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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVA DIPARTIMENTO DI SCIENZE ECONOMICHE E AZIENDALI “M.FANNO” DIPARTIMENTO DI DIRITTO PUBBLICO INTERNAZIONALE E COMUNITARIO CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN ECONOMIA E DIRITTO TESI DI LAUREA “SOCIETA’ DI COMODO” ED IMPOSIZIONE SUL REDDITO: QUESTIONI STRUTTURALI E PROBLEMI APPLICATIVI RELATORE: CH.MO PROF. MARCELLO POGGIOLI LAUREANDA: ERICA DAMINATO MATRICOLA N. 1058899 ANNO ACCADEMICO 2014 – 2015 Alla mia famiglia INDICE Introduzione .............................................................................................................................. 1 Capitolo 1: Disciplina delle società di comodo: excursus normativo e questioni strutturali ................................................................................................................................. 4 1.1 Breve inquadramento delle società di comodo dal punto di vista civilistico ................... 4 1.2 L’articolo 30 della Legge n. 724 del 1994 nella sua versione originale ........................... 7 1.3 Le modifiche apportate nel tempo alla normativa in esame ........................................... 13 1.3.1 Cenni relativi all’assegnazione dei beni in godimento a soci e familiari ed all’indeducibilità dei relativi costi per l’impresa ............................................................ 20 1.4 “Società di comodo” e “società non operative”: termini differenti per descrivere lo stesso fenomeno? .................................................................................................................. 28 1.5 La disciplina delle società di comodo: normativa antielusiva, antievasiva o imposta patrimoniale?......................................................................................................................... 33 1.6 Il coordinamento della disciplina delle società di comodo con i principi costituzionali d’uguaglianza e di capacità contributiva. Quali difficoltà? .................................................. 39 1.6.1 L’importanza dell’articolo 3 e dell’articolo 53 della Costituzione nel diritto tributario .......................................................................................................................... 39 1.6.2 Società di comodo e il principio di capacità contributiva ...................................... 45 1.6.3 Le modifiche apportate nel 2011 alla disciplina delle società di comodo: qualche altra considerazione sul rispetto dei principi costituzionali ............................................ 48 Capitolo 2: Analisi dell’ambito applicativo ed ipotesi a base della normativa delle società di comodo ............................................................................................................................... 56 2.1 Soggetti interessati dalla disciplina delle società di comodo: ambito soggettivo d’applicazione e tipologie di società non annoverate nella predetta normativa ................... 56 2.2 Test d’operatività ............................................................................................................ 60 2.2.1 Il valore dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi medi effettivi ............................................................................................................................ 60 2.2.2 L’applicazione delle percentuali per il calcolo dei ricavi medi presunti ............... 62 2.2.3 Alcune considerazioni relative al confronto tra ricavi medi effettivi e presunti .... 68 2.3 Cause d’esclusione e di disapplicazione automatica della normativa in esame ............. 72 2.3.1 Le cause d’esclusione............................................................................................. 72 2.3.2 Le cause di disapplicazione automatica introdotte nel 2008 e nel 2012 ................ 78 Capitolo 3: Conseguenze fiscali per le società risultanti non operative ed attivazione dell’interpello disapplicativo ..................................................................................................83 3.1 La predeterminazione di un reddito minimo ai fini delle imposte dirette .......................83 3.1.1 Le percentuali applicabili per il calcolo del reddito minimo ..................................84 3.1.2 L’utilizzo delle perdite pregresse ...........................................................................89 3.2 La possibile via d’uscita dal regime normativo delle società di comodo: l’interpello disapplicativo.........................................................................................................................92 3.2.1 Dalla previsione del contraddittorio anticipato all’interpello disapplicativo .........93 3.2.2 La sussistenza di oggettive situazioni che non hanno permesso il conseguimento del livello minimo dei ricavi e del reddito .......................................................................95 3.2.3 Riflessioni sulle problematiche relative al procedimento disapplicativo previsto per le società di comodo ................................................................................................103 Capitolo 4: Riflessioni conclusive ........................................................................................116 Bibliografia ............................................................................................................................127 INTRODUZIONE Il tema delle “società di comodo” impegna l’interprete in una molteplicità di fronti. Il primo e più difficile consiste nel fotografarne l’esatta funzione. Intendo richiamare, già dalla presentazione del mio lavoro, l’estrema difficoltà di raccordare le numerose modifiche che sono state apportate dal legislatore all’impianto legislativo iniziale (Legge n. 724/1994) con un’unica, univoca e chiara impostazione funzionale (“ratio” o “ragion d’essere”, che dir si voglia). Di ciò parlerò diffusamente nelle pagine seguenti. Mi basta nell’avviare l’elaborato, ricordare che la disciplina delle “società di comodo” poggia su un difficile connubio di fondo: in sostanza, una disciplina di matrice fiscale viene “piegata” dal legislatore per conseguire delle finalità extra-fiscali. Peraltro, è appena il caso di rammentare come la disciplina delle “società non operative” fosse stata introdotta al fine di contrastare “l’uso improprio della struttura societaria che, anziché essere finalizzata all’esercizio produttivo di attività commerciali, viene impiegata per consentire l’anonimato degli effettivi proprietari dei beni intestati alla società cui si unisce spesso la deduzione di costi che hanno poco a che fare con l’attività che, (…) dovrebbe essere svolta dalla società, mentre di fatto detta società si limita alla mera intestazione di beni che sono tenuti a disposizione dell’effettivo proprietario”1. Come si può comprendere da quanto riportato nella relazione accompagnatoria ad uno dei primi provvedimenti legislativi di modifica, con il presente istituto il legislatore mirava a contrastare l’utilizzo improprio delle forme societarie, costituite non per svolgere un’attività economica produttiva, bensì per fungere da intestatarie di determinati beni i cui effettivi proprietari erano in realtà i soci, che li utilizzavano nella propria sfera privata. La società risulta quindi “non operativa” se non supera il test d’operatività o se si trova nella condizione di aver prodotto delle perdite fiscali per un determinato arco di tempo; questa situazione implica la predeterminazione di un imponibile, che risulta il frutto dell’applicazione di determinate percentuali a specifici asset patrimoniali. Si crea quindi un reddito minimo “calato dall'alto”2, la cui natura è notevolmente differente rispetto alla determinazione del reddito d’impresa stabilita nel Testo Unico delle Imposte sui Redditi. L’impianto che ne deriva complessivamente è una legislazione di contrasto e deterrenza la cui finalità è oggetto di differenti interpretazioni, venendo considerata non solo come disciplina antievasiva ma anche antielusiva, nonché come un’implicita forma di imposizione patrimoniale, con il rischio 1 Relazione governativa al d.d.l. di accompagnamento alla Legge Finanziaria per il 1997, in Corr. trib, 1996, 40, pag. 3102. 2 BEGHIN M., Diritto Tributario. Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, Torino, 2013, pag. 620. 1 di penalizzare le società che effettivamente utilizzano i beni nella propria attività economica. La normativa relativa alle “società di comodo” è stata introdotta come detto con la Legge n. 724 del 1994 e nel corso del tempo ha subito continue modifiche, che evidenziano, non il miglioramento di uno strumento accertativo di natura forfettaria, bensì l’utilizzo di norme fiscali per il raggiungimento di obiettivi di politica finanziaria ed economica. La disciplina delle “società non operative” appare quindi complessa ed articolata; un aspetto rilevante è rappresentato dalla compatibilità della normativa con i principi costituzionali quali il diritto d’uguaglianza ed il rispetto della capacità contributiva. Con il presente lavoro si analizza quanto previsto dalla disciplina in esame, tenendo in considerazione le implicazioni dal punto di vista del rispetto dei principi della Carta Fondamentale; l’attenzione viene focalizzata sul profilo delle imposte dirette, accennando solo agli effetti sull’imposta sul valore aggiunto e sull’imposta regionale sulle attività produttive, data la vastità dell’argomento. In particolare nel primo capitolo viene inquadrato il fenomeno delle “società di comodo”, sottolineando come nel Codice Civile non esista una definizione specifica e come tale istituto venga utilizzato dal legislatore come strumento di politica fiscale per fini civilistici; si riporta la normativa nella sua versione originale evidenziando le modifiche avvenute nel corso del tempo. In particolare nel 2011 sono state apportate delle modifiche alla normativa in esame, prevedendo l’automatica applicazione della disciplina delle “società di comodo” in caso di perdita sistematica ed innalzando l’aliquota IRES al 38%, ampliando ulteriormente la platea dei soggetti interessati e rendendo l’istituto maggiormente complesso e disorganico. Inoltre è stato previsto un apposito regime per i beni d’impresa assegnati a soci e familiari ed alla relativa indeducibilità di tali costi per l’impresa, di cui si fa qualche accenno. La Legge Delega3 per la riforma fiscale di Marzo 2014 ha previsto in modo generico una razionalizzazione e revisione della disciplina della “non operatività”. Una prima modifica relativa alle società in perdita sistemica ritenute automaticamente “società di comodo” è già avvenuta con l’emanazione del Decreto Legislativo sulle semplificazioni fiscali, n.175 del 21 novembre 2014. Dopo questo excursus normativo si procede ad effettuare alcune considerazioni riguardanti i termini “società di comodo” e “società non operative”; tali termini, usati alternativamente, possono essere rappresentativi dello stesso fenomeno, ma con alcune sfumature differenti. Si analizza inoltre la ratio di tale disposizione definita apparentemente dal legislatore come norma antielusiva e si fanno alcune considerazioni 3 Legge 11 marzo 2014, n. 23. 2 riguardanti il rispetto del principio di capacità contributiva e di uguaglianza per la disciplina delle “società di comodo”. Si passa poi al secondo capitolo, nel quale si analizzano i soggetti interessati dalla disciplina, le cause d’esclusione e di disapplicazione automatica e l’ipotesi alla base di questo istituto, cioè il mancato superamento del test d’operatività, che deriva dal confronto tra i ricavi medi effettivi e quelli presunti, calcolati con riferimento a determinate voci patrimoniali. Il terzo capitolo evidenzia le conseguenza fiscali per le “società di comodo”, le quali una volta entrate nel canale della “non operatività”, sono obbligate a dichiarare un reddito minimo predeterminato e possono usufruire del regime del riporto delle perdite solo per la parte reddituale che eccede il minimo stabilito. Viene affrontata poi la tematica della possibile via d’uscita dal regime della “non operatività” attraverso l’istanza dell’interpello disapplicativo; quest’ultimo fino al 2010 è stato considerato dall’Amministrazione Finanziaria come l’unico strumento permesso e necessario per poter impugnare l’eventuale avviso d’accertamento emesso successivamente. Il punto d’arrivo di tale approfondimento è rappresentato dal quarto capitolo, dove si fanno alcune considerazioni conclusive, con l’auspicio che il legislatore, partendo da quanto previsto dalla Legge Delega, decida effettivamente di rivedere l’intero istituto delle società di comodo, consapevole delle difficoltà di coordinamento dell’attuale disposizione con alcuni tasselli fondamentali della Costituzione. Soprattutto in un periodo come questo, di congiuntura economica negativa, c’è il rischio di penalizzare chi svolge un’attività economica produttiva e di non riuscire ad eliminare dalla platea le strutture societarie che sono delle reali “scatole vuote”. 3 CAPITOLO 1 DISCIPLINA DELLE SOCIETA’ DI COMODO: EXCURSUS NORMATIVO E QUESTIONI STRUTTURALI SOMMARIO: 1.1 Breve inquadramento delle società di comodo dal punto di vista civilistico - 1.2 L’articolo 30 della Legge n. 724 del 1994 nella sua versione originale - 1.3 Le modifiche apportate nel tempo alla normativa in esame; 1.3.1 Cenni relativi all’assegnazione dei beni in godimento a soci e familiari ed all’indeducibilità dei relativi costi per l’impresa - 1.4 “Società di comodo” e “società non operative”: termini differenti per descrivere lo stesso fenomeno? 1.5 La disciplina delle società di comodo: normativa antielusiva, antievasiva o imposta patrimoniale? - 1.6. Il coordinamento della disciplina delle società di comodo con i principi costituzionali d’uguaglianza e di capacità contributiva. Quali difficoltà?: 1.6.1 L’importanza dell’articolo 3 e dell’articolo 53 della Costituzione nel diritto tributario; 1.6.2 Società di comodo e il principio di capacità contributiva; 1.6.3 Le modifiche apportate nel 2011 alla disciplina delle società di comodo: qualche altra considerazione sul rispetto dei principi costituzionali 1.1 Breve inquadramento delle società di comodo dal punto di vista civilistico Giova iniziare l’esame della disciplina fiscale di comodo prendendo le mosse dalla normativa civilistica. I motivi di tale scelta saranno presto chiari. Il Titolo V del Codice Civile apre con due disposizioni nelle quali il legislatore definisce il contratto di società e la comunione a scopo di godimento. L’art. 2247 del Codice Civile prevede che “con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di dividerne gli utili”; il successivo art. 2248 afferma che “la comunione costituita o mantenuta al solo scopo di godimento di una o più cose è regolata dalle norme [relative alla comunione]”. Nonostante le due fattispecie siano accomunate dalla contitolarità dei rapporti patrimoniali, evidenti sono le differenze dal punto di vista funzionale ed è proprio per questo motivo che alla situazione giuridica del mero godimento si applicano le norme generali sulla comunione dei beni4. Mentre quest’ultima è una situazione giuridica che sorge, secondo quanto stabilito dall’art. 1100 del Codice Civile, “quando la proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più persone (…)” e l’attività dei contitolari è finalizzata e si esaurisce nel godimento dei beni comuni, nel caso di costituzione di società che deriva da un contratto, la contitolarità tra i soci nasce dal desiderio di svolgere un’attività economica potenzialmente in grado di aumentare il valore complessivo del patrimonio sociale5. La differenza tra il contratto 4 Tali norme sono previste dall'art. 1100 del Codice Civile e ss. AA.VV., Diritto delle Società [Manuale breve]. Quarta edizione, Milano, 2008, pag. 15-16. Quindi anche nella comunione è prevista per legge lo svolgimento di un’attività, attività però a contenuto patrimoniale nell’interesse comune attraverso un’organizzazione di gruppo. 5 4 di società e la comunione a scopo di godimento sta proprio nel rapporto beni-attività. Nel contratto di società i beni comuni sono quindi strumentali all'esercizio d'impresa ed hanno funzione servente rispetto all’attività d’impresa; nell'ipotesi della comunione tale rapporto si inverte, dal momento che l'obiettivo è la conservazione dei beni per un migliore godimento individuale, l'attività svolta rappresenta il mezzo per raggiungerlo ed assume una funzione servente rispetto allo scopo dei contitolari. Gli elementi quindi caratterizzanti il contratto di società sono il conferimento di beni da parte dei soci, lo svolgimento di un'attività produttiva e generatrice di nuova ricchezza ed il perseguimento della finalità di lucro6. L'art. 2248 del Codice Civile nel definire la comunione a scopo di godimento, delimita l'ambito di applicazione delle norme relative al contratto di società; è stato quindi fissato il principio che il regime patrimoniale delle società si può applicare solo se i beni sono destinati allo svolgimento di un’attività d’impresa. Non può esistere una società di mero godimento nella quale ci si limita al conferimento dei beni, perché nella nozione di società è infatti implicito l'esercizio di un'attività economica-produttiva7. Di conseguenza nonostante l'appellativo dato dalle parti di contratto di società si dovranno applicare le disposizioni riguardanti la comunione volontaria. L’art. 2248 del Codice Civile deve essere letto nel senso che le società di mero godimento sono vietate, in quanto costituiscono un abuso dell’istituto societario ed è 6 Sembra opportuno accennare, dopo aver definito gli elementi caratterizzanti una società, al problema delle imprese civili ed alla questione se esse possano esistere o meno. Tale categoria non è espressa da alcuna previsione legislativa ed identificherebbe le imprese né agricole né commerciali. In particolare secondo quanto stabilito dal Codice Civile gli elementi che distinguono l’impresa commerciale da quella agricola si collocano nelle prime due categorie d’attività racchiuse nell’art. 2195 Cod. Civ. e cioè nel carattere industriale dell’attività diretta alla produzione ed allo scambio beni o servizi e nell’intermediazione della circolazione dei beni. Per poter identificare l’esistenza delle imprese civili si dovrebbe identificare le due categorie d’attività citate in modo molto restrittivo, si sostiene invece che imprenditore commerciale è ogni imprenditore non agricolo dato che le altre categorie d’attività presenti nell’art. 2195 Cod. Civ. sono comunque delle specificazioni delle prime due. Inoltre ammettere l’esistenza delle imprese civili significherebbe ampliare gli imprenditori sottratti alla disciplina più rigorosa delle imprese commerciali e questo senza alcuna giustificazione sostanziale. Si ritiene preferibile non ammettere l’esistenza di tale terza categoria di impresa e definire impresa commerciale ogni impresa che non è agricola. Non c’ è spazio al di fuori delle imprese commerciali o agricole per altre tipologie d’impresa. Non ammettendo l’esistenza delle imprese civili, questo significa che le società di comodo rientrano tra le società commerciali, sottolineando però il fatto che la società per poter essere definita tale deve presentare le caratteristiche descritte nel paragrafo e cioè svolgere un’attività economica produttiva e perseguire uno scopo di lucro e questo non accade appunto per le società di mero godimento. Emerge quindi il dato di fatto, cioè che il legislatore utilizza lo strumento fiscale per porre rimedio ad una violazione civilistica e l’interrogativo di come potrebbe essere contrastato attraverso lo strumento della disciplina commerciale il fenomeno delle società che si ritengono tali, ma che non svolgono un’attività economica. Non è tuttavia obiettivo del presente lavoro addentrarsi nella disciplina del diritto commerciale ed ipotizzare una soluzione per tale fenomeno. CAMPOBASSO G. F., Diritto commerciale. 1.Diritto dell’impresa. Sesta edizione (a cura di CAMPOBASSO M.), Milano, 2009, pag. 55 e ss.. 7 In dottrina ed in giurisprudenza differenti sono le posizioni assunte a fronte di tale problematica. Si parla sia di nullità del contratto in quanto si è in presenza di elusione della norma imperativa prevista dall’art. 2248 del Codice Civile, che di simulazione dell’atto costitutivo. Come affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 8939 del 1° dicembre 1987, la simulazione comporta non la nullità, ma l’inesistenza del negozio giuridico superando in questo modo lo schermo della personalità giuridica societaria. 5 proprio in questo contesto che si deve inserire l’analisi riguardante la disciplina da applicare alle società di comodo. Esse presentano la forma giuridica delle società commerciali, con un atto costitutivo che annovera lo svolgimento di un’attività economica-produttiva, ma nella realtà perseguono, invece, uno scopo meramente conservativo del patrimonio8. Dalle brevi considerazioni effettuate emerge come nel Codice Civile non sia presente una definizione di società di comodo e non trovi spazio alcuna disposizione specifica per la loro applicazione. Nelle società non operative il contratto sociale prevede lo svolgimento di un’attività produttiva, ma nella realtà i soci conferiscono dei beni finalizzandoli al loro godimento personale. Lo scopo è quello di poter trarre vantaggi fiscali dalla condizione giuridica di tali beni, che costituiscono un patrimonio differenziato da quello personale, applicando la disciplina del reddito d’impresa e strumentalizzando la vis attractiva dell’art. 81 del D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR)9. L’involucro esterno apparente è quello della società, ma nella sostanza si origina una comunione volontaria e questo avviene dichiarando nell’atto costitutivo lo svolgimento di un’attività commerciale; si realizza quindi un abuso dello schermo societario e della persona giuridica10. Il fenomeno delle società di comodo risulta quindi difficilmente inquadrabile nel panorama civilistico ed il legislatore ha scelto di utilizzare lo strumento fiscale per reprimere tali situazioni e per superare lo schermo societario. E’ stata introdotta con la Legge n. 724 del 1994 una disciplina specifica di contrasto alle società non operative: una tassazione dissuasiva per contrastare l’utilizzo distorto dell’involucro societario11. La soluzione adottata in questo modo dal legislatore non è rappresentata da un rimedio civilistico, quale la nullità del contratto posto in essere, ma quella più moderata di scoraggiare le società quali contenitori patrimoniali, attraverso la loro penalizzazione e presunzione di un 8 VIGNOLI A., Le società di mero godimento tra assegnazione agevolata e trasformazione in società semplice, in Rass. trib., 1998, 3, pag.749. Questo fenomeno interessa soprattutto il settore immobiliare dove effettivamente esistono “società di puro godimento”, caratterizzate dall'assenza dell'esercizio di un'attività, provviste di una certa dose di refrattarietà al mercato e, per contro, inclini ad instaurare rapporti con i propri soci. Tuttavia l'utilizzo del termine società immobiliari è rappresentativo di molteplici profili, a partire dalle immobiliari che si occupano della costruzione e vendita dei fabbricati, a quelle che li acquistano per poi rivenderli successivamente o che fungono da intermediarie nella circolazione di tali beni. 9 Tale norma prevede che “il reddito complessivo delle società e degli enti commerciali (…), da qualsiasi fonte provenga, [sia] considerato reddito d’impresa (…)”. 10 DAMIANI M., Società di comodo tra finalità, lacune e proporzionalità dell’assetto normativo, in Corr. trib., 2013, 45, pag. 3554. 11 L'autore NUSSI M. in L'imputazione del reddito nel diritto tributario, Padova, 1996, pag. 527 e ss, identifica tale normativa come una disciplina di dissuasione, che incide sull'effettiva veridicità più che del soggetto, delle operazioni economiche poste in essere; l'intervento legislativo rientra in “(...) una specifica oggettivizzazione regolamentare del fenomeno (...)”. MENTI P., Società semplice di gestione dei beni sociali?, in Giur. comm., 2000, 6, pag. 720. Viene evidenziato che la disciplina prevista dall’art.30 della legge n. 724/1994 costituisce il maggior deterrente alla costituzione ed al mantenimento di società di comodo in funzione elusiva dell’imposizione fiscale. 6 reddito minimo12. Come detto precedentemente l’ordinamento tributario osteggia quindi le società che non perseguono un fine lucrativo poiché potenzialmente autrici di azioni elusive13. Per il legislatore fiscale soltanto se vengono rispettati i requisiti previsti dall’art. 2247 del Codice Civile si può applicare la disciplina del reddito d’impresa, altrimenti la base imponibile rappresentativa della capacità contributiva diventa il patrimonio della società14. L’abuso dello strumento societario sembra apparentemente trovare nel diritto tributario un parziale rimedio con la normativa specifica relativa alle società di comodo, introdotta per sanzionare fiscalmente l’uso civilistico improprio della forma societaria. 1.2 L’articolo 30 della Legge n. 724 del 1994 nella sua versione originale La disciplina delle società non operative è sorta per “penalizzare” sul piano tributario le società “senza impresa”, quelle cioè che al di là dell’oggetto sociale dichiarato vengono 12 L'obiettivo del legislatore come sottolinea CERMIGNANI M., Il regime delle società di comodo: ratio, attualità e prospettive, in Dir. pratica trib., 2011, 2, pag. 1-255, “(...) è quello di ostacolare l'utilizzo incongruo e anomalo dello schermo societario, ossia non per il normale svolgimento di un'attività economica secondo quanto previsto dall'art. 2447 C.C., ma al fine di attuare uno spossessamento formale tra i beni ed i loro proprietari, sottraendo i cespiti patrimoniali fruttiferi al loro regime fiscale naturale ed inserendoli impropriamente nel regime del reddito d'impresa, attribuito in base ad un criterio formale, senza alcuna corrispondenza con l'attività imprenditoriale”. 13 PISTOLESI F., L'interpello per la disapplicazione del regime sulle società di comodo, in Corr. trib., 2007, 37 pag. 2987. 14 PEVERINI L., La natura patrimoniale dell'imposta sulle società di comodo, in PEVERINI L., VIGNOLI A., LUPI R. e STEVANATO D., Società non operative: una patrimoniale mascherata da criterio (contronatura) di determinazione dei redditi, in Dialoghi dir. trib., 2014, 2, pag. 132. Sottolinea l’autore come l’art.30 della legge n. 724/1994 rappresenti una penalizzazione per le strutture societarie che non svolgono un’attività economica produttiva e nonostante il tenore letterale della norma, la presunzione del reddito minimo posta a base della normativa non è volta a quantificare il reddito, ma è invece commisurata al valore delle attività patrimoniali. E’ poi opportuno fare un’ulteriore considerazione. In particolare la disciplina delle società di comodo è stata introdotta per contrastare l’utilizzo delle strutture quali schermi societari, attraverso i quali i soci possono utilizzare direttamente i beni della società per fini personali, rimandando la tassazione IRPEF del reddito di godimento solo all’eventuale distribuzione degli utili societari. Lo schermo societario configurerebbe come una specie di “mano morta”. Con tale termine ed in particolare con l’espressione “imposta di mano morta” si fa riferimento ad un’imposta introdotta nel 1923 che colpiva il reddito del patrimonio degli enti di natura “indefettibile”, che presentavano uno scopo non occasionale e di breve durata , ma duraturo e perseguibile in un futuro indeterminato. Ci si riferiva cioè agli enti morali, quali per esempio gli istituti di carità, di beneficienza, le case religiose e confraternite, gli istituti religiosi, le associazioni, oltre che alle province, ai comuni. Il presupposto base di tale imposta era il fatto che il patrimonio di un ente indefettibile, essendo non trasferibile a causa di morte, non sarebbe stato assoggettato all’imposta sui trasferimenti, per cui si prevedeva tale tassazione proprio in ragione del fatto che altrimenti non sarebbe gravata alcuna imposta con riferimento ai beni di detti enti. Oggetto dell’imposta era la rendita reale o presunta dei beni mobili ed immobili posseduti al fine di ricavarne un reddito pecuniario, esclusi gli immobili destinati all’uso proprio dell’ente. L’aliquota dell’imposta era del 7,20% ridotta allo 0,9% per gli enti che perseguivano uno scopo di carità, beneficienza. Tale imposta venne eliminata con la Legge n. 408/1954. Quindi come i beni di “mano morta” senza tale previsione legislativa non avrebbero scontato alcuna tassazione sui trasferimenti, così lo schermo societario rappresenterebbe il mezzo attraverso quale sarebbe rimandata la tassazione IRPEF del reddito di godimento per il socio che utilizza i beni societari, non per lo svolgimento di un’attività produttiva, ma per fini privati. Si potrebbe così intravedere una somiglianza tra l’imposta di mano morta e la disciplina delle società di comodo, dal momento che entrambe prevedono una tassazione che altrimenti sarebbe stata evitata nel caso degli enti indefettibili e nel caso delle società di mero godimento sarebbe rimandata solo all’eventuale distribuzione degli utili societari. EINAUDI L. e REPACI F. A., Il sistema tributario italiano, Torino, 1954, pag. 292 e ss. 7 costituite non per lo svolgimento di un’attività economica, ma per gestire i patrimoni personali dei soci. Per procedere ad analizzare “il mondo delle società di comodo”, è opportuno iniziare dall'esame della versione originale della normativa introdotta dall'art. 30 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, che già a partire dal 199515 cominciò a subire “i primi rimaneggiamenti”, presentati di seguito. Inizialmente, come si può vedere dal primo comma dell'articolo 30 riportato in nota 16, interessate dalla disposizione erano unicamente le società per azioni, le società a responsabilità limitata, le società in accomandita per azioni e qualsiasi tipo di società non residente nel territorio dello Stato. Operava l’esclusione automatica per alcune società; quelle che non si trovavano in un normale periodo d’imposta, quelle sottoposte ad amministrazione controllata o straordinaria, quelle nel primo periodo d'imposta; quelle che alla data del 31 maggio 1995 avevano deliberato formalmente la loro trasformazione in società commerciali di persone e quelle che, per la particolare attività svolta, era “fatto obbligo di costituirsi sotto forma di società di capitali”17. E’ interessante rilevare come le società di persone non fossero annoverate tra i soggetti destinatari dell’applicazione di tale disciplina, creando una disparità di trattamento rispetto alle società di capitali, dal momento che anche sotto la veste giuridica di società in nome collettivo o in accomandita semplice potevano celarsi strutture societarie non operative18. Risultavano società di comodo le società che avevano un numero di dipendenti inferiore a cinque19 e un ammontare di ricavi e proventi inferiore agli 800 milioni di lire. La versione modificata dal Decreto Legge del 1995, precisava che oltre ai ricavi si dovessero considerare gli “incrementi delle rimanenze e proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico”; quest'ultima specifica evidenziava le voci rilevanti da prendere in considerazione risultanti dal bilancio, redatto ai sensi dell'art. 2423 e ss. Cod. Civ. Obbligo delle società non operative era di dichiarare un reddito minimo20, calcolato facendo 15 L'art.27 del Decreto Legge 23 Febbraio 1995, n.41 apportò delle modifiche al comma 1, 2, 4, 5, 6, 7 dell'art. 30 cit.. 16 “Agli effetti del presente articolo si considerano non operative le società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata, le società e gli enti di ogni tipo, con o senza personalità giuridica, non residenti nel territorio dello Stato, che hanno meno di cinque dipendenti e ricavi e proventi inferiori ad 800 milioni escluse comunque le società che non si trovano in un normale periodo d'imposta nonché le società che si trovano in amministrazione controllata e straordinaria e quelle che hanno iniziato l'attività nel corso dell'esercizio nonché quelle che entro il 31 maggio 1995 abbiano formalmente deliberato la propria trasformazione in società commerciali di persone”. 17 Tale ultima ipotesi d'esclusione fu introdotta dal Decreto Legge del 1995. 18 La Circolare del Ministero delle Finanze n. 140/E del 15 maggio 1995 precisava l'esclusione oltre che per le società commerciali di persone e le imprese individuale, per le società cooperative e di mutua assicurazione, per le società consortili (caratterizzate dallo stesso scopo mutualistico delle società cooperative e di mutua assicurazione) e per le società e gli enti non residenti privi di stabile organizzazione nel territorio dello Stato. 19 Mediamente alle dipendenze della società nel corso del periodo d’imposta. 20 NUSSI M., L'imputazione del reddito nel diritto tributario, cit., pag. 531, dove si sottolinea che la presunzione 8 riferimento al patrimonio netto aumentato degli incrementi di capitale apportati dai soci o da terzi, se superiore ai livelli minimi di reddito stabiliti, considerando il valore del patrimonio netto e la tipologia di struttura societaria, come previsto nel comma 6 dell'articolo21. Il carattere patrimoniale della disposizione si scorge dal momento che la base del calcolo per il reddito minimo era il valore del patrimonio netto e quest’ultimo, nella normale gestione dell’attività d’impresa, rappresenta la componente del passivo destinata a coprire gli investimenti nelle immobilizzazioni materiali, immateriali e finanziarie. Il criterio alla base della predeterminazione del reddito prevedeva quindi che all'aumentare delle dimensioni patrimoniali avrebbe dovuto aumentare anche la stessa redditività; in realtà il rapporto tra reddito e volume delle immobilizzazioni tende ad aumentare al diminuire di quest'ultime, con l'effetto di penalizzare di fatto le società di minori dimensioni, le quali erano comunque costrette a dichiarare determinati livelli minimi di reddito. Era inoltre stabilito il divieto del riporto delle perdite, anche se già con la prima modifica avvenuta nel 1995, venne introdotta l’opzione del riporto delle perdite per la parte eccedente il reddito minimo dichiarato. La ratio di tale specifica deve essere analizzata alla luce dell’incompatibilità tra l’indicazione del reddito in modo forfettario e la possibilità di poter usufruire delle perdite per la riduzione dell’imponibile. L’obiettivo di contrastare le società non operative verrebbe vanificato se fosse concesso l’utilizzo delle perdite, senza alcun vincolo, dal momento che quest’ultime sono rappresentative del comportamento che deve essere osteggiato. Prevedere da un lato una determinata disciplina e allo stesso tempo permettere il riporto delle perdite senza vincoli, significherebbe che l’imposizione del reddito minimo stabilito dal legislatore non troverebbe sempre applicazione e potrebbe essere annullato appunto dall’utilizzo di dette perdite pregresse. Agli occhi del legislatore tali perdite appaiono derivare dal fatto di non essere operativi e di aver costituito la società per finalità estranee all’esercizio dell’attività economica, anche se sono state realizzate in anni precedenti, nei quali la società non necessariamente era definita società di comodo. Al comma 722 era poi prevista la possibilità di un reddito minimo può essere giustificata come eliminazione del favor normativo riguardante la deducibilità dei costi, di cui godono i soggetti che pur non svolgendo attività imprenditoriale, ne rientrano in virtù dell'apparente forma commerciale che domina sulla realtà sostanziale. 21 “(…) Fermo l’ordinario potere di accertamento e salva, comunque, la prova contraria, per le società non operative è escluso il riporto a nuovo delle perdite e si presume che il reddito imponibile sia pari al 2 per cento del patrimonio netto, aumentato dei finanziamenti da parte dei soci e di terzi destinati a immobilizzazioni aziendali e comunque non inferiore ad 8 milioni di lire (…)”. 22 “La prova contraria di effettiva inesistenza del reddito (…) non può consistere nella sola corrispondenza alle scritture contabili o alle risultanze del bilancio del minor reddito asserito, ma deve essere sostenuta da oggettivi riferimenti al particolare settore in cui opera la società, ovvero a particolari o temporanee situazioni di mercato anche territoriali, che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi ordinariamente ritraibili dal possesso delle immobilizzazioni (…), ovvero dalla tipologia dell’attività esercitata che obblighi la società a sostenere per 9 della prova contraria per poter uscire dal canale della non operatività, ma le condizioni imposte dal legislatore erano piuttosto stringenti, data l’insufficienza della dimostrazione delle scritture contabili e del bilancio d’esercizio. Altrettanto problematiche erano le ipotesi sulle quali la prova contraria poteva consistere: le particolari condizioni del settore in cui la società operava, con riferimento anche a situazioni temporanee di mercato, oppure la tipologia di attività esercitata. In relazione alla prima fattispecie, era necessaria la dimostrazione del nesso di causalità tra la peculiare condizione in cui si trovava la società ed il mancato raggiungimento dei ricavi, normalmente ottenibili dal possesso di determinate immobilizzazioni. La difficoltà era duplice, sia perché non erano accettate condizioni di anomalia, che evidenziassero per esempio un minor reddito ottenuto a causa di un’incapacità gestionale, sia per l’indeterminatezza del calcolo dei ricavi medi raggiungibili. Riguardo alla seconda ipotesi, era richiesto oltre al dato oggettivo relativo alla tipologia d’attività esercitata, il sostenimento dei costi in più esercizi per la realizzazione dei beni volti successivamente alla vendita; inoltre la disposizione non faceva riferimento al sostenimento di costi in un unico esercizio, come pure non menzionava la realizzazione di servizi. Il Decreto Legge n. 41 del 1995, apportò delle modifiche per quanto concerne la prova contraria, eliminando quanto stabilito nel comma 7 dell'originale art. 30 della Legge n. 724/1994 e prevedendo al comma 1 che “(...) la prova contraria [dovesse] essere sostenuta da riferimenti ad oggettive situazioni di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, di proventi e rimanenze (...)”. Tuttavia secondo quanto specificato dalle circolari ministeriali23, le oggettive situazioni straordinarie potevano comprendere calamità naturali, scioperi prolungati, crisi di settore straordinarie, mancata distribuzione di dividendi da parte di società controllate interessate da crisi del relativo mercato e furti che avessero inciso in modo rilevante sulle rimanenze. Erano quindi condizioni piuttosto stringenti di carattere straordinario, non suscettibili di valutazioni soggettive; inoltre la dimostrazione poteva fare riferimento solamente al volume dei ricavi, dei proventi, delle rimanenze e non poteva essere preso in considerazione l'indicatore riguardante il numero dei dipendenti. Sempre il decreto del 1995 in esame, stabilì al comma 7 dell'art. 30 che, nell'ambito delle disposizioni sull'accertamento per le società non operative, si potesse procedere a determinare il reddito induttivamente in misura pari a quella presunta, anche applicando l'accertamento parziale previsto dall'art. 41bis del D.P.R n. 600 del 1973. Era quindi la legge stessa a definire la non operatività delle società e questo semplificava il lavoro dell'Amministrazione, riversando sul contribuente più esercizi costi finalizzati alla realizzazione di beni destinati alla cessione (…)”. 23 Circolare del Ministero delle Finanze n. 140/E del 15 maggio 1995 cit. e n. 48/E del 26 febbraio 1997. 10 l'onere probatorio dello svolgimento di un'effettiva attività economica. Venne inoltre introdotto nel 1995 il contradditorio anticipato24, stabilendo che “(…) l'accertamento [fosse effettuato], a pena di nullità, previa richiesta al contribuente, anche per lettera raccomandata, di chiarimenti da inviare per iscritto entro 60 giorni”; era inoltre specificato che l'eventuale risposta fornita dal contribuente dovesse indicare “(...) i motivi posti a fondamento della prova contraria (...)” ed in caso di impugnazione dell'avviso d'accertamento poteva essere fatto valere solamente quanto presentato in risposta alla richiesta di chiarimenti da parte dell'Amministrazione Finanziaria. Il dubbio che a questo punto emergeva riguardava la concreta possibilità di difesa per il contribuente. In particolare se i motivi posti a base della prova contraria rappresentassero le uniche argomentazioni possibili a disposizione del contribuente o se invece tali argomentazioni fossero le uniche ad essere sottoposte alla specifica del comma 7, con la conseguenza che dovevano necessariamente comparire nella risposta, a pena del loro inutilizzo in sede d'impugnazione. Era maggiormente condivisibile la seconda ipotesi, più favorevole per il contribuente, che prevedeva quindi la possibilità di far valere in sede giudiziaria altre possibili argomentazioni difensive, oltre a quelle presentate con la risposta di richiesta di chiarimenti. Si deve inoltre sottolineare come la possibilità per le società di uscire dal regime della non operatività per gli anni 1994-1995 fosse rappresentata dal loro scioglimento o trasformazione in società commerciali di persone25. Tale opzione risultava più restrittiva rispetto ad altre fattispecie di predeterminazione del reddito, in quanto la scelta era tra dichiarare un reddito minimo e la cessazione della società o la modifica della veste giuridica. In quest'ultima ipotesi era quindi permesso alla società di continuare ad esistere, mentre nel caso di scioglimento, l'uscita dal regime forfettario prevedeva la soppressione della struttura societaria. Si può quindi notare come fin dalla sua introduzione la disciplina delle società di comodo sia risultata complessa e di non facile applicazione. Essa rappresenta una legislazione di contrasto e deterrenza, attraverso una serie di misure di svantaggio fiscale e che, stando alle intenzioni del legislatore, avrebbe dovuto perseguire uno scopo antielusivo26. Sembra opportuno fare 24 Come riportato da TOSI L., Relazione introduttiva:la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 9, il contraddittorio anticipato previsto dalla norma evidenzia che “(…) il legislatore è consapevole della scarsa attendibilità del metodo accertativo (…). [Sapendo] di aver conferito all'Amministrazione Finanziaria un potere accertativo da usare con molta cautela, perché basato su elementi probatori molto labili, prevede appunto che questo potere venga temperato dall'obbligatorietà del contraddittorio anticipato”. 25 Tale ipotesi configurava quale causa d'esclusione, come riportato in precedenza; in particolare l'originale disposizione faceva riferimento alla sola trasformazione in società commerciali di persone, mentre il Decreto Legge n. 41 del 1995 introdusse anche l'ipotesi di scioglimento. 26 TOSI L., Relazione introduttiva:la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 2. Tale disciplina viene introdotta per contrastare il dilagare delle società utilizzate non per 11 delle considerazioni riguardanti alcune perplessità che si possono già intravedere nell’impianto iniziale della normativa in esame. La scelta del legislatore di introdurre tale disciplina deve essere analizzata anche alla luce dei dati disponibili nel 1994, nei quali si evidenziava che nel 1991 su 520.000 società di capitali circa 170.000 erano prive di ricavi e circa 60.000 avevano ricavi inferiori ai 50 milioni di lire. Era quindi ragionevole presumere che esistessero numerose società familiari utilizzate per poter dedurre i compensi agli amministratori, le spese di manutenzione, gli interessi passivi27. Evidenziato da un lato questo aspetto, il presupposto base della disciplina della non operatività era la presenza di un numero di dipendenti esiguo ed il mancato raggiungimento della soglia degli ottocento milioni di lire dei ricavi e dei proventi. Tuttavia questi due indicatori erano privi di una reale giustificazione ed il rischio evidente era che fossero penalizzate le società che effettivamente non raggiungevano tale soglia, anche se realmente operative, come per esempio poteva accadere nel caso di società operanti nel settore terziario o finanziario o in quello agricolo. Inoltre discutibile appariva anche la logica di fondo secondo cui la non operatività era definita in relazione all’ammontare del valore della produzione e non considerando le caratteristiche specifiche dell’attività svolta. Emergono inoltre alcune questioni, che verranno riprese nel proseguo, e che rappresentano per alcuni versi “il filo conduttore” della tematica trattata. In particolare come è evidente già nell’originale articolo normativo riguardante le società di comodo, il legislatore ha scelto un sistema di tassazione predeterminato; quest’ultima tipologia di tassazione è antitetica al principio di personalità del prelievo ed il principio di rispetto della capacità contributiva28 viene travisato nel momento in cui si sceglie di tassare un soggetto solo perché non ha raggiunto una determinata soglia reddituale. In un sistema forfettario come quello previsto per le società di comodo, l’esigenza della personalizzazione del prelievo viene incrinata, ci si allontana dalla singola realtà economico-contabile ponendo in secondo piano le differenze che inevitabilmente sussistono tra le specifiche situazioni dei contribuenti29. Nonostante le criticità di fondo che si possono già intravedere anche lo svolgimento d’attività d’impresa, costituite talvolta per eludere la disciplina tributaria. Viene evidenziato che il legislatore sceglie lo strumento tributario per arginare tale fenomeno, sollevando la questione dell’utilizzo della leva fiscale per raggiungere scopi di politica economica e finanziaria. E’ in questo contesto che si deve analizzare l’impianto originario previsto dall’art. 30 della Legge n. 724/1994 e le complessità della disciplina insite fin dalla sua introduzione. 27 I dati relativi alla situazione delle imprese in Italia nel 1991 sono stati recuperati da FERRANTI G., La revisione della disciplina delle società di comodo e dei beni in godimento ai soci, in Fisco (Il), 2014, 20, pag. 1911. 28 Tale principio è espresso nell’art. 53 della Costituzione secondo cui “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. 29 TOSI L., Le predeterminazioni normative nell'imposizione reddituale. Contributo alla trattazione sistematica 12 nell’impianto originale descritto dalla normativa, deve essere evidenziato che da sempre tale disciplina è stata caratterizzata da una presunzione di reddito ed inizialmente l’apparato normativo delineato dal legislatore era più semplice di quanto non lo sia attualmente, collegando la non operatività del soggetto al livello dei ricavi e in relazione al numero di dipendenti impiegati nella struttura societaria. Questo significava che a priori, le società con un determinato numero di occupati e fatturato erano escluse fin dal principio. Con il passare del tempo l’inserimento del test d’operatività e quindi dei diversi coefficienti da applicare al valore di determinati beni patrimoniali, e delle diverse cause d’esclusione hanno portato ad un’articolazione sempre maggiore della disciplina travisando l’obiettivo originario, cioè quello di contrastare l’uso improprio della struttura societaria. 