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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVA
DIPARTIMENTO DI SCIENZE ECONOMICHE E AZIENDALI
“M.FANNO”
DIPARTIMENTO DI DIRITTO PUBBLICO INTERNAZIONALE E
COMUNITARIO
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN ECONOMIA E DIRITTO
TESI DI LAUREA
“SOCIETA’ DI COMODO” ED IMPOSIZIONE SUL REDDITO:
QUESTIONI STRUTTURALI E PROBLEMI APPLICATIVI
RELATORE:
CH.MO PROF. MARCELLO POGGIOLI
LAUREANDA: ERICA DAMINATO
MATRICOLA N. 1058899
ANNO ACCADEMICO 2014 – 2015
Alla mia famiglia
INDICE
Introduzione .............................................................................................................................. 1
Capitolo 1: Disciplina delle società di comodo: excursus normativo e questioni
strutturali ................................................................................................................................. 4
1.1 Breve inquadramento delle società di comodo dal punto di vista civilistico ................... 4
1.2 L’articolo 30 della Legge n. 724 del 1994 nella sua versione originale ........................... 7
1.3 Le modifiche apportate nel tempo alla normativa in esame ........................................... 13
1.3.1 Cenni relativi all’assegnazione dei beni in godimento a soci e familiari ed
all’indeducibilità dei relativi costi per l’impresa ............................................................ 20
1.4 “Società di comodo” e “società non operative”: termini differenti per descrivere lo
stesso fenomeno? .................................................................................................................. 28
1.5 La disciplina delle società di comodo: normativa antielusiva, antievasiva o imposta
patrimoniale?......................................................................................................................... 33
1.6 Il coordinamento della disciplina delle società di comodo con i principi costituzionali
d’uguaglianza e di capacità contributiva. Quali difficoltà? .................................................. 39
1.6.1 L’importanza dell’articolo 3 e dell’articolo 53 della Costituzione nel diritto
tributario .......................................................................................................................... 39
1.6.2 Società di comodo e il principio di capacità contributiva ...................................... 45
1.6.3 Le modifiche apportate nel 2011 alla disciplina delle società di comodo: qualche
altra considerazione sul rispetto dei principi costituzionali ............................................ 48
Capitolo 2: Analisi dell’ambito applicativo ed ipotesi a base della normativa delle società
di comodo ............................................................................................................................... 56
2.1 Soggetti interessati dalla disciplina delle società di comodo: ambito soggettivo
d’applicazione e tipologie di società non annoverate nella predetta normativa ................... 56
2.2 Test d’operatività ............................................................................................................ 60
2.2.1 Il valore dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi medi
effettivi ............................................................................................................................ 60
2.2.2 L’applicazione delle percentuali per il calcolo dei ricavi medi presunti ............... 62
2.2.3 Alcune considerazioni relative al confronto tra ricavi medi effettivi e presunti .... 68
2.3 Cause d’esclusione e di disapplicazione automatica della normativa in esame ............. 72
2.3.1 Le cause d’esclusione............................................................................................. 72
2.3.2 Le cause di disapplicazione automatica introdotte nel 2008 e nel 2012 ................ 78
Capitolo 3: Conseguenze fiscali per le società risultanti non operative ed attivazione
dell’interpello disapplicativo ..................................................................................................83
3.1 La predeterminazione di un reddito minimo ai fini delle imposte dirette .......................83
3.1.1 Le percentuali applicabili per il calcolo del reddito minimo ..................................84
3.1.2 L’utilizzo delle perdite pregresse ...........................................................................89
3.2 La possibile via d’uscita dal regime normativo delle società di comodo: l’interpello
disapplicativo.........................................................................................................................92
3.2.1 Dalla previsione del contraddittorio anticipato all’interpello disapplicativo .........93
3.2.2 La sussistenza di oggettive situazioni che non hanno permesso il conseguimento
del livello minimo dei ricavi e del reddito .......................................................................95
3.2.3 Riflessioni sulle problematiche relative al procedimento disapplicativo previsto
per le società di comodo ................................................................................................103
Capitolo 4: Riflessioni conclusive ........................................................................................116
Bibliografia ............................................................................................................................127
INTRODUZIONE
Il tema delle “società di comodo” impegna l’interprete in una molteplicità di fronti. Il primo e
più difficile consiste nel fotografarne l’esatta funzione. Intendo richiamare, già dalla
presentazione del mio lavoro, l’estrema difficoltà di raccordare le numerose modifiche che
sono state apportate dal legislatore all’impianto legislativo iniziale (Legge n. 724/1994) con
un’unica, univoca e chiara impostazione funzionale (“ratio” o “ragion d’essere”, che dir si
voglia). Di ciò parlerò diffusamente nelle pagine seguenti. Mi basta nell’avviare l’elaborato,
ricordare che la disciplina delle “società di comodo” poggia su un difficile connubio di fondo:
in sostanza, una disciplina di matrice fiscale viene “piegata” dal legislatore per conseguire
delle finalità extra-fiscali. Peraltro, è appena il caso di rammentare come la disciplina delle
“società non operative” fosse stata introdotta al fine di contrastare “l’uso improprio della
struttura societaria che, anziché essere finalizzata all’esercizio produttivo di attività
commerciali, viene impiegata per consentire l’anonimato degli effettivi proprietari dei beni
intestati alla società cui si unisce spesso la deduzione di costi che hanno poco a che fare con
l’attività che, (…) dovrebbe essere svolta dalla società, mentre di fatto detta società si limita
alla mera intestazione di beni che sono tenuti a disposizione dell’effettivo proprietario”1.
Come si può comprendere da quanto riportato nella relazione accompagnatoria ad uno dei
primi provvedimenti legislativi di modifica, con il presente istituto il legislatore mirava a
contrastare l’utilizzo improprio delle forme societarie, costituite non per svolgere un’attività
economica produttiva, bensì per fungere da intestatarie di determinati beni i cui effettivi
proprietari erano in realtà i soci, che li utilizzavano nella propria sfera privata. La società
risulta quindi “non operativa” se non supera il test d’operatività o se si trova nella condizione
di aver prodotto delle perdite fiscali per un determinato arco di tempo; questa situazione
implica la predeterminazione di un imponibile, che risulta il frutto dell’applicazione di
determinate percentuali a specifici asset patrimoniali. Si crea quindi un reddito minimo
“calato dall'alto”2, la cui natura è notevolmente differente rispetto alla determinazione del
reddito d’impresa stabilita nel Testo Unico delle Imposte sui Redditi. L’impianto che ne
deriva complessivamente è una legislazione di contrasto e deterrenza la cui finalità è oggetto
di differenti interpretazioni, venendo considerata non solo come disciplina antievasiva ma
anche antielusiva, nonché come un’implicita forma di imposizione patrimoniale, con il rischio
1
Relazione governativa al d.d.l. di accompagnamento alla Legge Finanziaria per il 1997, in Corr. trib, 1996, 40,
pag. 3102.
2
BEGHIN M., Diritto Tributario. Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, Torino, 2013,
pag. 620.
1
di penalizzare le società che effettivamente utilizzano i beni nella propria attività economica.
La normativa relativa alle “società di comodo” è stata introdotta come detto con la Legge n.
724 del 1994 e nel corso del tempo ha subito continue modifiche, che evidenziano, non il
miglioramento di uno strumento accertativo di natura forfettaria, bensì l’utilizzo di norme
fiscali per il raggiungimento di obiettivi di politica finanziaria ed economica. La disciplina
delle “società non operative” appare quindi complessa ed articolata; un aspetto rilevante è
rappresentato dalla compatibilità della normativa con i principi costituzionali quali il diritto
d’uguaglianza ed il rispetto della capacità contributiva.
Con il presente lavoro si analizza quanto previsto dalla disciplina in esame, tenendo in
considerazione le implicazioni dal punto di vista del rispetto dei principi della Carta
Fondamentale; l’attenzione viene focalizzata sul profilo delle imposte dirette, accennando
solo agli effetti sull’imposta sul valore aggiunto e sull’imposta regionale sulle attività
produttive, data la vastità dell’argomento.
In particolare nel primo capitolo viene inquadrato il fenomeno delle “società di comodo”,
sottolineando come nel Codice Civile non esista una definizione specifica e come tale istituto
venga utilizzato dal legislatore come strumento di politica fiscale per fini civilistici; si riporta
la normativa nella sua versione originale evidenziando le modifiche avvenute nel corso del
tempo. In particolare nel 2011 sono state apportate delle modifiche alla normativa in esame,
prevedendo l’automatica applicazione della disciplina delle “società di comodo” in caso di
perdita sistematica ed innalzando l’aliquota IRES al 38%, ampliando ulteriormente la platea
dei soggetti interessati e rendendo l’istituto maggiormente complesso e disorganico. Inoltre è
stato previsto un apposito regime per i beni d’impresa assegnati a soci e familiari ed alla
relativa indeducibilità di tali costi per l’impresa, di cui si fa qualche accenno. La Legge
Delega3 per la riforma fiscale di Marzo 2014 ha previsto in modo generico una
razionalizzazione e revisione della disciplina della “non operatività”. Una prima modifica
relativa alle società in perdita sistemica ritenute automaticamente “società di comodo” è già
avvenuta con l’emanazione del Decreto Legislativo sulle semplificazioni fiscali, n.175 del 21
novembre 2014. Dopo questo excursus normativo si procede ad effettuare alcune
considerazioni riguardanti i termini “società di comodo” e “società non operative”; tali
termini, usati alternativamente, possono essere rappresentativi dello stesso fenomeno, ma con
alcune sfumature differenti. Si analizza inoltre la ratio di tale disposizione definita
apparentemente dal legislatore come norma antielusiva e si fanno alcune considerazioni
3
Legge 11 marzo 2014, n. 23.
2
riguardanti il rispetto del principio di capacità contributiva e di uguaglianza per la disciplina
delle “società di comodo”. Si passa poi al secondo capitolo, nel quale si analizzano i soggetti
interessati dalla disciplina, le cause d’esclusione e di disapplicazione automatica e l’ipotesi
alla base di questo istituto, cioè il mancato superamento del test d’operatività, che deriva dal
confronto tra i ricavi medi effettivi e quelli presunti, calcolati con riferimento a determinate
voci patrimoniali. Il terzo capitolo evidenzia le conseguenza fiscali per le “società di
comodo”, le quali una volta entrate nel canale della “non operatività”, sono obbligate a
dichiarare un reddito minimo predeterminato e possono usufruire del regime del riporto delle
perdite solo per la parte reddituale che eccede il minimo stabilito. Viene affrontata poi la
tematica della possibile via d’uscita dal regime della “non operatività” attraverso l’istanza
dell’interpello
disapplicativo;
quest’ultimo
fino
al
2010
è
stato
considerato
dall’Amministrazione Finanziaria come l’unico strumento permesso e necessario per poter
impugnare l’eventuale avviso d’accertamento emesso successivamente. Il punto d’arrivo di
tale approfondimento è rappresentato dal quarto capitolo, dove si fanno alcune considerazioni
conclusive, con l’auspicio che il legislatore, partendo da quanto previsto dalla Legge Delega,
decida effettivamente di rivedere l’intero istituto delle società di comodo, consapevole delle
difficoltà di coordinamento dell’attuale disposizione con alcuni tasselli fondamentali della
Costituzione. Soprattutto in un periodo come questo, di congiuntura economica negativa, c’è
il rischio di penalizzare chi svolge un’attività economica produttiva e di non riuscire ad
eliminare dalla platea le strutture societarie che sono delle reali “scatole vuote”.
3
CAPITOLO 1
DISCIPLINA DELLE SOCIETA’ DI COMODO: EXCURSUS
NORMATIVO E QUESTIONI STRUTTURALI
SOMMARIO: 1.1 Breve inquadramento delle società di comodo dal punto di vista civilistico
- 1.2 L’articolo 30 della Legge n. 724 del 1994 nella sua versione originale - 1.3 Le modifiche
apportate nel tempo alla normativa in esame; 1.3.1 Cenni relativi all’assegnazione dei beni in
godimento a soci e familiari ed all’indeducibilità dei relativi costi per l’impresa - 1.4 “Società
di comodo” e “società non operative”: termini differenti per descrivere lo stesso fenomeno? 1.5 La disciplina delle società di comodo: normativa antielusiva, antievasiva o imposta
patrimoniale? - 1.6. Il coordinamento della disciplina delle società di comodo con i principi
costituzionali d’uguaglianza e di capacità contributiva. Quali difficoltà?: 1.6.1 L’importanza
dell’articolo 3 e dell’articolo 53 della Costituzione nel diritto tributario; 1.6.2 Società di
comodo e il principio di capacità contributiva; 1.6.3 Le modifiche apportate nel 2011 alla
disciplina delle società di comodo: qualche altra considerazione sul rispetto dei principi
costituzionali
1.1 Breve inquadramento delle società di comodo dal punto di vista civilistico
Giova iniziare l’esame della disciplina fiscale di comodo prendendo le mosse dalla normativa
civilistica. I motivi di tale scelta saranno presto chiari. Il Titolo V del Codice Civile apre con
due disposizioni nelle quali il legislatore definisce il contratto di società e la comunione a
scopo di godimento. L’art. 2247 del Codice Civile prevede che “con il contratto di società due
o più persone conferiscono beni o servizi per l'esercizio in comune di un'attività economica
allo scopo di dividerne gli utili”; il successivo art. 2248 afferma che “la comunione costituita
o mantenuta al solo scopo di godimento di una o più cose è regolata dalle norme [relative
alla comunione]”. Nonostante le due fattispecie siano accomunate dalla contitolarità dei
rapporti patrimoniali, evidenti sono le differenze dal punto di vista funzionale ed è proprio per
questo motivo che alla situazione giuridica del mero godimento si applicano le norme generali
sulla comunione dei beni4. Mentre quest’ultima è una situazione giuridica che sorge, secondo
quanto stabilito dall’art. 1100 del Codice Civile, “quando la proprietà o altro diritto reale
spetta in comune a più persone (…)” e l’attività dei contitolari è finalizzata e si esaurisce nel
godimento dei beni comuni, nel caso di costituzione di società che deriva da un contratto, la
contitolarità tra i soci nasce dal desiderio di svolgere un’attività economica potenzialmente in
grado di aumentare il valore complessivo del patrimonio sociale5. La differenza tra il contratto
4
Tali norme sono previste dall'art. 1100 del Codice Civile e ss.
AA.VV., Diritto delle Società [Manuale breve]. Quarta edizione, Milano, 2008, pag. 15-16. Quindi anche nella
comunione è prevista per legge lo svolgimento di un’attività, attività però a contenuto patrimoniale nell’interesse
comune attraverso un’organizzazione di gruppo.
5
4
di società e la comunione a scopo di godimento sta proprio nel rapporto beni-attività. Nel
contratto di società i beni comuni sono quindi strumentali all'esercizio d'impresa ed hanno
funzione servente rispetto all’attività d’impresa; nell'ipotesi della comunione tale rapporto si
inverte, dal momento che l'obiettivo è la conservazione dei beni per un migliore godimento
individuale, l'attività svolta rappresenta il mezzo per raggiungerlo ed assume una funzione
servente rispetto allo scopo dei contitolari. Gli elementi quindi caratterizzanti il contratto di
società sono il conferimento di beni da parte dei soci, lo svolgimento di un'attività produttiva
e generatrice di nuova ricchezza ed il perseguimento della finalità di lucro6. L'art. 2248 del
Codice Civile nel definire la comunione a scopo di godimento, delimita l'ambito di
applicazione delle norme relative al contratto di società; è stato quindi fissato il principio che
il regime patrimoniale delle società si può applicare solo se i beni sono destinati allo
svolgimento di un’attività d’impresa. Non può esistere una società di mero godimento nella
quale ci si limita al conferimento dei beni, perché nella nozione di società è infatti implicito
l'esercizio di un'attività economica-produttiva7. Di conseguenza nonostante l'appellativo dato
dalle parti di contratto di società si dovranno applicare le disposizioni riguardanti la
comunione volontaria. L’art. 2248 del Codice Civile deve essere letto nel senso che le società
di mero godimento sono vietate, in quanto costituiscono un abuso dell’istituto societario ed è
6
Sembra opportuno accennare, dopo aver definito gli elementi caratterizzanti una società, al problema delle
imprese civili ed alla questione se esse possano esistere o meno. Tale categoria non è espressa da alcuna
previsione legislativa ed identificherebbe le imprese né agricole né commerciali. In particolare secondo quanto
stabilito dal Codice Civile gli elementi che distinguono l’impresa commerciale da quella agricola si collocano
nelle prime due categorie d’attività racchiuse nell’art. 2195 Cod. Civ. e cioè nel carattere industriale dell’attività
diretta alla produzione ed allo scambio beni o servizi e nell’intermediazione della circolazione dei beni. Per poter
identificare l’esistenza delle imprese civili si dovrebbe identificare le due categorie d’attività citate in modo
molto restrittivo, si sostiene invece che imprenditore commerciale è ogni imprenditore non agricolo dato che le
altre categorie d’attività presenti nell’art. 2195 Cod. Civ. sono comunque delle specificazioni delle prime due.
Inoltre ammettere l’esistenza delle imprese civili significherebbe ampliare gli imprenditori sottratti alla
disciplina più rigorosa delle imprese commerciali e questo senza alcuna giustificazione sostanziale. Si ritiene
preferibile non ammettere l’esistenza di tale terza categoria di impresa e definire impresa commerciale ogni
impresa che non è agricola. Non c’ è spazio al di fuori delle imprese commerciali o agricole per altre tipologie
d’impresa. Non ammettendo l’esistenza delle imprese civili, questo significa che le società di comodo rientrano
tra le società commerciali, sottolineando però il fatto che la società per poter essere definita tale deve presentare
le caratteristiche descritte nel paragrafo e cioè svolgere un’attività economica produttiva e perseguire uno scopo
di lucro e questo non accade appunto per le società di mero godimento. Emerge quindi il dato di fatto, cioè che il
legislatore utilizza lo strumento fiscale per porre rimedio ad una violazione civilistica e l’interrogativo di come
potrebbe essere contrastato attraverso lo strumento della disciplina commerciale il fenomeno delle società che si
ritengono tali, ma che non svolgono un’attività economica. Non è tuttavia obiettivo del presente lavoro
addentrarsi nella disciplina del diritto commerciale ed ipotizzare una soluzione per tale fenomeno.
CAMPOBASSO G. F., Diritto commerciale. 1.Diritto dell’impresa. Sesta edizione (a cura di CAMPOBASSO
M.), Milano, 2009, pag. 55 e ss..
7
In dottrina ed in giurisprudenza differenti sono le posizioni assunte a fronte di tale problematica. Si parla sia di
nullità del contratto in quanto si è in presenza di elusione della norma imperativa prevista dall’art. 2248 del
Codice Civile, che di simulazione dell’atto costitutivo. Come affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza
n. 8939 del 1° dicembre 1987, la simulazione comporta non la nullità, ma l’inesistenza del negozio giuridico
superando in questo modo lo schermo della personalità giuridica societaria.
5
proprio in questo contesto che si deve inserire l’analisi riguardante la disciplina da applicare
alle società di comodo. Esse presentano la forma giuridica delle società commerciali, con un
atto costitutivo che annovera lo svolgimento di un’attività economica-produttiva, ma nella
realtà perseguono, invece, uno scopo meramente conservativo del patrimonio8. Dalle brevi
considerazioni effettuate emerge come nel Codice Civile non sia presente una definizione di
società di comodo e non trovi spazio alcuna disposizione specifica per la loro applicazione.
Nelle società non operative il contratto sociale prevede lo svolgimento di un’attività
produttiva, ma nella realtà i soci conferiscono dei beni finalizzandoli al loro godimento
personale. Lo scopo è quello di poter trarre vantaggi fiscali dalla condizione giuridica di tali
beni, che costituiscono un patrimonio differenziato da quello personale, applicando la
disciplina del reddito d’impresa e strumentalizzando la vis attractiva dell’art. 81 del D.P.R. n.
917 del 1986 (TUIR)9. L’involucro esterno apparente è quello della società, ma nella sostanza
si origina una comunione volontaria e questo avviene dichiarando nell’atto costitutivo lo
svolgimento di un’attività commerciale; si realizza quindi un abuso dello schermo societario e
della persona giuridica10. Il fenomeno delle società di comodo risulta quindi difficilmente
inquadrabile nel panorama civilistico ed il legislatore ha scelto di utilizzare lo strumento
fiscale per reprimere tali situazioni e per superare lo schermo societario. E’ stata introdotta
con la Legge n. 724 del 1994 una disciplina specifica di contrasto alle società non operative:
una tassazione dissuasiva per contrastare l’utilizzo distorto dell’involucro societario11. La
soluzione adottata in questo modo dal legislatore non è rappresentata da un rimedio
civilistico, quale la nullità del contratto posto in essere, ma quella più moderata di scoraggiare
le società quali contenitori patrimoniali, attraverso la loro penalizzazione e presunzione di un
8
VIGNOLI A., Le società di mero godimento tra assegnazione agevolata e trasformazione in società semplice, in
Rass. trib., 1998, 3, pag.749. Questo fenomeno interessa soprattutto il settore immobiliare dove effettivamente
esistono “società di puro godimento”, caratterizzate dall'assenza dell'esercizio di un'attività, provviste di una
certa dose di refrattarietà al mercato e, per contro, inclini ad instaurare rapporti con i propri soci. Tuttavia
l'utilizzo del termine società immobiliari è rappresentativo di molteplici profili, a partire dalle immobiliari che si
occupano della costruzione e vendita dei fabbricati, a quelle che li acquistano per poi rivenderli successivamente
o che fungono da intermediarie nella circolazione di tali beni.
9
Tale norma prevede che “il reddito complessivo delle società e degli enti commerciali (…), da qualsiasi fonte
provenga, [sia] considerato reddito d’impresa (…)”.
10
DAMIANI M., Società di comodo tra finalità, lacune e proporzionalità dell’assetto normativo, in Corr. trib.,
2013, 45, pag. 3554.
11
L'autore NUSSI M. in L'imputazione del reddito nel diritto tributario, Padova, 1996, pag. 527 e ss, identifica
tale normativa come una disciplina di dissuasione, che incide sull'effettiva veridicità più che del soggetto, delle
operazioni economiche poste in essere; l'intervento legislativo rientra in “(...) una specifica oggettivizzazione
regolamentare del fenomeno (...)”. MENTI P., Società semplice di gestione dei beni sociali?, in Giur. comm.,
2000, 6, pag. 720. Viene evidenziato che la disciplina prevista dall’art.30 della legge n. 724/1994 costituisce il
maggior deterrente alla costituzione ed al mantenimento di società di comodo in funzione elusiva
dell’imposizione fiscale.
6
reddito minimo12. Come detto precedentemente l’ordinamento tributario osteggia quindi le
società che non perseguono un fine lucrativo poiché potenzialmente autrici di azioni elusive13.
Per il legislatore fiscale soltanto se vengono rispettati i requisiti previsti dall’art. 2247 del
Codice Civile si può applicare la disciplina del reddito d’impresa, altrimenti la base
imponibile rappresentativa della capacità contributiva diventa il patrimonio della società14.
L’abuso dello strumento societario sembra apparentemente trovare nel diritto tributario un
parziale rimedio con la normativa specifica relativa alle società di comodo, introdotta per
sanzionare fiscalmente l’uso civilistico improprio della forma societaria.
1.2 L’articolo 30 della Legge n. 724 del 1994 nella sua versione originale
La disciplina delle società non operative è sorta per “penalizzare” sul piano tributario le
società “senza impresa”, quelle cioè che al di là dell’oggetto sociale dichiarato vengono
12
L'obiettivo del legislatore come sottolinea CERMIGNANI M., Il regime delle società di comodo: ratio,
attualità e prospettive, in Dir. pratica trib., 2011, 2, pag. 1-255, “(...) è quello di ostacolare l'utilizzo incongruo e
anomalo dello schermo societario, ossia non per il normale svolgimento di un'attività economica secondo
quanto previsto dall'art. 2447 C.C., ma al fine di attuare uno spossessamento formale tra i beni ed i loro
proprietari, sottraendo i cespiti patrimoniali fruttiferi al loro regime fiscale naturale ed inserendoli
impropriamente nel regime del reddito d'impresa, attribuito in base ad un criterio formale, senza alcuna
corrispondenza con l'attività imprenditoriale”.
13
PISTOLESI F., L'interpello per la disapplicazione del regime sulle società di comodo, in Corr. trib., 2007, 37
pag. 2987.
14
PEVERINI L., La natura patrimoniale dell'imposta sulle società di comodo, in PEVERINI L., VIGNOLI A.,
LUPI R. e STEVANATO D., Società non operative: una patrimoniale mascherata da criterio (contronatura) di
determinazione dei redditi, in Dialoghi dir. trib., 2014, 2, pag. 132. Sottolinea l’autore come l’art.30 della legge
n. 724/1994 rappresenti una penalizzazione per le strutture societarie che non svolgono un’attività economica
produttiva e nonostante il tenore letterale della norma, la presunzione del reddito minimo posta a base della
normativa non è volta a quantificare il reddito, ma è invece commisurata al valore delle attività patrimoniali. E’
poi opportuno fare un’ulteriore considerazione. In particolare la disciplina delle società di comodo è stata
introdotta per contrastare l’utilizzo delle strutture quali schermi societari, attraverso i quali i soci possono
utilizzare direttamente i beni della società per fini personali, rimandando la tassazione IRPEF del reddito di
godimento solo all’eventuale distribuzione degli utili societari. Lo schermo societario configurerebbe come una
specie di “mano morta”. Con tale termine ed in particolare con l’espressione “imposta di mano morta” si fa
riferimento ad un’imposta introdotta nel 1923 che colpiva il reddito del patrimonio degli enti di natura
“indefettibile”, che presentavano uno scopo non occasionale e di breve durata , ma duraturo e perseguibile in un
futuro indeterminato. Ci si riferiva cioè agli enti morali, quali per esempio gli istituti di carità, di beneficienza, le
case religiose e confraternite, gli istituti religiosi, le associazioni, oltre che alle province, ai comuni. Il
presupposto base di tale imposta era il fatto che il patrimonio di un ente indefettibile, essendo non trasferibile a
causa di morte, non sarebbe stato assoggettato all’imposta sui trasferimenti, per cui si prevedeva tale tassazione
proprio in ragione del fatto che altrimenti non sarebbe gravata alcuna imposta con riferimento ai beni di detti
enti. Oggetto dell’imposta era la rendita reale o presunta dei beni mobili ed immobili posseduti al fine di
ricavarne un reddito pecuniario, esclusi gli immobili destinati all’uso proprio dell’ente. L’aliquota dell’imposta
era del 7,20% ridotta allo 0,9% per gli enti che perseguivano uno scopo di carità, beneficienza. Tale imposta
venne eliminata con la Legge n. 408/1954. Quindi come i beni di “mano morta” senza tale previsione legislativa
non avrebbero scontato alcuna tassazione sui trasferimenti, così lo schermo societario rappresenterebbe il mezzo
attraverso quale sarebbe rimandata la tassazione IRPEF del reddito di godimento per il socio che utilizza i beni
societari, non per lo svolgimento di un’attività produttiva, ma per fini privati. Si potrebbe così intravedere una
somiglianza tra l’imposta di mano morta e la disciplina delle società di comodo, dal momento che entrambe
prevedono una tassazione che altrimenti sarebbe stata evitata nel caso degli enti indefettibili e nel caso delle
società di mero godimento sarebbe rimandata solo all’eventuale distribuzione degli utili societari. EINAUDI L. e
REPACI F. A., Il sistema tributario italiano, Torino, 1954, pag. 292 e ss.
7
costituite non per lo svolgimento di un’attività economica, ma per gestire i patrimoni
personali dei soci. Per procedere ad analizzare “il mondo delle società di comodo”, è
opportuno iniziare dall'esame della versione originale della normativa introdotta dall'art. 30
della legge 23 dicembre 1994, n. 724, che già a partire dal 199515 cominciò a subire “i primi
rimaneggiamenti”, presentati di seguito.
Inizialmente, come si può vedere dal primo comma dell'articolo 30 riportato in nota 16,
interessate dalla disposizione erano unicamente le società per azioni, le società a
responsabilità limitata, le società in accomandita per azioni e qualsiasi tipo di società non
residente nel territorio dello Stato. Operava l’esclusione automatica per alcune società; quelle
che non si trovavano in un normale periodo d’imposta, quelle sottoposte ad amministrazione
controllata o straordinaria, quelle nel primo periodo d'imposta; quelle che alla data del 31
maggio 1995 avevano deliberato formalmente la loro trasformazione in società commerciali
di persone e quelle che, per la particolare attività svolta, era “fatto obbligo di costituirsi sotto
forma di società di capitali”17. E’ interessante rilevare come le società di persone non fossero
annoverate tra i soggetti destinatari dell’applicazione di tale disciplina, creando una disparità
di trattamento rispetto alle società di capitali, dal momento che anche sotto la veste giuridica
di società in nome collettivo o in accomandita semplice potevano celarsi strutture societarie
non operative18. Risultavano società di comodo le società che avevano un numero di
dipendenti inferiore a cinque19 e un ammontare di ricavi e proventi inferiore agli 800 milioni
di lire. La versione modificata dal Decreto Legge del 1995, precisava che oltre ai ricavi si
dovessero considerare gli “incrementi delle rimanenze e proventi, esclusi quelli straordinari,
risultanti dal conto economico”; quest'ultima specifica evidenziava le voci rilevanti da
prendere in considerazione risultanti dal bilancio, redatto ai sensi dell'art. 2423 e ss. Cod. Civ.
Obbligo delle società non operative era di dichiarare un reddito minimo20, calcolato facendo
15
L'art.27 del Decreto Legge 23 Febbraio 1995, n.41 apportò delle modifiche al comma 1, 2, 4, 5, 6, 7 dell'art. 30
cit..
16
“Agli effetti del presente articolo si considerano non operative le società per azioni, in accomandita per azioni
e a responsabilità limitata, le società e gli enti di ogni tipo, con o senza personalità giuridica, non residenti nel
territorio dello Stato, che hanno meno di cinque dipendenti e ricavi e proventi inferiori ad 800 milioni escluse
comunque le società che non si trovano in un normale periodo d'imposta nonché le società che si trovano in
amministrazione controllata e straordinaria e quelle che hanno iniziato l'attività nel corso dell'esercizio nonché
quelle che entro il 31 maggio 1995 abbiano formalmente deliberato la propria trasformazione in società
commerciali di persone”.
17
Tale ultima ipotesi d'esclusione fu introdotta dal Decreto Legge del 1995.
18
La Circolare del Ministero delle Finanze n. 140/E del 15 maggio 1995 precisava l'esclusione oltre che per le
società commerciali di persone e le imprese individuale, per le società cooperative e di mutua assicurazione, per
le società consortili (caratterizzate dallo stesso scopo mutualistico delle società cooperative e di mutua
assicurazione) e per le società e gli enti non residenti privi di stabile organizzazione nel territorio dello Stato.
19
Mediamente alle dipendenze della società nel corso del periodo d’imposta.
20
NUSSI M., L'imputazione del reddito nel diritto tributario, cit., pag. 531, dove si sottolinea che la presunzione
8
riferimento al patrimonio netto aumentato degli incrementi di capitale apportati dai soci o da
terzi, se superiore ai livelli minimi di reddito stabiliti, considerando il valore del patrimonio
netto e la tipologia di struttura societaria, come previsto nel comma 6 dell'articolo21. Il
carattere patrimoniale della disposizione si scorge dal momento che la base del calcolo per il
reddito minimo era il valore del patrimonio netto e quest’ultimo, nella normale gestione
dell’attività d’impresa, rappresenta la componente del passivo destinata a coprire gli
investimenti nelle immobilizzazioni materiali, immateriali e finanziarie. Il criterio alla base
della predeterminazione del reddito prevedeva quindi che all'aumentare delle dimensioni
patrimoniali avrebbe dovuto aumentare anche la stessa redditività; in realtà il rapporto tra
reddito e volume delle immobilizzazioni tende ad aumentare al diminuire di quest'ultime, con
l'effetto di penalizzare di fatto le società di minori dimensioni, le quali erano comunque
costrette a dichiarare determinati livelli minimi di reddito. Era inoltre stabilito il divieto del
riporto delle perdite, anche se già con la prima modifica avvenuta nel 1995, venne introdotta
l’opzione del riporto delle perdite per la parte eccedente il reddito minimo dichiarato. La ratio
di tale specifica deve essere analizzata alla luce dell’incompatibilità tra l’indicazione del
reddito in modo forfettario e la possibilità di poter usufruire delle perdite per la riduzione
dell’imponibile. L’obiettivo di contrastare le società non operative verrebbe vanificato se
fosse concesso l’utilizzo delle perdite, senza alcun vincolo, dal momento che quest’ultime
sono rappresentative del comportamento che deve essere osteggiato. Prevedere da un lato una
determinata disciplina e allo stesso tempo permettere il riporto delle perdite senza vincoli,
significherebbe che l’imposizione del reddito minimo stabilito dal legislatore non troverebbe
sempre applicazione e potrebbe essere annullato appunto dall’utilizzo di dette perdite
pregresse. Agli occhi del legislatore tali perdite appaiono derivare dal fatto di non essere
operativi e di aver costituito la società per finalità estranee all’esercizio dell’attività
economica, anche se sono state realizzate in anni precedenti, nei quali la società non
necessariamente era definita società di comodo. Al comma 722 era poi prevista la possibilità
di un reddito minimo può essere giustificata come eliminazione del favor normativo riguardante la deducibilità
dei costi, di cui godono i soggetti che pur non svolgendo attività imprenditoriale, ne rientrano in virtù
dell'apparente forma commerciale che domina sulla realtà sostanziale.
21
“(…) Fermo l’ordinario potere di accertamento e salva, comunque, la prova contraria, per le società non
operative è escluso il riporto a nuovo delle perdite e si presume che il reddito imponibile sia pari al 2 per cento
del patrimonio netto, aumentato dei finanziamenti da parte dei soci e di terzi destinati a immobilizzazioni
aziendali e comunque non inferiore ad 8 milioni di lire (…)”.
22
“La prova contraria di effettiva inesistenza del reddito (…) non può consistere nella sola corrispondenza alle
scritture contabili o alle risultanze del bilancio del minor reddito asserito, ma deve essere sostenuta da oggettivi
riferimenti al particolare settore in cui opera la società, ovvero a particolari o temporanee situazioni di mercato
anche territoriali, che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi ordinariamente ritraibili dal possesso
delle immobilizzazioni (…), ovvero dalla tipologia dell’attività esercitata che obblighi la società a sostenere per
9
della prova contraria per poter uscire dal canale della non operatività, ma le condizioni
imposte dal legislatore erano piuttosto stringenti, data l’insufficienza della dimostrazione delle
scritture contabili e del bilancio d’esercizio. Altrettanto problematiche erano le ipotesi sulle
quali la prova contraria poteva consistere: le particolari condizioni del settore in cui la società
operava, con riferimento anche a situazioni temporanee di mercato, oppure la tipologia di
attività esercitata. In relazione alla prima fattispecie, era necessaria la dimostrazione del nesso
di causalità tra la peculiare condizione in cui si trovava la società ed il mancato
raggiungimento
dei
ricavi,
normalmente
ottenibili
dal
possesso
di
determinate
immobilizzazioni. La difficoltà era duplice, sia perché non erano accettate condizioni di
anomalia, che evidenziassero per esempio un minor reddito ottenuto a causa di un’incapacità
gestionale, sia per l’indeterminatezza del calcolo dei ricavi medi raggiungibili. Riguardo alla
seconda ipotesi, era richiesto oltre al dato oggettivo relativo alla tipologia d’attività esercitata,
il sostenimento dei costi in più esercizi per la realizzazione dei beni volti successivamente alla
vendita; inoltre la disposizione non faceva riferimento al sostenimento di costi in un unico
esercizio, come pure non menzionava la realizzazione di servizi. Il Decreto Legge n. 41 del
1995, apportò delle modifiche per quanto concerne la prova contraria, eliminando quanto
stabilito nel comma 7 dell'originale art. 30 della Legge n. 724/1994 e prevedendo al comma 1
che “(...) la prova contraria [dovesse] essere sostenuta da riferimenti ad oggettive situazioni
di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, di proventi
e rimanenze (...)”. Tuttavia secondo quanto specificato dalle circolari ministeriali23, le
oggettive situazioni straordinarie potevano comprendere calamità naturali, scioperi prolungati,
crisi di settore straordinarie, mancata distribuzione di dividendi da parte di società controllate
interessate da crisi del relativo mercato e furti che avessero inciso in modo rilevante sulle
rimanenze. Erano quindi condizioni piuttosto stringenti di carattere straordinario, non
suscettibili di valutazioni soggettive; inoltre la dimostrazione poteva fare riferimento
solamente al volume dei ricavi, dei proventi, delle rimanenze e non poteva essere preso in
considerazione l'indicatore riguardante il numero dei dipendenti. Sempre il decreto del 1995
in esame, stabilì al comma 7 dell'art. 30 che, nell'ambito delle disposizioni sull'accertamento
per le società non operative, si potesse procedere a determinare il reddito induttivamente in
misura pari a quella presunta, anche applicando l'accertamento parziale previsto dall'art. 41bis del D.P.R n. 600 del 1973. Era quindi la legge stessa a definire la non operatività delle
società e questo semplificava il lavoro dell'Amministrazione, riversando sul contribuente
più esercizi costi finalizzati alla realizzazione di beni destinati alla cessione (…)”.
23
Circolare del Ministero delle Finanze n. 140/E del 15 maggio 1995 cit. e n. 48/E del 26 febbraio 1997.
10
l'onere probatorio dello svolgimento di un'effettiva attività economica. Venne inoltre
introdotto nel 1995 il contradditorio anticipato24, stabilendo che “(…) l'accertamento [fosse
effettuato], a pena di nullità, previa richiesta al contribuente, anche per lettera
raccomandata, di chiarimenti da inviare per iscritto entro 60 giorni”; era inoltre specificato
che l'eventuale risposta fornita dal contribuente dovesse indicare “(...) i motivi posti a
fondamento della prova contraria (...)” ed in caso di impugnazione dell'avviso d'accertamento
poteva essere fatto valere solamente quanto presentato in risposta alla richiesta di chiarimenti
da parte dell'Amministrazione Finanziaria. Il dubbio che a questo punto emergeva riguardava
la concreta possibilità di difesa per il contribuente. In particolare se i motivi posti a base della
prova contraria rappresentassero le uniche argomentazioni possibili a disposizione del
contribuente o se invece tali argomentazioni fossero le uniche ad essere sottoposte alla
specifica del comma 7, con la conseguenza che dovevano necessariamente comparire nella
risposta, a pena del loro inutilizzo in sede d'impugnazione. Era maggiormente condivisibile la
seconda ipotesi, più favorevole per il contribuente, che prevedeva quindi la possibilità di far
valere in sede giudiziaria altre possibili argomentazioni difensive, oltre a quelle presentate con
la risposta di richiesta di chiarimenti. Si deve inoltre sottolineare come la possibilità per le
società di uscire dal regime della non operatività per gli anni 1994-1995 fosse rappresentata
dal loro scioglimento o trasformazione in società commerciali di persone25. Tale opzione
risultava più restrittiva rispetto ad altre fattispecie di predeterminazione del reddito, in quanto
la scelta era tra dichiarare un reddito minimo e la cessazione della società o la modifica della
veste giuridica. In quest'ultima ipotesi era quindi permesso alla società di continuare ad
esistere, mentre nel caso di scioglimento, l'uscita dal regime forfettario prevedeva la
soppressione della struttura societaria.
Si può quindi notare come fin dalla sua introduzione la disciplina delle società di comodo sia
risultata complessa e di non facile applicazione. Essa rappresenta una legislazione di contrasto
e deterrenza, attraverso una serie di misure di svantaggio fiscale e che, stando alle intenzioni
del legislatore, avrebbe dovuto perseguire uno scopo antielusivo26. Sembra opportuno fare
24
Come riportato da TOSI L., Relazione introduttiva:la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., Le società
di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 9, il contraddittorio anticipato previsto dalla norma evidenzia che “(…)
il legislatore è consapevole della scarsa attendibilità del metodo accertativo (…). [Sapendo] di aver conferito
all'Amministrazione Finanziaria un potere accertativo da usare con molta cautela, perché basato su elementi
probatori molto labili, prevede appunto che questo potere venga temperato dall'obbligatorietà del
contraddittorio anticipato”.
25
Tale ipotesi configurava quale causa d'esclusione, come riportato in precedenza; in particolare l'originale
disposizione faceva riferimento alla sola trasformazione in società commerciali di persone, mentre il Decreto
Legge n. 41 del 1995 introdusse anche l'ipotesi di scioglimento.
26
TOSI L., Relazione introduttiva:la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo (a cura
di TOSI L.), cit., pag. 2. Tale disciplina viene introdotta per contrastare il dilagare delle società utilizzate non per
11
delle considerazioni riguardanti alcune perplessità che si possono già intravedere
nell’impianto iniziale della normativa in esame. La scelta del legislatore di introdurre tale
disciplina deve essere analizzata anche alla luce dei dati disponibili nel 1994, nei quali si
evidenziava che nel 1991 su 520.000 società di capitali circa 170.000 erano prive di ricavi e
circa 60.000 avevano ricavi inferiori ai 50 milioni di lire. Era quindi ragionevole presumere
che esistessero numerose società familiari utilizzate per poter dedurre i compensi agli
amministratori, le spese di manutenzione, gli interessi passivi27. Evidenziato da un lato questo
aspetto, il presupposto base della disciplina della non operatività era la presenza di un numero
di dipendenti esiguo ed il mancato raggiungimento della soglia degli ottocento milioni di lire
dei ricavi e dei proventi. Tuttavia questi due indicatori erano privi di una reale giustificazione
ed il rischio evidente era che fossero penalizzate le società che effettivamente non
raggiungevano tale soglia, anche se realmente operative, come per esempio poteva accadere
nel caso di società operanti nel settore terziario o finanziario o in quello agricolo. Inoltre
discutibile appariva anche la logica di fondo secondo cui la non operatività era definita in
relazione all’ammontare del valore della produzione e non considerando le caratteristiche
specifiche dell’attività svolta. Emergono inoltre alcune questioni, che verranno riprese nel
proseguo, e che rappresentano per alcuni versi “il filo conduttore” della tematica trattata. In
particolare come è evidente già nell’originale articolo normativo riguardante le società di
comodo, il legislatore ha scelto un sistema di tassazione predeterminato; quest’ultima
tipologia di tassazione è antitetica al principio di personalità del prelievo ed il principio di
rispetto della capacità contributiva28 viene travisato nel momento in cui si sceglie di tassare un
soggetto solo perché non ha raggiunto una determinata soglia reddituale. In un sistema
forfettario come quello previsto per le società di comodo, l’esigenza della personalizzazione
del prelievo viene incrinata, ci si allontana dalla singola realtà economico-contabile ponendo
in secondo piano le differenze che inevitabilmente sussistono tra le specifiche situazioni dei
contribuenti29. Nonostante le criticità di fondo che si possono già intravedere anche
lo svolgimento d’attività d’impresa, costituite talvolta per eludere la disciplina tributaria. Viene evidenziato che il
legislatore sceglie lo strumento tributario per arginare tale fenomeno, sollevando la questione dell’utilizzo della
leva fiscale per raggiungere scopi di politica economica e finanziaria. E’ in questo contesto che si deve analizzare
l’impianto originario previsto dall’art. 30 della Legge n. 724/1994 e le complessità della disciplina insite fin
dalla sua introduzione.
27
I dati relativi alla situazione delle imprese in Italia nel 1991 sono stati recuperati da FERRANTI G., La
revisione della disciplina delle società di comodo e dei beni in godimento ai soci, in Fisco (Il), 2014, 20, pag.
1911.
28
Tale principio è espresso nell’art. 53 della Costituzione secondo cui “tutti sono tenuti a concorrere alle spese
pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di
progressività”.
29
TOSI L., Le predeterminazioni normative nell'imposizione reddituale. Contributo alla trattazione sistematica
12
nell’impianto originale descritto dalla normativa, deve essere evidenziato che da sempre tale
disciplina è stata caratterizzata da una presunzione di reddito ed inizialmente l’apparato
normativo delineato dal legislatore era più semplice di quanto non lo sia attualmente,
collegando la non operatività del soggetto al livello dei ricavi e in relazione al numero di
dipendenti impiegati nella struttura societaria. Questo significava che a priori, le società con
un determinato numero di occupati e fatturato erano escluse fin dal principio. Con il passare
del tempo l’inserimento del test d’operatività e quindi dei diversi coefficienti da applicare al
valore di determinati beni patrimoniali, e delle diverse cause d’esclusione hanno portato ad
un’articolazione sempre maggiore della disciplina travisando l’obiettivo originario, cioè
quello di contrastare l’uso improprio della struttura societaria.
1.3 Le modifiche apportate nel tempo alla normativa in esame
Come già accennato nel precedente paragrafo, l'istituto delle società di comodo nel corso
degli anni ha subito continue modifiche; risulta utile illustrarle per poter meglio comprendere
ed analizzare tale fenomeno30. La Relazione accompagnatoria al disegno di Legge Finanziaria
per il 199731 affermava che la disciplina delle società non operatività era stata introdotta al
fine di contrastare “l’uso improprio della struttura societaria che, anziché essere finalizzata
all’esercizio produttivo di attività commerciali, viene impiegata per consentire l’anonimato
degli effettivi proprietari dei beni intestati alla società cui si unisce spesso la deduzione di
costi che hanno poco a che fare con l’attività che, (…) dovrebbe essere svolta dalla società,
mentre di fatto detta società si limita alla mera intestazione di beni che sono tenuti a
disposizione dell’effettivo proprietario”. Successivamente ai cambiamenti avvenuti con il
Decreto Legge del 1995, la Legge 23 dicembre 1996, n. 662 stabilì che fossero definite non
operative le società il cui ammontare dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei
proventi era inferiore alla sommatoria ottenuta moltiplicando determinate percentuali al
valore di talune voci patrimoniali. In particolare si doveva applicare l’1 per cento del valore
delle azioni, delle partecipazioni, delle obbligazioni e dei crediti 32; il 4% del valore delle
immobilizzazioni rappresentate dai beni immobili anche in locazione finanziaria; il 15% delle
altre immobilizzazioni sia materiali che immateriali, anche in locazione finanziaria. Il secondo
dell’imposizione su basi forfettarie, Milano, 1999, pag. 354 e ss..
30
Alcune delle modifiche verranno riprese e saranno analizzate maggiormente nel dettaglio nei successivi
capitoli. Nel presente paragrafo si elencano i cambiamenti avvenuti nel corso degli anni alla disciplina sulle
società di comodo per poter avere una panoramica generale dell'argomento.
31
Legge 23 dicembre 1996, n. 662.
32
Secondo quanto precisato nel D.M. 14 febbraio 1997, si devono considerare le azioni e partecipazioni sia
iscritte nelle immobilizzazioni finanziarie che nell'attivo circolante; inoltre per i crediti devono essere imputati
nel calcolo solo quelli finanziari e non quelli commerciali, né i depositi ed i conti correnti.
13
comma dell'art. 30 della Legge 724 del 1994 specificava inoltre che il valore dei ricavi e dei
proventi e dei beni patrimoniali da considerare, doveva essere la media dei valori
dell'esercizio stesso e dei due precedenti33. In questo modo c’era un arco temporale
sufficientemente ampio per poter ponderare le condizioni economiche caratterizzanti le
società, valutare le oscillazioni degli investimenti e l’effetto dei relativi rendimenti. Per
quanto concerne il reddito minimo da dichiarare, furono fissate le percentuali pari allo 0,75, al
3 e al 12 per cento da applicare rispettivamente al valore delle partecipazioni, delle
immobilizzazioni e delle altre immobilizzazioni. Doveva comunque essere dichiarato il valore
del reddito effettivo conseguito, se superiore a quello così determinato, così come
l'Amministrazione poteva accertare un maggior imponibile, secondo quanto stabilito dalla
specifica del comma 3 dell'articolo “fermo l'ordinario potere d'accertamento (...)”. Con le
modifiche apportate dalla Legge n. 662 del 1996, la normativa in esame sembrava acquisire
un apparente maggior grado di razionalità, rispetto alla forfettaria soglia degli 800 milioni di
lire, come evidenziato nella relazione governativa di accompagnamento alla legge finanziaria,
dove si affermava che attraverso l'utilizzo produttivo dei beni sociali i ricavi avrebbero dovuto
coprire almeno il costo sostenuto per il loro acquisto. Tuttavia l’eliminazione del riferimento
al numero di dipendenti occupati e l'introduzione della variabile relativa alla consistenza
patrimoniale della società poteva determinare l’attrazione nel regime in questione anche di
entità di medie e grandi dimensioni; l’attribuzione della qualifica di soggetto non operativo
sarebbe quindi risultata, sotto un profilo strettamente economico ed organizzativo, ancora più
inappropriata. Rimaneva poi immutata la logica di fondo di predeterminazione del reddito e
soprattutto non erano chiari i criteri scelti dal legislatore per l’applicazione dei coefficienti
alle voci patrimoniali. Sembrava inoltre irragionevole l’utilizzo del medesimo coefficiente per
tutti gli investimenti immobiliari, oltre al fatto che le percentuali da applicare ai valori dei
beni erano superiori rispetto ai valori netti di mercato34. Di fatto i cambiamenti apportati dalla
Legge n. 662/1996 hanno ampliato l’ambito di efficacia soggettiva della disciplina delle
società di comodo, rendendola potenzialmente applicabile a tutte le società che non avessero
conseguito risultati coerenti rispetto all’entità degli investimenti effettuati. Nonostante queste
note critiche, legate al pragmatismo del legislatore fiscale che è ricorso a fattori indicativi in
termini prettamente quantitativi delle attività economiche ed all’assoluta libertà nel costruire i
parametri per la presunzione del reddito, si deve sottolineare che inizialmente i coefficienti
33
La Circolare Ministeriale 48/E del 1997 cit., specificava che per i beni posseduti per un periodo di tempo
inferiore all'anno, la media ponderata dovesse essere rapportata al periodo di possesso del bene nella società.
34
TOSI L., Le predeterminazioni normative nell'imposizione reddituale. Contributo alla trattazione sistematica
dell’imposizione su basi forfettarie, cit., pag. 354 e ss..
14
per la determinazione dei ricavi e del reddito erano stati fissati in una misura ragionevolmente
equa, tant’è che nella realtà concreta la disciplina non aveva trovata un’ampia applicazione.
Successivamente nel 2006, l'art. 30 della norma in esame subì per ben due volte delle
modifiche, prima con la Legge 4 agosto 2006, n. 248 e poi con la Legge Finanziaria per il
200735. I cambiamenti avvenuti in tale anno hanno riguardato l’innalzamento del valore dei
coefficienti da applicare alle voci patrimoniali e la riformulazione dei beni oggetto d'analisi
per l'identificazione delle società non operative, nonché il relativo calcolo del reddito minimo
presunto36, rendendo la disciplina sempre più complessa, articolata e concretamente meno
idonea a “captare” le effettive strutture societarie non operative. E’ stato stabilito un
incremento quantitativo dei coefficienti presuntivi che hanno reso palese la carenza di ricerca
ed effettività delle presunzioni legali stabilite dall’art. 30 della Legge n. 724/199437. Tuttavia
la novità più importante introdotta con la legge dell’agosto 2006 è stata l'eliminazione del
contradditorio anticipato, incidendo quindi direttamente sul tema del diritto di difesa38. In
questo modo veniva infatti limitata la possibilità di difesa del contribuente e l'eliminazione
della prova contraria favoriva le previsioni riguardanti il gettito ottenibile dall'applicazione di
tale disciplina. Si evidenziava ancor maggiormente lo scopo del legislatore, cioè quello
dell'utilizzo della norma di contrasto al fenomeno delle società di comodo, come strumento di
politica finanziaria, per poter ottenere “(...) un valore economico spendibile col segno attivo
nel bilancio dello stato”39. Contemporaneamente venne introdotto il comma 4-bis all'art. 30 in
esame, che prevede la possibilità per il contribuente di presentare istanza di interpello
disapplicativo, ai sensi dell'art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, in presenza di situazioni
oggettive che non hanno permesso il conseguimento del livello minimo dei ricavi, degli
incrementi delle rimanenze e dei proventi per superare il test d’operatività o del reddito
stabilito ex lege. L'introduzione dell'interpello è stato oggetto, e lo è tuttora, di un’ampia
discussione che verrà trattata nel prosieguo; il dato normativo parla di facoltà del contribuente
35
Legge 27 dicembre 2006, n. 296.
Sembra opportuno esaminare la tipologia di beni da considerare nel calcolo e la percentuale da applicare, come
previsti dalla normativa in vigore attualmente; tale approfondimento sarà trattato nel secondo capitolo.
37
NUSSI M., La disciplina delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi incoerenti, in Riv.
dir. fin., 2010, 4, pag. 491. L’autore sottolinea come inizialmente l’impianto normativo della disciplina delle
società di comodo nel complesso, fosse caratterizzato da norme di equilibrio e ponderazione. La svolta avvenuta
nel 2006 ha evidenziato non il tentativo di perseguire la ricerca dei redditi occultati dai contribuenti, ma il
raggiungimento attraverso la normativa in esame dell’obiettivo di politica economica.
38
L'inciso riguardante la prova contraria presente nel primo comma dell'art. 30 cit. fu tolto con la Legge
Finanziaria per il 2007; come illustrato nel precedente paragrafo l'ammissione alla prova contraria stabilita
nell'originale versione della normativa aveva subito delle modifiche già con il Decreto Legge n. 41/1995.
39
TOSI L., Relazione introduttiva:la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo (a
cura di TOSI L.), cit., pag. 10.
36
15
di attivare l'istanza di disapplicazione40, mentre la linea seguita dall'Amministrazione
Finanziaria fino al 2010 è stata quella di affermare che l’istanza di disapplicazione
rappresenta un obbligo per poter dimostrare la reale operatività della società e per poter
impugnare l'avviso d'accertamento emesso successivamente. La legge finanziaria per il 2007
introdusse una specifica per i comuni con meno di 1000 abitanti; in questo caso le percentuali
da applicare per il test d’operatività erano dell’1 e del 10 per cento rispettivamente al valore
delle partecipazioni e alle immobilizzazioni costituite da beni immobili, anche in locazione
finanziaria. Con riferimento a quest’ultime la percentuale da applicare risultò pari all’1 per
cento dopo l'emanazione della Legge Finanziaria per il 200841, mentre venne eliminata la
riduzione dell’aliquota prevista per le partecipazioni. Inoltre la casistica riguardante le
disapplicazioni automatiche venne ulteriormente ampliata con la Legge Finanziaria per il
2007 e poi in particolare con quella per il 2008, dove l’intervento del legislatore ha inciso
anche sulla rimodulazione della scala dei coefficienti da applicare al test d'operatività ed al
calcolo del reddito minimo e sulle modalità di comunicazione dell'esito dell'interpello
disapplicativo al contribuente. Come previsto infatti dalla Legge 24 dicembre 2007, n. 244,
venne emanato il Provvedimento dell'Agenzia delle Entrate n. 23681/2008, riguardante
l’identificazione di ulteriori situazioni oggettive al ricorrere delle quali opera l’esclusione
automatica della disciplina, senza l’apposita istanza di disapplicazione42. Tuttavia, portando
solo come esempio le ipotesi di esclusione dal regime della disciplina per le società con un
numero di soci non inferiore a 100 modificata poi in misura non inferiore a 50 soci, o con un
numero di dipendenti non inferiore a 10; le considerazioni critiche che emergono riguardano i
criteri utilizzati dal legislatore per poter stabilire che un determinato numero di soci o di
dipendenti è garanzia dell’operatività automatica di una società, come pure la scelta di un
valore pari a 50 e non, per esempio, pari a 40 o 60. Queste riflessioni evidenziano l’utilizzo di
determinazione forfettaria del reddito e allo stesso tempo mettono in luce alcuni dubbi
riguardanti la reale efficacia dell’impianto normativo. Gli elementi desumibili dal mercato, la
consistenza patrimoniale della società ed i valori esprimenti un apparente assetto di normalità
economica non sono necessariamente rappresentativi del reddito che una società dovrebbe
essere in grado di produrre, perché questo dipende solo dall’attività effettivamente ed in
40
L'art. 30, comma 4.bis afferma infatti che “(...) la società interessata può richiedere la disapplicazione delle
relative disposizioni antielusive ai sensi dell'art. 37-bis, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica
29 settembre 1973, n. 600”.
