiamava
Sesto Gismondi, faceva il falegname dall’età di 12 anni e, essendo ancora in attività a 107, aveva
accumulato un’attività lavorativa di ben 95 anni. Infatti, lo trovai nella sua bottega di artigiano,
ancora intento alla costruzione dei suoi mobili. Una mente ancora perfettamente lucida, a dispetto
degli anni. Dopo una lunga e interessantissima chiacchierata, la figlia (quasi ottantenne) mi mostrò
un articolo di una rivista di 5 anni prima, recante un’intervista al genitore, allora 102enne, a conclusione della quale il vecchietto mostrava al giornalista una partita di legno di rovere da poco acquistata, dichiarando:
“Ora lo farò stagionare per cinque anni e vedrà che dopo sarà un vero piacere lavorarlo”.
“Ma tu guarda – commentava con un po’ di ironia il giornalista – se un uomo di 102 anni può
permettersi di fare progetti lavorativi a scadenza di 5 anni”.
I cinque anni erano esattamente trascorsi al momento del mio passaggio presso il Gismondi ed
egli stava, appunto, lavorando proprio quel legno che aveva acquistato cinque anni prima.
Da quell’esperienza compresi che, se si vuole vivere sereni e a lungo, non bisogna porre limiti
all’ottimismo.
Mi è affiorato alla mente, questo episodio, allorché, tornando a visitare a distanza di oltre ventitre
anni i boschi di Villa San Vito, presso Camerino, riconobbi alcuni alberi di noce di discrete dimensioni. Con essi mi tornarono al ricordo le parole del conte Francesco Maria Battibocca che, guidandomi a visitare la sua proprietà e indicando degli alberelli di noce da poco piantati:
“Quelli – mi disse – li ho piantati perché li possano godere i miei discendenti, come io sto usando quelli piantati dai miei antenati”.
Mai porre limiti all’ottimismo. Sono passati più di ventitre anni e quei noci ora stanno producendo i loro copiosi frutti a favore, proprio, di chi li ha piantati.
L’oggetto della mia visita, tuttavia, non erano quei giovani e robusti alberi di noce, ma quella che
oggi, dopo la caduta del gigante di Villa Cimarella, può essere considerata la seconda Quercia della
provincia di Macerata (al primo posto, e senza concorrenza, c’è quella di Passo di Treia).
C’è sempre da trovare giovamento a recarsi a visitare la pianta, anche più di una volta, non solo
per la Quercia stessa, ma per tutto il contesto nel quale essa è inserita.
Fino a pochi anni or sono i dieci ettari di terreno circostanti Villa San Vito erano costituiti in
riserva di caccia, vale a dire che vi si poteva anche cacciare, previa autorizzazione dei proprietari e
nel rispetto delle norme.
Oggi, su proposta del proprietario e su decisione della Soprintendenza ai Beni Ambientali della
Provincia, essi sono stati dichiarati Riserva Naturale Permanente; ogni attività venatoria è stata bandita e nei boschi si possono incontrare, liberi e indisturbati, lepri, fagiani, rapaci, cinghiali ed anche
caprioli.
Sovrana incontrastata di tutto il mondo vegetale circostante la grande, antica Quercia.
Non è difficile da raggiungere. Per chi proviene dalla superstrada, che termina a poche centinaia
di metri da Sfercia, si prende, da questa frazione, la strada provinciale Varanese, in direzione di
Camerino, risalendo la valle del Rio di San Luca, affluente del Chienti. Pochi chilometri e, sulla
sinistra, appaiono le quattro case di San Luca. Si entra nella frazione, la si attraversa, si varca il torrente e, subito al di là di esso, la strada imbrecciata si biforca. E’ indifferente quale dei due bracci
prendere perché, dopo poche centinaia di metri, essi si ricongiungono. Ancora poche centinaia di
181
L’imponente fusto della Quercia di Villa San Vito: una vera opera d’arte
182
metri e, sulla sinistra, appare la freccia indicante Villa San Vito. La si ignora e si prosegue per un
centinaio di metri ancora, fino al bivio successivo, arrivati al quale si prende a sinistra. Poche decine di metri e siamo alla meta. La Quercia è pochi passi sopra la strada, sulla destra.
La Quercia di Villa Battibocca è il vero prototipo dell’albero monumentale. La parte anatomica
più significativa della pianta è il fusto, che all’impatto visivo sembra addirittura più grande dei pur
notevoli m. 5,40 di circonferenza.
Il tronco vero e proprio ha un’altezza limitata e si allarga presto a forma di vaso, per espandersi
in alcuni grossi calli di cicatrizzazione. E’ evidente che in epoca remotissima su questi calli prendeva avvio la chioma della pianta. Nessuno ha mai tramandato quando quei rami siano stati amputati e
perché. Dalla loro posizione è facile pensare che essi, troppo bassi e perciò sfioranti il terreno, fossero di intralcio per le attività di chi attorno alla pianta doveva lavorare (forse i contadini in quanto,
stante l’abissale differenza di età tra la Quercia e gli alberi circostanti, è probabile che nel secoli
passati la pianta fosse circondata da campi coltivati).
Al di sopra delle grosse cicatrici, il fusto sembra ripartire, ma si divide subito in due grossi rami
verticali, entrambi – come fa notare la recente pubblicazione della Provincia “Alberi, custodi del
tempo” – grandi come tronchi di alberi secolari di notevoli dimensioni.
Una caratteristica del fusto che balza all'attenzione è la profondità e l'ampiezza delle scanalature
della corteccia. Il particolare veniva messo in risalto dal maresciallo Angelo Biagioli, comandante
della stazione forestale di Macerata, profondo conoscitore del mondo vegetale della provincia tanto
da segnalare nel 1981, all'epoca in cui non era ancora in atto alcun censimento di alberi monumentali, piante fra loro lontanissime quali questa Quercia e quella di Santa Cassella a Potenza Picena.
“La corteccia ha dei solchi così profondi - rivelava il sottufficiale mimando il gesto - che ci
entrerebbe una mano messa di taglio”.
Raffrontando l’ampiezza e l’aspetto della chioma con quelli di venti anni or sono, si notano subito delle grosse perdite. Il tutto avvenne per una nevicata divenuta ormai storica, soprattutto per gli
effetti già denunciati su altre querce di questo libro, quella del 18 novembre 1998. In tale data quasi
sempre le querce sono ancora provviste di fogliame, spesso ancora verde, specialmente le querce
più annose il cui ciclo vitale viaggia sempre con qualche settimana di ritardo rispetto alle consorelle. Sui rami già instabili della vecchia Quercia si accumulò una spessa coltre di neve, il cui peso
portò alla loro rottura.
Racconta il signor Troiani, abitante a San Luca, il quale spesso ha effettuato lavori sugli alberi di
San Vito su ordine del conte, che questi rami, ridotti in ciocchi, fornirono ben 50 quintali di legna
(la perdita è visibile, ma viene da chiedersi quale possa essere il peso complessivo della pianta,
visto che il colossale tronco e i due enormi rami sono ancora al loro posto).
Fra i compiti del signor Troiani in passato c’è stato anche quello di tenere sgombra da vegetazione tutta l’area sottostante la Quercia. Oggi questo lavoro non viene più effettuato perché, come
rivela lo stesso conte, è intento della proprietà di ottenere un rimboschimento naturale attorno alla
pianta.
Chiudiamo il discorso su villa Battibocca ricordando una seconda Quercia presente nella stessa
proprietà.
Proseguendo sulla stessa strada imbrecciata che passa adiacente alla Nostra, dopo poche centinaia di metri, sulla sinistra, si incontra un secondo gigante, forse coetaneo del primo. Esteticamente la
pianta lascia un po’ a desiderare. Il fusto, di metri 5,30 di circonferenza, è imbruttito da una voluminosa escrescenza e la chioma manca di armonia. Eppure, la pubblicazione “Il Patrimonio vegetale
delle Marche”, edito dalla regione Marche nel 1981, dedicando un capitoletto agli alberi più monumentali allora conosciuti nella regione, pubblicò una foto proprio di questa Quercia, ignorando l’altra che è, invece, senza tema di smentita, uno dei più significativi monumenti naturali delle Marche.
183
Di dimensioni ed età pressoché analoghe, ma di pregio nettamente inferiore è la quercia che si incontra nella Villa San
Vito ad alcune centinaia di metri dalla prima
184
(...)
SAN SEVERINO MARCHE
Monte Canfaito
I grandi Faggi di Canfaito (Fagus sylvatica)
Circonferenza
Altezza
Chioma
Età
I
m. 6,42
m. 25
m. 20
anni 500
II
m. 6,70
m. 22
m. 16
anni 500
III
m. 4,35
m. 18
m. 25
anni 200
Canfaito = dal latino “campum faitum”, ossia “campo di faggi”. Non avrebbe potuto esserci
nome più adeguato, per esprimere con una sola parola tutto ciò che si prova, ad immergersi nella
più grande concentrazione di superfaggi della regione.
Non si tratta di un paese, ma di una località, o, meglio, di un altopiano. Lo si raggiunge, partendo dal capoluogo comunale di San Severino e portandosi fino alla frazioncina di Elcito, che si lascia
sulla destra della strada, staccata da questa di alcune centinaia di metri. Si prosegue per tre o quattro
chilometri di una strada tortuosa, fino ad arrivare ad un cippo posto in mezzo a uno slargo della
strada stessa. In corrispondenza di questo cippo, parte sulla sinistra una stradina in terra battuta che
si inoltra in un bosco di faggi. La volta vegetale di questa strada è talmente compatta che, percorrendola in auto d’estate, si rende necessario accendere i fari anche in pieno giorno, per vincerne
l’oscurità. All’uscita dal bosco la strada si fa più agevole e, poche centinaia di metri più avanti, due
sbarre consecutive, quasi sempre aperte, ci indicano che ci stiamo inoltrando in una proprietà privata. Subito viene avvistata l’unica costruzione del luogo e, al di là di quella, prende inizio la serie di
straordinari faggi, parte isolati, parte in bosco.