1.3 Le modifiche apportate nel tempo alla normativa in esame Come già accennato nel precedente paragrafo, l'istituto delle società di comodo nel corso degli anni ha subito continue modifiche; risulta utile illustrarle per poter meglio comprendere ed analizzare tale fenomeno30. La Relazione accompagnatoria al disegno di Legge Finanziaria per il 199731 affermava che la disciplina delle società non operatività era stata introdotta al fine di contrastare “l’uso improprio della struttura societaria che, anziché essere finalizzata all’esercizio produttivo di attività commerciali, viene impiegata per consentire l’anonimato degli effettivi proprietari dei beni intestati alla società cui si unisce spesso la deduzione di costi che hanno poco a che fare con l’attività che, (…) dovrebbe essere svolta dalla società, mentre di fatto detta società si limita alla mera intestazione di beni che sono tenuti a disposizione dell’effettivo proprietario”. Successivamente ai cambiamenti avvenuti con il Decreto Legge del 1995, la Legge 23 dicembre 1996, n. 662 stabilì che fossero definite non operative le società il cui ammontare dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi era inferiore alla sommatoria ottenuta moltiplicando determinate percentuali al valore di talune voci patrimoniali. In particolare si doveva applicare l’1 per cento del valore delle azioni, delle partecipazioni, delle obbligazioni e dei crediti 32; il 4% del valore delle immobilizzazioni rappresentate dai beni immobili anche in locazione finanziaria; il 15% delle altre immobilizzazioni sia materiali che immateriali, anche in locazione finanziaria. Il secondo dell’imposizione su basi forfettarie, Milano, 1999, pag. 354 e ss.. 30 Alcune delle modifiche verranno riprese e saranno analizzate maggiormente nel dettaglio nei successivi capitoli. Nel presente paragrafo si elencano i cambiamenti avvenuti nel corso degli anni alla disciplina sulle società di comodo per poter avere una panoramica generale dell'argomento. 31 Legge 23 dicembre 1996, n. 662. 32 Secondo quanto precisato nel D.M. 14 febbraio 1997, si devono considerare le azioni e partecipazioni sia iscritte nelle immobilizzazioni finanziarie che nell'attivo circolante; inoltre per i crediti devono essere imputati nel calcolo solo quelli finanziari e non quelli commerciali, né i depositi ed i conti correnti. 13 comma dell'art. 30 della Legge 724 del 1994 specificava inoltre che il valore dei ricavi e dei proventi e dei beni patrimoniali da considerare, doveva essere la media dei valori dell'esercizio stesso e dei due precedenti33. In questo modo c’era un arco temporale sufficientemente ampio per poter ponderare le condizioni economiche caratterizzanti le società, valutare le oscillazioni degli investimenti e l’effetto dei relativi rendimenti. Per quanto concerne il reddito minimo da dichiarare, furono fissate le percentuali pari allo 0,75, al 3 e al 12 per cento da applicare rispettivamente al valore delle partecipazioni, delle immobilizzazioni e delle altre immobilizzazioni. Doveva comunque essere dichiarato il valore del reddito effettivo conseguito, se superiore a quello così determinato, così come l'Amministrazione poteva accertare un maggior imponibile, secondo quanto stabilito dalla specifica del comma 3 dell'articolo “fermo l'ordinario potere d'accertamento (...)”. Con le modifiche apportate dalla Legge n. 662 del 1996, la normativa in esame sembrava acquisire un apparente maggior grado di razionalità, rispetto alla forfettaria soglia degli 800 milioni di lire, come evidenziato nella relazione governativa di accompagnamento alla legge finanziaria, dove si affermava che attraverso l'utilizzo produttivo dei beni sociali i ricavi avrebbero dovuto coprire almeno il costo sostenuto per il loro acquisto. Tuttavia l’eliminazione del riferimento al numero di dipendenti occupati e l'introduzione della variabile relativa alla consistenza patrimoniale della società poteva determinare l’attrazione nel regime in questione anche di entità di medie e grandi dimensioni; l’attribuzione della qualifica di soggetto non operativo sarebbe quindi risultata, sotto un profilo strettamente economico ed organizzativo, ancora più inappropriata. Rimaneva poi immutata la logica di fondo di predeterminazione del reddito e soprattutto non erano chiari i criteri scelti dal legislatore per l’applicazione dei coefficienti alle voci patrimoniali. Sembrava inoltre irragionevole l’utilizzo del medesimo coefficiente per tutti gli investimenti immobiliari, oltre al fatto che le percentuali da applicare ai valori dei beni erano superiori rispetto ai valori netti di mercato34. Di fatto i cambiamenti apportati dalla Legge n. 662/1996 hanno ampliato l’ambito di efficacia soggettiva della disciplina delle società di comodo, rendendola potenzialmente applicabile a tutte le società che non avessero conseguito risultati coerenti rispetto all’entità degli investimenti effettuati. Nonostante queste note critiche, legate al pragmatismo del legislatore fiscale che è ricorso a fattori indicativi in termini prettamente quantitativi delle attività economiche ed all’assoluta libertà nel costruire i parametri per la presunzione del reddito, si deve sottolineare che inizialmente i coefficienti 33 La Circolare Ministeriale 48/E del 1997 cit., specificava che per i beni posseduti per un periodo di tempo inferiore all'anno, la media ponderata dovesse essere rapportata al periodo di possesso del bene nella società. 34 TOSI L., Le predeterminazioni normative nell'imposizione reddituale. Contributo alla trattazione sistematica dell’imposizione su basi forfettarie, cit., pag. 354 e ss.. 14 per la determinazione dei ricavi e del reddito erano stati fissati in una misura ragionevolmente equa, tant’è che nella realtà concreta la disciplina non aveva trovata un’ampia applicazione. Successivamente nel 2006, l'art. 30 della norma in esame subì per ben due volte delle modifiche, prima con la Legge 4 agosto 2006, n. 248 e poi con la Legge Finanziaria per il 200735. I cambiamenti avvenuti in tale anno hanno riguardato l’innalzamento del valore dei coefficienti da applicare alle voci patrimoniali e la riformulazione dei beni oggetto d'analisi per l'identificazione delle società non operative, nonché il relativo calcolo del reddito minimo presunto36, rendendo la disciplina sempre più complessa, articolata e concretamente meno idonea a “captare” le effettive strutture societarie non operative. E’ stato stabilito un incremento quantitativo dei coefficienti presuntivi che hanno reso palese la carenza di ricerca ed effettività delle presunzioni legali stabilite dall’art. 30 della Legge n. 724/199437. Tuttavia la novità più importante introdotta con la legge dell’agosto 2006 è stata l'eliminazione del contradditorio anticipato, incidendo quindi direttamente sul tema del diritto di difesa38. In questo modo veniva infatti limitata la possibilità di difesa del contribuente e l'eliminazione della prova contraria favoriva le previsioni riguardanti il gettito ottenibile dall'applicazione di tale disciplina. Si evidenziava ancor maggiormente lo scopo del legislatore, cioè quello dell'utilizzo della norma di contrasto al fenomeno delle società di comodo, come strumento di politica finanziaria, per poter ottenere “(...) un valore economico spendibile col segno attivo nel bilancio dello stato”39. Contemporaneamente venne introdotto il comma 4-bis all'art. 30 in esame, che prevede la possibilità per il contribuente di presentare istanza di interpello disapplicativo, ai sensi dell'art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, in presenza di situazioni oggettive che non hanno permesso il conseguimento del livello minimo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi per superare il test d’operatività o del reddito stabilito ex lege. L'introduzione dell'interpello è stato oggetto, e lo è tuttora, di un’ampia discussione che verrà trattata nel prosieguo; il dato normativo parla di facoltà del contribuente 35 Legge 27 dicembre 2006, n. 296. Sembra opportuno esaminare la tipologia di beni da considerare nel calcolo e la percentuale da applicare, come previsti dalla normativa in vigore attualmente; tale approfondimento sarà trattato nel secondo capitolo. 37 NUSSI M., La disciplina delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi incoerenti, in Riv. dir. fin., 2010, 4, pag. 491. L’autore sottolinea come inizialmente l’impianto normativo della disciplina delle società di comodo nel complesso, fosse caratterizzato da norme di equilibrio e ponderazione. La svolta avvenuta nel 2006 ha evidenziato non il tentativo di perseguire la ricerca dei redditi occultati dai contribuenti, ma il raggiungimento attraverso la normativa in esame dell’obiettivo di politica economica. 38 L'inciso riguardante la prova contraria presente nel primo comma dell'art. 30 cit. fu tolto con la Legge Finanziaria per il 2007; come illustrato nel precedente paragrafo l'ammissione alla prova contraria stabilita nell'originale versione della normativa aveva subito delle modifiche già con il Decreto Legge n. 41/1995. 39 TOSI L., Relazione introduttiva:la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 10. 36 15 di attivare l'istanza di disapplicazione40, mentre la linea seguita dall'Amministrazione Finanziaria fino al 2010 è stata quella di affermare che l’istanza di disapplicazione rappresenta un obbligo per poter dimostrare la reale operatività della società e per poter impugnare l'avviso d'accertamento emesso successivamente. La legge finanziaria per il 2007 introdusse una specifica per i comuni con meno di 1000 abitanti; in questo caso le percentuali da applicare per il test d’operatività erano dell’1 e del 10 per cento rispettivamente al valore delle partecipazioni e alle immobilizzazioni costituite da beni immobili, anche in locazione finanziaria. Con riferimento a quest’ultime la percentuale da applicare risultò pari all’1 per cento dopo l'emanazione della Legge Finanziaria per il 200841, mentre venne eliminata la riduzione dell’aliquota prevista per le partecipazioni. Inoltre la casistica riguardante le disapplicazioni automatiche venne ulteriormente ampliata con la Legge Finanziaria per il 2007 e poi in particolare con quella per il 2008, dove l’intervento del legislatore ha inciso anche sulla rimodulazione della scala dei coefficienti da applicare al test d'operatività ed al calcolo del reddito minimo e sulle modalità di comunicazione dell'esito dell'interpello disapplicativo al contribuente. Come previsto infatti dalla Legge 24 dicembre 2007, n. 244, venne emanato il Provvedimento dell'Agenzia delle Entrate n. 23681/2008, riguardante l’identificazione di ulteriori situazioni oggettive al ricorrere delle quali opera l’esclusione automatica della disciplina, senza l’apposita istanza di disapplicazione42. Tuttavia, portando solo come esempio le ipotesi di esclusione dal regime della disciplina per le società con un numero di soci non inferiore a 100 modificata poi in misura non inferiore a 50 soci, o con un numero di dipendenti non inferiore a 10; le considerazioni critiche che emergono riguardano i criteri utilizzati dal legislatore per poter stabilire che un determinato numero di soci o di dipendenti è garanzia dell’operatività automatica di una società, come pure la scelta di un valore pari a 50 e non, per esempio, pari a 40 o 60. Queste riflessioni evidenziano l’utilizzo di determinazione forfettaria del reddito e allo stesso tempo mettono in luce alcuni dubbi riguardanti la reale efficacia dell’impianto normativo. Gli elementi desumibili dal mercato, la consistenza patrimoniale della società ed i valori esprimenti un apparente assetto di normalità economica non sono necessariamente rappresentativi del reddito che una società dovrebbe essere in grado di produrre, perché questo dipende solo dall’attività effettivamente ed in 40 L'art. 30, comma 4.bis afferma infatti che “(...) la società interessata può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai sensi dell'art. 37-bis, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600”. 41 Legge 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1 commi 128-129. 42 DODERO A., La disapplicazione automatica della disciplina sulle società non operative, in Corr. trib., 2008, 10, pag. 783. 16 concreto esercitata43. Ritornando alle modifiche apportate dalle finanziarie 2007 e 2008, è stato stabilito, come possibile canale d’uscita dal regime delle società di comodo44, lo scioglimento o la possibile trasformazione in società semplice, purché si trattasse di società con soci sole persone fisiche e ne fosse disposta la cancellazione dal registro delle imprese entro un anno45. Con riguardo alla possibilità prevista per le sole società formate da soci persone fisiche, l'Amministrazione Finanziaria con la Risoluzione 103/E del 17 maggio 2007, stabilì che la compagine sociale potesse annoverare anche le società semplici. Il regime fiscale di quest’ultime è infatti assimilabile a quello delle persone fisiche; in questo modo l’obiettivo di agevolare la fuoriuscita dei beni detenuti dalla società in regime d'impresa a favore di quei soci il cui reddito non è determinato, secondo quanto previsto dall'art. 81 del TUIR e seguenti era comunque rispettato46. La scelta del legislatore di prevedere la trasformazione societaria può essere letta come volontà di permettere l’intestazione di beni a soggetti diversi dalle persone fisiche attraverso l’utilizzo di una forma giuridica più adeguata; in questo modo da un lato era tutelato l’interesse dei privati a non possedere il bene in prima persona e contemporaneamente si evitava la strumentalizzazione della struttura societaria per il semplice perseguimento di vantaggi fiscali, prevedendo la fuoriuscita dal regime d'impresa47. Nel triennio 2006-2008 la normativa sulle società di comodo è stata quindi revisionata più volte, con l'obiettivo, secondo quanto ribadito dall'Agenzia delle Entrate nella Circolare del 14 febbraio 2008, n. 9/E, di focalizzare l’attenzione sulle casistiche più rilevanti 43 POGGIOLI M., Le modifiche apportate dalla legge finanziaria 2008 al regime fiscale delle “società di comodo”: semplice maquillage o intervento di razionalizzazione del sistema?, in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 91 e ss.. In questa ultimo capitolo del libro, si analizzano le modifiche apportate dalla Legge Finanziaria del 2008, evidenziando come il legislatore scelga a volte degli schemi semplificativi per l’applicazione del tributo; tuttavia si deve tenere in considerazione che la consistenza patrimoniale di una società non può essere specchio del reddito effettivamente prodotto, che dipende dalle caratteristiche specifiche dell’entità imprenditoriale. 44 A tale ipotesi si aggiungeva anche la casistica delle società che si trovavano nel primo periodo d'imposta. 45 La Legge Finanziaria per il 2008 ha riaperto i termini della procedura di scioglimento e trasformazione già introdotti dalla finanziaria 2007, prevedendo un’imposta sostitutiva più contenuta. In entrambe le disposizioni legislative si prevedeva che tale scelta dovesse essere operata entro il quinto mese successivo alla chiusura del medesimo periodo d'imposta, oltre all’obbligo di iscrizione dei soci persone fisiche nel libro dei soci da verificarsi alla data d’entrata in vigore delle leggi o nei successivi trenta giorni dalla medesima data; nel caso di società di persone, dove non è prevista l'iscrizione nel libro soci, era necessario che fosse dimostrata l’identità del socio tramite un atto avente data certa. La specifica relativa alla verifica d'iscrizione nel libro soci, voleva evitare che nel caso di scioglimento agevolato e di conseguente cessione dei beni, ne beneficiassero soggetti inclusi tra i soci, ma che erano in realtà soggetti terzi rispetto alla compagine sociale. 46 Nella Risoluzione veniva infatti evidenziato che “(...) l'intento del legislatore risulta comunque realizzato anche nell'ipotesi in cui i soci della società siano rappresentati da società semplici. Anche in tale circostanza, infatti, i beni fuoriescono da un regime d'impresa per confluire in un regime impositivo, quello delle società semplici, sostanzialmente assimilato al regime fiscale previsto per le persone fisiche (...)”. 47 FERRANTI G., Nuove cause d'esclusione e test d'operatività per le società di comodo, in Corr. trib., 10, 2008, pag. 815. 17 che interessano le società di comodo e di ricercare un esito di mirata razionalizzazione48. E’ da sottolineare come anche l’intervento del legislatore con la Legge Finanziaria per il 2008, non è stato rivolto ad un rimodellamento generale dell’istituto, sono state apportate delle singole modifiche, adottando un criterio casistico. E’ rimasto quindi invariato l’automatismo di fondo di predeterminazione del reddito, che prescindendo da qualsiasi legge economica determina l’imponibile della società, basandosi sulla consistenza degli asset patrimoniali e prescindendo dalla concreta situazione fattuale riferibile al contribuente. Tuttavia l’apparente stabilità della disciplina non durò per molto tempo. Nel 2011 con “la manovra di ferragosto Monti-bis”49 la platea dei soggetti interessati dall'art. 30 della Legge n. 724 del 1994 è stato ampliata ulteriormente, peggiorando la già disarticolata disciplina ed allontanandosi sempre più dall’obiettivo originario di contrastare le strutture societarie, che non vengono costituite per il reale svolgimento di un’attività economica ma come meri contenitori patrimoniali a favore dei soci. E’ stato previsto infatti che la disciplina in esame si applichi anche alla società operative in perdita sistematica per un periodo di tre anni o, nel caso di perdita consecutiva per due anni, a cui si aggiunge un anno nel quale viene dichiarato un reddito inferiore a quello minimo stabilito dal comma 3 dell’art. 30 della Legge n. 724/1994. A partire quindi dal quarto periodo d’imposta tali soggetti in perdita sistemica sono ritenuti automaticamente “non operativi”, con la precisazione che la società qualora superi il test d’operatività ritorna operativa e si applica il regime di tassazione ordinario del reddito d’impresa. Inoltre l’aliquota IRES è stata aumentata di 10,5 punti percentuali per le società che ricadono nel canale delle società di comodo50. La previsione legislativa ha stabilito delle disposizioni riguardanti il coordinamento della maggiorazione dell’aliquota, con i modelli applicativi della trasparenza 48 Critico è a riguardo TOSI L., Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.), Padova, 2008, pag. 1-2, che sottolinea come i continui cambiamenti dell'istituto in esame evidenzino “(…) un’irrequietezza del legislatore, che però non si traduce in un affinamento di uno strumento accertativo di natura forfettaria che, in quanto strumento di natura accertativa, viene semmai peggiorato, specie se raffrontato con i principi costituzionali (...)”. 49 Decreto Legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito in Legge 14 settembre 2011, n. 148. 50 I commi 36-decies e 36-undicies dell’art. 2 del Decreto Legge n. 138/2011 affermano che “pur non ricorrendo i presupposti di cui all’articolo 30, comma1, della Legge 23 dicembre 1994 n. 724, le società e gli enti ivi indicati che presentano dichiarazioni in perdita fiscale per tre periodi d’imposta consecutivi sono considerati non operativi a decorrere dal successivo quarto periodo d’imposta. (…) Restano ferme le cause di non applicazione della disciplina in materia di società non operative (…)”; “[il comma precedente] trova applicazione anche qualora, nell’arco temporale di cui al medesimo comma, le società e gli enti siano per due periodi d’imposta in perdita fiscale ed in uno abbiano dichiarato un reddito inferiore all’ammontare determinato ai sensi [dell’art. 30 in esame]”. Per quanto riguarda poi l’innalzamento dell’aliquota IRES il comma 36-quinquies dell’art. 2 citato stabilisce appunto che “l’aliquota delle imposte sul reddito delle società di cui all’art. 75 del TUIR, dovute dai soggetti indicati nell’articolo 30, comma 1, [in esame] è applicata con una maggiorazione di 10,5 punti percentuali. Sulla quota del reddito imputato per trasparenza ai sensi dell’art. 5 del TUIR dai soggetti indicati dall’art. 30 comma 1 (…), a società o enti soggetti all’imposta sul reddito delle società trova comunque applicazione detta maggiorazione”. 18 fiscale e del consolidato domestico, in modo che il reddito generato dalla società non operativa non sia sottratto a tale innalzamento dell’aliquota attraverso l’opzione di questi regimi fiscali e contemporaneamente che non sia soggetta invece alla maggiorazione materia imponibile “non di comodo”51. In ogni caso, anche con l'introduzione di questa nuova fattispecie, si parla di un’unica disciplina, quella appunto delle società di comodo, nella quale la presunzione di non operatività può essere originata da due presupposti: il mancato superamento del test ed il conseguimento di perdite sistematiche. Per quanto riguarda la reiterazione delle perdite fiscali per più periodi d’imposta si deve sottolineare che essa può generare il sospetto di una possibile evasione e quindi la possibilità di effettuare determinati controlli mirati da parte dell’Amministrazione Finanziaria; diversa invece è la scelta che è stata effettuata dal legislatore di identificare direttamente tali soggetti come non operativi, non considerando minimante la realtà effettiva in cui versano tali soggetti. Inoltre l’innalzamento dell’aliquota IRES al 38% evidenzia una grande disparità di trattamento rispetto alle società ed agli enti operativi, come pure emerge una disparità di trattamento rispetto alle società personali. E’ stato sottolineato come attraverso l’innalzamento dell’aliquota IRES, avvicinandola a quella massima IRPEF pari al 43%, si colmerebbe un ipotetico deficit di tassazione dei frutti che si presumono prodotti attraverso i cespiti patrimoniali intestati alla società. Tale previsione tuttavia coglie “gli effetti della disposizione, vale a dire le sue conseguenze pratiche, non già la ratio della medesima”52. L’intervento del 2011 ha di fatto introdotto delle modifiche che rendono ancora più inaccettabile la disciplina alla luce dei principi costituzionali, distanziandola sempre di più dal suo fine originario, cioè quello di contrastare le società “senza impresa”. Di recente con l’art. 12 della Legge Delega 2014 per la riforma fiscale è stata annunciata “la revisione, razionalizzazione e coordinamento della disciplina delle società di comodo e del regime dei beni assegnati ai soci o ai loro 51 Il comma 36-quinquies dell’art.2 del Decreto Legge n. 138/2011 prevede che il reddito imputato per trasparenza ai sensi dell’art. 5 del TUIR da una società di persone di comodo, ad un socio soggetto IRES debba scontare l’aliquota del 38%. Dal comma 36-sexies al comma 36-octies vengono poi illustrate le varie casistiche di applicazione dell’aliquota del 38% per i soggetti che hanno optato per la trasparenza fiscale di cui all’art. 115116 TUIR e per la tassazione di gruppo di cui all’art. 117 TUIR. Nel caso dell’opzione per la trasparenza fiscale di cui all’art. 115-116 TUIR, il soggetto partecipato di comodo applica la maggiorazione del 10,5% al reddito prodotto versando autonomamente tale importo e poi imputa il reddito per trasparenza alle società partecipanti. Se invece le società partecipanti al regime della trasparenza fiscale di cui all’art. 115 TUIR risultano essere di comodo scontano l’aliquota maggiorata del 38% sul reddito prodotto da loro stesse. Invece le società di comodo consolidate e la società di comodo consolidante, appartenenti ad una fiscal unit, versano separatamente la maggiorazione del 10,5% sul proprio reddito, così come se la società di capitali appartenente alla fiscal uniti risulta essere socia di una società di persone di comodo. FERRANTI G., La “stretta” su società di comodo e beni utilizzati dai soci, in Corr. trib., 2011, 37, pag. 3052. Si veda inoltre la Circolare dell’Agenzia delle Entrate n.3/E del 4 marzo 2013. 52 BEGHIN M., Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, in FALSITTA G., Manuale di Diritto Tributario. Parte speciale, Padova, 2013, nota n. 24, pag 726. 19 familiari(…) con l’obiettivo di evitare vantaggi fiscali dall’usodi schermi societari per utilizzo personale di beni aziendali o società di comodo”. In particolare una prima modifica è già avvenuta con l’emanazione del Decreto Legislativo sulle semplificazioni fiscali, n.175 del 21 novembre 2014, in vigore dal 13 dicembre 201453. L’art. 18 di tale decreto prevede l’estensione dell’arco temporale di osservazione a cinque periodi d’imposta per l’applicazione del regime previsto dall'art. 30 della Legge n. 724/1994 per le società in perdita sistematica, con decorrenza a partire dal periodo d’imposta 2014. Questo significa che dal 2014 vengono ritenute società in perdita sistematica non operative quelle che hanno conseguito nei cinque periodi d’imposta precedenti perdite fiscali consecutive, oppure se le hanno conseguite per quattro periodi a cui se ne è aggiunto un quinto nel quale il reddito dichiarato risulta inferiore a quello stabilito dalla normativa in esame. Si vogliono così tenere in considerazione gli effetti della congiuntura economica che hanno portato ad un aumento delle società in perdita per più periodi d'imposta consecutivi. Le varie modifiche avvenute nel corso degli anni evidenziano le problematiche che da sempre hanno caratterizzato questo istituto. Anche l’ultima riguardante l'estensione del periodo d’osservazione per l’applicazione della disciplina a società realmente operative, evidenzia come il fine originale per il quale la normativa è stata introdotta, sia stato travisato e ci sia invece la necessità di un intervento più generale e sistematico54. Il dato di fatto è che la normativa prevista dall’art. 30 della Legge n. 724 del 1994, nonostante i continui cambiamenti non è riuscita ad affrontare il nocciolo della questione, cioè quello di contrastare l’abuso del fenomeno societario, valutando in concreto l’esistenza o meno dello svolgimento dell’attività d’impresa, a prescindere dalla dimensione e dai beni costituenti la struttura patrimoniale55. 1.3.1 Cenni relativi all’assegnazione dei beni in godimento a soci e familiari ed all’indeducibilità dei relativi costi per l’impresa Il Decreto Legge n. 138/2011 ha inoltre introdotto uno specifico regime relativo ai beni concessi in godimento ai soci e familiari; sembra opportuno accennare a tale disciplina data 53 Tale Decreto Legislativo è attuativo dell’art. 7 presente nella Legge Delega n.23 dell’11 marzo 2014. POGGIOLI M., Le modifiche apportate dalla legge finanziaria 2008 al regime fiscale delle “società di comodo”: semplice maquillage o intervento di razionalizzazione del sistema?, in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 102. Si ribadisce il concetto secondo cui nonostante le continue modifiche che interessano la normativa delle società di comodo, “(...) tale disciplina continua a rappresentare un inaccettabile punto d'attrito del sistema impositivo rispetto alle sue fondamenta costituzionali”. 55 DAMIANI M., L’irrazionale assetto della disciplina sulle società di comodo, in Corr. trib., 2013, 39, pag. 3113. Secondo l’autore il legislatore avrebbe dovuto focalizzarsi sull’analizzare l’effettiva esistenza di un’attività d’impresa, la cui inesistenza poteva già di per sé connotare il difetto di operatività commerciale, e non affidarsi invece ad un sistema di predeterminazione forfettaria del reddito. 54 20 l’affinità che si può scorgere con la normativa delle società di comodo. Entrambe hanno l’obiettivo di contrastare il fenomeno dell’immissione dei beni introdotti nel circuito dell’impresa con destinazione formalmente imprenditoriale, ma che di fatto vengono utilizzati per esigenze personale dei soci o familiari. Parlando di società non operative si vogliono ostacolare le strutture societarie che non svolgono attività economico-commerciale, costituite per poter introdurre nel regime d’impresa beni usati per fini privati. Nel caso invece dei beni concessi in uso gratuito a soci o familiari si fa riferimento a società sia effettivamente operative che non, nelle quali ci sono beni utilizzati personalmente per esempio dall’imprenditore o dai soci, abusando del regime stabilito dall’art. 81 e ss. del TUIR; inoltre tale disciplina si estende a tutte le ipotesi di collegamento del bene al reddito d’impresa, anche quando non vi sia coinvolta una struttura societaria. Nello specifico il Decreto Legge n. 138/2011 ha previsto all’art. 2 comma 36-quaterdecies che “i costi relativi ai beni dell’impresa concessi in godimento a soci o familiari dell’imprenditore per un corrispettivo annuo inferiore al valore di mercato del diritto di godimento non sono in ogni caso ammessi in deduzione dal reddito imponibile”. Inoltre il successivo comma 36-quinquiesdecies afferma che “la differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo concorre alla formazione del reddito imponibile del socio o familiare utilizzatore ai sensi dell’art 67, comma 1, lettera h-ter), del Testo Unico delle Imposte sui Redditi”56. Il legislatore ha quindi stabilito da un lato l’indeducibilità dei costi sostenuti dall’impresa relativi a detti beni, dall’altro lato la 56 Il comma 36-terdecies dell’art. 2 del Decreto Legge n. 138/2011 ha infatti stabilito che all’art. 67 del TUIR concernente i redditi diversi sia inserita la seguente lettera: h-ter) la differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo per la concessione dei beni dell’impresa a soci o familiari dell’imprenditore. Come stabilito poi dal Decreto Legge n. 138/2011 all’art. 2 comma 36-sexiesdecies “l’impresa concedente ovvero il socio o il familiare dell’imprenditore comunicano all’Agenzia delle Entrate i dati relativi ai beni concessi in godimento (…)”; tale comunicazione doveva essere regolata da un provvedimento emanato dall’Amministrazione entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge. Inoltre il comma 36-septiesdecies specifica che “l’Agenzia delle Entrate procede a controllare sistematicamente la posizione delle persone fisiche che hanno utilizzato i beni concessi in godimento e ai fini della ricostruzione sintetica del reddito tiene conto, in particolare, di qualsiasi forma di finanziamento o capitalizzazione effettuata nei confronti della società (…)”. In particolare l’Agenzia delle Entrate ha emanato un primo Provvedimento, il n. 166485/2011, superato da due successivi provvedimenti del 2013, uno concernente la comunicazione dei beni concessi in godimento ai soci e familiari ed un altro specifico per la comunicazione dei finanziamenti e degli apporti di capitale effettuata dai soci. Nel protocollo n. 2013/94902 è stato stabilito che l’obbligo di comunicazione dei beni utilizzati in godimento da parte dei soci o familiari deve essere coordinato con la normativa presente in materia di redditi diversi e redditi d’impresa. L’obbligo della comunicazione è relativo solo ai beni concessi in godimento per un corrispettivo inferiore al valore di mercato del relativo diritto alle persone fisiche. Sono escluse le società socie non essendo titolari di redditi diversi, come pure i beni relativi all’impresa utilizzati dall’imprenditore individuale. Inoltre nell’ultima parte di tale provvedimento è riportato un elenco analitico relativo alle “esclusioni oggettive” dall’obbligo comunicativo. Si fa riferimento per esempio ai beni concessi in godimento agli amministratori; al socio dipendente o lavoratore autonomo, nel caso in cui i predetti beni costituiscano fringe benefits assoggettati alla disciplina prevista dall’art. 51-54 del TUIR; all’imprenditore individuale; ai beni, diversi da autovetture, autoveicoli, unità da diporto, aeromobili ed i mobili il cui valore al netto dell’IVA non è superiore ai tremila euro. ANDREANI G. e TUBELLI A., Obblighi ed esenzioni per la comunicazione dati dei beni in godimento ai soci e dei versamenti, in Corr. trib., 2014, 41, pag. 3149. 21 costituzione di un reddito diverso in capo al socio o familiare dell’imprenditore che li detiene gratuitamente o per un importo inferiore a quello di mercato; si fa riferimento a beni che non fuoriescono dal regime d’impresa altrimenti il problema non si pone, trovando attuazione la disciplina prevista dagli articoli 85 ed 86 del TUIR, relativa ai ricavi ed alle plusvalenze patrimoniali57. A seguito dell’emanazione di tale previsione normativa l’Agenzia delle Entrate è intervenuta prima con la Circolare n. 24/E del 15 giugno 2012 e poi con la successiva n. 36/E del 24 settembre 2012 per fornire delucidazioni in merito. Nell’analisi effettuata dall’Amministrazione Finanziaria si evidenzia che gli utilizzatori dei beni interessati dalla disposizione sono: i soci sia residenti che non nel territorio dello Stato di società ed enti residenti che svolgono attività commerciale, nonché i familiari 58, sempre residenti e non dei soci citati precedentemente; i familiari residenti e non nel territorio dello Stato dell’imprenditore individuale residente, come pure il titolare stesso dell’impresa individuale che utilizza i beni della impresa commerciale59. Devono poi essere considerati anche i soci e familiari che ricevono in godimento i beni da parte di società controllate o collegate ai sensi dell’art. 2359 del Codice Civile a quelle partecipate dai medesimi soci. I soggetti concedenti interessati dalla disciplina sono invece le società di capitali e di persone, l’imprenditore individuale, le società cooperative, gli enti privati limitatamente ai beni relativi alla sfera commerciale qualora siano residenti nel territorio dello Stato e le stabili organizzazioni di società non residenti; non rientrano le società semplici, dal momento che non svolgono attività d’impresa e le società non residenti prive di stabile organizzazione in Italia 60. Inoltre i beni d’impresa oggetto della disciplina sono i beni-merce, i beni-strumentali e gli immobili57 Evidenzia BEGHIN M., Il reddito d’impresa - per l’università e per la preparazione all’esercizio delle professioni economico-giuridiche, Torino, 2014, pag. 93 nota n. 40, come la struttura lessicale scelta dal legislatore faccia emergere alcune problematiche. Il dato normativo parla di beni d’impresa, tralasciando le prestazioni di servizi pagate dalla società di cui i soci possono beneficiarne. Questi costi non sono comunque deducibili per l’impresa, tuttavia non possono generare per il socio utilizzatore redditi diversi da ricondurre all’art.67, comma 1, lett. h-ter, dal momento che la disposizione parla di beni dell’impresa e non di prestazioni di servizi. Inoltre la previsione normativa fa riferimento al “corrispettivo annuo”, non considerando, se non attraverso un’interpretazione forzata, i casi in cui i beni vengano concessi ai soci per un periodo di tempo inferiore. La disposizione sembra quindi riferirsi alle concessioni caratterizzate da una certa stabilità temporale, mentre non sembra prendere in considerazioni le situazioni nelle quali il socio detiene in concessione il bene per un periodo limitato di tempo. 58 L'art. 5 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, nell'ultimo comma precisa che “(...) si intende per familiare, ai fini delle imposte sui redditi, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado”. 59 FERRANTI G., Chiarita la disciplina dei beni concessi in godimento a soci e familiari, in Corr. trib., 2012, 29, pag. 2205. Viene evidenziato che l’ipotesi di considerare interessati da tale normativa anche i familiari dei soci sembra andare oltre il tenore letterale della norma che si riferisce solo ai “soci e familiari”. L’inclusione invece del titolare dell’impresa individuale che utilizza i beni della sua impresa commerciale si ritiene sia stata adottata perché tale posizione risulta nella sostanza coincidente con quella dei soci delle società personali. 60 Con riferimento a quest’ultima ipotesi potrebbe accedere che la società concedente risulti intestataria di beni, magari situati nello stesso territorio delle Stato e fungere da “schermo” per quei soci residenti che continuano a beneficiare di quei beni e la cui capacità contributiva rimane inespressa. FERRANTI G., Società di comodo e beni ai soci: i chiarimenti di Assonime, in Corr. trib., 2013, 27, pag. 2119. 22 patrimonio61; si tratta di beni che sono nella disponibilità dell’impresa, posseduti a titolo di proprietà o in base ad un titolo reale oppure detenuti in locazione, anche finanziaria, noleggiati o ricevuti in comodato. Per le società di persone e di capitali si fa quindi riferimento a tutti i beni ad esse appartenenti, mentre per l’imprenditore individuale si considerano relativi all’impresa i beni indicati nell’inventario, secondo quanto stabilito dall’art. 65 del TUIR. Riguardo alla previsione dell’indeducibilità dei costi per l’impresa relativi ai beni concessi in godimento, essa si riferisce non solo al costo sostenuto per il loro acquisto, ma anche per le eventuali altre spese e componenti negative relative agli stessi, come per esempio le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria, quelle di gestione62. Tuttavia si deve evidenziare che nel caso in cui beni siano già sottoposti ad un regime di deducibilità limitata prevista dal Testo Unico delle Imposta sui redditi, l’indeducibilità prevista dal Decreto Legge n. 138/2011 non trova attuazione; è il caso per esempio della concessione in godimento degli autoveicoli che rientrano nel regime di non deducibilità stabilito dall’art. 164 del TUIR. Nello specifico l’importo di costo indeducibile per l’impresa si ottiene applicando all’ammontare dei costi relativi ai beni concessi in godimento la percentuale che deriva dal rapporto tra la differenza del valore di mercato del diritto di godimento ed il corrispettivo pattuito e tassato dalla società ed il valore di mercato stesso63. Nel caso in cui il bene sia concesso in godimento a soci o familiari da una società di persone o da una società a responsabilità limitata che abbia optato per il regime della trasparenza previsto dall’art. 116 del TUIR, il maggior reddito d’impresa relativo all’indeducibilità del costo di tali beni deve essere imputato solo al socio utilizzatore, anche qualora sia utilizzato dai familiari dello stesso. Oltre a questa penalizzazione prevista in capo alla società come previsto dalla normativa anche il socio o il familiare viene tassato in misura pari alla differenza tra il valore di mercato ed il corrispettivo annuo relativo al godimento del bene. 61 Con il termine bene-merce si intende il bene acquistato o prodotto dall’impresa, destinato ad uscire dal circuito produttivo generando ricavi. Il termine bene-strumentale si riferisce invece a beni durevoli destinati a rimanere per un certo arco temporale nel patrimonio della società, utilizzati per produrre altri beni o erogare servizi; detti beni ad utilità pluriennale incidono nel risultato d’esercizio attraverso le quote d’ammortamento e la loro cessione genera plusvalenze o minusvalenze. Infine gli immobili-patrimonio rappresentano il patrimonio della società, non partecipano al processo produttivo e con la loro cessione viene registrata una plusvalenza o una minusvalenza. 62 E’ da sottolineare che ai fini IVA è presente una norma analoga. L’art.4, quinto comma, del D.P.R. n. 633/1972 stabilisce che non è detraibile l’IVA pagata per l’acquisto di beni quali gli immobili, la unità da diporto, gli aeromobili, messi a disposizione del socio gratuitamente o per un importo inferiore al valore normale. FERRANTI G., La “stretta” sulle società di comodo e beni utilizzati dai soci, in Corr. trib., 2011, 37, pag. 3052. 63 Il valore di mercato è determinato secondo quanto stabilito dall’art. 9 comma 3 del TUIR, il quale afferma che “per valore normale (…) si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e servizi della stessa specie o similari, in condizione di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione (…). [Inoltre] per la determinazione del valore normale si fa riferimento in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni (…)”. 23 Tale valore confluisce nella determinazione del reddito della persona fisica come reddito diverso. L’art. 67, comma 1, lett. h-ter trova attuazione anche se in relazione allo stesso bene è prevista una limitazione alla deducibilità dei costi per l’impresa, eccezione fatta per l’ipotesi in cui il soggetto sia al contempo dipendente della società o lavoratore autonomo in quanto in quest’ipotesi trova attuazione la disciplina prevista negli articoli 51 e 54 del TUIR. Dopo aver illustrato brevemente la normativa sembra opportuno fare alcune considerazioni riguardo a tale disposizione, anticipando alcune riflessioni che verranno riprese di seguito trattando la compatibilità della disciplina delle società di comodo con i principi costituzionali. La finalità dell’intervento è quella di scoraggiare l’utilizzo di beni non impiegati nell’esercizio dell’impresa ma per fini personali. Si tratta di beni effettivamente acquistati dalla società, la quale li pone gratuitamente in uso ai soci, senza che vi sia uno stabile distacco del bene dal circuito produttivo e senza che vi sia alcuna manipolazione della volontà essendo i beni intestati alla struttura societaria e non al socio o familiare. Non c’è quindi interposizione fittizia, si è invece di fronte ad un “impiego abnorme dello strumento societario” rispetto a quanto stabilito nell’atto costitutivo: i beni la cui titolarità è appunto della società vengono messi a disposizione dei soci e vengono così estraniati dal circuito produttivo dell’impresa64. Fin prima dell’introduzione della previsione legislativa del 2011 l’utilizzo dei beni d’impresa per il godimento personale dei soci o familiari comportava già l’indeducibilità di tale costo per la società, mancando il requisito dell’inerenza, dato che l’utilizzo avveniva per finalità estranee all’esercizio imprenditoriale65. Non vi era alcuna conseguenza diretta invece in capo al socio che poteva impiegare tali beni, senza il pagamento di un corrispettivo o corrispondendone uno in misura inferiore al valore di mercato66. Il regime d’imposizione 64 BEGHIN M., Il reddito d’impresa - per l’università e per la preparazione all’esercizio delle professioni economico-giuridiche, cit., pag. 90 e ss.. Nel caso delle intestazioni societarie di comodo non si è di fronte al fenomeno di interposizione fittizia, con la relativa applicazione dell’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 nel quale è stabilito che “(…) sono imputati al contribuente i redditi cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato (…), che egli è l’effettivo possessore per interposta persona”. I beni appartengono alla società, non c’è nascondimento o manipolazione della volontà. Si è di fronte all’opacizzazione del “(…) programma della società, allontanandola da quella logica lucrativa che connota l’attività economica [e] declinano altresì in una situazione di chiara anomalia gestionale, perché il soggetto che utilizza in concreto il bene non coincide con il soggetto il quale dispone, in relazione al medesimo cespite, del valore fiscalmente riconosciuto”. 65 La deduzione dei costi dal reddito d’impresa è ammessa a condizione che siano rispettati tre requisiti: il principio di inerenza, di previa imputazione in conto economico e di correlazione. Questi ultimi due sono previsti nel comma 4 e 5 dell’art. 109 del TUIR, mentre il principio di inerenza non è formalizzato in una disposizione tributaria e lo si applica attraverso il principio di derivazione. Un costo è inerente se collegato all’esercizio dell’attività d’impresa e quindi all’esercizio dell’attività economica. Nella pratica il principio di inerenza è collegato a quello di correlazione stabilito nel comma 5 dell’art. 109 del TUIR il quale stabilisce che “le spese e gli altri componenti negativi diversi (…) sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi (…)”. 66 Come evidenzia STEVANATO D., Riflessioni “a caldo” sui flussi reddituali dei beni d’impresa concessi in godimento ai soci, in Dialoghi dir. trib., 2011, 5, pag. 502, in questo modo i soci potevano effettuare atti di 24 previsto dal Decreto Legge n. 138/2011 basa la propria logica non sul “valore” del bene acquistato dalla società, ma in relazione ai potenziali flussi reddituali che derivano dal possesso del bene, in connessione con il suo valore d’uso e sul fatto che quel bene è stato concesso in godimento per un valore inferiore a quello di mercato. In questo caso quindi l’elemento dirimente non è rappresentato dalla forma negoziale prescelta per la concessione, ma dalla finalità per la quale si realizza l’operazione, che è appunto quella di destinare il bene d’impresa a vantaggio del socio o del familiare e nella quale non si realizza una fuoriuscita effettiva del bene dal patrimonio societario. La previsione stabilita dall’art. 2 comma 36quaterdecies e seguenti del Decreto Legge n. 138/2011 non può essere identificata come una normativa connaturata al sistema di determinazione del reddito d’impresa; essa rappresenta uno strumento di contrasto a quelle operazioni caratterizzate dall’incoerenza tra la formale intestazione del bene all’impresa ed il sostanziale utilizzo dello stesso per finalità extraimprenditoriali. Partendo dalla previsione dell’indeducibilità integrale dei costi, si ritiene che il legislatore abbia formalizzato la “presunzione” secondo la quale le assegnazioni dei beni ai soci o familiari si pongono al di fuori dell’attività d’impresa ed avvengono normalmente per soddisfare necessità personali, di conseguenza non devono essere dedotti tali componenti negativi dal reddito d’impresa67. Con la nuova disciplina si è inteso stabilire l’automatica indeducibilità “in ogni caso” dell’intero costo sostenuto dalla società, eliminando dubbi e contestazioni che potevano derivare dalla possibilità di prevedere l’imponibilità della differenza tra il valore di mercato del bene concesso ed il corrispettivo pattuito68. L’indeducibilità del costo di tali beni è motivata dal fatto che essi non contribuiscono all’attuazione del programma societario, non sono poi oggetto di commercializzazione e nel consumo privato, grazie ad utili che non avevano scontato il secondo livello di tassazione in capo ai soci medesimi. Cioè attraverso la collocazione dei beni suscettibili di godimento privato intestati alla società, il socio persona fisica non ha il bisogno di appropriarsi anche degli utili prodotti dalla società stessa, scontando così l’IRPEF o l’imposta sostitutiva sulla quota del dividendo. In questo modo viene schermata attraverso l’intestazione societaria il consumo finale del bene e la tassazione si assesta solo a livello di IRES evitando il secondo livello d’imposizione. 67 D’ANGELO G., Il nuovo regime fiscale della concessione in godimento di beni d’impresa a soci e familiari, in Rass. trib., 2013, 4, pag. 769. Le specifiche previsioni legislative relative all’indeducibilità dei costi di determinati beni d’impresa sono state introdotte in ragione dell’inerenza del bene allo svolgimento dell’attività e presentano un maggior grado di specificità rispetto alla previsione stabilita dal Decreto Legge n. 138/2011. In questo senso dovrebbe essere letta l’indeducibilità integrale, che dovrebbe trovare attuazione solo in quei casi in cui il bene non sia già soggetto ad altre limiti di deducibilità. 68 Come viene evidenziato da FERRANTI G., Società di comodo e beni ai soci: i chiarimenti di Assonime, pag. 2119, cit., in presenza di un corrispettivo inferiore al valore normale relativo alla concessione del bene in godimento ai soci prima dell’introduzione dello specifico regime oggetto d’analisi nel presente paragrafo, l’Amministrazione Finanziaria avrebbe potuto accertare un maggior componente di reddito in capo all’impresa, applicando il principio più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui è possibile sindacare la congruità dei componenti di reddito risultanti dalla contabilità in presenza di comportamenti antieconomici dei contribuenti. 