41
Legge 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1 commi 128-129.
42
DODERO A., La disapplicazione automatica della disciplina sulle società non operative, in Corr. trib., 2008,
10, pag. 783.
16
concreto esercitata43. Ritornando alle modifiche apportate dalle finanziarie 2007 e 2008, è
stato stabilito, come possibile canale d’uscita dal regime delle società di comodo44, lo
scioglimento o la possibile trasformazione in società semplice, purché si trattasse di società
con soci sole persone fisiche e ne fosse disposta la cancellazione dal registro delle imprese
entro un anno45. Con riguardo alla possibilità prevista per le sole società formate da soci
persone fisiche, l'Amministrazione Finanziaria con la Risoluzione 103/E del 17 maggio 2007,
stabilì che la compagine sociale potesse annoverare anche le società semplici. Il regime
fiscale di quest’ultime è infatti assimilabile a quello delle persone fisiche; in questo modo
l’obiettivo di agevolare la fuoriuscita dei beni detenuti dalla società in regime d'impresa a
favore di quei soci il cui reddito non è determinato, secondo quanto previsto dall'art. 81 del
TUIR e seguenti era comunque rispettato46. La scelta del legislatore di prevedere la
trasformazione societaria può essere letta come volontà di permettere l’intestazione di beni a
soggetti diversi dalle persone fisiche attraverso l’utilizzo di una forma giuridica più adeguata;
in questo modo da un lato era tutelato l’interesse dei privati a non possedere il bene in prima
persona e contemporaneamente si evitava la strumentalizzazione della struttura societaria per
il semplice perseguimento di vantaggi fiscali, prevedendo la fuoriuscita dal regime
d'impresa47. Nel triennio 2006-2008 la normativa sulle società di comodo è stata quindi
revisionata più volte, con l'obiettivo, secondo quanto ribadito dall'Agenzia delle Entrate nella
Circolare del 14 febbraio 2008, n. 9/E, di focalizzare l’attenzione sulle casistiche più rilevanti
43
POGGIOLI M., Le modifiche apportate dalla legge finanziaria 2008 al regime fiscale delle “società di
comodo”: semplice maquillage o intervento di razionalizzazione del sistema?, in AA.VV., Le società di comodo
(a cura di TOSI L.), cit., pag. 91 e ss.. In questa ultimo capitolo del libro, si analizzano le modifiche apportate
dalla Legge Finanziaria del 2008, evidenziando come il legislatore scelga a volte degli schemi semplificativi per
l’applicazione del tributo; tuttavia si deve tenere in considerazione che la consistenza patrimoniale di una società
non può essere specchio del reddito effettivamente prodotto, che dipende dalle caratteristiche specifiche
dell’entità imprenditoriale.
44
A tale ipotesi si aggiungeva anche la casistica delle società che si trovavano nel primo periodo d'imposta.
45
La Legge Finanziaria per il 2008 ha riaperto i termini della procedura di scioglimento e trasformazione già
introdotti dalla finanziaria 2007, prevedendo un’imposta sostitutiva più contenuta. In entrambe le disposizioni
legislative si prevedeva che tale scelta dovesse essere operata entro il quinto mese successivo alla chiusura del
medesimo periodo d'imposta, oltre all’obbligo di iscrizione dei soci persone fisiche nel libro dei soci da
verificarsi alla data d’entrata in vigore delle leggi o nei successivi trenta giorni dalla medesima data; nel caso di
società di persone, dove non è prevista l'iscrizione nel libro soci, era necessario che fosse dimostrata l’identità
del socio tramite un atto avente data certa. La specifica relativa alla verifica d'iscrizione nel libro soci, voleva
evitare che nel caso di scioglimento agevolato e di conseguente cessione dei beni, ne beneficiassero soggetti
inclusi tra i soci, ma che erano in realtà soggetti terzi rispetto alla compagine sociale.
46
Nella Risoluzione veniva infatti evidenziato che “(...) l'intento del legislatore risulta comunque realizzato
anche nell'ipotesi in cui i soci della società siano rappresentati da società semplici. Anche in tale circostanza,
infatti, i beni fuoriescono da un regime d'impresa per confluire in un regime impositivo, quello delle società
semplici, sostanzialmente assimilato al regime fiscale previsto per le persone fisiche (...)”.
47
FERRANTI G., Nuove cause d'esclusione e test d'operatività per le società di comodo, in Corr. trib., 10, 2008,
pag. 815.
17
che interessano le società di comodo e di ricercare un esito di mirata razionalizzazione48. E’
da sottolineare come anche l’intervento del legislatore con la Legge Finanziaria per il 2008,
non è stato rivolto ad un rimodellamento generale dell’istituto, sono state apportate delle
singole modifiche, adottando un criterio casistico. E’ rimasto quindi invariato l’automatismo
di fondo di predeterminazione del reddito, che prescindendo da qualsiasi legge economica
determina l’imponibile della società, basandosi sulla consistenza degli asset patrimoniali e
prescindendo dalla concreta situazione fattuale riferibile al contribuente. Tuttavia l’apparente
stabilità della disciplina non durò per molto tempo. Nel 2011 con “la manovra di ferragosto
Monti-bis”49 la platea dei soggetti interessati dall'art. 30 della Legge n. 724 del 1994 è stato
ampliata ulteriormente, peggiorando la già disarticolata disciplina ed allontanandosi sempre
più dall’obiettivo originario di contrastare le strutture societarie, che non vengono costituite
per il reale svolgimento di un’attività economica ma come meri contenitori patrimoniali a
favore dei soci. E’ stato previsto infatti che la disciplina in esame si applichi anche alla società
operative in perdita sistematica per un periodo di tre anni o, nel caso di perdita consecutiva
per due anni, a cui si aggiunge un anno nel quale viene dichiarato un reddito inferiore a quello
minimo stabilito dal comma 3 dell’art. 30 della Legge n. 724/1994. A partire quindi dal quarto
periodo d’imposta tali soggetti in perdita sistemica sono ritenuti automaticamente “non
operativi”, con la precisazione che la società qualora superi il test d’operatività ritorna
operativa e si applica il regime di tassazione ordinario del reddito d’impresa. Inoltre l’aliquota
IRES è stata aumentata di 10,5 punti percentuali per le società che ricadono nel canale delle
società di comodo50. La previsione legislativa ha stabilito delle disposizioni riguardanti il
coordinamento della maggiorazione dell’aliquota, con i modelli applicativi della trasparenza
48
Critico è a riguardo TOSI L., Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., Le
società di comodo (a cura di TOSI L.), Padova, 2008, pag. 1-2, che sottolinea come i continui cambiamenti
dell'istituto in esame evidenzino “(…) un’irrequietezza del legislatore, che però non si traduce in un affinamento
di uno strumento accertativo di natura forfettaria che, in quanto strumento di natura accertativa, viene semmai
peggiorato, specie se raffrontato con i principi costituzionali (...)”.
49
Decreto Legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito in Legge 14 settembre 2011, n. 148.
50
I commi 36-decies e 36-undicies dell’art. 2 del Decreto Legge n. 138/2011 affermano che “pur non ricorrendo i
presupposti di cui all’articolo 30, comma1, della Legge 23 dicembre 1994 n. 724, le società e gli enti ivi indicati
che presentano dichiarazioni in perdita fiscale per tre periodi d’imposta consecutivi sono considerati non
operativi a decorrere dal successivo quarto periodo d’imposta. (…) Restano ferme le cause di non applicazione
della disciplina in materia di società non operative (…)”; “[il comma precedente] trova applicazione anche
qualora, nell’arco temporale di cui al medesimo comma, le società e gli enti siano per due periodi d’imposta in
perdita fiscale ed in uno abbiano dichiarato un reddito inferiore all’ammontare determinato ai sensi [dell’art. 30
in esame]”. Per quanto riguarda poi l’innalzamento dell’aliquota IRES il comma 36-quinquies dell’art. 2 citato
stabilisce appunto che “l’aliquota delle imposte sul reddito delle società di cui all’art. 75 del TUIR, dovute dai
soggetti indicati nell’articolo 30, comma 1, [in esame] è applicata con una maggiorazione di 10,5 punti
percentuali. Sulla quota del reddito imputato per trasparenza ai sensi dell’art. 5 del TUIR dai soggetti indicati
dall’art. 30 comma 1 (…), a società o enti soggetti all’imposta sul reddito delle società trova comunque
applicazione detta maggiorazione”.
18
fiscale e del consolidato domestico, in modo che il reddito generato dalla società non
operativa non sia sottratto a tale innalzamento dell’aliquota attraverso l’opzione di questi
regimi fiscali e contemporaneamente che non sia soggetta invece alla maggiorazione materia
imponibile “non di comodo”51. In ogni caso, anche con l'introduzione di questa nuova
fattispecie, si parla di un’unica disciplina, quella appunto delle società di comodo, nella quale
la presunzione di non operatività può essere originata da due presupposti: il mancato
superamento del test ed il conseguimento di perdite sistematiche. Per quanto riguarda la
reiterazione delle perdite fiscali per più periodi d’imposta si deve sottolineare che essa può
generare il sospetto di una possibile evasione e quindi la possibilità di effettuare determinati
controlli mirati da parte dell’Amministrazione Finanziaria; diversa invece è la scelta che è
stata effettuata dal legislatore di identificare direttamente tali soggetti come non operativi, non
considerando minimante la realtà effettiva in cui versano tali soggetti. Inoltre l’innalzamento
dell’aliquota IRES al 38% evidenzia una grande disparità di trattamento rispetto alle società
ed agli enti operativi, come pure emerge una disparità di trattamento rispetto alle società
personali. E’ stato sottolineato come attraverso l’innalzamento dell’aliquota IRES,
avvicinandola a quella massima IRPEF pari al 43%, si colmerebbe un ipotetico deficit di
tassazione dei frutti che si presumono prodotti attraverso i cespiti patrimoniali intestati alla
società. Tale previsione tuttavia coglie “gli effetti della disposizione, vale a dire le sue
conseguenze pratiche, non già la ratio della medesima”52. L’intervento del 2011 ha di fatto
introdotto delle modifiche che rendono ancora più inaccettabile la disciplina alla luce dei
principi costituzionali, distanziandola sempre di più dal suo fine originario, cioè quello di
contrastare le società “senza impresa”. Di recente con l’art. 12 della Legge Delega 2014 per la
riforma fiscale è stata annunciata “la revisione, razionalizzazione e coordinamento della
disciplina delle società di comodo e del regime dei beni assegnati ai soci o ai loro
51
Il comma 36-quinquies dell’art.2 del Decreto Legge n. 138/2011 prevede che il reddito imputato per
trasparenza ai sensi dell’art. 5 del TUIR da una società di persone di comodo, ad un socio soggetto IRES debba
scontare l’aliquota del 38%. Dal comma 36-sexies al comma 36-octies vengono poi illustrate le varie casistiche
di applicazione dell’aliquota del 38% per i soggetti che hanno optato per la trasparenza fiscale di cui all’art. 115116 TUIR e per la tassazione di gruppo di cui all’art. 117 TUIR. Nel caso dell’opzione per la trasparenza fiscale
di cui all’art. 115-116 TUIR, il soggetto partecipato di comodo applica la maggiorazione del 10,5% al reddito
prodotto versando autonomamente tale importo e poi imputa il reddito per trasparenza alle società partecipanti.
Se invece le società partecipanti al regime della trasparenza fiscale di cui all’art. 115 TUIR risultano essere di
comodo scontano l’aliquota maggiorata del 38% sul reddito prodotto da loro stesse. Invece le società di comodo
consolidate e la società di comodo consolidante, appartenenti ad una fiscal unit, versano separatamente la
maggiorazione del 10,5% sul proprio reddito, così come se la società di capitali appartenente alla fiscal uniti
risulta essere socia di una società di persone di comodo. FERRANTI G., La “stretta” su società di comodo e
beni utilizzati dai soci, in Corr. trib., 2011, 37, pag. 3052. Si veda inoltre la Circolare dell’Agenzia delle Entrate
n.3/E del 4 marzo 2013.
52
BEGHIN M., Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, in FALSITTA G., Manuale di Diritto Tributario.
Parte speciale, Padova, 2013, nota n. 24, pag 726.
19
familiari(…) con l’obiettivo di evitare vantaggi fiscali dall’usodi schermi societari per utilizzo
personale di beni aziendali o società di comodo”. In particolare una prima modifica è già
avvenuta con l’emanazione del Decreto Legislativo sulle semplificazioni fiscali, n.175 del 21
novembre 2014, in vigore dal 13 dicembre 201453. L’art. 18 di tale decreto prevede
l’estensione dell’arco temporale di osservazione a cinque periodi d’imposta per l’applicazione
del regime previsto dall'art. 30 della Legge n. 724/1994 per le società in perdita sistematica,
con decorrenza a partire dal periodo d’imposta 2014. Questo significa che dal 2014 vengono
ritenute società in perdita sistematica non operative quelle che hanno conseguito nei cinque
periodi d’imposta precedenti perdite fiscali consecutive, oppure se le hanno conseguite per
quattro periodi a cui se ne è aggiunto un quinto nel quale il reddito dichiarato risulta inferiore
a quello stabilito dalla normativa in esame. Si vogliono così tenere in considerazione gli
effetti della congiuntura economica che hanno portato ad un aumento delle società in perdita
per più periodi d'imposta consecutivi. Le varie modifiche avvenute nel corso degli anni
evidenziano le problematiche che da sempre hanno caratterizzato questo istituto. Anche
l’ultima riguardante l'estensione del periodo d’osservazione per l’applicazione della disciplina
a società realmente operative, evidenzia come il fine originale per il quale la normativa è stata
introdotta, sia stato travisato e ci sia invece la necessità di un intervento più generale e
sistematico54. Il dato di fatto è che la normativa prevista dall’art. 30 della Legge n. 724 del
1994, nonostante i continui cambiamenti non è riuscita ad affrontare il nocciolo della
questione, cioè quello di contrastare l’abuso del fenomeno societario, valutando in concreto
l’esistenza o meno dello svolgimento dell’attività d’impresa, a prescindere dalla dimensione e
dai beni costituenti la struttura patrimoniale55.
1.3.1 Cenni relativi all’assegnazione dei beni in godimento a soci e familiari ed
all’indeducibilità dei relativi costi per l’impresa
Il Decreto Legge n. 138/2011 ha inoltre introdotto uno specifico regime relativo ai beni
concessi in godimento ai soci e familiari; sembra opportuno accennare a tale disciplina data
53
Tale Decreto Legislativo è attuativo dell’art. 7 presente nella Legge Delega n.23 dell’11 marzo 2014.
POGGIOLI M., Le modifiche apportate dalla legge finanziaria 2008 al regime fiscale delle “società di
comodo”: semplice maquillage o intervento di razionalizzazione del sistema?, in AA.VV., Le società di comodo
(a cura di TOSI L.), cit., pag. 102. Si ribadisce il concetto secondo cui nonostante le continue modifiche che
interessano la normativa delle società di comodo, “(...) tale disciplina continua a rappresentare un inaccettabile
punto d'attrito del sistema impositivo rispetto alle sue fondamenta costituzionali”.
55
DAMIANI M., L’irrazionale assetto della disciplina sulle società di comodo, in Corr. trib., 2013, 39, pag.
3113. Secondo l’autore il legislatore avrebbe dovuto focalizzarsi sull’analizzare l’effettiva esistenza di un’attività
d’impresa, la cui inesistenza poteva già di per sé connotare il difetto di operatività commerciale, e non affidarsi
invece ad un sistema di predeterminazione forfettaria del reddito.
54
20
l’affinità che si può scorgere con la normativa delle società di comodo. Entrambe hanno
l’obiettivo di contrastare il fenomeno dell’immissione dei beni introdotti nel circuito
dell’impresa con destinazione formalmente imprenditoriale, ma che di fatto vengono utilizzati
per esigenze personale dei soci o familiari. Parlando di società non operative si vogliono
ostacolare le strutture societarie che non svolgono attività economico-commerciale, costituite
per poter introdurre nel regime d’impresa beni usati per fini privati. Nel caso invece dei beni
concessi in uso gratuito a soci o familiari si fa riferimento a società sia effettivamente
operative che non, nelle quali ci sono beni utilizzati personalmente per esempio
dall’imprenditore o dai soci, abusando del regime stabilito dall’art. 81 e ss. del TUIR; inoltre
tale disciplina si estende a tutte le ipotesi di collegamento del bene al reddito d’impresa, anche
quando non vi sia coinvolta una struttura societaria. Nello specifico il Decreto Legge n.
138/2011 ha previsto all’art. 2 comma 36-quaterdecies che “i costi relativi ai beni
dell’impresa concessi in godimento a soci o familiari dell’imprenditore per un corrispettivo
annuo inferiore al valore di mercato del diritto di godimento non sono in ogni caso ammessi
in deduzione dal reddito imponibile”. Inoltre il successivo comma 36-quinquiesdecies afferma
che “la differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo concorre alla formazione
del reddito imponibile del socio o familiare utilizzatore ai sensi dell’art 67, comma 1, lettera
h-ter), del Testo Unico delle Imposte sui Redditi”56. Il legislatore ha quindi stabilito da un lato
l’indeducibilità dei costi sostenuti dall’impresa relativi a detti beni, dall’altro lato la
56
Il comma 36-terdecies dell’art. 2 del Decreto Legge n. 138/2011 ha infatti stabilito che all’art. 67 del TUIR
concernente i redditi diversi sia inserita la seguente lettera: h-ter) la differenza tra il valore di mercato e il
corrispettivo annuo per la concessione dei beni dell’impresa a soci o familiari dell’imprenditore. Come stabilito
poi dal Decreto Legge n. 138/2011 all’art. 2 comma 36-sexiesdecies “l’impresa concedente ovvero il socio o il
familiare dell’imprenditore comunicano all’Agenzia delle Entrate i dati relativi ai beni concessi in godimento
(…)”; tale comunicazione doveva essere regolata da un provvedimento emanato dall’Amministrazione entro
sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge. Inoltre il comma 36-septiesdecies specifica che “l’Agenzia delle
Entrate procede a controllare sistematicamente la posizione delle persone fisiche che hanno utilizzato i beni
concessi in godimento e ai fini della ricostruzione sintetica del reddito tiene conto, in particolare, di qualsiasi
forma di finanziamento o capitalizzazione effettuata nei confronti della società (…)”. In particolare l’Agenzia
delle Entrate ha emanato un primo Provvedimento, il n. 166485/2011, superato da due successivi provvedimenti
del 2013, uno concernente la comunicazione dei beni concessi in godimento ai soci e familiari ed un altro
specifico per la comunicazione dei finanziamenti e degli apporti di capitale effettuata dai soci. Nel protocollo n.
2013/94902 è stato stabilito che l’obbligo di comunicazione dei beni utilizzati in godimento da parte dei soci o
familiari deve essere coordinato con la normativa presente in materia di redditi diversi e redditi d’impresa.
L’obbligo della comunicazione è relativo solo ai beni concessi in godimento per un corrispettivo inferiore al
valore di mercato del relativo diritto alle persone fisiche. Sono escluse le società socie non essendo titolari di
redditi diversi, come pure i beni relativi all’impresa utilizzati dall’imprenditore individuale. Inoltre nell’ultima
parte di tale provvedimento è riportato un elenco analitico relativo alle “esclusioni oggettive” dall’obbligo
comunicativo. Si fa riferimento per esempio ai beni concessi in godimento agli amministratori; al socio
dipendente o lavoratore autonomo, nel caso in cui i predetti beni costituiscano fringe benefits assoggettati alla
disciplina prevista dall’art. 51-54 del TUIR; all’imprenditore individuale; ai beni, diversi da autovetture,
autoveicoli, unità da diporto, aeromobili ed i mobili il cui valore al netto dell’IVA non è superiore ai tremila
euro. ANDREANI G. e TUBELLI A., Obblighi ed esenzioni per la comunicazione dati dei beni in godimento ai
soci e dei versamenti, in Corr. trib., 2014, 41, pag. 3149.
21
costituzione di un reddito diverso in capo al socio o familiare dell’imprenditore che li detiene
gratuitamente o per un importo inferiore a quello di mercato; si fa riferimento a beni che non
fuoriescono dal regime d’impresa altrimenti il problema non si pone, trovando attuazione la
disciplina prevista dagli articoli 85 ed 86 del TUIR, relativa ai ricavi ed alle plusvalenze
patrimoniali57. A seguito dell’emanazione di tale previsione normativa l’Agenzia delle Entrate
è intervenuta prima con la Circolare n. 24/E del 15 giugno 2012 e poi con la successiva n.
36/E del 24 settembre 2012 per fornire delucidazioni in merito. Nell’analisi effettuata
dall’Amministrazione Finanziaria si evidenzia che gli utilizzatori dei beni interessati dalla
disposizione sono: i soci sia residenti che non nel territorio dello Stato di società ed enti
residenti che svolgono attività commerciale, nonché i familiari 58, sempre residenti e non dei
soci citati precedentemente; i familiari residenti e non nel territorio dello Stato
dell’imprenditore individuale residente, come pure il titolare stesso dell’impresa individuale
che utilizza i beni della impresa commerciale59. Devono poi essere considerati anche i soci e
familiari che ricevono in godimento i beni da parte di società controllate o collegate ai sensi
dell’art. 2359 del Codice Civile a quelle partecipate dai medesimi soci. I soggetti concedenti
interessati dalla disciplina sono invece le società di capitali e di persone, l’imprenditore
individuale, le società cooperative, gli enti privati limitatamente ai beni relativi alla sfera
commerciale qualora siano residenti nel territorio dello Stato e le stabili organizzazioni di
società non residenti; non rientrano le società semplici, dal momento che non svolgono
attività d’impresa e le società non residenti prive di stabile organizzazione in Italia 60. Inoltre i
beni d’impresa oggetto della disciplina sono i beni-merce, i beni-strumentali e gli immobili57
Evidenzia BEGHIN M., Il reddito d’impresa - per l’università e per la preparazione all’esercizio delle
professioni economico-giuridiche, Torino, 2014, pag. 93 nota n. 40, come la struttura lessicale scelta dal
legislatore faccia emergere alcune problematiche. Il dato normativo parla di beni d’impresa, tralasciando le
prestazioni di servizi pagate dalla società di cui i soci possono beneficiarne. Questi costi non sono comunque
deducibili per l’impresa, tuttavia non possono generare per il socio utilizzatore redditi diversi da ricondurre
all’art.67, comma 1, lett. h-ter, dal momento che la disposizione parla di beni dell’impresa e non di prestazioni di
servizi. Inoltre la previsione normativa fa riferimento al “corrispettivo annuo”, non considerando, se non
attraverso un’interpretazione forzata, i casi in cui i beni vengano concessi ai soci per un periodo di tempo
inferiore. La disposizione sembra quindi riferirsi alle concessioni caratterizzate da una certa stabilità temporale,
mentre non sembra prendere in considerazioni le situazioni nelle quali il socio detiene in concessione il bene per
un periodo limitato di tempo.
58
L'art. 5 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, nell'ultimo comma precisa che “(...) si intende per familiare,
ai fini delle imposte sui redditi, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado”.
59
FERRANTI G., Chiarita la disciplina dei beni concessi in godimento a soci e familiari, in Corr. trib., 2012, 29,
pag. 2205. Viene evidenziato che l’ipotesi di considerare interessati da tale normativa anche i familiari dei soci
sembra andare oltre il tenore letterale della norma che si riferisce solo ai “soci e familiari”. L’inclusione invece
del titolare dell’impresa individuale che utilizza i beni della sua impresa commerciale si ritiene sia stata adottata
perché tale posizione risulta nella sostanza coincidente con quella dei soci delle società personali.
60
Con riferimento a quest’ultima ipotesi potrebbe accedere che la società concedente risulti intestataria di beni,
magari situati nello stesso territorio delle Stato e fungere da “schermo” per quei soci residenti che continuano a
beneficiare di quei beni e la cui capacità contributiva rimane inespressa. FERRANTI G., Società di comodo e
beni ai soci: i chiarimenti di Assonime, in Corr. trib., 2013, 27, pag. 2119.
22
patrimonio61; si tratta di beni che sono nella disponibilità dell’impresa, posseduti a titolo di
proprietà o in base ad un titolo reale oppure detenuti in locazione, anche finanziaria,
noleggiati o ricevuti in comodato. Per le società di persone e di capitali si fa quindi
riferimento a tutti i beni ad esse appartenenti, mentre per l’imprenditore individuale si
considerano relativi all’impresa i beni indicati nell’inventario, secondo quanto stabilito
dall’art. 65 del TUIR. Riguardo alla previsione dell’indeducibilità dei costi per l’impresa
relativi ai beni concessi in godimento, essa si riferisce non solo al costo sostenuto per il loro
acquisto, ma anche per le eventuali altre spese e componenti negative relative agli stessi,
come per esempio le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria, quelle di gestione62.
Tuttavia si deve evidenziare che nel caso in cui beni siano già sottoposti ad un regime di
deducibilità limitata prevista dal Testo Unico delle Imposta sui redditi, l’indeducibilità
prevista dal Decreto Legge n. 138/2011 non trova attuazione; è il caso per esempio della
concessione in godimento degli autoveicoli che rientrano nel regime di non deducibilità
stabilito dall’art. 164 del TUIR. Nello specifico l’importo di costo indeducibile per l’impresa
si ottiene applicando all’ammontare dei costi relativi ai beni concessi in godimento la
percentuale che deriva dal rapporto tra la differenza del valore di mercato del diritto di
godimento ed il corrispettivo pattuito e tassato dalla società ed il valore di mercato stesso63.
Nel caso in cui il bene sia concesso in godimento a soci o familiari da una società di persone o
da una società a responsabilità limitata che abbia optato per il regime della trasparenza
previsto dall’art. 116 del TUIR, il maggior reddito d’impresa relativo all’indeducibilità del
costo di tali beni deve essere imputato solo al socio utilizzatore, anche qualora sia utilizzato
dai familiari dello stesso. Oltre a questa penalizzazione prevista in capo alla società come
previsto dalla normativa anche il socio o il familiare viene tassato in misura pari alla
differenza tra il valore di mercato ed il corrispettivo annuo relativo al godimento del bene.
61
Con il termine bene-merce si intende il bene acquistato o prodotto dall’impresa, destinato ad uscire dal circuito
produttivo generando ricavi. Il termine bene-strumentale si riferisce invece a beni durevoli destinati a rimanere
per un certo arco temporale nel patrimonio della società, utilizzati per produrre altri beni o erogare servizi; detti
beni ad utilità pluriennale incidono nel risultato d’esercizio attraverso le quote d’ammortamento e la loro
cessione genera plusvalenze o minusvalenze. Infine gli immobili-patrimonio rappresentano il patrimonio della
società, non partecipano al processo produttivo e con la loro cessione viene registrata una plusvalenza o una
minusvalenza.
62
E’ da sottolineare che ai fini IVA è presente una norma analoga. L’art.4, quinto comma, del D.P.R. n. 633/1972
stabilisce che non è detraibile l’IVA pagata per l’acquisto di beni quali gli immobili, la unità da diporto, gli
aeromobili, messi a disposizione del socio gratuitamente o per un importo inferiore al valore normale.
FERRANTI G., La “stretta” sulle società di comodo e beni utilizzati dai soci, in Corr. trib., 2011, 37, pag. 3052.
63
Il valore di mercato è determinato secondo quanto stabilito dall’art. 9 comma 3 del TUIR, il quale afferma che
“per valore normale (…) si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e servizi della stessa
specie o similari, in condizione di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione (…).
[Inoltre] per la determinazione del valore normale si fa riferimento in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del
soggetto che ha fornito i beni (…)”.
23
Tale valore confluisce nella determinazione del reddito della persona fisica come reddito
diverso. L’art. 67, comma 1, lett. h-ter trova attuazione anche se in relazione allo stesso bene è
prevista una limitazione alla deducibilità dei costi per l’impresa, eccezione fatta per l’ipotesi
in cui il soggetto sia al contempo dipendente della società o lavoratore autonomo in quanto in
quest’ipotesi trova attuazione la disciplina prevista negli articoli 51 e 54 del TUIR. Dopo aver
illustrato brevemente la normativa sembra opportuno fare alcune considerazioni riguardo a
tale disposizione, anticipando alcune riflessioni che verranno riprese di seguito trattando la
compatibilità della disciplina delle società di comodo con i principi costituzionali. La finalità
dell’intervento è quella di scoraggiare l’utilizzo di beni non impiegati nell’esercizio
dell’impresa ma per fini personali. Si tratta di beni effettivamente acquistati dalla società, la
quale li pone gratuitamente in uso ai soci, senza che vi sia uno stabile distacco del bene dal
circuito produttivo e senza che vi sia alcuna manipolazione della volontà essendo i beni
intestati alla struttura societaria e non al socio o familiare. Non c’è quindi interposizione
fittizia, si è invece di fronte ad un “impiego abnorme dello strumento societario” rispetto a
quanto stabilito nell’atto costitutivo: i beni la cui titolarità è appunto della società vengono
messi a disposizione dei soci e vengono così estraniati dal circuito produttivo dell’impresa64.
Fin prima dell’introduzione della previsione legislativa del 2011 l’utilizzo dei beni d’impresa
per il godimento personale dei soci o familiari comportava già l’indeducibilità di tale costo
per la società, mancando il requisito dell’inerenza, dato che l’utilizzo avveniva per finalità
estranee all’esercizio imprenditoriale65. Non vi era alcuna conseguenza diretta invece in capo
al socio che poteva impiegare tali beni, senza il pagamento di un corrispettivo o
corrispondendone uno in misura inferiore al valore di mercato66. Il regime d’imposizione
64
BEGHIN M., Il reddito d’impresa - per l’università e per la preparazione all’esercizio delle professioni
economico-giuridiche, cit., pag. 90 e ss.. Nel caso delle intestazioni societarie di comodo non si è di fronte al
fenomeno di interposizione fittizia, con la relativa applicazione dell’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 nel
quale è stabilito che “(…) sono imputati al contribuente i redditi cui appaiono titolari altri soggetti quando sia
dimostrato (…), che egli è l’effettivo possessore per interposta persona”. I beni appartengono alla società, non
c’è nascondimento o manipolazione della volontà. Si è di fronte all’opacizzazione del “(…) programma della
società, allontanandola da quella logica lucrativa che connota l’attività economica [e] declinano altresì in una
situazione di chiara anomalia gestionale, perché il soggetto che utilizza in concreto il bene non coincide con il
soggetto il quale dispone, in relazione al medesimo cespite, del valore fiscalmente riconosciuto”.
65
La deduzione dei costi dal reddito d’impresa è ammessa a condizione che siano rispettati tre requisiti: il
principio di inerenza, di previa imputazione in conto economico e di correlazione. Questi ultimi due sono
previsti nel comma 4 e 5 dell’art. 109 del TUIR, mentre il principio di inerenza non è formalizzato in una
disposizione tributaria e lo si applica attraverso il principio di derivazione. Un costo è inerente se collegato
all’esercizio dell’attività d’impresa e quindi all’esercizio dell’attività economica. Nella pratica il principio di
inerenza è collegato a quello di correlazione stabilito nel comma 5 dell’art. 109 del TUIR il quale stabilisce che
“le spese e gli altri componenti negativi diversi (…) sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad
attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi
concorrono in quanto esclusi (…)”.
66
Come evidenzia STEVANATO D., Riflessioni “a caldo” sui flussi reddituali dei beni d’impresa concessi in
godimento ai soci, in Dialoghi dir. trib., 2011, 5, pag. 502, in questo modo i soci potevano effettuare atti di
24
previsto dal Decreto Legge n. 138/2011 basa la propria logica non sul “valore” del bene
acquistato dalla società, ma in relazione ai potenziali flussi reddituali che derivano dal
possesso del bene, in connessione con il suo valore d’uso e sul fatto che quel bene è stato
concesso in godimento per un valore inferiore a quello di mercato. In questo caso quindi
l’elemento dirimente non è rappresentato dalla forma negoziale prescelta per la concessione,
ma dalla finalità per la quale si realizza l’operazione, che è appunto quella di destinare il bene
d’impresa a vantaggio del socio o del familiare e nella quale non si realizza una fuoriuscita
effettiva del bene dal patrimonio societario. La previsione stabilita dall’art. 2 comma 36quaterdecies e seguenti del Decreto Legge n. 138/2011 non può essere identificata come una
normativa connaturata al sistema di determinazione del reddito d’impresa; essa rappresenta
uno strumento di contrasto a quelle operazioni caratterizzate dall’incoerenza tra la formale
intestazione del bene all’impresa ed il sostanziale utilizzo dello stesso per finalità extraimprenditoriali. Partendo dalla previsione dell’indeducibilità integrale dei costi, si ritiene che
il legislatore abbia formalizzato la “presunzione” secondo la quale le assegnazioni dei beni ai
soci o familiari si pongono al di fuori dell’attività d’impresa ed avvengono normalmente per
soddisfare necessità personali, di conseguenza non devono essere dedotti tali componenti
negativi dal reddito d’impresa67. Con la nuova disciplina si è inteso stabilire l’automatica
indeducibilità “in ogni caso” dell’intero costo sostenuto dalla società, eliminando dubbi e
contestazioni che potevano derivare dalla possibilità di prevedere l’imponibilità della
differenza tra il valore di mercato del bene concesso ed il corrispettivo pattuito68.
L’indeducibilità del costo di tali beni è motivata dal fatto che essi non contribuiscono
all’attuazione del programma societario, non sono poi oggetto di commercializzazione e nel
consumo privato, grazie ad utili che non avevano scontato il secondo livello di tassazione in capo ai soci
medesimi. Cioè attraverso la collocazione dei beni suscettibili di godimento privato intestati alla società, il socio
persona fisica non ha il bisogno di appropriarsi anche degli utili prodotti dalla società stessa, scontando così
l’IRPEF o l’imposta sostitutiva sulla quota del dividendo. In questo modo viene schermata attraverso
l’intestazione societaria il consumo finale del bene e la tassazione si assesta solo a livello di IRES evitando il
secondo livello d’imposizione.
67
D’ANGELO G., Il nuovo regime fiscale della concessione in godimento di beni d’impresa a soci e familiari, in
Rass. trib., 2013, 4, pag. 769. Le specifiche previsioni legislative relative all’indeducibilità dei costi di
determinati beni d’impresa sono state introdotte in ragione dell’inerenza del bene allo svolgimento dell’attività e
presentano un maggior grado di specificità rispetto alla previsione stabilita dal Decreto Legge n. 138/2011. In
questo senso dovrebbe essere letta l’indeducibilità integrale, che dovrebbe trovare attuazione solo in quei casi in
cui il bene non sia già soggetto ad altre limiti di deducibilità.
68
Come viene evidenziato da FERRANTI G., Società di comodo e beni ai soci: i chiarimenti di Assonime, pag.
2119, cit., in presenza di un corrispettivo inferiore al valore normale relativo alla concessione del bene in
godimento ai soci prima dell’introduzione dello specifico regime oggetto d’analisi nel presente paragrafo,
l’Amministrazione Finanziaria avrebbe potuto accertare un maggior componente di reddito in capo all’impresa,
applicando il principio più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui è possibile sindacare la
congruità dei componenti di reddito risultanti dalla contabilità in presenza di comportamenti antieconomici dei
contribuenti.
25
caso di beni strumentali, l’utilizzo da parte del socio comporta la non immissione di quei
cespiti nell’attività produttiva della società. Attraverso tale previsione legislativa il requisito
della non inerenza del costo del bene rispetto all’attività d’impresa è stabilito quindi in modo
automatico dal legislatore, in tutti i casi nei quali si riscontrano intestazioni societarie “di
comodo”. E’ stata inoltre sottolineato che tale integrale indeducibilità appare eccessiva e può
dare origine a doppie imposizioni; la differenza tra il valore di mercato ed il corrispettivo
pattuito per l’utilizzo di quel determinato bene costituisce reddito in capo al socio e
contemporaneamente per la società il corrispettivo pattuito genera un componente positivo di
reddito69. In aggiunta all’indeducibilità dei costi per l’impresa, come detto precedentemente, è
stato previsto che il godimento del bene da parte del socio o familiare generi in capo a
quest’ultimo un reddito figurativo, connesso alla disponibilità di averlo ottenuto in modo
gratuito o per un valore inferiore a quello di mercato, che rientra tra i dei redditi diversi. Dal
lato della società l’utilizzo del bene da parte del socio o del familiare rappresenta un costo
figurativo, pari al suo mancato sfruttamento economico; nel caso in cui la società ne avesse
avuto la disponibilità concreta e lo avesse utilizzato avrebbe potuto produrre un utile da
assoggettare ad IRES, che in una fase successiva sarebbe stato distribuito al socio per potergli
consentire di reperire nel mercato un bene analogo a quello posseduto dalla società. Tuttavia
quello che si deve sottolineare è che qualora il bene fosse stato posseduto dal socio
direttamente non avrebbe generato alcun reddito tassabile, mentre nel caso in esame questo si
trasforma in una fonte di reddito figurativa. Nella categoria dei redditi diversi confluiscono
attività fiscalmente rilevanti relative a “somme incassate” o ad “ammontare percepiti”, la
previsione di inserire in tale fattispecie di reddito il valore di mercato del bene concesso in
uso gratuito all’utilizzatore o la differenza tra tale valore ed il corrispettivo pattuito appare
fuorviante dal momento che viene sottoposto ad imposizione un reddito che non è stato
concretamente acquisito. La disposizione prevista dal Decreto Legge n. 138/2011 non
considera che la tassazione del reddito presuppone l’incremento del patrimonio70. Attraverso
la normativa prevista dalla lettera h-ter dell’art. 67 del TUIR si considera materia imponibile
non l’incremento del patrimonio del soggetto passivo, ma il mero risparmio di spesa dal
momento che è solo nell’ipotesi in cui il socio non corrisponda nulla o spenda in misura
69
A parere di STEVANATO D., Riflessioni “a caldo” sui flussi reddituali dei beni d’impresa concessi in
godimento ai soci, cit.,pag. 502. sarebbe stato preferibile prevedere un regime di indeducibilità parziale che
tenesse conto “dell’utilizzo per così dire promiscuo del bene, i cui frutti potenziali vengono in parte monetizzati
come proventi tassabili, ed in parte rinunciati e devoluti a priori al socio”.
70
Riguardo alla definizione di reddito FALSITTA G., Corso istituzionale di diritto tributario, Padova, 2012, pag.
400 e ss., sottolinea che esso rappresenta “un incremento del patrimonio della persona, è un quid novi che si
aggiunge al patrimonio che già possedeva all’inizio del periodo d’imposta, incrementandolo”.
26
minore rispetto al valore di mercato per l’utilizzo del bene societario che si concretizza la
fattispecie del reddito diverso. Questo reddito soggetto a tassazione non deriva dal possesso
del bene, dato che quest’ultimo è intestato alla società e nemmeno scaturisce dalla sua
disponibilità a cui faccia seguito l’esborso delle spese del mantenimento, essendo possibile
che dette spese gravino totalmente sull’effettivo proprietario, quindi sull’impresa. Tassare un
risparmio di spesa, quale è appunto il reddito diverso che deriva dalla differenza tra il valore
di mercato ed il corrispettivo pattuito non significa tassare reddito, perché quest’ultimo
presuppone un accrescimento del patrimonio nel periodo d’imposta71. Operando in questa
direzione viene meno anche il rispetto del principio della capacità contributiva, il quale
presuppone che il reddito consista in un effettivo incremento della ricchezza in capo al
soggetto passivo. Il legislatore è libero di scegliere cosa sottoporre a tassazione, attraverso
specifici interventi nelle diverse categorie di reddito previste dall’art.6 del TUIR, tuttavia il
reddito fiscalmente rilevante deve essere connesso alla realtà, deve essere effettivo e concreto,
misurabile cioè attraverso un incremento reale della ricchezza ascrivibile al contribuente. La
previsione di tassare il socio o il familiare attraverso l’imputazione di un reddito diverso
significa tassare un reddito fittizio, creato “a tavolino”, trascurando il dato economico
esistente in natura72. Sembra quindi che la previsione di tassare il socio sia quella di
osteggiare con la leva fiscale le intestazioni societarie “di comodo”; la previsione dell’art. 67,
comma 1, lett. h-ter del TUIR svolge quindi una funzione deterrente. L’introduzione del
legislatore di tale apposito regime rappresenta quindi un’ulteriore misura contro l’utilizzo
improprio dei beni e delle strutture societarie come schermi. All’inizio del paragrafo è stata
evidenziata l’affinità di tale disciplina con quella delle società di comodo, dal momento che
entrambe mirano a contrastare in gran parte fenomeni coincidenti. E’ anche possibile che le
due discipline si sovrappongano, nel caso di assegnazione dei beni in godimento ai soci
potrebbe infatti accadere che la società non riesca a realizzare i ricavi minimi presunti
risultando quindi società di comodo. In questo caso alla tassazione prevista dall’art. 30 della
legge n. 724 del 1994 si aggiunge quella ulteriore dovuta alla non deducibilità dal reddito
71
BEGHIN M., Le intestazioni societarie di “comodo” nel D.L. n. 138/2011 tra difetto di inerenza e resistibile
tassazione dei risparmi di spesa, in Riv. dir. trib., 2012, 2, pag. 141. Secondo l’autore il soggetto che utilizza in
modo gratuito i beni della società o per un importo inferiore rispetto al valore di mercato sta risparmiando, non
sta incrementando il proprio patrimonio, lo sta preservando. “Senza un effettivo aumento della ricchezza, il
reddito è soltanto chimera, vale a dire pura illusione”.
72
BEGHIN M., I rapporti tra società e soci: a piccoli passi verso lo smantellamento del concetto di reddito, in
Corr. trib., 2012, 14, pag. 1059. L’autore evidenzia che il reddito per poter essere tassato deve essere
rappresentativo di un incremento della ricchezza ascrivibile al contribuente. Se non c’è arricchimento non può
esserci nemmeno tassazione. Viene inoltre evidenziata la forzatura di porre a tassazione il risparmio di spesa, che
non è un incremento di ricchezza e non si può “superare [tale forzatura]mediante la semplicistica affermazione
per la quale è “reddito” ciò che qualifica il legislatore come tale”.
27
d’impresa dei costi relativi ai beni utilizzati gratuitamente dai soci, oltre alla tassazione del
reddito diverso in capo alla persona fisica. E’ stata evidenziata la sproporzione di tale risultato
e la possibile soluzione di prevedere l’alternatività tra le due discipline, escludendo dal
computo dell’applicazione ai fini del test d’operatività la quota di patrimonio corrispondente
ai beni concessi in godimento ai soci73.
Dall’analisi effettuata sembra che il nuovo regime previsto per i beni concessi in godimento ai
soci abbia una finalità sanzionatoria, legata all’esigenza di ostacolare gli effetti prodotti dagli
schermi societari; tuttavia tale chiave di lettura non può essere accettata dal momento che non
è corretto identificare il tributo come strumento di punizione. Se si vuole utilizzare una norma
per contrastare fenomeni che portano a situazioni di vantaggio fiscale, come in questo caso,
deve essere prevista la disapplicazione degli aspetti favorevoli del regime abusivamente
utilizzato, ma non ci si può spingere oltre prevedendo ulteriori conseguenze negative. Fino a
quando non viene dimostrata l’interposizione fittizia il socio non è possessore dei beni, che
appunto sono intestati effettivamente alla società, di conseguenza non appare condivisibile
l’imputazione in capo allo stesso di alcun reddito. L’assetto della disciplina relativa
all’assegnazione dei beni ai soci o familiari non appare proporzionata rispetto al fine stesso
per la quale è stata introdotta. Stante l’oggettiva difficoltà dell’Amministrazione Finanziaria
di reprimere ed ostacolare le intestazioni societarie di comodo, si può ritenere ragionevole la
previsione dell’indeducibilità dei costi in capo all’impresa dei beni concessi in godimento.
Tuttavia il legislatore doveva fermarsi a questa previsione e non introdurre la tassazione anche
in capo al socio o familiare; attraverso l’azzeramento dei costi deducibili si eliminano già i
vantaggi derivanti dall’immissione del bene nel reddito d’impresa e procedendo in questa
direzione si finisce col tassare ricchezza inesistente74.
1.4 “Società di comodo” e “società non operative”: termini differenti per descrivere lo
stesso fenomeno?
Dopo aver fatto un excursus normativo relativo alla disciplina delle società di comodo ed aver
73
E’ questo quanto sostiene D’ANGELO G., Il nuovo regime fiscale della concessione in godimento di beni
d’impresa a soci e familiari, cit., pag. 769, secondo cui data la duplicazione della tassazione che ne deriva si
potrebbe applicare la disciplina delle società di comodo considerando la fruttuosità presunta di alcuni beni già
oggetto di tassazione in capo ai soci come reddito diverso.
74
BEGHIN M., I rapporti tra società e soci: a piccoli passi verso lo smantellamento del concetto di reddito, cit.,
pag. 1059. “L’oggettiva difficoltà per l’Amministrazione finanziaria di individuare le fattispecie riconducibili
alle intestazioni societarie di comodo certamente poteva essere affrontata anche mediante provvedimenti che
incidano sulla deducibilità dei costi sopportati dalla società. Ma tale limite non può essere superato sotto la
bandiera dell’interesse fiscale fino all’istituzione di norme volte a tassare meri risparmi di spesa, vale a dire
fattispecie che non hanno incrementato il patrimonio del soggetto passivo”.
28
accennato al regime dei beni concessi in godimento a soci e familiari, sembra opportuno
addentrarsi nella tematica, iniziando con l’effettuare alcune considerazioni riguardanti le
nozioni di “società di comodo” e “società non operative”. Nella rubrica dell'art. 30 della
Legge n. 724 del 1994 viene utilizzato il termine “società di comodo”, mentre nel testo della
disposizione quello di “non operative”; tali termini vengono talvolta usati alternativamente sia
dal Legislatore che dall'Amministrazione Finanziaria75. Sarebbe più corretto non
commistionarne l’utilizzo, dato che possono manifestare alcuni tratti differenti, come distinti
sono i fenomeni dell’interposizione soggettiva e del mero godimento in assenza d’impresa.
Nel primo caso, che interessa tutti i settori economici, determinanti appaiono le ragioni per
cui il contribuente decide di dare un determinato assetto giuridico ai propri interessi, mentre la
seconda ipotesi è diffusa soprattutto nel settore immobiliare e finanziario. La società “non
operativa” sembra riguardare situazioni riconducibili al mero godimento dei beni, nelle quali
non viene svolta un’attività economica di natura imprenditoriale o comunque l’attività è
limitata e non giustifica il possesso di beni durevoli. L’espressione “di comodo” allude invece
all'interposizione soggettiva; l’assetto societario funge da copertura e manifesta un carattere
fittizio rispetto alla configurazione effettiva, nella quale i reali proprietari dei beni sociali sono
una o più persone fisiche che li utilizzano per i propri fini personali76. Risulta opportuno
accennare alla distinzione tra interposizione fittizia ed interposizione reale proprio per
comprenderne le differenze e riuscire ad inquadrare meglio il fenomeno della “non
operatività” delle società e la differenza delle espressioni “di comodo” e non operativa”.
L’interposizione fittizia si realizza quando il negozio giuridico è concluso apparentemente da
un soggetto con un altro, che assume la posizione di interposto, ma in realtà è concluso da una
diversa persona, che è l’interponente e che rimane occultata ai terzi. L’interposto quindi, in
base alla situazione esteriore, risulta essere il contraente dell’atto negoziale, mentre nella
situazione sostanziale è il soggetto interponente, il reale contraente, che non volendo figurare
nel contratto, cela la propria identità dietro ad un prestanome. L’interposizione soggettiva è
originata da un accordo simulatorio tra tre soggetti: il contraente apparente, il contraente
effettivo e la controparte. Gli effetti del negozio giuridico che derivano dall’accordo tra le tre
parti sorgono esclusivamente nei confronti dell’interponente e l’interposto rappresenta uno
75
Sul punto vedi per tutti TOSI L., Le predeterminazioni normative nell'imposizione reddituale. Contributo alla
trattazione sistematica dell’imposizione su basi forfettarie, cit., pag. 354. CERMIGNANI M., Il regime fiscale
delle società di comodo: ratio, attualità e prospettive, cit., pag. 1-255. L'autore sottolinea come i termini società
di comodo e società non operative siano considerati “termini equipollenti, fungibili” dallo stesso Legislatore e
dall'Agenzia delle Entrate.
76
TOSI L., Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo (a
cura di TOSI L.), cit., pag. 5.
29
schermo, il quale non acquista e trasmette diritti. L’interposizione fittizia o soggettiva si
differenzia dall'interposizione reale77, dove la persona interposta, d’accordo con
l’interponente, risulta effettivamente il reale contraente verso i terzi, acquista i diritti nascenti
dal contratto ma è tenuta a ritrasferirli all’interponente. La posizione giuridica che quindi ha
l’interposto in questo caso è differente dalla posizione economica proprio perché è tenuto a
trasmettere i risultati conseguiti dell’attività all’interponente. In questo caso la conoscenza o
meno per il terzo dell’accordo tra l’interponente e l’interposto non rileva ai fini dell’efficacia
dell'atto78. Rispetto alla tematica dell’interposizione fittizia si deve sottolineare che l’art. 37,
comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 prevede che gli uffici finanziari possano superare
l’apparente titolarità del reddito quando viene dimostrato chi è effettivamente il possessore:
“in sede di rettifica o d’accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi cui
appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni
precise, gravi e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”.
Attraverso questa disposizione si vuole quindi fare riferimento alla specifica ipotesi
dell’interposizione
fittizia,
quale
espressione
della
simulazione,
prevedendo
che
l’interposizione soggettiva venga combattuta attraverso il potere di superamento di una realtà
che risulta fittizia79. E’ stato evidenziato che applicare l’art. 37 comma 3 citato alle fattispecie
dell’interposizione reale significherebbe modificare “surrettiziamente la definizione stessa del
presupposto dell’imposta sui redditi così come stabilita dal TUIR”, in quanto si imputerebbe il
reddito non solo al titolare di tale reddito e quindi all’interponente, ma anche a chi non lo è,
da un punto di vista giuridico e quindi all’interposto, che ha appunto l’obbligo di trasmettere i
risultati ottenuti dall’attività all’interponente stesso80. La previsione stabilita dall’art. 37,
77
Come per esempio nel caso del contratto di mandato, disciplinato dall'art. 1703 e ss. Cod. Civ.
PAPARELLA F., Punti fermi della cassazione sull’art. 37, comma 3, del D.P.R. n .600 del 1973, in Rass. trib.,
2000, 4, pag. 1273. L’interposizione reale si differenzia dall’interposizione fittizia proprio perché non si è in
presenza di uno schema simulatorio. Nell’interposizione fittizia invece l’intervento dell’interposto è simulato in
quanto chi contratta è in realtà l’interponente. “L’interposizione fittizia è quella forma di simulazione relativa
riguardante i soggetti realizzata attribuendo la posizione di destinataria dell’atto ad una parte che rappresenta
un nuntius in luogo dell’effettiva”.
79
BASILAVECCHIA M., L’interposizione soggettiva riguarda anche comportamenti elusivi?, in Corr. trib.,
2011, 36, pag. 2968. Si evidenzia che l’applicazione dell’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 si riferisce
alla specifica fattispecie dell’interposizione fittizia e non dell’interposizione reale. Tale disposizione opera quindi
come fattore di contrasto nelle situazioni in cui la titolarità del reddito è solo apparente ed è diversa invece dalla
titolarità effettivamente accertabile, che riguarda il soggetto interponente. Quindi con l’interposizione fittizia ci
si trova di fronte ad una situazione apparente che è diversa da quella reale, mentre nell’interposizione reale la
sostanza e la forma coincidono.
80
“Si riconoscerebbe in particolare la facoltà dell’ufficio di superare l’impostazione casistica, che caratterizza il
sistema delle imposte sui redditi, imputando il reddito non al (solo) titolare di esso (in quanto possessore), ma
anche a chi tale reddito non possiede in senso giuridico-formale o, comunque, lo possiede solo
utilitaristicamente per essere titolare del diritto alla retrocessione”. Così GALLO F., Prime riflessioni su alcune
recenti norme antielusive, in Dir. prat. trib., 1992, I, pag. 1761 e spec. 1770.
78
30
comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 contrasta quindi le situazioni giuridiche connotate da
un’intesa simulatoria, nella quale il profilo apparente dell’atto è differente da quello invece
effettivo voluto dalle parti. Ritornando all’assimilazione della nozione di società di comodo
all'interposizione fittizia, già in passato, prima dell'introduzione della Legge n. 724/1994,
erano state fatte alcune considerazioni; in particolare il Professore Victor Uckmar in un
convegno svoltosi a Torino nel 1981 aveva trattato tale tematica. Oggetto del dibattito era
l’evasione fiscale, la repressione penale e nello specifico che ci riguarda, se potesse costituire
o meno frode fiscale l’occultamento dei redditi mediante interposizioni fittizie o attraverso
società costituite o utilizzate esclusivamente per tale fine. Veniva quindi discussa
l’equiparazione dell’interposizione fittizia, quale strumento possibile per l’intestazione del
cespite produttivo di reddito ad un soggetto interposto, al fenomeno delle società appunto
dette “di comodo” proprio perché sorte per attribuire tali beni ai non reali utilizzatori. Si tratta
di schermi societari sorti per intestare cespiti autonomamente produttivi, quali quelli
immobiliari o le partecipazioni societarie81. Veniva così già evidenziato all’epoca che lo
sviluppo delle società di comodo era determinato da ragioni di carattere fiscale; la crescente
pressione tributaria aveva portato all’utilizzo degli schermi societari per ridurre gli oneri,
attraverso un prelievo proporzionale e non progressivo, come nel caso delle persone fisiche e
per poter acquisire vantaggi derivanti per esempio dalla rivalutazione dei cespiti o dal riporto
in avanti delle perdite82. Il mero godimento non ricade invece nel fenomeno
dell’interposizione fittizia e questo si ritiene possa essere confermato proprio dal fatto che il
legislatore per tale fattispecie ha deciso di introdurre la disciplina ad hoc prevista dall'art. 30
della Legge n. 724/1994, con l’obiettivo di ostacolare tali società non operative, attraverso
una tecnica legislativa estranea alla tematica interpositoria83. Non si può parlare per le società
“non operative” di mero godimento, di simulazione dato che i beni appartengono
concretamente alla società, che rappresenta il contraente effettivo rispetto al venditore del
81
Tali società non devono essere confuse con quelle anomale a ristretta base azionaria, denominate anche società
“familiari” o “fasulle” o “apparenti” o “etichetta”, perché la caratteristica essenziale delle società di comodo è
appunto l'essere delle società non imprenditoriali, cioè non produttive. NUSSI M., L’imputazione del reddito nel
diritto tributario, cit., pag 529.
82
UCKMAR V., “L’interposizione fittizia” e le “società di comodo” quali ipotesi di reato fiscale, in AA.VV.,
Evasione fiscale e repressione penale. Atti del convegno di Torino( 7-8 marzo 1981) (coordinato da UCKMAR
A. e V., Padova, 1982,pag. 161e ss.. Con riguardo alla questione trattata nel convegno e cioè che l'interposizione
fittizia e le società di comodo costituiscano o meno reato, si è giunti a stabilire che è necessario l'occultamento
del possesso dei redditi e con rifermento specifico alle società di comodo, esse devono essere costituite
esclusivamente per tale fine.