Ne scegliamo tre, delegando loro l’incarico di rappresentare tutta la faggeta.
Il campione assoluto da antologia è quello che definiamo come nr. 1, anche se in termini strettamente numerici la circonferenza del fusto del secondo è maggiore.
Esso impone la sua massiccia figura al margine della stradina che, oltrepassato l’edificio, si inoltra ulteriormente sull’altopiano. Prima e dopo di esso, a costituire un filare di rara bellezza, altri
faggi di non comuni dimensioni. Ventitre anni or sono il filare veniva introdotto da quello forse
esteticamente più valido, essendo dotato di fusto di m. 4,80 di circonferenza, dritto e colonnare.
Per parlare del personaggio principe della faggeta, chiamiamo ancora in causa don Eugenio
Angeloni, Arcidiacono del Capitolo della Cattedrale di San Severino, riesumando una sua antica lettera:
“Il Faggio in questione non ha una storia specifica, anche perché fa parte di una splendida faggeta, in cui però domina in quanto è un po’ più grande degli altri; è un sovrano in mezzo ai giganti;
mentre la storia è ampia e documentata per quanto concerne la zona preappenninica, in cui la faggeta si distende e che trova in San Vicino (m. 1480) la cima più alta.
Conversando con i turisti che vengono sul Canfaito son solito dire che il Faggio in questione fa
da confine tra un’amministrazione e un’altra. Infatti nel 1486 l’azienda che era stata per tanti secoli
di proprietà dei monaci fu donata da Innocenzo VII al Capitolo della Cattedrale di San Severino.
Ebbene, questo Faggio potrebbe risalire a quell’epoca? E’ una mia supposizione, certamente non
suffragata da uno studio botanico accurato, ma che non dovrebbe essere molto lontana dalla realtà”.
Se il grande Faggio era sprovvisto di storia fino a ventitre anni or sono, non lo è più da quando,
nel 1989, venne pubblicato il I volume di “Alberi Monumentali d’Italia”: il capitolo dedicato alle
Marche era alquanto scarno di rappresentanti, ma insieme all’Albero del Piccioni, al Castagno di
Gaico, alla Roverella di Passo di Treia, alla Quercia di Moscano, alla Cerquagrossa di Serra dei
Conti, al Cedro di Villa Simonetti e al Tasso di Fonte Avellana c’era anche lui, il nostro Faggio, con
una splendida foto che ne esaltava bellezza e monumentalità. La stessa foto coglieva molto bene
anche una formazione caratteristica nella figura della pianta, una grossa radice che si racchiude a
formare una sorta di chiocciola.
Per raggiungere l’esemplare nr. 2, basta restare sul posto e spostarsi di poche decine di metri
verso il basso all’interno della faggeta. Il Faggio è, in realtà, composto di due elementi ed è caratte-
197
Il più grande dei faggi di Canfaito ed anche il maggiore della regione.
198
Il secondo Faggio di Canfaito: evidente si tratti di due elementi aggregati
199
ristico per la capiente caverna alla base che essi hanno
in comune, che viene sovente utilizzata dai turisti per
prendere il fresco e riposare, ma anche (e poteva essere
diversamente?) per gettarvi rifiuti.
Recentemente, la parte superiore di uno dei due
fusti, completamente marcita, è crollata al suolo.
Il Faggio nr. 3 è invece alquanto discosto dai primi e
per arrivarvi occorre proseguire lungo la stessa stradina
sterrata che passa accanto al primo Faggio; dopo duetrecento metri si incontrerà un bivio, dove si deve
imboccare il viottolo, sempre sterrato, di destra, fino ad
arrivare ad un recinto di filo spinato; non lo si deve
oltrepassare, ma occorrerà costeggiarlo seguendo un
sentiero verso destra che ci porterà ad una valletta sul
fondo della quale, sulla sinistra, apparirà lo splendido
esemplare.
L’intero percorso non supera il chilometro. La pianta
occupa il centro di questa cavità del terreno ed è circondata, a breve distanza, da altri alberi della stessa
Il terzo per dimensioni fra i Faggi di Canfaito, ma specie, i quali anziché offuscarla ne esaltano la maestosità consentendo di valutare la differenza di dimensioforse il primo per bellezza
ni.
La passeggiata sull’altopiano potrebbe proseguire – molto meglio se a piedi – per visitare altri
grandi faggi, sbizzarrirsi a stilare una classifica e scoprire quale sia il 4°, il 5°, ecc., ma forse è
meglio fermarsi qui, a godere per qualche momento di tutto quello che la natura a Canfaito ci sa
regalare.
200
Circonferenza
Altezza
Chioma
Età
MATELICA – Acqua dell’Olmo
Salice bianco (Salix alba)
m. 3,95
m. 20
m. 20
anni 100 circa
Pensiamo a quanto doveva essere tribolata la vita
dei nostri bisnonni (diciamo, prima metà del secolo
scorso). Avevi un lancinante mal di denti? Non ti restava altra soluzione che urlare o affidarti al primo
improvvisato “cavadenti” che te ne eliminava la causa,
senza anestesia, con una pinza da maniscalco. Un atroce mal di testa? Te lo tenevi o sbattevi il capo contro il
primo muro. Un febbrone a 40°? Pezze bagnate e una
preghiera dei tuoi cari al proprio santo protettore. Tutto
questo, a meno di sapere che nella corteccia del salice è
contenuta una sostanza capace di abbassare la febbre e,
in una certa misura, anche alleviare il dolore, una
sostanza chiamata “acido acetilsalicilico” che altro non
è che la comunissima aspirina.
Il salice non è pianta dalla lunga vita, ma fra quelli
che potevano già esistere al tempo cui si riferisce la
nostra riflessione e che sono vivi ancor oggi c’è sicuramente quello che si può ammirare sul territorio comunale di Matelica, in località “Acqua dell’Olmo”.
La pianta, massimo rappresentante della specie a Il Salice di Acqua dell’Olmo
livello provinciale (nella regione ne troveremo uno più
grande) è raggiungibile con una piccola dose di difficoltà, partendo da Matelica. Da qui si imbocca
la strada provinciale di Braccano, in direzione Monte San Vicino. Giunti in località Aia di Maiano,
si osserva sulla sinistra della strada una croce; di fronte, una stradina imbrecciata, con una sbarra.
La stradina sarebbe percorribile anche con una normale utilitaria, ma è preferibile un mezzo fuori
strada. Si percorre questa stradina per un paio di chilometri, fino ad una casa ora abbandonata con
annesse stalle, anch’esse in disuso. Sulla destra della casa la stradina continua a scendere per poche
decine di metri fino a che, aggirato un grande faggio dalla splendida architettura, si giunge ad una
sorta di spiazzo al cui centro sono alcuni trogoli nei quali scorre l’acqua di una sorgente abbondante
e perenne. Al termine dei trogoli si erge l’eccezionale pianta di salice protagonista di questa pagina.
L’ambiente circostante è molto accattivante e la prima idea che balena alla mente, allorché si
giunge sul posto in una calda giornata d’estate, è quella di correre a prendere una tenda e sistemarsi
lì per qualche giorno.
Nella sua secolare esistenza la pianta ha visto sempre molta vita attorno a sè, quotidianamente,
ogni volta che i contadini andavano a dissetare se stessi e il bestiame all’acqua della sorgente.
Questa consuetudine si perpetua tutt’oggi, in quanto la funzione dei trogoli è rimasta inalterata.
Il vecchio Salice ha già assunto le mansioni che le associazioni ambientaliste attribuiscono ai
patriarchi della natura, fra cui quella di ospitare e alimentare altre creature che da loro dipendono:
sull’incavo del primo palco di rami esso ospita, infatti, due giovani piante di faggio e una di salice,
mentre da un incavo del fusto fa capolino un rovo da more.
201
Circonferenza
Altezza
Chioma
Età
SAN SEVERINO MARCHE – Berta
Roverella (Quercus pubescens)
m. 4,54
m. 18
m. 29
anni 200 circa
Fra le caratteristiche che possono contribuire ad aumentare la fama di un albero, la più efficace è
senza dubbio la seguente: dimensioni e aspetto non comuni associati alla vicinanza di un’arteria
stradale di elevato scorrimento.
Esempi tipici nella regione: l’ormai defunta Cerquabella di Montegiorgio e l’albero del Piccioni
di Ascoli Piceno.
Sugli stessi livelli si pone in Toscana il favoloso Quercione delle Checche, l’incredibile roverella
della Val d’Orcia.
Sotto questo profilo l’ascolana Cerquatonda e l’anconitana Cerquagrossa, (per fare degli esempi), pur molto ben visibili, si collocano ad eccessiva distanza dalla strada.
In località Berta, fra Passo di Treia e San Severino, ma appartenente al territorio comunale di
quest’ultima cittadina, anche se ne dista 9 chilometri, c’è una Quercia che può costituire il prototipo
di quanto ora affermato.
Le dimensioni della pianta sono sicuramente fuori del comune, anche se non paradossali, la sua
figura è solenne e piacevolissima; ma questi pregi vengono ingigantiti dalla vicinanza alla strada
provinciale della Val Potenza perché questo fa sì che molti automobilisti la notino e che qualcuno si
fermi, ogni tanto, a scattare una foto da tenere per ricordo.
Chi ci illustra la non ricca biografia della pianta è don Donato de Blasi, che dirige la Comunità di
Recupero che ha sede nella casa vicina.
Qualche decina di anni fa la Quercia, l’edificio attiguo e i terreni circostanti appartenevano ad un
facoltoso proprietario terriero di nome Anacleto Miliani. Alla sua morte, la moglie Eloisa fondò
l’”Opera Anacleto Miliani” e donò tutto il complesso, Quercia compresa, alla Comunità di
Recupero che reca il nome dell’Opera stessa.