25 caso di beni strumentali, l’utilizzo da parte del socio comporta la non immissione di quei cespiti nell’attività produttiva della società. Attraverso tale previsione legislativa il requisito della non inerenza del costo del bene rispetto all’attività d’impresa è stabilito quindi in modo automatico dal legislatore, in tutti i casi nei quali si riscontrano intestazioni societarie “di comodo”. E’ stata inoltre sottolineato che tale integrale indeducibilità appare eccessiva e può dare origine a doppie imposizioni; la differenza tra il valore di mercato ed il corrispettivo pattuito per l’utilizzo di quel determinato bene costituisce reddito in capo al socio e contemporaneamente per la società il corrispettivo pattuito genera un componente positivo di reddito69. In aggiunta all’indeducibilità dei costi per l’impresa, come detto precedentemente, è stato previsto che il godimento del bene da parte del socio o familiare generi in capo a quest’ultimo un reddito figurativo, connesso alla disponibilità di averlo ottenuto in modo gratuito o per un valore inferiore a quello di mercato, che rientra tra i dei redditi diversi. Dal lato della società l’utilizzo del bene da parte del socio o del familiare rappresenta un costo figurativo, pari al suo mancato sfruttamento economico; nel caso in cui la società ne avesse avuto la disponibilità concreta e lo avesse utilizzato avrebbe potuto produrre un utile da assoggettare ad IRES, che in una fase successiva sarebbe stato distribuito al socio per potergli consentire di reperire nel mercato un bene analogo a quello posseduto dalla società. Tuttavia quello che si deve sottolineare è che qualora il bene fosse stato posseduto dal socio direttamente non avrebbe generato alcun reddito tassabile, mentre nel caso in esame questo si trasforma in una fonte di reddito figurativa. Nella categoria dei redditi diversi confluiscono attività fiscalmente rilevanti relative a “somme incassate” o ad “ammontare percepiti”, la previsione di inserire in tale fattispecie di reddito il valore di mercato del bene concesso in uso gratuito all’utilizzatore o la differenza tra tale valore ed il corrispettivo pattuito appare fuorviante dal momento che viene sottoposto ad imposizione un reddito che non è stato concretamente acquisito. La disposizione prevista dal Decreto Legge n. 138/2011 non considera che la tassazione del reddito presuppone l’incremento del patrimonio70. Attraverso la normativa prevista dalla lettera h-ter dell’art. 67 del TUIR si considera materia imponibile non l’incremento del patrimonio del soggetto passivo, ma il mero risparmio di spesa dal momento che è solo nell’ipotesi in cui il socio non corrisponda nulla o spenda in misura 69 A parere di STEVANATO D., Riflessioni “a caldo” sui flussi reddituali dei beni d’impresa concessi in godimento ai soci, cit.,pag. 502. sarebbe stato preferibile prevedere un regime di indeducibilità parziale che tenesse conto “dell’utilizzo per così dire promiscuo del bene, i cui frutti potenziali vengono in parte monetizzati come proventi tassabili, ed in parte rinunciati e devoluti a priori al socio”. 70 Riguardo alla definizione di reddito FALSITTA G., Corso istituzionale di diritto tributario, Padova, 2012, pag. 400 e ss., sottolinea che esso rappresenta “un incremento del patrimonio della persona, è un quid novi che si aggiunge al patrimonio che già possedeva all’inizio del periodo d’imposta, incrementandolo”. 26 minore rispetto al valore di mercato per l’utilizzo del bene societario che si concretizza la fattispecie del reddito diverso. Questo reddito soggetto a tassazione non deriva dal possesso del bene, dato che quest’ultimo è intestato alla società e nemmeno scaturisce dalla sua disponibilità a cui faccia seguito l’esborso delle spese del mantenimento, essendo possibile che dette spese gravino totalmente sull’effettivo proprietario, quindi sull’impresa. Tassare un risparmio di spesa, quale è appunto il reddito diverso che deriva dalla differenza tra il valore di mercato ed il corrispettivo pattuito non significa tassare reddito, perché quest’ultimo presuppone un accrescimento del patrimonio nel periodo d’imposta71. Operando in questa direzione viene meno anche il rispetto del principio della capacità contributiva, il quale presuppone che il reddito consista in un effettivo incremento della ricchezza in capo al soggetto passivo. Il legislatore è libero di scegliere cosa sottoporre a tassazione, attraverso specifici interventi nelle diverse categorie di reddito previste dall’art.6 del TUIR, tuttavia il reddito fiscalmente rilevante deve essere connesso alla realtà, deve essere effettivo e concreto, misurabile cioè attraverso un incremento reale della ricchezza ascrivibile al contribuente. La previsione di tassare il socio o il familiare attraverso l’imputazione di un reddito diverso significa tassare un reddito fittizio, creato “a tavolino”, trascurando il dato economico esistente in natura72. Sembra quindi che la previsione di tassare il socio sia quella di osteggiare con la leva fiscale le intestazioni societarie “di comodo”; la previsione dell’art. 67, comma 1, lett. h-ter del TUIR svolge quindi una funzione deterrente. L’introduzione del legislatore di tale apposito regime rappresenta quindi un’ulteriore misura contro l’utilizzo improprio dei beni e delle strutture societarie come schermi. All’inizio del paragrafo è stata evidenziata l’affinità di tale disciplina con quella delle società di comodo, dal momento che entrambe mirano a contrastare in gran parte fenomeni coincidenti. E’ anche possibile che le due discipline si sovrappongano, nel caso di assegnazione dei beni in godimento ai soci potrebbe infatti accadere che la società non riesca a realizzare i ricavi minimi presunti risultando quindi società di comodo. In questo caso alla tassazione prevista dall’art. 30 della legge n. 724 del 1994 si aggiunge quella ulteriore dovuta alla non deducibilità dal reddito 71 BEGHIN M., Le intestazioni societarie di “comodo” nel D.L. n. 138/2011 tra difetto di inerenza e resistibile tassazione dei risparmi di spesa, in Riv. dir. trib., 2012, 2, pag. 141. Secondo l’autore il soggetto che utilizza in modo gratuito i beni della società o per un importo inferiore rispetto al valore di mercato sta risparmiando, non sta incrementando il proprio patrimonio, lo sta preservando. “Senza un effettivo aumento della ricchezza, il reddito è soltanto chimera, vale a dire pura illusione”. 72 BEGHIN M., I rapporti tra società e soci: a piccoli passi verso lo smantellamento del concetto di reddito, in Corr. trib., 2012, 14, pag. 1059. L’autore evidenzia che il reddito per poter essere tassato deve essere rappresentativo di un incremento della ricchezza ascrivibile al contribuente. Se non c’è arricchimento non può esserci nemmeno tassazione. Viene inoltre evidenziata la forzatura di porre a tassazione il risparmio di spesa, che non è un incremento di ricchezza e non si può “superare [tale forzatura]mediante la semplicistica affermazione per la quale è “reddito” ciò che qualifica il legislatore come tale”. 27 d’impresa dei costi relativi ai beni utilizzati gratuitamente dai soci, oltre alla tassazione del reddito diverso in capo alla persona fisica. E’ stata evidenziata la sproporzione di tale risultato e la possibile soluzione di prevedere l’alternatività tra le due discipline, escludendo dal computo dell’applicazione ai fini del test d’operatività la quota di patrimonio corrispondente ai beni concessi in godimento ai soci73. Dall’analisi effettuata sembra che il nuovo regime previsto per i beni concessi in godimento ai soci abbia una finalità sanzionatoria, legata all’esigenza di ostacolare gli effetti prodotti dagli schermi societari; tuttavia tale chiave di lettura non può essere accettata dal momento che non è corretto identificare il tributo come strumento di punizione. Se si vuole utilizzare una norma per contrastare fenomeni che portano a situazioni di vantaggio fiscale, come in questo caso, deve essere prevista la disapplicazione degli aspetti favorevoli del regime abusivamente utilizzato, ma non ci si può spingere oltre prevedendo ulteriori conseguenze negative. Fino a quando non viene dimostrata l’interposizione fittizia il socio non è possessore dei beni, che appunto sono intestati effettivamente alla società, di conseguenza non appare condivisibile l’imputazione in capo allo stesso di alcun reddito. L’assetto della disciplina relativa all’assegnazione dei beni ai soci o familiari non appare proporzionata rispetto al fine stesso per la quale è stata introdotta. Stante l’oggettiva difficoltà dell’Amministrazione Finanziaria di reprimere ed ostacolare le intestazioni societarie di comodo, si può ritenere ragionevole la previsione dell’indeducibilità dei costi in capo all’impresa dei beni concessi in godimento. Tuttavia il legislatore doveva fermarsi a questa previsione e non introdurre la tassazione anche in capo al socio o familiare; attraverso l’azzeramento dei costi deducibili si eliminano già i vantaggi derivanti dall’immissione del bene nel reddito d’impresa e procedendo in questa direzione si finisce col tassare ricchezza inesistente74. 1.4 “Società di comodo” e “società non operative”: termini differenti per descrivere lo stesso fenomeno? Dopo aver fatto un excursus normativo relativo alla disciplina delle società di comodo ed aver 73 E’ questo quanto sostiene D’ANGELO G., Il nuovo regime fiscale della concessione in godimento di beni d’impresa a soci e familiari, cit., pag. 769, secondo cui data la duplicazione della tassazione che ne deriva si potrebbe applicare la disciplina delle società di comodo considerando la fruttuosità presunta di alcuni beni già oggetto di tassazione in capo ai soci come reddito diverso. 74 BEGHIN M., I rapporti tra società e soci: a piccoli passi verso lo smantellamento del concetto di reddito, cit., pag. 1059. “L’oggettiva difficoltà per l’Amministrazione finanziaria di individuare le fattispecie riconducibili alle intestazioni societarie di comodo certamente poteva essere affrontata anche mediante provvedimenti che incidano sulla deducibilità dei costi sopportati dalla società. Ma tale limite non può essere superato sotto la bandiera dell’interesse fiscale fino all’istituzione di norme volte a tassare meri risparmi di spesa, vale a dire fattispecie che non hanno incrementato il patrimonio del soggetto passivo”. 28 accennato al regime dei beni concessi in godimento a soci e familiari, sembra opportuno addentrarsi nella tematica, iniziando con l’effettuare alcune considerazioni riguardanti le nozioni di “società di comodo” e “società non operative”. Nella rubrica dell'art. 30 della Legge n. 724 del 1994 viene utilizzato il termine “società di comodo”, mentre nel testo della disposizione quello di “non operative”; tali termini vengono talvolta usati alternativamente sia dal Legislatore che dall'Amministrazione Finanziaria75. Sarebbe più corretto non commistionarne l’utilizzo, dato che possono manifestare alcuni tratti differenti, come distinti sono i fenomeni dell’interposizione soggettiva e del mero godimento in assenza d’impresa. Nel primo caso, che interessa tutti i settori economici, determinanti appaiono le ragioni per cui il contribuente decide di dare un determinato assetto giuridico ai propri interessi, mentre la seconda ipotesi è diffusa soprattutto nel settore immobiliare e finanziario. La società “non operativa” sembra riguardare situazioni riconducibili al mero godimento dei beni, nelle quali non viene svolta un’attività economica di natura imprenditoriale o comunque l’attività è limitata e non giustifica il possesso di beni durevoli. L’espressione “di comodo” allude invece all'interposizione soggettiva; l’assetto societario funge da copertura e manifesta un carattere fittizio rispetto alla configurazione effettiva, nella quale i reali proprietari dei beni sociali sono una o più persone fisiche che li utilizzano per i propri fini personali76. Risulta opportuno accennare alla distinzione tra interposizione fittizia ed interposizione reale proprio per comprenderne le differenze e riuscire ad inquadrare meglio il fenomeno della “non operatività” delle società e la differenza delle espressioni “di comodo” e non operativa”. L’interposizione fittizia si realizza quando il negozio giuridico è concluso apparentemente da un soggetto con un altro, che assume la posizione di interposto, ma in realtà è concluso da una diversa persona, che è l’interponente e che rimane occultata ai terzi. L’interposto quindi, in base alla situazione esteriore, risulta essere il contraente dell’atto negoziale, mentre nella situazione sostanziale è il soggetto interponente, il reale contraente, che non volendo figurare nel contratto, cela la propria identità dietro ad un prestanome. L’interposizione soggettiva è originata da un accordo simulatorio tra tre soggetti: il contraente apparente, il contraente effettivo e la controparte. Gli effetti del negozio giuridico che derivano dall’accordo tra le tre parti sorgono esclusivamente nei confronti dell’interponente e l’interposto rappresenta uno 75 Sul punto vedi per tutti TOSI L., Le predeterminazioni normative nell'imposizione reddituale. Contributo alla trattazione sistematica dell’imposizione su basi forfettarie, cit., pag. 354. CERMIGNANI M., Il regime fiscale delle società di comodo: ratio, attualità e prospettive, cit., pag. 1-255. L'autore sottolinea come i termini società di comodo e società non operative siano considerati “termini equipollenti, fungibili” dallo stesso Legislatore e dall'Agenzia delle Entrate. 76 TOSI L., Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 5. 29 schermo, il quale non acquista e trasmette diritti. L’interposizione fittizia o soggettiva si differenzia dall'interposizione reale77, dove la persona interposta, d’accordo con l’interponente, risulta effettivamente il reale contraente verso i terzi, acquista i diritti nascenti dal contratto ma è tenuta a ritrasferirli all’interponente. La posizione giuridica che quindi ha l’interposto in questo caso è differente dalla posizione economica proprio perché è tenuto a trasmettere i risultati conseguiti dell’attività all’interponente. In questo caso la conoscenza o meno per il terzo dell’accordo tra l’interponente e l’interposto non rileva ai fini dell’efficacia dell'atto78. Rispetto alla tematica dell’interposizione fittizia si deve sottolineare che l’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 prevede che gli uffici finanziari possano superare l’apparente titolarità del reddito quando viene dimostrato chi è effettivamente il possessore: “in sede di rettifica o d’accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni precise, gravi e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”. Attraverso questa disposizione si vuole quindi fare riferimento alla specifica ipotesi dell’interposizione fittizia, quale espressione della simulazione, prevedendo che l’interposizione soggettiva venga combattuta attraverso il potere di superamento di una realtà che risulta fittizia79. E’ stato evidenziato che applicare l’art. 37 comma 3 citato alle fattispecie dell’interposizione reale significherebbe modificare “surrettiziamente la definizione stessa del presupposto dell’imposta sui redditi così come stabilita dal TUIR”, in quanto si imputerebbe il reddito non solo al titolare di tale reddito e quindi all’interponente, ma anche a chi non lo è, da un punto di vista giuridico e quindi all’interposto, che ha appunto l’obbligo di trasmettere i risultati ottenuti dall’attività all’interponente stesso80. La previsione stabilita dall’art. 37, 77 Come per esempio nel caso del contratto di mandato, disciplinato dall'art. 1703 e ss. Cod. Civ. PAPARELLA F., Punti fermi della cassazione sull’art. 37, comma 3, del D.P.R. n .600 del 1973, in Rass. trib., 2000, 4, pag. 1273. L’interposizione reale si differenzia dall’interposizione fittizia proprio perché non si è in presenza di uno schema simulatorio. Nell’interposizione fittizia invece l’intervento dell’interposto è simulato in quanto chi contratta è in realtà l’interponente. “L’interposizione fittizia è quella forma di simulazione relativa riguardante i soggetti realizzata attribuendo la posizione di destinataria dell’atto ad una parte che rappresenta un nuntius in luogo dell’effettiva”. 79 BASILAVECCHIA M., L’interposizione soggettiva riguarda anche comportamenti elusivi?, in Corr. trib., 2011, 36, pag. 2968. Si evidenzia che l’applicazione dell’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 si riferisce alla specifica fattispecie dell’interposizione fittizia e non dell’interposizione reale. Tale disposizione opera quindi come fattore di contrasto nelle situazioni in cui la titolarità del reddito è solo apparente ed è diversa invece dalla titolarità effettivamente accertabile, che riguarda il soggetto interponente. Quindi con l’interposizione fittizia ci si trova di fronte ad una situazione apparente che è diversa da quella reale, mentre nell’interposizione reale la sostanza e la forma coincidono. 80 “Si riconoscerebbe in particolare la facoltà dell’ufficio di superare l’impostazione casistica, che caratterizza il sistema delle imposte sui redditi, imputando il reddito non al (solo) titolare di esso (in quanto possessore), ma anche a chi tale reddito non possiede in senso giuridico-formale o, comunque, lo possiede solo utilitaristicamente per essere titolare del diritto alla retrocessione”. Così GALLO F., Prime riflessioni su alcune recenti norme antielusive, in Dir. prat. trib., 1992, I, pag. 1761 e spec. 1770. 78 30 comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 contrasta quindi le situazioni giuridiche connotate da un’intesa simulatoria, nella quale il profilo apparente dell’atto è differente da quello invece effettivo voluto dalle parti. Ritornando all’assimilazione della nozione di società di comodo all'interposizione fittizia, già in passato, prima dell'introduzione della Legge n. 724/1994, erano state fatte alcune considerazioni; in particolare il Professore Victor Uckmar in un convegno svoltosi a Torino nel 1981 aveva trattato tale tematica. Oggetto del dibattito era l’evasione fiscale, la repressione penale e nello specifico che ci riguarda, se potesse costituire o meno frode fiscale l’occultamento dei redditi mediante interposizioni fittizie o attraverso società costituite o utilizzate esclusivamente per tale fine. Veniva quindi discussa l’equiparazione dell’interposizione fittizia, quale strumento possibile per l’intestazione del cespite produttivo di reddito ad un soggetto interposto, al fenomeno delle società appunto dette “di comodo” proprio perché sorte per attribuire tali beni ai non reali utilizzatori. Si tratta di schermi societari sorti per intestare cespiti autonomamente produttivi, quali quelli immobiliari o le partecipazioni societarie81. Veniva così già evidenziato all’epoca che lo sviluppo delle società di comodo era determinato da ragioni di carattere fiscale; la crescente pressione tributaria aveva portato all’utilizzo degli schermi societari per ridurre gli oneri, attraverso un prelievo proporzionale e non progressivo, come nel caso delle persone fisiche e per poter acquisire vantaggi derivanti per esempio dalla rivalutazione dei cespiti o dal riporto in avanti delle perdite82. Il mero godimento non ricade invece nel fenomeno dell’interposizione fittizia e questo si ritiene possa essere confermato proprio dal fatto che il legislatore per tale fattispecie ha deciso di introdurre la disciplina ad hoc prevista dall'art. 30 della Legge n. 724/1994, con l’obiettivo di ostacolare tali società non operative, attraverso una tecnica legislativa estranea alla tematica interpositoria83. Non si può parlare per le società “non operative” di mero godimento, di simulazione dato che i beni appartengono concretamente alla società, che rappresenta il contraente effettivo rispetto al venditore del 81 Tali società non devono essere confuse con quelle anomale a ristretta base azionaria, denominate anche società “familiari” o “fasulle” o “apparenti” o “etichetta”, perché la caratteristica essenziale delle società di comodo è appunto l'essere delle società non imprenditoriali, cioè non produttive. NUSSI M., L’imputazione del reddito nel diritto tributario, cit., pag 529. 82 UCKMAR V., “L’interposizione fittizia” e le “società di comodo” quali ipotesi di reato fiscale, in AA.VV., Evasione fiscale e repressione penale. Atti del convegno di Torino( 7-8 marzo 1981) (coordinato da UCKMAR A. e V., Padova, 1982,pag. 161e ss.. Con riguardo alla questione trattata nel convegno e cioè che l'interposizione fittizia e le società di comodo costituiscano o meno reato, si è giunti a stabilire che è necessario l'occultamento del possesso dei redditi e con rifermento specifico alle società di comodo, esse devono essere costituite esclusivamente per tale fine. 83 NUSSI M., L’imputazione del reddito nel diritto tributario, cit., pag 527 e ss; rileva infatti l'autore che “(...) la problematica delle società di mero godimento non va assolutamente confusa con le fattispecie a rilevanza interpositoria del reddito: per quest'ultime, infatti, non avrebbe senso alcuno prevedere delle modalità di scioglimento agevolato, in quanto sussistono già gli strumenti, anche procedimentali ( si pensi appunto all'art. 37, comma 3, del D.P.R. 600/1973) per accertare l'effettivo possesso del reddito (...)”. 31 bene. L’utilizzo dello strumento societario proprio perché è “di comodo” non è simulato ed è estraneo all’interposizione fittizia, la società non operativa realmente esiste, seppure viene costituita per finalità che si allontanano rispetto al modello tipico di società e non per lo svolgimento di un’attività economica84. Non si è quindi in presenza di interposizione fittizia perché non c’è un nascondimento del reale proprietario del bene; si è di fronte ad un utilizzo anomalo della struttura societaria che non viene usata per finalità imprenditoriali, dove i beni vengono utilizzati, ma per scopi personali. Di conseguenza la tematica delle società “non operative” è estranea all’interposizione fittizia. Si è quindi cercato di mettere in evidenza che, da un punto di vista teorico, non c’è una perfetta coincidenza e sovrapposizione tra i concetti di “società di comodo” e “società non operative”. Il fenomeno che vuole essere contrastato attraverso la previsione normativa dell’art. 30 della legge n. 724/1994 non è assimilabile all’interposizione fittizia dal momento che i beni, sebbene utilizzati non per lo svolgimento dell’attività produttiva ma per fini extraimprenditoriali, sono effettivamente intestati alla società e non si è di fronte ad un interposizione fittizia della stessa società. Certo ci si può trovare di fronte a fattispecie nelle quali la società risulta non solo “non operativa” ma anche come soggetto interposto in modo fittizio. In linea generale appare quindi più corretto utilizzare il termine di “non operatività” per descrivere tale fenomeno rispetto a quello “di comodo”, sottolineando quindi il fatto che la costituzione ed il mantenimento di società sorte per il mero godimento dei beni, in assenza di una reale attività economica esercitata, non implica necessariamente l’esistenza di interposizione fittizia85. A conclusione di quanto esposto si può quindi affermare che le nozioni di “società di comodo” e “società non operative” non sono del tutto equivalenti. Nella logica normativa vengono usate indistintamente perché rappresentative del medesimo fenomeno reale di utilizzo delle società, come schermi per poter trarre vantaggi fiscali dall’assetto societario, in assenza dello svolgimento di una concreta attività economicoproduttiva86. 84 LOVISOLO A., Possesso di reddito ed interposizione di persona, in Dir. prat. trib., 1993, pag. 1665 e spec. 1694. L’autore evidenzia che l’utilizzo della società di comodo, come abuso dello strumento societario, è di per sé stesso estraneo all’interposizione fittizia, potendo essere riconducibile invece all’interposizione reale. E’ poi possibile che in specifiche fattispecie la società assuma la connotazione di interposto fittizio, e cioè come prestanome, i cui beni sono economicamente e sostanzialmente di appartenenza altrui. Allora in questo specifico caso rileverà il comma 3 dell’art. 37 del D.P.R. n. 600/1973. 85 TOSI L., Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo , in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 5. 86 CERMIGNANI M., Il regime fiscale delle società di comodo: ratio, attualità e prospettive , cit, pag. 1-255. 32 1.5 La disciplina delle società di comodo: normativa antielusiva, antievasiva o imposta patrimoniale? In questo paragrafo si fanno alcune riflessioni relative alla natura dell’art.30 della Legge n. 724/1994. La normativa delle società di comodo non risulta di facile interpretazione, a partire dalla scelta operata dal legislatore di porre rimedio al fenomeno dell'utilizzo improprio delle strutture societarie attraverso la disciplina tributaria. La ricerca della ratio di tale disicplina appare una soluzione non semplice che porta ad affermare che si è in presenza di “una logica di fondo complessa, ossia non univoca né esclusiva”87. Nella relazione accompagnatoria della Legge n. 662 del 23 dicembre 1996 si legge che scopo della disciplina delle società di comodo è quello di contrastare “l’uso improprio della struttura societaria che, anziché essere finalizzata all’esercizio produttivo di attività commerciali, viene impiegata per consentire l’anonimato degli effettivi proprietari dei beni intestati alle società (…)”. Obiettivo del legislatore nelle sue intenzioni originarie era quello quindi di disincentivare la proliferazione delle società “senza impresa”. Se si parte da quanto ribadito dal legislatore, si analizza poi la Circolare n. 5/E del 2 febbraio 2007 dell'Amministrazione Finanziaria la quale afferma che “la disciplina delle società non operative è stata introdotta nel nostro ordinamento allo scopo di contrastare le cosiddette società di comodo e, in particolare, di disincentivare il ricorso all'utilizzo dello strumento societario come schermo per nascondere l'effettivo proprietario di beni, avvalendosi delle più favorevoli norme dettate per le società”88 e ci si aggiunge l'esplicito riferimento presente nel comma 4-bis dell'art. 30 della Legge n. 724/1994 alla disapplicazione “delle relative disposizioni antielusive”, la normativa della non operatività potrebbe essere letta in chiave antielusiva. L’autoqualificazione di tale previsione legislativa sembra quindi collocarsi su un piano sostanziale, come reazione ad un comportamento distorsivo relativo alla corretta applicazione dei tributi; definirla antielusiva significa affermare che attraverso questa disposizione si vogliono contrastare le società di mero godimento e non quelle che pur svolgendo un’attività economica non ottengono nel periodo d’imposta determinati risultati89. 87 CERMIGNANI M., Il regime fiscale delle società di comodo: ratio, attualità e prospettive, cit., pag. 1-255. La Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 14/E del 15 marzo 2007 afferma che la disciplina “si pone l'obiettivo di contrastare l'utilizzo improprio delle forme societarie al fine di eludere le norme tributarie” e la successiva n. 25/E del 4 maggio 2007 più genericamente ribadisce che “l'obiettivo della norma in esame è quello di contrastare le società non operative che non abbiano cioè un interesse effettivo allo svolgimento di attività commerciali”. 89 PEVERINI L., Società di comodo e imposta patrimoniale: il contrasto tributario all'utilizzo distorto della forma societaria, in Giur. comm., 2013, 2, pag. 260. Secondo l'autore l’esplicito riferimento del legislatore alle disposizioni delle società di comodo come antielusive, evidenzia il fatto che per disapplicare la disciplina non deve esserci un aggiramento delle norme per poter trarre dei vantaggi fiscali. Non può quindi ritenersi elusivo il comportamento di chi svolgendo effettivamente un’attività economica non abbia raggiunto la soglia minima dei 88 33 Tuttavia chi non condivide la natura antielusiva dell’art. 30 in esame, sostiene che l'interrogativo da porsi riguarda i possibili vantaggi fiscali ottenibili dall'intestazione dei beni nelle strutture societarie. Una norma antielusiva serve ad evitare uno stratagemma giuridico di cui non sembra esserci traccia nella disposizione dell'art. 30 della legge n. 724/1994, dato che la collocazione di tali beni all’interno della struttura societaria non è per forza rappresentativa di un vantaggio fiscale90. Quando si procede a disapplicare una norma antielusiva, individuato lo stratagemma distorsivo, è necessario dimostrare che nel caso specifico l’espediente non può verificarsi, quindi non si è in presenza di alcuna lesione e la normativa deve essere disapplicata. In tema di società di comodo questi presupposti non sembrano esserci; anche qualora si ritenesse che l'espediente elusivo fosse rappresentato dall'intestazione del bene in quanto tale alla società, questo significherebbe affermare che la disciplina non potrebbe mai essere disapplicata. Si ritiene quindi non convincente affermare che l’intestazione di detti beni implichi lo sfruttamento delle più favorevoli norme dettate per le società e quindi l'elusione delle obbligazioni tributarie91. Oltre al fatto che identificare la disciplina delle società di ricavi o del reddito. Il riferimento del legislatore all'elusione deve riferirsi al comportamento di chi utilizza lo strumento societario pur mancando il requisito essenziale previsto dall'art. 2247 del Codice Civile, cioè lo svolgimento dell'attività economica, al fine di poter sottoporsi alle norme più favorevoli norme dettate per il reddito d'impresa. 90 LUPI R., Le società di comodo come disciplina antievasiva, in Dialoghi dir. trib., 2006, 9, pag. 1097 e ss.. Afferma l'autore come in merito alla disciplina sulle società di comodo non sia stata ancora capita l'effettiva finalità di tale disposizione e la sua giustificazione in termini di capacità contributiva. “Gran parte della pubblicistica si dilunga sui tecnicismi di funzionamento della norma, redige schemi ben ordinati su quali società “siano dentro” e su quali società “siano fuori”, senza però chiedersi quale sia lo spirito dell'istituto, la giustificazione, non tanto in termini costituzionali, ma di buon senso”. Definirla norma antielusiva non appare corretto, dato che sarebbe nebuloso il fondamento; quale sarebbe infatti “il vantaggio fiscale indebito” che la disposizione intende evitare? La spersonalizzazione dei patrimoni e quindi la loro “schermatura” sono spesso indotte da ragioni extra-tributarie, legato più ad una vantaggio civilistico, in termini di sistemazione dei rapporti famigliari e di cautela nei confronti dei possibili creditori, dove il fisco non c’entra molto. STEVANATO D., Società senza utili, imposte senza ricchezze: un caso di “darwinismo fiscale”?, in STEVANATO D. e SBROIAVACCA A., Società in perdita sistematica e tassazione degli utili inesistenti, una bomba ad orologeria da disinnescare, in Dialoghi dir. trib., 2012, 5, pag. 502. A parere dell’autore, la disciplina sul reddito d'impresa non è necessariamente più vantaggiosa rispetto a quella applicabile alle persone fisiche; basti per esempio riflettere sul regime di tassazione delle plusvalenze realizzate in regime d'impresa e sui rari casi invece di imponibilità delle plusvalenze in capo invece ai privati persone fisiche. Il rischio poi “della deduzione dei costi o della detrazione IVA sugli acquisti destinati al godimento dei soci può essere tranquillamente contrastato con gli ordinari poteri d'accertamento (in specie sotto il profilo dell'inerenza, assente per definizione in mancanza di una reale attività imprenditoriale)”. STEVANATO D., Società di comodo ed intenti pedagogici del legislatore tributario, in MELIS G., STEVANATO D. e LUPI R., Ancora in tema di società di comodo e presunzione d'evasione, in Dialoghi dir. trib., 2006, 10, pag. 1326 e ss.. Viene inoltre evidenziato che il regime della Partecipation exemption di cui all'art.87 del TUIR non si applica in linea generale alle società immobiliari se non qualora ricorrano specifiche condizioni. Dunque non vi è convenienza a realizzare plusvalenze da parte di una società immobiliare di godimento. Queste considerazioni sembrano evidenziare che manca quell'indebito vantaggio fiscale perché la disciplina prevista dall'art. 30 della Legge n. 724/1994 possa essere identificata come antielusiva. 91 SCHIAVOLIN R., Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 59 e ss.. Appare fortemente opinabile sostenere che l'intestazione dei beni alla società sia distorsivo dato che sarebbe elusa la tassazione che avrebbe colpito le persone fisiche in possesso di quei beni ed approfittando del regime apparentemente più favorevole previsto per 34 comodo come normativa di contrasto ad un’elusione della tassazione consistente nell’utilizzo delle società come contenitori patrimoniali non sembra poi soddisfacente, dal momento che la reazione a comportamenti elusivi può essere accettata se si prevede l’applicazione del regime eluso, non se diventa irrazionalmente punitiva, colpendo anche le società effettivamente operative ma che non superano le soglie previste dal test d’operatività. Secondo chi condivide quindi tale linea di pensiero, la disciplina della non operatività può essere solamente in apparenza identificata come uno strumento antielusivo92. Provare a definirle come normativa antievasiva appare quindi il frutto di un’argomentazione “in negativo”, non essendo agevole intravedere una ratio antielusiva che possa giustificare la tassazione di redditi e ricchezza presunti, come stabilito dal legislatore nell’art. 30 della Legge n. 724/1994. Fin prima dell’eliminazione del contraddittorio anticipato e dell’introduzione dell'interpello disapplicativo avvenuti con il Decreto Legge n. 223 del 4 luglio 2006, era tendenzialmente riconosciuta tale funzione antievasiva alla disciplina delle società non operative. La logica di base è che la presenza di determinati beni nel patrimonio societario implica la presunzione di una redditività minima ed al mancato raggiungimento dell’obiettivo la società è chiamata a fornire spiegazioni e dimostrare le peculiari circostanze che non hanno permesso il raggiungimento della soglia minima reddituale. La presenza di alcuni cespiti “oggettivamente fruttiferi” rafforza la presunzione del loro utilizzo all’interno della società per scopi reddituali e quindi l’idoneità a produrre ricavi proporzionali al valore patrimoniale iscritto in bilancio. Si vuole cioè disincentivare l’utilizzo indebito dello schermo societario per intestare beni utilizzati per fini privati e non per lo svolgimento dell’attività economica93. La normativa delle società di comodo diventa quindi in questo modo l’espressione di un indirizzo del legislatore volto a dissuadere gli utilizzi impropri delle strutture societarie. Tuttavia le modifiche apportate nel 2006 e l’eliminazione dell’obbligo del contraddittorio anticipato prima di poter emettere l'avviso d'accertamento relativo alla presunta non operatività le società commerciali. Sottolinea l'autore che l’elusione potrebbe essere accettata se si dimostrasse che qualora i beni fossero intestati non alla società ma alla persona fisica questa verrebbe tassata su un reddito presunto in modo corrispondente alla tassazione della struttura societaria. 92 Sottolinea inoltre NUSSI M., La disciplina delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi incoerenti, cit., pag. 491, riguardo all’indebito vantaggio che potrebbe derivare dall’utilizzo distorto delle forme societarie, come la mera forma commerciale della società totalmente separata dalla sostanza economica potrebbe far emergere la problematica dell'inerenza di molti costi sostenuti al di fuori dell'ambito imprenditoriale. Tuttavia ritenere antielusivo lo strumento normativo della disciplina delle società di comodo appare un’irragionevole penalizzazione, dal momento che esiste già la normativa generale dell’indeducibilità dei costi e il criterio ordinario discretivo dell'inerenza è idoneo a tale scopo. 93 STEVANATO D., Società di “comodo”: un capro espiatorio buono per ogni occasione, in Corr. trib., 2011, 47, pag. 3889. La si poteva ritenere una disciplina antievasiva “in una logica di controllo della ragionevolezza dei redditi dichiarati ai beni patrimoniali naturaliter fruttiferi veniva agganciata una presunzione di redditività minima, secondo una logica di tipo catastale e di fruttuosità medio-ordinaria del capitale, o più precisamente dei cespiti in cui questo risulta investito”. 35 dell'impresa, hanno mutato la disciplina delle società di comodo, con l’esplicazione di una surrettizia forma di tassazione patrimoniale che scatta al mancato raggiungimento dei livelli di ricavi e di reddito stabiliti ex lege, indipendentemente dall’effettivo svolgimento dell’attività imprenditoriale o meno. Può quindi trattarsi anche di società effettivamente operative ma che non sono riuscite a produrre ricavi e reddito secondo gli standard previsti dal legislatore con l'art. 30 della Legge n. 724/199494. Ne deriva quindi un regime di tassazione “estraneo” alle logiche dell'imposta sul reddito e al rispetto del principio di capacità contributiva sancito dall'art. 53 della Costituzione. Se il dato di partenza è la non operatività del soggetto, prevedere la tassazione di un reddito minimo sembra significhi tassare la creazione di patrimoni separati ed autonomi rispetto ai veri proprietari, cioè i soci, ponendo a tassazione ricchezza non effettivamente ascrivibile al contribuente e questo non può essere acettato95. Chi non condivide l’idea che tale disciplina possa dare origine ad una tassazione patrimoniale afferma che l’imposizione prevista dall'art. 30 in esame rappresenta una modalità di prelievo di tassazione del reddito e che si discosta proprio dall'imposizione patrimoniale basandosi su una presunzione legale di redditività minima. Si deve poi aggiungere che nell’ordinamento italiano non esiste un’imposta patrimoniale generale che riguardi le persone fisiche o gli enti proprietari e non si vede il motivo per cui il legislatore avrebbe dovuto introdurre una tale forma di imposizione soltanto nei confronti di quelle società che per appunto non svolgono un’attività economica e non raggiungono un certo ammontare di componenti positivi di reddito96. E’ stato inoltre sottolineato che la finalità antievasiva debba essere legata ad 94 STEVANATO D., Le società “di comodo”, tra imposizione cripto-patrimoniale e dirigistico utilizzo extrafiscale del tributo, in STEVANATO D. e LUPI R., Società “di comodo”:dov'è la capacità economica?, in Dialoghi dir. trib., 2007, 1, pag. 1 e ss.. Evidenzia l'autore come la disciplina delle società di comodo abbia smarrito la sua ratio originaria antievasiva e sia diventata “da strumento presuntivo d'accertamento del reddito effettivo, un gravoso ticket (…), una tassa sulla forma societaria e sulla separazione patrimoniale che questa consente”. Dietro all'etichetta di lotta all’evasione non è più l’Amministrazione ad effettuare controlli relativi a quanto dichiarato ma è il contribuente ex ante che ha l’onere di attivarsi per evitare la tassazione prevista dall'art. 30 della Legge n. 724/1994. PISTOLESI F., Reddito effettivo e reddito fittizio: evoluzioni recenti, in Corr. trib., 2007, 24, pag. 1981. L’eliminazione del contradditorio anticipato e l’introduzione dell’interpello disapplicativo evidenziano la transizione della disciplina della non operatività verso l’area del diritto tributario sostanziale, allontanandosi dall'effettività della tassazione reddituale. 95 PEVERINI L., La natura patrimoniale dell'imposta sulle società di comodo, in PEVERINI L, VIGNOLI A., LUPI R. e STEVANATO D., Società non operative:una patrimoniale mascherata da criterio (contronatura) di determinazione dei redditi, cit, pag. 132. Quanto previsto dall’art. 30 della Legge n. 724/1994 da origine ad un’imposta patrimoniale la cui base imponibile è quella dichiarata dalla stessa società. Se letta in questo senso la disciplina assume una propria coerenza e trova una sua giustificazione in un’ottica penalizzante. 96 E’ questa la tesi sostenuta da STEVANATO D., Società di comodo, orrore senza fine; da imposta su presunti redditi di fonte patrimoniale a tributo extrafiscale sul patrimonio, in PEVERINI L, VIGNOLI A., LUPI R. e STEVANATO D., Società non operative:una patrimoniale mascherata da criterio (contronatura) di determinazione dei redditi, cit, pag. 132, il quale evidenzia che “non basta trovarsi in una posizione differente rispetto agli altri per poter essere destinatari di un determinato regime fiscale differenziato, se tale diversità non esprime una differenziata capacità economica. Il mancato utilizzo dei beni nell'ambito di un’attività economica produttiva di ricavi e di redditi denota poi, semmai, una minore capacità di contribuire alle spese pubbliche”. 36 un’intenzione “pedagogica”, attraverso la quale si esplica un prototipo di società che si vorrebbe disegnare attraverso lo strumento legislativo. La normativa delle società di comodo svolge quindi una funzione pedagogica, dissuadendo da un uso dello schermo societario non servente all'attività d'impresa. Con tale termine si intende affermare che ci sarebbe una finalità extra-fiscale, volendo penalizzare le strutture societarie che vengono utilizzate come schermi per l'intestazione dei beni e proponendo un utilizzo fisiologico della società quale soggetto passivo che opera effettivamente producendo reddito e ricchezza97. Ne deriva quindi un utilizzo dello strumento tributario in chiave extrafiscale, non per produrre gettito che è un effetto collaterale della norma, ma per scoraggiare la nascita delle società di mero godimento98. Se quindi si parte dal presupposto di identificare nella normativa un intento “pedagogico” appare però discutibile la scelta del legislatore di prevedere tale disciplina per raggiungerlo. In modo critico viene sottolineata l’incoerenza tra fine e mezzo, dato che l’obiettivo non strettamente tributario di contrastare le società quali meri contenitori patrimoniali viene perseguito attraverso la disciplina fiscale, oltretutto prevedendo l’imposizione per la società di redditi presunti incompatibili con la definizione di non operatività della società stessa99. Inoltre sembra interessante accennare anche alla lettura che è stata data del possibile superamento delle società di comodo attraverso la valorizzazione dei principi posti a base dell'abuso del diritto100. In particolare si è focalizzata l’attenzione sulla L’autore sostiene poi che in un certo senso si può parlare di imposizione cripto patrimoniale in mancanza del raggiungimento del reddito minimo. In questo caso infatti l'imposta può essere pagata solo attingendo al patrimonio, diventando quindi imposta patrimoniale “negli effetti”. 97 CERMIGNANI M., Il regime fiscale delle società di comodo: ratio, attualità e prospettive, cit., pag. 1-255. Secondo l’autore la normativa delle società di comodo appare quindi caratterizzata da una molteplicità di funzioni dove l’intenzione complessiva del legislatore di disincentivare l'utilizzo anomalo della forma giuridica societaria, di natura “pedagogica” sembra coesistere con la ratio antielusiva, di contrasto all'abuso dello strumento societario con finalità di indebito risparmio fiscale, a cui si aggiunge poi quella antievasiva. 98 STEVANATO D., Società di comodo, buona giustizia e cattiva legislazione, in STEVANATO D. e LUPI R., Società di comodo e determinazione della ricchezza: antielusione sì, ma di che?, in Dialoghi dir. trib., 2014, 1, pag. 31. Nell'analizzare la Sentenza della Comm. Trib. Prov. di Pordenone n. 159 del 3 dicembre 2013, nella quale i giudici hanno ritenuto di considerare operativa una società immobiliare che si occupava di locare gli immobili a terzi, anche se alcuni di essi erano rimasti sfitti dal momento che non sussiste alcun intento elusivo, l’autore fa alcune considerazioni relative alla funzione di tale disciplina. Viene evidenziato che la ratio originaria di contrastare le attività di mero godimento è stata nel tempo travisata, “mettendo a bilancio delle entrate e spacciando tale normativa per uno strumento capace di stanare la ricchezza occultata”. 99 In modo critico LUPI R., Una mistificazione mediatica, in PEVERINI L., VIGNOLI A., LUPI R. e STEVANATO D., Società non operative:una patrimoniale mascherata da criterio (contronatura) di determinazione dei redditi, cit, pag. 132, evidenzia che “la finalità extrafiscale sull’uso improprio della forma societaria fa da foglia di fico ad una disposizione priva di giustificazione sul piano della determinazione della ricchezza”. 100 L’abuso di diritto è un principio giurisprudenziale (la Legge Delega all'art. 5 ha definito i principi essenziali da osservare per definirlo compiutamente) che trova applicazione per le fattispecie non rientranti nell'art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 concernente le disposizioni antielusive. La nozione dell'abuso di diritto è sovrapponibile a quella dell'elusione i cui elementi caratterizzanti sono il vantaggio fiscale indebito, l'asistematicità dell'operazione, la mancanza di ragioni economiche valide ed in più per l'abuso deve esserci anche l'utilizzo distorto degli strumenti giuridici. Finora l’abuso di diritto ha rappresentato un principio giurisprudenziale, non 37 possibilità dell’istituto giuridico dell’abuso di diritto di prevenire e reprimere i comportamenti che mirano ad un utilizzo improprio delle forme societarie attraverso la deduzione di costi non inerenti allo svolgimento d'attività d'impresa, relativi invece a spese private per utilizzi personali. Si tratterrebbe quindi nel caso delle società di comodo di andare a verificare nei singoli casi se vi è una mera gestione passiva del patrimonio sia attraverso l’utilizzo diretto dei beni patrimoniali da parte dei soci sia attraverso un’attività essenzialmente limitata alla gestione delle rendite proveniente dai beni dati in locazione per esempio, senza l’assunzione di alcun rischio d’impresa. Da ciò ne deriverebbe la conseguenza che tutta la normativa, complessa ed articolata dati gli innumerevoli casi d'esclusione e di valutazione delle ragioni che possono provocare il non superamento del test d’operatività, risulterebbe inutile se valutata alla luce dei principi dell'abuso di diritto. La delega per la riforma fiscale prevista dalla Legge n. 23 dell’11 marzo 2014, ha dato una definizione talmente ampia di abuso di diritto tale da poter far rientrare ogni tipologia di abuso della forma societaria per fini fiscali101. Non è stata colta però l’occasione di ricondurre il fenomeno delle società di comodo sotto la disciplina del'abuso di diritto102. Si è cercato quindi di evidenziare come appaia difficile inquadrare la disciplina delle società di comodo quale strumento antielusivo per evitare abusi o utilizzi impropri dello schermo societario per attività di godimento o antievasivo collegando quindi a determinati beni patrimoniali una presunzione di fruttuosità minima, declinando di fatto in una sorte di patrimoniale mascherata. Ciò che risulta chiaro è che se inizialmente questa disciplina era nata per scoraggiare l’utilizzo delle strutture societarie per attività di godimento, tale obiettivo è finito per essere travisato con il rischio effettivo che siano colpite non solo le società “senza normato ma che i giudici hanno estrapolato dal sistema. 101 L’art. 5 dispone in linea generale che si debba identificare “(...) la condotta abusiva come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d'imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione (…)”, specificando poi che deve essere data la possibilità di scegliere al contribuente tra diverse operazioni con carico fiscale differente e in relazione alle quali si deve poi osservare se possa o meno esplicarsi l'abuso del diritto. 102 E’ questo quanto sostiene DAMIANI M., Società di comodo e perdite sistematiche: l'abuso di diritto risolve le possibili discriminazioni, in Corr. trib., 2014, 12,pag. 929, secondo il quale “sarebbe stato interessante sbarazzarsi in un colpo di una sovrastruttura legislativa ormai caleidoscopica e di numerosi adempimenti divenuti oppressivi per tutti”. Inoltre sottolinea l'autore che la mera gestione del patrimonio può portare anche alla realizzazione di situazioni più gravi, come nelle quali potrebbe ravvisarsi l’abuso di diritto di costituzione di società, che si verifica quando non esiste alcuna ragione economica, salvo i vantaggi fiscali, tanto da poter sfociare “nell'inutilità economica” della società stessa. E' questo che è stato messo in luce nella Sentenza della Cassazione Penale n. 19100 del 3 maggio 2013. A tal proposito PERINI A., La società “non necessaria”come nuova frontiera dell'elusione fiscale penalmente rilevante?, in Riv. dir. trib., 2013, 4, pag. 68, ha analizzato quanto affermato dalla Corte nella Sentenza citata, dove accanto all'abuso di diritto dato dall'utilizzo distorto dello strumento giuridico per ottenere risparmio fiscale, in assenza di ragioni economiche sottostanti tali da giustificare l'operazione, si è giunti ad equiparare la “società non necessaria” a strumento elusivo potenzialmente foriero di conseguenze penali. 38 impresa” ma anche quelle che svolgono effettivamente un’attività imprenditoriale. Ad una deviazione della funzione tipica che dovrebbe svolgere la società qualificandosi attraverso l’atto costitutivo come tale, il legislatore sceglie un regime imposta, che si allontana dal principio di capacità contributiva e che sembra voler garantire la contribuzione alle spese dello Stato103. La normativa delle società di comodo appare complessa e non risulta chiara la ragione base per la quale il legislatore non abbia deciso di utilizzare la disciplina commerciale per arginare il fenomeno del distorto utilizzo delle strutture societarie, ma abbia scelto di ricorrere al diritto tributario, con la conseguenza che “con il passare delle stagioni politiche le società di comodo si sono trasformate in un (stavolta sì, “comodo”) espediente dialettico”104. Tale disciplina dal lontano 1994 ha continuato a subire modifiche le quali, invece di portare ad un miglioramento, hanno di fatto peggiorato ulteriormente la situazione, penalizzando i soggetti realmente operativi. 