83
NUSSI M., L’imputazione del reddito nel diritto tributario, cit., pag 527 e ss; rileva infatti l'autore che “(...) la
problematica delle società di mero godimento non va assolutamente confusa con le fattispecie a rilevanza
interpositoria del reddito: per quest'ultime, infatti, non avrebbe senso alcuno prevedere delle modalità di
scioglimento agevolato, in quanto sussistono già gli strumenti, anche procedimentali ( si pensi appunto all'art.
37, comma 3, del D.P.R. 600/1973) per accertare l'effettivo possesso del reddito (...)”.
31
bene. L’utilizzo dello strumento societario proprio perché è “di comodo” non è simulato ed è
estraneo all’interposizione fittizia, la società non operativa realmente esiste, seppure viene
costituita per finalità che si allontanano rispetto al modello tipico di società e non per lo
svolgimento di un’attività economica84. Non si è quindi in presenza di interposizione fittizia
perché non c’è un nascondimento del reale proprietario del bene; si è di fronte ad un utilizzo
anomalo della struttura societaria che non viene usata per finalità imprenditoriali, dove i beni
vengono utilizzati, ma per scopi personali. Di conseguenza la tematica delle società “non
operative” è estranea all’interposizione fittizia.
Si è quindi cercato di mettere in evidenza che, da un punto di vista teorico, non c’è una
perfetta coincidenza e sovrapposizione tra i concetti di “società di comodo” e “società non
operative”. Il fenomeno che vuole essere contrastato attraverso la previsione normativa
dell’art. 30 della legge n. 724/1994 non è assimilabile all’interposizione fittizia dal momento
che i beni, sebbene utilizzati non per lo svolgimento dell’attività produttiva ma per fini extraimprenditoriali, sono effettivamente intestati alla società e non si è di fronte ad un
interposizione fittizia della stessa società. Certo ci si può trovare di fronte a fattispecie nelle
quali la società risulta non solo “non operativa” ma anche come soggetto interposto in modo
fittizio. In linea generale appare quindi più corretto utilizzare il termine di “non operatività”
per descrivere tale fenomeno rispetto a quello “di comodo”, sottolineando quindi il fatto che
la costituzione ed il mantenimento di società sorte per il mero godimento dei beni, in assenza
di una reale attività economica esercitata, non implica necessariamente l’esistenza di
interposizione fittizia85. A conclusione di quanto esposto si può quindi affermare che le
nozioni di “società di comodo” e “società non operative” non sono del tutto equivalenti. Nella
logica normativa vengono usate indistintamente perché rappresentative del medesimo
fenomeno reale di utilizzo delle società, come schermi per poter trarre vantaggi fiscali
dall’assetto societario, in assenza dello svolgimento di una concreta attività economicoproduttiva86.
84
LOVISOLO A., Possesso di reddito ed interposizione di persona, in Dir. prat. trib., 1993, pag. 1665 e spec.
1694. L’autore evidenzia che l’utilizzo della società di comodo, come abuso dello strumento societario, è di per
sé stesso estraneo all’interposizione fittizia, potendo essere riconducibile invece all’interposizione reale. E’ poi
possibile che in specifiche fattispecie la società assuma la connotazione di interposto fittizio, e cioè come
prestanome, i cui beni sono economicamente e sostanzialmente di appartenenza altrui. Allora in questo specifico
caso rileverà il comma 3 dell’art. 37 del D.P.R. n. 600/1973.
85
TOSI L., Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo , in AA.VV., Le società di comodo (a
cura di TOSI L.), cit., pag. 5.
86
CERMIGNANI M., Il regime fiscale delle società di comodo: ratio, attualità e prospettive , cit, pag. 1-255.
32
1.5 La disciplina delle società di comodo: normativa antielusiva, antievasiva o imposta
patrimoniale?
In questo paragrafo si fanno alcune riflessioni relative alla natura dell’art.30 della Legge n.
724/1994. La normativa delle società di comodo non risulta di facile interpretazione, a partire
dalla scelta operata dal legislatore di porre rimedio al fenomeno dell'utilizzo improprio delle
strutture societarie attraverso la disciplina tributaria. La ricerca della ratio di tale disicplina
appare una soluzione non semplice che porta ad affermare che si è in presenza di “una logica
di fondo complessa, ossia non univoca né esclusiva”87.
Nella relazione accompagnatoria della Legge n. 662 del 23 dicembre 1996 si legge che scopo
della disciplina delle società di comodo è quello di contrastare “l’uso improprio della
struttura societaria che, anziché essere finalizzata all’esercizio produttivo di attività
commerciali, viene impiegata per consentire l’anonimato degli effettivi proprietari dei beni
intestati alle società (…)”. Obiettivo del legislatore nelle sue intenzioni originarie era quello
quindi di disincentivare la proliferazione delle società “senza impresa”. Se si parte da quanto
ribadito dal legislatore, si analizza poi la Circolare n. 5/E del 2 febbraio 2007
dell'Amministrazione Finanziaria la quale afferma che “la disciplina delle società non
operative è stata introdotta nel nostro ordinamento allo scopo di contrastare le cosiddette
società di comodo e, in particolare, di disincentivare il ricorso all'utilizzo dello strumento
societario come schermo per nascondere l'effettivo proprietario di beni, avvalendosi delle più
favorevoli norme dettate per le società”88 e ci si aggiunge l'esplicito riferimento presente nel
comma 4-bis dell'art. 30 della Legge n. 724/1994 alla disapplicazione “delle relative
disposizioni antielusive”, la normativa della non operatività potrebbe essere letta in chiave
antielusiva. L’autoqualificazione di tale previsione legislativa sembra quindi collocarsi su un
piano sostanziale, come reazione ad un comportamento distorsivo relativo alla corretta
applicazione dei tributi; definirla antielusiva significa affermare che attraverso questa
disposizione si vogliono contrastare le società di mero godimento e non quelle che pur
svolgendo un’attività economica non ottengono nel periodo d’imposta determinati risultati89.
87
CERMIGNANI M., Il regime fiscale delle società di comodo: ratio, attualità e prospettive, cit., pag. 1-255.
La Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 14/E del 15 marzo 2007 afferma che la disciplina “si pone l'obiettivo
di contrastare l'utilizzo improprio delle forme societarie al fine di eludere le norme tributarie” e la successiva n.
25/E del 4 maggio 2007 più genericamente ribadisce che “l'obiettivo della norma in esame è quello di
contrastare le società non operative che non abbiano cioè un interesse effettivo allo svolgimento di attività
commerciali”.
89
PEVERINI L., Società di comodo e imposta patrimoniale: il contrasto tributario all'utilizzo distorto della
forma societaria, in Giur. comm., 2013, 2, pag. 260. Secondo l'autore l’esplicito riferimento del legislatore alle
disposizioni delle società di comodo come antielusive, evidenzia il fatto che per disapplicare la disciplina non
deve esserci un aggiramento delle norme per poter trarre dei vantaggi fiscali. Non può quindi ritenersi elusivo il
comportamento di chi svolgendo effettivamente un’attività economica non abbia raggiunto la soglia minima dei
88
33
Tuttavia chi non condivide la natura antielusiva dell’art. 30 in esame, sostiene che
l'interrogativo da porsi riguarda i possibili vantaggi fiscali ottenibili dall'intestazione dei beni
nelle strutture societarie. Una norma antielusiva serve ad evitare uno stratagemma giuridico di
cui non sembra esserci traccia nella disposizione dell'art. 30 della legge n. 724/1994, dato che
la collocazione di tali beni all’interno della struttura societaria non è per forza rappresentativa
di un vantaggio fiscale90. Quando si procede a disapplicare una norma antielusiva, individuato
lo stratagemma distorsivo, è necessario dimostrare che nel caso specifico l’espediente non può
verificarsi, quindi non si è in presenza di alcuna lesione e la normativa deve essere
disapplicata. In tema di società di comodo questi presupposti non sembrano esserci; anche
qualora si ritenesse che l'espediente elusivo fosse rappresentato dall'intestazione del bene in
quanto tale alla società, questo significherebbe affermare che la disciplina non potrebbe mai
essere disapplicata. Si ritiene quindi non convincente affermare che l’intestazione di detti beni
implichi lo sfruttamento delle più favorevoli norme dettate per le società e quindi l'elusione
delle obbligazioni tributarie91. Oltre al fatto che identificare la disciplina delle società di
ricavi o del reddito. Il riferimento del legislatore all'elusione deve riferirsi al comportamento di chi utilizza lo
strumento societario pur mancando il requisito essenziale previsto dall'art. 2247 del Codice Civile, cioè lo
svolgimento dell'attività economica, al fine di poter sottoporsi alle norme più favorevoli norme dettate per il
reddito d'impresa.
90
LUPI R., Le società di comodo come disciplina antievasiva, in Dialoghi dir. trib., 2006, 9, pag. 1097 e ss..
Afferma l'autore come in merito alla disciplina sulle società di comodo non sia stata ancora capita l'effettiva
finalità di tale disposizione e la sua giustificazione in termini di capacità contributiva. “Gran parte della
pubblicistica si dilunga sui tecnicismi di funzionamento della norma, redige schemi ben ordinati su quali società
“siano dentro” e su quali società “siano fuori”, senza però chiedersi quale sia lo spirito dell'istituto, la
giustificazione, non tanto in termini costituzionali, ma di buon senso”. Definirla norma antielusiva non appare
corretto, dato che sarebbe nebuloso il fondamento; quale sarebbe infatti “il vantaggio fiscale indebito” che la
disposizione intende evitare? La spersonalizzazione dei patrimoni e quindi la loro “schermatura” sono spesso
indotte da ragioni extra-tributarie, legato più ad una vantaggio civilistico, in termini di sistemazione dei rapporti
famigliari e di cautela nei confronti dei possibili creditori, dove il fisco non c’entra molto. STEVANATO D.,
Società senza utili, imposte senza ricchezze: un caso di “darwinismo fiscale”?, in STEVANATO D. e
SBROIAVACCA A., Società in perdita sistematica e tassazione degli utili inesistenti, una bomba ad orologeria
da disinnescare, in Dialoghi dir. trib., 2012, 5, pag. 502. A parere dell’autore, la disciplina sul reddito d'impresa
non è necessariamente più vantaggiosa rispetto a quella applicabile alle persone fisiche; basti per esempio
riflettere sul regime di tassazione delle plusvalenze realizzate in regime d'impresa e sui rari casi invece di
imponibilità delle plusvalenze in capo invece ai privati persone fisiche. Il rischio poi “della deduzione dei costi o
della detrazione IVA sugli acquisti destinati al godimento dei soci può essere tranquillamente contrastato con gli
ordinari poteri d'accertamento (in specie sotto il profilo dell'inerenza, assente per definizione in mancanza di
una reale attività imprenditoriale)”. STEVANATO D., Società di comodo ed intenti pedagogici del legislatore
tributario, in MELIS G., STEVANATO D. e LUPI R., Ancora in tema di società di comodo e presunzione
d'evasione, in Dialoghi dir. trib., 2006, 10, pag. 1326 e ss.. Viene inoltre evidenziato che il regime della
Partecipation exemption di cui all'art.87 del TUIR non si applica in linea generale alle società immobiliari se non
qualora ricorrano specifiche condizioni. Dunque non vi è convenienza a realizzare plusvalenze da parte di una
società immobiliare di godimento. Queste considerazioni sembrano evidenziare che manca quell'indebito
vantaggio fiscale perché la disciplina prevista dall'art. 30 della Legge n. 724/1994 possa essere identificata come
antielusiva.
91
SCHIAVOLIN R., Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, in AA.VV., Le
società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 59 e ss.. Appare fortemente opinabile sostenere che
l'intestazione dei beni alla società sia distorsivo dato che sarebbe elusa la tassazione che avrebbe colpito le
persone fisiche in possesso di quei beni ed approfittando del regime apparentemente più favorevole previsto per
34
comodo come normativa di contrasto ad un’elusione della tassazione consistente nell’utilizzo
delle società come contenitori patrimoniali non sembra poi soddisfacente, dal momento che la
reazione a comportamenti elusivi può essere accettata se si prevede l’applicazione del regime
eluso, non se diventa irrazionalmente punitiva, colpendo anche le società effettivamente
operative ma che non superano le soglie previste dal test d’operatività. Secondo chi condivide
quindi tale linea di pensiero, la disciplina della non operatività può essere solamente in
apparenza identificata come uno strumento antielusivo92. Provare a definirle come normativa
antievasiva appare quindi il frutto di un’argomentazione “in negativo”, non essendo agevole
intravedere una ratio antielusiva che possa giustificare la tassazione di redditi e ricchezza
presunti, come stabilito dal legislatore nell’art. 30 della Legge n. 724/1994. Fin prima
dell’eliminazione
del
contraddittorio
anticipato
e
dell’introduzione
dell'interpello
disapplicativo avvenuti con il Decreto Legge n. 223 del 4 luglio 2006, era tendenzialmente
riconosciuta tale funzione antievasiva alla disciplina delle società non operative. La logica di
base è che la presenza di determinati beni nel patrimonio societario implica la presunzione di
una redditività minima ed al mancato raggiungimento dell’obiettivo la società è chiamata a
fornire spiegazioni e dimostrare le peculiari circostanze che non hanno permesso il
raggiungimento della soglia minima reddituale. La presenza di alcuni cespiti “oggettivamente
fruttiferi” rafforza la presunzione del loro utilizzo all’interno della società per scopi reddituali
e quindi l’idoneità a produrre ricavi proporzionali al valore patrimoniale iscritto in bilancio. Si
vuole cioè disincentivare l’utilizzo indebito dello schermo societario per intestare beni
utilizzati per fini privati e non per lo svolgimento dell’attività economica93. La normativa
delle società di comodo diventa quindi in questo modo l’espressione di un indirizzo del
legislatore volto a dissuadere gli utilizzi impropri delle strutture societarie. Tuttavia le
modifiche apportate nel 2006 e l’eliminazione dell’obbligo del contraddittorio anticipato
prima di poter emettere l'avviso d'accertamento relativo alla presunta non operatività
le società commerciali. Sottolinea l'autore che l’elusione potrebbe essere accettata se si dimostrasse che qualora i
beni fossero intestati non alla società ma alla persona fisica questa verrebbe tassata su un reddito presunto in
modo corrispondente alla tassazione della struttura societaria.
92
Sottolinea inoltre NUSSI M., La disciplina delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi
incoerenti, cit., pag. 491, riguardo all’indebito vantaggio che potrebbe derivare dall’utilizzo distorto delle forme
societarie, come la mera forma commerciale della società totalmente separata dalla sostanza economica potrebbe
far emergere la problematica dell'inerenza di molti costi sostenuti al di fuori dell'ambito imprenditoriale. Tuttavia
ritenere antielusivo lo strumento normativo della disciplina delle società di comodo appare un’irragionevole
penalizzazione, dal momento che esiste già la normativa generale dell’indeducibilità dei costi e il criterio
ordinario discretivo dell'inerenza è idoneo a tale scopo.
93
STEVANATO D., Società di “comodo”: un capro espiatorio buono per ogni occasione, in Corr. trib., 2011, 47,
pag. 3889. La si poteva ritenere una disciplina antievasiva “in una logica di controllo della ragionevolezza dei
redditi dichiarati ai beni patrimoniali naturaliter fruttiferi veniva agganciata una presunzione di redditività
minima, secondo una logica di tipo catastale e di fruttuosità medio-ordinaria del capitale, o più precisamente
dei cespiti in cui questo risulta investito”.
35
dell'impresa, hanno mutato la disciplina delle società di comodo, con l’esplicazione di una
surrettizia forma di tassazione patrimoniale che scatta al mancato raggiungimento dei livelli di
ricavi e di reddito stabiliti ex lege, indipendentemente dall’effettivo svolgimento dell’attività
imprenditoriale o meno. Può quindi trattarsi anche di società effettivamente operative ma che
non sono riuscite a produrre ricavi e reddito secondo gli standard previsti dal legislatore con
l'art. 30 della Legge n. 724/199494. Ne deriva quindi un regime di tassazione “estraneo” alle
logiche dell'imposta sul reddito e al rispetto del principio di capacità contributiva sancito
dall'art. 53 della Costituzione. Se il dato di partenza è la non operatività del soggetto,
prevedere la tassazione di un reddito minimo sembra significhi tassare la creazione di
patrimoni separati ed autonomi rispetto ai veri proprietari, cioè i soci, ponendo a tassazione
ricchezza non effettivamente ascrivibile al contribuente e questo non può essere acettato95.
Chi non condivide l’idea che tale disciplina possa dare origine ad una tassazione patrimoniale
afferma che l’imposizione prevista dall'art. 30 in esame rappresenta una modalità di prelievo
di tassazione del reddito e che si discosta proprio dall'imposizione patrimoniale basandosi su
una presunzione legale di redditività minima. Si deve poi aggiungere che nell’ordinamento
italiano non esiste un’imposta patrimoniale generale che riguardi le persone fisiche o gli enti
proprietari e non si vede il motivo per cui il legislatore avrebbe dovuto introdurre una tale
forma di imposizione soltanto nei confronti di quelle società che per appunto non svolgono
un’attività economica e non raggiungono un certo ammontare di componenti positivi di
reddito96. E’ stato inoltre sottolineato che la finalità antievasiva debba essere legata ad
94
STEVANATO D., Le società “di comodo”, tra imposizione cripto-patrimoniale e dirigistico utilizzo
extrafiscale del tributo, in STEVANATO D. e LUPI R., Società “di comodo”:dov'è la capacità economica?, in
Dialoghi dir. trib., 2007, 1, pag. 1 e ss.. Evidenzia l'autore come la disciplina delle società di comodo abbia
smarrito la sua ratio originaria antievasiva e sia diventata “da strumento presuntivo d'accertamento del reddito
effettivo, un gravoso ticket (…), una tassa sulla forma societaria e sulla separazione patrimoniale che questa
consente”. Dietro all'etichetta di lotta all’evasione non è più l’Amministrazione ad effettuare controlli relativi a
quanto dichiarato ma è il contribuente ex ante che ha l’onere di attivarsi per evitare la tassazione prevista dall'art.
30 della Legge n. 724/1994. PISTOLESI F., Reddito effettivo e reddito fittizio: evoluzioni recenti, in Corr. trib.,
2007, 24, pag. 1981. L’eliminazione del contradditorio anticipato e l’introduzione dell’interpello disapplicativo
evidenziano la transizione della disciplina della non operatività verso l’area del diritto tributario sostanziale,
allontanandosi dall'effettività della tassazione reddituale.
95
PEVERINI L., La natura patrimoniale dell'imposta sulle società di comodo, in PEVERINI L, VIGNOLI A.,
LUPI R. e STEVANATO D., Società non operative:una patrimoniale mascherata da criterio (contronatura) di
determinazione dei redditi, cit, pag. 132. Quanto previsto dall’art. 30 della Legge n. 724/1994 da origine ad
un’imposta patrimoniale la cui base imponibile è quella dichiarata dalla stessa società. Se letta in questo senso la
disciplina assume una propria coerenza e trova una sua giustificazione in un’ottica penalizzante.
96
E’ questa la tesi sostenuta da STEVANATO D., Società di comodo, orrore senza fine; da imposta su presunti
redditi di fonte patrimoniale a tributo extrafiscale sul patrimonio, in PEVERINI L, VIGNOLI A., LUPI R. e
STEVANATO D., Società non operative:una patrimoniale mascherata da criterio (contronatura) di
determinazione dei redditi, cit, pag. 132, il quale evidenzia che “non basta trovarsi in una posizione differente
rispetto agli altri per poter essere destinatari di un determinato regime fiscale differenziato, se tale diversità non
esprime una differenziata capacità economica. Il mancato utilizzo dei beni nell'ambito di un’attività economica
produttiva di ricavi e di redditi denota poi, semmai, una minore capacità di contribuire alle spese pubbliche”.
36
un’intenzione “pedagogica”, attraverso la quale si esplica un prototipo di società che si
vorrebbe disegnare attraverso lo strumento legislativo. La normativa delle società di comodo
svolge quindi una funzione pedagogica, dissuadendo da un uso dello schermo societario non
servente all'attività d'impresa. Con tale termine si intende affermare che ci sarebbe una finalità
extra-fiscale, volendo penalizzare le strutture societarie che vengono utilizzate come schermi
per l'intestazione dei beni e proponendo un utilizzo fisiologico della società quale soggetto
passivo che opera effettivamente producendo reddito e ricchezza97. Ne deriva quindi un
utilizzo dello strumento tributario in chiave extrafiscale, non per produrre gettito che è un
effetto collaterale della norma, ma per scoraggiare la nascita delle società di mero
godimento98. Se quindi si parte dal presupposto di identificare nella normativa un intento
“pedagogico” appare però discutibile la scelta del legislatore di prevedere tale disciplina per
raggiungerlo. In modo critico viene sottolineata l’incoerenza tra fine e mezzo, dato che
l’obiettivo non strettamente tributario di contrastare le società quali meri contenitori
patrimoniali viene perseguito attraverso la disciplina fiscale, oltretutto prevedendo
l’imposizione per la società di redditi presunti incompatibili con la definizione di non
operatività della società stessa99. Inoltre sembra interessante accennare anche alla lettura che è
stata data del possibile superamento delle società di comodo attraverso la valorizzazione dei
principi posti a base dell'abuso del diritto100. In particolare si è focalizzata l’attenzione sulla
L’autore sostiene poi che in un certo senso si può parlare di imposizione cripto patrimoniale in mancanza del
raggiungimento del reddito minimo. In questo caso infatti l'imposta può essere pagata solo attingendo al
patrimonio, diventando quindi imposta patrimoniale “negli effetti”.
97
CERMIGNANI M., Il regime fiscale delle società di comodo: ratio, attualità e prospettive, cit., pag. 1-255.
Secondo l’autore la normativa delle società di comodo appare quindi caratterizzata da una molteplicità di
funzioni dove l’intenzione complessiva del legislatore di disincentivare l'utilizzo anomalo della forma giuridica
societaria, di natura “pedagogica” sembra coesistere con la ratio antielusiva, di contrasto all'abuso dello
strumento societario con finalità di indebito risparmio fiscale, a cui si aggiunge poi quella antievasiva.
98
STEVANATO D., Società di comodo, buona giustizia e cattiva legislazione, in STEVANATO D. e LUPI R.,
Società di comodo e determinazione della ricchezza: antielusione sì, ma di che?, in Dialoghi dir. trib., 2014, 1,
pag. 31. Nell'analizzare la Sentenza della Comm. Trib. Prov. di Pordenone n. 159 del 3 dicembre 2013, nella
quale i giudici hanno ritenuto di considerare operativa una società immobiliare che si occupava di locare gli
immobili a terzi, anche se alcuni di essi erano rimasti sfitti dal momento che non sussiste alcun intento elusivo,
l’autore fa alcune considerazioni relative alla funzione di tale disciplina. Viene evidenziato che la ratio originaria
di contrastare le attività di mero godimento è stata nel tempo travisata, “mettendo a bilancio delle entrate e
spacciando tale normativa per uno strumento capace di stanare la ricchezza occultata”.
99
In modo critico LUPI R., Una mistificazione mediatica, in PEVERINI L., VIGNOLI A., LUPI R. e
STEVANATO D., Società non operative:una patrimoniale mascherata da criterio (contronatura) di
determinazione dei redditi, cit, pag. 132, evidenzia che “la finalità extrafiscale sull’uso improprio della forma
societaria fa da foglia di fico ad una disposizione priva di giustificazione sul piano della determinazione della
ricchezza”.
100
L’abuso di diritto è un principio giurisprudenziale (la Legge Delega all'art. 5 ha definito i principi essenziali da
osservare per definirlo compiutamente) che trova applicazione per le fattispecie non rientranti nell'art. 37-bis del
D.P.R. n. 600/1973 concernente le disposizioni antielusive. La nozione dell'abuso di diritto è sovrapponibile a
quella dell'elusione i cui elementi caratterizzanti sono il vantaggio fiscale indebito, l'asistematicità
dell'operazione, la mancanza di ragioni economiche valide ed in più per l'abuso deve esserci anche l'utilizzo
distorto degli strumenti giuridici. Finora l’abuso di diritto ha rappresentato un principio giurisprudenziale, non
37
possibilità dell’istituto giuridico dell’abuso di diritto di prevenire e reprimere i comportamenti
che mirano ad un utilizzo improprio delle forme societarie attraverso la deduzione di costi non
inerenti allo svolgimento d'attività d'impresa, relativi invece a spese private per utilizzi
personali. Si tratterrebbe quindi nel caso delle società di comodo di andare a verificare nei
singoli casi se vi è una mera gestione passiva del patrimonio sia attraverso l’utilizzo diretto
dei beni patrimoniali da parte dei soci sia attraverso un’attività essenzialmente limitata alla
gestione delle rendite proveniente dai beni dati in locazione per esempio, senza l’assunzione
di alcun rischio d’impresa. Da ciò ne deriverebbe la conseguenza che tutta la normativa,
complessa ed articolata dati gli innumerevoli casi d'esclusione e di valutazione delle ragioni
che possono provocare il non superamento del test d’operatività, risulterebbe inutile se
valutata alla luce dei principi dell'abuso di diritto. La delega per la riforma fiscale prevista
dalla Legge n. 23 dell’11 marzo 2014, ha dato una definizione talmente ampia di abuso di
diritto tale da poter far rientrare ogni tipologia di abuso della forma societaria per fini
fiscali101. Non è stata colta però l’occasione di ricondurre il fenomeno delle società di comodo
sotto la disciplina del'abuso di diritto102.
Si è cercato quindi di evidenziare come appaia difficile inquadrare la disciplina delle società
di comodo quale strumento antielusivo per evitare abusi o utilizzi impropri dello schermo
societario per attività di godimento o antievasivo collegando quindi a determinati beni
patrimoniali una presunzione di fruttuosità minima, declinando di fatto in una sorte di
patrimoniale mascherata. Ciò che risulta chiaro è che se inizialmente questa disciplina era
nata per scoraggiare l’utilizzo delle strutture societarie per attività di godimento, tale obiettivo
è finito per essere travisato con il rischio effettivo che siano colpite non solo le società “senza
normato ma che i giudici hanno estrapolato dal sistema.
101
L’art. 5 dispone in linea generale che si debba identificare “(...) la condotta abusiva come uso distorto di
strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d'imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con
alcuna specifica disposizione (…)”, specificando poi che deve essere data la possibilità di scegliere al
contribuente tra diverse operazioni con carico fiscale differente e in relazione alle quali si deve poi osservare se
possa o meno esplicarsi l'abuso del diritto.
102
E’ questo quanto sostiene DAMIANI M., Società di comodo e perdite sistematiche: l'abuso di diritto risolve le
possibili discriminazioni, in Corr. trib., 2014, 12,pag. 929, secondo il quale “sarebbe stato interessante
sbarazzarsi in un colpo di una sovrastruttura legislativa ormai caleidoscopica e di numerosi adempimenti
divenuti oppressivi per tutti”. Inoltre sottolinea l'autore che la mera gestione del patrimonio può portare anche
alla realizzazione di situazioni più gravi, come nelle quali potrebbe ravvisarsi l’abuso di diritto di costituzione di
società, che si verifica quando non esiste alcuna ragione economica, salvo i vantaggi fiscali, tanto da poter
sfociare “nell'inutilità economica” della società stessa. E' questo che è stato messo in luce nella Sentenza della
Cassazione Penale n. 19100 del 3 maggio 2013. A tal proposito PERINI A., La società “non necessaria”come
nuova frontiera dell'elusione fiscale penalmente rilevante?, in Riv. dir. trib., 2013, 4, pag. 68, ha analizzato
quanto affermato dalla Corte nella Sentenza citata, dove accanto all'abuso di diritto dato dall'utilizzo distorto
dello strumento giuridico per ottenere risparmio fiscale, in assenza di ragioni economiche sottostanti tali da
giustificare l'operazione, si è giunti ad equiparare la “società non necessaria” a strumento elusivo potenzialmente
foriero di conseguenze penali.
38
impresa” ma anche quelle che svolgono effettivamente un’attività imprenditoriale. Ad una
deviazione della funzione tipica che dovrebbe svolgere la società qualificandosi attraverso
l’atto costitutivo come tale, il legislatore sceglie un regime imposta, che si allontana dal
principio di capacità contributiva e che sembra voler garantire la contribuzione alle spese
dello Stato103. La normativa delle società di comodo appare complessa e non risulta chiara la
ragione base per la quale il legislatore non abbia deciso di utilizzare la disciplina commerciale
per arginare il fenomeno del distorto utilizzo delle strutture societarie, ma abbia scelto di
ricorrere al diritto tributario, con la conseguenza che “con il passare delle stagioni politiche le
società di comodo si sono trasformate in un (stavolta sì, “comodo”) espediente dialettico”104.
Tale disciplina dal lontano 1994 ha continuato a subire modifiche le quali, invece di portare
ad un miglioramento, hanno di fatto peggiorato ulteriormente la situazione, penalizzando i
soggetti realmente operativi.
1.6 Il coordiamento della disciplina delle società di comodo con i principi costituzionali
di uguaglianza e di capacità contributiva. Quali difficoltà?
Dopo aver delineato un quadro generale relativo alla disciplina delle società di comodo,
evidenziando da un lato le diverse modifiche che sono state attuate nel corso del tempo e
dall’altro lato la difficoltà di identificare una ratio univoca e soddisfacente che spieghi il
fenomeno della non operatività, appare opportuno svolgere alcune riflessioni riguardanti la
compatibilità di tale normativa con l’importanza dei principi costituzionali di uguaglianza e di
capacità contributiva.
1.6.1 L’importanza dell’articolo 3 e dell’articolo 53 della Costituzione nel diritto
tributario
L’art. 53 della Costituzione afferma al primo comma che “tutti sono tenuti a concorrere alle
spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” e prosegue nel secondo comma
103
TRIVELLIN M., L'uscita dal regime delle società di comodo. Analisi di un'agevolazione fortemente
discutibile sul piano della ragionevolezza e cenni ad alcune problematiche applicative, in AA.VV., Le società di
comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag.15 e ss.. Viene evidenziato che il rimedio posto dal legislatore attraverso
l'introduzione di tale disciplina appare incoerente dal momento che manca la “patologia fiscale”, non potendosi
ravvisare né evasione né elusione.
104
STEVANATO D., Società senza utili, imposte senza ricchezza: un caso di “darwinismo fiscale”?, in
STEVANATO D. e SBROIAVACCA A., Società in perdita sistematica e tassazione degli utili inesistenti, una
bomba ad orologeria da disinnescare, cit., pag.502. Afferma l'autore che “l'imposta sul reddito minimo
mostrerebbe un parallelismo con i tributi ambientali, il cui obiettivo non è tanto quello di tassare la ricchezza
prodotta da certe attività produttive, quanto di dissuadere i privati che intendono svolgerle: nel caso di specie, si
tratterebbe di un utilizzo dell'imposta per dissuadere dalla costituzione e dal mantenimento delle società senza
impresa”. Si tratta di una normativa che colpisce in modo indiscriminato situazioni assai differenti e dalla quale
ne deriva una concezione dell'imposta distorta, con un fine extra-fiscale, quasi para-sanzionatorio.
39
stabilendo che “il sistema tributario è uniformato a criteri di progressività”.
E’ opportuno sottolineare che l’espresso riferimento alla generalità del concorso alle spese
pubbliche impone un carico fiscale uniforme ai soggetti che possiedono le medesime
caratteristiche. L’identificazione dell’art. 53 Cost. quale espressione del principio
d’uguaglianza rappresenta il punto di partenza comune dal quale derivano due visioni
differenti relative alla funzione che deve essere svolta dal principio di capacità contributiva,
quale limite “assoluto” o “relativo” alla costituzionalità delle norme tributarie 105. In
particolare i sostenitori dell’approccio relativo, che rappresentano una minoranza, affermano
che quanto espresso dall’art. 53 Cost. non deve essere inteso quale valore da tutelare in via
assoluta, ma piuttosto deve essere interpretato come finalità, funzione che giustifica la
congruità delle scelte adottate dal legislatore rispetto alla funzione medesima. Il principio di
capacità contributiva espresso dalla Costituzione rappresenta l’esigenza di distribuire il carico
tributario, senza però predeterminare alcun criterio vincolante; è lasciata la possibilità al
legislatore di sottoporre a ricchezza qualunque situazione significativa, senza per forza che
essa rappresenti un indice di ricchezza106. Il legislatore fiscale una volta identificato che il
prelievo che ne deriva rispecchia il principio costituzionale di ragionevolezza e coerenza del
sistema, sarà libero nella scelta dei presupposti di imposizione valutabili economicamente,
potendo rivolgersi anche a fattori non per forza espressivi di forza economica e quindi
scambiabili nel mercato; non è quindi necessario che siano indici di ricchezza patrimoniale,
liberamente disponibile ed appartenente al soggetto passivo107. Sostenere la relativizzazione
105
E’ da evidenziare che anche in relazione all’espressione dell’art. 53 Cost. quale affermazione del principio
d’uguaglianza, i sostenitori dell’approccio svalutativo della capacità contributiva affermano che l’articolo citato
è di fatto assorbito ed annullato all’interno dell’art. 3 Cost. Coloro che sostengono la tesi contraria ritengono che
l’art. 53 cit. non possa essere ridotto a mera specificazione del principio d’uguaglianza, avendo una propria
portata autonoma e una valenza e peculiare. Si veda GALLO F., Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella
tassazione, Bologna, 2008, pag. 98; MOSCHETTI F., La capacità contributiva. Profili generali, in La capacità
contributiva (a cura di MOSCHETTI F.), Padova, 1993, pag. 7. Si deve sottolineare inoltre che l’indirizzo
svalutativo dell’art. 53 Cost. risale a A. D. GIANNINI. Dopo l’entrata in vigore della Costituzione il contenuto
dell’art. 53 Cost. fu oggetto di critica da parte dell’autore, sostenendo la genericità del contenuto, l’ovvia
legittimità del prelievo fiscale, l’insindacabilità delle scelte del legislatore ed il riferimento dell’articolo al
sistema tributario complessivamente considerato e non alle singole disposizioni tributarie.
106
FEDELE A., Appunti dalle Lezioni di diritto tributario. Parte I, Torino, 2005, pag. 30-31.L’autore sostiene
che “i criteri per determinare, nell’an e nel quantum, la partecipazione di ciascun consociato alle spese
pubbliche si identificano necessariamente con facoltà di scelta nella soddisfazione dei propri bisogni ed
interessi, usufruendo direttamente delle utilità fornite dai beni, ovvero più frequentemente, tramite
comportamenti di altri soggetti”. La capacità contributiva deve essere intesa quale criterio di razionalità
complessiva del sistema e dell’intera disciplina del concorso alle spese pubbliche. L’art. 53 Cost., comma uno,
non rappresenta un vincolo assoluto, è rappresentativo di un indirizzo che impone il divieto di discriminazioni
fiscali ingiuste e la necessità di individuare tecniche di per i vizi di legittimità costituzionale.
107
GALLO F., Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., pag. 85-87. Si afferma che
identificando la capacità contributiva come fissazione di un criterio distributivo, la ripartizione del carico
pubblico avviene attraverso scelte del legislatore fatte nella sua discrezionalità. Scindendo la persona del
contribuente dalla sua proprietà gli unici criteri da rispettare nella scelta dei presupposti per procedere alla
40
del principio di capacità contributiva significa affermare in sostanza che tale principio non è
rappresentativo di uno o più valori da tutelare in quanto tali, ma è espressione di “un’esigenza
di congruità funzionale delle scelte legislative circa i criteri di riparto dei carichi
pubblici”108. Inoltre gli assertori della tesi minoritaria sostengono che solo identificando il
principio di capacità contributiva come vincolo relativo, l’art.53 Cost. non risulta violato dalle
norme che, per concorrere alla soddisfazione di specifiche esigenze tutelate dall’ordinamento
ed al fine di incentivare o disincentivare determinati comportamenti, prevedono determinate
esenzioni o agevolazioni fiscali che di fatto escludono o riducono il concorso alle spese
pubbliche. Attraverso tale approccio non risultano illegittime “le norme che delimitano o
estendono l’ambito d’applicazione di determinati tributi individuando gli indici di
potenzialità economica in ragione di considerazioni ulteriori rispetto alla valutazione della
mera capacità patrimoniale dei soggetti passivi”109.
Dopo questa breve parentesi, riprendendo la tesi sostenuta dalla dottrina maggioritaria, l’art.
53 della Costituzione rappresenta un vincolo assoluto, è fulcro e “norma cardine”110 del
sistema tributario ed è stato inserito nella Costituzione senza essere assorbito dal principio
d’uguaglianza, avendo quindi una propria valenza autonoma. L’introduzione di tale articolo
nella Carta Costituzionale evidenzia sia il dovere tributario di concorrere alle spese pubbliche
che la delimitazione del legislatore, il quale risulta vincolato al rispetto del principio di
capacità contributiva nel scegliere quali situazioni significative devono essere sottoposte a
tassazione sono quelli di identificare che tali presupposti siano oggettivamente rilevanti, che rispondano al
principio di ragionevolezza e di non arbitrarietà e che in definitiva si possa procedere a compararli con altre
fattispecie fiscalmente rilevanti. E’ proprio “il solo fatto dell’inserimento della persona contribuente in un
contesto istituzionale e sociale e non quello della sua identificazione con un soggetto titolare di diritti soggettivi
a contenuto patrimoniale, che dovrebbe giustificare, in via generale ed astratta l’assunzione stessa a soggetto
passivo d’imposta in relazione anche ad indici di potenzialità economica posizioni e valori socialmente rilevanti,
purchè espressivi di una capacità differenziata economicamente valutabile”. GALLO F., L’evoluzione del
sistema tributario e il principio di capacità contributiva, in L’evoluzione del sistema fiscale e il principio di
capacità contributiva (a cura di SALVINI L. e MELIS G.), Milano, 2014, pag.9. L’autore afferma che al
legislatore fiscale non può essere vietato di far concorrere alle spese pubbliche i soggetti che sebbene siano
titolari di posizioni economicamente rilevanti, non hanno il presupposto che contenga in sé entità patrimoniale.
La capacità contributiva non può essere “assunta in termini soggettivi quale garanzia della persona”.
108
Così FEDELE A., La funzione fiscale e “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, in Diritto
tributario e Corte costituzionale (a cura di PERRONE L. e BERLINI C.), Napoli, 2006, pag. 21. FEDELE A.,
Ancora sulla nozione di capacità contributiva nella costituzione italiana e sui “limiti” costituzionali
all’imposizione, in L’evoluzione del sistema fiscale e il principio di capacità contributiva (a cura di SALVINI L.
e MELIS G.), cit., pag.19. In modo critico l’autore evidenzia che il principio di capacità contributiva secondo la
dottrina dominante è un valore autonomo, un limite assoluto e non viene identificato come invece un criterio di
riparto, riconducibile al principio d’uguaglianza dell’art.3 Cost. come equità distributiva.
109
FEDELE A., Appunti dalle Lezioni di diritto tributario. Parte I, cit, pag. 30-31. Deve quindi essere
“utilizzato” un approccio in termini relativi e non assoluti di controllo della legittimità costituzionale dei tributi
quando il legislatore effettua delle scelte istituendo tributi ulteriori o maggiori prelievi in relazione a determinate
situazioni o ancora quando sia esclusa o attenuata l’imposizione per determinate fattispecie.
110
FALSITTA G., Manuale di diritto Tributario. Parte generale, Padova, 2010, pag. 155.
41
tassazione111. La prestazione tributaria prevista dall’art. 53 Cost. non viene presentata dal
punto di vista dell’ente impositore, ma come dovere generale di tutti i contribuenti di
concorrere all’interesse comune, in ragione del fatto di possedere tale capacità contributiva,
affermando quindi sia la legittimità dell’imposizione tributaria sia la doverosità della
contribuzione112. Analizzando il dato testuale dell’articolo in esame si deve infatti evidenziare
che il termine utilizzato “tutti” è espressione del principio di universalità e del dovere di
colpire, qualora ne ricorrano i presupposti, tutti i soggetti senza distinzioni o privilegi, questo
in armonia con quanto affermato dal principio d’uguaglianza. Inoltre l’espressione “in
ragione della loro capacità contributiva ” sta proprio a significare che l’obbligo di
contribuzione esiste se c’è un’idoneità sotto il profilo economico del privato a poter
effettivamente contribuire. Ancor prima del limite generalissimo del divieto di illogicità, di
incoerenza e di arbitrio del tributo, esiste il limite del principio di capacità contributiva che
rappresenta un limite non implicito ed ovvio in ogni norma, ma un limite esterno che deriva
dall’art. 53 della Costituzione. Quanto ribadito nell’articolo in esame rappresenta una sorte di
proiezione nella materia tributaria del principio espresso dall’art. 2 Cost. il quale riconosce i
diritti inviolabili della persona e “richiede l’adempimento alla collettività dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”113, sia del principio d’uguaglianza
dell’art. 3 Cost. Tuttavia quanto stabilito dall’art. 53 Cost. non è una mera estensione di
quest’ultimo, dato che se il principio d’uguaglianza si colloca in una dimensione
“intersoggettiva” dove a parità di ricchezza tra due soggetti ci si aspetta il medesimo prelievo,
il principio di capacità contributiva va oltre proiettandosi anche in una dimensione
“introspettiva”, dove è previsto che il contribuente paghi se gli è ascrivibile un incremento
della ricchezza apprezzabile in termini di idoneità al pagamento 114. La nozione di capacità
111
GAFFURI F., Il senso della capacità contributiva, in Diritto tributario e Corte Costituzionale (a cura di
PERRONE L. e BERLIRI C), Napoli, 2006, pag. 26. La norma ha una valenza programmatica e non è idonea a
porre precetti che abbiano un’efficacia immediata, tuttavia vincola il legislatore al suo rispetto e consente al
contribuente di denunciare il non rispetto di tale principio.
112
MOSCHETTI F., La capacità contributiva. Profili generali, in La capacità contributiva (a cura di
MOSCHETTI F.), cit., pag. 4. La capacità contributiva non è rappresentativa di un astratto potere impositivo, ma
è l’espressione dell’attitudine a concorrere alle spese pubbliche. Che si manifesta in primis attraverso la forza
economica del soggetto. “Tutti” devono quindi partecipare all’interesse comune e questo per il fatto che
possiedono l’idoneità di realizzare tale interesse.
113
MOSCHETTI F., Capacità contributiva, in Enc. Giur. Treccani, Torino, V, 1988, pag. 1 e ss.. L’art.2 Cost.
riconosce i diritti inviolabili della persona e “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale”. Questa impostazione di fondo si ritrova anche nell’art. 53 Cost. attraverso il
quale si individua la ragione delle prestazioni tributarie nel dovere di concorrere alle spese pubbliche e
contemporaneamente viene sancito il principio di capacità contributiva quale criterio di giustizia nella creazione
e ripartizione dei tributi.
114
BEGHIN M., Diritto Tributario. Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, cit., pag. 27 e
ss.. Il principio sancito dall’art. 53 Cost. rappresenta una forma di protezione nei confronti delle leggi arbitrarie
che non trovano alcun legame con la realtà sottostante. In questo contesto l’art. 3 Cost. ha come logica il
42
contributiva precede e domina il sistema impositivo, ne costituisce il criterio di selezione dei
pesi fiscali e presiede quindi alla corretta individuazione dei fatti imponibili che devono
essere indici idonei di forza economica115, fungendo da norma di garanzia per i
contribuenti116. Questo non significa che il legislatore non possieda una certo spazio
discrezionale nella scelta, ma tale discrezionalità deve rispecchiare l’idoneità a contribuire117.
Dietro alla capacità contributiva deve esserci la capacità economica, mancando quest’ultima
non può essere richiesto di contribuire, viene cioè meno l’obbligo stesso del contribuente di
partecipare all’interesse collettivo ed alle spese pubbliche. Nello specifico, identificando la
capacità contributiva come forza economica due sono i fattori costitutivi definiti talvolta come
presupposti assoluti, la cui assenza determina l’inesistenza della capacità stessa: il primo si
riferisce al fatto che ogni imposta deve avere come fatto-generatore “un indice di forza
economica costituito da denaro o da ricchezze non monetarie ma agevolmente traducibili in
danaro attraverso appropriati atti di scambio sul mercato” ed il secondo è rappresentato
“dall’idoneità soggettiva alla contribuzione del singolo soggetto elevato dalla legge al rango
di contribuente”, cioè all’imputabilità dell’indice al soggetto passivo del tributo118. Si deve
quindi partire dal presupposto che il prelievo tributario per poter essere conforme all’art. 53
Cost. deve trovare il fondamento in una manifestazione della ricchezza che il legislatore è
tenuto a ricercare a cui ci si deve aggiungere l’idoneità soggettiva alla contribuzione, con la
confronto tra due situazioni soggettive, mentre il principio di capacità contributiva prevede che si paghi se ci si
trova nella condizione di poterlo fare. MOSCHETTI F., La capacità contributiva. Profili generali, in La capacità
contributiva (a cura di MOSCHETTI F.), cit., pag. 7. Il principio di capacità contributiva ancor prima di essere
parametro per giudicare se due situazioni sono analoghe o meno dal punto di vista tributario è principio
costituzionale di giustizia fiscale e ridurre tale principio a semplice specificazione del principio d’uguaglianza
significa di fatto cancellare l’art. 53 Cost.
115
Deve essere precisato che solo a partire dagli anni 60 si evidenziò che il principio di capacità contributiva
imponeva il riferimento alla forza economica del soggetto. Peraltro precedentemente all’art. 53 Cost., lo Statuto
Albertino nell’art. 25 stabiliva che l’imposizione dovesse avvenire in base agli “averi” del soggetto e l’art. 134
della Costituzione della Repubblica di Weimar, assunto come modello nella fase di elaborazione dell’articolo in
esame, collegava il prelievo tributario in relazione ai mezzi economici del soggetto passivo. FALSITTA G.,
Manuale di diritto Tributario. Parte generale, cit., pag. 158.
116
Sostiene poi GAFFURI F., Il senso della capacità contributiva, in Diritto tributario e Corte Costituzionale ( a
cura di PERRONE L. e BERLIRI C), cit., pag. 25 e ss. che il principio di capacità contributiva espresso dall’art.
53 Cost. rappresenta “una barriera invalicabile a protezione del singolo contro un’invadenza fiscale non
rispettosa di attitudine contributiva, sia perché l’oggetto imponibile non la rileva, sia perché quell’oggetto, pur
essendo adeguatamente sintomatico di tale attitudine, sia sottoposto ad un’eccessiva pressione fiscale”. La
capacità contributiva presiede quindi alla corretta individuazione dei fatti imponibili.
117
MOSCHETTI F., Il principio di capacità contributiva, espressione di un sistema di valori che informa il
rapporto tra singolo e comunità, in Diritto tributario e Corte Costituzionale (a cura di PERRONE L. e BERLIRI
C), cit., pag. 45-46. Evidenzia l’autore come la norma sia stata inserita nella Carta Costituzionale perché la
discrezionalità del legislatore trovasse un limite appunto nel principio di capacità contributiva. Il perno è quindi
rappresentato dal giudizio di idoneità alla contribuzione da parte del soggetto passivo ed in questo ambito si deve
inserire la discrezionalità del legislatore. “In definitiva: la discrezionalità termina dove viene meno l’idoneità”.
118
FALSITTA G., Manuale di diritto Tributario. Parte generale, cit., pag. 159. Entrambi questi due fattori sono
essenziali definiti talvolta come una conditio sine qua non che porta ad identificare la capacità contributiva come
un vincolo assoluto.
43
precisazione che qualora i fatti-indice posti a base della tassazione siano generati attraverso
presunzioni troppo lontane dalla realtà effettiva, si finisce con il prevedere il prelievo di
arricchimenti fittizi, dove non esiste una reale capacità economica del soggetto. Le fattispecie
da sottoporre a tassazione devono essere espressive della capacità del soggetto passivo a
sostenere le spese pubbliche; la capacità contributiva non deve essere presunta ma deve essere
effettiva119. Si deve inoltre sottolineare che il requisito della disponibilità economica del
soggetto non si esaurisce nell’identità tra capacità economica e capacità contributiva: “è
capacità contributiva la capacità economica considerata idonea a realizzare nel campo
economico e sociale le esigenze collettive accolte nella Costituzione”120. La capacità
contributiva, che deve essere interpretata alla luce non solo dell’art. 53 Cost, ma collegandola
anche all’art. 2 Cost. ed ai valori espressi dalla Costituzione, implica quindi la valutazione
dell’idoneità della capacità economica alle spese pubbliche, identificando quindi quest’ultima
come condizione necessaria ma non sufficiente. Quindi ogni manifestazione di capacità
economica non è manifestazione di capacità contributiva. E’ proprio in questa “non
sovrapposizione” tra le due capacità che emerge la tutela del c.d. minimo vitale, il quale
prevede la non tassazione della capacità economica inidonea a concorrere alle spese
pubbliche, in relazione alla necessità di soddisfare le esigenze primarie dell’individuo. La
capacità contributiva rappresentativa dell’idoneità del soggetto a concorrere all’esborso, non
corrisponde quindi alla totale capacità economica del soggetto, dal momento che si deve tener
conto della detassazione del minimo vitale. Inoltre la previsione dell’art. 53 Cost. condiziona
anche il limite massimo del prelievo, nel senso che il tributo non può essere fissato in misura
superiore alla capacità contributiva del soggetto, altrimenti viene colpita la capacità
contributiva inesistente e non viene rispettata la correlazione tra obbligo di contribuzione e
capacità di contribuzione121. Il principio di capacità contributiva è quindi il presupposto ed il
119
MOSCHETTI F., Capacità contributiva, cit., pag. 13 e ss.; FALSITTA G., Manuale di diritto Tributario. Parte
generale, pag. 169. Il concetto di capacità contributiva implica che il soggetto deve essere effettivamente idoneo
ad essere tassato; l’idoneità deve essere effettiva ed attuale. L’idoneità economica deve basarsi su “fatti reali”,
non su “basi fittizie” e questo deve essere un principio da rispettare in ogni aspetto della disciplina tributaria,
quindi non solo il presupposto dell’imposizione e la base imponibile, ma anche i metodi d’accertamento e di
riscossione.
120
MOSCHETTI F., La capacità contributiva. Profili generali, in La capacità contributiva (a cura di
MOSCHETTI F.), cit., pag. 24.
121
FALSITTA G., Manuale di diritto Tributario. Parte generale, cit., pag. 160. L’art. 53 Cost. implica che il
prelievo sul soggetto passivo non può risolversi nell’espropriazione dell’oggetto della imposizione, essendo
l’imposta il prelevamento non della totalità della materia imponibile, ma solo di una quota che deve essere
rappresentativa della capacità contributiva. “Questi aspetti evidenziano l’incontestabile funzione anche
garantistica, per ciascun membro della comunità, dell’art. 53”. MOSCHETTI F., La capacità contributiva.
Profili generali, in La capacità contributiva (a cura di MOSCHETTI F.), cit., pag. 34. Viene evidenziato che
all’interno di tale limite massimo si esplica la discrezionalità legislativa, ma ancora una volta devono comunque
essere presi in considerazione i limiti posti dalla norme costituzionali che tutelano l’economia privata, quali gli
44
limite massimo del prelievo, oltre ad essere parametro dello stesso. Si può quindi
comprendere che l’art. 53 cit. svolge una duplice funzione nel nostro ordinamento, una
funzione solidaristica in relazione al fatto che tutti sono chiamati a concorrere alle spese
pubbliche in base alla forza economica di ciascuno, a cui ci si aggiunge anche una funzione
garantistica, ponendo dei limiti alla potestà tributaria dal momento che devono partecipare
all’imposizione solo coloro che effettivamente possiedono una capacità di contribuzione122.
L’art. 53 Cost. è espressione del contemperamento dell’interesse collettivo a partecipare alle
spese pubbliche e dell’interesse individuale a non essere tassato in misura superiore alla
propria capacità contributiva, specifica ed effettiva; non può esistere una preminenza
dell’interesse fiscale che porti a tassare sacrificando il principio della capacità contributiva.
Quanto espresso dall’art. 53 cit. “vuole garantire la solidarietà fiscale, ma partendo dalla
garanzia della persona, la cui specifica attitudine a contribuire è il presupposto invalicabile
del dovere”123.
1.6.2 Società di comodo e il principio di capacità contributiva
Dopo aver delineato i fondamenti del principio di capacità contributiva ed averne sottolineato
la sua importanza nel vincolare le scelte del legislatore tributario sulle fattispecie significative
da sottoporre a tassazione, si riprende l’analisi della disciplina delle società non operative alla
luce delle riflessioni effettuate nel precedente paragrafo. L’impianto legislativo delineato
dall’art. 30 della Legge n. 724/1994 si basa sulla predeterminazione forfettaria del reddito,
incentrata sull’applicazione automatica dei coefficienti ai valori di determinati cespiti
patrimoniali e sulla possibile prova concessa al contribuente di dimostrare le situazioni
art. 41- 42- 47 della Costituzione che devono essere considerati assieme all’art. 53 Cost. Riporta l’autore
l’esempio dell’illegittimità del prelievo tributario se il carico fiscale complessivo mette a rischio la permanenza
dell’economia privata o non permette la possibilità di scegliere l’esercizio di una determinata attività economica
o professionale. Questo non è in contrasto con la funzione garantistica e solidaristica espressa dall’art.53 Cost.,
dal momento che è proprio la funzione solidaristica dell’economia privata che richiede il mantenimento e la
tutela della stessa.
122
FALSITTA G., Manuale di diritto Tributario. Parte generale, cit., pag.. 155 e ss.. La funzione solidaristica
intrinseca quindi nel comma 1 dell’art. 53 Cost. emerge anche nel secondo comma del citato articolo , il quale
afferma che “il sistema tributario è uniformato a criteri di progressività”. Progressività che significa dunque
aumentare l’incidenza del prelievo man mano che incrementano le ricchezze sulla cui base si fonda il prelievo
stesso. MOSCHETTI F., Capacità contributiva, cit., pag. 3. la funzione solidaristica del dovere prescritto
dall’art.53 Cost. risulta dal collegamento con l’art.2 Cost., dal concetto stesso di capacità contributiva e dal
principio di progressività del sistema tributario.
123
MOSCHETTI F., Il principio di capacità contributiva, espressione di un sistema di valori che informa il
rapporto tra singolo e comunità, in Diritto tributario e Corte Costituzionale (a cura di PERRONE L. e BERLIRI
C), cit., pag. 55. MOSCHETTI F., La capacità contributiva. Profili generali, in La capacità contributiva (a cura
di MOSCHETTI F.), cit., pag. 48. La centralità dell’art.53 in esame e del rispetto del principio di capacità
contributiva devono rappresentare dei valori a cui non si può rinunciare nemmeno nei momenti di crisi della
finanza pubblica dato che l’urgenza del gettito non può avere prevalenza sui “principi-base”.
45
oggettive che non hanno permesso il conseguimento delle soglie di generazione dei ricavi e di
redditività previste ex lege.