Sembra – riferisce sempre don Donato – che durante la guerra, come pure in seguito, la pianta sia
stata un preciso punto di riferimento per la topografia militare, anche se non si raccontano specifici
episodi a sfondo bellico.
Costituitasi la Comunità, nei dintorni della Quercia è stato costruito un campo di calcetto e sotto
la pianta sogliono svolgersi molti degli incontri di comunità analoghe che affluiscono per le più svariate ragioni.
La pianta non ha mai subito azioni di potatura; perciò, così com’è, è quanto la sola natura ha
saputo realizzare. La stessa natura, alcuni anni or sono, provocò un danno di una certa entità alla
Quercia a causa di un fulmine. Ancora oggi è fresca la ferita del ramo stroncato dalla saetta. La
legna raccolta costituì buona scorta di combustibile per le necessità della comunità.
Altri rami perduti, invece, vengono ricordati da moncherini più o meno estesi, quanto resta di
braccia molto più lunghe amputate dalle larve dei cerambici.
L’età della pianta non deve essere molto elevata, almeno a giudicare dal suo ancora evidente
tasso di crescita. Le misure rilevate ventitre anni or sono, in occasione della pubblicazione di
“Marche, cinquanta alberi da salvare” furono di m. 4,30 per la circonferenza del fusto e m. 23 per il
diametro della chioma. Se è normale in ventitre anni una crescita di 24 cm in circonferenza, è da
ritenere straordinaria, per contro, quella della chioma, anche perché i 29 metri che le abbiamo attribuito sono la media fra i 31 e i 27 effettivamente rilevati in due direzioni fra loro ortogonali. E’ probabile che, senza la perdita causata dal fulmine, oggi l’ombrello della Quercia avrebbe la stessa uniforme estensione, con un incremento di otto metri.
Anche se la bella Quercia non ha mai dato spunto al fiorire di una letteratura su se stessa, è entrata di buon diritto nel titolo di un libriccino scritto e pubblicato da don Donato “Racconti sotto la
202
Fusto della Quercia di Berta; ben visibile la ferita dell’ultimo fulmine
203
Quercia”. Il sacerdote immagina che i ragazzi affidati alle sue cure si aprano e raccontino le loro
storie tristi e travagliate. E quale posto può essere meglio immaginato per fare da scenario a questi
racconti? Ovviamente, la materna e accogliente ombra della grande Quercia di Berta.
Che la Quercia entri attivamente nella vita della comunità di recupero retta da don Donato è
dimostrato anche da quanto realizzato in occasione del Natale 2007.
Proprio a ridosso del tronco della Quercia è stato realizzato il presepio.
La capanna, una vera capanna, è stata realizzata dai ragazzi utilizzando fronde d’ulivo e canne di
palude, mentre le figure del presepio, ridotte al numero essenziale, cioè la Madonna, San Giuseppe
e il Bambino Gesù, sono stati artisticamente stilizzati.
La Quercia di Berta nei suoi colori autunnali
204
PASSO DI TREIA – San Marco Vecchio
Roverella (Quercus pubescens)
Circonferenza
Altezza
Chioma
Età
m. 6,45
m. 23
m. 34
anni 450
Su quale sia oggi la quercia nr. 1 delle Marche non vi sono dubbi: è la fiabesca Roverella che fa
ombra ad un’ampia porzione dell’aia di Gino Palmucci, gagliardo contadino ottantaseienne giustamente orgoglioso della sua pianta e ben felice per tutte le attenzioni che da decenni riceve da parte
delle autorità, degli organi d’informazione e di tutti i visitatori che si fermano ad ammirare lo spettacolo naturale da essa offerto.
Il primato che le appartiene è quello della circonferenza del fusto fra tutte le querce della regione,
se si esclude un individuo “anomalo” che incontreremo nel prosieguo di questo libro in provincia di
Ancona. Fino a qualche anno fa esisteva, in effetti, una seconda quercia che avrebbe potuto contenderle il primato. Si trattava di una grande roverella situata sul retro dell’abitato di Marsia, capoluogo del
comune di Roccafluvione, in provincia di Ascoli Piceno (vds cap. I, “La caduta dei giganti”).
Nel più volte citato “Marche, 50 alberi da salvare”, ventitre anni or sono, la Roverella di Passo di
Treia esibiva un fusto di metri 6,16, mentre la quercia ascolana veniva accreditata di un 6,30 ... con
beneficio d’inventario. Il beneficio era d’obbligo, essendo la quercia circondata da un sottile velo di
edera, che sarebbe stato necessario eliminare per conoscere le sue reali misure.
Il gigante ascolano, tuttavia, è crollato nel corso di una tempesta sul finire del 1999 e ha portato
con sè il segreto delle sue dimensioni. Oggi, perciò, la Quercia di Passo di Treia domina il mondo
vegetale delle Marche senza più rivali.
In merito all’età della pianta, la nonna stessa del signor Gino, deceduta a novant’anni, sosteneva
che, allorché ella entrò sposa nella famiglia Palmucci, la Quercia era già molto grande. Si può tentare una stima sulla base del tasso di crescita. Nel 1983 la Quercia misurava i suddetti m. 6,16. Da
allora è cresciuta di 29 centimetri, pari a circa 1,3 cm l’anno. Supponendo una crescita costante, la
Quercia dovrebbe contare oggi 480 anni circa. Il calcolo trova conferma nella diagnosi del dottor
Bongarzoni il quale col metodo resistografico ha accertato un’età di 450 anni e tale è la cifra riportata nel recente “Alberi, custodi del tempo”, della Provincia di Macerata.
Ricchissima è la biografia della grande Quercia.
Un centinaio di anni fa, o poco meno, racconta il signor Palmucci, raccogliendo le memorie di
famiglia, un pagliaio situato fra la casa e la Quercia subì un incendio.
Questo si appiccò anche ad alcuni rami della pianta, sulla cui figura ancora oggi spiccano alcune
cicatrici a ricordo di quei momenti di paura.
Sempre in tema di incidenti, più di un fulmine si è abbattuto sulla pianta nel corso della sua plurisecolare esistenza. Di alcuni di essi si è persa la memoria, ma uno è ricordato dallo stesso signor
Palmucci. L’episodio avvenne alcuni decenni or sono.
La saetta nel suo percorso abbatté anche un ramo, dal quale il contadino ricavò venti quintali di
legna. Una perdita che sarebbe stata grave per qualsiasi quercia ma sul corpo della Nostra neppure
si percepiva da quale punto dell’albero esso era stato asportato.
Nel corso del secondo conflitto mondiale la Quercia offrì i propri servizi ad entrambi gli schieramenti. I Tedeschi, infatti, utilizzarono la capiente chioma della pianta nel corso della loro ritirata,
per occultarvi materiale bellico. Con l’avanzare degli Alleati lo stesso posto venne occupato da un
reparto polacco, che vi installò un’officina. Questa vi sarebbe rimasta per due anni, cioè ben oltre la
fine delle ostilità.
Non si contano più le apparizioni della grande Quercia in programmi televisivi anche a diffusione nazionale, come quella in una puntata di “A come Agricoltura”, all’inizio degli anni Ottanta.
Sempre più frequenti nel tempo si sono fatte le visite di giornalisti, curiosi, ma anche e soprattuto di
scolaresche.
205
La Quercia di Passo di Treia, la più grande delle Marche, in abito estivo; molte cose sono cambiate, negli ultimi tempi,
nel paesaggio che la circonda
A fianco della Quercia, fuori dal recinto che la protegge, il comune di Treia ha fatto costruire un pregevolissimo anfiteatro che consente di ammirare il gigante in tutta la sua bellezza
206
Il fusto della Quercia di Passo di Treia, il più imponente delle Marche
207
Nel 1989, e non poteva essere diversamente, la pianta meritò un posto, con una foto di vero effetto, nella citata opera del Bortolotti “Alberi Monumentali d’Italia”, fra i 300 alberi più rappresentativi del nostro Paese.
E’ del 1992 l’incidente forse più grave della lunga vita della pianta, quello che, senza appropriati
ripari, avrebbe potuto perderla per sempre.
A causa del peso dei suoi enormi rami, alcuni dei quali di diametro superiore al metro, l’intera
pianta stava per squarciarsi in due con una minacciosa fessura che si era aperta lungo il fusto.
L’intervento del proprietario, delle autorità comunali, del Corpo Forestale e dei tecnici fu tempestivo e appropriato. La Quercia venne subito imbracata con staffe e tiranti che la riportarono alle condizioni iniziali, scongiurando per sempre la possibilità di un nuovo analogo accidente.
L’episodio ebbe l’onore di un articolo sulla rivista Gardenia.
Ultimo in ordine di tempo fra gli onori resi al bellissimo monumento naturale è pervenuto ad
opera dell’Istituto Geografico De Agostini. Pubblicando il volume “Alberi monumentali nel
Mondo” di Thomas Pakenham, l’Editore ha riportato nello stesso libro anche un elenco stilato dal
W.W.F. Italia, relativo ai 20 alberi che possono essere dichiarati “campioni regionali”. Se in qualche
regione la prestigiosa associazione ha preso delle autentiche cantonate (per l’Abruzzo, ad esempio,
è stata scelta una “Quercia di San Nicola” quando la regione può vantare almeno 50 alberi migliori),
per le Marche è stata designata proprio la Roverella del Passo di Treia, una scelta che potrà essere
difficilmente contestata da qualcuno.
Una considerazione, che infonde un po’ di tristezza, è quella relativa all’ambiente che circonda la
grande Quercia. Ventitre anni or sono attorno ad essa c’era solo campagna, a perdita d’occhio, soprattutto in direzione del fiume Potenza, e la pianta cominciava ad essere visibile già a molte centinaia di
metri di distanza. Oggi la costruzione di nuovi edifici, anche di una certa altezza, lungo la provinciale,
fa sì che la pianta si offra allo sguardo soltanto allorché si è a cento metri da essa. Verso il fiume, invece, sono sorti grandi complessi industriali che hanno stravolto la natura stessa del luogo.