1.6 Il coordiamento della disciplina delle società di comodo con i principi costituzionali di uguaglianza e di capacità contributiva. Quali difficoltà? Dopo aver delineato un quadro generale relativo alla disciplina delle società di comodo, evidenziando da un lato le diverse modifiche che sono state attuate nel corso del tempo e dall’altro lato la difficoltà di identificare una ratio univoca e soddisfacente che spieghi il fenomeno della non operatività, appare opportuno svolgere alcune riflessioni riguardanti la compatibilità di tale normativa con l’importanza dei principi costituzionali di uguaglianza e di capacità contributiva. 1.6.1 L’importanza dell’articolo 3 e dell’articolo 53 della Costituzione nel diritto tributario L’art. 53 della Costituzione afferma al primo comma che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” e prosegue nel secondo comma 103 TRIVELLIN M., L'uscita dal regime delle società di comodo. Analisi di un'agevolazione fortemente discutibile sul piano della ragionevolezza e cenni ad alcune problematiche applicative, in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag.15 e ss.. Viene evidenziato che il rimedio posto dal legislatore attraverso l'introduzione di tale disciplina appare incoerente dal momento che manca la “patologia fiscale”, non potendosi ravvisare né evasione né elusione. 104 STEVANATO D., Società senza utili, imposte senza ricchezza: un caso di “darwinismo fiscale”?, in STEVANATO D. e SBROIAVACCA A., Società in perdita sistematica e tassazione degli utili inesistenti, una bomba ad orologeria da disinnescare, cit., pag.502. Afferma l'autore che “l'imposta sul reddito minimo mostrerebbe un parallelismo con i tributi ambientali, il cui obiettivo non è tanto quello di tassare la ricchezza prodotta da certe attività produttive, quanto di dissuadere i privati che intendono svolgerle: nel caso di specie, si tratterebbe di un utilizzo dell'imposta per dissuadere dalla costituzione e dal mantenimento delle società senza impresa”. Si tratta di una normativa che colpisce in modo indiscriminato situazioni assai differenti e dalla quale ne deriva una concezione dell'imposta distorta, con un fine extra-fiscale, quasi para-sanzionatorio. 39 stabilendo che “il sistema tributario è uniformato a criteri di progressività”. E’ opportuno sottolineare che l’espresso riferimento alla generalità del concorso alle spese pubbliche impone un carico fiscale uniforme ai soggetti che possiedono le medesime caratteristiche. L’identificazione dell’art. 53 Cost. quale espressione del principio d’uguaglianza rappresenta il punto di partenza comune dal quale derivano due visioni differenti relative alla funzione che deve essere svolta dal principio di capacità contributiva, quale limite “assoluto” o “relativo” alla costituzionalità delle norme tributarie 105. In particolare i sostenitori dell’approccio relativo, che rappresentano una minoranza, affermano che quanto espresso dall’art. 53 Cost. non deve essere inteso quale valore da tutelare in via assoluta, ma piuttosto deve essere interpretato come finalità, funzione che giustifica la congruità delle scelte adottate dal legislatore rispetto alla funzione medesima. Il principio di capacità contributiva espresso dalla Costituzione rappresenta l’esigenza di distribuire il carico tributario, senza però predeterminare alcun criterio vincolante; è lasciata la possibilità al legislatore di sottoporre a ricchezza qualunque situazione significativa, senza per forza che essa rappresenti un indice di ricchezza106. Il legislatore fiscale una volta identificato che il prelievo che ne deriva rispecchia il principio costituzionale di ragionevolezza e coerenza del sistema, sarà libero nella scelta dei presupposti di imposizione valutabili economicamente, potendo rivolgersi anche a fattori non per forza espressivi di forza economica e quindi scambiabili nel mercato; non è quindi necessario che siano indici di ricchezza patrimoniale, liberamente disponibile ed appartenente al soggetto passivo107. Sostenere la relativizzazione 105 E’ da evidenziare che anche in relazione all’espressione dell’art. 53 Cost. quale affermazione del principio d’uguaglianza, i sostenitori dell’approccio svalutativo della capacità contributiva affermano che l’articolo citato è di fatto assorbito ed annullato all’interno dell’art. 3 Cost. Coloro che sostengono la tesi contraria ritengono che l’art. 53 cit. non possa essere ridotto a mera specificazione del principio d’uguaglianza, avendo una propria portata autonoma e una valenza e peculiare. Si veda GALLO F., Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, Bologna, 2008, pag. 98; MOSCHETTI F., La capacità contributiva. Profili generali, in La capacità contributiva (a cura di MOSCHETTI F.), Padova, 1993, pag. 7. Si deve sottolineare inoltre che l’indirizzo svalutativo dell’art. 53 Cost. risale a A. D. GIANNINI. Dopo l’entrata in vigore della Costituzione il contenuto dell’art. 53 Cost. fu oggetto di critica da parte dell’autore, sostenendo la genericità del contenuto, l’ovvia legittimità del prelievo fiscale, l’insindacabilità delle scelte del legislatore ed il riferimento dell’articolo al sistema tributario complessivamente considerato e non alle singole disposizioni tributarie. 106 FEDELE A., Appunti dalle Lezioni di diritto tributario. Parte I, Torino, 2005, pag. 30-31.L’autore sostiene che “i criteri per determinare, nell’an e nel quantum, la partecipazione di ciascun consociato alle spese pubbliche si identificano necessariamente con facoltà di scelta nella soddisfazione dei propri bisogni ed interessi, usufruendo direttamente delle utilità fornite dai beni, ovvero più frequentemente, tramite comportamenti di altri soggetti”. La capacità contributiva deve essere intesa quale criterio di razionalità complessiva del sistema e dell’intera disciplina del concorso alle spese pubbliche. L’art. 53 Cost., comma uno, non rappresenta un vincolo assoluto, è rappresentativo di un indirizzo che impone il divieto di discriminazioni fiscali ingiuste e la necessità di individuare tecniche di per i vizi di legittimità costituzionale. 107 GALLO F., Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., pag. 85-87. Si afferma che identificando la capacità contributiva come fissazione di un criterio distributivo, la ripartizione del carico pubblico avviene attraverso scelte del legislatore fatte nella sua discrezionalità. Scindendo la persona del contribuente dalla sua proprietà gli unici criteri da rispettare nella scelta dei presupposti per procedere alla 40 del principio di capacità contributiva significa affermare in sostanza che tale principio non è rappresentativo di uno o più valori da tutelare in quanto tali, ma è espressione di “un’esigenza di congruità funzionale delle scelte legislative circa i criteri di riparto dei carichi pubblici”108. Inoltre gli assertori della tesi minoritaria sostengono che solo identificando il principio di capacità contributiva come vincolo relativo, l’art.53 Cost. non risulta violato dalle norme che, per concorrere alla soddisfazione di specifiche esigenze tutelate dall’ordinamento ed al fine di incentivare o disincentivare determinati comportamenti, prevedono determinate esenzioni o agevolazioni fiscali che di fatto escludono o riducono il concorso alle spese pubbliche. Attraverso tale approccio non risultano illegittime “le norme che delimitano o estendono l’ambito d’applicazione di determinati tributi individuando gli indici di potenzialità economica in ragione di considerazioni ulteriori rispetto alla valutazione della mera capacità patrimoniale dei soggetti passivi”109. Dopo questa breve parentesi, riprendendo la tesi sostenuta dalla dottrina maggioritaria, l’art. 53 della Costituzione rappresenta un vincolo assoluto, è fulcro e “norma cardine”110 del sistema tributario ed è stato inserito nella Costituzione senza essere assorbito dal principio d’uguaglianza, avendo quindi una propria valenza autonoma. L’introduzione di tale articolo nella Carta Costituzionale evidenzia sia il dovere tributario di concorrere alle spese pubbliche che la delimitazione del legislatore, il quale risulta vincolato al rispetto del principio di capacità contributiva nel scegliere quali situazioni significative devono essere sottoposte a tassazione sono quelli di identificare che tali presupposti siano oggettivamente rilevanti, che rispondano al principio di ragionevolezza e di non arbitrarietà e che in definitiva si possa procedere a compararli con altre fattispecie fiscalmente rilevanti. E’ proprio “il solo fatto dell’inserimento della persona contribuente in un contesto istituzionale e sociale e non quello della sua identificazione con un soggetto titolare di diritti soggettivi a contenuto patrimoniale, che dovrebbe giustificare, in via generale ed astratta l’assunzione stessa a soggetto passivo d’imposta in relazione anche ad indici di potenzialità economica posizioni e valori socialmente rilevanti, purchè espressivi di una capacità differenziata economicamente valutabile”. GALLO F., L’evoluzione del sistema tributario e il principio di capacità contributiva, in L’evoluzione del sistema fiscale e il principio di capacità contributiva (a cura di SALVINI L. e MELIS G.), Milano, 2014, pag.9. L’autore afferma che al legislatore fiscale non può essere vietato di far concorrere alle spese pubbliche i soggetti che sebbene siano titolari di posizioni economicamente rilevanti, non hanno il presupposto che contenga in sé entità patrimoniale. La capacità contributiva non può essere “assunta in termini soggettivi quale garanzia della persona”. 108 Così FEDELE A., La funzione fiscale e “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, in Diritto tributario e Corte costituzionale (a cura di PERRONE L. e BERLINI C.), Napoli, 2006, pag. 21. FEDELE A., Ancora sulla nozione di capacità contributiva nella costituzione italiana e sui “limiti” costituzionali all’imposizione, in L’evoluzione del sistema fiscale e il principio di capacità contributiva (a cura di SALVINI L. e MELIS G.), cit., pag.19. In modo critico l’autore evidenzia che il principio di capacità contributiva secondo la dottrina dominante è un valore autonomo, un limite assoluto e non viene identificato come invece un criterio di riparto, riconducibile al principio d’uguaglianza dell’art.3 Cost. come equità distributiva. 109 FEDELE A., Appunti dalle Lezioni di diritto tributario. Parte I, cit, pag. 30-31. Deve quindi essere “utilizzato” un approccio in termini relativi e non assoluti di controllo della legittimità costituzionale dei tributi quando il legislatore effettua delle scelte istituendo tributi ulteriori o maggiori prelievi in relazione a determinate situazioni o ancora quando sia esclusa o attenuata l’imposizione per determinate fattispecie. 110 FALSITTA G., Manuale di diritto Tributario. Parte generale, Padova, 2010, pag. 155. 41 tassazione111. La prestazione tributaria prevista dall’art. 53 Cost. non viene presentata dal punto di vista dell’ente impositore, ma come dovere generale di tutti i contribuenti di concorrere all’interesse comune, in ragione del fatto di possedere tale capacità contributiva, affermando quindi sia la legittimità dell’imposizione tributaria sia la doverosità della contribuzione112. Analizzando il dato testuale dell’articolo in esame si deve infatti evidenziare che il termine utilizzato “tutti” è espressione del principio di universalità e del dovere di colpire, qualora ne ricorrano i presupposti, tutti i soggetti senza distinzioni o privilegi, questo in armonia con quanto affermato dal principio d’uguaglianza. Inoltre l’espressione “in ragione della loro capacità contributiva ” sta proprio a significare che l’obbligo di contribuzione esiste se c’è un’idoneità sotto il profilo economico del privato a poter effettivamente contribuire. Ancor prima del limite generalissimo del divieto di illogicità, di incoerenza e di arbitrio del tributo, esiste il limite del principio di capacità contributiva che rappresenta un limite non implicito ed ovvio in ogni norma, ma un limite esterno che deriva dall’art. 53 della Costituzione. Quanto ribadito nell’articolo in esame rappresenta una sorte di proiezione nella materia tributaria del principio espresso dall’art. 2 Cost. il quale riconosce i diritti inviolabili della persona e “richiede l’adempimento alla collettività dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”113, sia del principio d’uguaglianza dell’art. 3 Cost. Tuttavia quanto stabilito dall’art. 53 Cost. non è una mera estensione di quest’ultimo, dato che se il principio d’uguaglianza si colloca in una dimensione “intersoggettiva” dove a parità di ricchezza tra due soggetti ci si aspetta il medesimo prelievo, il principio di capacità contributiva va oltre proiettandosi anche in una dimensione “introspettiva”, dove è previsto che il contribuente paghi se gli è ascrivibile un incremento della ricchezza apprezzabile in termini di idoneità al pagamento 114. La nozione di capacità 111 GAFFURI F., Il senso della capacità contributiva, in Diritto tributario e Corte Costituzionale (a cura di PERRONE L. e BERLIRI C), Napoli, 2006, pag. 26. La norma ha una valenza programmatica e non è idonea a porre precetti che abbiano un’efficacia immediata, tuttavia vincola il legislatore al suo rispetto e consente al contribuente di denunciare il non rispetto di tale principio. 112 MOSCHETTI F., La capacità contributiva. Profili generali, in La capacità contributiva (a cura di MOSCHETTI F.), cit., pag. 4. La capacità contributiva non è rappresentativa di un astratto potere impositivo, ma è l’espressione dell’attitudine a concorrere alle spese pubbliche. Che si manifesta in primis attraverso la forza economica del soggetto. “Tutti” devono quindi partecipare all’interesse comune e questo per il fatto che possiedono l’idoneità di realizzare tale interesse. 113 MOSCHETTI F., Capacità contributiva, in Enc. Giur. Treccani, Torino, V, 1988, pag. 1 e ss.. L’art.2 Cost. riconosce i diritti inviolabili della persona e “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Questa impostazione di fondo si ritrova anche nell’art. 53 Cost. attraverso il quale si individua la ragione delle prestazioni tributarie nel dovere di concorrere alle spese pubbliche e contemporaneamente viene sancito il principio di capacità contributiva quale criterio di giustizia nella creazione e ripartizione dei tributi. 114 BEGHIN M., Diritto Tributario. Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, cit., pag. 27 e ss.. Il principio sancito dall’art. 53 Cost. rappresenta una forma di protezione nei confronti delle leggi arbitrarie che non trovano alcun legame con la realtà sottostante. In questo contesto l’art. 3 Cost. ha come logica il 42 contributiva precede e domina il sistema impositivo, ne costituisce il criterio di selezione dei pesi fiscali e presiede quindi alla corretta individuazione dei fatti imponibili che devono essere indici idonei di forza economica115, fungendo da norma di garanzia per i contribuenti116. Questo non significa che il legislatore non possieda una certo spazio discrezionale nella scelta, ma tale discrezionalità deve rispecchiare l’idoneità a contribuire117. Dietro alla capacità contributiva deve esserci la capacità economica, mancando quest’ultima non può essere richiesto di contribuire, viene cioè meno l’obbligo stesso del contribuente di partecipare all’interesse collettivo ed alle spese pubbliche. Nello specifico, identificando la capacità contributiva come forza economica due sono i fattori costitutivi definiti talvolta come presupposti assoluti, la cui assenza determina l’inesistenza della capacità stessa: il primo si riferisce al fatto che ogni imposta deve avere come fatto-generatore “un indice di forza economica costituito da denaro o da ricchezze non monetarie ma agevolmente traducibili in danaro attraverso appropriati atti di scambio sul mercato” ed il secondo è rappresentato “dall’idoneità soggettiva alla contribuzione del singolo soggetto elevato dalla legge al rango di contribuente”, cioè all’imputabilità dell’indice al soggetto passivo del tributo118. Si deve quindi partire dal presupposto che il prelievo tributario per poter essere conforme all’art. 53 Cost. deve trovare il fondamento in una manifestazione della ricchezza che il legislatore è tenuto a ricercare a cui ci si deve aggiungere l’idoneità soggettiva alla contribuzione, con la confronto tra due situazioni soggettive, mentre il principio di capacità contributiva prevede che si paghi se ci si trova nella condizione di poterlo fare. MOSCHETTI F., La capacità contributiva. Profili generali, in La capacità contributiva (a cura di MOSCHETTI F.), cit., pag. 7. Il principio di capacità contributiva ancor prima di essere parametro per giudicare se due situazioni sono analoghe o meno dal punto di vista tributario è principio costituzionale di giustizia fiscale e ridurre tale principio a semplice specificazione del principio d’uguaglianza significa di fatto cancellare l’art. 53 Cost. 115 Deve essere precisato che solo a partire dagli anni 60 si evidenziò che il principio di capacità contributiva imponeva il riferimento alla forza economica del soggetto. Peraltro precedentemente all’art. 53 Cost., lo Statuto Albertino nell’art. 25 stabiliva che l’imposizione dovesse avvenire in base agli “averi” del soggetto e l’art. 134 della Costituzione della Repubblica di Weimar, assunto come modello nella fase di elaborazione dell’articolo in esame, collegava il prelievo tributario in relazione ai mezzi economici del soggetto passivo. FALSITTA G., Manuale di diritto Tributario. Parte generale, cit., pag. 158. 116 Sostiene poi GAFFURI F., Il senso della capacità contributiva, in Diritto tributario e Corte Costituzionale ( a cura di PERRONE L. e BERLIRI C), cit., pag. 25 e ss. che il principio di capacità contributiva espresso dall’art. 53 Cost. rappresenta “una barriera invalicabile a protezione del singolo contro un’invadenza fiscale non rispettosa di attitudine contributiva, sia perché l’oggetto imponibile non la rileva, sia perché quell’oggetto, pur essendo adeguatamente sintomatico di tale attitudine, sia sottoposto ad un’eccessiva pressione fiscale”. La capacità contributiva presiede quindi alla corretta individuazione dei fatti imponibili. 117 MOSCHETTI F., Il principio di capacità contributiva, espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità, in Diritto tributario e Corte Costituzionale (a cura di PERRONE L. e BERLIRI C), cit., pag. 45-46. Evidenzia l’autore come la norma sia stata inserita nella Carta Costituzionale perché la discrezionalità del legislatore trovasse un limite appunto nel principio di capacità contributiva. Il perno è quindi rappresentato dal giudizio di idoneità alla contribuzione da parte del soggetto passivo ed in questo ambito si deve inserire la discrezionalità del legislatore. “In definitiva: la discrezionalità termina dove viene meno l’idoneità”. 118 FALSITTA G., Manuale di diritto Tributario. Parte generale, cit., pag. 159. Entrambi questi due fattori sono essenziali definiti talvolta come una conditio sine qua non che porta ad identificare la capacità contributiva come un vincolo assoluto. 43 precisazione che qualora i fatti-indice posti a base della tassazione siano generati attraverso presunzioni troppo lontane dalla realtà effettiva, si finisce con il prevedere il prelievo di arricchimenti fittizi, dove non esiste una reale capacità economica del soggetto. Le fattispecie da sottoporre a tassazione devono essere espressive della capacità del soggetto passivo a sostenere le spese pubbliche; la capacità contributiva non deve essere presunta ma deve essere effettiva119. Si deve inoltre sottolineare che il requisito della disponibilità economica del soggetto non si esaurisce nell’identità tra capacità economica e capacità contributiva: “è capacità contributiva la capacità economica considerata idonea a realizzare nel campo economico e sociale le esigenze collettive accolte nella Costituzione”120. La capacità contributiva, che deve essere interpretata alla luce non solo dell’art. 53 Cost, ma collegandola anche all’art. 2 Cost. ed ai valori espressi dalla Costituzione, implica quindi la valutazione dell’idoneità della capacità economica alle spese pubbliche, identificando quindi quest’ultima come condizione necessaria ma non sufficiente. Quindi ogni manifestazione di capacità economica non è manifestazione di capacità contributiva. E’ proprio in questa “non sovrapposizione” tra le due capacità che emerge la tutela del c.d. minimo vitale, il quale prevede la non tassazione della capacità economica inidonea a concorrere alle spese pubbliche, in relazione alla necessità di soddisfare le esigenze primarie dell’individuo. La capacità contributiva rappresentativa dell’idoneità del soggetto a concorrere all’esborso, non corrisponde quindi alla totale capacità economica del soggetto, dal momento che si deve tener conto della detassazione del minimo vitale. Inoltre la previsione dell’art. 53 Cost. condiziona anche il limite massimo del prelievo, nel senso che il tributo non può essere fissato in misura superiore alla capacità contributiva del soggetto, altrimenti viene colpita la capacità contributiva inesistente e non viene rispettata la correlazione tra obbligo di contribuzione e capacità di contribuzione121. Il principio di capacità contributiva è quindi il presupposto ed il 119 MOSCHETTI F., Capacità contributiva, cit., pag. 13 e ss.; FALSITTA G., Manuale di diritto Tributario. Parte generale, pag. 169. Il concetto di capacità contributiva implica che il soggetto deve essere effettivamente idoneo ad essere tassato; l’idoneità deve essere effettiva ed attuale. L’idoneità economica deve basarsi su “fatti reali”, non su “basi fittizie” e questo deve essere un principio da rispettare in ogni aspetto della disciplina tributaria, quindi non solo il presupposto dell’imposizione e la base imponibile, ma anche i metodi d’accertamento e di riscossione. 120 MOSCHETTI F., La capacità contributiva. Profili generali, in La capacità contributiva (a cura di MOSCHETTI F.), cit., pag. 24. 121 FALSITTA G., Manuale di diritto Tributario. Parte generale, cit., pag. 160. L’art. 53 Cost. implica che il prelievo sul soggetto passivo non può risolversi nell’espropriazione dell’oggetto della imposizione, essendo l’imposta il prelevamento non della totalità della materia imponibile, ma solo di una quota che deve essere rappresentativa della capacità contributiva. “Questi aspetti evidenziano l’incontestabile funzione anche garantistica, per ciascun membro della comunità, dell’art. 53”. MOSCHETTI F., La capacità contributiva. Profili generali, in La capacità contributiva (a cura di MOSCHETTI F.), cit., pag. 34. Viene evidenziato che all’interno di tale limite massimo si esplica la discrezionalità legislativa, ma ancora una volta devono comunque essere presi in considerazione i limiti posti dalla norme costituzionali che tutelano l’economia privata, quali gli 44 limite massimo del prelievo, oltre ad essere parametro dello stesso. Si può quindi comprendere che l’art. 53 cit. svolge una duplice funzione nel nostro ordinamento, una funzione solidaristica in relazione al fatto che tutti sono chiamati a concorrere alle spese pubbliche in base alla forza economica di ciascuno, a cui ci si aggiunge anche una funzione garantistica, ponendo dei limiti alla potestà tributaria dal momento che devono partecipare all’imposizione solo coloro che effettivamente possiedono una capacità di contribuzione122. L’art. 53 Cost. è espressione del contemperamento dell’interesse collettivo a partecipare alle spese pubbliche e dell’interesse individuale a non essere tassato in misura superiore alla propria capacità contributiva, specifica ed effettiva; non può esistere una preminenza dell’interesse fiscale che porti a tassare sacrificando il principio della capacità contributiva. Quanto espresso dall’art. 53 cit. “vuole garantire la solidarietà fiscale, ma partendo dalla garanzia della persona, la cui specifica attitudine a contribuire è il presupposto invalicabile del dovere”123. 1.6.2 Società di comodo e il principio di capacità contributiva Dopo aver delineato i fondamenti del principio di capacità contributiva ed averne sottolineato la sua importanza nel vincolare le scelte del legislatore tributario sulle fattispecie significative da sottoporre a tassazione, si riprende l’analisi della disciplina delle società non operative alla luce delle riflessioni effettuate nel precedente paragrafo. L’impianto legislativo delineato dall’art. 30 della Legge n. 724/1994 si basa sulla predeterminazione forfettaria del reddito, incentrata sull’applicazione automatica dei coefficienti ai valori di determinati cespiti patrimoniali e sulla possibile prova concessa al contribuente di dimostrare le situazioni art. 41- 42- 47 della Costituzione che devono essere considerati assieme all’art. 53 Cost. Riporta l’autore l’esempio dell’illegittimità del prelievo tributario se il carico fiscale complessivo mette a rischio la permanenza dell’economia privata o non permette la possibilità di scegliere l’esercizio di una determinata attività economica o professionale. Questo non è in contrasto con la funzione garantistica e solidaristica espressa dall’art.53 Cost., dal momento che è proprio la funzione solidaristica dell’economia privata che richiede il mantenimento e la tutela della stessa. 122 FALSITTA G., Manuale di diritto Tributario. Parte generale, cit., pag.. 155 e ss.. La funzione solidaristica intrinseca quindi nel comma 1 dell’art. 53 Cost. emerge anche nel secondo comma del citato articolo , il quale afferma che “il sistema tributario è uniformato a criteri di progressività”. Progressività che significa dunque aumentare l’incidenza del prelievo man mano che incrementano le ricchezze sulla cui base si fonda il prelievo stesso. MOSCHETTI F., Capacità contributiva, cit., pag. 3. la funzione solidaristica del dovere prescritto dall’art.53 Cost. risulta dal collegamento con l’art.2 Cost., dal concetto stesso di capacità contributiva e dal principio di progressività del sistema tributario. 123 MOSCHETTI F., Il principio di capacità contributiva, espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità, in Diritto tributario e Corte Costituzionale (a cura di PERRONE L. e BERLIRI C), cit., pag. 55. MOSCHETTI F., La capacità contributiva. Profili generali, in La capacità contributiva (a cura di MOSCHETTI F.), cit., pag. 48. La centralità dell’art.53 in esame e del rispetto del principio di capacità contributiva devono rappresentare dei valori a cui non si può rinunciare nemmeno nei momenti di crisi della finanza pubblica dato che l’urgenza del gettito non può avere prevalenza sui “principi-base”. 45 oggettive che non hanno permesso il conseguimento delle soglie di generazione dei ricavi e di redditività previste ex lege. In linea generale le predeterminazioni normative incidono sui criteri di tassazione stabiliti dall’art. 53 della Costituzione, che funge da presupposto, parametro e limite dell’imposizione stessa. Attraverso questi sistemi di imposizione e la disciplina delle società di comodo ne è un esempio, la logica posta a base del principio della capacità contributiva viene rovesciata, dal momento che si accetta che un soggetto possa venire tassato solo perché possiede un reddito inferiore ai valori normativi, non considerando l’effettiva idoneità soggettiva alla contribuzione. Viene meno quindi la personalizzazione del prelievo che dovrebbe garantire a ciascun contribuente un trattamento che rispecchi la propria specifica situazione reddituale, non rispettando quindi i precetti alla base del concetto di capacità contributiva espressi dall’art. 53 Cost.124. A questo primo problema si aggiunge l’individuazione dell’indice di forza economica rappresentativo della capacità contributiva per i soggetti non operativi. E’ stato evidenziato come la capacità contributiva, nel pensiero del legislatore, nel caso delle società di comodo possa essere espressa dall’effettiva potenzialità dei beni posseduti dalla società di generare reddito; tale potenzialità non viene meno quando il reddito prodotto è nullo o di ridotta entità, ma quando viene dimostrata l’impossibilità oggettiva di raggiungere il reddito atteso125. Tuttavia il dato di fatto è che la disciplina della non operatività sostituisce all’imposizione della singola realtà economico-contabile, una realtà normativa applicabile a tutti i contribuenti che basa il proprio presupposto non sull’incremento di ricchezza ascrivibile al soggetto passivo ma sul patrimonio, partendo dal concetto che se una struttura possiede una certa consistenza patrimoniale dovrebbe essere in grado di raggiungere una determinata soglia reddituale. “Il presupposto strutturale del tributo cui ricondurre effettivamente la capacità economica del soggetto sarebbe in realtà non il “reddito”, ma il “patrimonio” societario (o meglio una quota particolare del patrimonio/capitale sociale, calcolata secondo particolari 124 TOSI L., Le predeterminazioni normative nell'imposizione reddituale. Contributo alla trattazione sistematica dell’imposizione su basi forfettarie, cit., pag. 96 e ss.. L’autore evidenzia come tutti gli strumenti di natura forfettaria incrinano l’esigenza della personalizzazione del prelievo stabilita dall’art. 53 Cost., venendo meno inoltre il requisito dell’effettività e la componente garantistica del prelievo che permette di bilanciare il dovere collettivo alla contribuzione con i diritti individuali. 125 SCHIAVOLIN R., Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 68-69. E’ stato evidenziato che letta in questo modo la normativa sulle società di comodo potrebbe avere una giustificazione logica sul piano della capacità contributiva dato che verrebbe tassato un indice effettivo di ricchezza e quindi di forza economica secondo un nesso non irragionevole. In modo critico LUPI R., Le società di comodo come disciplina antivesiva, cit., pag. 1098, sottolinea che non è stata ancora trovata quale sia la capacità economica a cui si riferisce la presunzione del reddito minimo stabilita dall’art. 30 della Legge n. 724/1994 e che se non viene svolta alcuna attività economica non ha senso prevedere la determinazione di un determinato reddito basandosi sulla mera disponibilità dei beni patrimoniali. 46 criteri individuati preventivamente dalla legge)”126. In questo modo viene assoggettato ad imposizione non il reddito che deriva da un incremento del patrimonio nel periodo d’imposta, con il rischio di tassare una ricchezza fittizia che non rispecchia affatto la situazione del contribuente. E’ proprio questa la conseguenza insita nella disposizione dell’art. 30 della Legge n. 724/1994 che si basa sull’analisi della mera disponibilità dei beni patrimoniali, quali indici di forza economica e sulla loro attitudine a generare reddito, non prendendo in considerazione minimamente la situazione oggettiva del contribuente ed il fatto che il reddito deve essere espressione dell’attitudine alla contribuzione, legato a fattispecie dinamiche. Si pone quindi a tassazione non necessariamente il reddito prodotto, ma la ricchezza determinata aprioristicamente dal legislatore e questo è totalmente incompatibile con i pilastri posti a base dell’art. 53 relativi alla funzione garantistica e solidaristica che deve essere svolta dal principio di capacità contributiva. Viene quindi violato il principio della capacità contributiva sotto il profilo dell’effettività, dal momento che la tassazione che ne può derivare è totalmente scollegata rispetto al reddito effettivamente conseguito e non considera l’arricchimento ascrivibile al contribuente. Procedendo in questa direzione, lo sganciamento dell’indice di capacità contributiva rispetto alla realtà economica del contribuente e l’identificazione del reddito imponibile come grandezza non reale ma fittizia può portare ad un’incidenza percentuale della tassazione che eccede di gran lunga il valore dell’aliquota stessa127. Il legislatore nel scegliere le situazioni da sottoporre a tassazione non può sottovalutare il fatto che la capacità contributiva deve essere effettiva e, nel caso delle società di comodo questa effettività viene meno, appunto perché si tassa sulla presunzione che dal possesso di determinati beni il contribuente avrebbe dovuto generare quel determinato reddito 128. La disciplina della società di comodo finisce con il tassare il patrimonio, grandezza statica e non dinamica; quest’ultimo non è rappresentativo in sé dell’idoneità del contribuente a concorrere 126 CERMIGNANI M., Il regime fiscale delle società di comodo: ratio, attualità, prospettive, cit., pag. 1-255. POGGIOLI M., Indicatori di forza economica e prelievo confiscatorio, Padova, 2012, pag. 46. Sottolinea l’autore come, in questi casi di tassazione sganciata dalla realtà concreta, l’incidenza percentuale della tassazione rispetto al valore nominale dell’aliquota potrebbe posizionarsi ad un livello che supera anche il cento per cento, in rapporto al reddito del contribuente. Ne deriva la possibilità di assorbire la disponibilità economica del contribuente attraverso “la peculiare potenzialità confiscatoria dell’imposta sul reddito isolatamente considerata”. 128 STEVANATO D., Società di comodo senza fine: da imposta su presunti redditi di fonte patrimoniale a tributo extrafiscale sul patrimonio?, in PEVERINI L.,VIGNOLI A., LUPI R. e STEVANATO D., Società non operative: una patrimoniale mascherata da criterio (contronatura) di determinazione dei redditi, cit., pag. 132. L’autore sostiene la libertà del legislatore nel scegliere gli indici di capacità economica e la possibilità di determinare il reddito legandolo a coefficienti di redditività. Tuttavia la tassazione deve sempre rispecchiare l’effettivo arricchimento in un determinato arco temporale della società, anche quando “la base per la tassazione è data (…) dall’attitudine del bene a produrre un reddito economico e non dal reddito che ne ricava il possessore, dalla produttività e non dal prodotto reale”, come stabilito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 16 del 1965 relativa alla legittimità delle rendite catastali previste per gli immobili. 127 47 alle spese pubbliche e non può essere indice della capacità economica a lui ascrivibile e quindi tassabile. La tassazione delle società non operative diventa quindi un’indiretta forma di tassazione del patrimonio, dato che il reddito è il risultato dell’attività esercitata ed in questo caso la tassazione si basa invece sulla mera disponibilità di specifici cespiti patrimoniali e sulla potenzialità di poter raggiungere una determinata soglia reddituale dal loro possesso129. Le problematiche della disciplina delle società di comodo con riferimento al rispetto della capacità contributiva riguardano quindi da un lato l’oggetto della tassazione che non è rappresentato dall’incremento della ricchezza prodotta in un determinato arco temporale dal contribuente, a cui ci si aggiunge la questione della reale idoneità dello stesso alla contribuzione130. I tratti caratterizzanti l’art. 53 della Costituzione, che sono la personalizzazione del tributo e l’attenzione posta all’effettività dell’arricchimento, vengono appunto meno nella disciplina della non operatività. Non si considera minimamente la situazione soggettiva del contribuente e la sua idoneità soggettiva alla contribuzione, oltre al fatto che presupposto base della tassazione non è un incremento effettivo di ricchezza ascrivibile al soggetto passivo, ma la potenzialità di generare reddito derivante dal possesso di determinati beni nel patrimonio societario. Sembra quindi evidente la difficoltà di coordinamento della disciplina con il rispetto del principio di capacità contributiva. 1.6.3 Le modifiche apportate nel 2011 alla disciplina delle società di comodo: qualche altra considerazione sul rispetto dei principi costituzionali L’intervento del legislatore nel 2011, ampliando l’ambito d’applicazione della disciplina alle società che, sebbene operative, risultino in perdita fiscale per tre periodi d’imposta o in perdita per due periodi, al quale se ne aggiunge un ulteriore nel quale la società dichiara un reddito inferiore a quello stabilito dal comma 3 dell’art.30 della Legge n.724/1994 ed innalzando l’aliquota IRES al 38%, ha peggiorato la già disarticolata disciplina delle società di comodo facendo sorgere ulteriori dubbi sulla compatibilità costituzionale dell’istituto. Per 129 POGGIOLI M., Indicatori di forza economica e prelievo confiscatorio, cit., pag. 24. Il patrimonio del contribuente è rappresentativo “di una base di commisurazione del prelievo fiscale. (…) In effetti, se il patrimonio rappresenta una potenziale fonte produttiva di reddito, sottoporre ad imposizione il patrimonio significa, indirettamente, sottoporre a prelievo il reddito suo tramite (tramite il patrimonio, cioè) producibile nell’arco temporale considerato. (…) reddito “producibile”, non già “effettivamente prodotto”, con evidenti problemi circa la concretezza della situazione sulla quale dovrebbe poggiare, ben saldo, il fenomeno impositivo”. 130 BEGHIN M., Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, in FALSITTA G., Manuale di Diritto Tributario. Parte speciale, cit., pag 724-725. Si evidenzia che l’art. 30 della Legge n. 724/1994 si basa sulla proporzionalità tra il valore dei cespiti ed il reddito, con la conseguenza che l’imposta reddituale che ne deriva ha evidenti declinazioni patrimoniali. Il modello è incompatibile con il principio della capacità contributiva e il rischio è che venga tassata ricchezza meramente fittizia non ascrivibile al soggetto passivo. 48 quanto riguarda le società in perdita sistemica esse vengono tout-court identificate come non operative a fronte del conseguimento di perdite fiscali per più periodi d’imposta, mai verificate dall’Amministrazione Finanziaria131. Il fatto che la società abbia ottenuto un risultato negativo reiterato può far sorgere il sospetto d’evasione, è quindi comprensibile che l’Amministrazione Finanziaria proceda ad effettuare controlli, verificando la consistenza e la genesi di quella determinata situazione economica. La scelta effettuata dal legislatore con il Decreto Legge n. 138/2011 è ben diversa invece, dal momento che tali società in perdita fiscale per tre periodi d’imposta consecutivi devono dichiarare nel quarto periodo d’imposta un reddito minimo, secondo quanto stabilito dall’art. 30 della Legge n. 724/1994, anche se proprio in quel periodo d’imposta la società risulta aver superato il test d’operatività132. Questa scelta legislativa rappresenta “una surrettizia presunzione di antieconomicità”, secondo cui il perdurare di perdite fiscali diventa sintomo del fatto che la società non svolga effettivamente un’attività economica133. Non si considera quindi minimamente l’effettiva situazione del contribuente, ben potendo tale risultato economico negativo reiterato, essere il frutto di una reale crisi che ha colpito la società stessa, soprattutto in questo periodo non così roseo per l’economia italiana. Ci si potrebbe inoltre trovare di fronte a società che dichiarano perdite fiscali a fronte di un elevato ammontare di ricavi e o di rimanenze, prescindendo quindi il risultato negativo raggiunto dal livello di operatività della società. La situazione di perdita ottenuta in un determinato periodo d’imposta, che è rappresentativa di una situazione 131 Secondo PEVERINI L., La natura patrimoniale dell’imposta sulle società di comodo, in PEVERINI L., VIGNOLI A., LUPI R. e STEVANATO D., Società non operative: una patrimoniale mascherata da criterio (contro natura)di determinazione dei redditi, cit., pag.132, la previsione della reiterazione di perdite fiscali per più periodi d’imposta e l’identificazione automatica del soggetto come non operativo si basa su una doppia presunzione: se una società in costante perdita “vuole” comunque rimanere in vita significa che non gli interessa produrre utili da distribuire ai soci e da questa prima presunzione deriva la seconda che si esplica nel fatto che quindi la società viene utilizzata per scopi diversi da quello previsto dall’art. 2247 Cod. Civ., appunto per il mero godimento dei beni 132 Questa scelta legislativa concernente la non operatività automatica delle società in perdita sistemica deve essere analizzata anche alla luce dell’art. 24 del Decreto legge n. 78 del 21 maggio 2010 nel quale è stato stabilito che “la programmazione dei controlli fiscali dell'Agenzia delle entrate e della Guardia di finanza deve assicurare una vigilanza sistematica, basata su specifiche analisi di rischio, sulle imprese che presentano dichiarazioni in perdita fiscale, non determinata da compensi erogati ad amministratori e soci, per più di un periodo d'imposta e non abbiano deliberato e interamente liberato nello stesso periodo uno o più aumenti di capitale a titolo oneroso di importo almeno pari alle perdite fiscali stesse”. Quindi la perdita fiscale dichiarata dalla società stessa per più periodi d’imposta declina “in un indice di pericolosità da apprezzare sul piano procedimentale”, che deve essere valutata dall’Amministrazione Finanziaria, ad eccezione dei due casi stabiliti dall’articolo citato: la perdita fiscale risulta dell’erogazione di compensi a soci ed amministratori per un ammontare superiore alla perdita stessa, tassabili in capo alle persone fisiche; è stato deliberato un aumento del capitale sociale per un ammontare pari almeno al valore della perdita fiscale, rappresentativo dell’effettività della perdita stessa e dell’interesse della struttura societaria a continuare lo svolgimento dell’attività economica. Si veda a tal proposito BEGHIN M., Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, in FALSITTA G., Manuale di Diritto Tributario. Parte speciale, cit., pag 720-721 nota n.16. 133 SBROIAVACCA A., La necessità di valutare le perdite alla luce del settore economico d’appartenenza, in STEVANATO D. e SBROIAVACCA A., Società in perdita sistemica e tassazione degli utili inesistenti, una bomba ad orologeria da disinnescare, in Dialoghi dir. trib., 2012, 5, pag.502. 49 meritevole di tutela, tanto è vero che è previsto il riporto in avanti della perdita e lo scomputo dal reddito prodotto nei periodi d’imposta successivi, “subisce una chiara mutazione per effetto delle modifiche introdotte dalle società di comodo (…) con chiara trasposizione di fine e di mezzi dall’ambito dell’azione amministrativa di controllo a quella legislativa”134. Considerare automaticamente società di comodo i soggetti che hanno conseguito un risultato negativo per più periodi d’imposta, significa penalizzare di fatto le strutture societarie che svolgono un’attività economica, rischiando invece di non porre attenzione alla ricchezza effettivamente nascosta, dal momento che le società che vorranno occultare i propri ricavi dichiareranno degli utili anche se risicati, in modo da evitare le disposizione previste per le società in perdita sistemica relative alla determinazione del reddito presunto135. C’è quindi il rischio di colpire i soggetti che realmente sono operativi e che si trovano in un periodo di difficoltà economica; questo risulta contraddittorio e ci si allontana sempre più dalla logica stessa per la quale la disciplina è stata introdotta. La conseguenza che deriva attraverso tale scelta legislativa è che l’indice di capacità contributiva potrebbe non riflette affatto la situazione reale del soggetto passivo, ponendo così a tassazione ricchezza inesistente e non considerando il requisito di effettività della capacità contributiva. Potrebbe cioè essere considerata come società non operativa una società che ha superato il test d’operatività e che effettivamente svolge un’attività economico-produttiva, ma che ha conseguito delle perdite fiscali reiterate. In tale situazione di difficoltà la società è obbligata, in modo irragionevole, a dichiarare un predeterminato reddito ed ad utilizzare le perdite pregresse solo per la parte eccedente il reddito minimo dichiarato. Viene quindi sottoposta a tassazione ricchezza che non è espressiva della capacità economica del soggetto passivo e questa penalizzazione evidenzia ancora una volta il contrasto tra la disciplina delle società di comodo ed il rispetto del principio di capacità contributiva stabilito dall’art. 53 Cost.136. Per quanto concerne l’innalzamento dell’aliquota per i soggetti IRES di 10,5 punti percentuali dal 27,5% al 38%, è 134 DAMIANI M., Società di comodo e perdite sistemiche: l’abuso del diritto risolve le possibili discriminazioni, cit., pag. 929. 135 STEVANATO D., Società senza utili, imposte senza ricchezza: un caso di “darwinismo fiscale”?, in STEVANATO D. e SBROIAVACCA A., Società in perdita sistemica e tassazione degli utili inesistenti, una bomba ad orologeria da disinnescare, cit., pag. 502. L’autore afferma “che dietro all’estensione alle società in perdita della normativa sulle “società di comodo”, non può esservi un giudizio di non operatività, quanto un’insana estensione dell’abusato concetto di “antieconomicità”, riferito stavolta non già a singole operazioni d’acquisto, di vendita ecc., bensì all’intera vita sociale, considerata nel suo complesso: una serie di risultati aziendali di segno negativo sarebbe appunto, di per sé, contraria ai canoni dell’economia”. La realtà è che possono esistere effettivamente società in perdita per più periodi e che tale previsione legislativa rischia di danneggiare realmente le società operative che si trovano in tali circostanze. 136 Evidenzia STEVANATO D., Società “di comodo”: un capro espiatorio buono per ogni occasione, in Dialoghi dir. trib., 2011, 47, pag. 3889, come “le modifiche apportate dal D.L. n. 138/2011 accentuano (…) i profili di irrazionalità della disciplina, che appare ormai un prelievo selettivo, sganciato da ogni logica e coerenza, ed esclusivamente finalizzato al reperimento del gettito ad ogni costo”. 50 stato evidenziato come questa previsione dimostri che “la leva fiscale rappresenta lo strumento del quale il legislatore si serve per disincentivare la permanenza nel nostro sistema di soggetti che (…) non raggiungono un decoroso livello di redditività”137; la struttura societaria di comodo quindi o decide di adeguarsi pagando l’aliquota maggiorata o deve optare per lo scioglimento della società stessa in modo da evitare la penalizzazione. Si è ipotizzato che l’innalzamento dell’aliquota possa essere letto come il tentativo di avvicinare il carico fiscale IRES a quello che sarebbe stato imputato al socio, qualora egli avesse detenuto direttamente i cespiti societari e che quindi “l’innalzamento dell’aliquota avrebbe l’obiettivo di dissuadere dall’effettuare intestazioni societarie di comodo di cespiti detenuti nell’ambito di attività di mero godimento”138. L’innalzamento dell’aliquota IRES al 38% rappresenterebbe quindi una misura forfetizzata del prelievo a scaglioni previsto per le persone fisiche. Tuttavia tale tesi sembra contraddetta dalla stessa disciplina, la quale prevede che le società di capitali costituitesi come società a responsabilità limitata, che hanno optato per il regime della trasparenza fiscale di cui all’art. 116 TUIR, debbano versare autonomamente la maggiorazione dell’aliquota IRES pari al 10,5%, anche laddove il reddito sia comunque imputato ai soci persone fisiche139. In sostanza l’innalzamento dell’aliquota IRES per le società non operative crea una disparità di trattamento evidente da un lato rispetto alle società operative, ma anche all’interno della stessa categoria di società che non hanno superato il test d’operatività stabilito dal comma 1 dell’art. 30 della legge n. 724/1994, dal momento che l’aggravio non colpisce le società di persone. La maggiorazione dell’aliquota essendo infatti 137 BEGHIN M., Diritto Tributario. Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, cit., pag. 632. In modo critico anche MARRONE F., Società “di comodo” o “comodo gettito virtuale” senza ricchezza sottostante?, in DAMIANI M., MARRONE F. e LUPI R., Società “non operative” e determinazione della ricchezza, cit., pag. 262, sottolinea come “la maggiorazione IRES di 10,5 punti percentuali introdotta solo per le società di capitali ( e soggetti assimilati) di comodo (…) sembra rientrare nella logica di tassazione “di diritto” di tutto quello che è dichiarato, indipendentemente da ogni valutazione economica effettiva che abbia sufficiente coerenza logico-sistematica”. 138 STEVANATO D., Società “di comodo”: un capro espiatorio buono per ogni occasione, cit., pag. 3889. Originariamente la disciplina della non operatività era stata introdotta per contrastare le società “senza impresa”, costituite non per svolgere attività produttiva ma come meri contenitori patrimoniali, i cui beni venivano utilizzati dai soci nella loro sfera privata. L’autore sottolinea come l’intestazione dei beni alla società consentirebbe ai soci di “evitare in definitivamente la tassazione progressiva IRPEF, assestando il prelievo dei reali rentiers (soci della società) sull’aliquota proporzionale IRES”. La maggiorazione dell’aliquota IRES rappresenterebbe il tentativo di evitare le intestazioni societarie di comodo, visto l’avvicinamento del carico IRES a quello IRPEF. Inoltre nel citato articolo vengono effettuate alcune riflessioni riguardanti il coordinamento della disciplina con l’ipotesi di distribuzione dei dividendi ai soci e con il nuovo regime fiscale dell’assegnazione dei beni in godimento ai soci e familiari, sempre introdotto dal Decreto Legge n. 138/2011. In particolare viene evidenziato che se la maggiorazione dell’aliquota IRES al 38% trovasse spiegazione nel fatto che in questo modo gli utili societari verrebbero tassati immediatamente, come si trattasse di redditi subito nella disponibilità dei soci, allora non dovrebbe esserci il secondo livello di tassazione, cioè quando avviene la distribuzione dei dividendi ai soci. 139 Si veda la nota n. 51 per i dettagli applicativi riguardanti il coordinamento della disposizione riguardante l’innalzamento dell’aliquota IRES con il regime fiscale della trasparenza fiscale ed il consolidato nazionale. 51 applicabile ai soli soggetti IRES comporta, per esempio, che il socio persona fisica di una società di persone non venga colpito da detto innalzamento, mentre ne è colpito il socio persona fisica di una S.R.L. a ristretta base proprietaria, che ha optato per la trasparenza fiscale secondo l’art. 116 TUIR. In questo modo è evidente non solo il contrasto della normativa con il principio di capacità contributiva, dato che si sottopone a tassazione un reddito predeterminato che non necessariamente è rappresentativo dell’incremento di ricchezza prodotto in quel determinato periodo d’imposta, ma anche del venir meno del principio d’uguaglianza. Si crea una disparità di trattamento che esula dall’obiettivo stesso della disciplina di disincentivare l’utilizzo delle strutture societarie come meri contenitori patrimoniali. Sempre in tema di innalzamento dell’aliquota IRES sembra opportuno accennare alla “Robin Hood Tax” che riguarda le imprese operanti nel settore petrolifero, dell’energia elettrica e del gas, le quali hanno superato nel periodo d’imposta precedente una determinato volume di ricavi e di reddito imponibile, qualora tali ricavi riconducibili ai predetti settori siano prevalenti rispetto all’ammontare complessivo dei ricavi conseguiti. Tale previsione è stata introdotta dal Decreto Legge n. 112/2008, prevedendo una maggiorazione dell’aliquota IRES prima del 5,5% rispetto all’ordinario 27,5%, poi nel 2009 l’incremento è stato aumentato di un ulteriore punto percentuale. Sempre il Decreto Legge n. 138/2011 ha stabilito che anche in questo caso la maggiorazione dovesse essere pari a 10,5 punti percentuali, da applicarsi nel triennio 2011-2013, per un periodo limitato a differenza dell’ipotesi delle società di comodo, riprendendo poi ad applicarsi dal periodo d’imposta 2014 l’incremento del 6,5%; infine il Decreto Legge n. 69/2013 ha ulteriormente ampliato i soggetti interessati da tale disposizione legislativa riducendo le soglie indice dei ricavi e del reddito imponibile, oltrepassate le quali detta maggiorazione trova attuazione. L’introduzione di tale incremento di valore dell’aliquota IRES, in questo caso, è stata prevista per imporre una sovraimposizione relativa agli extra-profitti realizzati grazie all’aumento concordato del prezzo del petrolio. E’ stato tuttavia evidenziato che l’arricchimento di una società petrolifera non si differenzia da quello delle società operanti in altri settori industriali e che quindi tale sovraimposizione vada contro il rispetto del principio della capacità contributiva e di uguaglianza140. Sembra difficile identificare per queste imprese petrolifere una maggiore capacità contributiva rispetto alle altre imprese, dal momento che ad essere tassato è 140 STEVANATO D., Società “di comodo”: un capro espiatorio buono per ogni occasione, cit., pag. 3889. Sottolinea in modo critico che “c’è un filo conduttore che lega le vicende apparentemente lontane come quelle della Robin Hood Tax o delle società di comodo: si tratta di creare dei “colpevoli” del malessere sociale indotto dalle sperequazioni fiscali che tutti avvertono, ed il ruolo di “colpevole” può essere interpretato altrettanto bene dalle compagnie petrolifere così come dalle società “di comodo” ”. 52 comunque il reddito che a parità di dimensione è rappresentativo della medesima forza economica indipendentemente dal settore in cui opera la società. Inoltre vengono colpite solo le società petrolifere che superano una determinato soglia di fatturato, non distinguendo, per esempio, la “posizione” dei produttori di greggio da quella dei distributori di idrocarburi. Entra quindi in gioco il principio di uguaglianza, oltre al fatto che se l’obiettivo è quello di sovra-tassare gli extra-profitti non ha senso prevedere che l’aliquota maggiorata si applichi all’utile intero. Da qui ne deriverebbe l’incostituzionalità di detta previsione legislativa per violazione dell’art. 3 e dell’art. 53 della Costituzione141. A tal proposito la Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia nell’Ordinanza n. 9 del 26 marzo 2011 ha ritenuto non infondati i dubbi di legittimità costituzionale della maggiorazione dell’aliquota IRES per il settore petrolifero, rinviando alla Corte Costituzionale il quesito della compatibilità della “Robin Hood Tax” con il principio di capacità contributiva e di uguaglianza. Inoltre la Commissione Regionale della Lombardia con l’Ordinanza n. 28 del 13 gennaio 2014 ha riaperto la questione della legittimità costituzionale dell’innalzamento dell’aliquota IRES per le società petrolifere che superano determinati livelli di fatturato, rimettendo alla Consulta la valutazione riguardante l’irragionevolezza e la lesione del principio di capacità contributiva, la quale tuttavia non si è ancora espressa142. In merito deve essere inoltre richiamata la 141 STEVANATO D., La “Robin Hood Tax” e i limiti di discrezionalità del legislatore, in Riv. giur. trib., 2008, 10, pag. 841. Secondo l’autore tale previsione legislativa non presenta una logica ed una giustificazione, oltre ad alterare i tratti dell’imposta reddituale. Il legislatore gode di una propria discrezionalità nel scegliere le fattispecie significative da tassare ma questo innalzamento sembra non rispettare il limite d’uguaglianza tributaria e di rispetto del principio di capacità contributiva. STEVANATO D., La “Robin Tax” alla prova del giudizio di costituzionalità, in Corr. trib., 2011, 20, pag. 1674. Il non rispetto degli art. 3 e 53 della Costituzione deriverebbe appunto dal fatto che si prevede un maggior prelievo fiscale non correlato ad una maggiore capacità contributiva rispetto a quella espressa dalle imprese negli altri settori economici o dalle stesse imprese che operano nel settore petrolifero ma con una dimensione di fatturato che non raggiunge la soglia prevista ex lege per l’applicazione della “Robin Hood Tax”. Sottolinea invece COVINO E. e MAIORANA D., E’ costituzionalmente legittimo l’aggravio di aliquota per un settore economico?, in COVINO E., “Robin Hood Tax”: un altro tributo selettivo, in Dialoghi dir. trib., 2011, 4,pag. 393 che il problema in questo caso non riguarda il principio di capacità contributiva, ma quello di uguaglianza tributaria e la domanda da porsi è relativa al fatto dell’esistenza di fondamenti costituzionali che pongono un divieto di tassazione maggiore per un determinato settore rispetto ad altri. “La “Robin Hood Tax” è stata probabilmente varata contando sulla diffidenza diffusa nei confronti delle società petrolifere, che subiscono su un chiaro clima di sospetto da parte dell’opinione pubblica, e proprio questo è il motivo per cui una contestazione in merito alla sua legittimità costituzionale è opportuna al di là dell’esito”. 142 In particolare questa ordinanza rispetto alla precedente che si è focalizzata sotto un profilo più generale sottolinea come “l'applicazione di questo principio porta tuttavia a distorsioni impressionanti, forse neppure ipotizzate dal legislatore: per fare una prima esemplificazione semplicissima, avremmo che un soggetto con Euro 25.000.000 di ricavi tutti “energetici” non sarebbe soggetto alla addizionale, che sarebbe invece applicabile – sull’intero ammontare dei profitti - a carico del soggetto ne consegua Euro 25.000.001 di ricavi, di cui soltanto 12.501 “energetici” e 12.500 “diversi”. Ma l’assurdo non avrebbe limite, perché troveremmo curiosamente esonerato dalla addizionale il contribuente con ricavi - per "sparare" una cifra qualunque - di Euro 2.000.000.001, di cui ben un miliardo “energetico” ma “annullato” dal miliardo e un Euro per ricavi diversi: le considerazioni appena spese, e con esempi moltiplicabili ad libitum, consentono di dubitare ampiamente della compatibilità di questo sistema normativo con gli art. 3 e 53 Cost.”. 53 Sentenza della Corte Costituzionale n. 21 del 19 gennaio 2005 che ha rigettato l’incostituzionalità per violazione dell’art. 3 e dell’art. 53 della Costituzione, con riguardo all’applicazione di aliquote differenziate IRAP in relazione al periodo temporale di riferimento per le banche, le società finanziarie e le imprese d’assicurazione, prima che venisse istituita l’imposta regionale sulle attività produttive143. In particolare è stato affermato che “la previsione di aliquote differenziate per settori produttivi e per tipologie di soggetti passivi rientra, infatti, pienamente nella discrezionalità del legislatore se sorretta da non irragionevoli motivi di politica economica e redistributiva”. Le ragioni del disallineamento delle aliquote IRAP “trovano il loro fondamento specifico nel carattere dell’IRAP di tributo sostitutivo di altri tributi e prestazioni d’imposta e, quindi, nel ragionevole intento del legislatore delegato di garantire una certa continuità tra il precedente e il nuovo regime, soprattutto in termini redistributivi e di gettito”. “Ciò tanto più vale se si considera – come costantemente sottolineato da questa Corte – la discrezionalità del legislatore è particolarmente ampia quando trattasi di dettare disposizioni transitorie”. E’ stato tuttavia sottolineato che la maggiorazione prevista per il settore petrolifero ed anche per le società di comodo è permanente e non transitoria, oltre al fatto che non si è in presenza di un passaggio di regime tra differenti tributi, trattandosi dell’imposta sul reddito delle società144. Il legislatore ha quindi previsto anche in altri contesti come quello petrolifero l’innalzamento dell’aliquota IRES. Ritornando alla disciplina delle società di comodo, nessuno potrebbe dirsi contrario al fatto di penalizzare le società “senza impresa” costituite non per svolgere attività produttiva, ma per poter trarre un vantaggio fiscale dall’intestazione dei beni, utilizzati per fini personali, alla società. La questione è che le modifiche apportate dal legislatore nel 2011 si allontanano sempre più dall’obiettivo originario della disciplina, incidendo invece sui soggetti che possono essere realmente operativi e quindi sul principio di parità di trattamento dell’art. 3 Cost. in materia tributaria e di capacità contributiva. Si è in presenza: di una differenza notevole nel valore dell’aliquota IRES del 38% rispetto a quella ordinaria del 27,5% che non sembra trovare una giustificazione altrettanto ragionevole; della violazione intrinseca del principio d’uguaglianza dal momento che detta maggiorazione riguarda i soli soggetti IRES non operativi e del fatto che il reddito minimo imponibile potrebbe non avere alcuna 143 In particolare l’art. 45 del Decreto legislativo n. 446/1997 aveva previsto per queste categorie di soggetti un’aliquota più elevata pari al 5,4% per il periodo d’imposta 1998-2000, al 5% per il periodo d’imposta 2001 e al 4,75% per il 2002. 144 In tal senso STEVANATO D., Perché la “Robin Tax” sui petrolieri è incostituzionale, in COVINO E., “Robin Hood Tax”: un altro tributo selettivo, cit., pag. 393. 54 corrispondenza con il reddito effettivo, ponendo a tassazione ricchezza non realizzata, incompatibilmente con il principio di capacità contributiva145. Le previsioni stabilite dal legislatore nel 2011, relative all’ampliamento dei soggetti interessati dell’art. 30 della Legge n. 724/1994 e all’introduzione dell’aliquota IRES pari al 38%, mettono ulteriormente in risalto le difficoltà di far conciliare la disciplina delle società di comodo con i principi stabiliti dall’art. 3 e 53 della Carta Costituzionale. Queste modifiche evidenziano ancora di più l’allontanamento della disciplina in esame dal rispetto dei principi stabiliti dalla Carta Costituzione e contemporaneamente rendono tale normativa uno strumento sempre meno efficace ed idoneo a colpire i soggetti che effettivamente non svolgono attività imprenditoriale146. 145 BEGHIN M., Diritto Tributario. Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, cit., pag. 634. STEVANATO D., Società “di comodo”: un capro espiatorio buono per ogni occasione, cit., pag. 3889. L’intervento appena descritto del 2011 deve essere contestualizzato nel panorama di crisi di credibilità che stava vivendo l’Italia e le modifiche apportate alla disciplina delle società di comodo vengono definite dall’autore come “un espediente politico-mediatico”. La tassazione delle società non operative più che contrastare l’abuso dell’utilizzo delle strutture societarie è sempre più finalizzata a reperire gettito e contrasta in modo evidente con il rispetto del principio d’uguaglianza e di capacità contributiva. 146 55 CAPITOLO 2 ANALISI DELL'AMBITO APPLICATIVO ED IPOTESI A BASE DELLA NORMATIVA SULLE SOCIETA' DI COMODO SOMMARIO: 2.1 Soggetti interessati dalla disciplina delle società di comodo: ambito soggettivo d’applicazione e tipologie di società non annoverate nella predetta normativa - 2.2 Test di operatività: 2.2.1 Il valore dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi medi effettivi; 2.2.2 L’applicazione delle percentuali per il calcolo dei ricavi medi presunti; 2.2.3 Alcune considerazioni relative al confronto tra ricavi medi effettivi e presunti - 2.3. Cause d'esclusione e di disapplicazione automatica della normativa in esame: 2.3.1 Le cause d'esclusione; 2.3.2 Le cause di disapplicazione automatica introdotte nel 2008 e nel 2012 Dopo aver delineato l’intera disciplina delle società di comodo evidenziando come essa appaia una normativa complessa, disarticolata in contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza e del rispetto di capacità contributiva, in questo capitolo si procede ad esaminare che cosa preveda nel dettaglio l’at. 30 della legge n.724/1994. 2.1 Soggetti interessati dalla disciplina delle società di comodo: ambito soggettivo d'applicazione e tipologie di società non annoverate nella predetta normativa Il primo comma dell'art. 30 della Legge n. 724 del 1994 prevede che la disciplina in esame si applichi “(…) alle società per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata, in nome collettivo e in accomandita semplice, nonché alle società e agli enti di ogni tipo non residenti, con stabile organizzazione nel territorio dello Stato (...)”. Ricadono quindi tra “i soggetti interessati” le società commerciali di capitali, le società di persone147, ad eccezione delle società semplici, quelle ad esse equiparate ai sensi dell'art. 5 del TUIR, residenti in Italia e tutti i soggetti societari ed enti non residenti, muniti di stabile organizzazione. Nello specifico l’art. 5 comma 3 lett. a), b) del TUIR citato prevede l'equiparazione, ai fini delle imposte dirette, delle società d'armamento alle società in nome collettivo o in accomandita semplice, a seconda che siano state costituite all'unanimità o a maggioranza, e delle società di fatto a quelle in nome collettivo, qualora abbiano per oggetto l’esercizio di un'attività commerciale. Per quanto concerne poi il requisito della residenza, come stabilito dal comma 3 dell'art. 73 del D.P.R. n. 917/1986148, implica che la società o 147 Come spiegato nel paragrafo 1.2 inizialmente erano escluse dall’applicazione della normativa le società di persone; questa esclusione rappresentava una disparità di trattamento, dal momento che l’obiettivo dell'utilizzo dello schermo societario per attività di mero godimento poteva essere raggiunto anche attraverso la scelta della costituzione di società in nome collettivo o in accomandita semplice. 148 Tale articolo stabilisce quali sono i soggetti passivi a cui si applica la disciplina riguardante il reddito 56 l’ente possieda, per la maggior parte del periodo d'imposta, la sede legale o la sede dell'amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato. A parere dell’Agenzia delle Entrate, che ha precisato tale aspetto nella Circolare n. 25/E del 4 maggio 2007, la normativa sulle società di comodo si applica anche nei confronti dei soggetti la cui sede amministrativa o legale è situata al di fuori dell’Italia, quindi formalmente domiciliati all’estero, privi di una stabile organizzazione149 nel territorio dello Stato, ma che vengono considerati fiscalmente residenti in Italia per effetto della presunzione di cosiddetta “esterovestizione”, stabilita al comma 5-bis dell'art. 73 del TUIR150. Sempre con riguardo alla citata circolare è stato specificato che l’art. 30 della Legge n. 724/1994 interessa sia i soggetti in regime di contabilità ordinaria che di contabilità semplificata; non rileva inoltre la composizione della compagine societaria, che può essere formata sia da persone fisiche non esercenti attività d'impresa, come pure da soci imprenditori individuali o società 151. La normativa in esame stabilisce quindi esplicitamente i soggetti interessati dalla disciplina delle società di comodo. L’esclusione delle società semplici deve essere analizzata alla luce dell’obiettivo posto dal legislatore nel 1994, cioè colpire le società utilizzate dai contribuenti per intestare i beni patrimoniali dei soci senza una reale finalità imprenditoriale, traendo vantaggio dall’applicazione del regime del reddito d'impresa152, che prevede la deduzione analitica dei costi a partire, per esempio, dall’ammortamento delle immobilizzazioni materiali e immateriali153. Non si applica quindi l’art. 30 citato perché tali società non sono assoggettate alle disposizioni del reddito d’impresa; di conseguenza per il legislatore non sussiste la d'impresa. 149 L'art. 162 del TUIR definisce stabile organizzazione “(…) una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività sul territorio dello Stato. L’espressione stabile organizzazione comprende in particolare: una sede di direzione, una succursale, un ufficio (…)”. Inoltre lo stesso articolo al comma 6 sottolinea che salvo quanto disposto dai commi precedenti costituisce stabile organizzazione il soggetto che può essere o non essere residente, il quale in forma abituale conclude nel territorio dello Stato, in nome dell'impresa stessa, contratti differenti da quelli concernenti l'acquisto di beni. 150 Tale comma prevede che le società e gli enti che detengono partecipazioni di controllo, secondo quanto stabilito dall'art. 2359 del Codice Civile al comma 1, abbiano la sede dell'amministrazione in Italia se a loro volta sono assoggettati al controllo anche indiretto da parte di soggetti residenti in Italia, oppure se presentano un organo di gestione composto prevalentemente da amministratori residenti nel territorio dello Stato. 151 Quanto esposto è stato oggetto di trattazione nella Circolare del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, n. 25/IR del 31 ottobre 2011. 152 A tal proposito sottolinea BEGHNI M., Gli immobili nell’impresa e le imposte dirette, in Rass. trib., 2010, 4, pag. 1013, come la disciplina del reddito d'impresa non rappresenta il Giardino dell’Eden; tuttavia “(...) sotto determinati punti di vista, essa [riserva] una maggiore attenzione rispetto all'effettività degli arricchimenti tassabili e una certa elasticità quanto alla quantificazione di talune componenti reddituali (…)” e questo può spiegare la propensione di trasferire beni privati nella sfera societaria. 153 DOLCE R., Finanziaria 2008: le novità in materia di società di comodo, in Fisco (Il), 2008, 3, pag. 1-395. Viene infatti sottolineato dall'autore che “(...) ratio della normativa è quella di disincentivare l'utilizzo dello strumento societario per attività di mera gestione passiva di beni nell'interesse di proprietari che siano persone fisiche (o soggetti ad esse assimilabili fiscalmente, quali le società semplici), e non dunque per l'effettuazione di reali attività economiche, avvalendosi perciò del regime del reddito d'impresa delle società, più favorevole rispetto a quello delle persone fisiche”. 57 preoccupazione che questa tipologia di compagine sociale possa essere costituita con l’intento di formare degli “schermi societari” per trarre benefici fiscali. Non rientrano poi nell’ambito applicativo in quanto non espressamente richiamate dalla norma: le società cooperative e di mutua assicurazione, nonché gli enti commerciali e non commerciali residenti; le società consortili per le quali si riscontra lo stesso scopo mutualistico, che caratterizza le prime due fattispecie154. Con riguardo alle società cooperative, di mutua assicurazione e a quelle consortili, l’esclusione prevista dal legislatore deve essere analizzata con riferimento allo scopo prevalentemente mutualistico e non lucrativo che caratterizza tali categorie. In particolare le società cooperative e di mutua assicurazione svolgono un’attività economica diretta alla copertura dei costi che esse sostengono ed in linea generale la finalità della loro costituzione non è rappresentata dalla generazione dei profitti e quindi di un utile da distribuire ai soci, ma è quella di realizzare beni e servizi o occasioni di lavoro per i membri, a condizioni più vantaggiose di quelle che essi potrebbero trovare rivolgendosi al mercato155. Anche i soci di una cooperativa mirano quindi all’ottenimento di un risultato economico e di un vantaggio patrimoniale, attraverso lo svolgimento di un’attività d’impresa, ma l’obiettivo prevalente non è il concretizzarsi della più elevata remunerazione possibile del capitale investito. Alla base della costituzione delle società cooperative c’è l’attuazione di un determinato bisogno comune, attraverso un risparmio di spesa per i beni o servizi acquistati direttamente dalla società. L’attività economica è quindi esercitata al fine di realizzare quell’interesse comune che è diverso dalla remunerazione dell’investimento effettuato 156. Su questa linea si inserisce anche lo scopo mutualistico perseguito dalle società consortili, il quale risulta più specifico e tipico rispetto a quello delle cooperative, dal momento che è diretto alla riduzione dei costi di produzione o all’aumento dei ricavi delle rispettive imprese. La non inclusione di questi soggetti nell’ambito delle società di comodo deve quindi essere interpretata sotto questa chiave di lettura: i soci decidono di unirsi ed investire per soddisfare assieme un determinato bisogno e non per creare necessariamente profitti. Non si ritiene quindi che tali fattispecie di società possano rappresentare una minaccia per l’abuso dello 154 Tali precisazioni erano state fornite nelle Circolari del Ministero delle Finanze, n. 140/E del 15 maggio 1995 cit. e n. 48/E del 26 febbraio 1997 cit., riportate nella precedente nota 18. Sono state poi riprese anche nella Circolare 25/E del 4 maggio 2007 cit.. 155 Non esiste una disposizione legislativa che dia una definizione di “società cooperativa”, ma nella relazione al Codice Civile al punto n. 1025 si legge che le società cooperative sono caratterizzate da “(…) uno scopo prevalentemente mutualistico, consistente nel fornire beni o servizi od occasioni di lavoro direttamente ai membri dell’organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che otterrebbero dal mercato (…)”. 156 AA.VV., Diritto delle società [Manuale breve]. Quarta edizione, cit., pag.463 e ss.. E’ da sottolineare che le società cooperative sono caratterizzate da uno scopo mutualistico prevalente, ma non esclusivo. Questo significa che svolgendo attività con i terzi esse possono porre in essere un’attività oggettivamente lucrativa finalizzata alla produzione di utili, qualificando in questo caso la cooperativa come società a mutualità prevalente. 58 schermo societario; non avrebbe senso infatti che fossero costituite come meri contenitori patrimoniali perché in questo modo non verrebbe comunque soddisfatta l’esigenza dei soci che ha spinto alla costituzione delle stesse. E’ proprio quindi la finalità mutualistica prevalente rispetto a quella lucrativa, che porta il legislatore ad escludere tali soggetti, non essendoci in linea generale il pericolo dello sviluppo di società vuote, dove non venga svolta alcuna attività d’impresa, caratterizzata dai connotati appena descritti. Inoltre la disciplina della non operatività non si applica alle società e gli enti non residenti e privi di una stabile organizzazione in Italia. Per quest’ultimi la mancanza di una stabile organizzazione non permette la tassazione dei redditi d’impresa prodotti in Italia, come disposto dall’art. 23 del D.P.R. 917/1986157 e dalla convenzione internazionale contro le doppie imposizioni158. Alcune considerazioni devono essere poi effettuate per le società agricole e le start up innovative159. Secondo l’Amministrazione Finanziaria l’art. 30 della Legge n. 724/1994 doveva trovare attuazione anche per le società agricole, in quanto non era prevista nessuna esclusione né nel testo normativo né nel Provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle Entrate n. 2008/23681160. Tuttavia con il successivo Provvedimento n. 2012/87956, che ha integrato il precedente, è stato specificata la disapplicazione automatica per “(...) le società che esercitano esclusivamente attività agricola ai sensi dell'art. 2135 del codice civile e rispettano le condizioni previste dall'articolo 2 del decreto legislativo 29 marzo 2004, n. 99”, con riferimento sia al triennio di perdita sistematica, che all'ipotesi in cui i ricavi non risultino congrui rispetto al valore dei beni. L’esclusione riguarda quindi tutte le società che hanno come oggetto sociale l’esercizio esclusivo di attività agricole e quelle che presentano nella 157 Il comma 1 lett. e) di tale articolo afferma infatti che “ai fini dell'applicazione dell'imposta nei confronti dei non residenti si considerano prodotti nel territorio dello Stato: (…) i redditi d'impresa derivanti da attività esercitate nel territorio dello Stato mediante stabili organizzazioni”. 158 ORSI E., Le cause di esclusione soggettiva dall'applicazione della disciplina delle società di comodo per le stabili organizzazioni italiane di imprese comunitarie, in Fisc. int., 2008, 3, pag. 218. 159 Per le imprese start-up innovative non si applica invece la disciplina come stabilito dal comma 4 dell'art. 26 del Decreto Legge 18 ottobre 2012, n. 179, concernente “le misure per la nascita e lo sviluppo di imprese startup innovative”. Tali imprese devono svolgere attività d’impresa da non più di quarantotto mesi e devono avere come oggetto sociale esclusivo o prevalente, lo sviluppo, la produzione e successiva commercializzazione di prodotti o servizi ad alto valore tecnologico. Dal momento che l’oggetto sociale delle start-up innovative è la ricerca e lo sviluppo, il mancato esercizio di un’attività commerciale sarebbe inidoneo al perseguimento del suddetto obiettivo. Il legislatore ha quindi ritenuto che l’oggetto sociale e l’intento rappresentino di per sé elementi sufficienti a garantire l’effettivo svolgimento di un’attività economica, sottraendo tali soggetti dalla normativa sulle società non operative ed in perdita sistematica. FORTE N., Start-up e incubatori certificati: chiarito il requisito dell'Innovazione, in Corr. trib., 2014, 27, pag. 2095. L’autore riprende quanto riportato dall'Agenzia delle Entrate nella Circolare n.16/E dell'11 giugno 2014, che ha fornito chiarimenti riguardanti le agevolazioni fiscali previste per le imprese start-up innovative. Viene infatti sottolineato che al fine di favorire lo sviluppo di tali società e considerando “(…) l’esigenza di agevolare le innovazioni, le società che possono usufruire della disciplina in rassegna possono sottrarsi alla disciplina delle società non operative”. 160 Questo secondo quanto stabilito nella Circolare n. 50/E del 1° ottobre 2010. 59 denominazione la dicitura “società agricole”161. Alla panoramica finora descritta si aggiungono poi altre tipologie d’esclusione previste espressamente dal legislatore e le situazioni oggettive che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi necessari per superare il test d’operatività. Con riferimento a quest’ultime il contribuente può disapplicare la normativa perché rientrante in una delle casistiche previste dai già citati provvedimenti del 2008 e del 2012 del Direttore dell'Agenzia delle Entrate, o perché ha presentato istanza d'interpello disapplicativo, ottenendo esito positivo. La trattazione di tali ulteriori ipotesi d'esclusione verrà trattata nel prosieguo del presente capitolo e nel successivo. 2.2 Test d’operatività 2.2.1 Il valore dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi medi effettivi Definito l'ambito soggettivo d'applicazione della disciplina sulle società di comodo il comma 1 dell'art. 30 della Legge n. 724/1994 procede affermando che le società “(...) si considerano non operative se l'ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico, ove prescritto, è inferiore alla somma degli importi che risultano applicando le seguenti percentuali [a specifiche voci patrimoniali] (...)”. La qualifica di soggetto non operativo dipende quindi dal mancato superamento del test d’operatività e rappresenta l’ipotesi base, dalla quale nasce l’obbligo di predeterminazione del reddito minimo da dichiarare162. Il presupposto oggettivo per l’applicazione dell'art. 30 citato si esplica quindi nel confronto tra il valore dei ricavi effettivamente realizzati e quelli medi presunti, ottenuti applicando determinate percentuali agli asset patrimoniali, con la specifica che ogni qualvolta si esclude dal calcolo dei ricavi figurativi un asset perché non rilevante, i proventi derivanti da quel bene non devono essere considerati nel calcolo dei ricavi effettivi. Il legislatore ha identificato il test d’operatività, quale elemento condizionante per individuare l'effetto di risultare società operativa o non operativa. Partendo dall’analisi dei ricavi realizzati, i soggetti tenuti alla redazione del bilancio devono 161 FERRANTI G., L’ambito d’applicazione della disciplina sulle società in perdita sistematica, in Corr. trib., 2012, 28, pag. 2121. Si sottolinea come non rilevi la modalità di determinazione del reddito per la società agricola, che può esplicitarsi sia come differenza tra i ricavi e i costi, sia in base alle norme previste per il reddito agrario. Quello che rileva, affinché la società agricola non sia fiscalmente considerata di comodo, è che l'attività svolta sia esclusivamente agricola ai fini civilistici. 162 DAMIANI M., Società di comodo tra finalità, lacune e proporzionalità dell’assetto normativo, cit., pag. 3554. La penalizzazione delle società di comodo si sostanzia quindi nella determinazione di un reddito minimo presunto che altrimenti non emergerebbe non essendo svolta un’effettiva attività economica, nonché nel limitare l’utilizzo di alcune componenti, che in condizioni “ordinarie”, si potrebbero computare in detrazione. 60 prendere in considerazione la somma degli importi risultanti dalle voci A.1) e A.5) dello schema di conto economico, previsto dall'art. 2425 del Codice Civile, che si riferiscono ai ricavi delle vendite e delle prestazioni e agli altri ricavi e proventi, compresi i contributi in conto esercizio. Si deve poi aggiungere la somma delle variazioni positive delle voci A.2), A.3) e B.11), le quali includono le variazioni delle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione, semilavorati e finiti, le variazione dei lavori in corso su ordinazione e le variazione delle rimanenze di materie prime, sussidiarie, di consumo e merci163. Non rilevano quindi le componenti straordinarie, dal momento che si vuole ottenere un valore della produzione medio, derivante dalla gestione caratteristica o comunque abituale dell'attività d'impresa164. Per le società con periodo d’imposta non coincidente con l’anno solare, o per quelle la cui attività è iniziata in corso d’anno, con la conseguenza che non sono stati generati fin da subito ricavi e proventi, è necessario effettuare un ragguaglio e rapportare gli importi all’anno, secondo la durata del periodo d’imposta. Per quanto concerne poi il riferimento esplicito della normativa ai valori del conto economico si evidenzia l’irrilevanza delle variazioni fiscali, con la conseguenza che eventuali voci, che dovrebbero essere tralasciate ai fini fiscali, devono essere invece computate per il test d’operatività165. Come precisato poi nel comma 2 dell'art. 30 citato “(...) ai fini dell'applicazione del comma 1, i ricavi e i proventi, nonché i valori dei beni e delle immobilizzazioni vanno assunti in base alle risultanze medie dell’esercizio e dei due precedenti (...)”; non vengono nominati espressamente gli incrementi delle rimanenze, ma si ritiene che la media debba essere desunta anche per tali valori. Le ulteriori precisazioni che si devono fare, riguardano i soggetti non residenti con stabile organizzazione in Italia; per queste società ed enti i ricavi, gli incrementi delle rimanenze ed i 163 Come era già stato specificato dalla Circolare del Ministero delle Finanze n. 48/E del 26 febbraio 1997 cit., si deve tenere conto del valore degli incrementi delle rimanenze, così come risulta dal conto economico, anche quando l'importo è il prodotto della somma algebrica delle sottovoci con segno algebrico opposto. L'esempio che veniva riportato era il seguente : 50 milioni relativi alla voce A.2), -30 milioni relativi alla voce A.3) e 40 milioni per la voce B.11), derivanti quest’ultimi dalla somma algebrica di -30 milioni di decrementi delle rimanenze finali rispetto alle esistenze iniziali relative a materie prime, sussidiarie e di consumo e di 70 milioni di incrementi delle rimanenze finali rispetto alle esistenze iniziali relative alle merci. In questo caso l'ammontare degli incrementi delle rimanenze da considerare è pari a 90 milioni, somma dei 50 milioni della voce A.2) e dei 40 della voce B.11). Non si deve invece considerare l'importo negativo presente nella voce A.3), dato che il decremento delle rimanenze è irrilevante ai fini del test d'operatività. 164 A tale riguardo la Circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 25/E del 4 maggio 2007 cit., ha analizzato l'ipotesi di cessione d'azienda o del ramo aziendale. Il corrispettivo percepito, si riferisce all'azienda intesa come unitario complessivo di beni e costituisce una plusvalenza di natura straordinaria da iscrivere nella voce del conto economico E.20) Proventi, con separata indicazione delle plusvalenze da alienazioni i cui ricavi non sono iscrivibili al n.5) (nella voce cioè A.5) del conto economico) Non è possibile separare dal valore di tale plusvalenza, quello riferito alle merci e ai beni, che se venduti singolarmente, rientrerebbero nella gestione ordinaria d'impresa rilevando per il calcolo dei ricavi e proventi effettivamente realizzati. 165 Tra i ricavi effettivi non devono essere considerati quelli che derivano dall’adeguamento ai parametri o agli studi di settore, perché aventi natura extra-contabile. Tale maggior reddito deve essere tuttavia preso in considerazione per il reddito minimo da dichiarare, trattato nel capitolo successivo. 61 proventi effettivi, da considerare ai fini del test, si riferiscono solamente a quelli prodotti nella stabile organizzazione presente nel territorio dello Stato. Inoltre la specifica presente nell’articolo riportato all’inizio dei paragrafo “ove prescritto” evidenzia che, per i soggetti non tenuti alla redazione del bilancio, l’effettivo ammontare dei ricavi e dei proventi ordinari va desunto dalle scritture contabili stabilite dall’art. 18 del D.P.R. n. 633/1972, che disciplina la contabilità semplificata per le imprese di minori dimensioni. Calcolati quindi i componenti positivi effettivamente realizzati dall’impresa, si deve procedere a confrontarli con quelli minimi presunti166. 2.2.2 L’applicazione delle percentuali per il calcolo dei ricavi medi presunti Si passa ora ad analizzare le voci dello stato patrimoniale rilevanti ed i coefficienti da applicare per il calcolo dei ricavi figurativi. Il requisito necessario per definire una società operativa e non società di comodo prevede che l'ammontare dei ricavi, dei proventi e degli incrementi delle rimanenze, risultanti dal conto economico dell'impresa, siano superiori alla soglia minima dei ricavi presunti, ottenuta applicando le seguenti percentuali ai beni indicati al comma 1 dell'art. 30 della Legge n. 724/1994: a) 2 per cento al valore dei beni di cui all'art. 85, comma 1, lettere c), d), e) del TUIR e delle quote di partecipazione nelle società commerciali, di cui all'art. 5 del TUIR, anche se i predetti beni e partecipazioni costituiscono immobilizzazioni finanziarie, aumentato del valore dei crediti; b) 6 per cento al valore delle immobilizzazioni costituite da beni immobili e da beni indicati nell’art. 8-bis primo comma lettera a) del D.P.R. n. 633/1973, anche in locazione finanziaria; per gli immobili classificati nella categoria catastale A/10, la predetta percentuale è ridotta al 5 per cento; per gli immobili a destinazione abitativa acquistati o rivalutati nell'esercizio e nei due precedenti, la percentuale è ulteriormente ridotta al 4 per cento; per tutti gli immobili situati in comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti la percentuale scende all'1 per cento; c) 15 per cento al valore delle altre immobilizzazioni, anche in locazione finanziaria. Prima di iniziare ad analizzare il calcolo dei ricavi presunti, è opportuno sottolineare l’assoluta libertà del legislatore nel costruire i parametri volti a definire il reddito societario; se inizialmente i coefficienti per la determinazione dei ricavi erano fissati in misura ragionevolmente equa, nel corso del tempo il loro incremento quantitativo ha evidenziato la 166 GAVELLI G. e SANTINI C., “Società di comodo” verso la scomparsa: il D.L. n.223/2006 rende troppo gravoso il mantenimento in vita delle società non operative, in Fisco (Il), 2006, 37, pag. 5742. 62 carenza di ricerca di effettività della presunzione legale, secondo la quale il mancato raggiungimento di un determinato livello minimo di ricavi comporta l’identificazione della società come soggetto non operativo167. Per il calcolo dei ricavi medi presunti si procede a determinare gli investimenti effettuati nell’anno in corso e nei due precedenti a quello d’osservazione, anche se interessati da cause d’esclusione dell’applicazione della norma, per ciascuna categoria di beni citata dal legislatore e a moltiplicarli con i relativi coefficienti168. Sembra utile approfondire che cosa includano le diverse fattispecie di beni ed immobilizzazioni elencate per poter comprendere il valore dei ricavi minimi da realizzare per superare il test d’operatività169. Il coefficiente del 2 per cento si applica alle azioni170 o quote di partecipazione, anche non rappresentate da titoli, al capitale dei soggetti IRES, agli strumenti finanziari similari alle azioni emessi dai soggetti ed enti di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 917/1986 e alle obbligazioni e agli altri titoli di massa diversi dai precedenti. Tali beni devono essere inclusi nel test d’operatività indipendentemente dal regime d’esenzione ad essi riservato; questo significa, come precisato dalle Circolari dell’Amministrazione Finanziaria n. 6/E del 13 febbraio 2006 e n. 11/E del 16 febbraio 2007, che concorrono al calcolo dei ricavi minimi presunti anche le partecipazioni in possesso dei requisiti previsti dall'art. 87 del TUIR171, in materia di partecipation exemption172. Devono poi essere prese in considerazione anche le quote di partecipazione relative alle società commerciali di persone, ossia alle società in nome collettivo, in accomandita semplice e a 167 NUSSI M., La disciplina impositiva delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi incoerenti, cit., pag. 491. 168 Come già riportato nel paragrafo precedente, la determinazione del valore medio triennale è esplicitata nel secondo comma dell'art. 30 citato. Nel caso poi la società sia stata costituita da meno di tre anni, per il calcolo rileva l’anno corrente e quello immediatamente precedente, che coincide con quello di costituzione. Inoltre ai fini del computo della media, per i beni e le immobilizzazioni acquistate o cedute nel corso d'esercizio, il valore di quest'ultimi dovrà essere determinato facendo riferimento alla durata del possesso determinata in giorni su base annuale. 169 PROVAGGI G. e MACARIO E., Le modifiche alla disciplina sulle società di comodo, in Corr. trib., 8, 2007, pag. 603; VALENTE G. e ZANETTI E., Circolare n. 9/E del 14 febbraio 2008: Società di comodo- Chiarimenti dell'Agenzia delle Entrate sulle novità della Finanziaria 2008, in Fisco (Il), 2008, 8, pag. 1459. Nell'esporre le percentuali da applicare ai fini del test d’operatività, viene evidenziato, come già esposto nel primo capitolo, che la Legge Finanziaria 2008 ha eliminato la riduzione dei coefficienti per i “titoli e assimilati” e le “altre immobilizzazioni” situati nei comuni con un numero di abitanti inferiore a 1000 ed ha specificato che il coefficiente ridotto dell'1 per cento si applica a tutti gli immobili presenti nei comuni con tale caratteristica. In questo modo, evidenziano gli autori, è stato posto rimedio alla situazione precedente nella quale si “(…) finiva per premiare i beni diversi dagli immobili, quando viceversa è evidente che proprio quest'ultimi sono i solo beni ad avere un radicamento territoriale tale da giustificare un'agevolazione”. 170 Deve essere precisato, secondo quanto specificato nella Circolare n. 48/E del 26 febbraio 1997 cit., che le azioni proprie, ai sensi dell'art. 2357-ter del Codice Civile, non danno diritto all’utile che invece è attribuito proporzionalmente alle altre azioni. Non essendo idonee a produrre proventi non sono computate nel calcolo del test d’operatività. 171 Tale articolo definisce esenti dalla formazione del reddito in misura pari al 95 per cento le plusvalenze relative ad azioni o quote di partecipazioni in società di cui all'art. 5 del TUIR, escluse le società semplici, e all'art. 73 del TUIR se possiedono determinati requisiti. 172 Non è necessario che siano beni a cui è diretta l'attività d'impresa. 63 quelle equiparate. Esse rilevano indipendentemente dalla loro classificazione in bilancio; possono quindi essere sia iscritte nell’attivo circolante, che nelle immobilizzazioni finanziarie173. Oltre ai beni qui elencati devono aggiungersi i crediti di finanziamento. Sono esclusi i crediti aventi natura commerciale, in quanto generati da operazioni finalizzate non al finanziamento della società, ma all’acquisizione di beni e servizi; tuttavia qualora tali crediti commerciali, in relazione alle specifiche condizioni e modalità di pagamento, risultino di fatto riconducibili alla sfera del finanziamento è necessario conteggiarne il valore ai fini del computo nel test. Non rientrano poi nel calcolo dei ricavi medi presunti i crediti per rimborsi di imposte, così come gli interessi relativi a crediti diversi da quelli di finanziamento. Per quanto concerne poi i soggetti non tenuti alla redazione del bilancio ai fini fiscali, essi non considerano il valore dei crediti, dal momento che quest'ultimi non trovano rappresentazione contabile, secondo quanto disposto dall'art. 18 del D.P.R. 633/1972. Sono quindi questi “titoli e assimilati” così come descritti, che rilevano per l’applicazione del coefficiente del 2 per cento, primo addendo nella somma dei ricavi figurativi. Si applica invece il coefficiente del 6 per cento agli immobili costituiti da terreni e fabbricati e ai beni indicati all'art. 8-bis, primo comma, lettera a) del D.P.R. n. 633/1972, che include le navi destinate all’esercizio commerciale o alla pesca o alle operazioni di salvataggio o assistenza in mare, ovvero alla demolizione, escluse le unità da diporto. Tali beni trovano rappresentazione nelle voci B.II.1) e B.II.4) dello stato patrimoniale che si riferiscono rispettivamente ai terreni e fabbricati e agli altri beni; vale sempre la regola in base alla quale per i soggetti non tenuti alla redazione del bilancio, il valore dei beni e delle immobilizzazioni deve essere desunto dalle scritture contabili previste dall'art. 18 del D.P.R. n. 633/1973. Inoltre rilevano anche se in locazione finanziaria, mentre non devono essere considerati se posseduti in locazione semplice o in comodato o a noleggio. Come specificato poi nella Circolare dell'Amministrazione Finanziaria n. 5/E del 4 maggio 2007, gli immobili concessi in usufrutto a titolo gratuito verso soggetti diversi da soci o familiari174, non rientrano tra i beni rilevanti ai fini del test d'operatività e nemmeno nel calcolo del reddito minimo, in quanto non produttivi di reddito per la società nuda proprietaria175. Nel caso invece la 173 Come precisato nella Circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 5/E del 2 febbraio 2007, nella precedente versione dell’art. 30 della Legge n. 724/1994, rimasto in vigore fin prima delle modifiche avvenute con il Decreto Legge 4 luglio 2006, n. 223, le quote di partecipazioni nelle società commerciali di persone rilevavano solo se iscritte tra le immobilizzazioni finanziarie. 174 Si veda la nota n. 58 per la definizione stabilita nell’art. 5 comma 5 del TUIR di familiare. 175 Tale casistica è stata trattata nella Risoluzione dell'Agenzia delle Entrate n. 94/E del 25 luglio 2005, nella quale una società, proprietaria di un immobile concesso in usufrutto, chiedeva se la nuda proprietà fosse rilevante ai fini del calcolo del test d'operatività delle società non operative. E’ stato evidenziato da parte dell'Amministrazione Finanziaria che, secondo quanto disposto dall'art. 26 del TUIR, “i redditi fondiari 64 concessione in usufrutto avvenga a titolo oneroso, tali asset devono essere ricompresi nel calcolo dal momento che anche i componenti positivi derivanti dalla concessione di tali immobili saranno inclusi nel calcolo dei ricavi effettivi. Devono essere poi esclusi gli immobili merce176, non essendo citati tra gli asset rilevanti dell'art. 30 comma 1, a condizione tuttavia che la classificazione degli immobili merce avvenga rispettando i principi contabili, come pure le immobilizzazioni materiali in corso; quest’ultime non essendo ancora suscettibili di utilizzazione non producono quindi alcun provento177. Per gli immobili poi classificati nella categoria catastale A/10, che comprende immobili quali uffici e studi privati, il coefficiente da applicare è ridotto in misura pari al 5 per cento. Inoltre la percentuale è ulteriormente abbassata al 4 per cento per gli immobili abitativi acquistati o rivalutati nell’esercizio stesso o nei due precedenti; in questo caso, trascorso il triennio in cui si applica tale agevolazione, si ritornerà a considerare la percentuale più elevata del 6 per cento ai fini del calcolo178. Prima di procedere ad analizzare gli altri beni che rilevano ai fini del calcolo dei ricavi presunti, è opportuno evidenziare che il Decreto Legislativo n. 185/2008 aveva previsto all’art. 15, comma 16, la possibilità per i soggetti di cui all’art. 73, comma 1, lett. a),b) del TUIR179 e per le società di persone e quelle ad esse equiparate, che non redigono il bilancio secondo i principi contabili internazionali, di rivalutare i beni immobili, escluse le aree fabbricabili e gli immobili alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività d’impresa, risultanti dal bilancio al 31 dicembre 2007. I maggiori valori derivanti dalla rivalutazione180 dovevano essere imputati ad una specifica riserva, che poteva essere concorrono a formare il reddito complessivo dei soggetti che possiedono gli immobili a titolo di proprietà, enfiteusi, usufrutto o altro diritto reale; di conseguenza il reddito dei fabbricati concorre a formare il reddito complessivo del titolare di usufrutto e non della società nuda proprietaria. E’ corretta quindi l'esclusione dell'immobile concesso in usufrutto dalle immobilizzazioni per le quali si rendono applicabili le percentuali di redditività presunta, in quanto trattasi di un immobile non idoneo a produrre reddito per la società stessa (…)”. 