In linea generale le predeterminazioni normative incidono sui criteri di tassazione stabiliti
dall’art. 53 della Costituzione, che funge da presupposto, parametro e limite dell’imposizione
stessa. Attraverso questi sistemi di imposizione e la disciplina delle società di comodo ne è un
esempio, la logica posta a base del principio della capacità contributiva viene rovesciata, dal
momento che si accetta che un soggetto possa venire tassato solo perché possiede un reddito
inferiore ai valori normativi, non considerando l’effettiva idoneità soggettiva alla
contribuzione. Viene meno quindi la personalizzazione del prelievo che dovrebbe garantire a
ciascun contribuente un trattamento che rispecchi la propria specifica situazione reddituale,
non rispettando quindi i precetti alla base del concetto di capacità contributiva espressi
dall’art. 53 Cost.124. A questo primo problema si aggiunge l’individuazione dell’indice di
forza economica rappresentativo della capacità contributiva per i soggetti non operativi. E’
stato evidenziato come la capacità contributiva, nel pensiero del legislatore, nel caso delle
società di comodo possa essere espressa dall’effettiva potenzialità dei beni posseduti dalla
società di generare reddito; tale potenzialità non viene meno quando il reddito prodotto è
nullo o di ridotta entità, ma quando viene dimostrata l’impossibilità oggettiva di raggiungere
il reddito atteso125. Tuttavia il dato di fatto è che la disciplina della non operatività sostituisce
all’imposizione della singola realtà economico-contabile, una realtà normativa applicabile a
tutti i contribuenti che basa il proprio presupposto non sull’incremento di ricchezza ascrivibile
al soggetto passivo ma sul patrimonio, partendo dal concetto che se una struttura possiede una
certa consistenza patrimoniale dovrebbe essere in grado di raggiungere una determinata soglia
reddituale. “Il presupposto strutturale del tributo cui ricondurre effettivamente la capacità
economica del soggetto sarebbe in realtà non il “reddito”, ma il “patrimonio” societario (o
meglio una quota particolare del patrimonio/capitale sociale, calcolata secondo particolari
124
TOSI L., Le predeterminazioni normative nell'imposizione reddituale. Contributo alla trattazione sistematica
dell’imposizione su basi forfettarie, cit., pag. 96 e ss.. L’autore evidenzia come tutti gli strumenti di natura
forfettaria incrinano l’esigenza della personalizzazione del prelievo stabilita dall’art. 53 Cost., venendo meno
inoltre il requisito dell’effettività e la componente garantistica del prelievo che permette di bilanciare il dovere
collettivo alla contribuzione con i diritti individuali.
125
SCHIAVOLIN R., Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, in AA.VV., Le
società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 68-69. E’ stato evidenziato che letta in questo modo la
normativa sulle società di comodo potrebbe avere una giustificazione logica sul piano della capacità contributiva
dato che verrebbe tassato un indice effettivo di ricchezza e quindi di forza economica secondo un nesso non
irragionevole. In modo critico LUPI R., Le società di comodo come disciplina antivesiva, cit., pag. 1098,
sottolinea che non è stata ancora trovata quale sia la capacità economica a cui si riferisce la presunzione del
reddito minimo stabilita dall’art. 30 della Legge n. 724/1994 e che se non viene svolta alcuna attività economica
non ha senso prevedere la determinazione di un determinato reddito basandosi sulla mera disponibilità dei beni
patrimoniali.
46
criteri individuati preventivamente dalla legge)”126. In questo modo viene assoggettato ad
imposizione non il reddito che deriva da un incremento del patrimonio nel periodo d’imposta,
con il rischio di tassare una ricchezza fittizia che non rispecchia affatto la situazione del
contribuente. E’ proprio questa la conseguenza insita nella disposizione dell’art. 30 della
Legge n. 724/1994 che si basa sull’analisi della mera disponibilità dei beni patrimoniali, quali
indici di forza economica e sulla loro attitudine a generare reddito, non prendendo in
considerazione minimamente la situazione oggettiva del contribuente ed il fatto che il reddito
deve essere espressione dell’attitudine alla contribuzione, legato a fattispecie dinamiche. Si
pone quindi a tassazione non necessariamente il reddito prodotto, ma la ricchezza determinata
aprioristicamente dal legislatore e questo è totalmente incompatibile con i pilastri posti a base
dell’art. 53 relativi alla funzione garantistica e solidaristica che deve essere svolta dal
principio di capacità contributiva. Viene quindi violato il principio della capacità contributiva
sotto il profilo dell’effettività, dal momento che la tassazione che ne può derivare è totalmente
scollegata rispetto al reddito effettivamente conseguito e non considera l’arricchimento
ascrivibile al contribuente. Procedendo in questa direzione, lo sganciamento dell’indice di
capacità contributiva rispetto alla realtà economica del contribuente e l’identificazione del
reddito imponibile come grandezza non reale ma fittizia può portare ad un’incidenza
percentuale della tassazione che eccede di gran lunga il valore dell’aliquota stessa127. Il
legislatore nel scegliere le situazioni da sottoporre a tassazione non può sottovalutare il fatto
che la capacità contributiva deve essere effettiva e, nel caso delle società di comodo questa
effettività viene meno, appunto perché si tassa sulla presunzione che dal possesso di
determinati beni il contribuente avrebbe dovuto generare quel determinato reddito 128. La
disciplina della società di comodo finisce con il tassare il patrimonio, grandezza statica e non
dinamica; quest’ultimo non è rappresentativo in sé dell’idoneità del contribuente a concorrere
126
CERMIGNANI M., Il regime fiscale delle società di comodo: ratio, attualità, prospettive, cit., pag. 1-255.
POGGIOLI M., Indicatori di forza economica e prelievo confiscatorio, Padova, 2012, pag. 46. Sottolinea
l’autore come, in questi casi di tassazione sganciata dalla realtà concreta, l’incidenza percentuale della tassazione
rispetto al valore nominale dell’aliquota potrebbe posizionarsi ad un livello che supera anche il cento per cento,
in rapporto al reddito del contribuente. Ne deriva la possibilità di assorbire la disponibilità economica del
contribuente attraverso “la peculiare potenzialità confiscatoria dell’imposta sul reddito isolatamente
considerata”.
128
STEVANATO D., Società di comodo senza fine: da imposta su presunti redditi di fonte patrimoniale a tributo
extrafiscale sul patrimonio?, in PEVERINI L.,VIGNOLI A., LUPI R. e STEVANATO D., Società non
operative: una patrimoniale mascherata da criterio (contronatura) di determinazione dei redditi, cit., pag. 132.
L’autore sostiene la libertà del legislatore nel scegliere gli indici di capacità economica e la possibilità di
determinare il reddito legandolo a coefficienti di redditività. Tuttavia la tassazione deve sempre rispecchiare
l’effettivo arricchimento in un determinato arco temporale della società, anche quando “la base per la tassazione
è data (…) dall’attitudine del bene a produrre un reddito economico e non dal reddito che ne ricava il
possessore, dalla produttività e non dal prodotto reale”, come stabilito dalla Corte Costituzionale nella sentenza
n. 16 del 1965 relativa alla legittimità delle rendite catastali previste per gli immobili.
127
47
alle spese pubbliche e non può essere indice della capacità economica a lui ascrivibile e
quindi tassabile. La tassazione delle società non operative diventa quindi un’indiretta forma di
tassazione del patrimonio, dato che il reddito è il risultato dell’attività esercitata ed in questo
caso la tassazione si basa invece sulla mera disponibilità di specifici cespiti patrimoniali e
sulla potenzialità di poter raggiungere una determinata soglia reddituale dal loro possesso129.
Le problematiche della disciplina delle società di comodo con riferimento al rispetto della
capacità contributiva riguardano quindi da un lato l’oggetto della tassazione che non è
rappresentato dall’incremento della ricchezza prodotta in un determinato arco temporale dal
contribuente, a cui ci si aggiunge la questione della reale idoneità dello stesso alla
contribuzione130. I tratti caratterizzanti l’art. 53 della Costituzione, che sono la
personalizzazione del tributo e l’attenzione posta all’effettività dell’arricchimento, vengono
appunto meno nella disciplina della non operatività. Non si considera minimamente la
situazione soggettiva del contribuente e la sua idoneità soggettiva alla contribuzione, oltre al
fatto che presupposto base della tassazione non è un incremento effettivo di ricchezza
ascrivibile al soggetto passivo, ma la potenzialità di generare reddito derivante dal possesso di
determinati beni nel patrimonio societario. Sembra quindi evidente la difficoltà di
coordinamento della disciplina con il rispetto del principio di capacità contributiva.
1.6.3 Le modifiche apportate nel 2011 alla disciplina delle società di comodo: qualche
altra considerazione sul rispetto dei principi costituzionali
L’intervento del legislatore nel 2011, ampliando l’ambito d’applicazione della disciplina alle
società che, sebbene operative, risultino in perdita fiscale per tre periodi d’imposta o in
perdita per due periodi, al quale se ne aggiunge un ulteriore nel quale la società dichiara un
reddito inferiore a quello stabilito dal comma 3 dell’art.30 della Legge n.724/1994 ed
innalzando l’aliquota IRES al 38%, ha peggiorato la già disarticolata disciplina delle società
di comodo facendo sorgere ulteriori dubbi sulla compatibilità costituzionale dell’istituto. Per
129
POGGIOLI M., Indicatori di forza economica e prelievo confiscatorio, cit., pag. 24. Il patrimonio del
contribuente è rappresentativo “di una base di commisurazione del prelievo fiscale. (…) In effetti, se il
patrimonio rappresenta una potenziale fonte produttiva di reddito, sottoporre ad imposizione il patrimonio
significa, indirettamente, sottoporre a prelievo il reddito suo tramite (tramite il patrimonio, cioè) producibile
nell’arco temporale considerato. (…) reddito “producibile”, non già “effettivamente prodotto”, con evidenti
problemi circa la concretezza della situazione sulla quale dovrebbe poggiare, ben saldo, il fenomeno
impositivo”.
130
BEGHIN M., Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, in FALSITTA G., Manuale di Diritto Tributario.
Parte speciale, cit., pag 724-725. Si evidenzia che l’art. 30 della Legge n. 724/1994 si basa sulla proporzionalità
tra il valore dei cespiti ed il reddito, con la conseguenza che l’imposta reddituale che ne deriva ha evidenti
declinazioni patrimoniali. Il modello è incompatibile con il principio della capacità contributiva e il rischio è che
venga tassata ricchezza meramente fittizia non ascrivibile al soggetto passivo.
48
quanto riguarda le società in perdita sistemica esse vengono tout-court identificate come non
operative a fronte del conseguimento di perdite fiscali per più periodi d’imposta, mai
verificate dall’Amministrazione Finanziaria131. Il fatto che la società abbia ottenuto un
risultato negativo reiterato può far sorgere il sospetto d’evasione, è quindi comprensibile che
l’Amministrazione Finanziaria proceda ad effettuare controlli, verificando la consistenza e la
genesi di quella determinata situazione economica. La scelta effettuata dal legislatore con il
Decreto Legge n. 138/2011 è ben diversa invece, dal momento che tali società in perdita
fiscale per tre periodi d’imposta consecutivi devono dichiarare nel quarto periodo d’imposta
un reddito minimo, secondo quanto stabilito dall’art. 30 della Legge n. 724/1994, anche se
proprio in quel periodo d’imposta la società risulta aver superato il test d’operatività132.
Questa scelta legislativa rappresenta “una surrettizia presunzione di antieconomicità”,
secondo cui il perdurare di perdite fiscali diventa sintomo del fatto che la società non svolga
effettivamente un’attività economica133. Non si considera quindi minimamente l’effettiva
situazione del contribuente, ben potendo tale risultato economico negativo reiterato, essere il
frutto di una reale crisi che ha colpito la società stessa, soprattutto in questo periodo non così
roseo per l’economia italiana. Ci si potrebbe inoltre trovare di fronte a società che dichiarano
perdite fiscali a fronte di un elevato ammontare di ricavi e o di rimanenze, prescindendo
quindi il risultato negativo raggiunto dal livello di operatività della società. La situazione di
perdita ottenuta in un determinato periodo d’imposta, che è rappresentativa di una situazione
131
Secondo PEVERINI L., La natura patrimoniale dell’imposta sulle società di comodo, in PEVERINI L.,
VIGNOLI A., LUPI R. e STEVANATO D., Società non operative: una patrimoniale mascherata da criterio
(contro natura)di determinazione dei redditi, cit., pag.132, la previsione della reiterazione di perdite fiscali per
più periodi d’imposta e l’identificazione automatica del soggetto come non operativo si basa su una doppia
presunzione: se una società in costante perdita “vuole” comunque rimanere in vita significa che non gli interessa
produrre utili da distribuire ai soci e da questa prima presunzione deriva la seconda che si esplica nel fatto che
quindi la società viene utilizzata per scopi diversi da quello previsto dall’art. 2247 Cod. Civ., appunto per il mero
godimento dei beni
132
Questa scelta legislativa concernente la non operatività automatica delle società in perdita sistemica deve
essere analizzata anche alla luce dell’art. 24 del Decreto legge n. 78 del 21 maggio 2010 nel quale è stato
stabilito che “la programmazione dei controlli fiscali dell'Agenzia delle entrate e della Guardia di finanza deve
assicurare una vigilanza sistematica, basata su specifiche analisi di rischio, sulle imprese che presentano
dichiarazioni in perdita fiscale, non determinata da compensi erogati ad amministratori e soci, per più di un
periodo d'imposta e non abbiano deliberato e interamente liberato nello stesso periodo uno o più aumenti di
capitale a titolo oneroso di importo almeno pari alle perdite fiscali stesse”. Quindi la perdita fiscale dichiarata
dalla società stessa per più periodi d’imposta declina “in un indice di pericolosità da apprezzare sul piano
procedimentale”, che deve essere valutata dall’Amministrazione Finanziaria, ad eccezione dei due casi stabiliti
dall’articolo citato: la perdita fiscale risulta dell’erogazione di compensi a soci ed amministratori per un
ammontare superiore alla perdita stessa, tassabili in capo alle persone fisiche; è stato deliberato un aumento del
capitale sociale per un ammontare pari almeno al valore della perdita fiscale, rappresentativo dell’effettività della
perdita stessa e dell’interesse della struttura societaria a continuare lo svolgimento dell’attività economica. Si
veda a tal proposito BEGHIN M., Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, in FALSITTA G., Manuale di
Diritto Tributario. Parte speciale, cit., pag 720-721 nota n.16.
133
SBROIAVACCA A., La necessità di valutare le perdite alla luce del settore economico d’appartenenza, in
STEVANATO D. e SBROIAVACCA A., Società in perdita sistemica e tassazione degli utili inesistenti, una
bomba ad orologeria da disinnescare, in Dialoghi dir. trib., 2012, 5, pag.502.
49
meritevole di tutela, tanto è vero che è previsto il riporto in avanti della perdita e lo scomputo
dal reddito prodotto nei periodi d’imposta successivi, “subisce una chiara mutazione per
effetto delle modifiche introdotte dalle società di comodo (…) con chiara trasposizione di fine
e di mezzi dall’ambito dell’azione amministrativa di controllo a quella legislativa”134.
Considerare automaticamente società di comodo i soggetti che hanno conseguito un risultato
negativo per più periodi d’imposta, significa penalizzare di fatto le strutture societarie che
svolgono un’attività economica, rischiando invece di non porre attenzione alla ricchezza
effettivamente nascosta, dal momento che le società che vorranno occultare i propri ricavi
dichiareranno degli utili anche se risicati, in modo da evitare le disposizione previste per le
società in perdita sistemica relative alla determinazione del reddito presunto135. C’è quindi il
rischio di colpire i soggetti che realmente sono operativi e che si trovano in un periodo di
difficoltà economica; questo risulta contraddittorio e ci si allontana sempre più dalla logica
stessa per la quale la disciplina è stata introdotta. La conseguenza che deriva attraverso tale
scelta legislativa è che l’indice di capacità contributiva potrebbe non riflette affatto la
situazione reale del soggetto passivo, ponendo così a tassazione ricchezza inesistente e non
considerando il requisito di effettività della capacità contributiva. Potrebbe cioè essere
considerata come società non operativa una società che ha superato il test d’operatività e che
effettivamente svolge un’attività economico-produttiva, ma che ha conseguito delle perdite
fiscali reiterate. In tale situazione di difficoltà la società è obbligata, in modo irragionevole, a
dichiarare un predeterminato reddito ed ad utilizzare le perdite pregresse solo per la parte
eccedente il reddito minimo dichiarato. Viene quindi sottoposta a tassazione ricchezza che
non è espressiva della capacità economica del soggetto passivo e questa penalizzazione
evidenzia ancora una volta il contrasto tra la disciplina delle società di comodo ed il rispetto
del principio di capacità contributiva stabilito dall’art. 53 Cost.136. Per quanto concerne
l’innalzamento dell’aliquota per i soggetti IRES di 10,5 punti percentuali dal 27,5% al 38%, è
134
DAMIANI M., Società di comodo e perdite sistemiche: l’abuso del diritto risolve le possibili discriminazioni,
cit., pag. 929.
135
STEVANATO D., Società senza utili, imposte senza ricchezza: un caso di “darwinismo fiscale”?, in
STEVANATO D. e SBROIAVACCA A., Società in perdita sistemica e tassazione degli utili inesistenti, una
bomba ad orologeria da disinnescare, cit., pag. 502. L’autore afferma “che dietro all’estensione alle società in
perdita della normativa sulle “società di comodo”, non può esservi un giudizio di non operatività, quanto
un’insana estensione dell’abusato concetto di “antieconomicità”, riferito stavolta non già a singole operazioni
d’acquisto, di vendita ecc., bensì all’intera vita sociale, considerata nel suo complesso: una serie di risultati
aziendali di segno negativo sarebbe appunto, di per sé, contraria ai canoni dell’economia”. La realtà è che
possono esistere effettivamente società in perdita per più periodi e che tale previsione legislativa rischia di
danneggiare realmente le società operative che si trovano in tali circostanze.
136
Evidenzia STEVANATO D., Società “di comodo”: un capro espiatorio buono per ogni occasione, in Dialoghi
dir. trib., 2011, 47, pag. 3889, come “le modifiche apportate dal D.L. n. 138/2011 accentuano (…) i profili di
irrazionalità della disciplina, che appare ormai un prelievo selettivo, sganciato da ogni logica e coerenza, ed
esclusivamente finalizzato al reperimento del gettito ad ogni costo”.
50
stato evidenziato come questa previsione dimostri che “la leva fiscale rappresenta lo
strumento del quale il legislatore si serve per disincentivare la permanenza nel nostro sistema
di soggetti che (…) non raggiungono un decoroso livello di redditività”137; la struttura
societaria di comodo quindi o decide di adeguarsi pagando l’aliquota maggiorata o deve
optare per lo scioglimento della società stessa in modo da evitare la penalizzazione. Si è
ipotizzato che l’innalzamento dell’aliquota possa essere letto come il tentativo di avvicinare il
carico fiscale IRES a quello che sarebbe stato imputato al socio, qualora egli avesse detenuto
direttamente i cespiti societari e che quindi “l’innalzamento dell’aliquota avrebbe l’obiettivo
di dissuadere dall’effettuare intestazioni societarie di comodo di cespiti detenuti nell’ambito
di attività di mero godimento”138. L’innalzamento dell’aliquota IRES al 38% rappresenterebbe
quindi una misura forfetizzata del prelievo a scaglioni previsto per le persone fisiche. Tuttavia
tale tesi sembra contraddetta dalla stessa disciplina, la quale prevede che le società di capitali
costituitesi come società a responsabilità limitata, che hanno optato per il regime della
trasparenza fiscale di cui all’art. 116 TUIR, debbano versare autonomamente la
maggiorazione dell’aliquota IRES pari al 10,5%, anche laddove il reddito sia comunque
imputato ai soci persone fisiche139. In sostanza l’innalzamento dell’aliquota IRES per le
società non operative crea una disparità di trattamento evidente da un lato rispetto alle società
operative, ma anche all’interno della stessa categoria di società che non hanno superato il test
d’operatività stabilito dal comma 1 dell’art. 30 della legge n. 724/1994, dal momento che
l’aggravio non colpisce le società di persone. La maggiorazione dell’aliquota essendo infatti
137
BEGHIN M., Diritto Tributario. Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, cit., pag. 632.
In modo critico anche MARRONE F., Società “di comodo” o “comodo gettito virtuale” senza ricchezza
sottostante?, in DAMIANI M., MARRONE F. e LUPI R., Società “non operative” e determinazione della
ricchezza, cit., pag. 262, sottolinea come “la maggiorazione IRES di 10,5 punti percentuali introdotta solo per le
società di capitali ( e soggetti assimilati) di comodo (…) sembra rientrare nella logica di tassazione “di diritto”
di tutto quello che è dichiarato, indipendentemente da ogni valutazione economica effettiva che abbia sufficiente
coerenza logico-sistematica”.
138
STEVANATO D., Società “di comodo”: un capro espiatorio buono per ogni occasione, cit., pag. 3889.
Originariamente la disciplina della non operatività era stata introdotta per contrastare le società “senza impresa”,
costituite non per svolgere attività produttiva ma come meri contenitori patrimoniali, i cui beni venivano
utilizzati dai soci nella loro sfera privata. L’autore sottolinea come l’intestazione dei beni alla società
consentirebbe ai soci di “evitare in definitivamente la tassazione progressiva IRPEF, assestando il prelievo dei
reali rentiers (soci della società) sull’aliquota proporzionale IRES”. La maggiorazione dell’aliquota IRES
rappresenterebbe il tentativo di evitare le intestazioni societarie di comodo, visto l’avvicinamento del carico
IRES a quello IRPEF. Inoltre nel citato articolo vengono effettuate alcune riflessioni riguardanti il
coordinamento della disciplina con l’ipotesi di distribuzione dei dividendi ai soci e con il nuovo regime fiscale
dell’assegnazione dei beni in godimento ai soci e familiari, sempre introdotto dal Decreto Legge n. 138/2011. In
particolare viene evidenziato che se la maggiorazione dell’aliquota IRES al 38% trovasse spiegazione nel fatto
che in questo modo gli utili societari verrebbero tassati immediatamente, come si trattasse di redditi subito nella
disponibilità dei soci, allora non dovrebbe esserci il secondo livello di tassazione, cioè quando avviene la
distribuzione dei dividendi ai soci.
139
Si veda la nota n. 51 per i dettagli applicativi riguardanti il coordinamento della disposizione riguardante
l’innalzamento dell’aliquota IRES con il regime fiscale della trasparenza fiscale ed il consolidato nazionale.
51
applicabile ai soli soggetti IRES comporta, per esempio, che il socio persona fisica di una
società di persone non venga colpito da detto innalzamento, mentre ne è colpito il socio
persona fisica di una S.R.L. a ristretta base proprietaria, che ha optato per la trasparenza
fiscale secondo l’art. 116 TUIR. In questo modo è evidente non solo il contrasto della
normativa con il principio di capacità contributiva, dato che si sottopone a tassazione un
reddito predeterminato che non necessariamente è rappresentativo dell’incremento di
ricchezza prodotto in quel determinato periodo d’imposta, ma anche del venir meno del
principio d’uguaglianza. Si crea una disparità di trattamento che esula dall’obiettivo stesso
della disciplina di disincentivare l’utilizzo delle strutture societarie come meri contenitori
patrimoniali. Sempre in tema di innalzamento dell’aliquota IRES sembra opportuno accennare
alla “Robin Hood Tax” che riguarda le imprese operanti nel settore petrolifero, dell’energia
elettrica e del gas, le quali hanno superato nel periodo d’imposta precedente una determinato
volume di ricavi e di reddito imponibile, qualora tali ricavi riconducibili ai predetti settori
siano prevalenti rispetto all’ammontare complessivo dei ricavi conseguiti. Tale previsione è
stata introdotta dal Decreto Legge n. 112/2008, prevedendo una maggiorazione dell’aliquota
IRES prima del 5,5% rispetto all’ordinario 27,5%, poi nel 2009 l’incremento è stato
aumentato di un ulteriore punto percentuale. Sempre il Decreto Legge n. 138/2011 ha stabilito
che anche in questo caso la maggiorazione dovesse essere pari a 10,5 punti percentuali, da
applicarsi nel triennio 2011-2013, per un periodo limitato a differenza dell’ipotesi delle
società di comodo, riprendendo poi ad applicarsi dal periodo d’imposta 2014 l’incremento del
6,5%; infine il Decreto Legge n. 69/2013 ha ulteriormente ampliato i soggetti interessati da
tale disposizione legislativa riducendo le soglie indice dei ricavi e del reddito imponibile,
oltrepassate le quali detta maggiorazione trova attuazione. L’introduzione di tale incremento
di valore dell’aliquota IRES, in questo caso, è stata prevista per imporre una sovraimposizione relativa agli extra-profitti realizzati grazie all’aumento concordato del prezzo del
petrolio. E’ stato tuttavia evidenziato che l’arricchimento di una società petrolifera non si
differenzia da quello delle società operanti in altri settori industriali e che quindi tale sovraimposizione vada contro il rispetto del principio della capacità contributiva e di
uguaglianza140. Sembra difficile identificare per queste imprese petrolifere una maggiore
capacità contributiva rispetto alle altre imprese, dal momento che ad essere tassato è
140
STEVANATO D., Società “di comodo”: un capro espiatorio buono per ogni occasione, cit., pag. 3889.
Sottolinea in modo critico che “c’è un filo conduttore che lega le vicende apparentemente lontane come quelle
della Robin Hood Tax o delle società di comodo: si tratta di creare dei “colpevoli” del malessere sociale indotto
dalle sperequazioni fiscali che tutti avvertono, ed il ruolo di “colpevole” può essere interpretato altrettanto bene
dalle compagnie petrolifere così come dalle società “di comodo” ”.
52
comunque il reddito che a parità di dimensione è rappresentativo della medesima forza
economica indipendentemente dal settore in cui opera la società. Inoltre vengono colpite solo
le società petrolifere che superano una determinato soglia di fatturato, non distinguendo, per
esempio, la “posizione” dei produttori di greggio da quella dei distributori di idrocarburi.
Entra quindi in gioco il principio di uguaglianza, oltre al fatto che se l’obiettivo è quello di
sovra-tassare gli extra-profitti non ha senso prevedere che l’aliquota maggiorata si applichi
all’utile intero. Da qui ne deriverebbe l’incostituzionalità di detta previsione legislativa per
violazione dell’art. 3 e dell’art. 53 della Costituzione141. A tal proposito la Commissione
Tributaria Provinciale di Reggio Emilia nell’Ordinanza n. 9 del 26 marzo 2011 ha ritenuto
non infondati i dubbi di legittimità costituzionale della maggiorazione dell’aliquota IRES per
il settore petrolifero, rinviando alla Corte Costituzionale il quesito della compatibilità della
“Robin Hood Tax” con il principio di capacità contributiva e di uguaglianza. Inoltre la
Commissione Regionale della Lombardia con l’Ordinanza n. 28 del 13 gennaio 2014 ha
riaperto la questione della legittimità costituzionale dell’innalzamento dell’aliquota IRES per
le società petrolifere che superano determinati livelli di fatturato, rimettendo alla Consulta la
valutazione riguardante l’irragionevolezza e la lesione del principio di capacità contributiva,
la quale tuttavia non si è ancora espressa142. In merito deve essere inoltre richiamata la
141
STEVANATO D., La “Robin Hood Tax” e i limiti di discrezionalità del legislatore, in Riv. giur. trib., 2008,
10, pag. 841. Secondo l’autore tale previsione legislativa non presenta una logica ed una giustificazione, oltre ad
alterare i tratti dell’imposta reddituale. Il legislatore gode di una propria discrezionalità nel scegliere le
fattispecie significative da tassare ma questo innalzamento sembra non rispettare il limite d’uguaglianza
tributaria e di rispetto del principio di capacità contributiva. STEVANATO D., La “Robin Tax” alla prova del
giudizio di costituzionalità, in Corr. trib., 2011, 20, pag. 1674. Il non rispetto degli art. 3 e 53 della Costituzione
deriverebbe appunto dal fatto che si prevede un maggior prelievo fiscale non correlato ad una maggiore capacità
contributiva rispetto a quella espressa dalle imprese negli altri settori economici o dalle stesse imprese che
operano nel settore petrolifero ma con una dimensione di fatturato che non raggiunge la soglia prevista ex lege
per l’applicazione della “Robin Hood Tax”. Sottolinea invece COVINO E. e MAIORANA D., E’
costituzionalmente legittimo l’aggravio di aliquota per un settore economico?, in COVINO E., “Robin Hood
Tax”: un altro tributo selettivo, in Dialoghi dir. trib., 2011, 4,pag. 393 che il problema in questo caso non
riguarda il principio di capacità contributiva, ma quello di uguaglianza tributaria e la domanda da porsi è relativa
al fatto dell’esistenza di fondamenti costituzionali che pongono un divieto di tassazione maggiore per un
determinato settore rispetto ad altri. “La “Robin Hood Tax” è stata probabilmente varata contando sulla
diffidenza diffusa nei confronti delle società petrolifere, che subiscono su un chiaro clima di sospetto da parte
dell’opinione pubblica, e proprio questo è il motivo per cui una contestazione in merito alla sua legittimità
costituzionale è opportuna al di là dell’esito”.
142
In particolare questa ordinanza rispetto alla precedente che si è focalizzata sotto un profilo più generale
sottolinea come “l'applicazione di questo principio porta tuttavia a distorsioni impressionanti, forse neppure
ipotizzate dal legislatore: per fare una prima esemplificazione semplicissima, avremmo che un soggetto con
Euro 25.000.000 di ricavi tutti “energetici” non sarebbe soggetto alla addizionale, che sarebbe invece
applicabile – sull’intero ammontare dei profitti - a carico del soggetto ne consegua Euro 25.000.001 di ricavi, di
cui soltanto 12.501 “energetici” e 12.500 “diversi”. Ma l’assurdo non avrebbe limite, perché troveremmo
curiosamente esonerato dalla addizionale il contribuente con ricavi - per "sparare" una cifra qualunque - di
Euro 2.000.000.001, di cui ben un miliardo “energetico” ma “annullato” dal miliardo e un Euro per ricavi
diversi: le considerazioni appena spese, e con esempi moltiplicabili ad libitum, consentono di dubitare
ampiamente della compatibilità di questo sistema normativo con gli art. 3 e 53 Cost.”.
53
Sentenza della Corte Costituzionale n. 21 del 19 gennaio 2005 che ha rigettato
l’incostituzionalità per violazione dell’art. 3 e dell’art. 53 della Costituzione, con riguardo
all’applicazione di aliquote differenziate IRAP in relazione al periodo temporale di
riferimento per le banche, le società finanziarie e le imprese d’assicurazione, prima che
venisse istituita l’imposta regionale sulle attività produttive143. In particolare è stato affermato
che “la previsione di aliquote differenziate per settori produttivi e per tipologie di soggetti
passivi rientra, infatti, pienamente nella discrezionalità del legislatore se sorretta da non
irragionevoli motivi di politica economica e redistributiva”. Le ragioni del disallineamento
delle aliquote IRAP “trovano il loro fondamento specifico nel carattere dell’IRAP di tributo
sostitutivo di altri tributi e prestazioni d’imposta e, quindi, nel ragionevole intento del
legislatore delegato di garantire una certa continuità tra il precedente e il nuovo regime,
soprattutto in termini redistributivi e di gettito”. “Ciò tanto più vale se si considera – come
costantemente sottolineato da questa Corte – la discrezionalità del legislatore è
particolarmente ampia quando trattasi di dettare disposizioni transitorie”. E’ stato tuttavia
sottolineato che la maggiorazione prevista per il settore petrolifero ed anche per le società di
comodo è permanente e non transitoria, oltre al fatto che non si è in presenza di un passaggio
di regime tra differenti tributi, trattandosi dell’imposta sul reddito delle società144. Il
legislatore ha quindi previsto anche in altri contesti come quello petrolifero l’innalzamento
dell’aliquota IRES.
Ritornando alla disciplina delle società di comodo, nessuno potrebbe dirsi contrario al fatto di
penalizzare le società “senza impresa” costituite non per svolgere attività produttiva, ma per
poter trarre un vantaggio fiscale dall’intestazione dei beni, utilizzati per fini personali, alla
società. La questione è che le modifiche apportate dal legislatore nel 2011 si allontanano
sempre più dall’obiettivo originario della disciplina, incidendo invece sui soggetti che
possono essere realmente operativi e quindi sul principio di parità di trattamento dell’art. 3
Cost. in materia tributaria e di capacità contributiva. Si è in presenza: di una differenza
notevole nel valore dell’aliquota IRES del 38% rispetto a quella ordinaria del 27,5% che non
sembra trovare una giustificazione altrettanto ragionevole; della violazione intrinseca del
principio d’uguaglianza dal momento che detta maggiorazione riguarda i soli soggetti IRES
non operativi e del fatto che il reddito minimo imponibile potrebbe non avere alcuna
143
In particolare l’art. 45 del Decreto legislativo n. 446/1997 aveva previsto per queste categorie di soggetti
un’aliquota più elevata pari al 5,4% per il periodo d’imposta 1998-2000, al 5% per il periodo d’imposta 2001 e al
4,75% per il 2002.
144
In tal senso STEVANATO D., Perché la “Robin Tax” sui petrolieri è incostituzionale, in COVINO E., “Robin
Hood Tax”: un altro tributo selettivo, cit., pag. 393.
54
corrispondenza con il reddito effettivo, ponendo a tassazione ricchezza non realizzata,
incompatibilmente con il principio di capacità contributiva145. Le previsioni stabilite dal
legislatore nel 2011, relative all’ampliamento dei soggetti interessati dell’art. 30 della Legge
n. 724/1994 e all’introduzione dell’aliquota IRES pari al 38%, mettono ulteriormente in
risalto le difficoltà di far conciliare la disciplina delle società di comodo con i principi stabiliti
dall’art. 3 e 53 della Carta Costituzionale. Queste modifiche evidenziano ancora di più
l’allontanamento della disciplina in esame dal rispetto dei principi stabiliti dalla Carta
Costituzione e contemporaneamente rendono tale normativa uno strumento sempre meno
efficace ed idoneo a colpire i soggetti che effettivamente non svolgono attività
imprenditoriale146.
145
BEGHIN M., Diritto Tributario. Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, cit., pag. 634.
STEVANATO D., Società “di comodo”: un capro espiatorio buono per ogni occasione, cit., pag. 3889.
L’intervento appena descritto del 2011 deve essere contestualizzato nel panorama di crisi di credibilità che stava
vivendo l’Italia e le modifiche apportate alla disciplina delle società di comodo vengono definite dall’autore
come “un espediente politico-mediatico”. La tassazione delle società non operative più che contrastare l’abuso
dell’utilizzo delle strutture societarie è sempre più finalizzata a reperire gettito e contrasta in modo evidente con
il rispetto del principio d’uguaglianza e di capacità contributiva.
146
55
CAPITOLO 2
ANALISI DELL'AMBITO APPLICATIVO ED IPOTESI A BASE DELLA
NORMATIVA SULLE SOCIETA' DI COMODO
SOMMARIO: 2.1 Soggetti interessati dalla disciplina delle società di comodo: ambito
soggettivo d’applicazione e tipologie di società non annoverate nella predetta normativa - 2.2
Test di operatività: 2.2.1 Il valore dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi
medi effettivi; 2.2.2 L’applicazione delle percentuali per il calcolo dei ricavi medi presunti;
2.2.3 Alcune considerazioni relative al confronto tra ricavi medi effettivi e presunti - 2.3.
Cause d'esclusione e di disapplicazione automatica della normativa in esame: 2.3.1 Le cause
d'esclusione; 2.3.2 Le cause di disapplicazione automatica introdotte nel 2008 e nel 2012
Dopo aver delineato l’intera disciplina delle società di comodo evidenziando come essa
appaia una normativa complessa, disarticolata in contrasto con i principi costituzionali di
uguaglianza e del rispetto di capacità contributiva, in questo capitolo si procede ad esaminare
che cosa preveda nel dettaglio l’at. 30 della legge n.724/1994.
2.1 Soggetti interessati dalla disciplina delle società di comodo: ambito soggettivo
d'applicazione e tipologie di società non annoverate nella predetta normativa
Il primo comma dell'art. 30 della Legge n. 724 del 1994 prevede che la disciplina in esame si
applichi “(…) alle società per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata, in
nome collettivo e in accomandita semplice, nonché alle società e agli enti di ogni tipo non
residenti, con stabile organizzazione nel territorio dello Stato (...)”.
Ricadono quindi tra “i soggetti interessati” le società commerciali di capitali, le società di
persone147, ad eccezione delle società semplici, quelle ad esse equiparate ai sensi dell'art. 5 del
TUIR, residenti in Italia e tutti i soggetti societari ed enti non residenti, muniti di stabile
organizzazione. Nello specifico l’art. 5 comma 3 lett. a), b) del TUIR citato prevede
l'equiparazione, ai fini delle imposte dirette, delle società d'armamento alle società in nome
collettivo o in accomandita semplice, a seconda che siano state costituite all'unanimità o a
maggioranza, e delle società di fatto a quelle in nome collettivo, qualora abbiano per oggetto
l’esercizio di un'attività commerciale. Per quanto concerne poi il requisito della residenza,
come stabilito dal comma 3 dell'art. 73 del D.P.R. n. 917/1986148, implica che la società o
147
Come spiegato nel paragrafo 1.2 inizialmente erano escluse dall’applicazione della normativa le società di
persone; questa esclusione rappresentava una disparità di trattamento, dal momento che l’obiettivo dell'utilizzo
dello schermo societario per attività di mero godimento poteva essere raggiunto anche attraverso la scelta della
costituzione di società in nome collettivo o in accomandita semplice.
148
Tale articolo stabilisce quali sono i soggetti passivi a cui si applica la disciplina riguardante il reddito
56
l’ente possieda, per la maggior parte del periodo d'imposta, la sede legale o la sede
dell'amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato. A parere dell’Agenzia
delle Entrate, che ha precisato tale aspetto nella Circolare n. 25/E del 4 maggio 2007, la
normativa sulle società di comodo si applica anche nei confronti dei soggetti la cui sede
amministrativa o legale è situata al di fuori dell’Italia, quindi formalmente domiciliati
all’estero, privi di una stabile organizzazione149 nel territorio dello Stato, ma che vengono
considerati fiscalmente residenti in Italia per effetto della presunzione di cosiddetta
“esterovestizione”, stabilita al comma 5-bis dell'art. 73 del TUIR150. Sempre con riguardo alla
citata circolare è stato specificato che l’art. 30 della Legge n. 724/1994 interessa sia i soggetti
in regime di contabilità ordinaria che di contabilità semplificata; non rileva inoltre la
composizione della compagine societaria, che può essere formata sia da persone fisiche non
esercenti attività d'impresa, come pure da soci imprenditori individuali o società 151. La
normativa in esame stabilisce quindi esplicitamente i soggetti interessati dalla disciplina delle
società di comodo. L’esclusione delle società semplici deve essere analizzata alla luce
dell’obiettivo posto dal legislatore nel 1994, cioè colpire le società utilizzate dai contribuenti
per intestare i beni patrimoniali dei soci senza una reale finalità imprenditoriale, traendo
vantaggio dall’applicazione del regime del reddito d'impresa152, che prevede la deduzione
analitica dei costi a partire, per esempio, dall’ammortamento delle immobilizzazioni materiali
e immateriali153. Non si applica quindi l’art. 30 citato perché tali società non sono assoggettate
alle disposizioni del reddito d’impresa; di conseguenza per il legislatore non sussiste la
d'impresa.
149
L'art. 162 del TUIR definisce stabile organizzazione “(…) una sede fissa di affari per mezzo della quale
l’impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività sul territorio dello Stato. L’espressione stabile
organizzazione comprende in particolare: una sede di direzione, una succursale, un ufficio (…)”. Inoltre lo
stesso articolo al comma 6 sottolinea che salvo quanto disposto dai commi precedenti costituisce stabile
organizzazione il soggetto che può essere o non essere residente, il quale in forma abituale conclude nel territorio
dello Stato, in nome dell'impresa stessa, contratti differenti da quelli concernenti l'acquisto di beni.
150
Tale comma prevede che le società e gli enti che detengono partecipazioni di controllo, secondo quanto
stabilito dall'art. 2359 del Codice Civile al comma 1, abbiano la sede dell'amministrazione in Italia se a loro volta
sono assoggettati al controllo anche indiretto da parte di soggetti residenti in Italia, oppure se presentano un
organo di gestione composto prevalentemente da amministratori residenti nel territorio dello Stato.
151
Quanto esposto è stato oggetto di trattazione nella Circolare del Consiglio Nazionale dei Dottori
Commercialisti ed Esperti Contabili, n. 25/IR del 31 ottobre 2011.
152
A tal proposito sottolinea BEGHNI M., Gli immobili nell’impresa e le imposte dirette, in Rass. trib., 2010, 4,
pag. 1013, come la disciplina del reddito d'impresa non rappresenta il Giardino dell’Eden; tuttavia “(...) sotto
determinati punti di vista, essa [riserva] una maggiore attenzione rispetto all'effettività degli arricchimenti
tassabili e una certa elasticità quanto alla quantificazione di talune componenti reddituali (…)” e questo può
spiegare la propensione di trasferire beni privati nella sfera societaria.
153
DOLCE R., Finanziaria 2008: le novità in materia di società di comodo, in Fisco (Il), 2008, 3, pag. 1-395.
Viene infatti sottolineato dall'autore che “(...) ratio della normativa è quella di disincentivare l'utilizzo dello
strumento societario per attività di mera gestione passiva di beni nell'interesse di proprietari che siano persone
fisiche (o soggetti ad esse assimilabili fiscalmente, quali le società semplici), e non dunque per l'effettuazione di
reali attività economiche, avvalendosi perciò del regime del reddito d'impresa delle società, più favorevole
rispetto a quello delle persone fisiche”.
57
preoccupazione che questa tipologia di compagine sociale possa essere costituita con l’intento
di formare degli “schermi societari” per trarre benefici fiscali. Non rientrano poi nell’ambito
applicativo in quanto non espressamente richiamate dalla norma: le società cooperative e di
mutua assicurazione, nonché gli enti commerciali e non commerciali residenti; le società
consortili per le quali si riscontra lo stesso scopo mutualistico, che caratterizza le prime due
fattispecie154. Con riguardo alle società cooperative, di mutua assicurazione e a quelle
consortili, l’esclusione prevista dal legislatore deve essere analizzata con riferimento allo
scopo prevalentemente mutualistico e non lucrativo che caratterizza tali categorie. In
particolare le società cooperative e di mutua assicurazione svolgono un’attività economica
diretta alla copertura dei costi che esse sostengono ed in linea generale la finalità della loro
costituzione non è rappresentata dalla generazione dei profitti e quindi di un utile da
distribuire ai soci, ma è quella di realizzare beni e servizi o occasioni di lavoro per i membri, a
condizioni più vantaggiose di quelle che essi potrebbero trovare rivolgendosi al mercato155.
Anche i soci di una cooperativa mirano quindi all’ottenimento di un risultato economico e di
un vantaggio patrimoniale, attraverso lo svolgimento di un’attività d’impresa, ma l’obiettivo
prevalente non è il concretizzarsi della più elevata remunerazione possibile del capitale
investito. Alla base della costituzione delle società cooperative c’è l’attuazione di un
determinato bisogno comune, attraverso un risparmio di spesa per i beni o servizi acquistati
direttamente dalla società. L’attività economica è quindi esercitata al fine di realizzare
quell’interesse comune che è diverso dalla remunerazione dell’investimento effettuato 156. Su
questa linea si inserisce anche lo scopo mutualistico perseguito dalle società consortili, il
quale risulta più specifico e tipico rispetto a quello delle cooperative, dal momento che è
diretto alla riduzione dei costi di produzione o all’aumento dei ricavi delle rispettive imprese.
La non inclusione di questi soggetti nell’ambito delle società di comodo deve quindi essere
interpretata sotto questa chiave di lettura: i soci decidono di unirsi ed investire per soddisfare
assieme un determinato bisogno e non per creare necessariamente profitti. Non si ritiene
quindi che tali fattispecie di società possano rappresentare una minaccia per l’abuso dello
154
Tali precisazioni erano state fornite nelle Circolari del Ministero delle Finanze, n. 140/E del 15 maggio 1995
cit. e n. 48/E del 26 febbraio 1997 cit., riportate nella precedente nota 18. Sono state poi riprese anche nella
Circolare 25/E del 4 maggio 2007 cit..
155
Non esiste una disposizione legislativa che dia una definizione di “società cooperativa”, ma nella relazione al
Codice Civile al punto n. 1025 si legge che le società cooperative sono caratterizzate da “(…) uno scopo
prevalentemente mutualistico, consistente nel fornire beni o servizi od occasioni di lavoro direttamente ai
membri dell’organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che otterrebbero dal mercato (…)”.
156
AA.VV., Diritto delle società [Manuale breve]. Quarta edizione, cit., pag.463 e ss.. E’ da sottolineare che le
società cooperative sono caratterizzate da uno scopo mutualistico prevalente, ma non esclusivo. Questo significa
che svolgendo attività con i terzi esse possono porre in essere un’attività oggettivamente lucrativa finalizzata alla
produzione di utili, qualificando in questo caso la cooperativa come società a mutualità prevalente.
58
schermo societario; non avrebbe senso infatti che fossero costituite come meri contenitori
patrimoniali perché in questo modo non verrebbe comunque soddisfatta l’esigenza dei soci
che ha spinto alla costituzione delle stesse. E’ proprio quindi la finalità mutualistica
prevalente rispetto a quella lucrativa, che porta il legislatore ad escludere tali soggetti, non
essendoci in linea generale il pericolo dello sviluppo di società vuote, dove non venga svolta
alcuna attività d’impresa, caratterizzata dai connotati appena descritti. Inoltre la disciplina
della non operatività non si applica alle società e gli enti non residenti e privi di una stabile
organizzazione in Italia. Per quest’ultimi la mancanza di una stabile organizzazione non
permette la tassazione dei redditi d’impresa prodotti in Italia, come disposto dall’art. 23 del
D.P.R. 917/1986157 e dalla convenzione internazionale contro le doppie imposizioni158. Alcune
considerazioni devono essere poi effettuate per le società agricole e le start up innovative159.
Secondo l’Amministrazione Finanziaria l’art. 30 della Legge n. 724/1994 doveva trovare
attuazione anche per le società agricole, in quanto non era prevista nessuna esclusione né nel
testo normativo né nel Provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle Entrate n.
2008/23681160. Tuttavia con il successivo Provvedimento n. 2012/87956, che ha integrato il
precedente, è stato specificata la disapplicazione automatica per “(...) le società che esercitano
esclusivamente attività agricola ai sensi dell'art. 2135 del codice civile e rispettano le
condizioni previste dall'articolo 2 del decreto legislativo 29 marzo 2004, n. 99”, con
riferimento sia al triennio di perdita sistematica, che all'ipotesi in cui i ricavi non risultino
congrui rispetto al valore dei beni. L’esclusione riguarda quindi tutte le società che hanno
come oggetto sociale l’esercizio esclusivo di attività agricole e quelle che presentano nella
157
Il comma 1 lett. e) di tale articolo afferma infatti che “ai fini dell'applicazione dell'imposta nei confronti dei
non residenti si considerano prodotti nel territorio dello Stato: (…) i redditi d'impresa derivanti da attività
esercitate nel territorio dello Stato mediante stabili organizzazioni”.
158
ORSI E., Le cause di esclusione soggettiva dall'applicazione della disciplina delle società di comodo per le
stabili organizzazioni italiane di imprese comunitarie, in Fisc. int., 2008, 3, pag. 218.
159
Per le imprese start-up innovative non si applica invece la disciplina come stabilito dal comma 4 dell'art. 26
del Decreto Legge 18 ottobre 2012, n. 179, concernente “le misure per la nascita e lo sviluppo di imprese startup innovative”. Tali imprese devono svolgere attività d’impresa da non più di quarantotto mesi e devono avere
come oggetto sociale esclusivo o prevalente, lo sviluppo, la produzione e successiva commercializzazione di
prodotti o servizi ad alto valore tecnologico. Dal momento che l’oggetto sociale delle start-up innovative è la
ricerca e lo sviluppo, il mancato esercizio di un’attività commerciale sarebbe inidoneo al perseguimento del
suddetto obiettivo. Il legislatore ha quindi ritenuto che l’oggetto sociale e l’intento rappresentino di per sé
elementi sufficienti a garantire l’effettivo svolgimento di un’attività economica, sottraendo tali soggetti dalla
normativa sulle società non operative ed in perdita sistematica. FORTE N., Start-up e incubatori certificati:
chiarito il requisito dell'Innovazione, in Corr. trib., 2014, 27, pag. 2095. L’autore riprende quanto riportato
dall'Agenzia delle Entrate nella Circolare n.16/E dell'11 giugno 2014, che ha fornito chiarimenti riguardanti le
agevolazioni fiscali previste per le imprese start-up innovative. Viene infatti sottolineato che al fine di favorire lo
sviluppo di tali società e considerando “(…) l’esigenza di agevolare le innovazioni, le società che possono
usufruire della disciplina in rassegna possono sottrarsi alla disciplina delle società non operative”.
160
Questo secondo quanto stabilito nella Circolare n. 50/E del 1° ottobre 2010.
59
denominazione la dicitura “società agricole”161. Alla panoramica finora descritta si
aggiungono poi altre tipologie d’esclusione previste espressamente dal legislatore e le
situazioni oggettive che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi
delle rimanenze e dei proventi necessari per superare il test d’operatività. Con riferimento a
quest’ultime il contribuente può disapplicare la normativa perché rientrante in una delle
casistiche previste dai già citati provvedimenti del 2008 e del 2012 del Direttore dell'Agenzia
delle Entrate, o perché ha presentato istanza d'interpello disapplicativo, ottenendo esito
positivo. La trattazione di tali ulteriori ipotesi d'esclusione verrà trattata nel prosieguo del
presente capitolo e nel successivo.
2.2 Test d’operatività
2.2.1 Il valore dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi medi effettivi
Definito l'ambito soggettivo d'applicazione della disciplina sulle società di comodo il comma
1 dell'art. 30 della Legge n. 724/1994 procede affermando che le società “(...) si considerano
non operative se l'ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei
proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico, ove prescritto, è inferiore
alla somma degli importi che risultano applicando le seguenti percentuali [a specifiche voci
patrimoniali] (...)”. La qualifica di soggetto non operativo dipende quindi dal mancato
superamento del test d’operatività e rappresenta l’ipotesi base, dalla quale nasce l’obbligo di
predeterminazione del reddito minimo da dichiarare162. Il presupposto oggettivo per
l’applicazione dell'art. 30 citato si esplica quindi nel confronto tra il valore dei ricavi
effettivamente realizzati e quelli medi presunti, ottenuti applicando determinate percentuali
agli asset patrimoniali, con la specifica che ogni qualvolta si esclude dal calcolo dei ricavi
figurativi un asset perché non rilevante, i proventi derivanti da quel bene non devono essere
considerati nel calcolo dei ricavi effettivi. Il legislatore ha identificato il test d’operatività,
quale elemento condizionante per individuare l'effetto di risultare società operativa o non
operativa.
Partendo dall’analisi dei ricavi realizzati, i soggetti tenuti alla redazione del bilancio devono
161
FERRANTI G., L’ambito d’applicazione della disciplina sulle società in perdita sistematica, in Corr. trib.,
2012, 28, pag. 2121. Si sottolinea come non rilevi la modalità di determinazione del reddito per la società
agricola, che può esplicitarsi sia come differenza tra i ricavi e i costi, sia in base alle norme previste per il reddito
agrario. Quello che rileva, affinché la società agricola non sia fiscalmente considerata di comodo, è che l'attività
svolta sia esclusivamente agricola ai fini civilistici.
162
DAMIANI M., Società di comodo tra finalità, lacune e proporzionalità dell’assetto normativo, cit., pag. 3554.
La penalizzazione delle società di comodo si sostanzia quindi nella determinazione di un reddito minimo
presunto che altrimenti non emergerebbe non essendo svolta un’effettiva attività economica, nonché nel limitare
l’utilizzo di alcune componenti, che in condizioni “ordinarie”, si potrebbero computare in detrazione.
60
prendere in considerazione la somma degli importi risultanti dalle voci A.1) e A.5) dello
schema di conto economico, previsto dall'art. 2425 del Codice Civile, che si riferiscono ai
ricavi delle vendite e delle prestazioni e agli altri ricavi e proventi, compresi i contributi in
conto esercizio. Si deve poi aggiungere la somma delle variazioni positive delle voci A.2),
A.3) e B.11), le quali includono le variazioni delle rimanenze di prodotti in corso di
lavorazione, semilavorati e finiti, le variazione dei lavori in corso su ordinazione e le
variazione delle rimanenze di materie prime, sussidiarie, di consumo e merci163. Non rilevano
quindi le componenti straordinarie, dal momento che si vuole ottenere un valore della
produzione medio, derivante dalla gestione caratteristica o comunque abituale dell'attività
d'impresa164. Per le società con periodo d’imposta non coincidente con l’anno solare, o per
quelle la cui attività è iniziata in corso d’anno, con la conseguenza che non sono stati generati
fin da subito ricavi e proventi, è necessario effettuare un ragguaglio e rapportare gli importi
all’anno, secondo la durata del periodo d’imposta. Per quanto concerne poi il riferimento
esplicito della normativa ai valori del conto economico si evidenzia l’irrilevanza delle
variazioni fiscali, con la conseguenza che eventuali voci, che dovrebbero essere tralasciate ai
fini fiscali, devono essere invece computate per il test d’operatività165. Come precisato poi nel
comma 2 dell'art. 30 citato “(...) ai fini dell'applicazione del comma 1, i ricavi e i proventi,
nonché i valori dei beni e delle immobilizzazioni vanno assunti in base alle risultanze medie
dell’esercizio e dei due precedenti (...)”; non vengono nominati espressamente gli incrementi
delle rimanenze, ma si ritiene che la media debba essere desunta anche per tali valori. Le
ulteriori precisazioni che si devono fare, riguardano i soggetti non residenti con stabile
organizzazione in Italia; per queste società ed enti i ricavi, gli incrementi delle rimanenze ed i
163
Come era già stato specificato dalla Circolare del Ministero delle Finanze n. 48/E del 26 febbraio 1997 cit., si
deve tenere conto del valore degli incrementi delle rimanenze, così come risulta dal conto economico, anche
quando l'importo è il prodotto della somma algebrica delle sottovoci con segno algebrico opposto. L'esempio che
veniva riportato era il seguente : 50 milioni relativi alla voce A.2), -30 milioni relativi alla voce A.3) e 40 milioni
per la voce B.11), derivanti quest’ultimi dalla somma algebrica di -30 milioni di decrementi delle rimanenze
finali rispetto alle esistenze iniziali relative a materie prime, sussidiarie e di consumo e di 70 milioni di
incrementi delle rimanenze finali rispetto alle esistenze iniziali relative alle merci. In questo caso l'ammontare
degli incrementi delle rimanenze da considerare è pari a 90 milioni, somma dei 50 milioni della voce A.2) e dei
40 della voce B.11). Non si deve invece considerare l'importo negativo presente nella voce A.3), dato che il
decremento delle rimanenze è irrilevante ai fini del test d'operatività.
164
A tale riguardo la Circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 25/E del 4 maggio 2007 cit., ha analizzato l'ipotesi di
cessione d'azienda o del ramo aziendale. Il corrispettivo percepito, si riferisce all'azienda intesa come unitario
complessivo di beni e costituisce una plusvalenza di natura straordinaria da iscrivere nella voce del conto
economico E.20) Proventi, con separata indicazione delle plusvalenze da alienazioni i cui ricavi non sono
iscrivibili al n.5) (nella voce cioè A.5) del conto economico) Non è possibile separare dal valore di tale
plusvalenza, quello riferito alle merci e ai beni, che se venduti singolarmente, rientrerebbero nella gestione
ordinaria d'impresa rilevando per il calcolo dei ricavi e proventi effettivamente realizzati.
165
Tra i ricavi effettivi non devono essere considerati quelli che derivano dall’adeguamento ai parametri o agli
studi di settore, perché aventi natura extra-contabile. Tale maggior reddito deve essere tuttavia preso in
considerazione per il reddito minimo da dichiarare, trattato nel capitolo successivo.