Chi ha pienamente recepito l’importanza del tesoro naturale che ha la fortuna di vantare sul suo
territorio, è stata l’amministrazione comunale di Treia. Ad una nostra richiesta di informazioni su
quali sono i progetti del Comune nei confronti della Quercia, l’architetto Patrizia Roganti, Funzionario Responsabile del IV settore, così risponde:
“...per la stessa (Quercia) è stato emesso il provvedimento di tutela vincolistica... quale Albero
monumentale denominato Roverella Quercus pubescens...
...valgono per l’area ove è ubicata la Quercia...le previsioni del Vigente Piano Regolatore
Generale di zona agricola di rispetto stradale ed ambientale... e le Prescrizioni per la conservazione
e ripristino degli elementi diffusi del patrimonio botanico vegetazionale... ivi comprese le norme di
tutela delle alberature protette...
...il Piano regolatore generale ha prescritto una zona a verde pubblico sul lato prospiciente la
Quercia, della quale sono in corso i lavori di sistemazione con adeguate piantumazioni per costituire
una quinta arborea di schermatura delle costruzioni retrostanti. Inoltre, nell’ambito di tale verde
comunale sarà realizzato un percorso pedonale pubblico che, seppure da relativa distanza, consentirà di ammirare la quercia monumentale”.
Quanto promesso e previsto è stato dal Comune stesso realizzato nel volgere di breve tempo, ed
oggi, a detta dello stesso contadino, non sono pochi coloro che utilizzano il percorso pedonale per
ammirare da appropriata distanza, alla stregua di quanto si fa con un quadro, il monumento naturale
numero 1 della flora regionale.
208
La Quercia di Passo di Treia esaltata dai suoi splendidi colori autunnali
P.S.
Le ultime notizie sull’albero nr. 1 della Marche sono, purtroppo, più che allarmanti.
28 dicembre 2007. Siamo accanto alla grande Quercia insieme agli agenti della stazione forestale di
San Severino sotto la cui giurisdizione si trova la pianta e, mentre scattiamo le foto, il nostro sguardo e
la nostra attenzione si accentrano su alcune colature di umidità che scivolano lungo il fusto. Le avevamo già osservate in una visita di qualche mese prima, ma ora sembrano sensibilmente più accentuate
e, prima di allontanarci, non possiamo esimerci dal farle notare ai nostri amici in divisa.
“Quando avvenne l’incidente che stava per spaccare in due il tronco – ci spiega il soprintendente
capo Ernesto Morelli – ci accorgemmo che il fusto, al suo interno, è completamente cavo e, quando
piove, raccoglie tutta l’acqua, come una botte. Tutta quest’acqua sta ora uscendo attraverso le parti
marce del tronco”. Un’occhiata alla pianta nel suo insieme, a cospicui lembi di corteccia che si sollevano sotto l’azione delle larve dei cerambici, poi:
“Ormai – conclude l’agente rivolto al suo comandante, isp. sup. Maurizio Simoncini – non le
resta molto da vivere!”
Sentiamo come una stretta che ci serra il cuore e a stento ci tratteniamo dal rimproverare l’agente:
“Parla più piano, che lei ti sente!”
Poi, osservando le bozze di questo stesso libro, il nostro pensiero corre al futuro, e ci domandiamo:
“Se qualcuno, fra venti anni, scriverà un nuovo libro che abbia la stessa impostazione di questo, in
quale capitolo si troverà questa Quercia?”
209
(...)
CINGOLI – Grottaccia
La Quercia “Pierigè” (Quercus pubescens)
Circonferenza
Altezza
Chioma
Età
m. 4,95
m. 23
m. 37
anni 300 circa
La Quercia “Pierigè” mantiene il suo primato: ad essa apparteneva, e torna ad appartenere, il
record del massimo sviluppo di chioma per una pianta marchigiana. A questo punto, tuttavia, la storia della celebre pianta si è fatta così complessa e articolata e le sue vicende biografiche si sono concatenate in maniera tale, che è giocoforza mettere un po’ d’ordine nelle carte e ricomporre tutto il
mosaico.
La bellissima Quercia, una delle più significative delle Marche, è facilmente raggiungibile per
chiunque voglia godere della sua visione. Dirigendoci da Macerata verso Cingoli, allorché si giunge
alla frazione Grottaccia, occorre portarsi sulla strada per Avenale. Percorse poche centinaia di metri
dal bivio, la Quercia appare in tutto il suo splendore sull’aia di una casa colonica.
Ma perché la Quercia è ormai universalmente conosciuta con questo nome? Esso è, semplicemente, il cognome della famiglia che da decenni abita nella casa, ma il fatto che il nome della famiglia stessa sia transitato alla pianta si deve al suo più grande cultore e innamorato, il sacerdote don
Primo Squadroni, parroco di Avenale una ventina di anni fa. La Quercia, infatti, ricade nelle proprietà della parrocchia. Riteniamo doveroso omaggio a questo non comune personaggio riportare
integralmente il testo della lettera con la quale, all’inizio del 1982, dietro mia richiesta, il sacerdote
Una delle più belle e conosciute querce marchigiane: la “Pierigè” di Cingoli. Curioso l’atteggiamento della grande
Quercia vicina, che sembra volersi scostare in segno di timoroso rispetto; lungo l’allineamento delle chiome l’ombra
raggiunge 48 metri di ampiezza.
216
forniva notizie sulla pianta.
“L’annosa e bella Quercia “Pierigè”, della parrocchia di Sant’Elena Imperatrice in Avenale di
Cingoli, non ha una storia gloriosa. E’ solo una Quercia che sa imporsi per la sua eleganza e la sua
rigogliosa vetustà. Dev’essere nata per opera di un umile topolino di campagna e cresciuta per la
rispettosa vigilanza di un altrettanto umile quanto intelligente agricoltore che gli alberi vicini alla
sua casa considerava come familiari.
La sorella minore, ritta al suo fianco, pare abbia oltre un secolo di vita e la maggiore, a dire dei
nostri vecchi, oltre trecento anni, perché per essi, la quercia 100 anni cresce, 100 anni si gode la sua
giovinezza e 100 anni invecchia lentamente.
Quassù ad Avenale di vandalismi ne sono stati perpetrati tanti ma la Quercia “Pierigè” è ancora
bella e verdeggiante, peccato però senza certificato di nascita, benché sia cosa sicura che non è
bastarda”.
Lo stesso don Primo, “parroco di Avenale e della veneranda Quercia dal 1935, può vantarsi di
averle più volte salvato la vita, quando ammazzare simili alberi non era considerato una balordaggine”.
La lettera di don Primo si concludeva con una notizia veramente pittoresca in tema di alberi e
piante in genere:
“Nel 1960 in Avenale nacque un’altra creatura degna di passare alla storia: un cavolo dell’altezza
di metri 2,70 e della circonferenza di metri 5,42. Visse due anni, poi, per una forte nevicata, morì”.
Rimasi in contatto con don Primo per alcuni anni, in una cordialissima e rispettosa, anche se sporadica, corrispondenza epistolare fino a quando ad una mia lettera, non giunse risposta. Non tardai a
comprendere. Era tanta la fiducia nel mio amico prete che “Solo una ragione al mondo – conclusi
fra me – potrebbe far sì che don Primo non risponda” e la conferma ai miei timori mi pervenne
dopo alcune settimane dal nuovo parroco di Avenale.
Le notizie sulla bellissima Quercia venivano completate mediante una lettura diretta della pianta
e con il racconto del signor Pierigè stesso, il contadino la cui famiglia occupava da generazioni la
casa colonica adiacente.
La lettura dice che in tempi remotissimi la Quercia ebbe a subire l’amputazione di due rami, il
maggiore dei quali di circa mezzo metro di diametro: bisogno di procacciare legna per le necessità
domestiche? O eliminazione di un intralcio per il transito di macchine agricole? Nessuno potrà più
raccontarlo.
Il contadino, a sua volta, riferiva di essere stato svegliato, una notte di qualche anno prima, da un
rumore forte e secco, al quale poté dare una spiegazione solo l’indomani, al risveglio. Un ramo
secondario si era spezzato, rimanendo a cavalcioni di due rami principali.
La parte più pittoresca della vita della pianta, tuttavia, doveva ancora cominciare.
Avuta notizia che, a seguito delle mie ricerche, si era scoperto che alla Quercia “Pierigé” apparteneva la chioma più ampia fra tutti gli alberi delle Marche (35 metri di diametro, a quei tempi), il
dinamico don Primo si mise subito in contatto con un giornalista del Corriere Adriatico, Gianfilippo
Centanni e il 16 febbraio 1982 sulle pagine del giornale appariva un articolo, con foto della pianta,
dal titolo “Ha la prima chioma della Marche, una quercia cingolana di 300 anni”. Di seguito, i passi
più significativi.
“...l’albero incute un suggestivo rispetto suscitando un’ammirazione straordinaria per la sua rigogliosa eleganza, e un’intima soggezione di fronte a cotanta...naturale autorità”
e ancora...
“...è consigliabile portare la macchina fotografica o la cinepresa per... immortalare la visita”.
e, per concludere:
“Sicché Avenale, secondo “balcone delle Marche” per la sua magnifica posizione, ha un’attrattiva in più: la quercia “Pierigé” che costituisce quasi una sfida alle iperboliche aggettivazioni.
“Spettacolare” e “colossale” sono gli attributi che la Quercia, apparentemente impassibile, sente
217
Il fusto e il primo palco dei rami della Quercia “Pierigè”
218
ripetere dai gruppi che le sostano davanti. E con un lieve stormir di rami la super-quercia sembra dir
grazie, fremendo, complice il delicato venticello della sera che a certe suggestioni dà, per un attimo,
l’alito della realtà”.