176 MIELE L., Società di comodo: il test d'operatività con qualche certezza in più, in Corr. trib.. 2007, 21, pag. 1679. Riguardo agli immobili merce si deve precisare che tali immobili potrebbero temporaneamente produrre proventi da locazione, da contabilizzare tra i proventi ordinari nella voce A.5) del conto economico. Tuttavia secondo l’autore i predetti canoni di locazione non devono essere imputati tra i ricavi e proventi effettivi dal momento che sono esclusi dal calcolo dei ricavi medi presunti. 177 GAIANI L., Immobili e disciplina delle società di comodo:problematiche del test d'operatività, in Fisco (Il), 2014, 22, pag. 2143. L’autore evidenzia che devono essere esclusi dal test d'operatività gli immobili merce “ (…) che nell'esercizio si trovano in fase di ristrutturazione profonda o di restauro, e in genere quelli che, a seguito di un intervento di recupero, sono inutilizzabili (...)”. 178 GAVELLI G. e VERSARI A., Provvedimento Agenzia delle Entrate n. 23681 del 14 febbraio 2008. Le novità in materia di società di comodo, in Fisco (Il), 2008, 11, pag. 1-1933. 179 Tali soggetti sono le società di capitali residenti nel territorio dello Stato e gli enti pubblici e privati sempre residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali. 180 La Circolare dell'Agenzia delle Entrate 19 marzo 2009, n. 11/E ha precisato che la rivalutazione poteva essere effettuata secondo tre modalità alternative: rivalutazione del costo storico e del fondo di ammortamento, mantenendo inalterata l'originaria durata del processo d'ammortamento; rivalutazione del solo costo storico, che determina un allungamento del processo d'ammortamento, se viene mantenuto inalterato il precedente 65 affrancata da imposizione versando un’imposta sostitutiva; inoltre perché tale operazione potesse avere valenza ai fini fiscali era necessario il pagamento di un’ulteriore imposta sostitutiva. L’obiettivo di tale disposizione era quello di consentire l’adeguamento delle risultanze contabili ai valori effettivi e gli effetti a livello fiscale si sarebbero esplicate a partire dal quinto esercizio successivo a quello in cui si era proceduto alla rivalutazione degli immobili e quindi dal primo gennaio 2013. Da tale operazione ne deriva un maggior ammortamento fiscale del bene; tuttavia la rivalutazione rileva anche ai fini del test d'operatività, come esplicitato nella Risoluzione dell'Amministrazione Finanziaria 20 dicembre 2013, n. 101/E. Questo significa che a partire dall'esercizio 2013 le società che hanno operato la rivalutazione descritta dovranno moltiplicare il maggior valore dei beni immobili divenuto rilevante per il coefficiente del 6 per cento181. La considerazione che è opportuno fare è che soprattutto nel settore immobiliare, dove la crisi economica-finanziaria si è fatta sentire pesantemente, i maggiori costi deducibili di cui potranno usufruire le imprese, porteranno in alcuni casi ad incrementare le perdite fiscali. La caduta dei ricavi da un lato e la rilevanza dei nuovi valori fiscali da imputare per il test d'operatività dall’altro potrebbero quindi ampliare la platea dei soggetti a rischio e peggiorare la situazione delle imprese, che sebbene operative, non riescono a raggiungere il livello minimo di ricavi presunti, diventando così società di comodo182. Ritornando ad esaminare quanto previsto dal comma 1 dell'art. 30 citato la lettere c) esso prevede l’applicazione di un coefficiente pari al 15 per cento per le altre immobilizzazioni, comprese quelle in locazione finanziaria. Si fa riferimento per quanto concerne le immobilizzazioni materiali, agli impianti e macchinari, alle attrezzature industriali e commerciali e agli altri beni che trovano collocazione rispettivamente nelle voci B.II.2), coefficiente, altrimenti si deve procedere ad innalzare il coefficiente; riduzione del fondo di ammortamento, che comporta lo stanziamento di ammortamenti su un costo analogo a quello originario. 181 L’Amministrazione Finanziaria nella Risoluzione n. 101/E del 20 dicembre 2013, al quesito se l’aliquota ridotta del 4 per cento potesse essere applicata agli immobili rivalutati, sebbene non a destinazione abitativa, ha risposto ribadendo che tale aliquota si applica agli immobili a destinazione abitativa acquistati o rivalutati nell’esercizio stesso e nei due precedenti. 182 A tal riguardo si è espresso ARTINA R., Il valore rivalutato degli immobili ai fini del test d'operatività, in Amministrazione & Finanza, 2014, 6, pag. 13. Partendo dall'analisi del comma 20 dell'art. 15 del Decreto Legislativo n. 158/2008 che stabilisce che “(...) il maggior valore attribuito ai beni in sede di rivalutazione può essere riconosciuto ai fini delle imposte sui redditi e dell'imposta regionale sulle attività produttive (...)”, l'autore evidenzia come la rivalutazione non dovrebbe trovare in via diretta applicazione alla disciplina delle società di comodo e nemmeno in via indiretta, dato che il decreto del 2008 citato non fa mai riferimento all'art. 110 del TUIR, presente invece nell'art. 30 della Legge n. 724/1994, quale criterio per la valorizzazione dei bene. Inoltre sostiene lo stesso “ (...) la discrezionalità del metodo di rivalutazione, confligge con il rigore cui dovrebbe ispirarsi l’applicazione di una disposizione antielusiva, quale è appunto la disciplina di contrasto delle società di comodo. In conclusione la posizione cui giunge l'Agenzia delle Entrate con la Risoluzione n. 101/2013, non sembra esattamente coerente né con le norme che hanno regolato la rivalutazione degli immobili, né con la ratio ispiratrice della disciplina di contrasto alle società di comodo”. 66 B.II.3) e B.II.4) dello stato patrimoniale. Si deve precisare che tra gli altri beni, sono escluse le navi indicate all'art. 8-bis del D.P.R. n. 633/1973, che rientrano invece nel comparto degli immobili, come precisato in precedenza. Le altre immobilizzazioni immateriali rilevanti ai fini del test d’operatività sono invece sia i diritti di brevetto, le licenze, beni cioè in grado di produrre ricavi e proventi, sia i costi ad utilità pluriennale come l'avviamento, i costi d'impianto e ampliamento, le spese di ricerca e di pubblicità. Per queste spese relative a più esercizi l’ammontare da considerare per l’applicazione del coefficiente del 15 per cento è il valore risultante dal bilancio, al netto quindi dei valori già precedentemente dedotti. Rientrano inoltre tra le altre immobilizzazioni i beni strumentali il cui valore è inferiore a 516,46 euro. Analogamente a quanto esposto per le immobilizzazioni materiali in corso, anche le altre immobilizzazioni materiali ed immateriali in corso sono escluse dal calcolo dei ricavi medi presunti, dal momento che non contribuiscono alla generazione dei proventi, così come non rilevano nemmeno gli acconti pagati per l’acquisizione di dette immobilizzazioni. Per i soggetti non tenuti alla redazione del bilancio ai fini fiscali, il valore dei beni e delle immobilizzazioni deve essere sempre desunto secondo quanto previsto dall'art. 18 del D.P.R. n. 633/1973183. Illustrati quali sono i beni di cui si deve tener conto per i ricavi figurativi, occorre fare alcune precisazioni relative al valore da considerare nel calcolo; nello specifico il comma 2 dell'art. 30 della Legge n. 724/1994 stabilisce che “(...) per la determinazione del valore dei beni si applica l'art. 110, comma 1, del Testo Unico delle Imposte sui Redditi”. Per i beni in locazione finanziaria si assume il costo sostenuto dall’impresa concedente ovvero, in mancanza di documentazione, la somma dei canoni di locazione e del prezzo di riscatto risultanti dal contratto. Secondo quanto previsto dall’art. 110, comma 1, lett. a) del TUIR184, la determinazione dei valori dei beni deve avvenire considerando il costo al lordo delle quote d’ammortamento già dedotte, indipendentemente dalla deducibilità fiscale di quest’ultime. Tale disposizione riguarda sia i beni ammortizzabili materiali, che quelli immateriali; il processo d’ammortamento può essere stato completato del tutto, è necessario tuttavia, in questo caso, che i beni facciano ancora parte del processo produttivo e non siano stati eliminati. Rientrano quindi anche i beni di valore inferiore ai 512,46 euro, il cui costo, 183 CORSINI L., La fuga dalle società di comodo: un'occasione da non perdere, per passare dalle imposte sulle società all'imposta sulle persone fisiche e per conservare il regime Iva, in Fisco (Il), 2007, 19, pag. 2800. 184 Deve essere sottolineato che l'art.110 del D.P.R. n. 917/1986 non si applica alle spese relative a più esercizi dal momento che quest'ultime rappresentano degli oneri aventi utilità pluriennale e non beni, come intesi dal legislatore nel predetto articolo. Per questi costi pluriennali capitalizzati il valore da considerare è al netto degli ammortamenti effettuati. 67 secondo quanto stabilito dall’art. 102 comma 5 del TUIR185, è integralmente dedotto nell’esercizio d'acquisizione186. Inoltre nel valore dei beni per il test d’operatività non si deve tenere conto delle plusvalenze annotate in bilancio così come per le azioni, le quote e gli strumenti finanziari il costo si intende non comprensivo dei maggiori o minori valori iscritti187. Infine come detto precedentemente per i beni tenuti in locazione finanziaria il costo che rileva è quello dell’impresa concedente oppure la somma delle quote capitali relative ai canoni di locazione ed il prezzo del riscatto; si vuole in questo modo applicare lo stesso trattamento sia per i beni di proprietà sia per quelli in locazione finanziaria, anche qualora sia stata esercitata l'opzione del riscatto del bene. 2.2.3 Alcune considerazioni relative al confronto tra ricavi medi effettivi e presunti Dopo aver calcolato i ricavi medi presunti, derivanti dalla somma del valore dei beni sopra descritti moltiplicati per gli appositi coefficienti, si deve procedere ad effettuare il confronto con i ricavi effettivamente realizzati e qualora quest’ultimi risultino inferiori ai ricavi minimi stabiliti, la società assume la veste di società non operativa con la conseguenza di ricadere nell’applicazione di quanto previsto dall'art. 30 della Legge n. 724/1994. La logica alla base del test si esplica nel fatto che una società, possedendo determinati beni, dovrebbe essere in grado di generare dei ricavi minimi e la mancata dichiarazione di quest’ultimi pone l’accento sull’utilizzo quindi di quei beni per il godimento personale dei soci, anziché per lo svolgimento dell’attività economica; da qui deriva poi la presunzione del reddito minimo da dichiarare188. L’impianto normativo ha quindi come assunto base l’esistenza di una correlazione proporzionale tra i valori patrimoniali della società ed il reddito imponibile. E’ riscontrabile in generale una relazione dal punto di vista economico tra patrimonio e reddito, quest’ultimo inteso essenzialmente come incremento in un determinato arco temporale del patrimonio stesso189; non è facile tuttavia determinare nel caso delle società di comodo lo 185 L'art. 102 del D.P.R. n. 917/1986 stabilisce come deve essere calcolato l'ammortamento fiscale dei beni materiali. 186 La Circolare dell'Amministrazione Finanziaria, n. 25/E del 4 maggio 2007, ha inoltre precisato che l’assunzione del costo al lordo delle quote d'ammortamento si applica anche ai seguenti cespiti: veicoli a motore, non considerando le limitazioni di deduzioni delle spese previste dall'art. 164 del TUIR e le aree su cui insiste un fabbricato strumentale, tralasciando il fatto che il costo rilevante per le quote d'ammortamento deducibili sia al netto del costo delle stesse. 187 Si applica cioè quanto previsto nel comma 1, lett. c) e d) dell'art. 110 del TUIR. 188 La disciplina sulle società di comodo, come specificato precedentemente, è fondata sul presupposto che il possesso di determinati beni patrimoniali ed il loro inserimento nella struttura societaria implicano la presunzione relativa di un loro utilizzo per scopi reddituali e quindi per incrementare la ricchezza della società. LUPI R., Le società di comodo come disciplina antievasiva, cit, pag. 1097 e ss.. 189 CERMIGNANI M., Il regime fiscale delle società di comodo: ratio, attualità e prospettive, cit., pag. 1-255. L’autore sottolinea che in linea tendenziale il processo di circolazione ed accumulazione del capitale 68 specifico rapporto di connessione che esiste tra i singoli valori patrimoniali ed il loro incremento e dunque il reddito presuntivamente imputabile alla struttura societaria. Posto inoltre che tra le due variabili esista una funzione di “proporzionalità diretta”, la quale implica che all’aumentare del valore del bene patrimoniale posseduto dalla società debba aumentare anche il reddito generato, non è detto che tale relazione sia costante; la questione riguarda quindi l’identificazione del rapporto quantitativo “razionalmente attendibile” tra il patrimonio e l’incremento del reddito. In questo quadro complesso, la scelta normativa di applicare ai beni patrimoniali alcuni coefficienti medi appare la soluzione più semplice, data l’enorme quantità di fattori che incidono nella correlazione proporzionale tra i due indici. E’ poi opportuno sottolineare che i coefficienti posti dal legislatore, rilevanti per il calcolo dei ricavi minimi presunti, sono “apodittici” non essendo dotati di alcuna attendibilità dimostrativa: non esiste infatti una regola economica che permetta di affermare che esista per esempio, un rapporto pari al 2 per cento tra il valore delle azioni e la minima redditività della società partecipata. Facendo un confronto con gli studi di settore, anch’essi strumento accertativo di natura forfettaria, si può affermare che in questo caso le costanti economiche utilizzate dal legislatore rappresentano un parametro fattuale riscontrabile, mentre nelle società di comodo i coefficienti non sono in alcun modo oggetto di riscontro190. Resta il dato di fatto che viene posto a tassazione non l’incremento di ricchezza effettivamente ascrivibile al contribuente, ma il reddito presuntivamente producibile. Procedendo in questo modo il test d’operatività si riduce ad un’operazione puramente matematica, che non prevede indagini dirette volte a verificare il concreto modo d’essere dell'attività d'impresa: “(...) tutto si svolge a tavolino e si esaurisce nell’ambito della dichiarazione tributaria; la non operatività scaturisce quindi in modo automatico, come conseguenza del mancato superamento del test d’operatività”191. Può quindi accadere che soggetti realmente operativi, ma non dotati di un sufficiente livello di ricavi, ricadano nella disciplina delle società di comodo, mentre ne potrebbero rimanere estranei dall’applicazione della disciplina, coloro che effettivamente non impiegano i beni complessivo della società determina l’incremento delle singoli frazioni del capitale “fisso” accumulato ed investito. Il reddito è in questa prospettiva funzione del patrimonio. 190 TOSI L., Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.)., cit., pag. 7. Secondo l'autore i coefficienti utilizzati per il test d'operatività come quelli poi per il calcolo del reddito minimo sono percepiti come particolarmente iniqui ed odiosi, proprio perché non sono il risultato di un'indagine storica verificabile e non hanno ricevuto alcun appuramento empirico. 191 BEGHIN M., Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, in FALSITTA G., Manuale di Diritto Tributario. Parte speciale, cit., pag 715 e ss.. Viene evidenziato, come già spiegato nel precedente capitolo, che prima dell'introduzione della legge finanziaria per il 2007, l'Amministrazione Finanziaria doveva procedere in contraddittorio per poter contestare il mancato raggiungimento dei ricavi minimi; era data quindi possibilità al contribuente di definirsi soggetto operativo, rinviando eventualmente al futuro la dimostrazione delle situazioni oggettive di carattere straordinario che non avevano permesso il conseguimento di un adeguato livello di redditività. 69 nell’esercizio dell’attività produttiva e che tuttavia sono in grado di generare proventi sufficienti al superamento del test. Presumere quindi la non operatività di un determinato soggetto attraverso la potenziale redditività dei beni posseduti, ottenuta tramite l’applicazione di determinate percentuali il cui valore è difficilmente motivabile, sembra in sé contraddittorio. Se infatti si considera la non operatività in senso proprio, come mancato svolgimento di un’effettiva attività produttiva, non appare corretto concludere che è necessario produrre un determinato ammontare di ricchezza a priori, nelle misure stabilite dalla legge per le diverse fattispecie di beni; la presunzione di un determinato flusso di reddito, sarebbe forse maggiormente comprensibile per le società invece operative. Manca quindi una consistenza logica tra il fatto di non produrre un determinato livello di ricavi e proventi ed essere soggetti non operativi. Si deve tuttavia aggiungere che non è illogico pensare che le società non possano operare senza produrre redditi sufficienti a coprire gli investimenti effettuati, ma la parametrazione ed il test d’operatività previsto dall'art. 30 della Legge n. 724/1994 non sembrano rappresentare dei criteri abbastanza adeguati per cogliere la complessità del fenomeno societario192. L’apparente contraddizione relativa al fatto di considerare da un lato le società come non operative e dall'altro lato di tassarle come soggetti realmente operativi che compiono un’attività generatrice di ricavi, potrebbe essere letto come tentativo del legislatore di adottare un atteggiamento di tipo “sostanzialistico”, che accerti se dietro alla costituzione di una struttura societaria sia svolta effettivamente un’attività imprenditoriale, la quale assume rilievo prevalente rispetto all’involucro esterno societario. In quest’ottica potrebbe essere considerato il parametro di rifermento posto dal legislatore relativo all'ammontare dei ricavi e proventi dichiarati, i quali non devono essere inferiori ad una determinata soglia rappresentata dall'ammontare dei ricavi presunti 193. Si deve inoltre sottolineare che l'applicazione tout court dei parametri numerici e l’eventuale discussione 192 E' questa la tesi sostenuta da SCHIAVOLIN R., Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 59 e ss., dove l'autore sottolinea “(...) la carenza di fondo che [la disciplina sulle società di comodo] mostra sul piano della coerenza logica: soprattutto, poiché il senso comune porterebbe a ricollegare alla non operatività la non redditività, non appare coerente, da un lato, qualificare certe società come non operative, dall’altro, trarne la conseguenza della produzione di imponibili superiori ad una certa soglia (...)”. 193 STEVANATO D., Società di comodo e intenti pedagogici del legislatore, in MELIS G., STEVANATO D. e LUPI R., Ancora in tema di società di comodo e presunzione d'evasione, cit., pag. 1326 e ss.. Secondo l'autore leggendo la disciplina sulle società di comodo sotto quest'ottica l’idea di fondo è che “(...) in mancanza di un minimo flusso di proventi, la legge presume l’assenza di un'attività economica sottostante, ed in tal caso opera una sostituzione degli ordinari criteri analitici di tassazione del reddito d'impresa, con una tassazione presuntiva sui singoli cespiti, considerati isolatamente come beni fruttiferi secondo determinati coefficienti di redditività”. La prevalenza della sostanza economica sulla forma giuridica comporta il cambiamento degli ordinari criteri normativi sull'imposizione reddituale ed in questo modo si esplica la tassazione della capacità economica soggettiva non sul reddito, ma sul patrimonio che diventa elemento essenziale per definire se una società è operativa o meno. 70 delle cause d'esclusione generali o specifiche poste dal contribuente stesso risulti la soluzione operativa più semplice per l'Amministrazione Finanziaria. Non è infatti necessaria la disamina di ogni singola situazione per accertare se la società è stata costituita come schermo societario; si procede in modo automatico ed in questo modo la situazione peculiare in cui potrebbe trovarsi il contribuente viene posta in secondo piano, con il rischio quindi di sottoporre a tassazione ricchezza non realmente generata, identificando come società di comodo strutture effettivamente operative ma che non raggiungono i livelli soglia dei ricavi e del reddito stabiliti ex lege194. L'individuazione e la fissazione aprioristicamente di percentuali di “redditività media”, riconducibili alle specifiche categorie di beni patrimoniali, non appaiono idonee a cogliere i fattori reali che incidono concretamente sulle singole fattispecie. Si crea quindi un meccanismo di predeterminazione normativa dove il reddito imponibile della società è il frutto della verifica della consistenza degli asset patrimoniali rispetto al valore dei ricavi e dei proventi prodotti. L’automatismo posto a base del test d’operatività porta con sé il rischio concreto di includere nella categoria delle società di comodo soggetti oggettivamente operativi.195. 194 DAMIANI M., Società di comodo e perdite sistematiche: l'abuso del diritto risolve le possibili discriminazioni, cit., pag. 929; secondo l'autore il meccanismo automatico d'applicazione della disciplina delle società di comodo come prevista dall'art. 30 della Legge n. 724/1994 rappresenta forse una soluzione più facile per gli Uffici fiscali che permette di reperire gettito in modo agevole, anche se in questo modo vengono meno i principi base del diritto tributario. 195 A proposito del test d’operatività e poi della determinazione del reddito minimo per i soggetti non operativi è stato evidenziato il parallelo che può sussistere tra l’obbligo di dichiarare un reddito minimo e la minimum tax, che è stata introdotta nel 1992 in Italia, come contrappeso ai provvedimento che andavano a colpire i redditi dei lavoratori subordinati e i pensionati. Tale imposta riguardava i soggetti diversi da quelli assoggettati ad IRPEG, esercenti attività commerciali o arti e superiori, i cui ricavi o compensi erano inferiori a quelli che dovevano essere prodotti per essere ammessi al regime di contabilità semplificato, indipendentemente dal regime di contabilità prescelto. In particolare qualora il reddito di tali soggetti risultava inferiore all’ammontare di un parametro identificato come “contributo diretto lavorativo” dell’imprenditore o dell’esercente le arti e professioni e dei suoi collaboratori familiari, soci o associati si applicava la minimum tax. L’Amministrazione Finanziaria procedeva in modo automatico alla liquidazione ed alla riscossione delle maggiori imposte dovute, determinando ai fini Irpef un reddito presunto sulla base del contributo diretto lavorativo; quest’ultimo si basava su dati oggettivi e soggettivi, riguardanti l’attività economico esercitata,l’ambito economico, l’organizzazione imprenditoriale o professionale, l’inizio temporale dell’esercizio. In questo modo talune categorie di imprenditori e professionisti dovevano pagare un’imposta minima in relazione al fatto che il reddito dichiarato fosse inferiore ai valore del contributo diretto lavorativo, prescindendo quindi dai risultati concretamente ottenuti dal contribuente. Tale presunzione legale, che poteva essere evitata chiedendo l’esonero attraverso una procedura amministrativa preventiva, si basava sulla determinazione di un reddito medio fondato in modo presunto sulla quantificazione monetaria dell’attività svolta dai soggetti interessati da tale norma. Le caratteristiche comuni tra i due regimi riguardano il fatto che il contribuente se non supera determinati vincoli previsti dal legislatore si ritrova a dover comunque dichiarare un determinato reddito minimo stabilito in modo presuntivo. Non vengono prese in considerazioni le situazioni soggettive del contribuente, ci si basa su dati di normalità economica e quindi ci si distanzia dal principio di effettività della capacità contributiva e di uguaglianza. In relazione alla minimum tax la disapprovazione verso tale imposta era ancora più evidente dato che non è che contrastasse uno specifico fenomeno, ma semplicemente stabiliva che imprenditori e professionisti che non raggiungevano una determinata soglia reddituale avrebbero comunque dovuto pagare in base ad un reddito determinato 71 2.3 Cause d’esclusione e di disapplicazione automatica della normativa in esame 2.3.1 Le cause d’esclusione Come accennato nel primo paragrafo del presente capitolo, l'art. 30 della Legge n. 724/1994 prevede al comma 1, una serie di ipotesi nelle quali non si applica la normativa sulle società di comodo. Tali ipotesi d’esclusione interessano sia i soggetti che non hanno superato il test d’operatività, sia quelli considerati in modo automatico di comodo perché in perdita sistematica196, rilevando solo nel periodo d'imposta di applicazione della disciplina in esame197. Le situazioni escluse dalla disciplina rappresentano casistiche specifiche e fattispecie assai eterogenee, nelle quali il legislatore presume l’operatività tout court, date le peculiarità che caratterizzano tali contesti imprenditoriali198. L’elenco è stato oggetto di revisione per ben più volte; tuttavia con la Legge Finanziaria per il 2008 l’area dei soggetti a cui non si applica l'art. 30 citato si è ampliata ulteriormente e si è giunti ad identificare in modo definitivo le diverse ipotesi d’esclusione. Tali ipotesi operano in modo automatico e questo implica che al loro verificarsi i soggetti interessati si considerano fiscalmente operativi e non devono quindi presentare l’interpello disapplicativo, salvo tuttavia il potere dell'Amministrazione Finanziaria di verificare effettivamente la sussistenza delle singole cause d'esclusione. La prima ipotesi d’esclusione riguarda i soggetti obbligati a costituirsi sotto forma di società di capitali. Si fa riferimento in particolare alle società finanziarie, le quali devono risultare iscritte in un apposito elenco tenuto dall’Ufficio Italiano Cambi199; ai centri d'assistenza fiscale autorizzati a sostenere le imprese ed i lavoratori autonomi; alle società per azioni costituite da enti locali territoriali; alle società, a prevalente partecipazione pubblica, risultanti preventivamente. Tale imposta subì delle modifiche già nel 1993 e poi venne eliminata nel 1994, anno nel quale venne previsto che il contributo diretto lavorativo rappresentasse il parametro da utilizzare per un determinato tipo di accertamento induttivo. La minimum tax incideva sui contribuenti delle fasce più deboli che si vedevano costretti ad incrementare in modo artificioso il reddito dichiarato per superare i limiti previsti dalla normativa. Venne di fatto evidenziato che attraverso quest’imposizione non venivano comunque risolti i problemi relativi all’evasione fiscale, il saldo costo-benefici in termini di gettito era negativo oltre al fatto che evidente era il venir meno dei principi inderogabili di equità e della stessa capacità contributiva dal momento che il soggetto era tassato solo perché non aveva dichiarato un certo valore di reddito, ponendo a tassazione ricchezza creata in modo presunto e non direttamente ascrivibile al contribuente. BATISTONE F., La “minimum tax”, in Riv. dir. trib., 1993, 1, pag. 925; BRUZZONE M., Quale difesa contro le presunzioni della “minimum tax”?, in Corr. trib., 2001, 47, pag. 3571. 196 Per i soggetti in perdita sistematica l'art. 2, comma 36-decies stabilisce infatti che “(...) restano ferme le cause di non applicazione della disciplina in materia di società non operativa di cui al predetto articolo 30 della Legge n. 724 del 1994”. 197 Questo significa che se una società si trova per un triennio in perdita fiscale le ipotesi d'esclusione previste dall'art. 30 citato possono essere fatte valere solo per il quarto periodo d'imposta. 198 BEGHIN M., Diritto tributario. Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, cit., pag. 626. Le ipotesi d'esclusione riguardano infatti situazioni al verificarsi delle quali “(...) è da escludere un abnorme utilizzo della struttura societari”. 199 Tale ufficio dal 1° ottobre 2008 è stato soppresso ed ora la Banca d'Italia esercita le sue funzioni. 72 dalla trasformazione degli enti e delle società appartenenti al comparto delle cosiddette “partecipazioni pubbliche”200. Tale esclusione automatica opera solo per le società che svolgono in via esclusiva l’attività per la quale le disposizioni normative prevedono l'obbligo di costituirsi come società di capitali. Il riferimento alle “disposizioni normative” porta ad includere oltre alle leggi statali, anche quelle regionali; deve invece essere esclusa la casistica che preveda, per esempio, la forma giuridica delle società di capitali quale onere imposto da un bando201. La seconda causa d’esclusione si riferisce invece ai soggetti che si trovano nel primo periodo d'imposta, coincidente cioè con la costituzione della società e l’apertura della partita IVA a prescindere dall'inizio effettivo dell'esercizio produttivo. In tale fattispecie d'esclusione automatica non sono annoverate le società costituite a seguito di una scissione, o di una fusione propria o ancora di un conferimento d'azienda. In questi casi non si è in presenza dell’inizio di una nuova attività, ma si è di fronte alla prosecuzione di quello che precedentemente veniva svolto dalle società fuse, da quelle scisse o dal soggetto conferente. Allo stesso modo non si può disapplicare automaticamente la disciplina in esame, in quanto non può essere considerata nel primo periodo d'imposta, la società risultante da un’operazione di trasformazione avvenuta ai sensi dell'art. 2498 del Codice Civile, che subentra in tutte le posizioni giuridiche dell'ente che ha effettuato la trasformazione. Inoltre nemmeno l’affitto d'azienda può essere identificato come causa d'esclusione per la società concedente, anche qualora tale azienda sia l’unica posseduta202. Si deve sottolineare che la fattispecie d'esclusione appena descritta non viene applicata alle società in perdita sistematica; per quest’ultime l'arco temporale d'osservazione è pari a tre periodi d'imposta. Tuttavia per tenere conto delle difficoltà effettive che si possono riscontare all’inizio dell'attività imprenditoriale, tale situazione è stata inserita quale causa di disapplicazione automatica prevista dal protocollo n. 87956 del 2012203. Si prevede poi la non applicazione della normativa in esame 200 Come già specificato nella Circolare del ministero delle Finanze del 27 febbraio 1997, n. 48 cit., tale elenco è solo esemplificativo e non esaustivo di tutte quelle situazioni nelle quali il contribuente al fine di svolgere una determinata tipologia d’attività è obbligato a costituirsi sotto forma di società di capitali, non potendo quindi scegliere ed adottare la struttura societaria che ritiene maggiormente appropriata. 201 Tale situazione è stato oggetto della Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 43/E del 12 marzo 2007; una società chiedeva se poteva essere disapplicato in modo automatico l’art. 30 riguardante le società di comodo dal momento che aveva partecipato ad un bando ai fini della partecipazione ad una gara pubblica, che prevedeva quale requisito per accedervi l’obbligo di avere la veste giuridica di società di capitali. 202 Tale precisazione è stata fornita dall’Amministrazione Finanziaria nella Circolare n. 55/E del 20 giugno 2002, dove si precisava che “(...) l’applicazione [della normativa sulle società di comodo] non è influenzata dalle clausole contrattuali relative all'ammortamento dei beni aziendali liberamente pattuite dalle parti”. In linea generale l'affitto d'azienda non rientra quindi tra le ipotesi d’esclusione automatica; si deve tuttavia citare la Sentenza n. 17 del 3 febbraio 2011 della Comm. Trib. Reg. di Genova, la quale è giunta ad affermare la disapplicazione della disciplina sulle società di comodo nel caso d'affitto d'azienda motivandolo però in relazione alle obiettive situazioni in cui si trovava tale società. 203 Circolare Agenzia delle Entrate 11 giugno 2012, n. 23/E. 73 per le società in amministrazione controllata o straordinaria. Il Decreto Legislativo n. 5 del 9 gennaio 2006 che si occupava della riforma organica della disciplina delle procedura concorsuali, aveva soppresso tutti i riferimenti normativi riguardanti l'amministrazione controllata contenuti nella legge fallimentare prevista dal R.D. n. 267 del 16 marzo 1942; la Circolare 25/E del 2007 specificava infatti che l’esclusione per i soggetti in amministrazione controllata doveva quindi essere superata. Il Decreto Legge n. 83/2012 denominato “Decreto crescita” ha però incluso tra le misure per la gestione delle crisi aziendali, la reintroduzione dell'istituto dell’amministrazione controllata, con la conseguenza che l’esclusione vige anche per quest'ipotesi. Sono inoltre escluse come riportato nel comma 1 art. 30 della Legge n. 724 del 1994 “le società e gli enti i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati italiani ed esteri, nonché le stesse società ed enti quotati e le società da essi controllate, anche indirettamente”. Si fa quindi riferimento ai gruppi di società formate da società ed enti i cui titoli sono negoziati su mercati regolamentati, anche esteri; la società quotata, che può assumere la veste sia di controllante che di controllata, non è necessario sia residente nel territorio dello Stato. Inoltre “il controllo rilevante” a cui fa riferimento il testo normativo, include le diverse fattispecie previste dall'art. 2359 del Codice Civile; in particole il controllo di diritto esercitato nell’assemblea ordinaria, il controllo di fatto assembleare ed il controllo esercitato tramite particolari vincoli contrattuali. E’ poi necessario che la delibera di ammissione alla negoziazione da parte dell’autorità nazionale di vigilanza sul mercato della borsa sia stata approvata entro la chiusura del periodo d’imposta perché si possa applicare l'esclusione dal regime della non operatività. Se il controllo sul soggetto quotato o da parte del soggetto quotato si acquisisce nel corso del periodo d’imposta, si potrà beneficiare di tale ipotesi d’esclusione qualora la quotazione nei mercati regolamentati si sia verificata per la maggior parte del periodo d'imposta. Anche per le società esercenti pubblici servizi di trasporto non si applica l'art. 30 relativo alle società di comodo. In questo caso i vincoli tariffari incidono sui proventi di questi soggetti e si presume quindi l’impossibilità di conseguire ricavi sufficienti a superare il test d’operatività proprio a causa dei prezzi imposti. A parere dell'Amministrazione Finanziaria, che è intervenuta con la Risoluzione n. 43/E del 12 marzo 2007204, l’attività di trasporto pubblico deve essere esercitata direttamente e non attraverso quote partecipative in altre società che operano in tale settore. L’esclusione si applica poi anche alle società che si trovano ad avere per la maggior parte del periodo 204 Tale Risoluzione citata già in precedenza aveva fornito chiarimenti anche per l'esclusione dei soggetti obbligati a costituirsi sotto forma di società di capitali. 74 d’imposta un numero di soci non inferiore ai 50205, dimensione ritenuta sufficiente ad escludere la presunzione di non operatività per le società non quotate206. Queste descritte rappresentano le cause d'esclusione introdotte attraverso le varie modifiche intervenute fino al 2006207. Come detto in precedenza la Legge 24 dicembre 2007, n. 244 ha ridotto i soggetti interessati dalla disciplina sulle società di comodo, stabilendo le seguenti ulteriori ipotesi d’esclusione: società con un numero di dipendenti mai inferiore a dieci nei due esercizi precedenti; società in stato di fallimento, assoggettate a procedure di liquidazione coatta amministrativa ed in concordato preventivo; società che presentano un ammontare complessivo del valore della produzione superiore al totale attivo dello stato patrimoniale; società partecipate da enti pubblici almeno nella misura del 20 per cento, società che risultano congrue e coerenti ai fini degli studi di settore208. Prima di analizzare le singole ipotesi è opportuno sottolineare che nonostante il numero delle cause d’esclusione sia quindi aumentato, esse rappresentano comunque un numero tassativo e delimitato a situazioni nelle quali il legislatore sembra possedere una certa ragionevolezza sul fatto che la struttura societaria non possa essere “una scatola vuota”. Si fa infatti riferimento ad indici di vitalità economica, a peculiari status o assetti giuridici. Operando in questa direzione tuttavia viene evidenziato un ulteriore elemento di debolezza e fragilità alla base della disciplina sulle società di comodo: l’automatismo delle cause d’esclusione che poggiano su dati non verificabili da leggi economiche209. Partendo dalla fattispecie d’esclusione che prevede un numero di dipendenti non inferiore a dieci nei due esercizi precedenti, la presenza di personale dipendente rappresenta secondo il legislatore un buon indicatore dell’operatività della società stessa e contemporaneamente sembra essere espressione di una vitalità incompatibile con lo status di società di comodo. Il numero minimo 205 Tale numero pari a 50 è stato introdotto con la legge finanziaria per il 2008, mentre nella previgente versione era pari a 100. 206 Questa precisazione è stata fornita nella Circolare 9/E del febbraio 2008, dove è stato poi aggiunto che come nel caso dell'ipotesi di società che controllano o sono controllate da società ed enti i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati, si può beneficiare dell'esclusione anche se nel corso del periodo d'imposta si raggiunge una soglia non inferiore a 50, basta tuttavia che tale requisito persista poi per la maggior parte del periodo. 207 Da ultima la finanziaria per il 2007, Legge 27 dicembre 2006, n. 296. 208 DODERO A., Riduzione dell'area dei soggetti considerati non operativi, in Corr. trib., 2007, 41, pag. 3317. La previsione della Legge Finanziaria per il 2008 aveva previsto la riduzione della platea dei soggetti interessati dalla disciplina sulle società di comodo. La relazione accompagnatoria affermava infatti che l’obiettivo è quello “(...) di concentrare l’attenzione dell’Amministrazione Finanziaria sulle casistiche che maggiormente interessano i soggetti di comodo alleggerendo, al contempo, gli adempimenti dei contribuenti ed i carichi di lavoro degli uffici”. 209 POGGIOLI M., Le modifiche apportate dalla legge finanziaria 2008 al regime fiscale delle “società di comodo”: semplice maquillage o intervento di razionalizzazione del sistema?, in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 97 e ss.. Secondo l'autore il tentativo di razionalizzazione “(...) inocula un elemento di debolezza e di fragilità ulteriore in seno all'impianto sistematico che sorregge la disciplina della non operatività. [L’automatismo delle cause d'esclusione] poggia su dati di pura astrazione”. 75 di dipendenti, tra i quali rientrano i lavoratori subordinati con contratto a tempo determinato ed indeterminato e non invece coloro che percepiscono redditi assimilati a quelli da lavoro dipendente210, deve sussistere per tutti i giorni compresi nell’arco temporale oggetto d’osservazione; inoltre la specifica relativa ai due esercizi precedenti implica che tale valore debba sussistere anche per l’esercizio nel quale si effettua il test d’operatività. Per quanto concerne le società in fallimento e quelle assoggettate a procedure di liquidazione giudiziaria e coatta amministrativa, tale trattamento d’esclusione era già stato previsto a parere dell’Amministrazione Finanziaria nella Circolare n .25/E del 2007 per analogia rispetto alle società in amministrazione controllata o straordinaria. Si aggiunge come fattispecie nuova quella relativa alle società in concordato preventivo. In tutte queste situazioni la presenza dell’autorità giudiziaria, quale organo terzo che controlla lo svolgimento dell’attività, rappresenta una forma di garanzia e di conseguenza appare difficile ipotizzare l’effettuazione di manovre elusive tali da giustificare l’applicazione dell’art. 30 della Legge n. 724/1994. Sono poi escluse le società che presentano un’elevata produttività rispetto al valore dei propri asset patrimoniali; tale verifica deve essere effettuata non su base triennale ma in relazione al periodo d’imposta per il quale si procedere ad applicare la disciplina in esame. Nello specifico è necessario effettuare il confronto tra il totale del valore della produzione, identificato quale valore del raggruppamento A dello schema di conto economico redatto ai sensi dell’art. 2425 del Codice Civile ed il totale dell’attivo che risulta dallo stato patrimoniale. Per le società in contabilità semplificata è necessario comunque tenere in considerazione i valori richiesti dalla norma e deve essere redatto un apposito prospetto economico-patrimoniale sulla base delle risultanze contabili. L’individuazione dei movimenti finanziari non è un adempimento semplice nel caso della mancanza della contabilità ordinaria. Se quindi da tale confronto emerge un valore della produzione di importo maggiore dell’attivo patrimoniale, la società non è tenuta ad effettuare il test d’operatività. Il presupposto di non operatività si fonda sulla verifica del volume dei ricavi che una società è in grado di produrre rispetto al valore dei propri beni patrimoniali, di conseguenza la logica è quella di escludere a priori le società che evidenziano tassi di rendimento superiori al cento per cento. La non applicazione della normativa sulle società di comodo riguarda poi anche le società partecipate da enti pubblici in misura almeno pari al 20 per cento del capitale sociale211; questo requisito deve essere 210 E’ il caso per esempio degli amministratori e dei collaboratori a progetto. Come precisato nella Risoluzione dell'Amministrazione Finanziaria del 6 ottobre 2008, n. 373/E la partecipazione del soggetto pubblico deve essere diretta; laddove il legislatore avesse voluto fare riferimento anche ad una partecipazione indiretta l'avrebbe espressamente previsto come nel caso delle società con azioni quotate in mercati regolamentati. 211 76 verificato per la maggior parte del periodo d’imposta e la presenza del “controllo pubblico” è sufficiente ad escludere la natura di non operatività della società. L’ultima ipotesi d’esclusione prevista nel comma 1 dell’art. 30 della Legge n. 724/1994 riguarda i soggetti che risultano congrui e coerenti ai fini degli studi di settore. Le società si considerano congrue anche se per effetto dell’adeguamento in dichiarazione, dichiarano ricavi di importo non inferiore a quello puntuale di riferimento e comprensivo dei maggiori ricavi che si ottengono dall’applicazione degli specifici indicatori di normalità economica. Il requisito della coerenza si ritiene invece possa sussistere solo quando la società è correttamente posizionata nei confronti di tutti gli indicatori di coerenza economica applicabili212. Tali verifiche devono essere effettuate solo per l’esercizio di riferimento e non per il triennio nel quale si effettua il calcolo del test d’operatività. Si deve invece sottolineare che l’esclusione non riguarda le società alle quali si applicano i parametri, anche se dichiarano un livello di ricavi congrui. Le società che risultano quindi non congrue e non coerenti sono sottoposte alla sovrapposizione della disciplina sia degli studi di settore che delle società di comodo. In questa casistica potrebbe quindi accadere che in sede d’accertamento sia stabilito un livello di ricavi maggiore per raggiungere l’importo stimato in base agli studi, a cui deve essere aggiunto un ulteriore maggior reddito imponibile, per poter raggiungere quello minimo stabilito dall’art. 30 in esame. Per quanto concerne quest’ultima ipotesi d’esclusione nella quale si esplica la sovrapposizione giuridica tra la strumentazione giuridica degli studi di settore e quella delle società non operative, deve essere sottolineato che il legislatore prevedendo l’esclusione delle società che risultano congrue e coerenti agli studi di settore, ha di fatto assegnato una maggiore prevalenza a quest’ultimi213. Tale ipotesi d'esclusione non implica quindi un’eccezione legata alla reale attività svolta dall'impresa, ma al suo risultato fiscale ottenuto. Quindi o la società risulta congrua e coerente e raggiunge il livello dei ricavi e del reddito previsti dallo studio di settore d'appartenenza, sostituendo quindi in questo modo le percentuali forfettarie previste dall'art. 30 della Legge n. 724/1994, altrimenti è soggetta anche alla disciplina delle società di 212 Con riguardo all'applicazione di tale fattispecie la Comm. Trib. Reg. di Firenze nella sentenza n. 3 del 5 gennaio 2011 ha evidenziato che l’ipotesi di esclusione delle società che risultano congrue e coerenti agli studi di settore essendo entrata in vigore il 1° gennaio 2008 ed essendo una norma di natura procedimentale va applicata agli accertamenti notificati dalla suddetta data. 213 A tal riguardo si è espresso POGGIOLI M., Indicatori di forza economica e prelievo confiscatorio, cit., pag. 45 e ss.. Sia gli studi di settore che la disciplina prevista per le società di comodo rappresentano forme di predeterminazione normativa, attraverso le quali può essere sottoposta a tassazione materia imponibile sganciata dall'effettiva realtà economica del contribuente. Tuttavia il risultato che si ottiene attraverso gli studi di settore è per sua natura matematico-statistico e può trasformarsi in prova d'evasione solo dopo la fase di contraddittorio tra Fisco e contribuente. Tale fase non è più presente nella normativa delle società non operative, dopo le modifiche avvenute nell'estate del 2006 ed in questo modo si incide direttamente sul piano sostanziale. E’ proprio attraverso questa chiave di lettura che quindi deve essere analizzata l’esclusione dall’applicazione dell’art. 30 della Legge n. 724/1994 delle società che risultano congrue e coerenti agli studi di settore. 77 comodo. 