61
proventi effettivi, da considerare ai fini del test, si riferiscono solamente a quelli prodotti nella
stabile organizzazione presente nel territorio dello Stato. Inoltre la specifica presente
nell’articolo riportato all’inizio dei paragrafo “ove prescritto” evidenzia che, per i soggetti
non tenuti alla redazione del bilancio, l’effettivo ammontare dei ricavi e dei proventi ordinari
va desunto dalle scritture contabili stabilite dall’art. 18 del D.P.R. n. 633/1972, che disciplina
la contabilità semplificata per le imprese di minori dimensioni.
Calcolati quindi i componenti positivi effettivamente realizzati dall’impresa, si deve
procedere a confrontarli con quelli minimi presunti166.
2.2.2 L’applicazione delle percentuali per il calcolo dei ricavi medi presunti
Si passa ora ad analizzare le voci dello stato patrimoniale rilevanti ed i coefficienti da
applicare per il calcolo dei ricavi figurativi. Il requisito necessario per definire una società
operativa e non società di comodo prevede che l'ammontare dei ricavi, dei proventi e degli
incrementi delle rimanenze, risultanti dal conto economico dell'impresa, siano superiori alla
soglia minima dei ricavi presunti, ottenuta applicando le seguenti percentuali ai beni indicati
al comma 1 dell'art. 30 della Legge n. 724/1994:
a) 2 per cento al valore dei beni di cui all'art. 85, comma 1, lettere c), d), e) del TUIR e delle
quote di partecipazione nelle società commerciali, di cui all'art. 5 del TUIR, anche se i
predetti beni e partecipazioni costituiscono immobilizzazioni finanziarie, aumentato del
valore dei crediti;
b) 6 per cento al valore delle immobilizzazioni costituite da beni immobili e da beni indicati
nell’art. 8-bis primo comma lettera a) del D.P.R. n. 633/1973, anche in locazione finanziaria;
per gli immobili classificati nella categoria catastale A/10, la predetta percentuale è ridotta al
5 per cento; per gli immobili a destinazione abitativa acquistati o rivalutati nell'esercizio e nei
due precedenti, la percentuale è ulteriormente ridotta al 4 per cento; per tutti gli immobili
situati in comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti la percentuale scende all'1 per
cento;
c) 15 per cento al valore delle altre immobilizzazioni, anche in locazione finanziaria.
Prima di iniziare ad analizzare il calcolo dei ricavi presunti, è opportuno sottolineare
l’assoluta libertà del legislatore nel costruire i parametri volti a definire il reddito societario;
se inizialmente i coefficienti per la determinazione dei ricavi erano fissati in misura
ragionevolmente equa, nel corso del tempo il loro incremento quantitativo ha evidenziato la
166
GAVELLI G. e SANTINI C., “Società di comodo” verso la scomparsa: il D.L. n.223/2006 rende troppo
gravoso il mantenimento in vita delle società non operative, in Fisco (Il), 2006, 37, pag. 5742.
62
carenza di ricerca di effettività della presunzione legale, secondo la quale il mancato
raggiungimento di un determinato livello minimo di ricavi comporta l’identificazione della
società come soggetto non operativo167.
Per il calcolo dei ricavi medi presunti si procede a determinare gli investimenti effettuati
nell’anno in corso e nei due precedenti a quello d’osservazione, anche se interessati da cause
d’esclusione dell’applicazione della norma, per ciascuna categoria di beni citata dal
legislatore e a moltiplicarli con i relativi coefficienti168. Sembra utile approfondire che cosa
includano le diverse fattispecie di beni ed immobilizzazioni elencate per poter comprendere il
valore dei ricavi minimi da realizzare per superare il test d’operatività169. Il coefficiente del 2
per cento si applica alle azioni170 o quote di partecipazione, anche non rappresentate da titoli,
al capitale dei soggetti IRES, agli strumenti finanziari similari alle azioni emessi dai soggetti
ed enti di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 917/1986 e alle obbligazioni e agli altri titoli di massa
diversi dai precedenti. Tali beni devono essere inclusi nel test d’operatività indipendentemente
dal regime d’esenzione ad essi riservato; questo significa, come precisato dalle Circolari
dell’Amministrazione Finanziaria n. 6/E del 13 febbraio 2006 e n. 11/E del 16 febbraio 2007,
che concorrono al calcolo dei ricavi minimi presunti anche le partecipazioni in possesso dei
requisiti previsti dall'art. 87 del TUIR171, in materia di partecipation exemption172. Devono poi
essere prese in considerazione anche le quote di partecipazione relative alle società
commerciali di persone, ossia alle società in nome collettivo, in accomandita semplice e a
167
NUSSI M., La disciplina impositiva delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi
incoerenti, cit., pag. 491.
168
Come già riportato nel paragrafo precedente, la determinazione del valore medio triennale è esplicitata nel
secondo comma dell'art. 30 citato. Nel caso poi la società sia stata costituita da meno di tre anni, per il calcolo
rileva l’anno corrente e quello immediatamente precedente, che coincide con quello di costituzione. Inoltre ai
fini del computo della media, per i beni e le immobilizzazioni acquistate o cedute nel corso d'esercizio, il valore
di quest'ultimi dovrà essere determinato facendo riferimento alla durata del possesso determinata in giorni su
base annuale.
169
PROVAGGI G. e MACARIO E., Le modifiche alla disciplina sulle società di comodo, in Corr. trib., 8, 2007,
pag. 603; VALENTE G. e ZANETTI E., Circolare n. 9/E del 14 febbraio 2008: Società di comodo- Chiarimenti
dell'Agenzia delle Entrate sulle novità della Finanziaria 2008, in Fisco (Il), 2008, 8, pag. 1459. Nell'esporre le
percentuali da applicare ai fini del test d’operatività, viene evidenziato, come già esposto nel primo capitolo, che
la Legge Finanziaria 2008 ha eliminato la riduzione dei coefficienti per i “titoli e assimilati” e le “altre
immobilizzazioni” situati nei comuni con un numero di abitanti inferiore a 1000 ed ha specificato che il
coefficiente ridotto dell'1 per cento si applica a tutti gli immobili presenti nei comuni con tale caratteristica. In
questo modo, evidenziano gli autori, è stato posto rimedio alla situazione precedente nella quale si “(…) finiva
per premiare i beni diversi dagli immobili, quando viceversa è evidente che proprio quest'ultimi sono i solo beni
ad avere un radicamento territoriale tale da giustificare un'agevolazione”.
170
Deve essere precisato, secondo quanto specificato nella Circolare n. 48/E del 26 febbraio 1997 cit., che le
azioni proprie, ai sensi dell'art. 2357-ter del Codice Civile, non danno diritto all’utile che invece è attribuito
proporzionalmente alle altre azioni. Non essendo idonee a produrre proventi non sono computate nel calcolo del
test d’operatività.
171
Tale articolo definisce esenti dalla formazione del reddito in misura pari al 95 per cento le plusvalenze relative
ad azioni o quote di partecipazioni in società di cui all'art. 5 del TUIR, escluse le società semplici, e all'art. 73 del
TUIR se possiedono determinati requisiti.
172
Non è necessario che siano beni a cui è diretta l'attività d'impresa.
63
quelle equiparate. Esse rilevano indipendentemente dalla loro classificazione in bilancio;
possono quindi essere sia iscritte nell’attivo circolante, che nelle immobilizzazioni
finanziarie173. Oltre ai beni qui elencati devono aggiungersi i crediti di finanziamento. Sono
esclusi i crediti aventi natura commerciale, in quanto generati da operazioni finalizzate non al
finanziamento della società, ma all’acquisizione di beni e servizi; tuttavia qualora tali crediti
commerciali, in relazione alle specifiche condizioni e modalità di pagamento, risultino di fatto
riconducibili alla sfera del finanziamento è necessario conteggiarne il valore ai fini del
computo nel test. Non rientrano poi nel calcolo dei ricavi medi presunti i crediti per rimborsi
di imposte, così come gli interessi relativi a crediti diversi da quelli di finanziamento. Per
quanto concerne poi i soggetti non tenuti alla redazione del bilancio ai fini fiscali, essi non
considerano il valore dei crediti, dal momento che quest'ultimi non trovano rappresentazione
contabile, secondo quanto disposto dall'art. 18 del D.P.R. 633/1972. Sono quindi questi “titoli
e assimilati” così come descritti, che rilevano per l’applicazione del coefficiente del 2 per
cento, primo addendo nella somma dei ricavi figurativi.
Si applica invece il coefficiente del 6 per cento agli immobili costituiti da terreni e fabbricati e
ai beni indicati all'art. 8-bis, primo comma, lettera a) del D.P.R. n. 633/1972, che include le
navi destinate all’esercizio commerciale o alla pesca o alle operazioni di salvataggio o
assistenza in mare, ovvero alla demolizione, escluse le unità da diporto. Tali beni trovano
rappresentazione nelle voci B.II.1) e B.II.4) dello stato patrimoniale che si riferiscono
rispettivamente ai terreni e fabbricati e agli altri beni; vale sempre la regola in base alla quale
per i soggetti non tenuti alla redazione del bilancio, il valore dei beni e delle immobilizzazioni
deve essere desunto dalle scritture contabili previste dall'art. 18 del D.P.R. n. 633/1973.
Inoltre rilevano anche se in locazione finanziaria, mentre non devono essere considerati se
posseduti in locazione semplice o in comodato o a noleggio. Come specificato poi nella
Circolare dell'Amministrazione Finanziaria n. 5/E del 4 maggio 2007, gli immobili concessi
in usufrutto a titolo gratuito verso soggetti diversi da soci o familiari174, non rientrano tra i
beni rilevanti ai fini del test d'operatività e nemmeno nel calcolo del reddito minimo, in
quanto non produttivi di reddito per la società nuda proprietaria175. Nel caso invece la
173
Come precisato nella Circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 5/E del 2 febbraio 2007, nella precedente versione
dell’art. 30 della Legge n. 724/1994, rimasto in vigore fin prima delle modifiche avvenute con il Decreto Legge
4 luglio 2006, n. 223, le quote di partecipazioni nelle società commerciali di persone rilevavano solo se iscritte
tra le immobilizzazioni finanziarie.
174
Si veda la nota n. 58 per la definizione stabilita nell’art. 5 comma 5 del TUIR di familiare.
175
Tale casistica è stata trattata nella Risoluzione dell'Agenzia delle Entrate n. 94/E del 25 luglio 2005, nella
quale una società, proprietaria di un immobile concesso in usufrutto, chiedeva se la nuda proprietà fosse
rilevante ai fini del calcolo del test d'operatività delle società non operative. E’ stato evidenziato da parte
dell'Amministrazione Finanziaria che, secondo quanto disposto dall'art. 26 del TUIR, “i redditi fondiari
64
concessione in usufrutto avvenga a titolo oneroso, tali asset devono essere ricompresi nel
calcolo dal momento che anche i componenti positivi derivanti dalla concessione di tali
immobili saranno inclusi nel calcolo dei ricavi effettivi. Devono essere poi esclusi gli
immobili merce176, non essendo citati tra gli asset rilevanti dell'art. 30 comma 1, a condizione
tuttavia che la classificazione degli immobili merce avvenga rispettando i principi contabili,
come pure le immobilizzazioni materiali in corso; quest’ultime non essendo ancora
suscettibili di utilizzazione non producono quindi alcun provento177. Per gli immobili poi
classificati nella categoria catastale A/10, che comprende immobili quali uffici e studi privati,
il coefficiente da applicare è ridotto in misura pari al 5 per cento. Inoltre la percentuale è
ulteriormente abbassata al 4 per cento per gli immobili abitativi acquistati o rivalutati
nell’esercizio stesso o nei due precedenti; in questo caso, trascorso il triennio in cui si applica
tale agevolazione, si ritornerà a considerare la percentuale più elevata del 6 per cento ai fini
del calcolo178. Prima di procedere ad analizzare gli altri beni che rilevano ai fini del calcolo
dei ricavi presunti, è opportuno evidenziare che il Decreto Legislativo n. 185/2008 aveva
previsto all’art. 15, comma 16, la possibilità per i soggetti di cui all’art. 73, comma 1, lett.
a),b) del TUIR179 e per le società di persone e quelle ad esse equiparate, che non redigono il
bilancio secondo i principi contabili internazionali, di rivalutare i beni immobili, escluse le
aree fabbricabili e gli immobili alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività
d’impresa, risultanti dal bilancio al 31 dicembre 2007. I maggiori valori derivanti dalla
rivalutazione180 dovevano essere imputati ad una specifica riserva, che poteva essere
concorrono a formare il reddito complessivo dei soggetti che possiedono gli immobili a titolo di proprietà,
enfiteusi, usufrutto o altro diritto reale; di conseguenza il reddito dei fabbricati concorre a formare il reddito
complessivo del titolare di usufrutto e non della società nuda proprietaria. E’ corretta quindi l'esclusione
dell'immobile concesso in usufrutto dalle immobilizzazioni per le quali si rendono applicabili le percentuali di
redditività presunta, in quanto trattasi di un immobile non idoneo a produrre reddito per la società stessa (…)”.
176
MIELE L., Società di comodo: il test d'operatività con qualche certezza in più, in Corr. trib.. 2007, 21, pag.
1679. Riguardo agli immobili merce si deve precisare che tali immobili potrebbero temporaneamente produrre
proventi da locazione, da contabilizzare tra i proventi ordinari nella voce A.5) del conto economico. Tuttavia
secondo l’autore i predetti canoni di locazione non devono essere imputati tra i ricavi e proventi effettivi dal
momento che sono esclusi dal calcolo dei ricavi medi presunti.
177
GAIANI L., Immobili e disciplina delle società di comodo:problematiche del test d'operatività, in Fisco (Il),
2014, 22, pag. 2143. L’autore evidenzia che devono essere esclusi dal test d'operatività gli immobili merce “ (…)
che nell'esercizio si trovano in fase di ristrutturazione profonda o di restauro, e in genere quelli che, a seguito di
un intervento di recupero, sono inutilizzabili (...)”.
178
GAVELLI G. e VERSARI A., Provvedimento Agenzia delle Entrate n. 23681 del 14 febbraio 2008. Le novità
in materia di società di comodo, in Fisco (Il), 2008, 11, pag. 1-1933.
179
Tali soggetti sono le società di capitali residenti nel territorio dello Stato e gli enti pubblici e privati sempre
residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività
commerciali.
180
La Circolare dell'Agenzia delle Entrate 19 marzo 2009, n. 11/E ha precisato che la rivalutazione poteva essere
effettuata secondo tre modalità alternative: rivalutazione del costo storico e del fondo di ammortamento,
mantenendo inalterata l'originaria durata del processo d'ammortamento; rivalutazione del solo costo storico, che
determina un allungamento del processo d'ammortamento, se viene mantenuto inalterato il precedente
65
affrancata da imposizione versando un’imposta sostitutiva; inoltre perché tale operazione
potesse avere valenza ai fini fiscali era necessario il pagamento di un’ulteriore imposta
sostitutiva. L’obiettivo di tale disposizione era quello di consentire l’adeguamento delle
risultanze contabili ai valori effettivi e gli effetti a livello fiscale si sarebbero esplicate a
partire dal quinto esercizio successivo a quello in cui si era proceduto alla rivalutazione degli
immobili e quindi dal primo gennaio 2013. Da tale operazione ne deriva un maggior
ammortamento fiscale del bene; tuttavia la rivalutazione rileva anche ai fini del test
d'operatività, come esplicitato nella Risoluzione dell'Amministrazione Finanziaria 20
dicembre 2013, n. 101/E. Questo significa che a partire dall'esercizio 2013 le società che
hanno operato la rivalutazione descritta dovranno moltiplicare il maggior valore dei beni
immobili divenuto rilevante per il coefficiente del 6 per cento181. La considerazione che è
opportuno fare è che soprattutto nel settore immobiliare, dove la crisi economica-finanziaria si
è fatta sentire pesantemente, i maggiori costi deducibili di cui potranno usufruire le imprese,
porteranno in alcuni casi ad incrementare le perdite fiscali. La caduta dei ricavi da un lato e la
rilevanza dei nuovi valori fiscali da imputare per il test d'operatività dall’altro potrebbero
quindi ampliare la platea dei soggetti a rischio e peggiorare la situazione delle imprese, che
sebbene operative, non riescono a raggiungere il livello minimo di ricavi presunti, diventando
così società di comodo182.
Ritornando ad esaminare quanto previsto dal comma 1 dell'art. 30 citato la lettere c) esso
prevede l’applicazione di un coefficiente pari al 15 per cento per le altre immobilizzazioni,
comprese quelle in locazione finanziaria. Si fa riferimento per quanto concerne le
immobilizzazioni materiali, agli impianti e macchinari, alle attrezzature industriali e
commerciali e agli altri beni che trovano collocazione rispettivamente nelle voci B.II.2),
coefficiente, altrimenti si deve procedere ad innalzare il coefficiente; riduzione del fondo di ammortamento, che
comporta lo stanziamento di ammortamenti su un costo analogo a quello originario.
181
L’Amministrazione Finanziaria nella Risoluzione n. 101/E del 20 dicembre 2013, al quesito se l’aliquota
ridotta del 4 per cento potesse essere applicata agli immobili rivalutati, sebbene non a destinazione abitativa, ha
risposto ribadendo che tale aliquota si applica agli immobili a destinazione abitativa acquistati o rivalutati
nell’esercizio stesso e nei due precedenti.
182
A tal riguardo si è espresso ARTINA R., Il valore rivalutato degli immobili ai fini del test d'operatività, in
Amministrazione & Finanza, 2014, 6, pag. 13. Partendo dall'analisi del comma 20 dell'art. 15 del Decreto
Legislativo n. 158/2008 che stabilisce che “(...) il maggior valore attribuito ai beni in sede di rivalutazione può
essere riconosciuto ai fini delle imposte sui redditi e dell'imposta regionale sulle attività produttive (...)”, l'autore
evidenzia come la rivalutazione non dovrebbe trovare in via diretta applicazione alla disciplina delle società di
comodo e nemmeno in via indiretta, dato che il decreto del 2008 citato non fa mai riferimento all'art. 110 del
TUIR, presente invece nell'art. 30 della Legge n. 724/1994, quale criterio per la valorizzazione dei bene. Inoltre
sostiene lo stesso “ (...) la discrezionalità del metodo di rivalutazione, confligge con il rigore cui dovrebbe
ispirarsi l’applicazione di una disposizione antielusiva, quale è appunto la disciplina di contrasto delle società
di comodo. In conclusione la posizione cui giunge l'Agenzia delle Entrate con la Risoluzione n. 101/2013, non
sembra esattamente coerente né con le norme che hanno regolato la rivalutazione degli immobili, né con la ratio
ispiratrice della disciplina di contrasto alle società di comodo”.
66
B.II.3) e B.II.4) dello stato patrimoniale. Si deve precisare che tra gli altri beni, sono escluse
le navi indicate all'art. 8-bis del D.P.R. n. 633/1973, che rientrano invece nel comparto degli
immobili, come precisato in precedenza. Le altre immobilizzazioni immateriali rilevanti ai
fini del test d’operatività sono invece sia i diritti di brevetto, le licenze, beni cioè in grado di
produrre ricavi e proventi, sia i costi ad utilità pluriennale come l'avviamento, i costi
d'impianto e ampliamento, le spese di ricerca e di pubblicità. Per queste spese relative a più
esercizi l’ammontare da considerare per l’applicazione del coefficiente del 15 per cento è il
valore risultante dal bilancio, al netto quindi dei valori già precedentemente dedotti. Rientrano
inoltre tra le altre immobilizzazioni i beni strumentali il cui valore è inferiore a 516,46 euro.
Analogamente a quanto esposto per le immobilizzazioni materiali in corso, anche le altre
immobilizzazioni materiali ed immateriali in corso sono escluse dal calcolo dei ricavi medi
presunti, dal momento che non contribuiscono alla generazione dei proventi, così come non
rilevano nemmeno gli acconti pagati per l’acquisizione di dette immobilizzazioni. Per i
soggetti non tenuti alla redazione del bilancio ai fini fiscali, il valore dei beni e delle
immobilizzazioni deve essere sempre desunto secondo quanto previsto dall'art. 18 del D.P.R.
n. 633/1973183.
Illustrati quali sono i beni di cui si deve tener conto per i ricavi figurativi, occorre fare alcune
precisazioni relative al valore da considerare nel calcolo; nello specifico il comma 2 dell'art.
30 della Legge n. 724/1994 stabilisce che “(...) per la determinazione del valore dei beni si
applica l'art. 110, comma 1, del Testo Unico delle Imposte sui Redditi”. Per i beni in locazione
finanziaria si assume il costo sostenuto dall’impresa concedente ovvero, in mancanza di
documentazione, la somma dei canoni di locazione e del prezzo di riscatto risultanti dal
contratto. Secondo quanto previsto dall’art. 110, comma 1, lett. a) del TUIR184, la
determinazione dei valori dei beni deve avvenire considerando il costo al lordo delle quote
d’ammortamento già dedotte, indipendentemente dalla deducibilità fiscale di quest’ultime.
Tale disposizione riguarda sia i beni ammortizzabili materiali, che quelli immateriali; il
processo d’ammortamento può essere stato completato del tutto, è necessario tuttavia, in
questo caso, che i beni facciano ancora parte del processo produttivo e non siano stati
eliminati. Rientrano quindi anche i beni di valore inferiore ai 512,46 euro, il cui costo,
183
CORSINI L., La fuga dalle società di comodo: un'occasione da non perdere, per passare dalle imposte sulle
società all'imposta sulle persone fisiche e per conservare il regime Iva, in Fisco (Il), 2007, 19, pag. 2800.
184
Deve essere sottolineato che l'art.110 del D.P.R. n. 917/1986 non si applica alle spese relative a più esercizi dal
momento che quest'ultime rappresentano degli oneri aventi utilità pluriennale e non beni, come intesi dal
legislatore nel predetto articolo. Per questi costi pluriennali capitalizzati il valore da considerare è al netto degli
ammortamenti effettuati.
67
secondo quanto stabilito dall’art. 102 comma 5 del TUIR185, è integralmente dedotto
nell’esercizio d'acquisizione186. Inoltre nel valore dei beni per il test d’operatività non si deve
tenere conto delle plusvalenze annotate in bilancio così come per le azioni, le quote e gli
strumenti finanziari il costo si intende non comprensivo dei maggiori o minori valori
iscritti187. Infine come detto precedentemente per i beni tenuti in locazione finanziaria il costo
che rileva è quello dell’impresa concedente oppure la somma delle quote capitali relative ai
canoni di locazione ed il prezzo del riscatto; si vuole in questo modo applicare lo stesso
trattamento sia per i beni di proprietà sia per quelli in locazione finanziaria, anche qualora sia
stata esercitata l'opzione del riscatto del bene.
2.2.3 Alcune considerazioni relative al confronto tra ricavi medi effettivi e presunti
Dopo aver calcolato i ricavi medi presunti, derivanti dalla somma del valore dei beni sopra
descritti moltiplicati per gli appositi coefficienti, si deve procedere ad effettuare il confronto
con i ricavi effettivamente realizzati e qualora quest’ultimi risultino inferiori ai ricavi minimi
stabiliti, la società assume la veste di società non operativa con la conseguenza di ricadere
nell’applicazione di quanto previsto dall'art. 30 della Legge n. 724/1994. La logica alla base
del test si esplica nel fatto che una società, possedendo determinati beni, dovrebbe essere in
grado di generare dei ricavi minimi e la mancata dichiarazione di quest’ultimi pone l’accento
sull’utilizzo quindi di quei beni per il godimento personale dei soci, anziché per lo
svolgimento dell’attività economica; da qui deriva poi la presunzione del reddito minimo da
dichiarare188. L’impianto normativo ha quindi come assunto base l’esistenza di una
correlazione proporzionale tra i valori patrimoniali della società ed il reddito imponibile. E’
riscontrabile in generale una relazione dal punto di vista economico tra patrimonio e reddito,
quest’ultimo inteso essenzialmente come incremento in un determinato arco temporale del
patrimonio stesso189; non è facile tuttavia determinare nel caso delle società di comodo lo
185
L'art. 102 del D.P.R. n. 917/1986 stabilisce come deve essere calcolato l'ammortamento fiscale dei beni
materiali.
186
La Circolare dell'Amministrazione Finanziaria, n. 25/E del 4 maggio 2007, ha inoltre precisato che
l’assunzione del costo al lordo delle quote d'ammortamento si applica anche ai seguenti cespiti: veicoli a motore,
non considerando le limitazioni di deduzioni delle spese previste dall'art. 164 del TUIR e le aree su cui insiste un
fabbricato strumentale, tralasciando il fatto che il costo rilevante per le quote d'ammortamento deducibili sia al
netto del costo delle stesse.
187
Si applica cioè quanto previsto nel comma 1, lett. c) e d) dell'art. 110 del TUIR.
188
La disciplina sulle società di comodo, come specificato precedentemente, è fondata sul presupposto che il
possesso di determinati beni patrimoniali ed il loro inserimento nella struttura societaria implicano la
presunzione relativa di un loro utilizzo per scopi reddituali e quindi per incrementare la ricchezza della società.
LUPI R., Le società di comodo come disciplina antievasiva, cit, pag. 1097 e ss..
189
CERMIGNANI M., Il regime fiscale delle società di comodo: ratio, attualità e prospettive, cit., pag. 1-255.
L’autore sottolinea che in linea tendenziale il processo di circolazione ed accumulazione del capitale
68
specifico rapporto di connessione che esiste tra i singoli valori patrimoniali ed il loro
incremento e dunque il reddito presuntivamente imputabile alla struttura societaria. Posto
inoltre che tra le due variabili esista una funzione di “proporzionalità diretta”, la quale implica
che all’aumentare del valore del bene patrimoniale posseduto dalla società debba aumentare
anche il reddito generato, non è detto che tale relazione sia costante; la questione riguarda
quindi l’identificazione del rapporto quantitativo “razionalmente attendibile” tra il patrimonio
e l’incremento del reddito. In questo quadro complesso, la scelta normativa di applicare ai
beni patrimoniali alcuni coefficienti medi appare la soluzione più semplice, data l’enorme
quantità di fattori che incidono nella correlazione proporzionale tra i due indici. E’ poi
opportuno sottolineare che i coefficienti posti dal legislatore, rilevanti per il calcolo dei ricavi
minimi presunti, sono “apodittici” non essendo dotati di alcuna attendibilità dimostrativa: non
esiste infatti una regola economica che permetta di affermare che esista per esempio, un
rapporto pari al 2 per cento tra il valore delle azioni e la minima redditività della società
partecipata. Facendo un confronto con gli studi di settore, anch’essi strumento accertativo di
natura forfettaria, si può affermare che in questo caso le costanti economiche utilizzate dal
legislatore rappresentano un parametro fattuale riscontrabile, mentre nelle società di comodo i
coefficienti non sono in alcun modo oggetto di riscontro190. Resta il dato di fatto che viene
posto a tassazione non l’incremento di ricchezza effettivamente ascrivibile al contribuente, ma
il reddito presuntivamente producibile. Procedendo in questo modo il test d’operatività si
riduce ad un’operazione puramente matematica, che non prevede indagini dirette volte a
verificare il concreto modo d’essere dell'attività d'impresa: “(...) tutto si svolge a tavolino e si
esaurisce nell’ambito della dichiarazione tributaria; la non operatività scaturisce quindi in
modo automatico, come conseguenza del mancato superamento del test d’operatività”191. Può
quindi accadere che soggetti realmente operativi, ma non dotati di un sufficiente livello di
ricavi, ricadano nella disciplina delle società di comodo, mentre ne potrebbero rimanere
estranei dall’applicazione della disciplina, coloro che effettivamente non impiegano i beni
complessivo della società determina l’incremento delle singoli frazioni del capitale “fisso” accumulato ed
investito. Il reddito è in questa prospettiva funzione del patrimonio.
190
TOSI L., Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo (a
cura di TOSI L.)., cit., pag. 7. Secondo l'autore i coefficienti utilizzati per il test d'operatività come quelli poi per
il calcolo del reddito minimo sono percepiti come particolarmente iniqui ed odiosi, proprio perché non sono il
risultato di un'indagine storica verificabile e non hanno ricevuto alcun appuramento empirico.
191
BEGHIN M., Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, in FALSITTA G., Manuale di Diritto Tributario.
Parte speciale, cit., pag 715 e ss.. Viene evidenziato, come già spiegato nel precedente capitolo, che prima
dell'introduzione della legge finanziaria per il 2007, l'Amministrazione Finanziaria doveva procedere in
contraddittorio per poter contestare il mancato raggiungimento dei ricavi minimi; era data quindi possibilità al
contribuente di definirsi soggetto operativo, rinviando eventualmente al futuro la dimostrazione delle situazioni
oggettive di carattere straordinario che non avevano permesso il conseguimento di un adeguato livello di
redditività.
69
nell’esercizio dell’attività produttiva e che tuttavia sono in grado di generare proventi
sufficienti al superamento del test. Presumere quindi la non operatività di un determinato
soggetto attraverso la potenziale redditività dei beni posseduti, ottenuta tramite l’applicazione
di determinate percentuali il cui valore è difficilmente motivabile, sembra in sé
contraddittorio. Se infatti si considera la non operatività in senso proprio, come mancato
svolgimento di un’effettiva attività produttiva, non appare corretto concludere che è
necessario produrre un determinato ammontare di ricchezza a priori, nelle misure stabilite
dalla legge per le diverse fattispecie di beni; la presunzione di un determinato flusso di
reddito, sarebbe forse maggiormente comprensibile per le società invece operative. Manca
quindi una consistenza logica tra il fatto di non produrre un determinato livello di ricavi e
proventi ed essere soggetti non operativi. Si deve tuttavia aggiungere che non è illogico
pensare che le società non possano operare senza produrre redditi sufficienti a coprire gli
investimenti effettuati, ma la parametrazione ed il test d’operatività previsto dall'art. 30 della
Legge n. 724/1994 non sembrano rappresentare dei criteri abbastanza adeguati per cogliere la
complessità del fenomeno societario192. L’apparente contraddizione relativa al fatto di
considerare da un lato le società come non operative e dall'altro lato di tassarle come soggetti
realmente operativi che compiono un’attività generatrice di ricavi, potrebbe essere letto come
tentativo del legislatore di adottare un atteggiamento di tipo “sostanzialistico”, che accerti se
dietro alla costituzione di una struttura societaria sia svolta effettivamente un’attività
imprenditoriale, la quale assume rilievo prevalente rispetto all’involucro esterno societario. In
quest’ottica potrebbe essere considerato il parametro di rifermento posto dal legislatore
relativo all'ammontare dei ricavi e proventi dichiarati, i quali non devono essere inferiori ad
una determinata soglia rappresentata dall'ammontare dei ricavi presunti 193. Si deve inoltre
sottolineare che l'applicazione tout court dei parametri numerici e l’eventuale discussione
192
E' questa la tesi sostenuta da SCHIAVOLIN R., Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società
di comodo, in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 59 e ss., dove l'autore sottolinea “(...)
la carenza di fondo che [la disciplina sulle società di comodo] mostra sul piano della coerenza logica:
soprattutto, poiché il senso comune porterebbe a ricollegare alla non operatività la non redditività, non appare
coerente, da un lato, qualificare certe società come non operative, dall’altro, trarne la conseguenza della
produzione di imponibili superiori ad una certa soglia (...)”.
193
STEVANATO D., Società di comodo e intenti pedagogici del legislatore, in MELIS G., STEVANATO D. e
LUPI R., Ancora in tema di società di comodo e presunzione d'evasione, cit., pag. 1326 e ss.. Secondo l'autore
leggendo la disciplina sulle società di comodo sotto quest'ottica l’idea di fondo è che “(...) in mancanza di un
minimo flusso di proventi, la legge presume l’assenza di un'attività economica sottostante, ed in tal caso opera
una sostituzione degli ordinari criteri analitici di tassazione del reddito d'impresa, con una tassazione presuntiva
sui singoli cespiti, considerati isolatamente come beni fruttiferi secondo determinati coefficienti di redditività”.
La prevalenza della sostanza economica sulla forma giuridica comporta il cambiamento degli ordinari criteri
normativi sull'imposizione reddituale ed in questo modo si esplica la tassazione della capacità economica
soggettiva non sul reddito, ma sul patrimonio che diventa elemento essenziale per definire se una società è
operativa o meno.
70
delle cause d'esclusione generali o specifiche poste dal contribuente stesso risulti la soluzione
operativa più semplice per l'Amministrazione Finanziaria. Non è infatti necessaria la disamina
di ogni singola situazione per accertare se la società è stata costituita come schermo
societario; si procede in modo automatico ed in questo modo la situazione peculiare in cui
potrebbe trovarsi il contribuente viene posta in secondo piano, con il rischio quindi di
sottoporre a tassazione ricchezza non realmente generata, identificando come società di
comodo strutture effettivamente operative ma che non raggiungono i livelli soglia dei ricavi e
del reddito stabiliti ex lege194.
L'individuazione e la fissazione aprioristicamente di percentuali di “redditività media”,
riconducibili alle specifiche categorie di beni patrimoniali, non appaiono idonee a cogliere i
fattori reali che incidono concretamente sulle singole fattispecie. Si crea quindi un
meccanismo di predeterminazione normativa dove il reddito imponibile della società è il
frutto della verifica della consistenza degli asset patrimoniali rispetto al valore dei ricavi e dei
proventi prodotti. L’automatismo posto a base del test d’operatività porta con sé il rischio
concreto di includere nella categoria delle società di comodo soggetti oggettivamente
operativi.195.
194
DAMIANI M., Società di comodo e perdite sistematiche: l'abuso del diritto risolve le possibili
discriminazioni, cit., pag. 929; secondo l'autore il meccanismo automatico d'applicazione della disciplina delle
società di comodo come prevista dall'art. 30 della Legge n. 724/1994 rappresenta forse una soluzione più facile
per gli Uffici fiscali che permette di reperire gettito in modo agevole, anche se in questo modo vengono meno i
principi base del diritto tributario.
195
A proposito del test d’operatività e poi della determinazione del reddito minimo per i soggetti non operativi è
stato evidenziato il parallelo che può sussistere tra l’obbligo di dichiarare un reddito minimo e la minimum tax,
che è stata introdotta nel 1992 in Italia, come contrappeso ai provvedimento che andavano a colpire i redditi dei
lavoratori subordinati e i pensionati. Tale imposta riguardava i soggetti diversi da quelli assoggettati ad IRPEG,
esercenti attività commerciali o arti e superiori, i cui ricavi o compensi erano inferiori a quelli che dovevano
essere prodotti per essere ammessi al regime di contabilità semplificato, indipendentemente dal regime di
contabilità prescelto. In particolare qualora il reddito di tali soggetti risultava inferiore all’ammontare di un
parametro identificato come “contributo diretto lavorativo” dell’imprenditore o dell’esercente le arti e
professioni e dei suoi collaboratori familiari, soci o associati si applicava la minimum tax. L’Amministrazione
Finanziaria procedeva in modo automatico alla liquidazione ed alla riscossione delle maggiori imposte dovute,
determinando ai fini Irpef un reddito presunto sulla base del contributo diretto lavorativo; quest’ultimo si basava
su dati oggettivi e soggettivi, riguardanti l’attività economico esercitata,l’ambito economico, l’organizzazione
imprenditoriale o professionale, l’inizio temporale dell’esercizio. In questo modo talune categorie di
imprenditori e professionisti dovevano pagare un’imposta minima in relazione al fatto che il reddito dichiarato
fosse inferiore ai valore del contributo diretto lavorativo, prescindendo quindi dai risultati concretamente ottenuti
dal contribuente. Tale presunzione legale, che poteva essere evitata chiedendo l’esonero attraverso una procedura
amministrativa preventiva, si basava sulla determinazione di un reddito medio fondato in modo presunto sulla
quantificazione monetaria dell’attività svolta dai soggetti interessati da tale norma. Le caratteristiche comuni tra i
due regimi riguardano il fatto che il contribuente se non supera determinati vincoli previsti dal legislatore si
ritrova a dover comunque dichiarare un determinato reddito minimo stabilito in modo presuntivo. Non vengono
prese in considerazioni le situazioni soggettive del contribuente, ci si basa su dati di normalità economica e
quindi ci si distanzia dal principio di effettività della capacità contributiva e di uguaglianza. In relazione alla
minimum tax la disapprovazione verso tale imposta era ancora più evidente dato che non è che contrastasse uno
specifico fenomeno, ma semplicemente stabiliva che imprenditori e professionisti che non raggiungevano una
determinata soglia reddituale avrebbero comunque dovuto pagare in base ad un reddito determinato
71
2.3 Cause d’esclusione e di disapplicazione automatica della normativa in esame
2.3.1 Le cause d’esclusione
Come accennato nel primo paragrafo del presente capitolo, l'art. 30 della Legge n. 724/1994
prevede al comma 1, una serie di ipotesi nelle quali non si applica la normativa sulle società
di comodo. Tali ipotesi d’esclusione interessano sia i soggetti che non hanno superato il test
d’operatività, sia quelli considerati in modo automatico di comodo perché in perdita
sistematica196, rilevando solo nel periodo d'imposta di applicazione della disciplina in
esame197. Le situazioni escluse dalla disciplina rappresentano casistiche specifiche e
fattispecie assai eterogenee, nelle quali il legislatore presume l’operatività tout court, date le
peculiarità che caratterizzano tali contesti imprenditoriali198. L’elenco è stato oggetto di
revisione per ben più volte; tuttavia con la Legge Finanziaria per il 2008 l’area dei soggetti a
cui non si applica l'art. 30 citato si è ampliata ulteriormente e si è giunti ad identificare in
modo definitivo le diverse ipotesi d’esclusione. Tali ipotesi operano in modo automatico e
questo implica che al loro verificarsi i soggetti interessati si considerano fiscalmente operativi
e non devono quindi presentare l’interpello disapplicativo, salvo tuttavia il potere
dell'Amministrazione Finanziaria di verificare effettivamente la sussistenza delle singole
cause d'esclusione.
La prima ipotesi d’esclusione riguarda i soggetti obbligati a costituirsi sotto forma di società
di capitali. Si fa riferimento in particolare alle società finanziarie, le quali devono risultare
iscritte in un apposito elenco tenuto dall’Ufficio Italiano Cambi199; ai centri d'assistenza
fiscale autorizzati a sostenere le imprese ed i lavoratori autonomi; alle società per azioni
costituite da enti locali territoriali; alle società, a prevalente partecipazione pubblica, risultanti
preventivamente. Tale imposta subì delle modifiche già nel 1993 e poi venne eliminata nel 1994, anno nel quale
venne previsto che il contributo diretto lavorativo rappresentasse il parametro da utilizzare per un determinato
tipo di accertamento induttivo. La minimum tax incideva sui contribuenti delle fasce più deboli che si vedevano
costretti ad incrementare in modo artificioso il reddito dichiarato per superare i limiti previsti dalla normativa.
Venne di fatto evidenziato che attraverso quest’imposizione non venivano comunque risolti i problemi relativi
all’evasione fiscale, il saldo costo-benefici in termini di gettito era negativo oltre al fatto che evidente era il venir
meno dei principi inderogabili di equità e della stessa capacità contributiva dal momento che il soggetto era
tassato solo perché non aveva dichiarato un certo valore di reddito, ponendo a tassazione ricchezza creata in
modo presunto e non direttamente ascrivibile al contribuente. BATISTONE F., La “minimum tax”, in Riv. dir.
trib., 1993, 1, pag. 925; BRUZZONE M., Quale difesa contro le presunzioni della “minimum tax”?, in Corr.
trib., 2001, 47, pag. 3571.
196
Per i soggetti in perdita sistematica l'art. 2, comma 36-decies stabilisce infatti che “(...) restano ferme le cause
di non applicazione della disciplina in materia di società non operativa di cui al predetto articolo 30 della Legge
n. 724 del 1994”.
197
Questo significa che se una società si trova per un triennio in perdita fiscale le ipotesi d'esclusione previste
dall'art. 30 citato possono essere fatte valere solo per il quarto periodo d'imposta.
198
BEGHIN M., Diritto tributario. Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, cit., pag. 626.
Le ipotesi d'esclusione riguardano infatti situazioni al verificarsi delle quali “(...) è da escludere un abnorme
utilizzo della struttura societari”.
199
Tale ufficio dal 1° ottobre 2008 è stato soppresso ed ora la Banca d'Italia esercita le sue funzioni.
72
dalla trasformazione degli enti e delle società appartenenti al comparto delle cosiddette
“partecipazioni pubbliche”200. Tale esclusione automatica opera solo per le società che
svolgono in via esclusiva l’attività per la quale le disposizioni normative prevedono l'obbligo
di costituirsi come società di capitali. Il riferimento alle “disposizioni normative” porta ad
includere oltre alle leggi statali, anche quelle regionali; deve invece essere esclusa la casistica
che preveda, per esempio, la forma giuridica delle società di capitali quale onere imposto da
un bando201. La seconda causa d’esclusione si riferisce invece ai soggetti che si trovano nel
primo periodo d'imposta, coincidente cioè con la costituzione della società e l’apertura della
partita IVA a prescindere dall'inizio effettivo dell'esercizio produttivo. In tale fattispecie
d'esclusione automatica non sono annoverate le società costituite a seguito di una scissione, o
di una fusione propria o ancora di un conferimento d'azienda. In questi casi non si è in
presenza dell’inizio di una nuova attività, ma si è di fronte alla prosecuzione di quello che
precedentemente veniva svolto dalle società fuse, da quelle scisse o dal soggetto conferente.
Allo stesso modo non si può disapplicare automaticamente la disciplina in esame, in quanto
non può essere considerata nel primo periodo d'imposta, la società risultante da un’operazione
di trasformazione avvenuta ai sensi dell'art. 2498 del Codice Civile, che subentra in tutte le
posizioni giuridiche dell'ente che ha effettuato la trasformazione. Inoltre nemmeno l’affitto
d'azienda può essere identificato come causa d'esclusione per la società concedente, anche
qualora tale azienda sia l’unica posseduta202. Si deve sottolineare che la fattispecie
d'esclusione appena descritta non viene applicata alle società in perdita sistematica; per
quest’ultime l'arco temporale d'osservazione è pari a tre periodi d'imposta. Tuttavia per tenere
conto delle difficoltà effettive che si possono riscontare all’inizio dell'attività imprenditoriale,
tale situazione è stata inserita quale causa di disapplicazione automatica prevista dal
protocollo n. 87956 del 2012203. Si prevede poi la non applicazione della normativa in esame
200
Come già specificato nella Circolare del ministero delle Finanze del 27 febbraio 1997, n. 48 cit., tale elenco è
solo esemplificativo e non esaustivo di tutte quelle situazioni nelle quali il contribuente al fine di svolgere una
determinata tipologia d’attività è obbligato a costituirsi sotto forma di società di capitali, non potendo quindi
scegliere ed adottare la struttura societaria che ritiene maggiormente appropriata.
201
Tale situazione è stato oggetto della Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 43/E del 12 marzo 2007; una
società chiedeva se poteva essere disapplicato in modo automatico l’art. 30 riguardante le società di comodo dal
momento che aveva partecipato ad un bando ai fini della partecipazione ad una gara pubblica, che prevedeva
quale requisito per accedervi l’obbligo di avere la veste giuridica di società di capitali.
202
Tale precisazione è stata fornita dall’Amministrazione Finanziaria nella Circolare n. 55/E del 20 giugno 2002,
dove si precisava che “(...) l’applicazione [della normativa sulle società di comodo] non è influenzata dalle
clausole contrattuali relative all'ammortamento dei beni aziendali liberamente pattuite dalle parti”. In linea
generale l'affitto d'azienda non rientra quindi tra le ipotesi d’esclusione automatica; si deve tuttavia citare la
Sentenza n. 17 del 3 febbraio 2011 della Comm. Trib. Reg. di Genova, la quale è giunta ad affermare la
disapplicazione della disciplina sulle società di comodo nel caso d'affitto d'azienda motivandolo però in relazione
alle obiettive situazioni in cui si trovava tale società.
203
Circolare Agenzia delle Entrate 11 giugno 2012, n. 23/E.
73
per le società in amministrazione controllata o straordinaria. Il Decreto Legislativo n. 5 del 9
gennaio 2006 che si occupava della riforma organica della disciplina delle procedura
concorsuali, aveva soppresso tutti i riferimenti normativi riguardanti l'amministrazione
controllata contenuti nella legge fallimentare prevista dal R.D. n. 267 del 16 marzo 1942; la
Circolare 25/E del 2007 specificava infatti che l’esclusione per i soggetti in amministrazione
controllata doveva quindi essere superata. Il Decreto Legge n. 83/2012 denominato “Decreto
crescita” ha però incluso tra le misure per la gestione delle crisi aziendali, la reintroduzione
dell'istituto dell’amministrazione controllata, con la conseguenza che l’esclusione vige anche
per quest'ipotesi. Sono inoltre escluse come riportato nel comma 1 art. 30 della Legge n. 724
del 1994 “le società e gli enti i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati italiani ed
esteri, nonché le stesse società ed enti quotati e le società da essi controllate, anche
indirettamente”. Si fa quindi riferimento ai gruppi di società formate da società ed enti i cui
titoli sono negoziati su mercati regolamentati, anche esteri; la società quotata, che può
assumere la veste sia di controllante che di controllata, non è necessario sia residente nel
territorio dello Stato. Inoltre “il controllo rilevante” a cui fa riferimento il testo normativo,
include le diverse fattispecie previste dall'art. 2359 del Codice Civile; in particole il controllo
di diritto esercitato nell’assemblea ordinaria, il controllo di fatto assembleare ed il controllo
esercitato tramite particolari vincoli contrattuali. E’ poi necessario che la delibera di
ammissione alla negoziazione da parte dell’autorità nazionale di vigilanza sul mercato della
borsa sia stata approvata entro la chiusura del periodo d’imposta perché si possa applicare
l'esclusione dal regime della non operatività. Se il controllo sul soggetto quotato o da parte del
soggetto quotato si acquisisce nel corso del periodo d’imposta, si potrà beneficiare di tale
ipotesi d’esclusione qualora la quotazione nei mercati regolamentati si sia verificata per la
maggior parte del periodo d'imposta. Anche per le società esercenti pubblici servizi di
trasporto non si applica l'art. 30 relativo alle società di comodo. In questo caso i vincoli
tariffari incidono sui proventi di questi soggetti e si presume quindi l’impossibilità di
conseguire ricavi sufficienti a superare il test d’operatività proprio a causa dei prezzi imposti.
A parere dell'Amministrazione Finanziaria, che è intervenuta con la Risoluzione n. 43/E del
12 marzo 2007204, l’attività di trasporto pubblico deve essere esercitata direttamente e non
attraverso quote partecipative in altre società che operano in tale settore. L’esclusione si
applica poi anche alle società che si trovano ad avere per la maggior parte del periodo
204
Tale Risoluzione citata già in precedenza aveva fornito chiarimenti anche per l'esclusione dei soggetti
obbligati a costituirsi sotto forma di società di capitali.
74
d’imposta un numero di soci non inferiore ai 50205, dimensione ritenuta sufficiente ad
escludere la presunzione di non operatività per le società non quotate206. Queste descritte
rappresentano le cause d'esclusione introdotte attraverso le varie modifiche intervenute fino al
2006207.
Come detto in precedenza la Legge 24 dicembre 2007, n. 244 ha ridotto i soggetti interessati
dalla disciplina sulle società di comodo, stabilendo le seguenti ulteriori ipotesi d’esclusione:
società con un numero di dipendenti mai inferiore a dieci nei due esercizi precedenti; società
in stato di fallimento, assoggettate a procedure di liquidazione coatta amministrativa ed in
concordato preventivo; società che presentano un ammontare complessivo del valore della
produzione superiore al totale attivo dello stato patrimoniale; società partecipate da enti
pubblici almeno nella misura del 20 per cento, società che risultano congrue e coerenti ai fini
degli studi di settore208. Prima di analizzare le singole ipotesi è opportuno sottolineare che
nonostante il numero delle cause d’esclusione sia quindi aumentato, esse rappresentano
comunque un numero tassativo e delimitato a situazioni nelle quali il legislatore sembra
possedere una certa ragionevolezza sul fatto che la struttura societaria non possa essere “una
scatola vuota”. Si fa infatti riferimento ad indici di vitalità economica, a peculiari status o
assetti giuridici. Operando in questa direzione tuttavia viene evidenziato un ulteriore elemento
di debolezza e fragilità alla base della disciplina sulle società di comodo: l’automatismo delle
cause d’esclusione che poggiano su dati non verificabili da leggi economiche209. Partendo
dalla fattispecie d’esclusione che prevede un numero di dipendenti non inferiore a dieci nei
due esercizi precedenti, la presenza di personale dipendente rappresenta secondo il legislatore
un buon indicatore dell’operatività della società stessa e contemporaneamente sembra essere
espressione di una vitalità incompatibile con lo status di società di comodo. Il numero minimo
205
Tale numero pari a 50 è stato introdotto con la legge finanziaria per il 2008, mentre nella previgente versione
era pari a 100.
206
Questa precisazione è stata fornita nella Circolare 9/E del febbraio 2008, dove è stato poi aggiunto che come
nel caso dell'ipotesi di società che controllano o sono controllate da società ed enti i cui titoli sono negoziati in
mercati regolamentati, si può beneficiare dell'esclusione anche se nel corso del periodo d'imposta si raggiunge
una soglia non inferiore a 50, basta tuttavia che tale requisito persista poi per la maggior parte del periodo.
207
Da ultima la finanziaria per il 2007, Legge 27 dicembre 2006, n. 296.
208
DODERO A., Riduzione dell'area dei soggetti considerati non operativi, in Corr. trib., 2007, 41, pag. 3317. La
previsione della Legge Finanziaria per il 2008 aveva previsto la riduzione della platea dei soggetti interessati
dalla disciplina sulle società di comodo. La relazione accompagnatoria affermava infatti che l’obiettivo è quello
“(...) di concentrare l’attenzione dell’Amministrazione Finanziaria sulle casistiche che maggiormente
interessano i soggetti di comodo alleggerendo, al contempo, gli adempimenti dei contribuenti ed i carichi di
lavoro degli uffici”.
209
POGGIOLI M., Le modifiche apportate dalla legge finanziaria 2008 al regime fiscale delle “società di
comodo”: semplice maquillage o intervento di razionalizzazione del sistema?, in AA.VV., Le società di comodo
(a cura di TOSI L.), cit., pag. 97 e ss.. Secondo l'autore il tentativo di razionalizzazione “(...) inocula un elemento
di debolezza e di fragilità ulteriore in seno all'impianto sistematico che sorregge la disciplina della non
operatività. [L’automatismo delle cause d'esclusione] poggia su dati di pura astrazione”.
75
di dipendenti, tra i quali rientrano i lavoratori subordinati con contratto a tempo determinato
ed indeterminato e non invece coloro che percepiscono redditi assimilati a quelli da lavoro
dipendente210, deve sussistere per tutti i giorni compresi nell’arco temporale oggetto
d’osservazione; inoltre la specifica relativa ai due esercizi precedenti implica che tale valore
debba sussistere anche per l’esercizio nel quale si effettua il test d’operatività. Per quanto
concerne le società in fallimento e quelle assoggettate a procedure di liquidazione giudiziaria
e coatta amministrativa, tale trattamento d’esclusione era già stato previsto a parere
dell’Amministrazione Finanziaria nella Circolare n .25/E del 2007 per analogia rispetto alle
società in amministrazione controllata o straordinaria. Si aggiunge come fattispecie nuova
quella relativa alle società in concordato preventivo. In tutte queste situazioni la presenza
dell’autorità giudiziaria, quale organo terzo che controlla lo svolgimento dell’attività,
rappresenta una forma di garanzia e di conseguenza appare difficile ipotizzare l’effettuazione
di manovre elusive tali da giustificare l’applicazione dell’art. 30 della Legge n. 724/1994.
Sono poi escluse le società che presentano un’elevata produttività rispetto al valore dei propri
asset patrimoniali; tale verifica deve essere effettuata non su base triennale ma in relazione al
periodo d’imposta per il quale si procedere ad applicare la disciplina in esame. Nello specifico
è necessario effettuare il confronto tra il totale del valore della produzione, identificato quale
valore del raggruppamento A dello schema di conto economico redatto ai sensi dell’art. 2425
del Codice Civile ed il totale dell’attivo che risulta dallo stato patrimoniale. Per le società in
contabilità semplificata è necessario comunque tenere in considerazione i valori richiesti dalla
norma e deve essere redatto un apposito prospetto economico-patrimoniale sulla base delle
risultanze contabili. L’individuazione dei movimenti finanziari non è un adempimento
semplice nel caso della mancanza della contabilità ordinaria. Se quindi da tale confronto
emerge un valore della produzione di importo maggiore dell’attivo patrimoniale, la società
non è tenuta ad effettuare il test d’operatività. Il presupposto di non operatività si fonda sulla
verifica del volume dei ricavi che una società è in grado di produrre rispetto al valore dei
propri beni patrimoniali, di conseguenza la logica è quella di escludere a priori le società che
evidenziano tassi di rendimento superiori al cento per cento. La non applicazione della
normativa sulle società di comodo riguarda poi anche le società partecipate da enti pubblici in
misura almeno pari al 20 per cento del capitale sociale211; questo requisito deve essere
210
E’ il caso per esempio degli amministratori e dei collaboratori a progetto.
Come precisato nella Risoluzione dell'Amministrazione Finanziaria del 6 ottobre 2008, n. 373/E la
partecipazione del soggetto pubblico deve essere diretta; laddove il legislatore avesse voluto fare riferimento
anche ad una partecipazione indiretta l'avrebbe espressamente previsto come nel caso delle società con azioni
quotate in mercati regolamentati.
211
76
verificato per la maggior parte del periodo d’imposta e la presenza del “controllo pubblico” è
sufficiente ad escludere la natura di non operatività della società. L’ultima ipotesi d’esclusione
prevista nel comma 1 dell’art. 30 della Legge n. 724/1994 riguarda i soggetti che risultano
congrui e coerenti ai fini degli studi di settore. Le società si considerano congrue anche se per
effetto dell’adeguamento in dichiarazione, dichiarano ricavi di importo non inferiore a quello
puntuale di riferimento e comprensivo dei maggiori ricavi che si ottengono dall’applicazione
degli specifici indicatori di normalità economica. Il requisito della coerenza si ritiene invece
possa sussistere solo quando la società è correttamente posizionata nei confronti di tutti gli
indicatori di coerenza economica applicabili212. Tali verifiche devono essere effettuate solo
per l’esercizio di riferimento e non per il triennio nel quale si effettua il calcolo del test
d’operatività. Si deve invece sottolineare che l’esclusione non riguarda le società alle quali si
applicano i parametri, anche se dichiarano un livello di ricavi congrui. Le società che risultano
quindi non congrue e non coerenti sono sottoposte alla sovrapposizione della disciplina sia
degli studi di settore che delle società di comodo. In questa casistica potrebbe quindi accadere
che in sede d’accertamento sia stabilito un livello di ricavi maggiore per raggiungere
l’importo stimato in base agli studi, a cui deve essere aggiunto un ulteriore maggior reddito
imponibile, per poter raggiungere quello minimo stabilito dall’art. 30 in esame. Per quanto
concerne quest’ultima ipotesi d’esclusione nella quale si esplica la sovrapposizione giuridica
tra la strumentazione giuridica degli studi di settore e quella delle società non operative, deve
essere sottolineato che il legislatore prevedendo l’esclusione delle società che risultano
congrue e coerenti agli studi di settore, ha di fatto assegnato una maggiore prevalenza a
quest’ultimi213. Tale ipotesi d'esclusione non implica quindi un’eccezione legata alla reale
attività svolta dall'impresa, ma al suo risultato fiscale ottenuto. Quindi o la società risulta
congrua e coerente e raggiunge il livello dei ricavi e del reddito previsti dallo studio di settore
d'appartenenza, sostituendo quindi in questo modo le percentuali forfettarie previste dall'art.