Trascorsero poche settimane e nella mia abitazione di Firenze giunse una curiosa telefonata da
Ancona. Autore un certo... Pierigè, il quale, avendo letto l’articolo, si era convinto di essere omonimo di una varietà di quercia. Rimase alquanto deluso nell’apprendere di essere soltanto omonimo
del contadino che abitava vicino alla pianta che recava il suo nome.
Passano venti anni e, rotella metrica in mano, ripercorro la regione, a ritrovare i miei vecchi 50
amici alberi. Sono già transitato per Villa Simonetti dove, con un poderoso allungo da campione di
razza, il fiabesco Cedro ha portato l’estensione della sua chioma a 36 metri, un metro in più della
vecchia “Pierigè”.
Ancora un paio di settimane e torno dalla cara Quercia. Ancora più bella di allora, sembra stia ad
aspettarmi e quasi riconoscermi. Accanto ad essa c’è sempre la sua secolare compagna, che ha raggiunto una circonferenza di metri 4,12 ma che sembra ancor più volersi timidamente ritrarre per
dare spazio alla sua superba sorella.
Provo quasi ritegno a comunicare alla grande Quercia la perdita del suo primato e, prima di
farlo, lascio sfilare la rotella. Quasi in un epico sprint a distanza, la Quercia vibra il classico “colpo
di reni” dell’ultimo metro, come il vecchio campione che spende le ultime stille della forza di un
tempo: 37 metri!
Sulla chioma, proprio sul lato che dà verso la sorella minore, un grosso ramo risulta schiantato.
Perché? Da dietro la costruzione che fa compagnia all’abitazione principale appare un uomo che
spinge avanti a sè una cigolante carriola. E’ sempre lui, il vecchio Pierigè di venti anni prima! Che
gioia incontrarsi di nuovo, dopo tanto tempo!
Il ramo – racconta ancora l’anziano contadino – venne spezzato da una copiosa nevicata il 18
novembre del 1998. La Quercia aveva ancora tutto il suo fogliame, che aveva trattenuto una quantità eccessiva di neve, sotto il cui peso il ramo aveva ceduto, cadendo sopra un carro agricolo che
andò completamente distrutto. Ridotto in ciocchi da ardere, venne pesato. La legna ricavata ammontava a ben 50 quintali.
E’ sempre il vecchio Pierigè ad annunciarci la prossima e quasi imminente trasformazione di
tutto l’ambiente circostante la Quercia. Le abitazioni dovrebbero venir ristrutturate e il tutto venir
recintato.
“Avete fatto bene a venire ora – conclude il contadino – fra qualche tempo avreste potuto vedere
la Quercia solo da fuori!”
219
(...)
Circonferenza
Altezza
Chioma
Età
OSIMO – Villa Simonetti
Cedro
m. 7,13
m. 22
m. 36
anni 250
Se, ventitre anni or sono, il superbo esemplare di Cedro che andiamo a presentare poteva essere
considerato “solo” il nr. 1 delle Marche nel suo genere, oggi, con lo sviluppo evidenziato negli ultimi due decenni, esso si impone all’attenzione dell’appassionato e del mondo degli esperti di queste
bellezze naturali come uno dei più significativi anche in ambito nazionale.
Se valutiamo la pianta prendendo in esame tutti i parametri che abbiamo prefissato in sede di
introduzione per giudicarne il valore, ci accorgiamo che essa eccelle sotto ogni profilo.
Dimensioni: i 7,13 metri raggiunti dall’albero lo pongono al 1° posto nella provincia nella specifica classifica ed in posizione di avanguardia in ambito regionale. Occorre tuttavia, per onestà, precisare che la circonferenza è stata rilevata non al canonico “P.U.” (petto d’uomo), cioè a m. 1,30 dal
suolo, ma proprio al suolo, in quanto già a questo livello si stacca dal fusto il primo dei suoi lunghissimi rami, subito seguito, tutto attorno, dagli altri, sì che al livello suddetto il fusto si è notevolmente assottigliato.
Il Cedro si colloca, invece, al secondo posto nella classifica relativa all’estensione della chioma:
con 36 metri di diametro, esso viene superato solo dalla Quercia “Pierigè” di Cingoli. Da rilevare
che i 36 metri sono la media fra il diametro maggiore (41 m. nel senso perpendicolare alla villa) e
quello minore (31 metri nella direzione parallela alla stessa).
Bellezza: l’albero è un miracolo di armonia e il piacere di contemplarlo vale da solo un viaggio
sul posto. Questa bellezza è determinata da molteplici fattori: lo sprigionarsi dei rami verso ogni
Il Cedro di Villa Simonetti, il più grande delle Marche; evidenti i danni subiti dalla nevicata di fine gennaio 2005.
228
direzione e senza un preciso programma, il loro allungarsi all’inverosimile mentre il fusto porta
verso l’alto il resto della pianta, il loro distendersi al suolo come per riposarsi da una sovrumana
fatica...
Posizione: benché il Cedro non possa vantare la visibilità degli alberi che crescono solitari in
cima a un colle o in aperta campagna, esso occupa una posizione nettamente dominante nell’ambito
di tutti gli altri alberi del vasto parco di Villa Simonetti, che può essere raggiunta a pochi chilometri
da Osimo, sulla sinistra della strada che conduce alla frazione di San Paterniano, poco prima di arrivare in questa località. Esso infatti campeggia, con grande solennità, al centro di un vasto prato antistante la villa, circondato da un bosco in cui spiccano querce, abeti e cedri deodara.
Notizie storiche: come ogni albero appartenuto alla medesima famiglia nel corso della sua vita,
anche il Cedro di Villa Simonetti reca in dotazione una ricca biografia, che ci viene svelata da quanto ci raccontava, ventitre anni fa, il suo proprietario, il conte Filippo Hercolani Fava Simonetti,
deceduto quasi novantenne il 9 febbraio del 2002. A completamento e relativamente agli ultimi 20
anni, ci fornisce lumi il sig. Silvano, da 35 anni custode della villa e del parco stesso. Tuttavia,
prima di dare inizio all’esposizione, merita soffermarsi un istante per effettuare alcune osservazioni
relative alla specie di appartenenza del Nostro.
Di proposito, nell’introdurre la pagina di questa pianta, l’abbiamo chiamata soltanto “Cedro”,
senza precisare a quale delle tre classiche specie (libanotica, atlantica o deodara) essa appartenga.
Una piccola parentesi a beneficio dei più profani si rende opportuna, onde fornire pochi dettagli
che aiutino a capire, una volta appurato che un albero è un cedro, a quale delle tre specie esso
appartenga. Basta fare riferimento al fusto e osservare come i rami sono disposti rispetto ad esso.
Se essi assumono una direzione ascendente, abbiamo un cedro dell’Atlante; se hanno un andamento
orizzontale, siamo davanti a un cedro del Libano; se volgono verso il basso, si tratta di un deodara
Dalla visione in primo piano, i danni appaiono ancor più in evidenza
229
(altrimenti detto cedro dell’Himalaya).
Il Nostro, in realtà, è un ibrido, derivato da un incrocio fra un cedro del Libano e un atlantico.
Se ne accorsero i loro proprietari una settantina di anni fa allorché, osservando che la pianta produceva le caratteristiche pigne contenenti semi, ma che da questi non germogliava mai una sola
pianticella, inviarono alcune pigne per un esame all’Istituto Botanico di Bologna. Il responso fu
categorico: il bellissimo Cedro, proprio in quanto ibrido, non avrebbe mai avuto una discendenza,
essendo sterile.
La storia
Il grande Cedro dovrebbe avere, secondo quanto sosteneva lo stesso conte Filippo Hercolani
Fava Simonetti, circa 250 anni, cioè quanti ne conta la villa, che venne eretta intorno al 1750.
L’edificio con le sue dipendenze, i viali e la disposizione delle piante lungo gli stessi sembrano far
parte di un disegno originario: perciò, a meno che non vi sia stata una massiccia ristrutturazione in
seguito, il Cedro dovrebbe avere l’età della villa. Lo stesso conte soleva dire che, all’epoca della sua
fanciullezza, cioè circa 90 anni or sono, esso aveva quasi le dimensioni odierne.
Tuttavia, se ventitre anni or sono sarebbe stato logico suffragare l’ipotesi, oggi qualche dubbio è
lecito sulla base del confronto fra le dimensioni del 1983 (ultimo nostro rilevamento) e quelle odierne. La pianta è aumentata di ben 1,15 metri in circonferenza e 5 metri in diametro di chioma. Con
un tasso di crescita di oltre 4,5 cm l’anno, alla pianta dovrebbero essere stati sufficienti solo 160
anni, per raggiungere la circonferenza attuale. C’è, tuttavia, qualcosa che potrebbe spiegare l’aumentato sviluppo degli ultimi ventitre anni. Dopo il censimento effettuato dal Corpo Forestale negli
anni Ottanta e il suo inserimento fra i più significativi alberi della provincia, esso viene periodicamente controllato dal personale della Stazione Forestale di Ancona e il terreno sottostante e circostante viene sottoposto a concimazione.
Non essendo stati tramandati episodi né scritti né orali sulla vita della pianta antecedenti il secolo
scorso, essa entra ufficialmente nella storia con le dirette memorie del conte. Detto dell’episodio
relativo alla scoperta della sua sterilità, portiamoci al periodo bellico.
Nel 1944, durante il “Passaggio del Fronte”, Villa Simonetti, come altre accoglienti dimore marchigiane, ospitò dapprima un reparto di tedeschi. Ogni giorno si vedevano entrare e sfilare lungo il
viale di accesso i loro automezzi, per lo più carichi di munizioni. Nella fase di attacco degli alleati,
che sparavano dalla collina di Montefano, sull’opposto versante della valle del Musone, ben 35 proiettili di artiglieria si infransero contro la facciata della villa. Nessuno di essi, tuttavia, colpì e danneggiò il Cedro e fu una vera fortuna: se anche uno solo si fosse infranto su di esso, la pianta sarebbe
scomparsa e con essa – con ogni probabilità – gran parte della villa. Negli anni successivi, lo stesso
conte Filippo si sarebbe mostrato spesso compiaciuto che tutte le cannonate abbiano colpito la villa e
nessuna il Cedro, non si sa se per amore verso la pianta o per ciò che vi era occultato sotto.