2.3.2 Le cause di disapplicazione automatica introdotte nel 2008 e nel 2012 Oltre alle ipotesi d’esclusione sopra descritte, il legislatore con la Legge Finanziaria per il 2008 aveva previsto l’emanazione di un provvedimento da parte del direttore dell’Agenzia delle Entrate per identificare ulteriori situazioni di disapplicazione automatica della disciplina sulle società di comodo, al verificarsi delle quali non è necessario presentare l’istanza di disapplicazione. E’ stato infatti promulgato il protocollo n. 2008/23681, le cui cause di disapplicazione automatica devono essere verificate con riguardo al periodo d’imposta nel quale si intende disapplicare la normativa sulle società non operative. Tale provvedimento è stato integrato poi dal successivo protocollo n. 87956 emanato l’11 giugno 2012, dove sono state identificate altre situazioni oggettive in presenza delle quali non occorre presentare istanza di interpello, perché in modo automatico per i soggetti che si trovano in perdita sistematica non trova attuazione la disciplina prevista dell'art. 30 della Legge n. 724/1994. Le ipotesi di disapplicazione relative a quest’ultimo protocollo riguardano quindi gli anni compresi nel periodo d’osservazione ed hanno l’effetto di escluderli dal computo214. Con la precisazione che a partire dal 2014 il periodo d’osservazione per essere identificati come società in perdita sistematica si è allungato a cinque periodi d’imposta nei quali si sono registrate perdite fiscali consecutive, oppure a quattro periodi a cui si aggiunge un ulteriore periodo d’imposta nel quale la società ha dichiarato un reddito inferiore al minimo previsto ex lege. Di seguito vengono illustrate le cause di disapplicazione automatica previste dal protocollo del 2012; quest’ultime forniscono una panoramica più ampia ed includono quelle già previste dal provvedimento emanato nel 2008. Deve tuttavia essere ricordato che le suddette cause di disapplicazione automatica presenti nei due protocolli hanno una diversa disciplina a seconda della normativa che si intendere disapplicare. Gli effetti quindi relativi al periodo d’osservazione variano a seconda che si stia verificando la possibilità di non effettuare il test d’operatività o invece la presenza di perdite sistematiche215. La prima ipotesi 214 Come precisato nelle Circolari dell'Agenzia delle Entrate 11 giugno 2012, n. 23/E le situazioni che possono determinare la disapplicazione della disciplina sulle società di comodo si riferiscono ad uno dei tre periodi d'imposta, determinando l'effetto di interrompere il periodo d'osservazione di riferimento. Questo significa che in relazione al periodo d'osservazione 2010-2011-2012, la causa di disapplicazione automatica relativa al 2011 ha comportato l'inapplicabilità della disciplina per il 2013; di conseguenza il periodo d'osservazione rilevante inizia nel 2014. 215 FERRANTI G., L'ambito d'applicazione della disciplina sulle società in perdita sistematica, cit., pag. 2121; SANTANGELO A., Provv. Ag. Entrate 11 giugno 2012, prot. n. 2012/87956- La nuova disciplina sulle società di comodo, in Fisco (Il), 2012, 29, pag. 1-4572. Le cause di disapplicazione automatica previste dal protocollo del 2008 vanno riferite al periodo nel quale deve essere effettuato il test d’operatività, mentre quelle individuate nel provvedimento del 2012 operano con riguardo ai periodi compresi nel triennio in perdita. 78 di disapplicazione automatica riguarda le società in liquidazione che richiedono la cancellazione dal registro delle imprese, secondo quanto stabilito dagli articoli 2312 e 2495 del Codice Civile216 entro il termine di presentazione della dichiarazione successiva. Tale previsione opera con riferimento al periodo d’imposta nel corso del quale si assume l'impegno, al precedente e a quello successivo. Si vogliono quindi favorire le società che si trovano in un particolare status e che hanno assunto l’impegno di estinguersi entro uno specifico arco temporale che comproverebbe l’effettività della procedura liquidatoria posta in essere217. Le società in liquidazione che si impegnano a porre fine alla procedura entro l’arco di tempo limitato non devono quindi dimostrare che quella in corso è una liquidazione effettiva218. La seconda fattispecie riguarda le società sottoposte ad una delle procedure concorsuali previste dall’art. 101, comma 5, del TUIR che fa riferimento al fallimento, al concordato preventivo, alla liquidazione coatta amministrativa e all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese, o ad una procedura di liquidazione giudiziaria. Tale casistica peraltro è presente anche tra le cause d’esclusione previste dall’art. 30 comma 1 della Legge n. 724/1994. Configura poi come caso di disapplicazione automatica la società sottoposta a sequestro penale o a confisca o in altre situazioni analoghe nella quali sia stata disposta la nomina di un amministratore giudiziario da parte del tribunale. Il periodo di riferimento nel quale la disciplina sulle società di comodo non trova attuazione è quello nel corso del quale è emesso il provvedimento di nomina dell’amministratore ed i successivi fino a quando permane l’amministrazione giudiziaria. Come nella casistica precedente può essere in via immediata esclusa l’applicazione della normativa, data la situazione oggettiva in cui si trova la società interessata da un diretto controllo giudiziario. Queste prime tre cause di disapplicazione individuate nel provvedimento sono incentrate sui “soggetti”; si fa infatti riferimento a situazioni specifiche nella quali si possono trovare le società. Se da un lato si deve quindi apprezzare il tentativo di ampliare già a partire dal 2008 la categoria di soggetti esclusi dalla disciplina in esame, è comunque da evidenziare che soprattutto queste tipologie d'esclusione appena descritte di tipo soggettivo, non sono sempre ricorrenti nella pratica. In 216 Tali articoli si riferiscono alla richiesta di cancellazione dal registro delle imprese da parte dei liquidatori dopo l'approvazione del bilancio finale di liquidazione. 217 Come specificato nella Circolare n. 25/IR del 31 ottobre 2011 del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili cit., in assenza di questa casistica di disapplicazione automatica per potersi sottrarre al regime della non operatività non era sufficiente la delibera di liquidazione della società, ma era invece necessario dimostrare di essere in effettivo stato di liquidazione. 218 DODERO A., La disapplicazione automatica della disciplina sulle società non operative, cit., pag. 783. L’effettività della liquidazione è desunta dalla volontà di porre termine alla procedura di liquidazione e di cancellarsi dal registro delle imprese entro il termine di presentazione della dichiarazione successiva a quella in cui si assume l’impegno. 79 quest’ultimo periodo hanno cominciato ad interessare maggiormente le società a causa del perdurare della crisi economica che purtroppo porta anche al fallimento ed alla loro estinzione definitiva. Proseguendo sono poi interessate dalla disapplicazione automatica le società che possiedono partecipazioni, iscritte esclusivamente tra le immobilizzazioni finanziarie, in società considerate non in perdita sistematica, in società non soggette all’applicazione della disciplina in esame in conseguenza dell’accoglimento dell’istanza di disapplicazione ed anche in società collegate, che possiedono la residenza all’estero, a cui si applica il regime previsto dall’art.168 del TUIR. Relativamente a quest’ultimo caso non trova attuazione il regime delle società di comodo dato che il reddito imputato alla holding è già determinato in via presuntiva con criteri difformi da quelli ordinariamente utilizzati per la determinazione del reddito d'impresa; se entrambe le discipline venissero applicate si rischierebbe di rideterminare un reddito già presunto e reputato congruo ai sensi della disciplina speciale sulle società collegate. Inoltre è da precisare che la tipologia d’esclusione in esame può avere effetto solamente se la società svolge attività strettamente funzionali alla gestione delle partecipazioni219. La disapplicazione è poi automatica per le società che hanno ottenuto l’accoglimento dell’istanza d'interpello previsto dal comma 4-bis dell'art. 30 della Legge n. 724/1994. Tale accoglimento deve essere relativo ad un precedente periodo d’imposta e riguardare circostanze oggettive, che non hanno subito modifiche nei periodi d’imposta successivo. In questo caso si è di fronte ad una disapplicazione automatica parziale della disciplina, che opera limitatamente alle predette circostanze oggettive220. Queste ultime due ipotesi sono incentrate rispettivamente “sull’oggetto”, ossia i cespiti patrimoniali e sull’accoglimento dell’istanza di disapplicazione limitatamente a specifiche situazioni oggettive. Alle fattispecie d’esclusione automatica finora descritte presenti anche nel provvedimento del 2008221, se ne devono aggiungere altre introdotte con il protocollo n. 219 Attraverso tale ipotesi di disapplicazione si prevede quindi che la verifica dei requisiti per applicare o meno la disciplina delle società di comodo debba essere effettuata non in capo alla holding ma nei riguardi delle società dalla stessa partecipate, sempre se la società svolge attività strettamente funzionali alla gestione delle partecipazioni. E’ da sottolineare che tale ipotesi di disapplicazione è prevista in modo analogo anche nel Provvedimento del 2008, ma in quest’ultimo caso opera solo in modo parziale. 220 Sottolinea POGGIOLI M., Le modifiche apportate dalla legge finanziaria 2008 al regime fiscale delle “società di comodo”: semplice maquillage o intervento di razionalizzazione del sistema?, in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 97 e ss., come risulta complessa e di difficile applicazione la disciplina sulle società di comodo. In particolare questa tipologia d’esclusione evidenzia da un lato “(...) un condivisibile fattore correttivo al campo d'applicazione della disciplina, [ma questo avviene] attraverso una complicazione evidente, venendo richiesto alle società interessate alla disapplicazione parziale di procedere ad un ricalcolo non immune da difficoltà”. 221 E’ da evidenziare che tale protocollo riporta un’ipotesi di disapplicazione automatica, non ripresa poi in quello emanato nel 2012 relativa “alle società che dispongono di immobilizzazioni costituite da immobili concessi in locazione ad enti pubblici ovvero locati a canone vincolato (…) o ad altre leggi regionali o statali (...)”, che configura come un ulteriore casistica di esclusione automatica parziale e quindi con il problema applicativo per 80 2012/87956. In particolare la disapplicazione è automatica per le società che presentano un margine operativo lordo positivo, dato cioè dalla differenza tra il valore ed i costi di produzione, quest’ultimi al netto dei relativi ammortamenti, svalutazioni ed accantonamenti222. In questo modo si è cercato di risolvere le situazioni relative alle imprese, per esempio le società immobiliari, che producono redditi a formazione pluriennale per le quali, a seguito di più periodi in perdita fiscale, potrebbe poi far seguito un utile frutto dell’attività svolta negli anni precedenti. Inoltre la disapplicazione riguarda le società la cui somma algebrica, derivante dalla perdita fiscale del periodo e dagli importi che non concorrono a formare il reddito imponibile in quanto soggetti a disposizioni agevolative, risulta positiva. Questa previsione non vuole quindi penalizzare i soggetti che dichiarano un reddito inferiore al minimo, dovuto al fatto di aver usufruito di norme agevolative o di non aver assoggettato all’imposizione progressiva alcuni componenti, come nel caso di applicazione dell’imposta sostitutiva, o ancora per evitare la duplicazione impositiva dell'utile prodotto dalle società di capitali in capo alle stesse e nei riguardi dei soci. Il protocollo n. 2012/87956 prevede altre quattro casistiche di disapplicazione automatica della disciplina delle società di comodo che riguardano: le società i cui adempimenti tributari sono stati sospesi o differiti da disposizioni normative adottate in conseguenza della dichiarazione di emergenza e l’esclusione dall’applicazione della normativa opera nel periodo d’imposta in cui si è verificato l’evento calamitoso e in quello successivo; i soggetti che esercitano esclusivamente attività agricola223; le società che si trovano nel primo periodo d’imposta e quelle che risultano congrue e coerenti ai fini degli studi di settore. Queste ipotesi si applicano sia in presenza di perdite fiscali reiterate, che in caso di mancato superamento del test d’operatività. E’ stato quindi illustrato in questo capitolo il presupposto base della normativa sulle società di comodo: il possesso di determinati beni patrimoniali implica la produzione “oggettiva” di “frutti”, quindi di reddito ed il loro inserimento nella struttura societaria rafforza la presunzione di un loro impiego a scopi reddituali. La presenza poi di diverse e specifiche fattispecie di esclusione non sempre indicative di operatività, intesa come esercizio proprio dell’attività d’impresa in condizioni di normalità, denota l’intento di migliorare la disciplina le società in perdita sistemica illustrato. 222 Nella Risoluzione dell'Agenzia delle Entrate dell'11 dicembre 2012, n. 107/E è stato precisato che come devono essere esclusi dai costi il valore degli ammortamenti relativi ai beni propri, così anche i canoni di leasing non rilevano. Si afferma infatti che un trattamenti differente “(...) non sarebbe conciliabile con il principio di sostanziale equivalenza tra l'acquisizione e o la realizzazione di un bene proprio e quella effettuata tramite contratti di leasing (...)”. 223 Nel primo paragrafo del presente capitolo era già stata illustrata l’esclusione di queste società dall’ambito soggettivo dall'applicazione della disciplina sulle società di comodo. 81 nella quale la ratio del contrasto all’uso distorto della struttura societaria si confonde con la ragione fiscale di ostacolare l’evasione, che si realizza se i ricavi sono inferiori a quelli presunti in relazione ai beni posseduti dalla società. Si è quindi cercato di evidenziare da un lato la “macchinosità” del legislatore nel disciplinare le società di comodo ed allo stesso tempo di mettere in luce il tentativo di applicare dei temperamenti fisiologici ad una disciplina troppo rigida che non dovrebbe proprio essere attuata qualora non ricorrano le condizioni per considerare le società come non operative224. La normativa in esame ha assunto, sotto certi punti di vista, “la veste” di “comodo espediente per spremere gettito in assenza di un’idonea ricchezza per sostenerlo”225. 224 DAMIANI M., L'irrazionale assetto della disciplina sulle società di comodo, in Corr. trib., 2013, 39, pag. 3113; LUPI R., Una mistificazione mediatica, in PEVERINI L., VIGNOLI A., LUPI R. e STEVANATO D., Società non operative: una patrimoniale mascherata da criterio (contronatura) di determinazione dei redditi, cit., pag. 132., il quale evidenzia in modo critico come “la disciplina delle società di comodo va avanti da vent’anni assorbendo una quantità di lavoro consulenziale ed amministrativo del tutto sproporzionata rispetto ai vantaggi per le casse dell’Erario”, quasi a dire che si tratta di una forma di tassazione minimale a scopo di gettito e non di contrasto all’utilizzo abusivo della forma societaria. 225 STEVANATO D., Società di comodo, orrore senza fine: da imposta su presunti redditi di fonte patrimoniale a tributo extrafiscale sul patrimonio, in PEVERINI L., VIGNOLI A., LUPI R. e STEVANATO D., Società non operative: una patrimoniale mascherata da criterio (contronatura) di determinazione dei redditi, cit., pag. 132. 82 CAPITOLO 3 CONSEGUENZE FISCALI PER LE SOCIETA' RISULTANTI NON OPERATIVE ED ATTIVAZIONE DELL’INTERPELLO DISAPPLICATIVO SOMMARIO: 3.1 La predeterminazione di un reddito minimo ai fini delle imposte dirette: 3.1.1 Le percentuali applicabili per il calcolo del reddito minimo; 3.1.2 L’utilizzo delle perdite pregresse - 3.2 La possibile via d’uscita dal regime normativo delle società di comodo: l’interpello disapplicativo: 3.2.1 Dalla previsione del contraddittorio anticipato all’interpello disapplicativo; 3.2.2 La sussistenza di oggettive situazioni che non hanno permesso il conseguimento del livello minimo dei ricavi e del reddito; 3.2.3 Riflessioni sulle problematiche relative al procedimento disapplicativo previsto per le società di comodo Il non superamento del test d’operatività per le società o la reiterazione delle perdite fiscali per più periodi d’imposta consecutivi implica automaticamente l’applicazione della disciplina delle società di comodo. Ne deriva la determinazione di un reddito minimo ai fini delle imposte sul reddito e la limitazione al riporto delle perdite, a cui si aggiungono l’identificazione del valore della produzione netta in misura non inferiore ad una determinata soglia e penalizzazioni nel campo IVA relative al credito risultante dalla dichiarazione presentata. In questo contesto l’interpello disapplicativo rappresenta la possibile via d’uscita da tali conseguenze. E’ questo l'oggetto del presente capitolo, nel quale, accanto all’illustrazione delle conseguenze fiscali per le società di comodo, ci si occuperà delle problematiche legate al procedimento disapplicativo. 3.1 La predeterminazione di un reddito minimo ai fini delle imposte dirette Nel caso di mancato superamento del test d’operatività, che si verifica quando il livello dei ricavi, dei proventi e degli incrementi delle rimanenze effettivi risulta inferiore a quello medio presunto ottenuto applicando determinati coefficienti agli asset patrimoniali, la società è obbligata a dichiarare un reddito minimo “calato dall'alto”226 che ricalca il percorso di quantificazione dei ricavi figurativi. Lo si ottiene con un’operazione matematica attraverso la quale al valore di taluni cespiti patrimoniali sono applicate determinate percentuali stabilite ex lege. Il possesso e la mera detenzione di beni con determinate caratteristiche sono identificati dal legislatore come asset produttivi di nuova ricchezza, non considerando la specifica 226 L’espressione è mutuata da BEGHIN M., Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, in FALSITTA G., Manuale di Diritto Tributario. Parte speciale, cit., pag 713. 83 situazione soggettiva del contribuente227. Ci si basa quindi sul presupposto dell’esistenza di una correlazione di proporzionalità diretta tra beni patrimoniali e reddito imponibile, nella convinzione che all’aumentare delle dimensioni patrimoniali della società debba corrispondere necessariamente un incremento anche della redditività stessa228. Ne deriva una determinazione del reddito minimo che si realizza attraverso un meccanismo matematicoforfettario, abbandonando i criteri di determinazione analitica del reddito d’impresa previsti dall'art. 83 e seguenti del Testo Unico delle Imposte sui Redditi. Deve poi essere messo in luce che l’imponibile risultante dalla presunzione prevista dal legislatore di dichiarare un reddito minimo è in un certo qual modo in contraddizione con la situazione fattuale di partenza, dal momento che se una società non opera sembra scontato che non produca reddito, di conseguenza il reddito legalmente previsto appare fittizio229. Se infatti il presupposto base è il mancato svolgimento di un’attività economica appare difficile ritenere che possa esistere una redditività del capitale. La previsione del legislatore di determinare un reddito minimo sembra rappresentare, più che una seconda presunzione legata a catena alla prima, concernente il mancato superamento del test d’operatività, la regola per identificare la base imponibile di un’imposta patrimoniale, anche se formalmente questo tributo viene considerato come imposta sul reddito230. 3.1.1 Le percentuali applicabili per il calcolo del reddito minimo Procedendo ad analizzare la determinazione dell’imponibile, il comma 3 dell’art. 30 della Legge n. 724 del 1994 stabilisce che “fermo l’ordinario potere d'accertamento, ai fini dell'imposta personale sul reddito (…) si presume che il reddito del periodo d’imposta non sia inferiore all’ammontare della somma degli importi derivanti dall’applicazione ai valori dei beni posseduti nell'esercizio delle seguenti percentuali (...)”. Le percentuali previste dalla 227 BEGHIN M., Diritto Tributario. Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, cit., pag. 620. Dal mancato superamento del test d'operativa e dalla determinazione di un imponibile utilizzando questi criteri si giunge quindi ad “una surrettizia tassazione del patrimonio”. 228 Alcune riflessioni a riguardo sono state inserite nel capitolo precedente nel confronto tra i ricavi effettivi e quelli presunti. 229 NUSSI M., La disciplina impositiva delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi coerenti, cit., pag. 491. Secondo l'autore il meccanismo legislativo il quale prevede che i beni immobilizzati siano conferiti o acquistati dalla società per produrre ricavi e che la loro mancata realizzazione implichi l’operatività trascurabile della società può trovare una sua giustificazione. Difficile è invece riuscire a trovare “il perché” e dare una giustificazione alla seconda presunzione che quantifica il reddito per una società che è già stata definita non operativa. 230 E’ questa la tesi sostenuta da PEVERINI L., La natura patrimoniale dell'imposta sulle società di comodo, in PEVERINI L., VIGNOLI A., LUPI R. e STEVANATO D., Società non operative: una patrimoniale mascherata da criterio (contronatura) di determinazione dei redditi, cit., pag. 132. Secondo l’autore l'imposta che la società non operativa è tenuta a pagare, è parametrata ad una ricchezza che deve essere collocata nella categoria del patrimonio e non del reddito. Inoltre l’unica presunzione legale rintracciabile nell'art. 30 è quella di non operatività prevista nel comma 1. 84 normativa sono pari all' 1,50, al 4,75 e al 12 per cento e si applicano rispettivamente ai beni già identificati per la determinazione dei ricavi medi presunti cioè alle azioni e quote di partecipazione al capitale di soggetti IRES e società di persone; agli strumenti finanziari assimilati alle azioni, alle obbligazioni aumentati poi del valore dei crediti finanziari; alle immobilizzazioni costituite da beni immobili ed alle navi utilizzate per l’esercizio commerciale o per la pesca o per l’assistenza in mare o per la demolizione, fatta eccezione per le unità di diporto; ed infine alle altre immobilizzazioni anche in locazione finanziaria. Si deve precisare che il coefficiente pari al 4,75 per cento applicato agli immobili è ridotto al 4 per cento per quelli classificabili nella categoria catastale A/10, al 3 per cento per gli immobili a destinazione abitativa acquistati o rivalutati nell'esercizio stesso e nei due esercizi precedenti ed allo 0,9 per cento per gli immobili situati nei comuni con una popolazione inferiore ai mille abitanti231. La differenza rispetto al calcolo dei ricavi figurativi è rappresentata dal fatto che i valori a cui si applicano tali coefficienti devono essere considerati secondo l’importo quantificato nell’esercizio di riferimento e non come media del triennio; è poi necessario per i beni non posseduti per l’intero periodo d'imposta ragguagliare all’anno il valore dei predetti beni. Qualora determinati componenti non abbiano influito nella determinazione del reddito effettivo non devono essere considerati nemmeno computati in quello presunto dal legislatore232. L’impostazione utilizzata dal legislatore ricalca quindi quella stabilita nel comma 1 dell'art. 30 citato per il calcolo dei proventi figurativi, prevedendo dei coefficienti di valore inferiore applicabili ai valori dei cespiti patrimoniali, che non necessariamente riescono a definire il reddito effettivamente prodotto dal soggetto ritenuto di comodo. Possiamo quindi affermare che il reddito che si genera operando secondo quanto previsto dal comma 3 dell'art. 30 in esame è strettamente condizionato al patrimonio societario, che esprime una grandezza statica e non dinamica quale dovrebbe invece risultare essere il reddito, specchio dell’attività svolta dalla società. Inoltre si deve evidenziare che potrebbero esistere soggetti che non generano redditi elevati anche se possiedono una struttura societaria fortemente patrimonializzata, come pure potrebbe accadere il contrario che a fronte cioè di una scarsa patrimonializzazione il soggetto passivo sia in grado di generare una redditività elevata. Il nocciolo della questione è che il reddito risultante dall’applicazione della disciplina sulle 231 Non sembra opportuno riprendere nel dettaglio cosa includano le diverse tipologie di asset patrimoniali che incidono nella determinazione del reddito minimo, dato che tale analisi è già stata presentata nel capitolo precedente. Sembra più interessante cercare di fare alcune riflessioni di carattere sistematico sulla scelta effettuata dal legislatore di operare nella predeterminazione del reddito in modo forfettario. 232 E' il caso per esempio dei dividendi esenti in misura pari al 95 per cento nella formazione del reddito. Il reddito minimo presunto, ottenuto nel caso specifico applicando il coefficiente dell'1,5% al valore delle partecipazioni, dovrà essere poi ridotto in misura pari al 95 per cento dei dividendi percepiti. 85 società di comodo non è indice d’espressione dell'attitudine alla contribuzione del soggetto passivo, con il rischio di sottoporre quindi a tassazione ricchezza che nella realtà non esiste233. E’ proprio questo il pericolo insito nell’applicazione automatica di coefficienti di normalità economica che possono portare a definire il prelievo in modo eccessivamente lontano dalla realtà concreta234. Devono poi essere effettuate alcune riflessioni riguardanti da un lato l’ipotesi in cui il soggetto identificato come non operativo abbia prodotto un reddito ai fini delle imposte sul reddito superiore a quello minimo risultante dall’applicazione dei coefficienti agli specifici asset patrimoniali e dall’altro lato la precisazione presente nel comma 3 riportato “fermo l'ordinario potere d'accertamento”. Il soggetto passivo dichiarato non operativo può trovarsi nella condizione di aver generato reddito d'impresa per un ammontare superiore alla soglia minima prevista dalla normativa; deve quindi dichiarare tale superiore reddito imponibile rispetto a quello che otterrebbe applicando quanto previsto nel comma 3 dell’art. 30 della Legge n. 724 del 1994. Si deve sottolineare che in quest’ipotesi specifica appena descritta, le regole di determinazione del reddito ritornano quindi ad essere quelle proprie delle imposte sui redditi e quindi del reddito d’impresa. L’imposta sul patrimonio si esplica al ricorrere di due condizioni: la prima è che la società dichiari ricavi effettivi in misura inferiore a quelli minimi presunti, risultando perciò non operativa, e la seconda è invece legata al fatto di aver prodotto un reddito in misura inferiore a quello definito dal comma 3 dell'art. 30 citato235. Potrebbe poi accadere che il soggetto che non ha superato il test d’operatività abbia dichiarato un reddito imponibile superiore al minimo previsto dalla disciplina e si trovi nella situazione di non possedere perdite pregresse. In questo caso il contribuente può essere interessato a presentare l'istanza di disapplicazione per evitare almeno di essere considerato soggetto non 233 BEGHIN M., Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, in FALSITTA G., Manuale di Diritto Tributario. Parte speciale, cit., pag 721 e ss.. L’ulteriore precisazione che si deve fare è che “a patrimonio invariato il reddito potrebbe ragionevolmente aumentare o diminuire, a seconda che le fluttuazioni riguardanti i valori dei singoli beni incidano sul raggruppamento che vede l'applicazione dell'aliquota più elevata o di quella meno elevata”. 234 POGGIOLI M., Principio di capacità contributiva e “flessibilità” dei coefficienti presuntivi di reddito, in Corr. trib., 2007, 48, pag. 3947. L’autore, alla luce della Sentenza della Corte di Cassazione del 10 settembre 2007, n. 18983, effettua delle riflessioni relative agli avvisi d’accertamento basati sull’automaticità dei coefficienti presuntivi previsti per le società di comodo ed anche dei più raffinati, dal punto di vista statistico, studi di settore; evidenzia poi il rischio che questi modelli operativi siano “pericolosamente disattenti alla realtà fattuale sottostante”, venendo così meno il rispetto del principio di capacità contributiva stabilito dall'art. 53 della Costituzione. 235 PEVERINI L., Società di comodo e imposta patrimoniale: il contrasto tributario all'utilizzo distorto della forma societaria, cit., pag. 260. L’autore sostiene che “le ragioni del differente trattamento sopra descritto ed in particolare di tornare ad assoggettare ad imposizione il reddito quando è superiore a quello minimo, dovrebbero risiedere in una mera logica di soddisfacimento di esigenze di cassa”. In questo modo la base imponibile minima, prevista dal legislatore, garantisce che le società di comodo concorrano in ogni caso alle spese pubbliche assoggettando reddito o anche grandezze diverse dal reddito, come nel caso specifico del patrimonio. 86 operativo sul fronte dell'imposta regionale sulle attività produttive e dell'imposta sul valore aggiunto, come precisato dall'Amministrazione Finanziaria nella Circolare 5/E del 2 febbraio 2007236. Per quanto riguarda la specifica del legislatore “fermo l'ordinario potere d'accertamento”, gli uffici dell'Amministrazione Finanziaria sono legittimati a rettificare le dichiarazioni con la possibilità di determinare un imponibile più elevato di quello derivante dall’applicazione dei coefficienti stabiliti ex lege agli asset patrimoniali ed in ogni caso di quello dichiarato dalla società stessa237. Deve inoltre essere evidenziato che l’Amministrazione Finanziaria può anche accertare ad una società, che sulla base della dichiarazione risulta essere non operativa, ricavi in misura superiore a quelli stabiliti dal comma 1 dell'art. 30 in esame; in questo caso viene meno il presupposto per l’applicazione della disciplina sulle società di comodo. Si dovrà pertanto procedere a rettificare quanto già pagato dal contribuente, avendo determinato la propria imposta alla luce della previsione normativa dell'art. 30 della Legge n. 724 del 1994. Sembra poi interessante fare qualche accenno alle implicazioni della disciplina sulle società di 236 Nonostante in questo lavoro non vengano analizzate le conseguenze fiscali in materia di IRAP ed IVA delle società di comodo, sembra opportuno fare almeno qualche accenno riportando quanto stabilito dalla normativa. L'art. 30 della Legge n. 724/1994 prevede al comma 3-bis che per i soggetti non operativi il valore della produzione netta non possa essere inferiore al reddito minimo determinato ai fini delle imposte sul reddito, aumentato delle retribuzioni per il personale dipendente, dei compensi dei collaboratori coordinati e continuativi, dei compensi per le prestazioni di lavoro autonomo che non sono esercitate abitualmente e degli interessi passivi. Come precisato dalla Circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 21/E del 17 marzo 2008, l’applicazione di quanto previsto ai fini IRAP è determinata dal mancato superamento del test d’operatività, prescindendo dal fatto che il soggetto non operativo abbia dichiarato un reddito superiore o inferiore a quello minimo stabilito dal comma 3 dell'art. 30 citato. Dovrà in ogni caso dichiarare ai fini IRAP il maggiore tra il valore della produzione effettiva e quello minimo determinato in via presuntiva, indipendentemente dal reddito dichiarato ai fini delle imposte sul reddito. Il comma 4 stabilisce poi la non utilizzabilità del credito che deriva dalla dichiarazione presentata in relazione all’imposta sul valore aggiunto ed esso non può quindi essere oggetto di rimborso e nemmeno essere utilizzato in compensazione. Come esplicitato nella Sentenza della Corte di Cassazione n. 13079 del 17 giugno 2005 e ribadito poi nella Risoluzione dell'Agenzia delle Entrate n. 225/E del 10 agosto 2007, il divieto di utilizzare in compensazione con altri tributi l’eccedenza di credito si applica alle eccedenze risultanti dalle dichiarazioni a prescindere dall'anno di maturazione dei crediti che le compongono. Per le società in perdita sistematica, come chiarito dall'Amministrazione Finanziaria nella Circolare n. 1/E del 15 febbraio 2013, le limitazioni all'utilizzo del credito IVA trovano applicazione a decorrere dal quarto periodo d'imposta, successivo al verificarsi di perdite fiscali per tre esercizi consecutivi, nel quale opera la disciplina sulle società di comodo. Il comma 4 prosegue poi prevedendo che al contribuente è data la possibilità di portare avanti tale credito per la compensazione verticale IVA da IVA. Tuttavia se per tre periodi d'imposta consecutivi il soggetto passivo non operativo non effettua, in nessuno dei tre predetti esercizi, operazioni rilevanti ai fini dell'imposta sul valore aggiunto per un valore almeno pari a quello che si ottiene dal calcolo dei ricavi medi presunti, l’eccedenza del credito che ne deriva non può essere scomputata dall’IVA a debito dei periodi d'imposta successivi. Tale previsione si applica anche alle società che hanno conseguito perdite fiscali per più periodi d’imposta consecutivi, dal momento che quello che rileva non è la specifica qualifica di soggetto non operativo o in perdita sistematica, ma la mancata effettuazione di operazioni rilevanti ai fini IVA per un triennio consecutivo. FERRANTI G., L'ambito d'applicazione della disciplina sulle società in perdita sistematica, in Corr. trib., cit., pag. 2121; FERRANTI G., L'agenzia delle Entrate chiarisce le penalizzazioni ai fini IVA per le società di comodo, in Corr. trib., 2014, 8, pag. 587. 237 ZANETTI E., Obblighi e adempimenti delle società di comodo, in Fisco (Il), 2008, 14, pag. 2-2603. Nel caso in cui il reddito imponibile dell'ente non operativo risulti superiore a quello minimo presunto, la società è obbligata a dichiarare tale maggior imponibile effettivo e a tal fine nella norma è espressamente specificato “fermo l'ordinario potere d'accertamento”. 87 comodo nell’ipotesi in cui una società risultante non operativa abbia optato per il regime del consolidato nazionale. Tale regime fiscale prevede l’aggregazione, come somma algebrica, di tutti i redditi relativi alle società consolidate e la determinazione di un reddito complessivo che viene imputato alla società consolidante, soggetto che diventa liquidatore delle imposte dovute e che può usufruire delle predite pregresse derivanti dalla fiscal unit238. La questione da analizzare riguarda il coordinamento tra l’applicazione del reddito minimo che la società non operativa deve dichiarare e l’applicazione delle regole fiscali previste nel consolidato nazionale che prevedono il trasferimento del reddito e delle perdite al gruppo consolidato. L’obbligo di dichiarare un reddito minimo secondo quanto disposto dal comma 3 dell'art. 30 della Legge n. 724 del 1994 condiziona il reddito della specifica società consolidata, ma non può esplicarsi nel trasferimento dello stesso limite dalla posizione della singola società a quella dell’intero gruppo, altrimenti si rischia di minare l’intero meccanismo di compensazione intersoggettiva previsto per questo regime fiscale dal legislatore. Prevedere la determinazione di un reddito minimo in capo all’intero gruppo significherebbe riversare impropriamente gli effetti previsti dalla normativa sulle società di comodo all’intera platea di soggetti appartenenti alla fiscal unit. La disciplina sulle società di comodo, come è già stato evidenziato, basa la propria struttura sulla presunzione di redditività dei beni presenti nell’attivo dello stato patrimoniale; prevedere la trasposizione del reddito minimo sulla redditività dichiarata nel complesso anche da altri soggetti comporterebbe l’esplicarsi di un errore concettuale secondo il quale la redditività dei beni di una determinata società può interferire con la situazione dell’intero gruppo fiscale239. Si ritiene dunque che la società non operatività appartenente ad una fiscal unit debba rispettare quanto previsto dall’art. 30 della Legge n. 724/1994 e dichiarare quindi almeno un reddito minimo pari al valore previsto ex 238 Il regime del consolidato nazionale è normato dall’art. 117 all’art. 129 del TUIR, dove sono esplicitati i requisiti che devono possedere le società per potervi accedere e le implicazioni fiscali che derivano dall’appartenenza a tale regime. Ai fini della presente analisi non sembra opportuno entrare in questi dettagli, se non evidenziare che tale regime può interessare solo le società di capitali e gli enti commerciali residenti nel territorio dello Stato. Si decide di optare per il regime fiscale del consolidato nazionale, perché assoggettando a tassazione di gruppo i redditi e le perdite di tutte le società si danno luogo a compensazioni che altrimenti non potrebbero essere realizzate e le società che producono imponibili possono usufruire delle perdite prodotte invece da altre società del gruppo. Si vuole poi ricordare che, oltre al consolidato nazionale, esiste anche il consolidato mondiale che però interessa solo pochi gruppi internazionali. 239 MASTROBERTI A., Note minime sui rapporti tra disciplina sulle società di comodo e reddito del gruppo consolidato, in Rass. trib., 2011, 6, pag. 1551. Si sostiene che la società non operativa dovrà essa stessa dichiarare il reddito minimo come previsto dall’art. 30 della normativa sulle società di comodo, non interferendo quindi con tale disposizione sulla determinazione del reddito complessivo del gruppo. Operando in questo modo “il vantaggio dell’opzione per il regime del consolidato non erode la fiscalità minima, comunque prevista per le c.d. società di comodo”. A tal proposito l’Amministrazione Finanziaria ha specificato, prima con la Risoluzione n. 36/E dell’8 marzo 2007 e poi con la successiva Risoluzione n. 160/E del 9 luglio 2007 che la società consolidata non operativa non può in ogni caso rettificare il reddito minimo trasferito al gruppo consolidato, altrimenti questo determinerebbe una riduzione dell’imponibile da assoggettare a tassazione. 88 lege; tuttavia questi obblighi non devono riversarsi sull’intero gruppo dal momento che non può essere messo in discussione il legame del reddito imponibile prodotto dalla singola società con la corrispondente fonte di produzione di reddito. Il reddito globale di gruppo rimane comunque la sommatoria di distinte capacità economiche espresse da ciascuna società consolidata240. 3.1.2 L’utilizzo delle perdite pregresse Un altro aspetto da prendere in considerazione riguarda la disciplina delle perdite per le società considerate non operative. L’ultimo periodo del comma 3 prevede che “le perdite di esercizi precedenti [possano] essere scomputate soltanto in diminuzione della parte di reddito eccedente quello minimo (...)”. In questo modo si vuole quindi “sterilizzare” il processo d’utilizzo delle perdite, in modo che il soggetto non operativo debba in ogni caso assoggettare a tassazione il reddito minimo determinato in via presuntiva, assicurando così un determinato livello di imponibile e quindi d’imposta241. E’ stato inoltre sostenuto che la possibilità di utilizzare le perdite pregresse senza limitazioni vanificherebbe l’intero impianto normativo predisposto dal legislatore, che ha previsto la predeterminazione forfettaria del reddito quale strumento per contrastare l’utilizzo distorto della struttura societaria242. L’unica condizione per poter usufruire delle perdite pregresse è quindi rappresentata dalla circostanza che il reddito dichiarato sia maggiore a quello minimo previsto dal legislatore; in questo caso le eventuali perdite pregresse potranno essere utilizzate in compensazione per la parte eccedente il reddito forfettariamente presunto dalla norma in commento e la parte di perdite non utilizzata in compensazione potrà essere riportata a nuovo. Il problema non si pone per la perdita che potrebbe verificarsi nell’esercizio stesso dal momento che il soggetto risultante non operativo è comunque obbligato a dichiarare almeno un reddito pari a quello minimo 240 E’ da sottolineare che se questa sembra essere la tesi maggiormente condivisa in dottrina, come riportato anche in BRUNO I. e MIELE L., Reddito delle società non operative e utilizzo delle perdite nella tassazione di gruppo,in Corr. trib., 2011, 45, pag. 3751, la Comm. Trib. Prov. di Reggio Emilia con la Sentenza n. 87 del 19 maggio 2010 ha affermato che il reddito globale di gruppo non può in ogni caso essere inferiore a quello minimo imponibile ascrivibile alla società consolidata non operativa, definendo l’utilizzo del consolidato come strumentale alla riduzione dell'imponibile previsto dall’art. 30 della Legge n. 724/1994. 241 BEGHIN M., Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, in FALSITTA G., Manuale di Diritto Tributario. Parte speciale, cit., pag 729-730. Secondo l'autore “le ragioni della norma sembrano più ispirarsi non tanto all’idea di sistematizzazione della disciplina ma all’esigenza di mera stabilizzazione del gettito” 242 TOSI L., Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale. Contributo alla trattazione sistematica dell’imposizione su basi forfettarie, cit., pag. 361-362. L’autore ritiene che attraverso tale previsione si tiene conto dell’incompatibilità tra il riporto a nuovo delle perdite e la determinazione forfettaria del reddito presunto. Osservando la disciplina sulle società di comodo in un’ottica antielusiva tale incompatibilità sarebbe ancora più accentuata se gli effetti della predeterminazione finissero per essere annullati dal riporto delle perdite rappresentative agli occhi del legislatore della non operatività della società stessa. 89 stabilito dalla normativa243. Il reddito minimo definito dal comma 3 dell'art. 30 della Legge n. 724/1994 rappresenta un reddito “indisponibile” alla riduzione dell'imponibile attuata attraverso l’utilizzo delle perdite pregresse. Si tratta quindi di una norma speciale che deve essere coordinata con quanto stabilito dall’art. 84 del TUIR244, il quale prevede che “la perdita di un periodo d'imposta [possa] essere computata in diminuzione del reddito dei periodi d'imposta successivi in misura non superiore all'ottanta per cento del reddito imponibile di ciascuno di essi e per l’intero importo che trova capienza in tale ammontare (…)”. Nella determinazione del reddito le società non operative con perdite pregresse dovranno quindi preliminarmente rispettare le condizioni previste dall’art. 84 citato, non utilizzando perdite pregresse per un importo superiore all’ottanta per cento del reddito dichiarato e verificare poi che sia rispettato il limite all’utilizzo di tali perdite per la parte eccedente il reddito minimo, così come stabilito dall’ultimo periodo del comma 3 dell'art. 30 in commento245. E’ quindi necessario valutare che l’imponibile risultante dall’utilizzo delle predite pregresse, corrispondente al venti per cento del reddito dichiarato, sia assorbito dal valore di reddito minimo presunto. Se questo vincolo è rispettato viene sottoposto a tassazione il reddito minimo ed è possibile utilizzare integralmente le perdite ad abbattimento del reddito eccedente il minimo. In caso contrario, qualora il reddito da dichiarare ai sensi dell'art. 84 del TUIR, pari cioè al venti per cento del reddito dichiarato, risulti superiore al reddito minimo ex lege, si deve applicare la regola ad hoc che prevede l'utilizzo delle perdite pregresse solo per la parte eccedente il reddito minimo. Sarà sottoposto a tassazione non il reddito minimo presunto ma il 20 per cento di quello dichiarato; operando in questo modo sono rispettati i limiti fiscali posti sia dall'art. 84 del TUIR che dalla disciplina specifica per le società di comodo246. La società definita di comodo può utilizzare le predette perdite rispettando quanto 243 GAVELLI G. e SANTINI C., “Società di comodo verso la scomparsa: il D.L. n.223/2006 rende troppo gravoso il mantenimento in vita delle società non operative, cit., pag. 5742. 244 Tale norma si applica per i soggetti produttivi di reddito d'impresa e quindi per i soggetti passivi IRES e le società in nome collettivo ed in accomandita semplice. 245 MASTROBERTI A., Manovra correttiva (D.L. 6 luglio 2011, n.98, convertito) – Perdite d'impresa senza limiti temporali ma con franchigia, in Fisco (Il), 2011, 30, pag. 1-4812. 246 IZZO B. e MIELE L., Il nuovo regime delle perdite nel consolidato, nella trasparenza e nelle società di comodo, in Corr. trib., 2011, 34, pag. 2819. Gli autori evidenziano come la previsione di applicare l’art. 84 del TUIR sulla parte eccedente il reddito minimo e di tassare quindi il valore risultante da tale operazione oltre che il reddito minimo presunto non sembri essere una tesi abbastanza convincente. Sembra maggiormente convincente la tesi esposta nel testo, dato che il senso interpretativo della disposizione relativa all'utilizzo limitato delle perdite pregresse per le società di comodo è quello secondo cui prima deve trovare attuazione quanto disposto dall'art. 84 del TUIR in quanto norma generale e come secondo step tale normativa la si deve coordinare con la previsione specifica del legislatore per le società non operative. Questo significa, esemplificando in termini numerici, che se si è in presenza di perdite pregresse per 500, il reddito minimo presunto è pari a 100 e quello dichiarato è 400, l’imponibile soggetto a tassazione sarà 100 dato che il limite del 20% del reddito dichiarato cioè 80 (20%*400) risulta assorbito dal valore di 100. In questo modo si utilizzano integralmente le perdite ad abbattimento del reddito eccedente il minimo pari cioè a 300. Se invece si è in presenza di perdite pregresse pari 90 stabilito dall'art. 84 del TUIR e senza particolari limiti di tempo ogni volta che dichiara un reddito superiore a quello minimo presunto dal legislatore, potendo trasferire agli anni successivi l'ammontare di perdite che non è stato oggetto di compensazione247. Si deve inoltre sottolineare che il legislatore nel prevedere tale limitazione per le società di comodo aveva considerato il caso di società non operativa e fiscalmente “non trasparente” 248. Nell’ipotesi in cui invece la società che non ha superato il test risulti trasparente, la limitazione all’utilizzo in compensazione delle perdite sarà applicata con riferimento a tutte le perdite pregresse di periodo percepite dal socio; questo significa che vige il divieto di compensazione tra i redditi imputati per trasparenza dal socio e le perdite di periodo maturate dallo stesso249. Per quanto concerne poi il problema accennato alla fine del paragrafo precedente, relativo al coordinamento tra la disciplina delle società di comodo e quella del consolidato nazionale, esso emerge nuovamente in relazione all’utilizzo delle perdite pregresse. Alla luce delle considerazioni già esposte, presupponendo che il limite all’utilizzo delle perdite di esercizi passati previsto dall'art. 30 in esame non possa essere trasferito all’intero gruppo consolidato, si ritiene che le perdite fino a concorrenza del reddito minimo presunto non dovrebbero essere utilizzate nella dichiarazione del gruppo, mentre la restante parte eccedente potrebbe però essere utilizzata anche a scomputo del reddito globale. Sostenere invece che né le perdite pregresse né quelle imputate dalla società non operativa alla fiscal unit possano ridurre il reddito complessivo globale del gruppo al di sotto di quello minimo presunto della società di comodo che partecipa alla tassazione consolidata, significherebbe non considerare proprio la posizione della società da cui ha tratto origine lo stesso limite stabilito dal comma 3 dell'art. 30 sulle società non operative250. Per poter quindi risolvere i profili di criticità che emergono a 500, di un reddito dichiarato di 500 e quello minimo è pari a 50, la società dovrà in ogni caso dichiarare un reddito pari a 100 (20%*500) dato che tale ammontare non risulta assorbito dal reddito minimo. Così operando non si supera il limite imposto dall'art. 84 del TUIR e si rispetta quello previsto dall'art. 30 in esame. 247 Deve essere evidenziato che l'art. 84 del TUIR attualmente in vigore è stato modificato nel 2011. Precedentemente non era previsto un limite quantitativo al riporto delle perdite ma temporale pari a cinque periodi d'imposta. Il mutamento del quadro normativo è stato sotto quest’aspetto favorevole per le società di comodo, che spesso prima si trovavano nella condizione di non poter scomputare in diminuzione del reddito eccedente quello minimo le perdite poiché il limite temporale era già stato superato. 248 Si è in presenza di tassazione per trasparenza nel caso delle società di persone; tali società hanno solo obblighi formali e non sostanziali, dal momento che il reddito da loro prodotto viene imputato appunto per trasparenza ai soci in proporzione alla partecipazione agli utili. Inoltre il legislatore ha disciplinato con l'art. 115-116 del TUIR specifiche fattispecie nelle quali le società di capitali che presentano determinate caratteristiche possono decidere di optare per tale regime di tassazione. 