30 della Legge n. 724/1994, altrimenti è soggetta anche alla disciplina delle società di
212
Con riguardo all'applicazione di tale fattispecie la Comm. Trib. Reg. di Firenze nella sentenza n. 3 del 5
gennaio 2011 ha evidenziato che l’ipotesi di esclusione delle società che risultano congrue e coerenti agli studi di
settore essendo entrata in vigore il 1° gennaio 2008 ed essendo una norma di natura procedimentale va applicata
agli accertamenti notificati dalla suddetta data.
213
A tal riguardo si è espresso POGGIOLI M., Indicatori di forza economica e prelievo confiscatorio, cit., pag.
45 e ss.. Sia gli studi di settore che la disciplina prevista per le società di comodo rappresentano forme di
predeterminazione normativa, attraverso le quali può essere sottoposta a tassazione materia imponibile sganciata
dall'effettiva realtà economica del contribuente. Tuttavia il risultato che si ottiene attraverso gli studi di settore è
per sua natura matematico-statistico e può trasformarsi in prova d'evasione solo dopo la fase di contraddittorio
tra Fisco e contribuente. Tale fase non è più presente nella normativa delle società non operative, dopo le
modifiche avvenute nell'estate del 2006 ed in questo modo si incide direttamente sul piano sostanziale. E’
proprio attraverso questa chiave di lettura che quindi deve essere analizzata l’esclusione dall’applicazione
dell’art. 30 della Legge n. 724/1994 delle società che risultano congrue e coerenti agli studi di settore.
77
comodo.
2.3.2 Le cause di disapplicazione automatica introdotte nel 2008 e nel 2012
Oltre alle ipotesi d’esclusione sopra descritte, il legislatore con la Legge Finanziaria per il
2008 aveva previsto l’emanazione di un provvedimento da parte del direttore dell’Agenzia
delle Entrate per identificare ulteriori situazioni di disapplicazione automatica della disciplina
sulle società di comodo, al verificarsi delle quali non è necessario presentare l’istanza di
disapplicazione. E’ stato infatti promulgato il protocollo n. 2008/23681, le cui cause di
disapplicazione automatica devono essere verificate con riguardo al periodo d’imposta nel
quale si intende disapplicare la normativa sulle società non operative. Tale provvedimento è
stato integrato poi dal successivo protocollo n. 87956 emanato l’11 giugno 2012, dove sono
state identificate altre situazioni oggettive in presenza delle quali non occorre presentare
istanza di interpello, perché in modo automatico per i soggetti che si trovano in perdita
sistematica non trova attuazione la disciplina prevista dell'art. 30 della Legge n. 724/1994. Le
ipotesi di disapplicazione relative a quest’ultimo protocollo riguardano quindi gli anni
compresi nel periodo d’osservazione ed hanno l’effetto di escluderli dal computo214. Con la
precisazione che a partire dal 2014 il periodo d’osservazione per essere identificati come
società in perdita sistematica si è allungato a cinque periodi d’imposta nei quali si sono
registrate perdite fiscali consecutive, oppure a quattro periodi a cui si aggiunge un ulteriore
periodo d’imposta nel quale la società ha dichiarato un reddito inferiore al minimo previsto ex
lege. Di seguito vengono illustrate le cause di disapplicazione automatica previste dal
protocollo del 2012; quest’ultime forniscono una panoramica più ampia ed includono quelle
già previste dal provvedimento emanato nel 2008. Deve tuttavia essere ricordato che le
suddette cause di disapplicazione automatica presenti nei due protocolli hanno una diversa
disciplina a seconda della normativa che si intendere disapplicare. Gli effetti quindi relativi al
periodo d’osservazione variano a seconda che si stia verificando la possibilità di non
effettuare il test d’operatività o invece la presenza di perdite sistematiche215. La prima ipotesi
214
Come precisato nelle Circolari dell'Agenzia delle Entrate 11 giugno 2012, n. 23/E le situazioni che possono
determinare la disapplicazione della disciplina sulle società di comodo si riferiscono ad uno dei tre periodi
d'imposta, determinando l'effetto di interrompere il periodo d'osservazione di riferimento. Questo significa che in
relazione al periodo d'osservazione 2010-2011-2012, la causa di disapplicazione automatica relativa al 2011 ha
comportato l'inapplicabilità della disciplina per il 2013; di conseguenza il periodo d'osservazione rilevante inizia
nel 2014.
215
FERRANTI G., L'ambito d'applicazione della disciplina sulle società in perdita sistematica, cit., pag. 2121;
SANTANGELO A., Provv. Ag. Entrate 11 giugno 2012, prot. n. 2012/87956- La nuova disciplina sulle società di
comodo, in Fisco (Il), 2012, 29, pag. 1-4572. Le cause di disapplicazione automatica previste dal protocollo del
2008 vanno riferite al periodo nel quale deve essere effettuato il test d’operatività, mentre quelle individuate nel
provvedimento del 2012 operano con riguardo ai periodi compresi nel triennio in perdita.
78
di disapplicazione automatica riguarda le società in liquidazione che richiedono la
cancellazione dal registro delle imprese, secondo quanto stabilito dagli articoli 2312 e 2495
del Codice Civile216 entro il termine di presentazione della dichiarazione successiva. Tale
previsione opera con riferimento al periodo d’imposta nel corso del quale si assume
l'impegno, al precedente e a quello successivo. Si vogliono quindi favorire le società che si
trovano in un particolare status e che hanno assunto l’impegno di estinguersi entro uno
specifico arco temporale che comproverebbe l’effettività della procedura liquidatoria posta in
essere217. Le società in liquidazione che si impegnano a porre fine alla procedura entro l’arco
di tempo limitato non devono quindi dimostrare che quella in corso è una liquidazione
effettiva218. La seconda fattispecie riguarda le società sottoposte ad una delle procedure
concorsuali previste dall’art. 101, comma 5, del TUIR che fa riferimento al fallimento, al
concordato preventivo, alla liquidazione coatta amministrativa e all’amministrazione
straordinaria delle grandi imprese, o ad una procedura di liquidazione giudiziaria. Tale
casistica peraltro è presente anche tra le cause d’esclusione previste dall’art. 30 comma 1 della
Legge n. 724/1994. Configura poi come caso di disapplicazione automatica la società
sottoposta a sequestro penale o a confisca o in altre situazioni analoghe nella quali sia stata
disposta la nomina di un amministratore giudiziario da parte del tribunale. Il periodo di
riferimento nel quale la disciplina sulle società di comodo non trova attuazione è quello nel
corso del quale è emesso il provvedimento di nomina dell’amministratore ed i successivi fino
a quando permane l’amministrazione giudiziaria. Come nella casistica precedente può essere
in via immediata esclusa l’applicazione della normativa, data la situazione oggettiva in cui si
trova la società interessata da un diretto controllo giudiziario. Queste prime tre cause di
disapplicazione individuate nel provvedimento sono incentrate sui “soggetti”; si fa infatti
riferimento a situazioni specifiche nella quali si possono trovare le società. Se da un lato si
deve quindi apprezzare il tentativo di ampliare già a partire dal 2008 la categoria di soggetti
esclusi dalla disciplina in esame, è comunque da evidenziare che soprattutto queste tipologie
d'esclusione appena descritte di tipo soggettivo, non sono sempre ricorrenti nella pratica. In
216
Tali articoli si riferiscono alla richiesta di cancellazione dal registro delle imprese da parte dei liquidatori dopo
l'approvazione del bilancio finale di liquidazione.
217
Come specificato nella Circolare n. 25/IR del 31 ottobre 2011 del Consiglio Nazionale dei Dottori
Commercialisti ed Esperti Contabili cit., in assenza di questa casistica di disapplicazione automatica per potersi
sottrarre al regime della non operatività non era sufficiente la delibera di liquidazione della società, ma era
invece necessario dimostrare di essere in effettivo stato di liquidazione.
218
DODERO A., La disapplicazione automatica della disciplina sulle società non operative, cit., pag. 783.
L’effettività della liquidazione è desunta dalla volontà di porre termine alla procedura di liquidazione e di
cancellarsi dal registro delle imprese entro il termine di presentazione della dichiarazione successiva a quella in
cui si assume l’impegno.
79
quest’ultimo periodo hanno cominciato ad interessare maggiormente le società a causa del
perdurare della crisi economica che purtroppo porta anche al fallimento ed alla loro estinzione
definitiva. Proseguendo sono poi interessate dalla disapplicazione automatica le società che
possiedono partecipazioni, iscritte esclusivamente tra le immobilizzazioni finanziarie, in
società considerate non in perdita sistematica, in società non soggette all’applicazione della
disciplina in esame in conseguenza dell’accoglimento dell’istanza di disapplicazione ed anche
in società collegate, che possiedono la residenza all’estero, a cui si applica il regime previsto
dall’art.168 del TUIR. Relativamente a quest’ultimo caso non trova attuazione il regime delle
società di comodo dato che il reddito imputato alla holding è già determinato in via presuntiva
con criteri difformi da quelli ordinariamente utilizzati per la determinazione del reddito
d'impresa; se entrambe le discipline venissero applicate si rischierebbe di rideterminare un
reddito già presunto e reputato congruo ai sensi della disciplina speciale sulle società
collegate. Inoltre è da precisare che la tipologia d’esclusione in esame può avere effetto
solamente se la società svolge attività strettamente funzionali alla gestione delle
partecipazioni219. La disapplicazione è poi automatica per le società che hanno ottenuto
l’accoglimento dell’istanza d'interpello previsto dal comma 4-bis dell'art. 30 della Legge n.
724/1994. Tale accoglimento deve essere relativo ad un precedente periodo d’imposta e
riguardare circostanze oggettive, che non hanno subito modifiche nei periodi d’imposta
successivo. In questo caso si è di fronte ad una disapplicazione automatica parziale della
disciplina, che opera limitatamente alle predette circostanze oggettive220. Queste ultime due
ipotesi sono incentrate rispettivamente “sull’oggetto”, ossia i cespiti patrimoniali e
sull’accoglimento dell’istanza di disapplicazione limitatamente a specifiche situazioni
oggettive. Alle fattispecie d’esclusione automatica finora descritte presenti anche nel
provvedimento del 2008221, se ne devono aggiungere altre introdotte con il protocollo n.
219
Attraverso tale ipotesi di disapplicazione si prevede quindi che la verifica dei requisiti per applicare o meno la
disciplina delle società di comodo debba essere effettuata non in capo alla holding ma nei riguardi delle società
dalla stessa partecipate, sempre se la società svolge attività strettamente funzionali alla gestione delle
partecipazioni. E’ da sottolineare che tale ipotesi di disapplicazione è prevista in modo analogo anche nel
Provvedimento del 2008, ma in quest’ultimo caso opera solo in modo parziale.
220
Sottolinea POGGIOLI M., Le modifiche apportate dalla legge finanziaria 2008 al regime fiscale delle
“società di comodo”: semplice maquillage o intervento di razionalizzazione del sistema?, in AA.VV., Le società
di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 97 e ss., come risulta complessa e di difficile applicazione la disciplina
sulle società di comodo. In particolare questa tipologia d’esclusione evidenzia da un lato “(...) un condivisibile
fattore correttivo al campo d'applicazione della disciplina, [ma questo avviene] attraverso una complicazione
evidente, venendo richiesto alle società interessate alla disapplicazione parziale di procedere ad un ricalcolo
non immune da difficoltà”.
221
E’ da evidenziare che tale protocollo riporta un’ipotesi di disapplicazione automatica, non ripresa poi in quello
emanato nel 2012 relativa “alle società che dispongono di immobilizzazioni costituite da immobili concessi in
locazione ad enti pubblici ovvero locati a canone vincolato (…) o ad altre leggi regionali o statali (...)”, che
configura come un ulteriore casistica di esclusione automatica parziale e quindi con il problema applicativo per
80
2012/87956. In particolare la disapplicazione è automatica per le società che presentano un
margine operativo lordo positivo, dato cioè dalla differenza tra il valore ed i costi di
produzione,
quest’ultimi
al
netto
dei
relativi
ammortamenti,
svalutazioni
ed
accantonamenti222. In questo modo si è cercato di risolvere le situazioni relative alle imprese,
per esempio le società immobiliari, che producono redditi a formazione pluriennale per le
quali, a seguito di più periodi in perdita fiscale, potrebbe poi far seguito un utile frutto
dell’attività svolta negli anni precedenti. Inoltre la disapplicazione riguarda le società la cui
somma algebrica, derivante dalla perdita fiscale del periodo e dagli importi che non
concorrono a formare il reddito imponibile in quanto soggetti a disposizioni agevolative,
risulta positiva. Questa previsione non vuole quindi penalizzare i soggetti che dichiarano un
reddito inferiore al minimo, dovuto al fatto di aver usufruito di norme agevolative o di non
aver assoggettato all’imposizione progressiva alcuni componenti, come nel caso di
applicazione dell’imposta sostitutiva, o ancora per evitare la duplicazione impositiva dell'utile
prodotto dalle società di capitali in capo alle stesse e nei riguardi dei soci. Il protocollo n.
2012/87956 prevede altre quattro casistiche di disapplicazione automatica della disciplina
delle società di comodo che riguardano: le società i cui adempimenti tributari sono stati
sospesi o differiti da disposizioni normative adottate in conseguenza della dichiarazione di
emergenza e l’esclusione dall’applicazione della normativa opera nel periodo d’imposta in cui
si è verificato l’evento calamitoso e in quello successivo; i soggetti che esercitano
esclusivamente attività agricola223; le società che si trovano nel primo periodo d’imposta e
quelle che risultano congrue e coerenti ai fini degli studi di settore. Queste ipotesi si applicano
sia in presenza di perdite fiscali reiterate, che in caso di mancato superamento del test
d’operatività.
E’ stato quindi illustrato in questo capitolo il presupposto base della normativa sulle società di
comodo: il possesso di determinati beni patrimoniali implica la produzione “oggettiva” di
“frutti”, quindi di reddito ed il loro inserimento nella struttura societaria rafforza la
presunzione di un loro impiego a scopi reddituali. La presenza poi di diverse e specifiche
fattispecie di esclusione non sempre indicative di operatività, intesa come esercizio proprio
dell’attività d’impresa in condizioni di normalità, denota l’intento di migliorare la disciplina
le società in perdita sistemica illustrato.
222
Nella Risoluzione dell'Agenzia delle Entrate dell'11 dicembre 2012, n. 107/E è stato precisato che come
devono essere esclusi dai costi il valore degli ammortamenti relativi ai beni propri, così anche i canoni di leasing
non rilevano. Si afferma infatti che un trattamenti differente “(...) non sarebbe conciliabile con il principio di
sostanziale equivalenza tra l'acquisizione e o la realizzazione di un bene proprio e quella effettuata tramite
contratti di leasing (...)”.
223
Nel primo paragrafo del presente capitolo era già stata illustrata l’esclusione di queste società dall’ambito
soggettivo dall'applicazione della disciplina sulle società di comodo.
81
nella quale la ratio del contrasto all’uso distorto della struttura societaria si confonde con la
ragione fiscale di ostacolare l’evasione, che si realizza se i ricavi sono inferiori a quelli
presunti in relazione ai beni posseduti dalla società. Si è quindi cercato di evidenziare da un
lato la “macchinosità” del legislatore nel disciplinare le società di comodo ed allo stesso
tempo di mettere in luce il tentativo di applicare dei temperamenti fisiologici ad una disciplina
troppo rigida che non dovrebbe proprio essere attuata qualora non ricorrano le condizioni per
considerare le società come non operative224. La normativa in esame ha assunto, sotto certi
punti di vista, “la veste” di “comodo espediente per spremere gettito in assenza di un’idonea
ricchezza per sostenerlo”225.
224
DAMIANI M., L'irrazionale assetto della disciplina sulle società di comodo, in Corr. trib., 2013, 39, pag.
3113; LUPI R., Una mistificazione mediatica, in PEVERINI L., VIGNOLI A., LUPI R. e STEVANATO D.,
Società non operative: una patrimoniale mascherata da criterio (contronatura) di determinazione dei redditi,
cit., pag. 132., il quale evidenzia in modo critico come “la disciplina delle società di comodo va avanti da
vent’anni assorbendo una quantità di lavoro consulenziale ed amministrativo del tutto sproporzionata rispetto ai
vantaggi per le casse dell’Erario”, quasi a dire che si tratta di una forma di tassazione minimale a scopo di
gettito e non di contrasto all’utilizzo abusivo della forma societaria.
225
STEVANATO D., Società di comodo, orrore senza fine: da imposta su presunti redditi di fonte patrimoniale a
tributo extrafiscale sul patrimonio, in PEVERINI L., VIGNOLI A., LUPI R. e STEVANATO D., Società non
operative: una patrimoniale mascherata da criterio (contronatura) di determinazione dei redditi, cit., pag. 132.
82
CAPITOLO 3
CONSEGUENZE FISCALI PER LE SOCIETA' RISULTANTI NON
OPERATIVE ED ATTIVAZIONE DELL’INTERPELLO
DISAPPLICATIVO
SOMMARIO: 3.1 La predeterminazione di un reddito minimo ai fini delle imposte dirette:
3.1.1 Le percentuali applicabili per il calcolo del reddito minimo; 3.1.2 L’utilizzo delle perdite
pregresse - 3.2 La possibile via d’uscita dal regime normativo delle società di comodo:
l’interpello disapplicativo: 3.2.1 Dalla previsione del contraddittorio anticipato all’interpello
disapplicativo; 3.2.2 La sussistenza di oggettive situazioni che non hanno permesso il
conseguimento del livello minimo dei ricavi e del reddito; 3.2.3 Riflessioni sulle
problematiche relative al procedimento disapplicativo previsto per le società di comodo
Il non superamento del test d’operatività per le società o la reiterazione delle perdite fiscali
per più periodi d’imposta consecutivi implica automaticamente l’applicazione della disciplina
delle società di comodo. Ne deriva la determinazione di un reddito minimo ai fini delle
imposte sul reddito e la limitazione al riporto delle perdite, a cui si aggiungono
l’identificazione del valore della produzione netta in misura non inferiore ad una determinata
soglia e penalizzazioni nel campo IVA relative al credito risultante dalla dichiarazione
presentata. In questo contesto l’interpello disapplicativo rappresenta la possibile via d’uscita
da tali conseguenze. E’ questo l'oggetto del presente capitolo, nel quale, accanto
all’illustrazione delle conseguenze fiscali per le società di comodo, ci si occuperà delle
problematiche legate al procedimento disapplicativo.
3.1 La predeterminazione di un reddito minimo ai fini delle imposte dirette
Nel caso di mancato superamento del test d’operatività, che si verifica quando il livello dei
ricavi, dei proventi e degli incrementi delle rimanenze effettivi risulta inferiore a quello medio
presunto ottenuto applicando determinati coefficienti agli asset patrimoniali, la società è
obbligata a dichiarare un reddito minimo “calato dall'alto”226 che ricalca il percorso di
quantificazione dei ricavi figurativi. Lo si ottiene con un’operazione matematica attraverso la
quale al valore di taluni cespiti patrimoniali sono applicate determinate percentuali stabilite ex
lege. Il possesso e la mera detenzione di beni con determinate caratteristiche sono identificati
dal legislatore come asset produttivi di nuova ricchezza, non considerando la specifica
226
L’espressione è mutuata da BEGHIN M., Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, in FALSITTA G.,
Manuale di Diritto Tributario. Parte speciale, cit., pag 713.
83
situazione soggettiva del contribuente227. Ci si basa quindi sul presupposto dell’esistenza di
una correlazione di proporzionalità diretta tra beni patrimoniali e reddito imponibile, nella
convinzione che all’aumentare delle dimensioni patrimoniali della società debba
corrispondere necessariamente un incremento anche della redditività stessa228. Ne deriva una
determinazione del reddito minimo che si realizza attraverso un meccanismo matematicoforfettario, abbandonando i criteri di determinazione analitica del reddito d’impresa previsti
dall'art. 83 e seguenti del Testo Unico delle Imposte sui Redditi. Deve poi essere messo in
luce che l’imponibile risultante dalla presunzione prevista dal legislatore di dichiarare un
reddito minimo è in un certo qual modo in contraddizione con la situazione fattuale di
partenza, dal momento che se una società non opera sembra scontato che non produca reddito,
di conseguenza il reddito legalmente previsto appare fittizio229. Se infatti il presupposto base è
il mancato svolgimento di un’attività economica appare difficile ritenere che possa esistere
una redditività del capitale. La previsione del legislatore di determinare un reddito minimo
sembra rappresentare, più che una seconda presunzione legata a catena alla prima,
concernente il mancato superamento del test d’operatività, la regola per identificare la base
imponibile di un’imposta patrimoniale, anche se formalmente questo tributo viene considerato
come imposta sul reddito230.
3.1.1 Le percentuali applicabili per il calcolo del reddito minimo
Procedendo ad analizzare la determinazione dell’imponibile, il comma 3 dell’art. 30 della
Legge n. 724 del 1994 stabilisce che “fermo l’ordinario potere d'accertamento, ai fini
dell'imposta personale sul reddito (…) si presume che il reddito del periodo d’imposta non sia
inferiore all’ammontare della somma degli importi derivanti dall’applicazione ai valori dei
beni posseduti nell'esercizio delle seguenti percentuali (...)”. Le percentuali previste dalla
227
BEGHIN M., Diritto Tributario. Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, cit., pag. 620.
Dal mancato superamento del test d'operativa e dalla determinazione di un imponibile utilizzando questi criteri si
giunge quindi ad “una surrettizia tassazione del patrimonio”.
228
Alcune riflessioni a riguardo sono state inserite nel capitolo precedente nel confronto tra i ricavi effettivi e
quelli presunti.
229
NUSSI M., La disciplina impositiva delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi
coerenti, cit., pag. 491. Secondo l'autore il meccanismo legislativo il quale prevede che i beni immobilizzati
siano conferiti o acquistati dalla società per produrre ricavi e che la loro mancata realizzazione implichi
l’operatività trascurabile della società può trovare una sua giustificazione. Difficile è invece riuscire a trovare “il
perché” e dare una giustificazione alla seconda presunzione che quantifica il reddito per una società che è già
stata definita non operativa.
230
E’ questa la tesi sostenuta da PEVERINI L., La natura patrimoniale dell'imposta sulle società di comodo, in
PEVERINI L., VIGNOLI A., LUPI R. e STEVANATO D., Società non operative: una patrimoniale mascherata
da criterio (contronatura) di determinazione dei redditi, cit., pag. 132. Secondo l’autore l'imposta che la società
non operativa è tenuta a pagare, è parametrata ad una ricchezza che deve essere collocata nella categoria del
patrimonio e non del reddito. Inoltre l’unica presunzione legale rintracciabile nell'art. 30 è quella di non
operatività prevista nel comma 1.
84
normativa sono pari all' 1,50, al 4,75 e al 12 per cento e si applicano rispettivamente ai beni
già identificati per la determinazione dei ricavi medi presunti cioè alle azioni e quote di
partecipazione al capitale di soggetti IRES e società di persone; agli strumenti finanziari
assimilati alle azioni, alle obbligazioni aumentati poi del valore dei crediti finanziari; alle
immobilizzazioni costituite da beni immobili ed alle navi utilizzate per l’esercizio
commerciale o per la pesca o per l’assistenza in mare o per la demolizione, fatta eccezione per
le unità di diporto; ed infine alle altre immobilizzazioni anche in locazione finanziaria. Si
deve precisare che il coefficiente pari al 4,75 per cento applicato agli immobili è ridotto al 4
per cento per quelli classificabili nella categoria catastale A/10, al 3 per cento per gli immobili
a destinazione abitativa acquistati o rivalutati nell'esercizio stesso e nei due esercizi precedenti
ed allo 0,9 per cento per gli immobili situati nei comuni con una popolazione inferiore ai mille
abitanti231. La differenza rispetto al calcolo dei ricavi figurativi è rappresentata dal fatto che i
valori a cui si applicano tali coefficienti devono essere considerati secondo l’importo
quantificato nell’esercizio di riferimento e non come media del triennio; è poi necessario per i
beni non posseduti per l’intero periodo d'imposta ragguagliare all’anno il valore dei predetti
beni. Qualora determinati componenti non abbiano influito nella determinazione del reddito
effettivo non devono essere considerati nemmeno computati in quello presunto dal
legislatore232. L’impostazione utilizzata dal legislatore ricalca quindi quella stabilita nel
comma 1 dell'art. 30 citato per il calcolo dei proventi figurativi, prevedendo dei coefficienti di
valore inferiore applicabili ai valori dei cespiti patrimoniali, che non necessariamente riescono
a definire il reddito effettivamente prodotto dal soggetto ritenuto di comodo. Possiamo quindi
affermare che il reddito che si genera operando secondo quanto previsto dal comma 3 dell'art.
30 in esame è strettamente condizionato al patrimonio societario, che esprime una grandezza
statica e non dinamica quale dovrebbe invece risultare essere il reddito, specchio dell’attività
svolta dalla società. Inoltre si deve evidenziare che potrebbero esistere soggetti che non
generano redditi elevati anche se possiedono una struttura societaria fortemente
patrimonializzata, come pure potrebbe accadere il contrario che a fronte cioè di una scarsa
patrimonializzazione il soggetto passivo sia in grado di generare una redditività elevata. Il
nocciolo della questione è che il reddito risultante dall’applicazione della disciplina sulle
231
Non sembra opportuno riprendere nel dettaglio cosa includano le diverse tipologie di asset patrimoniali che
incidono nella determinazione del reddito minimo, dato che tale analisi è già stata presentata nel capitolo
precedente. Sembra più interessante cercare di fare alcune riflessioni di carattere sistematico sulla scelta
effettuata dal legislatore di operare nella predeterminazione del reddito in modo forfettario.
232
E' il caso per esempio dei dividendi esenti in misura pari al 95 per cento nella formazione del reddito. Il
reddito minimo presunto, ottenuto nel caso specifico applicando il coefficiente dell'1,5% al valore delle
partecipazioni, dovrà essere poi ridotto in misura pari al 95 per cento dei dividendi percepiti.
85
società di comodo non è indice d’espressione dell'attitudine alla contribuzione del soggetto
passivo, con il rischio di sottoporre quindi a tassazione ricchezza che nella realtà non esiste233.
E’ proprio questo il pericolo insito nell’applicazione automatica di coefficienti di normalità
economica che possono portare a definire il prelievo in modo eccessivamente lontano dalla
realtà concreta234.
Devono poi essere effettuate alcune riflessioni riguardanti da un lato l’ipotesi in cui il
soggetto identificato come non operativo abbia prodotto un reddito ai fini delle imposte sul
reddito superiore a quello minimo risultante dall’applicazione dei coefficienti agli specifici
asset patrimoniali e dall’altro lato la precisazione presente nel comma 3 riportato “fermo
l'ordinario potere d'accertamento”. Il soggetto passivo dichiarato non operativo può trovarsi
nella condizione di aver generato reddito d'impresa per un ammontare superiore alla soglia
minima prevista dalla normativa; deve quindi dichiarare tale superiore reddito imponibile
rispetto a quello che otterrebbe applicando quanto previsto nel comma 3 dell’art. 30 della
Legge n. 724 del 1994. Si deve sottolineare che in quest’ipotesi specifica appena descritta, le
regole di determinazione del reddito ritornano quindi ad essere quelle proprie delle imposte
sui redditi e quindi del reddito d’impresa. L’imposta sul patrimonio si esplica al ricorrere di
due condizioni: la prima è che la società dichiari ricavi effettivi in misura inferiore a quelli
minimi presunti, risultando perciò non operativa, e la seconda è invece legata al fatto di aver
prodotto un reddito in misura inferiore a quello definito dal comma 3 dell'art. 30 citato235.
Potrebbe poi accadere che il soggetto che non ha superato il test d’operatività abbia dichiarato
un reddito imponibile superiore al minimo previsto dalla disciplina e si trovi nella situazione
di non possedere perdite pregresse. In questo caso il contribuente può essere interessato a
presentare l'istanza di disapplicazione per evitare almeno di essere considerato soggetto non
233
BEGHIN M., Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, in FALSITTA G., Manuale di Diritto Tributario.
Parte speciale, cit., pag 721 e ss.. L’ulteriore precisazione che si deve fare è che “a patrimonio invariato il
reddito potrebbe ragionevolmente aumentare o diminuire, a seconda che le fluttuazioni riguardanti i valori dei
singoli beni incidano sul raggruppamento che vede l'applicazione dell'aliquota più elevata o di quella meno
elevata”.
234
POGGIOLI M., Principio di capacità contributiva e “flessibilità” dei coefficienti presuntivi di reddito, in
Corr. trib., 2007, 48, pag. 3947. L’autore, alla luce della Sentenza della Corte di Cassazione del 10 settembre
2007, n. 18983, effettua delle riflessioni relative agli avvisi d’accertamento basati sull’automaticità dei
coefficienti presuntivi previsti per le società di comodo ed anche dei più raffinati, dal punto di vista statistico,
studi di settore; evidenzia poi il rischio che questi modelli operativi siano “pericolosamente disattenti alla realtà
fattuale sottostante”, venendo così meno il rispetto del principio di capacità contributiva stabilito dall'art. 53
della Costituzione.
235
PEVERINI L., Società di comodo e imposta patrimoniale: il contrasto tributario all'utilizzo distorto della
forma societaria, cit., pag. 260. L’autore sostiene che “le ragioni del differente trattamento sopra descritto ed in
particolare di tornare ad assoggettare ad imposizione il reddito quando è superiore a quello minimo, dovrebbero
risiedere in una mera logica di soddisfacimento di esigenze di cassa”. In questo modo la base imponibile
minima, prevista dal legislatore, garantisce che le società di comodo concorrano in ogni caso alle spese
pubbliche assoggettando reddito o anche grandezze diverse dal reddito, come nel caso specifico del patrimonio.
86
operativo sul fronte dell'imposta regionale sulle attività produttive e dell'imposta sul valore
aggiunto, come precisato dall'Amministrazione Finanziaria nella Circolare 5/E del 2 febbraio
2007236. Per quanto riguarda la specifica del legislatore “fermo l'ordinario potere
d'accertamento”, gli uffici dell'Amministrazione Finanziaria sono legittimati a rettificare le
dichiarazioni con la possibilità di determinare un imponibile più elevato di quello derivante
dall’applicazione dei coefficienti stabiliti ex lege agli asset patrimoniali ed in ogni caso di
quello
dichiarato
dalla
società
stessa237.
Deve
inoltre
essere
evidenziato
che
l’Amministrazione Finanziaria può anche accertare ad una società, che sulla base della
dichiarazione risulta essere non operativa, ricavi in misura superiore a quelli stabiliti dal
comma 1 dell'art. 30 in esame; in questo caso viene meno il presupposto per l’applicazione
della disciplina sulle società di comodo. Si dovrà pertanto procedere a rettificare quanto già
pagato dal contribuente, avendo determinato la propria imposta alla luce della previsione
normativa dell'art. 30 della Legge n. 724 del 1994.
Sembra poi interessante fare qualche accenno alle implicazioni della disciplina sulle società di
236
Nonostante in questo lavoro non vengano analizzate le conseguenze fiscali in materia di IRAP ed IVA delle
società di comodo, sembra opportuno fare almeno qualche accenno riportando quanto stabilito dalla normativa.
L'art. 30 della Legge n. 724/1994 prevede al comma 3-bis che per i soggetti non operativi il valore della
produzione netta non possa essere inferiore al reddito minimo determinato ai fini delle imposte sul reddito,
aumentato delle retribuzioni per il personale dipendente, dei compensi dei collaboratori coordinati e continuativi,
dei compensi per le prestazioni di lavoro autonomo che non sono esercitate abitualmente e degli interessi passivi.
Come precisato dalla Circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 21/E del 17 marzo 2008, l’applicazione di quanto
previsto ai fini IRAP è determinata dal mancato superamento del test d’operatività, prescindendo dal fatto che il
soggetto non operativo abbia dichiarato un reddito superiore o inferiore a quello minimo stabilito dal comma 3
dell'art. 30 citato. Dovrà in ogni caso dichiarare ai fini IRAP il maggiore tra il valore della produzione effettiva e
quello minimo determinato in via presuntiva, indipendentemente dal reddito dichiarato ai fini delle imposte sul
reddito. Il comma 4 stabilisce poi la non utilizzabilità del credito che deriva dalla dichiarazione presentata in
relazione all’imposta sul valore aggiunto ed esso non può quindi essere oggetto di rimborso e nemmeno essere
utilizzato in compensazione. Come esplicitato nella Sentenza della Corte di Cassazione n. 13079 del 17 giugno
2005 e ribadito poi nella Risoluzione dell'Agenzia delle Entrate n. 225/E del 10 agosto 2007, il divieto di
utilizzare in compensazione con altri tributi l’eccedenza di credito si applica alle eccedenze risultanti dalle
dichiarazioni a prescindere dall'anno di maturazione dei crediti che le compongono. Per le società in perdita
sistematica, come chiarito dall'Amministrazione Finanziaria nella Circolare n. 1/E del 15 febbraio 2013, le
limitazioni all'utilizzo del credito IVA trovano applicazione a decorrere dal quarto periodo d'imposta, successivo
al verificarsi di perdite fiscali per tre esercizi consecutivi, nel quale opera la disciplina sulle società di comodo. Il
comma 4 prosegue poi prevedendo che al contribuente è data la possibilità di portare avanti tale credito per la
compensazione verticale IVA da IVA. Tuttavia se per tre periodi d'imposta consecutivi il soggetto passivo non
operativo non effettua, in nessuno dei tre predetti esercizi, operazioni rilevanti ai fini dell'imposta sul valore
aggiunto per un valore almeno pari a quello che si ottiene dal calcolo dei ricavi medi presunti, l’eccedenza del
credito che ne deriva non può essere scomputata dall’IVA a debito dei periodi d'imposta successivi. Tale
previsione si applica anche alle società che hanno conseguito perdite fiscali per più periodi d’imposta
consecutivi, dal momento che quello che rileva non è la specifica qualifica di soggetto non operativo o in perdita
sistematica, ma la mancata effettuazione di operazioni rilevanti ai fini IVA per un triennio consecutivo.
FERRANTI G., L'ambito d'applicazione della disciplina sulle società in perdita sistematica, in Corr. trib., cit.,
pag. 2121; FERRANTI G., L'agenzia delle Entrate chiarisce le penalizzazioni ai fini IVA per le società di
comodo, in Corr. trib., 2014, 8, pag. 587.
237
ZANETTI E., Obblighi e adempimenti delle società di comodo, in Fisco (Il), 2008, 14, pag. 2-2603. Nel caso
in cui il reddito imponibile dell'ente non operativo risulti superiore a quello minimo presunto, la società è
obbligata a dichiarare tale maggior imponibile effettivo e a tal fine nella norma è espressamente specificato
“fermo l'ordinario potere d'accertamento”.
87
comodo nell’ipotesi in cui una società risultante non operativa abbia optato per il regime del
consolidato nazionale. Tale regime fiscale prevede l’aggregazione, come somma algebrica, di
tutti i redditi relativi alle società consolidate e la determinazione di un reddito complessivo
che viene imputato alla società consolidante, soggetto che diventa liquidatore delle imposte
dovute e che può usufruire delle predite pregresse derivanti dalla fiscal unit238. La questione
da analizzare riguarda il coordinamento tra l’applicazione del reddito minimo che la società
non operativa deve dichiarare e l’applicazione delle regole fiscali previste nel consolidato
nazionale che prevedono il trasferimento del reddito e delle perdite al gruppo consolidato.
L’obbligo di dichiarare un reddito minimo secondo quanto disposto dal comma 3 dell'art. 30
della Legge n. 724 del 1994 condiziona il reddito della specifica società consolidata, ma non
può esplicarsi nel trasferimento dello stesso limite dalla posizione della singola società a
quella dell’intero gruppo, altrimenti si rischia di minare l’intero meccanismo di
compensazione intersoggettiva previsto per questo regime fiscale dal legislatore. Prevedere la
determinazione di un reddito minimo in capo all’intero gruppo significherebbe riversare
impropriamente gli effetti previsti dalla normativa sulle società di comodo all’intera platea di
soggetti appartenenti alla fiscal unit. La disciplina sulle società di comodo, come è già stato
evidenziato, basa la propria struttura sulla presunzione di redditività dei beni presenti
nell’attivo dello stato patrimoniale; prevedere la trasposizione del reddito minimo sulla
redditività dichiarata nel complesso anche da altri soggetti comporterebbe l’esplicarsi di un
errore concettuale secondo il quale la redditività dei beni di una determinata società può
interferire con la situazione dell’intero gruppo fiscale239. Si ritiene dunque che la società non
operatività appartenente ad una fiscal unit debba rispettare quanto previsto dall’art. 30 della
Legge n. 724/1994 e dichiarare quindi almeno un reddito minimo pari al valore previsto ex
238
Il regime del consolidato nazionale è normato dall’art. 117 all’art. 129 del TUIR, dove sono esplicitati i
requisiti che devono possedere le società per potervi accedere e le implicazioni fiscali che derivano
dall’appartenenza a tale regime. Ai fini della presente analisi non sembra opportuno entrare in questi dettagli, se
non evidenziare che tale regime può interessare solo le società di capitali e gli enti commerciali residenti nel
territorio dello Stato. Si decide di optare per il regime fiscale del consolidato nazionale, perché assoggettando a
tassazione di gruppo i redditi e le perdite di tutte le società si danno luogo a compensazioni che altrimenti non
potrebbero essere realizzate e le società che producono imponibili possono usufruire delle perdite prodotte
invece da altre società del gruppo. Si vuole poi ricordare che, oltre al consolidato nazionale, esiste anche il
consolidato mondiale che però interessa solo pochi gruppi internazionali.
239
MASTROBERTI A., Note minime sui rapporti tra disciplina sulle società di comodo e reddito del gruppo
consolidato, in Rass. trib., 2011, 6, pag. 1551. Si sostiene che la società non operativa dovrà essa stessa
dichiarare il reddito minimo come previsto dall’art. 30 della normativa sulle società di comodo, non interferendo
quindi con tale disposizione sulla determinazione del reddito complessivo del gruppo. Operando in questo modo
“il vantaggio dell’opzione per il regime del consolidato non erode la fiscalità minima, comunque prevista per le
c.d. società di comodo”. A tal proposito l’Amministrazione Finanziaria ha specificato, prima con la Risoluzione
n. 36/E dell’8 marzo 2007 e poi con la successiva Risoluzione n. 160/E del 9 luglio 2007 che la società
consolidata non operativa non può in ogni caso rettificare il reddito minimo trasferito al gruppo consolidato,
altrimenti questo determinerebbe una riduzione dell’imponibile da assoggettare a tassazione.
88
lege; tuttavia questi obblighi non devono riversarsi sull’intero gruppo dal momento che non
può essere messo in discussione il legame del reddito imponibile prodotto dalla singola
società con la corrispondente fonte di produzione di reddito. Il reddito globale di gruppo
rimane comunque la sommatoria di distinte capacità economiche espresse da ciascuna società
consolidata240.
3.1.2 L’utilizzo delle perdite pregresse
Un altro aspetto da prendere in considerazione riguarda la disciplina delle perdite per le
società considerate non operative. L’ultimo periodo del comma 3 prevede che “le perdite di
esercizi precedenti [possano] essere scomputate soltanto in diminuzione della parte di reddito
eccedente quello minimo (...)”. In questo modo si vuole quindi “sterilizzare” il processo
d’utilizzo delle perdite, in modo che il soggetto non operativo debba in ogni caso assoggettare
a tassazione il reddito minimo determinato in via presuntiva, assicurando così un determinato
livello di imponibile e quindi d’imposta241. E’ stato inoltre sostenuto che la possibilità di
utilizzare le perdite pregresse senza limitazioni vanificherebbe l’intero impianto normativo
predisposto dal legislatore, che ha previsto la predeterminazione forfettaria del reddito quale
strumento per contrastare l’utilizzo distorto della struttura societaria242. L’unica condizione
per poter usufruire delle perdite pregresse è quindi rappresentata dalla circostanza che il
reddito dichiarato sia maggiore a quello minimo previsto dal legislatore; in questo caso le
eventuali perdite pregresse potranno essere utilizzate in compensazione per la parte eccedente
il reddito forfettariamente presunto dalla norma in commento e la parte di perdite non
utilizzata in compensazione potrà essere riportata a nuovo. Il problema non si pone per la
perdita che potrebbe verificarsi nell’esercizio stesso dal momento che il soggetto risultante
non operativo è comunque obbligato a dichiarare almeno un reddito pari a quello minimo
240
E’ da sottolineare che se questa sembra essere la tesi maggiormente condivisa in dottrina, come riportato
anche in BRUNO I. e MIELE L., Reddito delle società non operative e utilizzo delle perdite nella tassazione di
gruppo,in Corr. trib., 2011, 45, pag. 3751, la Comm. Trib. Prov. di Reggio Emilia con la Sentenza n. 87 del 19
maggio 2010 ha affermato che il reddito globale di gruppo non può in ogni caso essere inferiore a quello minimo
imponibile ascrivibile alla società consolidata non operativa, definendo l’utilizzo del consolidato come
strumentale alla riduzione dell'imponibile previsto dall’art. 30 della Legge n. 724/1994.
241
BEGHIN M., Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, in FALSITTA G., Manuale di Diritto Tributario.
Parte speciale, cit., pag 729-730. Secondo l'autore “le ragioni della norma sembrano più ispirarsi non tanto
all’idea di sistematizzazione della disciplina ma all’esigenza di mera stabilizzazione del gettito”
242
TOSI L., Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale. Contributo alla trattazione sistematica
dell’imposizione su basi forfettarie, cit., pag. 361-362. L’autore ritiene che attraverso tale previsione si tiene
conto dell’incompatibilità tra il riporto a nuovo delle perdite e la determinazione forfettaria del reddito presunto.
Osservando la disciplina sulle società di comodo in un’ottica antielusiva tale incompatibilità sarebbe ancora più
accentuata se gli effetti della predeterminazione finissero per essere annullati dal riporto delle perdite
rappresentative agli occhi del legislatore della non operatività della società stessa.
89
stabilito dalla normativa243. Il reddito minimo definito dal comma 3 dell'art. 30 della Legge n.
724/1994 rappresenta un reddito “indisponibile” alla riduzione dell'imponibile attuata
attraverso l’utilizzo delle perdite pregresse. Si tratta quindi di una norma speciale che deve
essere coordinata con quanto stabilito dall’art. 84 del TUIR244, il quale prevede che “la
perdita di un periodo d'imposta [possa] essere computata in diminuzione del reddito dei
periodi d'imposta successivi in misura non superiore all'ottanta per cento del reddito
imponibile di ciascuno di essi e per l’intero importo che trova capienza in tale ammontare
(…)”. Nella determinazione del reddito le società non operative con perdite pregresse
dovranno quindi preliminarmente rispettare le condizioni previste dall’art. 84 citato, non
utilizzando perdite pregresse per un importo superiore all’ottanta per cento del reddito
dichiarato e verificare poi che sia rispettato il limite all’utilizzo di tali perdite per la parte
eccedente il reddito minimo, così come stabilito dall’ultimo periodo del comma 3 dell'art. 30
in commento245. E’ quindi necessario valutare che l’imponibile risultante dall’utilizzo delle
predite pregresse, corrispondente al venti per cento del reddito dichiarato, sia assorbito dal
valore di reddito minimo presunto. Se questo vincolo è rispettato viene sottoposto a tassazione
il reddito minimo ed è possibile utilizzare integralmente le perdite ad abbattimento del reddito
eccedente il minimo. In caso contrario, qualora il reddito da dichiarare ai sensi dell'art. 84 del
TUIR, pari cioè al venti per cento del reddito dichiarato, risulti superiore al reddito minimo ex
lege, si deve applicare la regola ad hoc che prevede l'utilizzo delle perdite pregresse solo per
la parte eccedente il reddito minimo. Sarà sottoposto a tassazione non il reddito minimo
presunto ma il 20 per cento di quello dichiarato; operando in questo modo sono rispettati i
limiti fiscali posti sia dall'art. 84 del TUIR che dalla disciplina specifica per le società di
comodo246. La società definita di comodo può utilizzare le predette perdite rispettando quanto
243
GAVELLI G. e SANTINI C., “Società di comodo verso la scomparsa: il D.L. n.223/2006 rende troppo
gravoso il mantenimento in vita delle società non operative, cit., pag. 5742.
244
Tale norma si applica per i soggetti produttivi di reddito d'impresa e quindi per i soggetti passivi IRES e le
società in nome collettivo ed in accomandita semplice.
245
MASTROBERTI A., Manovra correttiva (D.L. 6 luglio 2011, n.98, convertito) – Perdite d'impresa senza
limiti temporali ma con franchigia, in Fisco (Il), 2011, 30, pag. 1-4812.
246
IZZO B. e MIELE L., Il nuovo regime delle perdite nel consolidato, nella trasparenza e nelle società di
comodo, in Corr. trib., 2011, 34, pag. 2819. Gli autori evidenziano come la previsione di applicare l’art. 84 del
TUIR sulla parte eccedente il reddito minimo e di tassare quindi il valore risultante da tale operazione oltre che il
reddito minimo presunto non sembri essere una tesi abbastanza convincente. Sembra maggiormente convincente
la tesi esposta nel testo, dato che il senso interpretativo della disposizione relativa all'utilizzo limitato delle
perdite pregresse per le società di comodo è quello secondo cui prima deve trovare attuazione quanto disposto
dall'art. 84 del TUIR in quanto norma generale e come secondo step tale normativa la si deve coordinare con la
previsione specifica del legislatore per le società non operative. Questo significa, esemplificando in termini
numerici, che se si è in presenza di perdite pregresse per 500, il reddito minimo presunto è pari a 100 e quello
dichiarato è 400, l’imponibile soggetto a tassazione sarà 100 dato che il limite del 20% del reddito dichiarato
cioè 80 (20%*400) risulta assorbito dal valore di 100. In questo modo si utilizzano integralmente le perdite ad
abbattimento del reddito eccedente il minimo pari cioè a 300. Se invece si è in presenza di perdite pregresse pari
90
stabilito dall'art. 84 del TUIR e senza particolari limiti di tempo ogni volta che dichiara un
reddito superiore a quello minimo presunto dal legislatore, potendo trasferire agli anni
successivi l'ammontare di perdite che non è stato oggetto di compensazione247. Si deve inoltre
sottolineare che il legislatore nel prevedere tale limitazione per le società di comodo aveva
considerato il caso di società non operativa e fiscalmente “non trasparente” 248. Nell’ipotesi in
cui invece la società che non ha superato il test risulti trasparente, la limitazione all’utilizzo in
compensazione delle perdite sarà applicata con riferimento a tutte le perdite pregresse di
periodo percepite dal socio; questo significa che vige il divieto di compensazione tra i redditi
imputati per trasparenza dal socio e le perdite di periodo maturate dallo stesso249. Per quanto
concerne poi il problema accennato alla fine del paragrafo precedente, relativo al
coordinamento tra la disciplina delle società di comodo e quella del consolidato nazionale,
esso emerge nuovamente in relazione all’utilizzo delle perdite pregresse. Alla luce delle
considerazioni già esposte, presupponendo che il limite all’utilizzo delle perdite di esercizi
passati previsto dall'art. 30 in esame non possa essere trasferito all’intero gruppo consolidato,
si ritiene che le perdite fino a concorrenza del reddito minimo presunto non dovrebbero essere
utilizzate nella dichiarazione del gruppo, mentre la restante parte eccedente potrebbe però
essere utilizzata anche a scomputo del reddito globale. Sostenere invece che né le perdite
pregresse né quelle imputate dalla società non operativa alla fiscal unit possano ridurre il
reddito complessivo globale del gruppo al di sotto di quello minimo presunto della società di
comodo che partecipa alla tassazione consolidata, significherebbe non considerare proprio la
posizione della società da cui ha tratto origine lo stesso limite stabilito dal comma 3 dell'art.
30 sulle società non operative250. Per poter quindi risolvere i profili di criticità che emergono
a 500, di un reddito dichiarato di 500 e quello minimo è pari a 50, la società dovrà in ogni caso dichiarare un
reddito pari a 100 (20%*500) dato che tale ammontare non risulta assorbito dal reddito minimo. Così operando
non si supera il limite imposto dall'art. 84 del TUIR e si rispetta quello previsto dall'art. 30 in esame.
247
Deve essere evidenziato che l'art. 84 del TUIR attualmente in vigore è stato modificato nel 2011.
Precedentemente non era previsto un limite quantitativo al riporto delle perdite ma temporale pari a cinque
periodi d'imposta. Il mutamento del quadro normativo è stato sotto quest’aspetto favorevole per le società di
comodo, che spesso prima si trovavano nella condizione di non poter scomputare in diminuzione del reddito
eccedente quello minimo le perdite poiché il limite temporale era già stato superato.
248
Si è in presenza di tassazione per trasparenza nel caso delle società di persone; tali società hanno solo obblighi
formali e non sostanziali, dal momento che il reddito da loro prodotto viene imputato appunto per trasparenza ai
soci in proporzione alla partecipazione agli utili. Inoltre il legislatore ha disciplinato con l'art. 115-116 del TUIR
specifiche fattispecie nelle quali le società di capitali che presentano determinate caratteristiche possono decidere
di optare per tale regime di tassazione.
249
Tale precisazione è stata fornita dall'Agenzia delle Entrate con la Circolare n. 25/E del 4 maggio 2007 cit..
250
MASTROBERTI A., Note minime sui rapporti tra disciplina sulle società di comodo e reddito del gruppo
consolidato,cit., pag. 1551. Come evidenziato anche precedentemente si ritiene che la posizione soggettiva della
società non operativa non possa interferire con quella del gruppo. La normativa predisposta dal legislatore per le
società di comodo ha come obiettivo quello di penalizzare con forme e modi, che come si sta cercando di
evidenziare possono essere oggetto di critica, il singolo soggetto non operativo e non di certo, anche se
indirettamente, l’intera posizione fiscale del gruppo. BEGHIN M. e SCANDIUZZI D., Rettifiche di
91
dalla compresenza delle due discipline appare opportuno separare gli obblighi della società
non operativa consolidata rispetto a quelli previsti dalla disciplina del consolidato. Ritornando
alla tematica relativa al limite posto dal comma 3 dell'art. 30 della Legge n. 724/1994
all’utilizzo delle perdite pregresse, è da evidenziare che esso scaturisce dall’essere considerati
soggetti non operativi e non dal mancato superamento del livello minimo di reddito; i
contribuenti possono avere interesse a chiedere la disapplicazione della disciplina sulle società
di comodo perché è solo attraverso questa via che viene meno anche il limite all'utilizzo delle
perdite degli anni precedenti e torna così a trovare attuazione solo la previsione generale
stabilita dall'art. 84 del TUIR, riguardante il riporto delle perdite.
Illustrate quindi le problematiche applicative dell'utilizzo delle perdite pregresse per i soggetti
non operativi, sembra opportuno aggiungere qualche altra considerazione. E’ stato
sottolineato che qualora si ritenesse che il reddito minimo definito dal comma 3 dell'art. 30 in
esame rappresentasse “realmente reddito”, la limitazione prevista dal legislatore non avrebbe
ragione d’esistere; non sarebbe giustificato infatti da un lato prevedere l’utilizzo delle perdite
e dall’altro lato non consentire di compensare con tali perdite il reddito individuato dallo
stesso comma 3. La previsione posta dalla normativa sembra poter trovare una propria ragione
se si considera che il reddito dichiarato in misura superiore alla soglia minima prevista ex lege
si esplica in un’imposta sul reddito, altrimenti oggetto della tassazione rimane il patrimonio.
In quest’ottica le perdite prodotte negli esercizi precedenti possono abbattere il reddito ma
non anche la base imponibile espressa dal patrimonio della società. “Se la capacità
contributiva è espressa dal patrimonio essa non può essere misurata valorizzando le perdite
che sono un elemento di natura reddituale”251.
3.2 La possibile via d’uscita dal regime normativo delle società di comodo: l’interpello
disapplicativo
Nell'impianto normativo relativo alle società di comodo il legislatore ha previsto, nella
versione dell’art.30 della legge n.724/1994 attualmente in vigore, l’interpello disapplicativo
come “strumento d’uscita” da tale disciplina. Si prevede infatti al comma 4-bis dell'art.30
consolidamento e riporto di perdite nella fiscal unit, in Corr. trib., 18, 2007, pag. 1485. In un’analisi riguardante
la gestione delle rettifiche di consolidamento all'interno della fiscal unit si evidenzia come la disciplina delle
società di comodo “(...) [esaurisca] i propri effetti in relazione alla singola società che rimane assoggettata a
tale disciplina”.
251
PEVERINI L., Società di comodo e imposta patrimoniale: il contrasto tributario all'utilizzo distorto della
forma societaria, cit., pag. 260. E’ questo quanto sostiene l'autore secondo il quale la perdita opera oltre il limite
del reddito minimo e quando abbatte tale soglia fa scattare l'obbligo di corrispondere l'imposta sul reddito
anziché sul patrimonio.
92
della legge n.724/1994 che “in presenza di situazioni oggettive che hanno reso impossibile il
conseguimento dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi nonché del reddito
determinato ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare
operazioni rilevanti ai fini delle imposte sul valore aggiunto (…), la società interessata può
richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai sensi dell'articolo 37bis, comma 8, del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n.600”.
3.2.1 Dalla previsione del contraddittorio anticipato all’interpello disapplicativo
Prima di addentrarsi nella tematica dell'interpello disapplicativo prevista dal legislatore per le
società di comodo che sin dalla sua introduzione è stato oggetto di discussione preme
ricordare, come già evidenziato nel primo capitolo del presente lavoro, che fino al 2006 l’art.
30 della Legge n. 724/1994 prevedeva un fase di contraddittorio anticipato. A pena di nullità
non poteva essere emesso l’avviso d’accertamento per il mancato superamento del test
d’operatività, senza prima aver chiesto chiarimenti in merito al contribuente, che aveva
possibilità di rispondere per iscritto entro un termine massimo di sessanta giorni. In questo
modo era data la possibilità al contribuente di evidenziare le situazioni che non avevano reso
impossibile il conseguimento di ricavi, proventi ed incrementi di rimanenze così come
stabiliti dal comma 1 dell'art.30 in esame. Il Decreto Legge n.223 di luglio 2006 ha disposto
l’eliminazione della fase del contraddittorio anticipato ed ha introdotto la possibilità di
formulare istanza di interpello per dimostrare le oggettive situazioni che hanno reso
impossibile raggiungere il livello minimo di proventi e ricavi stabiliti, o del reddito minimo
presunto ex lege o del mancato conseguimento di operazioni rilevanti ai fini IVA come
stabilito dal comma 4 dell’art. 30 in esame. L’introduzione dell’interpello disapplicativo ha
quindi previsto che la prova contraria possa essere fornita preventivamente a prescindere
quindi da un eventuale accertamento da parte dell'Amministrazione Finanziaria. A distanza di
pochi mesi con la Legge n. 296 del 2006, Legge Finanziaria per il 2007, è stato soppresso
anche l’inciso “salvo prova contraria” fino ad allora presente al comma 1 dell'art. 30 in
esame; questo per escludere, secondo quanto stabilito dell’Amministrazione Finanziaria nella
Circolare n. 5/E del 2 febbraio 2007, che detta prova fosse fornita in sede d’accertamento o di
contenzioso252. L’eliminazione del contraddittorio anticipato ha ridotto la possibilità di difesa
del contribuente; non è più necessario effettuare alcuna analisi preliminare sulla situazione
252
DOLCE R., Finanziaria 2008: le novità in materia di società di comodo, cit., pag. 1-395. Nel paragrafo
successivo si cercherà di evidenziare in merito la linea seguita dall'Amministrazione Finanziaria e l’opinione
presente invece in dottrina.