Infatti, proprio sotto il Cedro i Tedeschi avevano nascosto, sfruttando la grande estensione e il
rigoglio della chioma, un deposito di munizioni.
Con l’arretramento dei Tedeschi e l’avanzata degli Alleati nella villa si installò un reparto di
Polacchi, che vi rimasero fino al successivo avanzamento verso la Linea Gotica, alcune decine di
chilometri più a nord.
I successivi episodi di interesse relativi al Cedro hanno a che vedere con tre celebri nevicate, passate agli annali della meteorologia.
La prima fu quella, famosa e celebrata in una canzone della brava e compianta Mia Martini, del
1956. Numerosi rami vennero schiantati dal peso della neve e furono successivamente amputati per
pareggiare i moncherini; per altri fu sufficiente puntellarli affinché non subissero la stessa sorte. La
seconda, quasi altrettanto abbondante, fu quella del gennaio 1985. Un altro ramo venne schiantato e
230
La grande, antica quercia che fa quasi da stipite al cancello di Villa Simonetti
231
successivamente amputato; un secondo, invece, sempre per il peso, si fessurò in senso longitudinale, senza rompersi, e la fessura venne in seguito riempita di cemento.
La più disastrosa, tuttavia, è stata l’ultima, quella di fine gennaio 2005. Un vero massacro, testimoniato dalle immagini di questo libro. Da una stima del custode della villa il legname recuperato
dai rami troncati sarebbe stato di una cinquantina di quintali.
Dopo l’inserimento del Cedro nel citato libro sui grandi alberi delle Marche, esso divenne oggetto di visite da parte di diverse scolaresche della provincia di Ancona, visite che si interruppero soltanto con la scomparsa del proprietario e la chiusura della villa.
Nel 1989, a conferma dell’eccezionalità del nostro personaggio, esso venne prescelto dal Dr.
Bortolotti, ispettore del Corpo Forestale, fra i più significativi alberi delle Marche e inserito fra i
300 illustrati nel 1° dei due volumi dell’opera “Alberi Monumentali d’Italia”
Da dire sul più bel Cedro della regione non c’è altro; il visitatore o l’appassionato di queste bellezze può lasciare Villa Simonetti e dirigere la sua attenzione altrove ma, giunto al cancello d’ingresso, farebbe bene a soffermarsi ad osservare un altro non comune personaggio. Si tratta di una
vecchissima quercia, posta sull’esterno del cancello stesso, sulla destra per chi esce, a pochi passi da
esso.
Se non fosse perché a poche centinaia di metri si trova lo straordinario protagonista della nostra
storia, queste pagine avrebbero potuto essere dedicate proprio alla Quercia.
Esteticamente, essa lascia un po’ a desiderare. Il fusto, non armonioso e imbruttito da non pochi
polloni ed escrescenze, raggiunge la ragguardevole misura di m. 5,02 di circonferenza. La chioma è
ancora sufficientemente rigogliosa.
Come racconta il suo vicino, l’ottantatreenne Luigi Buscarini, la cui famiglia ha servito per generazioni i conti Simonetti, essa dovrebbe avere oltre 300 anni. All’epoca della sua infanzia, infatti, il
suo bisnonno soleva dirgli di averla vista sempre presente e sempre molto grande. Una cordiale e
piacevole chiacchierata con l’anziano contadino ci porta a scoprire quali fossero in passato i rapporti d’impiego fra padroni e servi. Il bisnonno, infatti, sarebbe stato “perduto a carte”, con tutta la sua
famiglia, a favore di un altro nobile della zona, da parte di un antico conte dei Simonetti, per poi
essere rivinto, o ricomprato non si sa bene, dal vecchio padrone.
Tuttavia, la memoria dello stesso Buscarini conserva ancora con piacere il ricordo dell’umanità
di questi nobili e la serenità della vita di quanti avevano la fortuna di lavorare al loro servizio.
Durante la guerra – prosegue il racconto del Buscarini – le querce erano due. Nel corso dei cannoneggiamenti che per 27 giorni gli Americani effettuarono da Montefano per conquistare il vicino
Monte Cerno, un proiettile colpì in pieno la seconda quercia, asportando gran parte della chioma. A
seguito della ferita, la pianta cominciò a deperire e seccare, sì che si rese necessario abbatterla. Sul
posto, a ricordarla ancora per chissà quanto tempo, è rimasta la sua vecchia sorella.
232
(...)
Circonferenza
Altezza
Chioma
Età
SAN MARCELLO – Acquasanta
La “Cerquabella” (Quercus pubescens)
m. 5,10
m. 14
m. 29
anni 200 circa
Sono svariati, gli esemplari di quercia che, nel nostro Paese, sono accomunati dal soprannome di
Cerquabella, pur scritto in vari modi. Oltre al nome, purtroppo, un triste destino le accomuna: quello di essere già morte, moribonde, oppure in precario stato vegetativo. Opportuna una breve parentesi, per fare il punto della situazione.
E’ scomparsa da decenni nel pesarese la pianta che, nei pressi di Trebbio della Sconfitta, ha dato
il suo nome a Via di Quercia Bella. Il nome venne assunto da una quercia di minori dimensioni
situata nei paraggi; non solo, ma negli ultimi venti anni – e i giornali ne riportarono la notizia - è
scomparsa anche quest’ultima.
In provincia di Ancona è ridotta in miserande condizioni e pressoché moribonda, la grande
Cerquabella di Ostra, ancora visibile nelle pagine di questo libro.
In provincia di Macerata si segnala la Cerqua Bella dell’Orzaia (vds. ultimo capitolo di questo
stesso volume); nell’ascolano ve ne sono (o sono state) addirittura quattro. E’ deceduta da 25 anni,
abbattuta in una notte di vento, quella di San Venanzio di Monte San Martino. A Montegiorgio
sopravvive ancora per il culto degli appassionati il rudere della Cerquabella per antonomasia, quella
che qualcuno aveva osato definire “la più bella Quercia d’Italia”.
E’, invece e per fortuna, ancora viva la Cerqua Bella di Colle della Rossa di Montefortino, nell’alta valle del Tenna, con la quale abbiamo fatto conoscenza in questo stesso libro, come viva è
quella di proprietà della famiglia Ruggeri a Montottone.
Solitaria ed esteticamente perfetta: la Cerquabella di San Marcello
245
Entra nel novero, a pieno diritto, anche se non più con lo splendore di una volta, la bellissima
Quercia solitaria su un campo, nell’alta valle del torrente Granita, in comune di San Marcello, di
proprietà di Gabriella Santoni di Belvedere Ostrense.
Pur essendo abbastanza lontana dal disturbo dei centri abitati e delle più frequentate vie di comunicazione, la pianta può essere agevolmente raggiunta partendo dalla località di Acquasanta, piccolo
agglomerato di case accentrato su una modesta altura lungo la provinciale che da Jesi porta a
Belvedere Ostrense.
Immediatamente dopo queste case, sulla destra per chi prosegue in direzione di Belvedere, si
stacca, in discesa, verso il fondovalle del torrente Granita, modesto tributario dell’Esino, una stradina bianca, lievemente tortuosa, che dopo meno di un km conduce ad un casolare abbandonato. Poco
più avanti, visibilissima in mezzo a un campo, troneggia la splendida Cerquabella.
Nella casa e nel podere annesso comprensivo della Quercia, ha vissuto e svolto il suo lavoro di
mezzadro dal 1939 al 1954 l’ottantenne Alvaro Genangeli, che oggi si rivela, pertanto, la più autorevole fonte di notizie sulla pianta.
Ai suoi tempi, la Cerquabella, pur essendo la più grande Quercia del campo, non era la sola.
Sparse qua e là ve n’erano di più piccole, tutte in seguito recise per fare spazio alle coltivazioni. La
Cerquabella venne sempre rispettata e preservata, anche quando non esistevano leggi di tutela, per
la sua straordinaria bellezza.
Essa era, anzi – continua il Genangeli – ancora più bella, con una chioma più florida e più ampia
di oggi.
Essa non svolgeva alcuna funzione particolare nel lavoro e nella vita quotidiana dei contadini, a
causa della distanza dalla casa; non era, cioè, la classica grande quercia dell’aia. Talvolta, nel corso
dei lavori, ci si fermava a riposare o a mangiare alla sua ombra, ma solo quando le attività si svolgevano nei suoi paraggi.
La sua utilità, tuttavia, si rivelava tutta in autunno alla caduta delle ghiande, delle quali la
Cerquabella lasciava cadere dalla sua grandiosa chioma non meno di 5 quintali.
Al tempo del secondo conflitto mondiale, pur non venendo mai in alcun modo coinvolta in operazioni belliche, sembra che la Quercia venisse segnalata come punto di riferimento. La stradina,
che ora conduce fino al casolare, in passato proseguiva e transitava presso la Quercia, prima di essere smantellata dall’esecuzione dei lavori nel podere. Su questa stradina, la Cerquabella vide passare,
nel corso del 1944, prima i tedeschi in ritirata, poi gli alleati all’inseguimento. Le strade principali,
infatti, erano minate e i belligeranti preferivano, perciò, le strade di campagna meno battute.
Con il tempo, la salute della bellissima Quercia si è alquanto deteriorata. Fra le cause, i veleni e
gli anticrittogamici che sono stati impiegati nelle coltivazioni del terreno circostante “che alla
Quercia non hanno fatto certamente bene”, annota il signor Alvaro. Una concausa potrebbe essere
stato l’impiego di mezzi sempre più potenti per dissodare il terreno: “Un conto è arare un terreno
con un paio di vacche, altro è rovistarlo e rovesciarlo, fino a un metro di profondità con i più
moderni trattori”, continua a commentare Alvaro Genangeli.
Il danno più vistoso, tuttavia, è stato inferto dalla meteorologia. Il 18 novembre 1998 la zona,
come molte altre nella regione, venne colpita da una forte nevicata. La neve, accumulatasi sui rami
ancora ricoperti di foglie, provocò la rottura di tre di essi, molto grossi, dei quali si osservano i crudi
monconi.
Nessun danno, per contro, la pianta ha dovuto subire dai fulmini.
Il tronco è cavo e la cavità interna sembra sia stata scelta come dimora da un tasso.
Le Cerquabella sembra avviata a diventare uno di quelli che il W.W.F. definisce “Patriarchi della
Natura”, sede di un microcosmo di creature animali e vegetali fra loro interdipendenti, ma che, a
fattor comune, traggono dalla pianta alimento od ospitalità. In genere, questo fenomeno lascia presagire una fine non lontana della pianta stessa. La Cerquabella di Acquasanta potrà, invece, vivere
ancora decine di anni, se adeguatamente soccorsa e aiutata.
246
Il fusto, molto basso, della Cerquabella, richiama quello di altre grandi querce marchigiane
247
(...)
ORCIANO – Parco pubblico “Il Castagno”
“Il Castagno” (Aesculus ippocastanum)
Circonferenza
Altezza
Chioma
Età
m. 4,10
m. 17
m. 17
anni 200 circa
Quando si parla di un grande albero, una delle frasi più ricorrenti è: “Mio nonno diceva che,
quand’egli era bambino, quest’albero era già così!”. La regola, come sempre, ha la sua eccezione: la
frase non si attaglia affatto al monumentale Castagno di Orciano di Pesaro. Rivedendolo per la
prima volta dopo venti anni, già alla prima occhiata si avverte la crescita avvenuta in questo lasso di
tempo. Il riscontro offerto dal nastro della bindella ne dà subito conferma: la circonferenza del fusto
è aumentata di ben 50 centimetri, pari a un tasso di crescita annuo di cm 2,5. La constatazione ci
porterebbe a ipotizzare per il glorioso Castagno un’età alquanto inferiore agli oltre 200 anni che gli
vengono attribuiti. Con un simile ritmo, infatti, (e supponendo una crescita costante) alla pianta
sarebbero stati sufficienti soltanto 160 anni per raggiungere i 410 cm attuali ma...
A questo punto, lasciamo i puntini di sospensione e presentiamo l’eccezionale personaggio protagonista di queste pagine.
Il celebre Castagno di Orciano, splendidamente inserito nel parco cui dà il nome
285
Ricorderò sempre quella telefonata di oltre venti anni fa alla guardia scelta Romeo Vagni, allora
comandante della stazione forestale di Pergola il quale, interpellato sulla eventuale presenza di alberi monumentali sul territorio sottoposto alla sua giurisdizione, mi comunicava l’esistenza di un
grande “castagno” in un paese chiamato Orciano. Prima di effettuare il mio giro di esplorazione,
persi non poco tempo a cercare il nome di questo paese in un qualche punto dell’Appennino pesarese dove, appunto, avrebbe dovuto esserci l’areale adatto per la crescita di un grosso castagno. Provai
non poco stupore a scoprirlo a pochi chilometri dalla costa e a soli 264 metri di quota. Solo allorché
mi recai sul posto mi avvidi che, in realtà, si trattava di un ippocastano, il più bello fra quanti mi era
capitato, fino a quel momento, di incontrare. Dovetti, oltretutto, convenire che il nome dato alla
pianta non era affatto improprio, dal momento che essa viene chiamata anche “castagno d’India”.
Il complesso nel quale l’albero era inserito appariva di notevole vetustà ed era stato per quattro
secoli di proprietà dei conti Dalla Ripa. L’ultima proprietaria, la contessa Branca Aria Dalla Ripa
Luciana, aveva venduto l’edificio e annesso giardino ad alcuni privati nel 1965, e si era stabilita
definitivamente nella sua casa di Firenze, dove la rintracciai. Già in là con gli anni, la nobildonna
aveva lasciato una buona parte del suo cuore nella sua vecchia casa di Orciano e sul Castagno in
particolare. Esso, infatti, era stato piantato, circa 180 anni prima, dal suo bisnonno, Laudadio Dalla
Ripa. Non c’era stata una ragione
particolare per la sua messa a dimora. Esso aveva tenuto compagnia a
quattro generazioni della famiglia,
senza dare spunto al verificarsi di
aneddoti particolari. La contessa
ricordava che da bambina aveva collocato un’amaca sotto la pianta,
sulla quale si stendeva a godere la
frescura da essa elargita.
Con la vendita e il mutamento di
proprietà, il Castagno assistette
all’avvio di un tourbillon di cambiamenti attorno a sé, soprattutto dopo
che nel 1978 tutto il complesso
venne acquistato dal comune di
Orciano.
Il terreno circostante venne tutto
pavimentato per la creazione di una
pista da ballo, con esclusione di una
piccola aiola di raggio molto modesto
attorno al fusto. Fra i rami della pianta vennero collocati dei fari per l’illuminazione della pista stessa. La cosa
non ebbe benefici effetti sul
Castagno. La pista, essendo impermeabile, impediva il trafilamento dell’acqua piovana attraverso il terreno,
sì che in breve la pianta cominciò a
dare segni di sofferenza e alcuni rami
periferici cominciarono a morire.
La povera contessa non sapeva
Fusto del Castagno in una foto del 1982: in evidenza la modesta estensione dell’aiuola che lo contiene e le più ridotte dimensioni del tronco
darsi pace. Al momento dell’appari-
286
Fusto del Castagno di Orciano: un incremento di 50 cm di circonferenza in poco più di venti anni
287
zione dell’albero sulle pagine di “Marche, cinquanta alberi da salvare”, al vedere la foto del tronco
così costretto nella sua piccola aiola, ella mi telefonò e, con tono accorato, mi supplicò: ”La prego,
faccia qualcosa! Faccia togliere quel pavimento! Me lo fanno morire!”
Non trascorreva molto tempo ed io potevo recare all’anziana donna la bella notizia da lei attesa:
il comune aveva fatto smantellare la pista e l’aveva sostituita con un nuovo tipo di pavimentazione,
atta a far passare l’acqua piovana e a consentire anche l’irrigazione della pianta. Il Castagno riprese
subito vigore. Si trattava, tuttavia, soltanto della prima di una serie di iniziative che
l’Amministrazione Comunale aveva in programma di realizzare.
Riprendiamo in mano il nostro vecchio testo e a pagina 163 leggiamo:
“Nel complesso troveranno posto un albergo e un ristorante, servizi dei quali a Orciano si sente
oggi una certa mancanza. Sempre in esso troveranno posto la sala consiliare e la bilioteca.
Il giardino continuerà ad essere a disposizione del pubblico e della comunità e rappresenterà
Il “Castagno” spoglio nella versione invernale
288
quasi il cuore del paese. In esso si svolgeranno le attività più
varie, dalle feste da ballo alle rappresentazioni teatrali, ecc.
Il piccolo terreno adiacente il giardino, sul quale spiccano
alcuni vecchi ulivi, diverrà parco giochi per bambini.”
A ventitre anni di distanza, possiamo stilare un rendiconto e
verificare quante e quali promesse sono state mantenute. Elenco
alla mano, facciamo l’appello, al termine del quale non possiamo che dare atto al comune di aver ottemperato appieno al suo
impegno: ecco l’albergo, il ristorante, la biblioteca, il parco giochi per i bambini che si chiama, appunto, “Parco pubblico Il
Castagno”
Riferiscono i gestori del ristorante che la pianta costituisce
un notevole richiamo per la clientela; sotto di essa, infatti, nella
buona stagione, viene apparecchiato, fino ad arrivare alla bellezza di 200 commensali tutti al riparo della sua ombra.
La chioma della pianta, se si raffronta la sua estensione a Il “Castagno” di Orciano in piena fioritura
quella di ventitre anni or sono, è stata ridotta di qualche metro,
per le potature che si sono rese necessarie per arginare la sua espansione troppo prepotente, in particolare sul lato della strada sottostante.
La pavimentazione è stata di nuovo cambiata e sostituita ancora con una di tipo impermeabile
per consentire il suo utilizzo da parte del ristorante, ma l’aiola attorno al piede è molto più ampia di
quella di ventitre anni fa. Non solo, ma, dal momento che il continuo calpestio stava provocando
notevole costipazione del terreno con conseguente scarsa ossigenazione delle radici, l’aiola stessa è
stata recintata con una palizzata di legno. Il terreno dell’aiola viene periodicamente smosso e fertilizzato. Infine, il piccolo coperchio di un tombino presente nell’aiola regala una piccola sorpresa:
una saracinesca, aprendo la quale si consente l’immissione di acqua in una serie di tubi di irrigazione distribuiti sotto terra, tutto attorno al Castagno.
A questo punto, torniamo ai puntini di sospensione lasciati all’inizio di questo testo. Avevamo
detto che la pianta non potrebbe avere 200 anni, a causa del suo tasso di crescita di 2,5 cm annui.
Occorre tuttavia considerare che probabilmente mai, in precedenza, il Castagno abbia ricevuto tutte
le cure e le attenzioni, soprattutto in tema di alimentazione, degli ultimi tempi; e si può dedurre che
proprio in seguito a questo esso abbia accelerato oggi la sua crescita.
Le ultime notizie di cronaca riferiscono dell’apparizione del Castagno in una puntata della rubrica televisiva “Itinerari marchigiani”, curata dal giornalista Maurizio Blasi e inserita nell’edizione
del TG3.
A riguardo della salute, qualche motivo di apprensione lo destano alcuni segni che denotano la
presenza di “bacucchi” (è con tale termine pittoresco che vengono definite sul posto le larve di
cerambici) e che fanno intuire la necessità di un nuovo rapido intervento sanitario nei confronti
della pianta, prima del verificarsi di ulteriori danni.