93
che ha portato al mancato superamento del test d’operatività per poter procedere ad inviare un
avviso d’accertamento. Sembra che questa scelta sia funzionale all’utilizzo della disciplina in
esame come mezzo di politica finanziaria per poter reperibile risorse in modo immediato e
spendibili direttamente dallo Stato. Sempre con la Legge Finanziaria 2007 si è proceduto ad
eliminare l’aggettivo “straordinario”, presente inizialmente al comma 4-bis, riferito alle
situazioni oggettive che permettono la possibilità di richiedere la disapplicazione della
disciplina. Tale scelta sembra essere giustificata dal fatto che il legislatore è consapevole della
necessità di attribuire una natura relativa alla presunzione legale di non operatività. Limitare
la prova contraria solo in presenza di “situazioni oggettive di carattere straordinario”,
porterebbe all’identificazione di una presunzione di tipo assoluto e non più relativa. Tuttavia
sarebbe un errore pensare che data l’eliminazione del contraddittorio anticipato e della
specifica del comma 1 “salvo prova contraria”, il soggetto passivo non possa più fornire tale
prova; la può fornire attivandosi però volontariamente e presentando istanza di
disapplicazione della disciplina in esame253. L’interpello disapplicativo rappresenta una
dichiarazione “confessoria”, attraverso la quale la società “confessa” di aver prodotto dei
ricavi in misura inferiore alla soglia minima stabilita dalla legge, identificando delle situazioni
che non hanno permesso tale raggiungimento; ci si espone quindi ad un possibile
accertamento in caso di risposta negativa all'interpello, che diviene quindi un mezzo per
identificare un possibile evasore inducendolo a rivelare una data situazione imponibile254.
Il nocciolo della questione, che deve essere esaminato, è se la presentazione dell’istanza di
disapplicazione, quale rimedio per poter uscire dal canale delle società di comodo, rappresenti
una conditio sine qua non, per poter ottenere l’esclusione dal novero dei soggetti non
operativi da parte sia dell'Amministrazione Finanziaria che in un’ipotetica fase successiva
davanti al giudice255. Tuttavia prima di passare ad esaminare quest’aspetto è necessario
chiarire in quali ipotesi si possa presentare l’istanza di disapplicazione.
253
PEVERINI L., Società di comodo e imposta patrimoniale: il contrasto tributario all'utilizzo distorto della
forma societaria, cit., pag. 260.
254
DE LORENZI A., Aspetti sanzionatori amministrativi e penali, in AA.VV, Le società di comodo (a cura di
TOSI L.), cit., pag.41 e ss.. Secondo l’autore l’interpello disapplicativo al quale “l’amministrazione assegna un
valore così pregnante [deve essere inserito] nell’assetto complessivo che stanno assumendo i rapporti tra fisco e
contribuente. Appare uno strumento che consente di regolare i rapporti [tra queste due parti] in via preventiva,
prima di ricorrere alle procedure d'accertamento ed eventualmente contenziose”.
255
TOSI L., Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale. Contributo alla trattazione sistematica
dell’imposizione su basi forfettarie, cit., pag. 364 e ss.; PEVERINI L., Società di comodo e imposta
patrimoniale: il contrasto tributario all'utilizzo distorto della forma societaria, cit., pag. 260.
94
3.2.2 La sussistenza di oggettive situazioni che non hanno permesso il conseguimento del
livello minimo dei ricavi e del reddito
Secondo quanto disposto dal comma 4-bis dell'art. 30 della Legge n. 724/1994 l’istanza di
disapplicazione può essere presenta in relazione al fatto di non aver superato il test
d'operatività o di non aver raggiunto il livello minimo di reddito previsto nel comma 3 dal
legislatore, come pure nel caso non siano state effettuate operazioni rilevanti ai fini
dell’imposta sul valore aggiunto per un valore almeno pari a quello risultante dai ricavi
presunti per tre periodi d'imposta consecutivi. Il comma 4-bis citato precisa che la
presentazione dell'istanza di disapplicazione debba avvenire ai sensi dell'art. 37-bis del D.P.R.
n. 600/1973 il quale al comma 8 dispone che “le norme tributarie che allo scopo di
contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o atre
posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, possono essere
disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie gli effetti elusivi
non potevano verificarsi. A tal fine il contribuente deve presentare istanza al direttore
regionale delle entrate competente per il territorio, descrivendo compiutamente l'operazione
e indicando le disposizioni normative di cui si chiede la disapplicazione”256. Questo comma,
inserito nell’art. 37-bis che rappresenta la clausola generale antielusiva, prevede quindi che a
fronte dell’estensione applicativa che le generalizzazioni normative possono portare, si possa
disapplicare la disposizione quando non si è in presenza di comportamenti elusivi. Attraverso
quindi l’interpello disapplicativo proposto dal contribuente, l’Amministrazione Finanziaria
accerta se si possa escludere che nel caso specifico l’operazione porti ad un vantaggio elusivo,
analizzando quindi se nel caso concreto la norma coincide o meno con la ragione più profonda
di contrastare comportamenti elusivi257. Per quanto concerne le società di comodo
l'Amministrazione Finanziaria è intervenuta prima con la Circolare n. 14/E del 15 marzo 2007
e poi con la successiva n. 9/E del 14 febbraio 2008, nelle quali sono state fornite precisazioni
in merito alla presentazione dell’istanza di disapplicazione prevista per le società di comodo.
In particolare il contribuente deve indicare le oggettive situazioni che hanno di fatto impedito
il superamento del test d'operatività e l'ottenimento di un reddito almeno pari a quello
minimo, evidenziando poi tutti gli elementi necessari per una corretta individuazione e
256
La presentazione dell’istanza disapplicativa di cui all'art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 è regolata dal Decreto
Ministeriale n. 259/1998.
257
STEVANATO D., “Disapplicazione” delle norme con finalità antielusiva ed attività interpretativa, in
Dialoghi dir. trib., 2004, 12, pag. 1284. L’autore sottolinea come “a monte del provvedimento di disapplicazione
previsto dall’ultimo comma dell’art. 37-bis vi è infatti un’attività intellettiva tesa ad accertare la corrispondenza
tra una singola regola, che in funzione antielusiva, limita l’accesso a determinate “posizioni soggettive
altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario”, e la giustificazione di fondo di questa regola”.
95
qualificazione della propria situazione. In particolare deve esserci un’esposizione chiara,
documentata ed esaustiva degli elementi conoscitivi utili ad individuare le situazioni oggettive
portate all’attenzione dell’ufficio che giustifichino la disapplicazione della normativa in
questione, a pena di inammissibilità dell’istanza stessa. E’ potestà in ogni caso
dell’Amministrazione Finanziaria di verificare la veridicità e la completezza dei dati e degli
elementi evidenziati nelle istanze, anche attraverso l’effettuazione di controlli; possono inoltre
essere richieste integrazioni ai contenuti presentati. L’istanza di disapplicazione deve essere
presentata entro 90 giorni dal termine di presentazione della dichiarazione stessa all’ufficio
competente, in base al domicilio dell’istante che poi la trasmette al Direttore regionale delle
Entrate. Quest’ultimo è tenuto a rispondere sempre entro 90 giorni; tale termine non è
perentorio, tuttavia deve essere rispettato considerato l’interesse della società a conoscere la
risposta in tempo utile258. La Legge Finanziaria per il 2008 ha disposto con il comma 4-quater
dell’art. 30 della Legge n. 724/1994 che la comunicazione da parte del Direttore regionale
delle Entrate possa avvenire attraverso il servizio postale o tramite fax o posta elettronica.
L’interpello disapplicativo rappresenta quindi uno strumento di supporto al contribuente che
intenda
prevenire
contenziosi
futuri
e
contemporaneamente
rappresenta
per
l’Amministrazione Finanziaria un vincolo dal momento che una volta stabilita la
disapplicazione della disciplina per quella specifica fattispecie non potrà contraddirsi in
relazione a quanto esaminato259.
Dopo questa parentesi riguardante alcune considerazioni tecniche per la presentazione
dell’interpello disapplicativo, si deve sottolineare che tale strumento è finalizzato ad ottenere
la disapplicazione della disciplina delle società di comodo per un determinato periodo
d’imposta cui debbono riferirsi le oggettive situazioni adottate dalla società richiedente; nulla
vieta tuttavia che in sede d’interpello si esaminino situazioni che condizionano la redditività
anche per più periodi d'imposta e che quindi ne venga disposta la non applicazione della
disciplina per più esercizi. Come stabilito dalla normativa il requisito necessario per
258
Di regola l’interpello è quindi preventivo in modo da poter orientare la società riguardo alla condotta da
seguire in sede di dichiarazione. Tuttavia non può essere esclusa la richiesta di disapplicazione della normativa in
esame anche successivamente, per chiedere per esempio il rimborso di quanto versato secondo l’art. 30 della
legge n. 724/1994. Non può invece essere presentata l'istanza disapplicativa dopo che è stata avviata un’attività
d'indagine fiscale o un contenzioso tributario dal momento che l’interpello non può essere utilizzato come
strumento di “pressione” verso l’Amministrazione Finanziaria o il giudice tributario. PISTOLESI F., L’interpello
per la disapplicazione del regime sulle società di comodo, cit, pag. 2987. Sottolinea inoltre LUPI R., Miti e
paradossi sulla preventività degli interpelli, in Dialoghi dir. trib., 2004, 12, pag. 1288, con riferimento in
generale alla non obbligatoria preventività dell’interpello disapplicativo, che quest’ultimo può essere presentato
anche quando “il contribuente ha già cominciato ad applicare la norma fiscale controversa, ma non ha ancora
finito, perché è in corso un processo di ammortamento”.
259
CORE E., La natura e l'impugnabilità dell'interpello disapplicativo, in Dir. pra. trib., 2014, 2, pag. 2-307.
96
richiedere la disapplicazione della disciplina sulle società di comodo è la presenza di
“oggettive situazioni” che possono essere sia ordinarie che straordinarie. Tuttavia il
riferimento è soltanto a quelle fattispecie nelle quali le scelte del contribuente non incidono,
come per esempio nel caso di una società che opera in un determinato settore colpito da crisi.
Deve cioè essere dimostrato che si è in presenza di una situazione effettivamente diversa da
quella che il legislatore ha voluto contrastare, concernente il mancato raggiungimento di
risultati reddituali congrui, da un lato alla finalità lucrativa che la società dovrebbe perseguire
e dall’altro lato ai mezzi patrimoniali di cui è dotata260. Con riferimento all’impossibilità
oggettiva specificata nel comma 4-bis dal legislatore, nel caso di una società che non si trova
nel normale esercizio della propria attività produttiva261, si potrebbe dimostrare che per
esempio, la costruzione dell’impianto da utilizzare per lo svolgimento dell’attività produttiva
si è prolungato per cause non dipendenti dalla volontà dell’imprenditore, oppure che non sono
state ancora concesse le autorizzazioni amministrative anche se richieste tempestivamente.
Nello specifico la Circolare n. 44/E del 9 luglio 2007 ha illustrato varie casistiche,
identificando le oggettive situazioni al ricorrere delle quali non trova attuazione l’art. 30 della
legge n. 724/1994. Vengono riportati come esempi: le società proprietarie di immobili affittati
da lungo tempo a soggetti pubblici, i cui canoni vengono determinati con parere di congruità
dall’Agenzia del Territorio; le società esercenti attività di compravendita di terreni edificabili
tra i quali alcuni di essi risultano sottoposti a vincolo edificatorio, risultanti così poco
appetibili al mercato; le società proprietarie di un immobile interessato da un contratto di
locazione in corso alla data di acquisto, il cui canone è inferiore a quello di mercato e che
tuttavia non può essere adeguato prima della scadenza262. Per quanto concerne poi le società
holding e quelle immobiliari appare opportuno fare qualche riflessione dato che tali tipologie
di società per ragioni differenti potrebbero non riuscire a superare il test d’operatività, anche
se costituite non come schermi societari ma per svolgere effettivamente attività d’impresa. Le
holding diventano società di comodo quando dal possesso dei beni e delle partecipazioni di
cui all’art. 85 del TUIR, comma 1, lett.c), d), e)263 e di quelle nelle società di persone, non
260
PISTOLESI F., L’interpello per la disapplicazione del regime sulle società di comodo, cit, pag. 2987. Deve
essere cioè “fornita la prova che, nel caso concreto, l’effetto antielusivo che questa norma ha inteso perseguire
non può verificarsi poiché sussistono le rilevate oggettive situazioni”. Secondo l’autore tale prova è comunque
meno impegnativa rispetto a quella che doveva essere fornita in precedenza con il contraddittorio anticipato, dal
momento che è stata tolta la prerogativa della straordinarietà delle situazioni oggettive.
261
Tale fattispecie è stata considerata fino alle modifiche intervenute con il Decreto Legge del luglio 2006, n. 223
quale ipotesi d'esclusione automatica.
262
PROVAGGI G. e MACARIO E., Le modifiche alla disciplina sulle società di comodo, cit., pag. 603.
263
Nell’analisi dei coefficienti da applicare ai diversi asset patrimoniali è stato specificato il contenuto dell'art. 85
con riferimento esplicito a queste tre lettere presente nel comma 1 dell'articolo 30 in esame.
97
vengono generati ricavi tali da superare il test d’operatività. Per le società finanziarie che
svolgono attività consistenti nella detenzione e gestione di partecipazioni sociali l’indagine
dell’operatività si trasferisce essenzialmente nelle società partecipate264. Le holding sono dei
soggetti particolarmente penalizzati dalle presunzioni stabilite dall’art. 30 della Legge n.
724/1994 dato che la loro esistenza è essenzialmente diretta a soddisfare le esigenze di
governance dei gruppi di società, non manifestando una proprio autonoma “operatività
imprenditoriale”. In questa fattispecie l’istanza disapplicativa promossa dalla holding
potrebbe avere esito positivo quando è possibile dimostrare che le società partecipate si
trovano nella fase d’avvio della propria attività, o che operano in settori colpiti da crisi, o che
la loro mancata distribuzione di dividendi è dovuta alla copertura, con le riserve di utili
esistenti, delle perdite conseguite o ancora che le società partecipate si trovano ad avere
riserve di utili insufficienti, in caso di distribuzione integrale, a permettere alla holding di
raggiungere la soglia minima dei ricavi presunti. Può essere poi accolta l’istanza di
disapplicazione nel caso in cui si dimostri che la società partecipata, pur disponendo di utili e
riserve sufficienti in ipotesi di integrale distribuzione al superamento del test d’operatività
della holding, abbia deciso di non procedere alla distribuzione per attuare un piano di
autofinanziamento per il concreto rafforzamento dell’attività produttiva. E’ necessario tuttavia
in questo caso dimostrare che l’utile sia stato effettivamente investito265. Inoltre, secondo
quanto precisato dall’Agenzia delle Entrate nella Circolare n. 25/E del 4 maggio 2007, il
rigetto dell’istanza di disapplicazione presentata da una o più delle società partecipate
dell’holding implicherebbe il venir meno dell’emanazione del provvedimento disapplicativo
anche a beneficio dell’holding. Si creerebbe quindi un “effetto osmotico” della non operatività
la quale, avendo colpito la società partecipata, attrarrebbe anche la partecipante nella
medesima condizione. Sembra tuttavia più logico ritenere che la holding interessata alla
disapplicazione della disciplina sulle società di comodo possa comunque evidenziare
nell’istanza le proprie autonome argomentazioni e non essere vincolata in modo automatico
all’esito disapplicativo delle istanze presentate dalle società partecipate266. Per quanto
264
Come spiegato nel capitolo precedente con il Provvedimenti del 2008 e del 2012 è stata prevista l’esclusione
automatica per le società che detengono partecipazioni iscritte esclusivamente tra le immobilizzazioni finanziarie
e qualora sussistano determinati requisiti in capo alla società partecipata.
265
DODERO A. e SCIFONI G., Le istruzioni applicative dell'Agenzia delle Entrate sulle società di comodo, in
Corr. trib., 2007, 21, pag. 1728. La specifica relativa alla necessità di dimostrare che l’utile sia stato
effettivamente investito è stata affermata nella Risoluzione dell'Agenzia delle Entrate n. 47/E del 18 giugno
2008.
266
PROVAGGI G:, La disapplicazione della disciplina delle società di comodo si trasferisce dalle controllate
alla “holding”, in Corr. trib., 2011, 41, pag. 331; FERRANTI G., Società di comodo e beni ai soci: i chiarimenti
di Assonime, cit., pag. 2119. L'indagine in merito alla disapplicazione della disciplina sulle società di comodo va
effettuata sulle società partecipate dalla holding stessa, “operando quindi una sorte di trasparenza per cui la
98
concerne invece le società immobiliari che si occupano della realizzazione e successiva
locazione di immobili, si può procedere a disapplicare la normativa in esame se si dimostra
l’impossibilità, nonostante la fissazione di canoni di importo almeno pari a quello di mercato,
di praticare canoni di locazione idonei a superare il test d’operatività o a raggiungere un
reddito effettivo superiore a quello minimo presunto, oppure che non si può procedere a
modificare i canoni di locazione o ancora la temporanea inagibilità degli immobili 267. Le
società potrebbero poi trovarsi nella condizione di aver prodotto ricavi e proventi in misura
inferiore a quelli presunti applicando determinate percentuali agli asset patrimoniali, ma di
poter evidenziare situazioni che le hanno impedito la determinazione di un reddito inferiore a
quello previsto al comma 3 dell'art. 30, dovute per esempio al sostenimento di costi
straordinari268. In questo caso stando a quanto stabilito dall’Amministrazione Finanziaria nella
Circolare 5/E del 2 febbraio 2007, l’istanza di disapplicazione dovrebbe essere fatta valere
solo ai fini IRES ed IRPEF e non in materia di IRAP ed IVA dal momento che non vengono
fatte valere, in questa circostanza, valide ragioni per spiegare il mancato superamento del test
d’operatività e quindi dei ricavi presunti. Operando in questa direzione si finisce con il
sostenere che non esiste un legame necessario tra la presunzione di reddito minimo prevista
dal comma 3 dell’art. 30 in esame e la presunzione del valore minimo di produzione stabilito
al comma 3-bis ai fini dell’imposta regionale sull'attività produttiva; tuttavia per la
determinazione di quest'ultima il legislatore ha previsto che la base imponibile sia
rappresentata dal reddito minimo269. Sembra quindi maggiormente condivisibile sostenere che
nel caso si dimostri l’impossibilità di raggiungere la soglia del reddito minimo l'accoglimento
situazione della partecipata condiziona anche la partecipante”. Tuttavia sembra corretto ritenere che nel caso di
risposta negativa alla disapplicazione della normativa per le società partecipate, debba essere comunque
effettuata una valutazione delle oggettive situazioni presentate dalla holding e non venga stabilito tout court il
non accoglimento dell'interpello disapplicativo della partecipante.
267
Inoltre sostiene STEVANATO D., Le società “di comodo”, tra imposizione cripto-patrimoniale e dirigistico
utilizzo extra-fiscale del tributo, in STEVANATO D. e LUPI R., Società “di comodo”:dov’è la capacità
economica?, cit., pag. 1 e ss., che andrebbero escluse dalla disciplina indipendentemente dal raggiungimento
della soglia minima dei ricavi le società immobiliari che presentano un’organizzazione ed una struttura dedicata
alla gestione degli immobili ed ai rapporti con gli affittuari, in quanto tali indici sono rappresentativi dello
svolgimento di un’attività d'impresa.
268
Queste esemplificazioni descritte sono riportate nella Circolare n. 5/E del 2 febbraio 2007 cit. In relazione al
carattere straordinario di tali costi dovranno essere valutati con attenzione i costi a carico della società ma
rappresentativi di benefici per i soci. In particolare si riporta l’esempio di una società immobiliare che al fine di
ristrutturare i propri immobili ha sostenuto costi straordinari; questi immobili sono stati ceduti in locazione ai
propri soci e non a terzi. In questo caso, anche se la locazione fosse effettuata a normali prezzi di mercato, la
disciplina delle società di comodo non potrebbe essere disapplicata, dal momento che secondo
l’Amministrazione Finanziaria i costi sono stati sostenuti per soddisfare le esigenze della compagine sociale.
269
Riguardo a questa casistica nella citata circolare è stato precisato che ove i costi straordinari assunti a base
dell’istanza di disapplicazione siano ammessi in deduzione non solo ai fini delle imposte sul reddito ma anche in
materia d’IVA, la disapplicazione deve estendersi anche all'imposta regionale sull'attività produttiva; una diversa
previsione determinerebbe un’irragionevole discriminazione di trattamento dell’IVA rispetto all’IRAP.
99
parziale dell’interpello avrà effetti non solo sull’imposta sul reddito ma anche ai fini IRAP270.
Inoltre come già accennato trattando la determinazione del reddito minimo presunto previsto
ex lege ed il riporto delle perdite pregresse, la società che non ha superato il test d’operatività
ma che ha prodotto un reddito superiore a quello minimo e che non ha perdite fiscali
usufruibili può avere interesse a chiedere l’istanza di disapplicazione almeno ai fini IVA ed
IRAP. L’interpello può quindi essere presentato per dimostrare le oggettive situazioni che non
hanno permesso il superamento del test con la possibilità in caso affermativo di disapplicare
dalla disciplina prevista per le società di comodo, oppure il mancato conseguimento del
reddito minimo o di operazioni rilevanti ai fini IVA. Qualora poi vengano evidenziate dal
contribuente situazioni oggettive riguardanti solo determinati asset tra quelli identificati nel
comma 1 dell'art. 30 della Legge n. 724 del 1994 o situazioni che non hanno interessato
l’intero triennio di riferimento, l’Amministrazione Finanziaria prevederà la disapplicazione
parziale della disciplina ed il contribuente non terrà conto di tali asset nel calcolo dei ricavi
figurativi e di quelli effettivamente realizzati, come pure nella determinazione del reddito
minimo presunto. E’ il caso per esempio di una società proprietaria di un complesso di
immobili alcuni dei quali non produttivi di reddito perché inagibili e non ancora ristrutturati;
tale circostanza induce a ritenere che questi immobili non debbano essere considerati nel
calcolo nel test d’operatività. Dall’illustrazione fatta finora relativa alle oggettive situazioni
che non hanno permesso il superamento del test d’operatività, si può percepire che la
valutazione effettuata dagli uffici finanziari in merito alla presentazione dell'istanza di
disapplicazione rispecchi la natura stessa della disciplina sulle società di comodo 271. Secondo
l'Amministrazione Finanziaria l’esplicito riferimento del legislatore a tali “situazioni
oggettive” dovrebbe escludere la rilevanza delle fattispecie soggettive, con la conseguenza
però di penalizzare il contribuente ogni qualvolta dovesse per sua scelta assumere dei
comportamenti che non sono finalizzati alla massimizzazione del profitto. Sembra forse più
opportuno interpretare l’utilizzo del legislatore della locuzione “condizioni oggettive” non
come contrapposizione a quelle soggettive, ma come delimitazione del campo d’applicazione
270
PISTOLESI F., L'interpello per la disapplicazione del regime sulle società di comodo, cit, pag. 2987.
BEGHIN M., Diritto tributario. Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, cit., pag. 635 e
ss. Si evidenzia che “le linee operative alle quali le Direzioni regionali delle Entrate si atterrano al fine di
valutare le istanze di disapplicazione dipendono, in larga misura dalla ratio della disciplina”. Disciplina che
secondo l'autore risponde ad una molteplicità di funzioni e che rappresenta un caso di “polimorfismo normativo”.
Accanto all’obiettivo di ostacolare situazioni riconducibili al mero godimento si deve evidenziare che la
presunzione di redditività in presenza di determinati asset patrimoniali nella struttura societaria rappresenti il
contrappeso al fatto di imputare a conto economico costi indeducibili nelle categorie di reddito diverse da quello
d'impresa e che potrebbero essere stati sostenuti non già dalla società stessa, ma dal socio magari per fini
personali.
271
100
a quelle situazioni sia oggettive che soggettive obbiettivamente verificabili272. Inoltre è da
sottolineare che evidenziando il fatto secondo il quale l’obiettivo posto dalla normativa sulle
società non operative è quello di ostacolare la struttura societaria costituita per intestare beni
societari e non per svolgere attività produttiva, allora la disapplicazione dovrebbe essere
attuata quando il contribuente è in grado di dimostrare l’effettivo esercizio dell’attività
d'impresa, a prescindere dal valore dei ricavi effettivi e presunti del test d’operatività. Ci si
sottrae alla disciplina non provando che si è prodotto un reddito inferiore a quello minimo
stabilito ex lege, ma che la società non è stata costruita al fine di fungere da mero contenitore
di beni. Se invece si focalizza l’attenzione sulla questione che una società intestataria di
determinati beni deve generare un livello di reddito predeterminato, allora l’istanza si
dovrebbe accogliere ogniqualvolta viene dimostrato il mancato raggiungimento di tale livello,
che non necessariamente deve dipendere dal mercato e quindi da fattori esterni al contesto
imprenditoriale. A partire poi dal 2012 sono annoverate come società non operative anche le
strutture societarie che per tre periodi d'imposta consecutivi conseguono perdite fiscali oppure
se tali perdite sono state generate per due periodi d’imposta a cui se ne aggiunge un terzo nel
quale è stato dichiarato un reddito inferiore al minimo previsto ex lege; con la precisazione
che il Decreto Legislativo concernente le semplificazioni fiscali ha esteso dal 2014 a cinque
periodi d’imposta il periodo d’osservazione per essere considerati società in perdita fiscale
non operativa oppure a quattro periodi a cui se ne aggiunge un quinto nel quale la società ha
conseguito un redito inferiore al minimo. Emerge quindi il problema di come debba essere
interpretato il comma 4-bis in questa specifica fattispecie di reiterazione di perdite fiscali per
più periodi d’imposta consecutivi273. Per le società che hanno superato il test d’operatività e
che però si ritrovano comunque assoggettate alla disciplina delle società di comodo in quanto
in perdita sistematica, si ritiene che non debba essere data prova dell'impossibilità oggettiva di
conseguire il livello minimo di ricavi; si deve invece dimostrare la consistenza delle perdite
cioè la loro genesi e quindi effettività. In questo modo viene data giustificazione delle perdite
prodotte e del fatto che esse non derivino da fattispecie di evasione, evidenziando i profili
272
TOSI L., Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo (a
cura di TOSI L.), cit., pag. 11-12. Secondo l’autore l’esclusione delle situazioni obbiettivamente verificabili ma
soggettive non appare compatibile con i precetti costituzionali; se un contribuente per determinate sue ragioni
decide di affittare un immobile ad un canone inferiore a quello prefissato dalla norma non si vede il motivo
perché debba essere sanzionato non accogliendo quindi l'istanza di disapplicazione.
273
FERRANTI G., L’ambito d'applicazione della disciplina sulle società in perdita sistematica, cit., pag. 2121.
Deve essere evidenziato che l’istanza di interpello è inammissibile se volta alla disapplicazione della disciplina
con riguardo a periodi d’imposta anteriori al triennio di riferimento. Nel caso per esempio si siano registrate
perdite fiscali dal 2011 al 2013, la società diventa di comodo a partire dal periodo d’imposta 2014; l’istanza di
disapplicazione sarà tenuta inammissibile se l’oggettiva situazione concerne il periodo d'imposta 2010 o periodi
precedenti.
101
soggettivi della fattispecie. Qualora invece la società si ritrovi nella condizione di non aver
superato il test d’operatività e di aver anche generato perdite fiscali nei periodi precedenti, la
dimostrazione diviene complessa dal momento che devono essere giustificate sia le situazioni
oggettive che non hanno permesso il realizzo di un livello di ricavi sufficiente, sia l’effettività
e la genesi delle perdite conseguite274. Inoltre sarà necessario presentare due distinte istanze
disapplicative se si vuole ottenere l’esclusione dalla normativa sulle società di comodo in
relazione sia alla disciplina sulle società di comodo che a quella sulle perdite reiterate per più
periodi d’imposta consecutivi275. In linea generale per le società in perdita sistematica le
motivazioni alla base dell'interpello disapplicativo devono riguardare l’economicità del
comportamento imprenditoriale in relazione alla complessiva situazione aziendale e la
presenza di particolari situazioni che potrebbero aver portato al conseguimento di risultati
negativi. Tali situazioni non possono dipendere dalla volontà dei soggetti interessati, come nel
caso di immobiliari di gestione che pur incassando dei canoni congrui rilevano
sistematicamente perdite fiscali a causa degli oneri deducibili generati magari da strutture
finanziarie studiate appositamente per poter azzerare l’imponibile. La disapplicazione può
essere attuata se si è svolta per esempio un’attività di ricerca propedeutica all’inizio della
produzione, che ha determinato però il crearsi di un non normale periodo di svolgimento
dell’attività, oppure se la crisi di un determinato settore ha impedito l’incremento dei prezzi in
modo proporzionale all’aumento dei costi delle materie generando così perdite. L’obiettivo
del legislatore attraverso la previsione dell’interpello è quello di dar dimostrazione di una
reale mancato raggiungimento del livello dei ricavi previsti per superare il test d’operatività o
del reddito minimo o ancora dell’effettivo mancato compimento di operazioni rilevanti ai fini
IVA. Tuttavia si può comprendere come in linea generale la presenza di oggettive situazioni a
274
BEGHIN M., Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, in FALSITTA G., Manuale di Diritto Tributario.
Parte speciale, cit., pag 731 e ss.. In relazione a quest’ultima ipotesi si potrebbe quindi dimostrare che
l’ammontare dei ricavi obbiettivamente non era possibile raggiungerlo e rimanere società non operativa in
ragione delle perdite pregresse. Oppure potrebbe essere data prova dell’effettività delle perdite ricadendo
comunque nel canale della non operatività data la non dimostrazione di oggettive situazioni che non hanno
permesso il raggiungimento dei ricavi e proventi, così come stabiliti dall’art. 30 comma 1 in esame. E’ da
sottolineare che in questi due casi appena descritti l’istanza di disapplicazione rappresenta una prova gravosa e
difficile per il contribuente da dimostrare, data la coesistenza sia del mancato superamento dei livello di ricavi
presunto sia per la consecutiva generazione di perdite fiscali per un triennio.
275
FERRANTI G., La nuova disciplina delle società di comodo: le questioni ancora aperte, in Corr. trib., 2012,
14, pag. 1046. Considerando che l’inoperatività legata al triennio di perdite sistematiche è stata prevista sulla
base di motivazioni differenti rispetto all'introduzione dell'originario art. 30 della legge n.724/1994 e che i
periodi d’imposta di riferimento sono differenti a seconda che si debba verificare la presenza di perdite fiscali o
il superamento del test d’operatività, si ritiene che debbano essere presentate due distinte istanze disapplicative.
E’ stato infatti precisato questo nella Circolare dell'Amministrazione Finanziaria n. 23/E del 2012 cit., la quale ha
tuttavia stabilito che le istanze precedenti all’emissione di tale provvedimento siano ritenute ammissibili anche
se contenenti in un’unica istanza le richieste di disapplicazione inerenti sia alla perdita sistematica che alla non
operatività.
102
base dell'istanza disapplicativa rappresenti “un onere” di non facile dimostrazione, alla luce
sopratutto dell’impostazione tenuta dall’Amministrazione Finanziaria. L’istanza d'interpello
risulta quindi uno strumento di non facile applicazione per le società.
3.2.3 Riflessioni sulle problematiche relative al procedimento disapplicativo previsto per
le società di comodo
L'introduzione dell'interpello disapplicativo ha sollevato non poche questioni riguardanti la
natura preventiva di tale strumento, l’impugnabilità dell’atto e la possibile difesa concessa al
contribuente in caso di mancata presentazione. L’istanza di disapplicazione rappresenta lo
strumento per poter disapplicare la disciplina prevista per le società di comodo, attraverso la
quale si richiede la rimozione dell’ostacolo che impedisce di applicare le regole ordinarie per
la determinazione del reddito d’impresa. La linea sostenuta dall’Amministrazione è stata
esplicitata in una serie di circolari. In particolare la Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 5/E
del 2 febbraio 2007 afferma che solo dopo aver assolto l’onere di presentazione dell’interpello
disapplicativo si può procedere ad impugnare l’eventuale avviso d’accertamento emesso
dall’Amministrazione Finanziaria a seguito del rigetto dell’istanza di disapplicazione; la
mancata presentazione dell’istanza determina invece l’inammissibilità del ricorso276. Inoltre
non può essere impugnato il provvedimento di diniego emesso dal Direttore regionale delle
Entrate in quanto non rientrante tra gli atti impugnabili, secondo quanto previsto dall’art. 19
del Decreto Legislativo n. 546/1992277. Le successive Circolari n. 14/E del 15 marzo 2007 e n.
7/E del 3 marzo 2009 hanno ribadito tale orientamento. E’ necessario invece soffermarsi sulla
Circolare n. 32/E del 14 giugno 2010 dell'Agenzia delle Entrate. In tale circolare
l'Amministrazione Finanziaria ha ribadito l’obbligatorietà della presentazione dell’istanza
disapplicativa per poter ottenere l’esclusione dal novero dei soggetti ritenuti di comodo ed ha
affermato, ed è questa la novità, che si debba ritenere superata l'indicazione contenuta nella
Circolare n. 7/E del 2009. Quest’ultima con riferimento specifico alle società non operative,
276
La citata Circolare sostiene che tale sanzione processuale sia la conseguenza dell’eliminazione del legislatore
dell'inciso presente precedentemente al comma 1 dell'art. 30 della legge n. 724/1994 “salvo prova contraria”; in
tal modo la prova contraria deve necessariamente essere fornita in sede d'interpello disapplicativo. Come è stato
evidenziato da TOSI L., Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., Le società di
comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag.10 e ss., l’eliminazione dell’inciso non è decisiva nel senso di stabilire che
il contribuente che voglia far valere la situazione effettiva debba obbligatoriamente attivare l’interpello e la
mancata presentazione di quest’ultimo implichi il venir meno della possibilità di difendersi. L’autore ritiene che
se il legislatore avesse voluto tale effetto avrebbe dovuto vietare la prova contraria in modo esplicito.
277
Tale decreto legislativo si occupa di disciplinare il processo tributario e nello specifico l’art. 19 identifica gli
atti autonomamente impugnabili davanti alle Commissioni tributarie, tra il quali ci sono (per citarne alcuni):
l’avviso d’accertamento, l’avviso di liquidazione, il provvedimento che irroga le sanzioni, il ruolo e la cartella di
pagamento, l’avviso di mora, il diniego o la revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione
agevolata di rapporti tributari.
103
evidenziava ancora una volta che “in assenza di presentazione dell’istanza, il ricorso è
inammissibile considerato che la disapplicazione non è ammessa in assenza della relativa
istanza, che non può essere proposta per la prima volta in sede contenziosa col ricorso
avverso l’avviso d’accertamento e di irrogazione delle sanzioni amministrative”278. La
mancata presentazione dell’interpello porta all’irrogazione di una sanzione. Inoltre sempre
nella Circolare del 2010 si sostiene che la risposta dell’interpello non rappresenta un atto
impugnabile, dal momento che non lede in alcun modo la posizione del contribuente il quale
può anche non adeguarsi, stante la natura di parere di tale atto 279. Viene fatto riferimento alla
Sentenza del Consiglio di Stato n. 414 del 26 gennaio 2009, in tale sentenza è stato affermato
che la giurisdizione del giudice amministrativo non sussiste per l’impugnazione del diniego
dell’istanza di disapplicazione prevista dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973280. La “visione”
che ne deriva è che l’Amministrazione Finanziaria ha quindi considerato fino al 2010
l’interpello disapplicativo non solo una sorte di passaggio obbligatorio per opporsi alle
presunzioni previste dall'art. 30 della legge n. 724/1994, pur in assenza di un atto accertativo,
ma il presupposto necessario per attivare le successive difese del contribuente in sede
contenziosa. L’interpello, quale unica iniziativa utile per poter dimostrare che non è stato
possibile raggiungere la soglia dei ricavi e del reddito stabiliti nell'art. 30 in esame, assumeva
quindi la natura di procedimento amministrativo avente funzione costitutiva della prova
contraria, rispetto alla presunzione di non operatività racchiusa nella disciplina delle società di
comodo. Il mancato avvio del procedimento disapplicativo poneva il contribuente nella
278
VASAPOLLI G. e VASAPOLLI A., La natura non preventiva e obbligatoria dell'interpello delle società di
comodo, in Corr. trib., 2007, 23, pag. 1860; FERRANTI G., La revisione della disciplina delle società di comodo
e dei beni in godimento ai soci, in Corr. trib., 2014, 20, pag. 1911. Nella Circolare 32/E del 2010 cit. si conferma
quindi che per l’Amministrazione Finanziaria la presentazione dell’interpello disapplicativo rappresenta un
obbligo attraverso il quale si effettua un monitoraggio preventivo delle situazioni ritenute potenzialmente elusive
dal legislatore; con la specifica successiva avvenuta nella Circolare n. 7/E del 29 marzo 2013 che la disciplina
delle società di comodo si applica a prescindere dalla sussistenza di finalità elusive, nel caso in cui siano società
prive di obiettivi imprenditoriali concreti ed immediati che non svolgono quindi alcuna attività imprenditoriale.
Inoltre l’Amministrazione rivede la propria posizione stabilendo che l'obbligatorietà della presentazione
dell’istanza non muta il carattere non vincolante della risposta e non preclude la possibilità di far valere le
condizioni che legittimano la disapplicazione alla disciplina anche successivamente. Tale orientamento è stato
ribadito nella Sentenza n. 54 del 30 maggio 2012 dalla Comm. Trib. Reg. del Friuli-Venezia Giulia di Trieste: “la
mancata presentazione dell'interpello disapplicativo delle disposizioni antielusive sulle società di comodo non
rende inammissibile il ricorso avverso l'avviso d'accertamento, in quanto la sanzione di inammissibilità è
comminabile solo in carenza dei presupposti o degli elementi specificatamente richiesti dalle norme di legge sul
processo tributario”.
279
Peraltro la successiva Circolare 23/E dell'11 giugno 2012 cit., trattando la gestione degli interpelli per le
società in perdita sistematica ha ribadito che per gli effetti e per l’impugnabilità delle risposte alle istanze
disapplicative resta ferma quanto affermato nella Circolare 32/E del 2010 cit..
280
Inoltre è stato sottolineato che “(…) la qualificazione della posizione giuridica del contribuente in termine di
interesse legittimo [non può] ritenersi sufficiente o dirimente per la risoluzione del problema della giurisdizione,
rimanendo impregiudicato ogni diritto e facoltà di difesa in ordine alla successiva attività posta in essere
dall'Erario”.
104
condizione di non poter intraprendere nessuna “iniziativa” dal momento che il ricorso contro
l’eventuale avviso d’accertamento era ritenuto inammissibile; era quindi preclusa la
possibilità di dare spiegazione della propria condizione di non operatività. Solo in sede
amministrativa e non giurisdizionale si poteva dare dimostrazione delle cause che hanno
determinato l’impossibilità di superare il test d’operatività o di produrre un reddito minimo
secondo quanto stabilito dall'art. 30 della Legge n. 724/1994. Si finiva cioè con il ritenere che
l’interpello e la disapplicazione della normativa non fossero un diritto discendente dalla
situazione oggettiva della società, ma un beneficio concesso dall'Amministrazione solo in via
del tutto eccezionale, obbligatorio in sede preventiva a pena di non poter più dimostrare la
reale operatività della società281. Identificare l’interpello come unico strumento per
disapplicare la disciplina, non lasciando la possibilità anche in sede contenziosa, significava
da un lato non potersi difendere a fronte di un eventuale provvedimento accertativo emesso
dall’Agenzia delle Entrate e contemporaneamente dover pagare sulla base di una
predeterminazione forfettaria del reddito con il concreto rischio di sottoporre a tassazione
ricchezza inesistente. Anche ammettendo che il legislatore avesse scelto di dare la possibilità
di dimostrare la prova contraria attraverso un formale procedimento d'interpello
disapplicativo, non vi sarebbero comunque elementi che possano prevedere la “sanzione”
d’inammissibilità del ricorso giurisdizionale presentato dal contribuente, senza prima aver
avviato la procedura stabilita all'art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973282. Inoltre deve essere
evidenziato che l’inammissibilità del ricorso contro l’atto accertativo in mancanza dell'istanza
disapplicativa contrasta con l’orientamento secondo il quale l’azione giudiziaria non può
essere subordinata a quella di un organo non giurisdizionale, altrimenti viene meno da un lato
il diritto di difesa sancito dall'art. 24 della Costituzione che stabilisce che “tutti possono agire
in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi [e] la difesa è diritto inviolabile
281
SCHIAVOLIN R., Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, in AA.VV., Le
società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 71 e ss.. L’obbligo assoluto del previo interpello affinché il
contribuente possa dimostrare la propria operatività potrebbe trovare una giustificazione “solo se, per qualche
ragione, il potere di disapplicazione dovesse venire riservato all’Amministrazione Finanziaria, salvo
assoggettarlo ad un controllo giurisdizionale esterno, simile al sindacato sull'eccesso di potere. Tuttavia, la
stessa Amministrazione Finanziaria sembra ammettere che il sindacato della Commissione Tributaria sia pieno,
riferendosi alla sussistenza di situazioni che hanno impedito il raggiungimento dei risultati attesi”. Secondo
l’autore l’obbligatorietà dell’interpello preventivo attraverso il quale il diritto di difesa in giudizio viene
procedimentalizzato sembra piuttosto rispondere ad un’esigenza fiscale di far emergere fin da subito le società
ritenute di comodo comprese quelle che si trovano nella condizione di avere valide ragioni per poter disapplicare
la normativa.
282
ATTARDI C., Tutela giurisdizionale delle società di comodo: profili problematici, in Fisco (Il), 2007, 32, pag.
1-4372. Sottolinea l'autore che senza una previsione legislativa in proposito, riguardante l’inammissibilità del
ricorso in mancanza dell'atto disapplicativo, non viene rispettato l’art. 111 della Costituzione il quale afferma che
“la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalle leggi (...)”. Quanto stabilito nella Circolare
n. 5/E del 2007 cit. appare quindi difficilmente conciliabile con la previsione costituzionale dell'art.111.
105
in ogni stato e grado del procedimento (...)” e contemporaneamente ci si pone in contrasto
con
le
disposizioni
processuali.
Quest’ultime
prevedono
infatti
la
sanzione
dell’inammissibilità del ricorso per fattispecie particolarmente gravi, non come il caso di
mancata presentazione dell’istanza disapplicativa. La prova contraria può essere fornita in
qualsiasi momento e l'interpello disapplicativo non deve costituire alcun pregiudizio per il
contribuente che è libero di presentarlo o meno. Come detto precedentemente a tal
conclusione sembra essere giunta in parte anche l'Amministrazione Finanziaria, rivedendo la
proprio posizione. Nonostante rimanga l’obbligatorietà di presentazione dell'interpello, al
contribuente è data comunque la possibilità di far valere le proprie ragioni, dando spiegazione
della propria situazione anche successivamente. Per quanto concerne l’obbligatorietà di
avviare l'istanza di disapplicazione, sostenuta dall’Amministrazione anche nella Circolare del
2010, il comma 3 dell'art. 30 della Legge n. 724/1994 stabilisce che “la società [possa]
richiedere(...)”. Il dato normativo lascia quindi intendere che l’istanza disapplicativa è una
possibilità data al contribuente, il quale è libero di attivarla o meno. Non sembra corretto
prevedere l’obbligatorietà dell’interpello, dato il tenore letterale di quanto previsto dal
legislatore, oltre al fatto che nessun elemento d’ordine logico o sistematico ravvisa
nell'istanza disapplicativa un istituto di cui è necessario “servirsi” per realizzare determinati
effetti. Il contribuente può dimostrare anche successivamente, con l’emissione di un eventuale
avviso d’accertamento volto a porre a tassazione il maggiore reddito, che la società svolge
effettivamente un'attività d'impresa anche se non ha superato il test d’operatività o le ragioni
per cui non è stata in grado di produrre un reddito almeno pari al livello minimo283. Si deve
quindi affermare che l’istanza disapplicativa deve essere considerata come una facoltà
attraverso la quale si possono prevenire controversie e future incertezze; rappresenta quindi
un’opportunità aggiuntiva il cui mancato esercizio non può pregiudicare le possibilità di
difesa giurisdizionale284. L'interpello non è uno strumento necessario in via preventiva per
283
BEGHIN M., Diritto tributario. Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, cit., pag. 638 e
seguenti. Sottolinea l’autore che la possibilità di difendere la propria posizione non solo mediante l’istanza
d’interpello ma anche successivamente in sede contenziosa è in linea con il sistema giuridico; l'art. 113 della
Costituzione prevede infatti che “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela
giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (...)”.
284
LUPI R., Le società di comodo come disciplina antievasiva, cit., pag. 1097 e ss.. In particolare a pag. 11061107 si sottolinea come per far rientrare l'interpello disapplicativo previsto per le società di comodo tra quelli
previsti dall'art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 c’è stato bisogno di “estendere gli effetti dell’interpello oltre le
colonne d’Ercole delle disposizioni antielusive, il che conferma che altrimenti non sarebbe stato ammesso, in
quanto relativo a fattispecie diverse da quelle da quelle in cui sospetta la presenza di un’evasione (...)”. Inoltre
se nel caso per esempio di interpello previsto in materia di imprese estere controllate normate nell'art. 167 del
TUIR il legislatore utilizza espressamente il termine “deve interpellare” questo non avviene nella disciplina delle
società di comodo e proprio per questo motivo l’interpello disapplicativo non può essere un obbligo ma
rappresenta una possibilità data al contribuente.
106
pervenire alla disapplicazione della disciplina della non operatività, dal momento che la stessa
Amministrazione Finanziaria non fa derivare alcuna preclusione da tale asserita
obbligatorietà, essendo stato superato l’orientamento dell’ente impositore di ritenere
inammissibile il ricorso contro l'avviso d'accertamento del contribuente che non abbia attivato
precedentemente il procedimento disapplicativo previsto dal comma 4-bis dell'art. 30 in
esame285. Se il contribuente decide di presentare l’istanza di disapplicazione e riceve una
risposta positiva tale effetto vincola sicuramente il fisco, che può tuttavia rettificare il reddito
dichiarato con gli ordinari poteri d’accertamento qualora ne ricorrano i giusti motivi. Nel caso
in cui invece il contribuente non riceva risposta da parte del Direttore regionale delle Entrate
all’istanza di disapplicazione presentata, c’è chi ritiene possa essere applicato l’art. 20 comma
1 della Legge n. 241/1990286, il quale stabilisce che “(…) nei procedimenti ad istanza di parte
per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell’amministrazione competente
equivale a provvedimento di accoglimento della domanda (...) se la medesima
amministrazione non comunica all'interessato [nel termine previsto dalla legge] il
provvedimento di diniego”. Secondo questa tesi i presupposti perché l’articolo 20 citato
trovino attuazione risiedono nel fatto che la materia tributaria non risulta esclusa dall’ambito
d’applicazione di tale previsione normativa, inoltre l’istanza posta dalla società è
esplicitamente volta a sollecitare il provvedimento di disapplicazione dell’art. 30 della Legge
n. 724/1994287. Tuttavia tale linea interpretativa appare non condivisa da chi sostiene invece
che il silenzio sull’istanza d'interpello disapplicativo non è autonomamente impugnabile e non
equivale al silenzio-assenso o al silenzio-diniego. Le caratteristiche peculiari dell’interpello in
materia di società di comodo (ed in generale di interpello presentato ai sensi dell'art. 37-bis
del D.P.R. n. 600/1973) escluderebbero l’applicazione della regola generale stabilita nell'art.
20 della Legge n. 241del 1990; sembra corretto ritenere che qualora il legislatore avesse
285
A tal proposito si sono espresse con più sentenze anche le Commissioni di merito, con pareri contrastanti. La
non obbligatorietà della presentazione dell'interpello disapplicativo è per esempio stata affermata nella Sentenza
n. 16/2012 dalla Comm. Trib. Prov. di Vercelli e nella Sentenza n. 101/2012 dalla Comm. Trib. Prov. di Reggio
Emilia. A parere opposto sono giunti invece i giudici nelle Sentenze n. 78/2012 della Comm. Trib. Reg. della
Puglia e n. 437/2014 della Comm. Trib. Prov. di Pisa.
286
Tale articolo è stato così riformato dal Decreto Legge n.35/2005 convertito con modificazioni dalla Legge 14
marzo 2005, n. 80.
287
PISTOLESI F., L'interpello per la disapplicazione del regime sulle società di comodo, cit., pag. 2987. L’autore
sottolinea infatti che anche se l’interpello disapplicativo non è “un’autorizzazione in senso proprio, rappresenta
senz’altro un atto dotato di una portata peculiare, che esula dalla semplice sfera interpretativa e ben si presta,
pertanto, ad essere assimilato ai provvedimenti menzionati dall’art. 20 della Legge n. 241/1990”. L'interpello
previsto per le società di comodo attraverso il quale, in caso di risposta positiva, è ammessa la sottrazione
dall’applicazione di una norma evidenzia come la risposta fornita spiega un effetto che va oltre l’enunciazione
della presa di posizione dell’Amministrazione Finanziaria. “V’è insomma, in tale risposta un quid pluris rispetto
ai responsi forniti in base agli altri interpelli (…): la pronuncia del Direttore regionale inibisce qui l’operatività
di un precetto normativo”.
107
voluto introdurre tale conseguenza dalla mancata risposta dell’Amministrazione l’avrebbe
fatto esplicitamente288. Un’altra questione sulla quale è opportuno fare alcune considerazioni
e che solleva un certo dibattito riguarda l’impugnabilità o meno del diniego dell’istanza di
disapplicazione della disciplina delle società di comodo. A fronte delle linea ferrea sostenuta
dall’Amministrazione Finanziaria secondo cui l'interpello disapplicativo non è impugnabile in
quanto non è annoverato tra gli atti impugnabili previsti dall’art. 19 del Decreto Legislativo n.
546/1992, in dottrina ed anche in giurisprudenza coesistono opinioni contrastanti. Alcuni
ritengono che il diniego dell'istanza disapplicativa non sia un atto impugnabile davanti al
giudice tributario, considerato che la risposta dell'interpello non è vincolante per il
contribuente e non implica un pretesa impositiva o sanzionatoria289. Il contribuente può far
valere le proprie ragioni in sede giurisdizionale, contro l’atto con il quale l’Amministrazione
pretende di recuperare quanto non versato disattendendo l’art. 30 della Legge n. 724/1994290.
Tale linea sostenuta nella già citata Sentenza n. 414 del 2009, è stata ribadita di recente nella
Sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Bari n. 2355 del 14 ottobre 2014,
secondo i giudici il diniego alla disapplicazione di norme antielusive non può essere
equiparato ad un avviso d'accertamento ed è privo di contenuto a carattere impositivo tale da
suscitare l’interesse immediato del contribuente ad impugnarlo. Anche nella sentenza della
Commissione Tributaria Regionale di Bari del 7 ottobre 2013, n. 75 era stato affermato tale
orientamento, non potendo l’interpello disapplicativo essere considerato un atto
288
FUCILE S., Riflessioni in tema di impugnabilità del diniego di disapplicazione di una norma antielusiva, in
Riv. dir. trib., 2011, 9, pag. 421B. L’autore sostiene la non applicabilità del silenzio-assenso all’interpello
disapplicativo evidenziando inoltre che l’art. 20 citato si riferisce a casi nei quali la pubblica amministrazione ha
discrezionalità amministrativa nell’emanazione del provvedimento e questo non si ravvisa per l’interpello
disapplicativo. La tesi del silenzio-assenso generalizzato non sembra troppo solida, quantomeno con riferimento
agli atti non discrezionali e l'interpello disapplicativo sembra rientrare in tale categoria. In tal senso anche
STEVANATO D., Istanza di disapplicazione di norme antielusive e significato del silenzio, in BOZZI A. e
STEVANATO D., Società di comodo ed interpello disapplicativo, in Dialoghi dir. trib., 2007, 2, pag. 199.
L’autore sostiene che “il percorso utilizzato per attribuire al silenzio sull'istanza valore di assenso [non sembra
essere persuasivo] per l’improprio accostamento tra la pronuncia che viene richiesta al Direttore regionale ed i
provvedimenti amministrativi ad istanza di parte cui si applica la legge generale sul procedimento
amministrativo”.
289
Sostiene STEVANATO D., Il diniego di disapplicazione delle norme antielusive: assenza di “efficacia
preclusiva” e superfluità di una tutela giurisdizionale, in Dialoghi. dir. trib., 2005, 1,pag. 29 e ss., la “natura
interpretativa” del provvedimento dell'Amministrazione che non produce effetti d'accertamento e dunque “non
appare sensato affermare la sua impugnabilità in sede giurisdizionale, più di quanto non sia affermare
l'impugnabilità di una risoluzione ministeriale”. Si veda poi SCHIAVOLIN R., Commento all’art. 19, in
Commentario breve alle leggi del diritto tributario. Terza edizione (a cura di COSOLO C. e GLENDI C.),
Padova, 2012, pag. 287.
290
L’impugnazione dell'interpello dovrebbe essere ammessa qualora tale atto fosse ritenuto obbligatorio e la
relativa risposta fosse ritenuta indispensabile per evitare di incorrere nel regime delle società di comodo (tale
obbligatorietà continua peraltro invece ad essere sostenuta, come già detto, dall'Amministrazione Finanziaria). In
caso di obbligatorietà dell’interpello il rigetto della richiesta di disapplicazione sarebbe assimilato ad un atto
d’accertamento idoneo a stabilire con efficacia imperativa l'an ed il quantum debeatur previsto dall'ente
impositore. In tal senso PISTOLESI F., L’interpello per la disapplicazione del regime sulle società di comodo,
cit., pag. 2987; FERRANTI G., Società di comodo e beni ai soci: i chiarimenti di Assonime, cit., pag. 2119.
108
autonomamente impugnabile e necessitando quindi un eventuale avviso d’accertamento da
parte dell'Agenzia delle Entrate per poter far ricorso. Secondo questa linea di pensiero la
risposta all’interpello disapplicativo non è quindi assimilabile ad alcun atto impugnabile tra
quelli stabiliti dall’art. 19 del Decreto Legislativo n. 546/1992, serve ad orientare la condotta
del contribuente, ma non lo vincola e non gli crea alcun pregiudizio; tale atto non ha efficacia
imperativa e non si esplica in un concreto ed attuale interesse ad agire. E’ vero che il
contribuente che presenta l’interpello disapplicativo è titolare di una situazione giuridica
soggettiva riconducibile alla nozione di interesse legittimo, dove l’Amministrazione
Finanziaria svolge il proprio compito di indagine, controllo e verifica della corretta
applicazione dei doveri impositivi. In questo modo l’interesse del soggetto passivo istante
viene a coincidere con quello del buon esercizio delle funzioni svolte dall’Amministrazione
ed è soddisfatto nel momento in cui il contribuente riceve una risposta all’istanza di
disapplicazione della disciplina relativa alle società di comodo. Nel momento in cui la
risposta è resa non si riscontra però alcuna lesione dell’interesse legittimo del contribuente. Il
diniego di disapplicazione non ha l’effetto immediato di comprimere ulteriormente posizioni
soggettive già limitate dalla disciplina, ma ha solo l’obiettivo di indirizzare il contribuente,
lasciandolo libero di adeguarsi o meno all'indirizzo dell’Amministrazione Finanziaria e
impugnando
successivamente
un
eventuale
avviso
d’accertamento.
Ammetterne
l’impugnabilità del diniego significherebbe inoltre permettere l’esercizio di un’azione
d’accertamento preventivo che non è ammessa nella materia tributaria e che non produrrebbe
alcun benefico effetto in termini di tempo e modalità di definizione dell’eventuale
contenzioso291. Appare quindi condivisibile ritenere che in caso di diniego dell'interpello
disapplicativo tale atto non possa essere impugnato, non integrando l’interesse ad agire
richiesto nel processo tributario. Al contribuente è riconosciuta la tutela giurisdizionale solo in
via successiva in sede di impugnazione dell’eventuale atto impositivo292. Altra parte della
291
E’ questa la tesi sostenuta da PISTOLESI F., Tutela differita al giudice tributario in caso di risposta negativa
all'interpello, in Corr. trib., 2009, 21, pag. 1685, il quale sostiene che solo nel caso in cui il Diretto regionale
delle Entrate “si sottraesse in modo indebito dal rendere noto il responso richiesto vi sarebbe ragione di
ricorrere al giudice amministrativo perché l'interesse legittimo del contribuente trovi la necessaria tutela”.
Inoltre si ritiene che la disapplicazione della disciplina debba essere pronunciata senza alcun profilo di
discrezionalità qualora le prove offerte dal contribuente siano convincenti ed il comportamento descritto
nell’istanza sia differente con quello che il legislatore si è proposto do osteggiare.
292
CIMINO F. A., Il diniego di disapplicazione della normativa sulle società ed enti non operativi: impugnazione
necessaria o facoltativa?, in Rass. trib., 2013, 4, pag. 749. Viene quindi evidenziato che in dottrina coloro che
non ammettono l'impugnabilità della risposta negativa all'interpello la giustificano con ragioni differenti. Si
ritiene che tale provvedimento non vincoli il contribuente ed abbia funzione di mero orientamento, o che non sia
lesivo della posizione giuridica del contribuente e che quindi l’impugnabilità debba essere esclusa allo stesso
modo in cui si esclude l’impugnabilità di una risoluzione ministeriale o ancora che il diniego di disapplicazione
abbia natura di provvedimento di “tipo autorizzatorio” anche se emesso senza alcun potere discrezionale e che
109
dottrina sostiene invece che il diniego all'istanza di disapplicazione possa essere identificato
come un atto impugnabile. La Corte di Cassazione è intervenuta con più sentenze nel merito
ribadendo tale principio e maturando però due orientamenti diversi per quanto concerne la
“cristallizzazione o meno” degli effetti derivanti dalla mancata impugnazione della risposta
negativa all'interpello. La Corte di Cassazione nella Sentenza n. 8663 del 15 aprile 2011293 ha
affermato che il parere reso a seguito dell'interpello disapplicativo è un atto impugnabile,
potendo essere equiparato ad un diniego di agevolazione294 e quindi rientrante tra gli atti
impugnabili dell'art. 19 del Decreto Legislativo n. 546/1992. La norma è stata così interpretata
in modo non “nominalistico”, ma analogico-estensivo, essendo un atto con effetto residuo,
diretto ed immediato295. Sull’argomento sembra opportuno sottolineare che c’è chi ritiene non
adeguato l’accostamento del diniego di disapplicazione ad un diniego di agevolazione fiscale,
dal momento che la società chiedendo la disapplicazione della disciplina delle società non
operative non viene ammessa ad un regime agevolativo. L’istanza disapplicativa mira ad
evitare una penalizzazione, riconducendo la fattispecie concreta all’interno della disciplina
ordinaria. La disapplicazione è infatti il venir meno di una penalizzazione che comporta
quindi il ripristino della situazione ordinaria, che spetta di diritto non come vantaggio, con la
conseguenza che il diniego di disapplicazione non comporta l’esclusione da una posizione di
favore, ma il permanere di una situazione sfavorevole per il contribuente 296. Piuttosto
non rientrando tra gli atti nominati dall'art. 19 del Decreto Legislativo n. 546/1992 non possa quindi essere
impugnato. SERRANO' M. V., Ancora sull'impugnabilità del diniego di disapplicazione di norme antielusive
sulla base di una dubbia equipollenza con il diniego di agevolazioni fiscali, in Dir. prat. trib., 2014, 1, pag. 2117. Si ritiene che sia innegabile la carenza dell’interesse ad agire dal momento che l’interpello disapplicativo
rappresenta il presupposto di un atto impugnabile, dunque con tutela differita all'eventuale notifica dell'atto
autonomamente e direttamente impugnabile. E' questa la panoramica presente in dottrina di chi condivide
l'orientamento espresso dall'Agenzia delle Entrate sulla non impugnabilità del diniego disapplicativo.
293
Tale Sentenza ha rappresentato il primo pronunciamento esplicito del giudice di legittimità in tema di
autonoma impugnabilità del diniego. E’ comunque da sottolineare che la Corte di Cassazione già con la Sentenza
n. 23731 del 21 dicembre 2004 aveva affrontato il tema riconoscendo di fatto la diretta impugnabilità del diniego
di disapplicazione dell’interpello attivato ai sensi dell'art.37-bis del D.P.R. n.600/1973, rientrando tale pronuncia
in quella corrente interpretativa che sostiene la non tassatività degli atti impugnabili elencati all'art.19 del
Decreto Legislativo n.546/1992.
294
In modo critico FERRANTI G., Società di comodo e beni ai soci: i chiarimenti di Assonime, cit., pag 2119
evidenzia che l’assimilazione dell’istanza disapplicativa ai dinieghi agevolativi appare forzata trattandosi non del
riconoscimento di regimi agevolativi, ma più esattamente della presentazione di un’istanza nella quale il
contribuente dopo aver descritto l’operazione effettuata indica la disposizione normative di cui chiede la
disapplicazione. “Non sussiste alcun vulnus alla tutela giurisdizionale della posizione giuridica soggettiva del
contribuente, rinviata al momento in cui viene notificato l’avviso d’accertamento”. Nella successiva Sentenza
invece della Comm. Trib. Prov. di Reggio Emilia n. 154 del 21 settembre 2011, i giudici condividono quanto
affermato dalla Corte di Cassazione e approvano l'equiparazione del diniego disapplicativo al diniego
d'agevolazione, come pure nella Sentenza sempre della Cassazione Civile n. 20394 del 20 novembre 2012, nella
quale è stato inoltre ribadito il concetto dell’obbligatorietà dell’impugnazione dell'atto di diniego disapplicativo
pena la resa definitiva della carenza di potere di disapplicazione della norma antielusiva.
295
Il diniego di agevolazione è infatti citato tre gli atti impugnabili presenti in tale articolo. Si veda la nota n.180.
296
“Il contribuente non chiede di essere agevolato rispetto agli altri, ma anzi di essere trattato coerentemente col
presupposto posto in essere”. Secondo STEVANATO D., Un “principio di diritto” sbagliato per una decisione
110
dovrebbe essere considerato atto impositivo atipico l’interpello disapplicativo, in grado di
generare una compiuta e definita pretesa tributaria e quindi suscettibile di autonoma
impugnazione. E’ stato sottolineato tuttavia che nonostante non sia un diniego di agevolazione
vero e proprio comunque permette la riduzione del prelievo e questa è riconosciuta ai soli
contribuenti che hanno richiesto l’istanza di disapplicazione. Si potrebbe inoltre ritenere che il
diniego dell’interpello disapplicativo sia assimilabile ad un avviso d’accertamento e rientrante
quindi tra gli atti impugnabili secondo l’art. 19 del Decreto Legislativo n. 546/1992, in quanto
è presente una fase istruttoria ed una fase successiva di valutazione tecnica per verificare se
esistono i presupposti per poter disapplicare la disciplina della non operatività. Si tratterebbe
però di un avviso d'accertamento che non prevede la pretesa di imposta da parte del
contribuente, il quale lo deve lui stesso attivare e sarebbe limitato alla spettanza del beneficio
dell'esclusione dal novero delle società ritenute di comodo. Se si condivide l’idea di poter
impugnare il diniego dell'interpello disappplicativo, è necessario escludere che la risposta
dell’Amministrazione abbia carattere meramente interpretativo dal momento che essa risulta
indispensabile per procedere alla non applicazione di quanto previsto dall'art. 30 della Legge
n. 724/1994. La risposta data dal Direttore regionale presuppone l'esercizio della propria
funzione amministrativa di accertamento dei presupposti per l’applicazione del regime di
tassazione ordinario e vincola anche se risulta negativa il contribuente. L’interpello
disapplicativo non configura, secondo questa linea interpretativa, solo come un “parere”, ma è
un quid pluris costitutivo di diritti. E’ stato evidenziato che partendo dal presupposto che
l’elenco degli atti impugnabili di cui all'art. 19 citato deve essere interpretato non in base al
nomen iuris dell’atto non nominato, ma in base alla corrispondenza della funzione e degli
effetti con gli atti normativamente previsti, allora l’interpello disapplicativo non potrebbe non
apparire così “dissonante” da non poter essere assimilato al diniego di agevolazione o
all'avviso d'accertamento e per questo non potrebbe essere giustificata una tutela
giurisdizionale differente. Si dovrebbe quindi procedere alla qualificazione dell'atto avendo
corretta?, in VOLTOLINA M. e STEVANATO D., Società di comodo, interpello disapplicativo e impugnazione
del diniego, in Dialoghi dir. trib., 2012, 1, pag. 41, identificare il diniego disapplicativo come diniego
d’agevolazione significherebbe far assumere al concetto “d’agevolazione” un significato abnorme; le
agevolazioni si connotano quali deroghe ad un determinato regime fiscale e non si spiegano in ragione di una
coerenza interna al tributo, ma in relazione del perseguimento di finalità estranee al tributo stesso. In questo
senso deve quindi essere letta l’estraneità al tema delle agevolazioni dell’interpello disapplicativo stabilito al
comma 4-bis dell’art. 30 della Legge n. 724/1994. Tale orientamento è condiviso anche da TUNDO F.,
Impugnabile il diniego di disapplicazione delle norme antielusive?, in Corr. trib., 2011, 11, pag. 1701, il quale
evidenzia che l’interpello disapplicativo per le società di comodo risponde alla ratio della norma prevedendo che
nell'ipotesi in cui il contribuente non ricada nella fattispecie disciplinata dalla normativa, l’ostacolo deve essere
eliminato e si ritorna ad un’imposizione ordinaria. “Non pare quindi sussistere alcun spazio per poter assimilare
il diniego di disapplicazione a quello d'agevolazione e questa importante precisazione si riflette sulla non
impugnabilità del diniego di disapplicazione in quanto non assimilabile ad un diniego d’agevolazione”.
111
riguardo all'estrinseca finalità perseguita da quelli previsti all'art. 19 del Decreto Legislativo n.
546/1992297. Riprendendo poi quanto sostenuto dalla Suprema Corte nella sentenza del 2011,
essa ha inoltre dichiarato che l’impugnazione dell’atto di diniego diventa indispensabile per
poter disapplicare la disciplina prevista dall’art. 30 della Legge n. 724/1994, non potendo poi
il contribuente più agire in sede di ricorso contro l’eventuale avviso d'accertamento298. Il
presupposto per giungere a tale conclusione è quello di ritenere il sindacato del giudice
tributario a cognizione piena con la conseguenza che quanto pronunciato dalla giurisdizione
tributaria può incidere non solo sulla legittimità del diniego, ma anche sul merito della
questione attraverso una valutazione sulla fondatezza o meno della domanda di
disapplicazione299. Tra il diniego di disapplicazione e l’avviso d’accertamento si instaura un
297
FUCILE S., Riflessioni in tema di impugnabilità del diniego di disapplicazione di una norma antielusiva, cit.,
pag. 421B. E’ questo il pensiero condiviso dall'autore secondo il quale se la risposta del Direttore generale è un
provvedimento costitutivo di diritti, non può negarsi il fatto che il contribuente abbia interesse ad impugnare il
diniego. FRANSONI G., L’Agenzia delle Entrate illustra la non impugnabilità delle risposte agli interpelli, in
Corr. trib., 2009, 14, 1131, il quale sottolinea che non si può ammettere un totale superamento dell'art.19 del
Decreto Legislativo n. 546/1996, ma è altrettanto impossibile non condividere “moderate” aperture dell’elenco
degli atti impugnabili ad atti funzionalmente analoghi a quelli per cui è stata prevista l'impugnabilità normativa.
“L’analogia funzionale fra atti di diniego o revoca di agevolazioni e le risposte all'interpello sembra svolgere,
appunto, il ruolo di ponte per garantire l’accesso alla tutela anche a questa categoria di atti. Il che si badi bene,
non significa necessariamente affermare una totale identità degli uni e degli altri”. CORE E., La natura e
l’impugnabilità dell'interpello disapplicativo, cit, pag. 2-307. Deve essere considerato atto d'accertamento non
solo quello qualificato in quanto tale, ma anche tutti quegli atti recettizi che abbiano “la funzione di accertare un
presupposto diverso od ulteriore ovvero una base imponibile maggiore di quella dichiarata, al fine di ottenere il
pagamento di un tributo”. Sostiene l’autrice che l’autonoma impugnazione degli atti anche se non espressamente
previsti dall’art.19 del Decreto Legislativo n. 546/1992 deve essere possibile finché l’impianto generale non
subisce modifiche.
298
La Sentenza afferma inoltre che “la posizione giuridica del contribuente non è di interesse legittimo, bensì di
diritto soggettivo (…) ed il giudice investito al ricorso contro il diniego non deve limitarsi ad appurare la
legittimità dell'atto, ma deve esaminare nel merito la pretesa, eventualmente stabilendo la natura non elusiva
dell'operazione”. E’ da sottolineare che tale ultimo principio è stato ribadito anche in una successiva Sentenza
della Corte di Cassazione n. 5843 del 13 aprile 2012, dove è stato evidenziato che “la cognizione del giudice
tributario rispetto al diniego non è limitata alla legittimità formale dell'atto ma è estesa al merito della pretesa”.
In questa sentenza è stato evidenziato che il diniego all'istanza d’interpello disapplicativo costituisce atto
autonomamente impugnabile davanti al giudice tributario, qualora contenga una presa di posizione definitiva
sulla società di comodo, tramite cui si dia conto dell’analisi effettuata in relazione alle circostanze fattuali ed alle
allegazioni documentali prodotte al momento della richiesta di disapplicazione. Non è invece impugnabile la
declaratoria d’improcedibilità dell’istanza per mancanza degli elementi minimi necessari alla valutazione.
Quest’ultimo provvedimento non può definirsi come diniego definitivo della richiesta di disapplicazione ma
come provvedimento “sostanzialmente interlocutorio”. MATTESI E., Cass., n.5843 del 13 aprile 2012 – Ancora
sull'impugnabilità degli atti tributari “atipici”: il diniego di disapplicazione delle norme sulle società di
comodo, in Fisco (Il), 19, 2012, pag. 2-3001; BORGOGLIO A., Inibita l'impugnabilità della risposta
sull'interpello se l'Ufficio la dichiara improcedibile, in Fisco (Il), 2012, 20, pag. 1-3137.
299
STEVANATO D., Disapplicazione di norme antielusive d obbligatorietà dell’interpello, in D. STEVANATO
D. e LUPI R., Disapplicazione norme antielusive: verso la facoltatività dell’istanza?, in Dialoghi dir. trib., 2014,
3, pag. 249 il potere di disapplicazione è peculiare in quanto il regime giuridico-tributario viene adattato alla
realtà concreta, essendoci un momento interpretativo nel quale si analizza la ragionevolezza o meno
dell’applicazione della norma. Alla base dell'interpello disapplicativo non vi è l'incertezza applicativa di una
norma come nel caso dell'interpello ordinario, “bensì una questione di equità e giustizia sostanziale, di
adeguamento delle ragioni sottostanti alla norma limitatrice rispetto ad una situazione concreta che pur essendo
pacificamente sussumibile nella fattispecie astratta non può nemmeno astrattamente dar luogo a quegli effetti
elusivi che la norma vuole contrastare”. Non si ritiene inoltre possa essere facoltativa l’impugnazione del
112
rapporto di presupposizione. Come il contribuente che non impugna l’avviso d'accertamento
non può difendersi in una fase successiva contro il ruolo, così la mancata impugnazione del
diniego disapplicativo comporta l’impossibilità di fare ricorso contro l’atto impositivo emesso
dall’Agenzia delle Entrate. Appare condivisibile ritenere quindi che la mancata impugnazione
del rigetto dell’istanza disapplicativa “cristallizza” l’applicazione del regime della non
operativtà300. E’ questa la conclusione a cui si deve giungere se si considera impugnabile il
diniego disapplicativo. Tuttavia chi non condivide tale orientamento sottolinea il fatto che
nonostante la Cassazione abbia tentato di ampliare la tutela concessa al contribuente
ammettendo appunto l’impugnabilità del diniego di disapplicazione, nel concreto prevedere
l’obbligatorietà dell’impugnazione porterebbe a conseguenze altrettanto gravi per il
contribuente che o agisce immediatamente impugnando l’atto di diniego o altrimenti gli viene
preclusa ogni possibile difesa futura. A fronte quindi di un interesse immediato e di un diritto
“perfetto” ad agire, si pone l’effetto che consiste nella decadenza di quel diritto, con la
definitiva perdita di possibilità di disapplicare la disciplina in questo caso delle società di
comodo. Secondo tale orientamento la conclusione a cui giunge la Suprema Corte nel 2011 in
merito alla cristallizzazione degli effetti sembra essere viziata nel presupposto, dato che il
soggetto passivo istante può non adeguarsi alla risposta negativa del Direttore regionale delle
Entrate esponendosi al rischio di subire successivamente l'accertamento tributario301. La
Cassazione ha ribadito la facoltà di impugnazione del diniego dell'interpello disapplicativo
nella Sentenza n. 17010 del 5 ottobre 2012, affermando che gli atti contenuti nell’art.19 del
Decreto Legislativo n. 546/1992 hanno natura tassativa e che tuttavia è data facoltà al
contribuente di impugnare la risposta negativa ricevuta dal Direttore regionale delle Entrate.
Secondo questa linea, l’impugnazione non rappresenta un onere perché non ha efficacia
rilevante, portando a conoscenza il soggetto passivo richiedente della posizione assunta
dall'Amministrazione Finanziaria in ordine ad un determinato rapporto tributario302. Tale
diniego all'interpello disapplicativo.
300
BORGOGLIO A., Impugnazione facoltativa del diniego dell'interpello disapplicativo, in Fisco (Il), 2014, 26,
pag. 2607.
301
Si fa quindi riferimento al carattere non vincolante della risposta dell'interpello affermata dall’Agenzia delle
Entrate nella Circolare n.7/E del 2009 cit. E’ questa quanto sostiene LUNELLI R., Diniego di disapplicazione
delle norme “antielusive”: impugnazione facoltativa od obbligatoria?, in Riv. giur. trib., 2011, 8, pag. 680.
Secondo l'autore la Corte di Cassazione dovrebbe stabilire invece il diniego di disapplicazione non come
assimilabile al diniego di agevolazione, ma come atto facoltativamente impugnabile. In questo modo è
soddisfatto sia l’interesse del contribuente ad una tutela immediata sia quello di salvaguardare il diritto/onere di
impugnare il successivo atto d’accertamento.
302
Nella Sentenza si evidenzia che sono facoltativamente impugnabili quegli atti che portano a conoscenza il
contribuente di una specifica pretesa tributaria con la specificazione delle ragioni fattuali e giuridiche e questo in
ragione del fatto che è possibile dare un’interpretazione estensiva delle disposizioni in materia secondo quanto
stabilito dalle norme costituzionali di tutela del contribuente (art. 24 e 53 della Costituzione).
113
orientamento è stato confermato ancora più di recente sempre dalla Suprema Corte con la
Sentenza n. 11929 del 28 maggio 2014 e con la successiva n. 16183 de15 luglio 2014 dove è
stato ribadito che l’impugnazione del diniego rappresenta una facoltà per il contribuente che
non pregiudica la possibilità di far valere le ragioni per la disapplicazione della normativa in
esame anche successivamente con il ricorso avverso l’avviso d'accertamento. Nella sentenza
di luglio è stato inoltre sottolineato che la domanda di interpello non costituisce la via
obbligatoria per sottrarsi alla presunzione di non operatività prevista dall'art.30 della Legge n.
724/1994, potendosi dimostrare sempre le ragioni che consentono di fornire la prova
contraria303. In questo modo si affermerebbe quindi che la facoltà dell’impugnazione del
diniego dell'interpello debba essere ammessa dal momento che il diniego non rappresenta
l’atto con cui l’ente impositore definitivamente pronuncia una pretesa in ordine all'esistenza
ed al modo d’essere del rapporto tributario. La pronuncia negativa da parte del Direttore
regionale delle Entrate non vincola e pregiudica il contribuente, non è espressiva di una
richiesta impositiva o sanzionatoria, non può quindi essere sostenuto che la sua mancata
impugnazione cristallizzi definitivamente gli effetti. Chi sostiene tale non obbligatorietà
dell’impugnazione sottolinea quindi che essa è espressiva di un contemperamento tra
l’interesse ad una tutela immediata contro il diniego disapplicativo della disciplina delle
società di comodo e l’interesse, rilevante anche questo, a potersi tutelare contro gli eventuali
successivi atti d’accertamento e o di diniego dell’istanza di rimborso. Inoltre viene meno
anche la difficoltà di equiparare il diniego disapplicativo ad uno degli atti autonomamente
impugnabili previsti dell'art. 19 del decreto Legislativo n. 546/1992304. Secondo questa tesi la
“facoltà” dell’impugnazione sembrerebbe quindi meglio conciliarsi con la struttura del
processo tributario anche se il diniego di disapplicazione esprime un’irreversibile
determinazione, ma non “si veste” della forma autoritativa degli atti espressamente richiamati
dall'art.19 citato305.
303
Peraltro deve essere evidenziato che tale facoltà era stata pronunciata dalla Corte di Cassazione anche nella
Sentenza n. 3773 del 18 febbraio 2014. Si era affermato che per gli atti per i quali è prevista la possibilità di una
tutela di natura anticipata si deve prevedere la facoltà dell'impugnazione del diniego, potendo contestare la
pretesa in un momento successivo quando diventa atto di forma autoritativa espressamente indicato nell'art. 19
del Decreto Legislativo n.546/1992.
304
CIMINO F. A., Il diniego di disapplicazione della normativa sulle società ed enti non operativi: impugnazione
necessaria o facoltativa?, cit., pag. 749. L'impugnazione facoltativa del diniego appare inoltre coerente con la
struttura impugnatoria presente nel processo tributario, nel quale non è stata mai ammessa un’azione di
accertamento negativa generalizzata ma la si è sempre condizionata alla presenza di un atto.
305
PISTOLESI F., La non obbligatorietà dell'interpello “disapplicativo”, in Corr. trib., 2014, 38, pag. 2932.
L’interpello disapplicativo sostiene l'autore è un atto che orienta il contribuente e che non ha efficacia
imperativa, presupponendo l’esercizio di un’ulteriore attività istruttoria prima che l’Amministrazione adotti un
atto impositivo. Deve quindi essere ammessa la facoltà e non l'obbligatorietà per il contribuente di potere
impugnare o meno il diniego relativo all'inteerpello disapplicativo presentato.
114
Dall’analisi effettuata si può quindi comprendere come la questione sia di non facile
soluzione; secondo la Cassazione Civile il diniego dell’istanza di disapplicazione è un atto
impugnabile a differenza della linea sostenuta dall'Agenzia delle Entrate. L’orientamento della
Suprema Corte non appare univoco dal momento che a sentenze in cui afferma la
cristallizzazione degli effetti derivanti dalla mancata impugnabilità del diniego se ne alternano
altre che parlano di facoltà e non obbligo di impugnazione, anche se nelle più recenti sentenze
ha affermato la “facoltà” dell’impugnazione del diniego.
Alla luce dell’analisi effettuata sembra tuttavia opportuno evidenziare il fatto che se si
ammette l’impugnabilità del diniego disapplicativo, allora si deve anche stabilire non la
facoltà del contribuente ad agire, ma l’obbligatorietà di impugnare la risposta negativa
ricevuta in sede d’interpello. Se il contribuente non si attiva, gli effetti derivanti dal diniego si
cristallizzano e non è poi più permesso fare ricorso contro l’eventuale avviso d’accertamento
emesso successivamente. Se invece si considera non impugnabile la risposta negativa ricevuta
in sede di interpello alla luce del fatto che tale atto esprime un parere e non vincola il
contribuente, allora questo implica che il contribuente può disattendere quanto stabilito dal
Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate ed agire successivamente impugnando
l’eventuale avviso d’accertamento. Si ritiene quindi che questo concetto espresso debba
rappresentare un punto fermo in materia di interpello disapplicativo. Il dibattito rimane
comunque acceso data la complessità della questione, che può essere valutata in modi
differenti a secondo “dell’angolo di visuale” che si decide di osservare e i riflessi che in ogni
caso ha l’istanza di disapplicazione in concreto poi per il contribuente. Quello che ne deriva è
che la disciplina delle società di comodo diventa sempre più una normativa articolata con il
rischio che essa assuma connotazioni abnormi, estranee alla funzione per la quale il
legislatore ha deciso di introdurla nel sistema306.
306
STEVANATO D., Le società di “comodo” tra imposizione cripto-patrimoniale e drigistico utilizzo
extrafiscale del tributo, in STEVANATO D. e LUPI R., Società “di comodo”:dov'è la capacità economica?, cit.,
pag. 1 e ss..
115
CAPITOLO 4
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
In questo ultimo capitolo si effettuano alcune riflessioni conclusive ed alcune considerazioni
relative alla Legge Delega fiscale per il 2014 in materia di società di comodo, alla luce di
quanto analizzato nel presente lavoro.
La disciplina delle società di comodo venne introdotta per disincentivare le strutture societarie
costituite non per lo svolgimento di un’attività economica, ma come contenitori patrimoniali
per intestare i beni, utilizzati per scopi personali dagli stessi soci, alle società inserendoli così
nel regime d’impresa. Di fronte a tale obiettivo il legislatore ha scelto di prevedere un regime
normativo basato sulla predeterminazione del reddito, considerando quindi dei dati di
normalità economica ed identificando come soggetti non operativi, le società che non
rispettano i limiti previsti dalla normativa stessa. Inizialmente venivano identificati come
società di comodo i soggetti che non avevano raggiunto uno specifico livello di ricavi e che
non avevano un determinato numero di lavoratori dipendenti, con la Legge Finanziaria per il
1997 venne invece introdotto il test d’operatività che prevedeva il confronto tra il livello dei
ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi effettivi ed il valore dei ricavi presunti,
ottenuto applicando determinati coefficienti a specifici beni patrimoniali. Se i ricavi effettivi
non superano tale valore predeterminato si è considerati soggetti non operativi. Scatta
l’obbligo quindi di dichiarare un reddito minimo ottenuto sempre attraverso il medesimo
meccanismo applicativo di predeterminazione, le perdite pregresse possono essere utilizzate
in diminuzione solo per la parte di reddito eccedente il minimo, in materia di IRAP sussiste
l’obbligo di dichiarare un valore predeterminato che si basa sul valore del reddito minimo
dichiarato ed infine esistono delle limitazioni anche in campo IVA, relativamente
all’eccedenza di credito che deriva dalla dichiarazione presentata. A partire poi dal 2011
l’ambito d’applicazione della disciplina si è ampliato ulteriormente, includendovi anche i
soggetti che conseguono per tre periodi d’imposta perdite fiscali o che le conseguono per due
periodi a cui si aggiunge un ulteriore anno in cui il reddito dichiarato risulta inferiore a quello
minimo previsto dal comma 3 dell’art. 30 della Legge n. 724/1994. A tal proposito, a partire
dal periodo d’imposta 2014 il periodo d’osservazione per essere ritenuti automaticamente
soggetti non operativi è esteso a cinque periodi d’imposta, nei quali si registrano perdite
fiscali reiterate, come disposto dall’art. 18 del Decreto Legislativo sulle semplificazioni fiscali
n. 175 del 21 novembre 2014, attuativo dell’art. 7 della delega fiscale. Inoltre sempre il
116
Decreto Legge n. 138/2011 ha innalzato l’aliquota IRES per le società di comodo al 38%,
applicabile quindi alle sole società di capitali e non alle società di persone. Di fronte a queste
previsioni il soggetto passivo può essere escluso dalla disciplina perché rientrante in una delle
fattispecie di disapplicazione automatica previste dalla normativa stessa, o dai provvedimenti
emanati dall’Agenzia delle Entrate nel 2008 e nel 2012, o perche è ricorso all’interpello
disapplicativo. In quest’ultimo caso, il contribuente dovrà dare dimostrazione delle oggettive
situazioni che non hanno permesso il conseguimento del livello minimo dei ricavi, degli
incrementi delle rimanenze e dei proventi o del redito minimo prodotto. Si deve quindi
effettivamente dar prova che nonostante i limiti previsti ex-lege non siano stati raggiunti, la
società svolge un’attività produttiva e non è stata costituita come mero contenitore
patrimoniale. In sintesi questi sono i tratti caratterizzanti della disciplina in esame.
Effettuando alcune riflessioni, il legislatore decide di reprime il fenomeno delle società “senza
impresa” non affidandosi al diritto commerciale, ma utilizzando la disciplina fiscale,
introducendo la normativa prevista dall’art. 30 della Legge n. 724/1994, che almeno nelle
intenzioni dichiarate dovrebbe perseguire uno scopo antielusivo. L’obiettivo originario di tale
disciplina era quello di contrastare “l’uso improprio della struttura societaria che, anziché
essere finalizzata all’esercizio produttivo di attività commerciali, viene impiegata per
consentire l’anonimato degli effettivi proprietari dei beni intestati alla società cui si unisce
spesso la deduzione di costi che hanno poco a che fare con l’attività che, (…) dovrebbe essere
svolta dalla società, mentre di fatto detta società si limita alla mera intestazione di beni che
sono tenuti a disposizione dell’effettivo proprietario”307. La disciplina delle società di
comodo, che identifica la non operatività di un soggetto attraverso il confronto dei ricavi
effettivamente
realizzati
con
quelli
presuntivamente
realizzabili,
stabilisce
la
predeterminazione dell’imponibile che viene quantificato rispetto al valore ottenuto
applicando a talune voci patrimoniali specifici coefficienti “apodittici”, che non si basano su
alcuna attendibilità dimostrativa, espressione della discrezionalità del legislatore. Tale scelta
implica che non vengano prese in considerazione le caratteristiche dell’attività esercitata e la
situazione specifica del contribuente, ma in modo automatico si identifica l’operatività o
meno di un soggetto, con il rischio effettivo di poter includere nella disciplina soggetti
realmente operativi, invece di non penalizzare quelli che effettivamente non svolgono alcuna
attività economica, ma che riescono comunque a realizzare dei ricavi tali da superare il test
307
Relazione governativa al d.d.l. di accompagnamento alla Legge Finanziaria per il 1997, in Corr. trib, 1996, 40,
pag. 3102.
117
d’operatività308. Alla singola realtà economico-contabile si sostituisce una realtà normativa
che si basa quindi sul fatto che il contribuente, avendo a disposizione determinati asset
patrimoniali, dovrebbe generare un determinato livello di ricavi presunti. Il contribuente
finisce con l’essere assoggettato a tale disciplina solo perché non ha superato il test
d’operatività, ben potendo essere soggetto operativo a tutti gli effetti. In questo modo viene
meno la personalizzazione del prelievo stabilita dall’art. 53 Cost., che dovrebbe garantire a
ciascun contribuente un trattamento che sia specchio della capacità contributiva a lui
effettivamente ascrivibile. Il passo successivo previsto dalla disciplina, che stabilisce per i
soggetti non operativi la determinazione di un reddito almeno pari a quello minimo
determinato applicando specifici coefficienti al valore dei beni patrimoniali, fa emergere non
solo il problema della predeterminazione del reddito ma anche la questione relativa alla
nozione stessa di reddito, oltre al fatto che viene imputato un reddito ad un soggetto che per
definizione è non operativo. Si pone cioè a tassazione non l’incremento della ricchezza
ascrivibile al contribuente, ma il reddito presuntivamente ottenibile, basandosi sul patrimonio
del soggetto passivo, quale grandezza statica e non dinamica. In questo modo l’imposizione
delle società di comodo presenta una natura sostanzialmente patrimoniale, dal momento che ci
si basa sulla mera disponibilità di determinati asset patrimoniali, prevedendo che
all’aumentare del loro valore aumenti anche la redditività stessa presunta dal legislatore.
Viene meno quindi l’imposizione sul reddito, quale grandezza dinamica che coglie la
ricchezza prodotta dal soggetto passivo in un determinato periodo d’imposta. Si sottopone a
tassazione il reddito basandosi sui valori patrimoniali posseduti dalla società, con il rischio di
attribuire al soggetto passivo un imponibile che si allontana notevolmente dalla ricchezza
effettivamente prodotta nel periodo d’imposta. Emerge quindi un problema relativo all’indice
di capacità economica scelto dal legislatore, che è rappresentato appunto dalla disponibilità
dei beni patrimoniali e dalla redditività che ne dovrebbe derivare. Ci si allontana dal rispetto
del principio di capacità contributiva stabilito dall’art. 53 Cost. sia per quanto concerne la
personalizzazione del tributo, che dovrebbe rispettare l’idoneità soggettiva alla contribuzione,
sia in relazione all’effettività dell’arricchimento, ben potendo essere sottoposta a tassazione
una ricchezza fittizia stabilita dal legislatore e che non rispecchia minimamente la situazione
oggettiva del contribuente. In sostanza la disciplina delle società di comodo prevede
“un’integrazione della tassazione reddituale con un prelievo sul patrimonio”309 in modo tale
308
TOSI L., Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale. Contributo alla trattazione sistematica
dell’imposizione su basi forfettarie, cit., pag. 364.
309
SCHIAVOLIN R., Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, in AA.VV., Le
118
che in ogni caso si concorra alle spese pubbliche, basandosi appunto sugli elementi dell’attivo
patrimoniale e a prescindere dal fatto che la società abbia generato utile o meno, sganciandosi
completamente dalla tassazione in termini di capacità contributiva. Si rischia quindi non solo
di tassare ricchezza creata appositamente dal legislatore, ma di incidere sulla disponibilità
economica del contribuente stesso, facendo così emergere la potenzialità confiscatoria
dell’imposta. E’ questo l’impianto normativo delle società di comodo, nel quale le criticità
sono riscontrabili all’origine stessa della disciplina, in relazione sia alla scelta della
predeterminazione forfettaria del reddito, sia alla natura stessa del reddito imputabile alla
società di comodo che si basa sul valore patrimoniale di determinati asset. La disciplina nel
corso del tempo ha subito continue modifiche che hanno riguardato il cambiamento del valore
dei coefficienti applicabili ai beni patrimoniali per la determinazione dei ricavi presunti e del
reddito minimo, le cause d’esclusione e di disapplicazione automatica della normativa, in
relazione a specifiche situazioni o indici rappresentativi del fatto che la società non viene
utilizzata come schermo societario per la gestione del patrimonio dei soci. Tuttavia il dato di
fondo è che l’impianto normativo del legislatore non si è focalizzato sul verificare
concretamente che la società effettui un’attività economico-produttiva e che non venga
utilizzata invece come schermo societario per gestire il patrimonio dei soci. Si è delineata
sempre più una normativa articolata di non facile applicazione, il cui obiettivo iniziale postosi
dal legislatore ha finito invece per penalizzare le realtà effettivamente operative, ma che non
sono in grado di raggiungere le soglie di ricavi e di reddito previste ex lege. Una svolta in
senso negativo è stata data inoltre dall’eliminazione del contradditorio anticipato presente fino
al 2006, necessario perché l’Amministrazione Finanziaria potesse emettere un eventuale
avviso d’accertamento inerente alla situazione di non operatività della società, a cui ha fatto
seguito l’introduzione dell’interpello disapplicativo. In questo modo si è inciso sul diritto di
difesa del contribuente e l’automaticità posta a base della disciplina della non operatività
risulta ancora maggiore. Il contribuente deve lui stesso agire per poter dimostrare le oggettive
situazioni che identificano il non raggiungimento dei limiti stabiliti dal legislatore e quindi il
fatto che la società è realmente operativa. In merito all’interpello sono sorte non poche
problematiche, dal momento che nonostante la previsione legislativa parli di possibilità per il
contribuente di attivare tale procedura, l’Amministrazione Finanziaria la ritiene obbligatoria e
fino al 2010 affermava inoltre che non era impugnabile l’avviso d’accertamento emesso, se in
precedenza non era stato richiesto l’interpello disapplicativo. Il contribuente deve essere
società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 67.
119
libero di presentare l’istanza di disapplicazione, potendo fornire la prova contraria in qualsiasi
momento e non necessariamente preventivamente. Riguardo poi all’eventuale risposta
negativa ricevuta in sede d’interpello, si pone un duplice problema riguardante da un lato il
fatto che esso rappresenti o meno un atto autonomamente impugnabile, non essendo compreso
negli atti impugnabili espressamente previsti dall’art. 19 del Decreto Legislativo n. 546/1992,
e dall’altro lato se l’impugnazione del diniego sia facoltativa o obbligatoria. A tal proposito la
Corte Suprema non detiene una linea d’indirizzo univoca, alternando sentenze nelle quali
afferma l’obbligatorietà dell’impugnazione del diniego disapplicativo ad altre in cui stabilisce
la facoltà dell’impugnazione. Appare condivisibile ritenere innanzitutto che l’interpello
disapplicativo debba essere identificato come una possibilità concessa al contribuente che in
via preventiva vuole attivarsi e non un obbligo, potendo essere data dimostrazione della reale
operatività della società anche successivamente, qualora venga emesso un avviso
d’accertamento. Inoltre in relazione al fatto che la risposta negativa ricevuta in sede di
interpello disapplicativo sia un atto impugnabile o meno, sembra opportuno affermare che
qualora si ritenga impugnabile il diniego disapplicativo, allora tale impugnazione non può
risultare facoltativa, è obbligatoria e la mancata presentazione ne cristallizza in modo
definitivo gli effetti. Quindi se si ammette l’impugnabilità essa è obbligatoria ed il
contribuente che non si attiva perde la possibilità di agire successivamente in sede di ricorso
contro l’avviso d’accertamento emanato. Se invece si sostiene che la risposta ricevuta a
seguito dell’istanza disapplicativa rappresenti un parere non vincolante per il contribuente e
che il diniego disapplicativo non si esplichi in un atto impugnabile, allora sembra corretto
stabilire che il contribuente possa disattendere quanto stabilito dall’Amministrazione
Finanziaria ed agire in una fase successiva a seguito dell’avviso d’accertamento
eventualmente emesso. Queste brevi considerazioni sull’interpello disapplicativo mettono in
risalto che l’introduzione di questo strumento ha reso ancora più complessa la disciplina
dell’art. 30 della Legge n. 724/1994, oltre al fatto che tale modifica, rispetto all’obbligatorietà
precedente del contradditorio anticipato, ha inciso sulla possibilità di difesa del contribuente.
Col trascorrere del tempo la normativa delle società di comodo si è distanziata sempre più
dall’obiettivo di contrastare le società utilizzate come contenitori patrimoniali e i continui
correttivi che sono stati introdotti non sono riusciti a cogliere i profili di irragionevolezza
insiti nella disciplina. Questi ultimi si sono resi ancora più evidenti con le modifiche apportate
nel 2011, che dimostrano il ricorso del legislatore alla disciplina come strumento
intimidatorio, per reperire gettito ma non per colpire i soggetti che realmente non svolgono
attività imprenditoriale. L’ampliamento della normativa tout court ai soggetti in perdita
120
sistematica per più periodi d’imposta, evidenzia ancora una volta l’automatismo di tale
normativa e la conseguenza di includere tra le società di comodo i soggetti che si trovano in
crisi economica e che sono però realmente operativi. Per quanto riguarda poi l’innalzamento
dell’aliquota IRES al 38% è difficile trovare una valida ragione giustificatrice, quello che
risulta chiaro è la disparità di trattamento soprattutto all’interno delle stesse società non
operative, dato che solo le società di capitali sono colpite da tale maggiorazione. Tale
intervento ha accentuato “i profili di irrazionalità della disciplina che appare ormai un
prelievo selettivo, sganciato da ogni logica e coerenza, ed esclusivamente finalizzato al
reperimento del gettito a tutti i costi”310. L’evoluzione della disciplina dell’art. 30 della Legge
n. 724/1994 è giunta ad assumere dei connotati che sono estranei alla stessa logica per cui era
stata inserita. A fronte dell’obiettivo di contrastare le strutture societarie che non svolgono
attività economico-produttiva, costituite per poter trarre vantaggio dai beni inseriti nel regime
d’impresa, ma utilizzati personalmente dai soci, si è giunti a delineare una disciplina che è
difficilmente inquadrabile come specifica norma antielusiva o antievasiva. Accanto
all’originaria ratio antielusiva di contrasto all’abuso delle strutture societarie utilizzate come
contenitori patrimoniali, si è di fronte ad una struttura impositiva che collega a determinati
beni patrimoniali una presunzione di fruttuosità minima, in relazione al fatto che i costi
deducibili all’interno del reddito d’impresa risulterebbero invece indeducibili qualora i beni
fossero intestati direttamente ai soci, che declina in una forma di imposizione patrimoniale. In
sostanza la disciplina delle società di comodo nonostante preveda che il tributo pagato dai
soggetti non operativi sia formalmente commisurato al reddito, in realtà incide direttamente
sul capitale produttivo, attingendo al patrimonio. Per “frenare” l’abuso delle strutture
societarie utilizzate come meri contenitori patrimoniali, il legislatore ha scelto di non
rivolgersi al diritto commerciale, ma di ricorrere al diritto tributario, stabilendo una sanzione
fiscale per una violazione civilistica. A tal proposito rimane di fondo l’interrogativo di tale
scelta e di quale relazione ci debba essere tra una penalizzazione tributaria e gli utilizzi
impropri dello schermo societario per attività di mero godimento. L’intento originario di
penalizzare le società “senza impresa” con il tempo si è smarrito, si è creata di fatto una
disciplina sempre più complessa e disorganica che penalizza non tanto le società utilizzate
come schermi societari ma i soggetti realmente operativi. Tale regime di tassazione risulta
totalmente estraneo alle logiche dell’imposta personale sul reddito, contrastando con i principi
di uguaglianza e di capacità contributiva.
310
STEVANATO D., Società “di comodo”: un capro espiatorio buono per ogni occasione, cit., pag. 3889.
121
In questo contesto di criticità si inserisce la Legge Delega per la riforma fiscale n. 23 dell’11
marzo 2014, la quale all’art. 12, comma 1, lett. d) ha previsto la “revisione, razionalizzazione
e coordinamento della disciplina delle società di comodo e del regime dei beni assegnati ai
soci o ai loro familiari (…)con l’obiettivo di evitare vantaggi fiscali derivanti dall’uso di
schermi societari per l’utilizzo di beni aziendali o di società di comodo (…)”311. Il legislatore
ha quindi stabilito che si debba procedere a revisionare tale normativa che, come si è cercato
di mettere in risalto, è diventata una disciplina sempre più complessa e disarticolata che porta
alla penalizzazione, non tanto dei soggetti che utilizzano le strutture societarie come degli
schermi per finalità extra-imprenditoriali, ma delle società realmente operative che non
riescono a superare il test d’operatività o che si trovano in difficoltà economica, perseguendo
risultati negativi per più periodi d’imposta. Le modifiche apportate nel 2011 hanno
ulteriormente peggiorato l’impianto normativo delle società di comodo, allontanandolo
sempre più dal fine originario per cui tale disciplina era stata introdotta. Tale intervento è stato
definito privo di “valutazione economica effettiva che [avesse] sufficiente coerenza logicosistematica”312, in relazione al tentativo di dare dei segnali di credibilità dell’Italia nel periodo
nel quale lo spread aveva raggiunto dei livelli elevatissimi. L’allontanamento dal rispetto dei
principi costituzionali d’uguaglianza e capacità contributiva è sempre più evidente, quindi
l’inserimento nella delega fiscale di un intervento in materia di società di comodo rappresenta
un passaggio per certi versi obbligatorio, alla luce proprio delle problematiche che sono state
esaminate in merito a tale normativa. Tuttavia il legislatore, come si può comprendere
dall’articolo citato ha previsto una sorte di “delega in bianco”, dal momento che in modo
generico si afferma la revisione e razionalizzazione del sistema normativo delle società di
comodo, ma non vengono stabiliti dei chiari principi e dei criteri direttivi cui il delegato, cioè
il Governo, deve uniformarsi, tranne precisare che si vuole evitare la possibilità di trarre
vantaggi fiscali dall’uso degli schermi societari. E’ proprio su questo punto che allora sembra
utile porsi degli interrogativi e riflettere sulla via da intraprendere per modificare
effettivamente tale disciplina, riconducendola ad effettiva norma di contrasto per le società
che non svolgono alcuna attività economico-produttiva ed allineandola al rispetto dei principi
costituzionali previsti dall’art. 3 e 53 della Carta Fondamentale. Mantenendo l’istituto basato
311
Come descritto in precedenza una prima modifica riguardante le società in perdita sistematica, le quali a
partire dal periodo d’imposta 2014 sono ritenute “società di comodo”, dopo cinque anni di perdite fiscali
reiterate e più non dopo tre anni, è avvenuta con l’emanazione del Decreto Legislativo sulle semplificazioni
fiscali.
312
MARRONE F., Le società di comodo sono diventate un espediente per incrementare il gettito
indipendentemente dalla manifestazione di capacità economica?, in DAMIANI M., MARRONE F. e LUPI R.,
Società “non operative” e determinazione della ricchezza, cit., pag. 262.
122
sulla predeterminazione del reddito e sul rapporto tra asset patrimoniali e valore dei ricavi
effettivamente realizzati, si potrebbe razionalizzare la disciplina rivedendo il valore dei
coefficienti applicabili ai beni patrimoniali ed estendendo le cause di esclusione e di
disapplicazione automatica313. Tuttavia è evidente che agendo in questo modo resta comunque
invariato il dato di fondo, non si modificano i presupposti errati posti a base della disciplina. Il
soggetto passivo continua ad essere tassato in base ad un reddito ipoteticamente producibile e
non sull’indice di ricchezza a lui effettivamente ascrivibile. Inoltre il reddito imponibile deve
essere espressione dell’incremento di ricchezza avvenuto in un determinato periodo d’imposta
e non della presunta redditività del valore patrimoniale dei beni, proprio perché il reddito è
una grandezza dinamica e non statica, quale risulta essere invece il patrimonio. Procedendo in
questa direzione, che appare quindi difficilmente condivisibile, è stato ipotizzato314 che il
coefficiente del 6% da applicare attualmente al valore degli immobili per il calcolo dei ricavi
figurativi da confrontare con quelli effettivamente realizzati, dovrebbe essere ridotto al 4%
per tutti gli immobili acquistati o rivalutati negli ultimi dieci anni. Attualmente tale
coefficiente ridotto è imputabile solo agli immobili abitativi acquistati o rivalutati nell’ultimo
triennio. Inoltre seguendo questa linea si potrebbero effettuare delle modifiche anche per
quanto concerne le cause d’esclusione e di disapplicazione automatica. Partendo dal
presupposto che la disciplina prevista nel 1994 è stata introdotta per contrastare le società
costituite non per svolgere attività imprenditoriale ma per gestire il patrimonio dei soci, e che
secondo quanto stabilito dall’Amministrazione Finanziaria la si applica anche alle società che,
sebbene costituite non per finalità antielusive, non svolgono in concreto alcuna attività
d’impresa, prive di obiettivi imprenditoriali immediati315, ci si può trovare di fronte all’ipotesi
di una società che nonostante non ricada in tali fattispecie sia comunque considerata di
comodo perché non supera il test d’operatività. Può essere l’esempio di una società che ha
concesso in affitto l’unica azienda posseduta e che non riesce a realizzare ricavi tali da
superare la soglia della non operatività, ricedendo quindi nella disciplina delle società di
comodo. Tale casistica è inoltre esclusa dall’applicazione degli studi di settore in relazione
alla specificità della situazione. E’ stato quindi affermato che il legislatore dovrebbe incidere
nell’ipotesi specifica dell’affitto dell’unica azienda, prevedendone l’esclusione dalla
normativa e stabilendo in generale che, come la coerenza e la congruità agli studi di settore
313
FERRANTI G., La revisione della disciplina delle società di comodo e dei beni in godimento ai soci, cit., pag.
1911; MENEGHETTI P., L’evoluzione della normativa sulle società di comodo, in Corr. trib., 2014, 20, pag.
1522.
314
Si veda a tal proposito MENEGHETTI P., L’evoluzione della normativa sulle società di comodo, in Corr. trib.,
2014, 20, pag. 1522.
315
Circolare Agenzia delle Entrate n. 7/E del 29 marzo 2013, par. 6.
123
implica la non applicazione della disciplina della non operatività, allo stesso modo tale
disapplicazione deve valere anche quando gli studi di settore non devono proprio essere
effettuati316. Per quanto concerne poi le società in perdita sistematica appare contradditorio
che si applichi la disciplina tout court nel quarto periodo d’imposta e a partire dal 2014 nel
sesto periodo d’imposta, anche se proprio in quell’anno la società risulta aver superato il test
d’operatività. Dovrebbe essere presa in considerazione tale ipotesi e non applicare l’art. 30
della legge n. 724/1994 perché si è di fronte ad una penalizzazione iniqua. Inoltre appare
contradditorio anche il fatto che le cause di disapplicazione individuate dal Provvedimento
dell’Agenzia delle Entrate del 2012 si applichino solo con riferimento al triennio
d’osservazione. Questo significa che se la causa di disapplicazione si manifesta nell’anno in
cui la società dovrebbe essere considerata società di comodo in relazione alla reiterazioni
delle perdite conseguite, essa non rileva e questo risulta contradditorio317. Sempre con
riferimento poi alle perdite sistematiche, un’evidente penalizzazione riguarda le società che si
occupano di trading di immobili, che costruiscono immobili destinati alla vendita, ma che
spesso non sono in grado di cedere a causa della crisi che ha colpito in modo pesante il settore
dell’edilizia negli ultimi anni. In questi specifici casi la società non genera ricavi, sostiene dei
costi e quindi possono essere generate perdite, che se reiterate finiscono col portare la società
nel canale della non operatività. Sotto questo punto di vista la modifica apportata dal Decreto
Legislativo sulle semplificazioni, relativa all’estensione del periodo d’osservazione delle
perdite fiscali conseguite a cinque anni, sembra rappresentare una soluzione a queste
problematiche. Tuttavia anche tale scelta appare inadeguata, resta il fatto che trascorsi quei
determinati anni stabiliti dal legislatore, si è considerati automaticamente soggetti non
operativi prescindendo dalle reali condizioni in cui versa il soggetto passivo. Sebbene la
presenza di perdite fiscali reiterate possa far sorgere il dubbio legittimo di verificare la reale
condizione economica della società, ben altro impatto ha l’identificazione automatica del
soggetto come società di comodo. La società strutturalmente in perdita non per forza
“costituisce una forma di utilizzo improprio della strumentazione offerta dal reddito
d’impresa e non è certo rilevatrice, a priori, di situazioni di evasione o elusione”318. Inoltre se
si considera il fatto che l’art. 24, comma 1, del D.L. 78/2010, ha stabilito che ci sia una
“vigilanza sistematica, basata su specifiche analisi di rischi” per le società in perdita fiscale
316
FERRANTI G., La revisione della disciplina delle società di comodo e dei beni in godimento ai soci, cit., pag.
1911.
317
MENEGHETTI P., L’evoluzione della normativa sulle società di comodo, cit., pag. 1522.
318
SBROIAVACCA A., La necessità di valutare le predite alla luce del settore economico d’appartenenza, in
STEVANATO D. e SBROIAVACCA A., Società in perdita sistematica e tassazione degli utili inesistenti, una
bomba ad orologeria da disinnescare, cit., pag. 502.
124
per più di un periodo d’imposta, si potrebbe prevedere che tale istituto sia sufficiente a
contrastare i comportamenti antieconomici ed eliminare l’estensione della normativa ai
soggetti in perdita sistematica.
Al di là di queste modifiche volte a razionalizzare la disciplina vigente delle società di
comodo, il legislatore per riuscire a “colpire” in modo più incisivo il fenomeno dell’abuso
dello strumento societario utilizzato per finalità extra-imprenditoriali, dovrebbe effettuare un
passo decisivo eliminando interamente la normativa attuale delle società di comodo.
Nonostante le “cuciture migliorative” che si possono inserire, rimane una normativa
complessa, disorganica ed evidente è la collisione di fondo con il rispetto dei principi
costituzionali di uguaglianza e di capacità contributiva. E’ stato ipotizzato che di fronte
all’effettiva mancanza di un’attività economico-produttiva ed all’inesistenza di una reale
struttura societaria, indici dell’utilizzo improprio della forma societaria, tali società non
genererebbero reddito d’impresa, equiparando il regime delle società di comodo a quello delle
persone fisiche, nonostante la loro forma commerciale319. In questo modo verrebbe
disconosciuta in primis la deducibilità dei costi, che rappresenta il fatto principe per cui si
decide di intestare beni personali alle società e l’imposizione avverrebbe a carico dei soci,
attraverso la tassazione progressiva IRPEF. Sempre secondo questa linea si potrebbe inoltre
stabilire lo scioglimento agevolato delle società attualmente definite di comodo, come è stato
già attuato in passato; tale previsione risulta in linea con il fatto di ricondurre l’intestazione
dei beni alle persone fisiche che li utilizzano320. Tuttavia in modo critico ci si pone
l’interrogativo su come possano essere considerate inopponibili tali strutture societarie
all’Amministrazione Finanziaria e cioè in base a quale criterio verrebbe disconosciuto il
regime del reddito d’impresa, se facendo riferimento alla disposizione antielusiva prevista
dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, che però si applica ad un elenco tassativo di
operazioni, o se utilizzando il principio del divieto dell’abuso di diritto; oltre al fatto che
agendo in questa direzione ci si colloca però sempre all’interno della disciplina tributaria.
Sembra più opportuno invece focalizzare l’attenzione sul motivo per cui il legislatore ha
deciso di porre rimedio alle società “senza impresa” attraverso la disciplina fiscale e non
invece affidandosi al diritto commerciale, rappresentando tale fenomeno una violazione
civilistica della struttura societaria non costituita per il reale svolgimento di un’attività
319
Così NUSSI M., La disciplina delle società di comodo tra esigenze di incentivazione e rimedi incoerenti, cit.,
pag.491; FERRANTI G., La revisione della disciplina delle società di comodo e dei beni in godimento ai soci,
cit., pag. 1911.
320
FERRANTI G., La revisione della disciplina delle società di comodo e dei beni in godimento ai soci, cit., pag.
1911.
125
economica. L’utilizzo dello strumento fiscale per finalità extrafiscali può essere legittimo a
condizione però che l’imposizione colpisca reale indici di capacità contributiva; essa non può
risultare una forma espropriativa di tassazione e ed i principi costituzionali devono essere
tutelati. Il principio di capacità contributiva espresso dall’art. 53 della Costituzione deve
sempre rappresentare il presupposto, il parametro ed il limite per ogni forma di imposizione e
questo non si verifica per la normativa delle società di comodo. Il ricorso alla disciplina
fiscale per sanzionare una violazione civilistica relativa all’utilizzo distorto delle strutture
societarie non rappresenta lo strumento adeguato come deterrente, alla luce del rispetto stesso
del principio di capacità contributiva. In modo ancora più drastico si potrebbe pensare di
rimuovere dall’origine “il vizio” delle strutture societarie che non svolgono una reale attività
economico-produttiva, non solo eliminando l’intera disciplina fiscale ma affidando al diritto
commerciale la risoluzione dell’utilizzo delle società quali meri contenitori patrimoniali,
prevedendo magari l’inserimento di un’apposita disposizione civilistica che colpisca il
fenomeno fin dalla sua nascita.
L’auspicio è che il legislatore colga davvero l’occasione fornita dalla delega fiscale per
incidere sulla disciplina delle società di comodo, sempre consapevole del fatto che la
discrezionalità legislativa non può superare il limite del rispetto di capacità contributiva
dell’art. 53 della Costituzione a prescindere dalle necessità di gettito.
126
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