Il Castagno di Orciano, uno dei pochi alberi ancora in vita il cui nome si lega alla toponomastica
– tanto che la zona circostante ne prende il nome – costituisce anche uno di quegli esempi nei quali
un monumento naturale viene trattato con i riguardi e il rispetto che merita. Si potrebbe fare di più?
Forse, e ci permettiamo di dare un suggerimento all’Amministrazione Comunale. A brevissima
distanza, tanto che i due piccoli centri quasi si sfiorano, c’è Mondavio, meta di numerosi turisti i
quali, seguendo le indicazioni dei dépliants e degli opuscoli appositamente stampati, si recano a
visitare la sua famosa Rocca. Se sulle stesse guide essi trovassero scritto che poco più avanti, dopo
quello architettonico, c’è anche uno straordinario monumento naturale da vedere, si può essere certi
che nessuno si farebbe pregare per allungare la passeggiata fino al celebre Castagno di Orciano.
289
(...)
Circonferenza
Altezza
Chioma
Età
SERRA SANT’ABBONDIO
Monastero di Fonte Avellana
Tasso (Taxus baccata)
m. 4,90
m. 15
m. 17
anni 450 circa
Se si tentasse di stabilire, per ogni specie vegetale, quale sia il campione assoluto in ambito nazionale (vale a dire: la più grande quercia, il più grande pioppo, il più grande pino, ecc.), è probabile che
le Marche si vedrebbero assegnare un solo titolo di categoria: il numero uno dei tassi è proprio quello
che da secoli tiene compagnia al Monastero di Fonte Avellana, alle pendici del Monte Catria. Se ventitre anni or sono questa poteva essere solo un’ipotesi, oggi, dopo il grande censimento operato dal
Corpo Forestale negli anni Ottanta in ambito nazionale e da altri enti in ambito locale, la si può considerare una certezza. Nessuna ricerca, infatti, ha portato alla luce un esemplare di dimensioni superiori.
In Puglia (nella Foresta Umbra) e nel Lazio (sul Monte Semprevisa, in provincia di Roma) esistono
individui che gli si possono soltanto avvicinare. Per rinvenire tassi di maggiori dimensioni (anche di 89 metri di circonferenza), occorre portarsi all’estero, in specie in Inghilterra.
Il tasso è pianta a crescita lentissima: un esemplare di venti cm di diametro può ben avere un
secolo di vita.
Circa l’età del Nostro, è stata sempre opinione dei frati che esso avesse mille anni, essendo sempre ricordato nelle tradizioni orali del complesso monastico. Dando per fondata questa ipotesi, il
Tasso sarebbe stato, pertanto, già presente quando Dante parla del monastero nella Divina
Commedia.
Questa convinzione subì un duro colpo alcune decine di anni fa allorché un ispettore forestale,
inviato dal Comando del Corpo di Pesaro, effettuò il carotaggio mediante l’apposito strumento chiamato “succhiello di Pressler”. L’esame permise di contare circa 400 anelli. Un’età decisamente inferiore a quella sostenuta dai frati, tanto che vi fu qualcuno che contestò decisamente la sua validità,
anche perché l’esame era stato effettuato non sul fusto, ma su uno dei rami principali. E’ probabile
che la decisione di effettuare il prelievo su un ramo anziché sul fusto fosse dipesa dalle non comuni
dimensioni del tronco, il cui anello centrale sarebbe stato troppo lontano per essere raggiunto dalla
punta del succhiello. Tuttavia, essendosi trattato di un ramo del primo palco, è da ritenere che esso
avesse la stessa età del tronco.
Tuttavia “Checché ne dica la scienza – affermò padre Enrico Ottaviani, uno dei più convinti fan
della pianta – per me il Tasso continuerà ad avere sempre mille anni”.
Se fosse ancora in vita, padre Enrico vedrebbe oggi confortata la sua convinzione da un altro
dato: il quoziente di sviluppo degli ultimi venti anni. In tutto questo tempo, infatti, la circonferenza
del tronco si è incrementata di 2 (due!) soli centimetri, cioè di appena un millimetro l’anno. Se questo fosse stato il ritmo di crescita di tutta la sua vita, la pianta avrebbe 4900 anni, tanti quanti ne servirebbero per raggiungere i 4,90 metri di circonferenza al ritmo di un millimetro l’anno.
Tuttavia, nonostante un’età decisamente considerevole, non vengono tramandate notizie di avvenimenti di rilievo a riguardo della pianta. Non si può neppure sostenere che essa abbia incontrato
papa Giovanni Paolo Secondo, venuto in visita al monastero nel 1982. Infatti, a nessuno balenò
l’idea di portare papa Wojtyla a vedere il Tasso.
Che l’albero fosse una celebrità da tanto tempo è dimostrato dalle cartoline in vendita presso il
convento, che lo mostrano in compagnia di tre frati che tentano di abbracciarlo. La stessa foto appare nel libro della Regione “Il patrimonio vegetale delle Marche”, del 1981.
L’albero aveva sempre condotto la sua lunga esistenza in fondo alla sua valletta, occultato dal
resto del bosco che si stende attorno a un modesto rigagnolo quasi sempre asciutto. Mancava, cioè,
di evidenza. Questa evidenza gli è stata conferita a seguito della realizzazione, da parte della
Comunità Montana del Monte Catria e Monte Nerone, di un orto botanico nei dintorni del Tasso.
296
Il fusto del più grande Tasso d’Italia, quello adiacente il Monastero di Fonte Avellana.
297
Nell’occasione, è stata realizzata una strada a gradini e sono stati attrezzati altri sentieri, insieme a
tavoli e panche per i pic nic dei visitatori. Accanto a ogni albero è stato affisso il cartellino con il
nome scientifico dello stesso. Un’iniziativa lodevole che tuttavia, almeno a sentire il parere dei
monaci, avrebbe meritato miglior seguito, essendo a tutt’oggi carente ogni attività di manutenzione.
Il Tasso di Fonte Avellana a causa della vegetazione che lo circonda è difficilmente fotografabile
298
CAGLI – Ca’ Bargello
La “Quercia Grossa” (Quercus pubescens)
Circonferenza
Altezza
Chioma
Età
m. 5,95
m. 20
m. 30
anni 350 circa
Benché la pianta sia radicata nel territorio comunale di Cagli, per giungere alla più grande quercia della provincia di Pesaro occorre prendere come punto di partenza la cittadina di Acqualagna
(celebre in tutto il mondo per i suoi tartufi).
Da qui, ci si immette su una stradina asfaltata di modesta ampiezza che reca l’indicazione di
Tarugo. Percorsi cinque chilometri esatti, ecco il minuscolo agglomerato di case di Ca’Bargello.
All’inizio del paesino, parte sulla sinistra una stradina dal fondo in macadam, che va imboccata.
Dopo un altro chilometro esatto, la meta del viaggio si para davanti agli occhi del visitatore, inconfondibile per la sua mole.
Quello che colpisce della pianta, oltre alle innaturali dimensioni, è la sua posizione. La gigantesca Quercia scaturisce, infatti, da una parete quasi verticale che si stende fra la stradina, al di sopra,
e un ripiano di modesta ampiezza, al di sotto. Il fusto, uscito quasi in orizzontale, flette subito verso
l’alto e mantiene una posizione verticale fino all’aprirsi di una chioma di non comune estensione.
Viene quasi istintivo pensare che, se la Quercia dovesse franare a valle per il suo peso, trascinerebbe con sè tutta la strada per un bel tratto, isolando tutti gli abitanti posti al di là di essa.
La Quercia, di età imperscrutabile, ha costituito una presenza costante per tante generazioni di
abitanti di Ca’ Bargello, che l’hanno conosciuta sempre con il nome di Quercia Grossa. Non occor-
La Quercia Grossa di Ca’ Bargello emerge dalla ripida scarpata con solo la parte superiore della chioma
299
L’immagine mostra la posizione “difficile “ occupata dalla Quercia Grossa di Ca’ Bargello.
300
re, infatti, nel chiedere informazioni sulla sua ubicazione, specificare e descrivere la pianta. Il
nome individua soltanto lei e nessun’altra. Anche i più anziani abitanti della borgata affermano di
averla conosciuta sempre dell’odierno aspetto e delle stesse dimensioni.
C’è solo da osservare che venticinque anni or sono il piede della pianta era molto più accessibile e il rilevamento della misura della circonferenza non richiedeva le acrobazie oggi necessarie.
Pertanto, i metri 5,40 di allora sono da ritenere meno approssimativi dei 5,95 di oggi.
Analogamente il diametro della chioma oggi non è più rilevabile in ogni direzione, se non previo disboscamento di tutta l’area. Tutto l’ambiente circostante in venticinque anni si è rinselvatichito; come prima conseguenza, la pianta non è più fotografabile nella sua interezza, come invece
avveniva un quarto di secolo fa (vedi foto).
Posta a non grande distanza dal paesino, la grande Quercia era meta abituale dei residenti che
amavano recarsi a godere della sua frescura. Racconta una signora sessantenne che, all’epoca della
sua infanzia, uno dei divertimenti abituali dei bambini di Ca’ Bargello era quello di effettuare una
sorta di scommessa: riuscire ad attraversare tutta l’ombra della pianta a occhi chiusi. Si sa che,
senza l’ausilio della vista, il nostro cervello smarrisce il senso della direzione e un giorno per poco
non accadde l’irreparabile: un bambino andò nella direzione sbagliata e precipitò lungo la ripida
scarpata fino al ripiano sottostante.
La Quercia Grossa gode di notevole celebrità e non sono rari i turisti che chiedono informazioni
per raggiungerla. Per essa si è scomodata perfino la TV nazionale, dedicandole, alcuni anni or sono,
un apposito servizio sul TG2.
Una foto del 1982 mostra la notevole inclinazione della Quercia Grossa; oggi la pianta è sommersa dalla vegetazione e
non è più fotografabile da questa prospettiva
301
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