249 Tale precisazione è stata fornita dall'Agenzia delle Entrate con la Circolare n. 25/E del 4 maggio 2007 cit.. 250 MASTROBERTI A., Note minime sui rapporti tra disciplina sulle società di comodo e reddito del gruppo consolidato,cit., pag. 1551. Come evidenziato anche precedentemente si ritiene che la posizione soggettiva della società non operativa non possa interferire con quella del gruppo. La normativa predisposta dal legislatore per le società di comodo ha come obiettivo quello di penalizzare con forme e modi, che come si sta cercando di evidenziare possono essere oggetto di critica, il singolo soggetto non operativo e non di certo, anche se indirettamente, l’intera posizione fiscale del gruppo. BEGHIN M. e SCANDIUZZI D., Rettifiche di 91 dalla compresenza delle due discipline appare opportuno separare gli obblighi della società non operativa consolidata rispetto a quelli previsti dalla disciplina del consolidato. Ritornando alla tematica relativa al limite posto dal comma 3 dell'art. 30 della Legge n. 724/1994 all’utilizzo delle perdite pregresse, è da evidenziare che esso scaturisce dall’essere considerati soggetti non operativi e non dal mancato superamento del livello minimo di reddito; i contribuenti possono avere interesse a chiedere la disapplicazione della disciplina sulle società di comodo perché è solo attraverso questa via che viene meno anche il limite all'utilizzo delle perdite degli anni precedenti e torna così a trovare attuazione solo la previsione generale stabilita dall'art. 84 del TUIR, riguardante il riporto delle perdite. Illustrate quindi le problematiche applicative dell'utilizzo delle perdite pregresse per i soggetti non operativi, sembra opportuno aggiungere qualche altra considerazione. E’ stato sottolineato che qualora si ritenesse che il reddito minimo definito dal comma 3 dell'art. 30 in esame rappresentasse “realmente reddito”, la limitazione prevista dal legislatore non avrebbe ragione d’esistere; non sarebbe giustificato infatti da un lato prevedere l’utilizzo delle perdite e dall’altro lato non consentire di compensare con tali perdite il reddito individuato dallo stesso comma 3. La previsione posta dalla normativa sembra poter trovare una propria ragione se si considera che il reddito dichiarato in misura superiore alla soglia minima prevista ex lege si esplica in un’imposta sul reddito, altrimenti oggetto della tassazione rimane il patrimonio. In quest’ottica le perdite prodotte negli esercizi precedenti possono abbattere il reddito ma non anche la base imponibile espressa dal patrimonio della società. “Se la capacità contributiva è espressa dal patrimonio essa non può essere misurata valorizzando le perdite che sono un elemento di natura reddituale”251. 3.2 La possibile via d’uscita dal regime normativo delle società di comodo: l’interpello disapplicativo Nell'impianto normativo relativo alle società di comodo il legislatore ha previsto, nella versione dell’art.30 della legge n.724/1994 attualmente in vigore, l’interpello disapplicativo come “strumento d’uscita” da tale disciplina. Si prevede infatti al comma 4-bis dell'art.30 consolidamento e riporto di perdite nella fiscal unit, in Corr. trib., 18, 2007, pag. 1485. In un’analisi riguardante la gestione delle rettifiche di consolidamento all'interno della fiscal unit si evidenzia come la disciplina delle società di comodo “(...) [esaurisca] i propri effetti in relazione alla singola società che rimane assoggettata a tale disciplina”. 251 PEVERINI L., Società di comodo e imposta patrimoniale: il contrasto tributario all'utilizzo distorto della forma societaria, cit., pag. 260. E’ questo quanto sostiene l'autore secondo il quale la perdita opera oltre il limite del reddito minimo e quando abbatte tale soglia fa scattare l'obbligo di corrispondere l'imposta sul reddito anziché sul patrimonio. 92 della legge n.724/1994 che “in presenza di situazioni oggettive che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinato ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare operazioni rilevanti ai fini delle imposte sul valore aggiunto (…), la società interessata può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai sensi dell'articolo 37bis, comma 8, del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n.600”. 3.2.1 Dalla previsione del contraddittorio anticipato all’interpello disapplicativo Prima di addentrarsi nella tematica dell'interpello disapplicativo prevista dal legislatore per le società di comodo che sin dalla sua introduzione è stato oggetto di discussione preme ricordare, come già evidenziato nel primo capitolo del presente lavoro, che fino al 2006 l’art. 30 della Legge n. 724/1994 prevedeva un fase di contraddittorio anticipato. A pena di nullità non poteva essere emesso l’avviso d’accertamento per il mancato superamento del test d’operatività, senza prima aver chiesto chiarimenti in merito al contribuente, che aveva possibilità di rispondere per iscritto entro un termine massimo di sessanta giorni. In questo modo era data la possibilità al contribuente di evidenziare le situazioni che non avevano reso impossibile il conseguimento di ricavi, proventi ed incrementi di rimanenze così come stabiliti dal comma 1 dell'art.30 in esame. Il Decreto Legge n.223 di luglio 2006 ha disposto l’eliminazione della fase del contraddittorio anticipato ed ha introdotto la possibilità di formulare istanza di interpello per dimostrare le oggettive situazioni che hanno reso impossibile raggiungere il livello minimo di proventi e ricavi stabiliti, o del reddito minimo presunto ex lege o del mancato conseguimento di operazioni rilevanti ai fini IVA come stabilito dal comma 4 dell’art. 30 in esame. L’introduzione dell’interpello disapplicativo ha quindi previsto che la prova contraria possa essere fornita preventivamente a prescindere quindi da un eventuale accertamento da parte dell'Amministrazione Finanziaria. A distanza di pochi mesi con la Legge n. 296 del 2006, Legge Finanziaria per il 2007, è stato soppresso anche l’inciso “salvo prova contraria” fino ad allora presente al comma 1 dell'art. 30 in esame; questo per escludere, secondo quanto stabilito dell’Amministrazione Finanziaria nella Circolare n. 5/E del 2 febbraio 2007, che detta prova fosse fornita in sede d’accertamento o di contenzioso252. L’eliminazione del contraddittorio anticipato ha ridotto la possibilità di difesa del contribuente; non è più necessario effettuare alcuna analisi preliminare sulla situazione 252 DOLCE R., Finanziaria 2008: le novità in materia di società di comodo, cit., pag. 1-395. Nel paragrafo successivo si cercherà di evidenziare in merito la linea seguita dall'Amministrazione Finanziaria e l’opinione presente invece in dottrina. 93 che ha portato al mancato superamento del test d’operatività per poter procedere ad inviare un avviso d’accertamento. Sembra che questa scelta sia funzionale all’utilizzo della disciplina in esame come mezzo di politica finanziaria per poter reperibile risorse in modo immediato e spendibili direttamente dallo Stato. Sempre con la Legge Finanziaria 2007 si è proceduto ad eliminare l’aggettivo “straordinario”, presente inizialmente al comma 4-bis, riferito alle situazioni oggettive che permettono la possibilità di richiedere la disapplicazione della disciplina. Tale scelta sembra essere giustificata dal fatto che il legislatore è consapevole della necessità di attribuire una natura relativa alla presunzione legale di non operatività. Limitare la prova contraria solo in presenza di “situazioni oggettive di carattere straordinario”, porterebbe all’identificazione di una presunzione di tipo assoluto e non più relativa. Tuttavia sarebbe un errore pensare che data l’eliminazione del contraddittorio anticipato e della specifica del comma 1 “salvo prova contraria”, il soggetto passivo non possa più fornire tale prova; la può fornire attivandosi però volontariamente e presentando istanza di disapplicazione della disciplina in esame253. L’interpello disapplicativo rappresenta una dichiarazione “confessoria”, attraverso la quale la società “confessa” di aver prodotto dei ricavi in misura inferiore alla soglia minima stabilita dalla legge, identificando delle situazioni che non hanno permesso tale raggiungimento; ci si espone quindi ad un possibile accertamento in caso di risposta negativa all'interpello, che diviene quindi un mezzo per identificare un possibile evasore inducendolo a rivelare una data situazione imponibile254. Il nocciolo della questione, che deve essere esaminato, è se la presentazione dell’istanza di disapplicazione, quale rimedio per poter uscire dal canale delle società di comodo, rappresenti una conditio sine qua non, per poter ottenere l’esclusione dal novero dei soggetti non operativi da parte sia dell'Amministrazione Finanziaria che in un’ipotetica fase successiva davanti al giudice255. Tuttavia prima di passare ad esaminare quest’aspetto è necessario chiarire in quali ipotesi si possa presentare l’istanza di disapplicazione. 253 PEVERINI L., Società di comodo e imposta patrimoniale: il contrasto tributario all'utilizzo distorto della forma societaria, cit., pag. 260. 254 DE LORENZI A., Aspetti sanzionatori amministrativi e penali, in AA.VV, Le società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag.41 e ss.. Secondo l’autore l’interpello disapplicativo al quale “l’amministrazione assegna un valore così pregnante [deve essere inserito] nell’assetto complessivo che stanno assumendo i rapporti tra fisco e contribuente. Appare uno strumento che consente di regolare i rapporti [tra queste due parti] in via preventiva, prima di ricorrere alle procedure d'accertamento ed eventualmente contenziose”. 255 TOSI L., Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale. Contributo alla trattazione sistematica dell’imposizione su basi forfettarie, cit., pag. 364 e ss.; PEVERINI L., Società di comodo e imposta patrimoniale: il contrasto tributario all'utilizzo distorto della forma societaria, cit., pag. 260. 94 3.2.2 La sussistenza di oggettive situazioni che non hanno permesso il conseguimento del livello minimo dei ricavi e del reddito Secondo quanto disposto dal comma 4-bis dell'art. 30 della Legge n. 724/1994 l’istanza di disapplicazione può essere presenta in relazione al fatto di non aver superato il test d'operatività o di non aver raggiunto il livello minimo di reddito previsto nel comma 3 dal legislatore, come pure nel caso non siano state effettuate operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto per un valore almeno pari a quello risultante dai ricavi presunti per tre periodi d'imposta consecutivi. Il comma 4-bis citato precisa che la presentazione dell'istanza di disapplicazione debba avvenire ai sensi dell'art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 il quale al comma 8 dispone che “le norme tributarie che allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o atre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie gli effetti elusivi non potevano verificarsi. A tal fine il contribuente deve presentare istanza al direttore regionale delle entrate competente per il territorio, descrivendo compiutamente l'operazione e indicando le disposizioni normative di cui si chiede la disapplicazione”256. Questo comma, inserito nell’art. 37-bis che rappresenta la clausola generale antielusiva, prevede quindi che a fronte dell’estensione applicativa che le generalizzazioni normative possono portare, si possa disapplicare la disposizione quando non si è in presenza di comportamenti elusivi. Attraverso quindi l’interpello disapplicativo proposto dal contribuente, l’Amministrazione Finanziaria accerta se si possa escludere che nel caso specifico l’operazione porti ad un vantaggio elusivo, analizzando quindi se nel caso concreto la norma coincide o meno con la ragione più profonda di contrastare comportamenti elusivi257. Per quanto concerne le società di comodo l'Amministrazione Finanziaria è intervenuta prima con la Circolare n. 14/E del 15 marzo 2007 e poi con la successiva n. 9/E del 14 febbraio 2008, nelle quali sono state fornite precisazioni in merito alla presentazione dell’istanza di disapplicazione prevista per le società di comodo. In particolare il contribuente deve indicare le oggettive situazioni che hanno di fatto impedito il superamento del test d'operatività e l'ottenimento di un reddito almeno pari a quello minimo, evidenziando poi tutti gli elementi necessari per una corretta individuazione e 256 La presentazione dell’istanza disapplicativa di cui all'art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 è regolata dal Decreto Ministeriale n. 259/1998. 257 STEVANATO D., “Disapplicazione” delle norme con finalità antielusiva ed attività interpretativa, in Dialoghi dir. trib., 2004, 12, pag. 1284. L’autore sottolinea come “a monte del provvedimento di disapplicazione previsto dall’ultimo comma dell’art. 37-bis vi è infatti un’attività intellettiva tesa ad accertare la corrispondenza tra una singola regola, che in funzione antielusiva, limita l’accesso a determinate “posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario”, e la giustificazione di fondo di questa regola”. 95 qualificazione della propria situazione. In particolare deve esserci un’esposizione chiara, documentata ed esaustiva degli elementi conoscitivi utili ad individuare le situazioni oggettive portate all’attenzione dell’ufficio che giustifichino la disapplicazione della normativa in questione, a pena di inammissibilità dell’istanza stessa. E’ potestà in ogni caso dell’Amministrazione Finanziaria di verificare la veridicità e la completezza dei dati e degli elementi evidenziati nelle istanze, anche attraverso l’effettuazione di controlli; possono inoltre essere richieste integrazioni ai contenuti presentati. L’istanza di disapplicazione deve essere presentata entro 90 giorni dal termine di presentazione della dichiarazione stessa all’ufficio competente, in base al domicilio dell’istante che poi la trasmette al Direttore regionale delle Entrate. Quest’ultimo è tenuto a rispondere sempre entro 90 giorni; tale termine non è perentorio, tuttavia deve essere rispettato considerato l’interesse della società a conoscere la risposta in tempo utile258. La Legge Finanziaria per il 2008 ha disposto con il comma 4-quater dell’art. 30 della Legge n. 724/1994 che la comunicazione da parte del Direttore regionale delle Entrate possa avvenire attraverso il servizio postale o tramite fax o posta elettronica. L’interpello disapplicativo rappresenta quindi uno strumento di supporto al contribuente che intenda prevenire contenziosi futuri e contemporaneamente rappresenta per l’Amministrazione Finanziaria un vincolo dal momento che una volta stabilita la disapplicazione della disciplina per quella specifica fattispecie non potrà contraddirsi in relazione a quanto esaminato259. Dopo questa parentesi riguardante alcune considerazioni tecniche per la presentazione dell’interpello disapplicativo, si deve sottolineare che tale strumento è finalizzato ad ottenere la disapplicazione della disciplina delle società di comodo per un determinato periodo d’imposta cui debbono riferirsi le oggettive situazioni adottate dalla società richiedente; nulla vieta tuttavia che in sede d’interpello si esaminino situazioni che condizionano la redditività anche per più periodi d'imposta e che quindi ne venga disposta la non applicazione della disciplina per più esercizi. Come stabilito dalla normativa il requisito necessario per 258 Di regola l’interpello è quindi preventivo in modo da poter orientare la società riguardo alla condotta da seguire in sede di dichiarazione. Tuttavia non può essere esclusa la richiesta di disapplicazione della normativa in esame anche successivamente, per chiedere per esempio il rimborso di quanto versato secondo l’art. 30 della legge n. 724/1994. Non può invece essere presentata l'istanza disapplicativa dopo che è stata avviata un’attività d'indagine fiscale o un contenzioso tributario dal momento che l’interpello non può essere utilizzato come strumento di “pressione” verso l’Amministrazione Finanziaria o il giudice tributario. PISTOLESI F., L’interpello per la disapplicazione del regime sulle società di comodo, cit, pag. 2987. Sottolinea inoltre LUPI R., Miti e paradossi sulla preventività degli interpelli, in Dialoghi dir. trib., 2004, 12, pag. 1288, con riferimento in generale alla non obbligatoria preventività dell’interpello disapplicativo, che quest’ultimo può essere presentato anche quando “il contribuente ha già cominciato ad applicare la norma fiscale controversa, ma non ha ancora finito, perché è in corso un processo di ammortamento”. 259 CORE E., La natura e l'impugnabilità dell'interpello disapplicativo, in Dir. pra. trib., 2014, 2, pag. 2-307. 96 richiedere la disapplicazione della disciplina sulle società di comodo è la presenza di “oggettive situazioni” che possono essere sia ordinarie che straordinarie. Tuttavia il riferimento è soltanto a quelle fattispecie nelle quali le scelte del contribuente non incidono, come per esempio nel caso di una società che opera in un determinato settore colpito da crisi. Deve cioè essere dimostrato che si è in presenza di una situazione effettivamente diversa da quella che il legislatore ha voluto contrastare, concernente il mancato raggiungimento di risultati reddituali congrui, da un lato alla finalità lucrativa che la società dovrebbe perseguire e dall’altro lato ai mezzi patrimoniali di cui è dotata260. Con riferimento all’impossibilità oggettiva specificata nel comma 4-bis dal legislatore, nel caso di una società che non si trova nel normale esercizio della propria attività produttiva261, si potrebbe dimostrare che per esempio, la costruzione dell’impianto da utilizzare per lo svolgimento dell’attività produttiva si è prolungato per cause non dipendenti dalla volontà dell’imprenditore, oppure che non sono state ancora concesse le autorizzazioni amministrative anche se richieste tempestivamente. Nello specifico la Circolare n. 44/E del 9 luglio 2007 ha illustrato varie casistiche, identificando le oggettive situazioni al ricorrere delle quali non trova attuazione l’art. 30 della legge n. 724/1994. Vengono riportati come esempi: le società proprietarie di immobili affittati da lungo tempo a soggetti pubblici, i cui canoni vengono determinati con parere di congruità dall’Agenzia del Territorio; le società esercenti attività di compravendita di terreni edificabili tra i quali alcuni di essi risultano sottoposti a vincolo edificatorio, risultanti così poco appetibili al mercato; le società proprietarie di un immobile interessato da un contratto di locazione in corso alla data di acquisto, il cui canone è inferiore a quello di mercato e che tuttavia non può essere adeguato prima della scadenza262. Per quanto concerne poi le società holding e quelle immobiliari appare opportuno fare qualche riflessione dato che tali tipologie di società per ragioni differenti potrebbero non riuscire a superare il test d’operatività, anche se costituite non come schermi societari ma per svolgere effettivamente attività d’impresa. Le holding diventano società di comodo quando dal possesso dei beni e delle partecipazioni di cui all’art. 85 del TUIR, comma 1, lett.c), d), e)263 e di quelle nelle società di persone, non 260 PISTOLESI F., L’interpello per la disapplicazione del regime sulle società di comodo, cit, pag. 2987. Deve essere cioè “fornita la prova che, nel caso concreto, l’effetto antielusivo che questa norma ha inteso perseguire non può verificarsi poiché sussistono le rilevate oggettive situazioni”. Secondo l’autore tale prova è comunque meno impegnativa rispetto a quella che doveva essere fornita in precedenza con il contraddittorio anticipato, dal momento che è stata tolta la prerogativa della straordinarietà delle situazioni oggettive. 261 Tale fattispecie è stata considerata fino alle modifiche intervenute con il Decreto Legge del luglio 2006, n. 223 quale ipotesi d'esclusione automatica. 262 PROVAGGI G. e MACARIO E., Le modifiche alla disciplina sulle società di comodo, cit., pag. 603. 263 Nell’analisi dei coefficienti da applicare ai diversi asset patrimoniali è stato specificato il contenuto dell'art. 85 con riferimento esplicito a queste tre lettere presente nel comma 1 dell'articolo 30 in esame. 97 vengono generati ricavi tali da superare il test d’operatività. Per le società finanziarie che svolgono attività consistenti nella detenzione e gestione di partecipazioni sociali l’indagine dell’operatività si trasferisce essenzialmente nelle società partecipate264. Le holding sono dei soggetti particolarmente penalizzati dalle presunzioni stabilite dall’art. 30 della Legge n. 724/1994 dato che la loro esistenza è essenzialmente diretta a soddisfare le esigenze di governance dei gruppi di società, non manifestando una proprio autonoma “operatività imprenditoriale”. In questa fattispecie l’istanza disapplicativa promossa dalla holding potrebbe avere esito positivo quando è possibile dimostrare che le società partecipate si trovano nella fase d’avvio della propria attività, o che operano in settori colpiti da crisi, o che la loro mancata distribuzione di dividendi è dovuta alla copertura, con le riserve di utili esistenti, delle perdite conseguite o ancora che le società partecipate si trovano ad avere riserve di utili insufficienti, in caso di distribuzione integrale, a permettere alla holding di raggiungere la soglia minima dei ricavi presunti. Può essere poi accolta l’istanza di disapplicazione nel caso in cui si dimostri che la società partecipata, pur disponendo di utili e riserve sufficienti in ipotesi di integrale distribuzione al superamento del test d’operatività della holding, abbia deciso di non procedere alla distribuzione per attuare un piano di autofinanziamento per il concreto rafforzamento dell’attività produttiva. E’ necessario tuttavia in questo caso dimostrare che l’utile sia stato effettivamente investito265. Inoltre, secondo quanto precisato dall’Agenzia delle Entrate nella Circolare n. 25/E del 4 maggio 2007, il rigetto dell’istanza di disapplicazione presentata da una o più delle società partecipate dell’holding implicherebbe il venir meno dell’emanazione del provvedimento disapplicativo anche a beneficio dell’holding. Si creerebbe quindi un “effetto osmotico” della non operatività la quale, avendo colpito la società partecipata, attrarrebbe anche la partecipante nella medesima condizione. Sembra tuttavia più logico ritenere che la holding interessata alla disapplicazione della disciplina sulle società di comodo possa comunque evidenziare nell’istanza le proprie autonome argomentazioni e non essere vincolata in modo automatico all’esito disapplicativo delle istanze presentate dalle società partecipate266. Per quanto 264 Come spiegato nel capitolo precedente con il Provvedimenti del 2008 e del 2012 è stata prevista l’esclusione automatica per le società che detengono partecipazioni iscritte esclusivamente tra le immobilizzazioni finanziarie e qualora sussistano determinati requisiti in capo alla società partecipata. 265 DODERO A. e SCIFONI G., Le istruzioni applicative dell'Agenzia delle Entrate sulle società di comodo, in Corr. trib., 2007, 21, pag. 1728. La specifica relativa alla necessità di dimostrare che l’utile sia stato effettivamente investito è stata affermata nella Risoluzione dell'Agenzia delle Entrate n. 47/E del 18 giugno 2008. 266 PROVAGGI G:, La disapplicazione della disciplina delle società di comodo si trasferisce dalle controllate alla “holding”, in Corr. trib., 2011, 41, pag. 331; FERRANTI G., Società di comodo e beni ai soci: i chiarimenti di Assonime, cit., pag. 2119. L'indagine in merito alla disapplicazione della disciplina sulle società di comodo va effettuata sulle società partecipate dalla holding stessa, “operando quindi una sorte di trasparenza per cui la 98 concerne invece le società immobiliari che si occupano della realizzazione e successiva locazione di immobili, si può procedere a disapplicare la normativa in esame se si dimostra l’impossibilità, nonostante la fissazione di canoni di importo almeno pari a quello di mercato, di praticare canoni di locazione idonei a superare il test d’operatività o a raggiungere un reddito effettivo superiore a quello minimo presunto, oppure che non si può procedere a modificare i canoni di locazione o ancora la temporanea inagibilità degli immobili 267. Le società potrebbero poi trovarsi nella condizione di aver prodotto ricavi e proventi in misura inferiore a quelli presunti applicando determinate percentuali agli asset patrimoniali, ma di poter evidenziare situazioni che le hanno impedito la determinazione di un reddito inferiore a quello previsto al comma 3 dell'art. 30, dovute per esempio al sostenimento di costi straordinari268. In questo caso stando a quanto stabilito dall’Amministrazione Finanziaria nella Circolare 5/E del 2 febbraio 2007, l’istanza di disapplicazione dovrebbe essere fatta valere solo ai fini IRES ed IRPEF e non in materia di IRAP ed IVA dal momento che non vengono fatte valere, in questa circostanza, valide ragioni per spiegare il mancato superamento del test d’operatività e quindi dei ricavi presunti. Operando in questa direzione si finisce con il sostenere che non esiste un legame necessario tra la presunzione di reddito minimo prevista dal comma 3 dell’art. 30 in esame e la presunzione del valore minimo di produzione stabilito al comma 3-bis ai fini dell’imposta regionale sull'attività produttiva; tuttavia per la determinazione di quest'ultima il legislatore ha previsto che la base imponibile sia rappresentata dal reddito minimo269. Sembra quindi maggiormente condivisibile sostenere che nel caso si dimostri l’impossibilità di raggiungere la soglia del reddito minimo l'accoglimento situazione della partecipata condiziona anche la partecipante”. Tuttavia sembra corretto ritenere che nel caso di risposta negativa alla disapplicazione della normativa per le società partecipate, debba essere comunque effettuata una valutazione delle oggettive situazioni presentate dalla holding e non venga stabilito tout court il non accoglimento dell'interpello disapplicativo della partecipante. 267 Inoltre sostiene STEVANATO D., Le società “di comodo”, tra imposizione cripto-patrimoniale e dirigistico utilizzo extra-fiscale del tributo, in STEVANATO D. e LUPI R., Società “di comodo”:dov’è la capacità economica?, cit., pag. 1 e ss., che andrebbero escluse dalla disciplina indipendentemente dal raggiungimento della soglia minima dei ricavi le società immobiliari che presentano un’organizzazione ed una struttura dedicata alla gestione degli immobili ed ai rapporti con gli affittuari, in quanto tali indici sono rappresentativi dello svolgimento di un’attività d'impresa. 268 Queste esemplificazioni descritte sono riportate nella Circolare n. 5/E del 2 febbraio 2007 cit. In relazione al carattere straordinario di tali costi dovranno essere valutati con attenzione i costi a carico della società ma rappresentativi di benefici per i soci. In particolare si riporta l’esempio di una società immobiliare che al fine di ristrutturare i propri immobili ha sostenuto costi straordinari; questi immobili sono stati ceduti in locazione ai propri soci e non a terzi. In questo caso, anche se la locazione fosse effettuata a normali prezzi di mercato, la disciplina delle società di comodo non potrebbe essere disapplicata, dal momento che secondo l’Amministrazione Finanziaria i costi sono stati sostenuti per soddisfare le esigenze della compagine sociale. 269 Riguardo a questa casistica nella citata circolare è stato precisato che ove i costi straordinari assunti a base dell’istanza di disapplicazione siano ammessi in deduzione non solo ai fini delle imposte sul reddito ma anche in materia d’IVA, la disapplicazione deve estendersi anche all'imposta regionale sull'attività produttiva; una diversa previsione determinerebbe un’irragionevole discriminazione di trattamento dell’IVA rispetto all’IRAP. 99 parziale dell’interpello avrà effetti non solo sull’imposta sul reddito ma anche ai fini IRAP270. Inoltre come già accennato trattando la determinazione del reddito minimo presunto previsto ex lege ed il riporto delle perdite pregresse, la società che non ha superato il test d’operatività ma che ha prodotto un reddito superiore a quello minimo e che non ha perdite fiscali usufruibili può avere interesse a chiedere l’istanza di disapplicazione almeno ai fini IVA ed IRAP. L’interpello può quindi essere presentato per dimostrare le oggettive situazioni che non hanno permesso il superamento del test con la possibilità in caso affermativo di disapplicare dalla disciplina prevista per le società di comodo, oppure il mancato conseguimento del reddito minimo o di operazioni rilevanti ai fini IVA. Qualora poi vengano evidenziate dal contribuente situazioni oggettive riguardanti solo determinati asset tra quelli identificati nel comma 1 dell'art. 30 della Legge n. 724 del 1994 o situazioni che non hanno interessato l’intero triennio di riferimento, l’Amministrazione Finanziaria prevederà la disapplicazione parziale della disciplina ed il contribuente non terrà conto di tali asset nel calcolo dei ricavi figurativi e di quelli effettivamente realizzati, come pure nella determinazione del reddito minimo presunto. E’ il caso per esempio di una società proprietaria di un complesso di immobili alcuni dei quali non produttivi di reddito perché inagibili e non ancora ristrutturati; tale circostanza induce a ritenere che questi immobili non debbano essere considerati nel calcolo nel test d’operatività. Dall’illustrazione fatta finora relativa alle oggettive situazioni che non hanno permesso il superamento del test d’operatività, si può percepire che la valutazione effettuata dagli uffici finanziari in merito alla presentazione dell'istanza di disapplicazione rispecchi la natura stessa della disciplina sulle società di comodo 271. Secondo l'Amministrazione Finanziaria l’esplicito riferimento del legislatore a tali “situazioni oggettive” dovrebbe escludere la rilevanza delle fattispecie soggettive, con la conseguenza però di penalizzare il contribuente ogni qualvolta dovesse per sua scelta assumere dei comportamenti che non sono finalizzati alla massimizzazione del profitto. Sembra forse più opportuno interpretare l’utilizzo del legislatore della locuzione “condizioni oggettive” non come contrapposizione a quelle soggettive, ma come delimitazione del campo d’applicazione 270 PISTOLESI F., L'interpello per la disapplicazione del regime sulle società di comodo, cit, pag. 2987. BEGHIN M., Diritto tributario. Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, cit., pag. 635 e ss. Si evidenzia che “le linee operative alle quali le Direzioni regionali delle Entrate si atterrano al fine di valutare le istanze di disapplicazione dipendono, in larga misura dalla ratio della disciplina”. Disciplina che secondo l'autore risponde ad una molteplicità di funzioni e che rappresenta un caso di “polimorfismo normativo”. Accanto all’obiettivo di ostacolare situazioni riconducibili al mero godimento si deve evidenziare che la presunzione di redditività in presenza di determinati asset patrimoniali nella struttura societaria rappresenti il contrappeso al fatto di imputare a conto economico costi indeducibili nelle categorie di reddito diverse da quello d'impresa e che potrebbero essere stati sostenuti non già dalla società stessa, ma dal socio magari per fini personali. 271 100 a quelle situazioni sia oggettive che soggettive obbiettivamente verificabili272. Inoltre è da sottolineare che evidenziando il fatto secondo il quale l’obiettivo posto dalla normativa sulle società non operative è quello di ostacolare la struttura societaria costituita per intestare beni societari e non per svolgere attività produttiva, allora la disapplicazione dovrebbe essere attuata quando il contribuente è in grado di dimostrare l’effettivo esercizio dell’attività d'impresa, a prescindere dal valore dei ricavi effettivi e presunti del test d’operatività. Ci si sottrae alla disciplina non provando che si è prodotto un reddito inferiore a quello minimo stabilito ex lege, ma che la società non è stata costruita al fine di fungere da mero contenitore di beni. Se invece si focalizza l’attenzione sulla questione che una società intestataria di determinati beni deve generare un livello di reddito predeterminato, allora l’istanza si dovrebbe accogliere ogniqualvolta viene dimostrato il mancato raggiungimento di tale livello, che non necessariamente deve dipendere dal mercato e quindi da fattori esterni al contesto imprenditoriale. A partire poi dal 2012 sono annoverate come società non operative anche le strutture societarie che per tre periodi d'imposta consecutivi conseguono perdite fiscali oppure se tali perdite sono state generate per due periodi d’imposta a cui se ne aggiunge un terzo nel quale è stato dichiarato un reddito inferiore al minimo previsto ex lege; con la precisazione che il Decreto Legislativo concernente le semplificazioni fiscali ha esteso dal 2014 a cinque periodi d’imposta il periodo d’osservazione per essere considerati società in perdita fiscale non operativa oppure a quattro periodi a cui se ne aggiunge un quinto nel quale la società ha conseguito un redito inferiore al minimo. Emerge quindi il problema di come debba essere interpretato il comma 4-bis in questa specifica fattispecie di reiterazione di perdite fiscali per più periodi d’imposta consecutivi273. Per le società che hanno superato il test d’operatività e che però si ritrovano comunque assoggettate alla disciplina delle società di comodo in quanto in perdita sistematica, si ritiene che non debba essere data prova dell'impossibilità oggettiva di conseguire il livello minimo di ricavi; si deve invece dimostrare la consistenza delle perdite cioè la loro genesi e quindi effettività. In questo modo viene data giustificazione delle perdite prodotte e del fatto che esse non derivino da fattispecie di evasione, evidenziando i profili 272 TOSI L., Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 11-12. Secondo l’autore l’esclusione delle situazioni obbiettivamente verificabili ma soggettive non appare compatibile con i precetti costituzionali; se un contribuente per determinate sue ragioni decide di affittare un immobile ad un canone inferiore a quello prefissato dalla norma non si vede il motivo perché debba essere sanzionato non accogliendo quindi l'istanza di disapplicazione. 273 FERRANTI G., L’ambito d'applicazione della disciplina sulle società in perdita sistematica, cit., pag. 2121. Deve essere evidenziato che l’istanza di interpello è inammissibile se volta alla disapplicazione della disciplina con riguardo a periodi d’imposta anteriori al triennio di riferimento. Nel caso per esempio si siano registrate perdite fiscali dal 2011 al 2013, la società diventa di comodo a partire dal periodo d’imposta 2014; l’istanza di disapplicazione sarà tenuta inammissibile se l’oggettiva situazione concerne il periodo d'imposta 2010 o periodi precedenti. 101 soggettivi della fattispecie. Qualora invece la società si ritrovi nella condizione di non aver superato il test d’operatività e di aver anche generato perdite fiscali nei periodi precedenti, la dimostrazione diviene complessa dal momento che devono essere giustificate sia le situazioni oggettive che non hanno permesso il realizzo di un livello di ricavi sufficiente, sia l’effettività e la genesi delle perdite conseguite274. Inoltre sarà necessario presentare due distinte istanze disapplicative se si vuole ottenere l’esclusione dalla normativa sulle società di comodo in relazione sia alla disciplina sulle società di comodo che a quella sulle perdite reiterate per più periodi d’imposta consecutivi275. In linea generale per le società in perdita sistematica le motivazioni alla base dell'interpello disapplicativo devono riguardare l’economicità del comportamento imprenditoriale in relazione alla complessiva situazione aziendale e la presenza di particolari situazioni che potrebbero aver portato al conseguimento di risultati negativi. Tali situazioni non possono dipendere dalla volontà dei soggetti interessati, come nel caso di immobiliari di gestione che pur incassando dei canoni congrui rilevano sistematicamente perdite fiscali a causa degli oneri deducibili generati magari da strutture finanziarie studiate appositamente per poter azzerare l’imponibile. La disapplicazione può essere attuata se si è svolta per esempio un’attività di ricerca propedeutica all’inizio della produzione, che ha determinato però il crearsi di un non normale periodo di svolgimento dell’attività, oppure se la crisi di un determinato settore ha impedito l’incremento dei prezzi in modo proporzionale all’aumento dei costi delle materie generando così perdite. L’obiettivo del legislatore attraverso la previsione dell’interpello è quello di dar dimostrazione di una reale mancato raggiungimento del livello dei ricavi previsti per superare il test d’operatività o del reddito minimo o ancora dell’effettivo mancato compimento di operazioni rilevanti ai fini IVA. Tuttavia si può comprendere come in linea generale la presenza di oggettive situazioni a 274 BEGHIN M., Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, in FALSITTA G., Manuale di Diritto Tributario. Parte speciale, cit., pag 731 e ss.. In relazione a quest’ultima ipotesi si potrebbe quindi dimostrare che l’ammontare dei ricavi obbiettivamente non era possibile raggiungerlo e rimanere società non operativa in ragione delle perdite pregresse. Oppure potrebbe essere data prova dell’effettività delle perdite ricadendo comunque nel canale della non operatività data la non dimostrazione di oggettive situazioni che non hanno permesso il raggiungimento dei ricavi e proventi, così come stabiliti dall’art. 30 comma 1 in esame. E’ da sottolineare che in questi due casi appena descritti l’istanza di disapplicazione rappresenta una prova gravosa e difficile per il contribuente da dimostrare, data la coesistenza sia del mancato superamento dei livello di ricavi presunto sia per la consecutiva generazione di perdite fiscali per un triennio. 275 FERRANTI G., La nuova disciplina delle società di comodo: le questioni ancora aperte, in Corr. trib., 2012, 14, pag. 1046. Considerando che l’inoperatività legata al triennio di perdite sistematiche è stata prevista sulla base di motivazioni differenti rispetto all'introduzione dell'originario art. 30 della legge n.724/1994 e che i periodi d’imposta di riferimento sono differenti a seconda che si debba verificare la presenza di perdite fiscali o il superamento del test d’operatività, si ritiene che debbano essere presentate due distinte istanze disapplicative. E’ stato infatti precisato questo nella Circolare dell'Amministrazione Finanziaria n. 23/E del 2012 cit., la quale ha tuttavia stabilito che le istanze precedenti all’emissione di tale provvedimento siano ritenute ammissibili anche se contenenti in un’unica istanza le richieste di disapplicazione inerenti sia alla perdita sistematica che alla non operatività. 102 base dell'istanza disapplicativa rappresenti “un onere” di non facile dimostrazione, alla luce sopratutto dell’impostazione tenuta dall’Amministrazione Finanziaria. L’istanza d'interpello risulta quindi uno strumento di non facile applicazione per le società. 3.2.3 Riflessioni sulle problematiche relative al procedimento disapplicativo previsto per le società di comodo L'introduzione dell'interpello disapplicativo ha sollevato non poche questioni riguardanti la natura preventiva di tale strumento, l’impugnabilità dell’atto e la possibile difesa concessa al contribuente in caso di mancata presentazione. L’istanza di disapplicazione rappresenta lo strumento per poter disapplicare la disciplina prevista per le società di comodo, attraverso la quale si richiede la rimozione dell’ostacolo che impedisce di applicare le regole ordinarie per la determinazione del reddito d’impresa. La linea sostenuta dall’Amministrazione è stata esplicitata in una serie di circolari. In particolare la Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 5/E del 2 febbraio 2007 afferma che solo dopo aver assolto l’onere di presentazione dell’interpello disapplicativo si può procedere ad impugnare l’eventuale avviso d’accertamento emesso dall’Amministrazione Finanziaria a seguito del rigetto dell’istanza di disapplicazione; la mancata presentazione dell’istanza determina invece l’inammissibilità del ricorso276. Inoltre non può essere impugnato il provvedimento di diniego emesso dal Direttore regionale delle Entrate in quanto non rientrante tra gli atti impugnabili, secondo quanto previsto dall’art. 19 del Decreto Legislativo n. 546/1992277. Le successive Circolari n. 14/E del 15 marzo 2007 e n. 7/E del 3 marzo 2009 hanno ribadito tale orientamento. E’ necessario invece soffermarsi sulla Circolare n. 32/E del 14 giugno 2010 dell'Agenzia delle Entrate. In tale circolare l'Amministrazione Finanziaria ha ribadito l’obbligatorietà della presentazione dell’istanza disapplicativa per poter ottenere l’esclusione dal novero dei soggetti ritenuti di comodo ed ha affermato, ed è questa la novità, che si debba ritenere superata l'indicazione contenuta nella Circolare n. 7/E del 2009. Quest’ultima con riferimento specifico alle società non operative, 276 La citata Circolare sostiene che tale sanzione processuale sia la conseguenza dell’eliminazione del legislatore dell'inciso presente precedentemente al comma 1 dell'art. 30 della legge n. 724/1994 “salvo prova contraria”; in tal modo la prova contraria deve necessariamente essere fornita in sede d'interpello disapplicativo. Come è stato evidenziato da TOSI L., Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag.10 e ss., l’eliminazione dell’inciso non è decisiva nel senso di stabilire che il contribuente che voglia far valere la situazione effettiva debba obbligatoriamente attivare l’interpello e la mancata presentazione di quest’ultimo implichi il venir meno della possibilità di difendersi. L’autore ritiene che se il legislatore avesse voluto tale effetto avrebbe dovuto vietare la prova contraria in modo esplicito. 277 Tale decreto legislativo si occupa di disciplinare il processo tributario e nello specifico l’art. 19 identifica gli atti autonomamente impugnabili davanti alle Commissioni tributarie, tra il quali ci sono (per citarne alcuni): l’avviso d’accertamento, l’avviso di liquidazione, il provvedimento che irroga le sanzioni, il ruolo e la cartella di pagamento, l’avviso di mora, il diniego o la revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari. 103 evidenziava ancora una volta che “in assenza di presentazione dell’istanza, il ricorso è inammissibile considerato che la disapplicazione non è ammessa in assenza della relativa istanza, che non può essere proposta per la prima volta in sede contenziosa col ricorso avverso l’avviso d’accertamento e di irrogazione delle sanzioni amministrative”278. La mancata presentazione dell’interpello porta all’irrogazione di una sanzione. Inoltre sempre nella Circolare del 2010 si sostiene che la risposta dell’interpello non rappresenta un atto impugnabile, dal momento che non lede in alcun modo la posizione del contribuente il quale può anche non adeguarsi, stante la natura di parere di tale atto 279. Viene fatto riferimento alla Sentenza del Consiglio di Stato n. 414 del 26 gennaio 2009, in tale sentenza è stato affermato che la giurisdizione del giudice amministrativo non sussiste per l’impugnazione del diniego dell’istanza di disapplicazione prevista dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973280. La “visione” che ne deriva è che l’Amministrazione Finanziaria ha quindi considerato fino al 2010 l’interpello disapplicativo non solo una sorte di passaggio obbligatorio per opporsi alle presunzioni previste dall'art. 30 della legge n. 724/1994, pur in assenza di un atto accertativo, ma il presupposto necessario per attivare le successive difese del contribuente in sede contenziosa. L’interpello, quale unica iniziativa utile per poter dimostrare che non è stato possibile raggiungere la soglia dei ricavi e del reddito stabiliti nell'art. 30 in esame, assumeva quindi la natura di procedimento amministrativo avente funzione costitutiva della prova contraria, rispetto alla presunzione di non operatività racchiusa nella disciplina delle società di comodo. Il mancato avvio del procedimento disapplicativo poneva il contribuente nella 278 VASAPOLLI G. e VASAPOLLI A., La natura non preventiva e obbligatoria dell'interpello delle società di comodo, in Corr. trib., 2007, 23, pag. 1860; FERRANTI G., La revisione della disciplina delle società di comodo e dei beni in godimento ai soci, in Corr. trib., 2014, 20, pag. 1911. Nella Circolare 32/E del 2010 cit. si conferma quindi che per l’Amministrazione Finanziaria la presentazione dell’interpello disapplicativo rappresenta un obbligo attraverso il quale si effettua un monitoraggio preventivo delle situazioni ritenute potenzialmente elusive dal legislatore; con la specifica successiva avvenuta nella Circolare n. 7/E del 29 marzo 2013 che la disciplina delle società di comodo si applica a prescindere dalla sussistenza di finalità elusive, nel caso in cui siano società prive di obiettivi imprenditoriali concreti ed immediati che non svolgono quindi alcuna attività imprenditoriale. Inoltre l’Amministrazione rivede la propria posizione stabilendo che l'obbligatorietà della presentazione dell’istanza non muta il carattere non vincolante della risposta e non preclude la possibilità di far valere le condizioni che legittimano la disapplicazione alla disciplina anche successivamente. Tale orientamento è stato ribadito nella Sentenza n. 54 del 30 maggio 2012 dalla Comm. Trib. Reg. del Friuli-Venezia Giulia di Trieste: “la mancata presentazione dell'interpello disapplicativo delle disposizioni antielusive sulle società di comodo non rende inammissibile il ricorso avverso l'avviso d'accertamento, in quanto la sanzione di inammissibilità è comminabile solo in carenza dei presupposti o degli elementi specificatamente richiesti dalle norme di legge sul processo tributario”. 279 Peraltro la successiva Circolare 23/E dell'11 giugno 2012 cit., trattando la gestione degli interpelli per le società in perdita sistematica ha ribadito che per gli effetti e per l’impugnabilità delle risposte alle istanze disapplicative resta ferma quanto affermato nella Circolare 32/E del 2010 cit.. 280 Inoltre è stato sottolineato che “(…) la qualificazione della posizione giuridica del contribuente in termine di interesse legittimo [non può] ritenersi sufficiente o dirimente per la risoluzione del problema della giurisdizione, rimanendo impregiudicato ogni diritto e facoltà di difesa in ordine alla successiva attività posta in essere dall'Erario”. 104 condizione di non poter intraprendere nessuna “iniziativa” dal momento che il ricorso contro l’eventuale avviso d’accertamento era ritenuto inammissibile; era quindi preclusa la possibilità di dare spiegazione della propria condizione di non operatività. Solo in sede amministrativa e non giurisdizionale si poteva dare dimostrazione delle cause che hanno determinato l’impossibilità di superare il test d’operatività o di produrre un reddito minimo secondo quanto stabilito dall'art. 30 della Legge n. 724/1994. Si finiva cioè con il ritenere che l’interpello e la disapplicazione della normativa non fossero un diritto discendente dalla situazione oggettiva della società, ma un beneficio concesso dall'Amministrazione solo in via del tutto eccezionale, obbligatorio in sede preventiva a pena di non poter più dimostrare la reale operatività della società281. Identificare l’interpello come unico strumento per disapplicare la disciplina, non lasciando la possibilità anche in sede contenziosa, significava da un lato non potersi difendere a fronte di un eventuale provvedimento accertativo emesso dall’Agenzia delle Entrate e contemporaneamente dover pagare sulla base di una predeterminazione forfettaria del reddito con il concreto rischio di sottoporre a tassazione ricchezza inesistente. Anche ammettendo che il legislatore avesse scelto di dare la possibilità di dimostrare la prova contraria attraverso un formale procedimento d'interpello disapplicativo, non vi sarebbero comunque elementi che possano prevedere la “sanzione” d’inammissibilità del ricorso giurisdizionale presentato dal contribuente, senza prima aver avviato la procedura stabilita all'art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973282. Inoltre deve essere evidenziato che l’inammissibilità del ricorso contro l’atto accertativo in mancanza dell'istanza disapplicativa contrasta con l’orientamento secondo il quale l’azione giudiziaria non può essere subordinata a quella di un organo non giurisdizionale, altrimenti viene meno da un lato il diritto di difesa sancito dall'art. 24 della Costituzione che stabilisce che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi [e] la difesa è diritto inviolabile 281 SCHIAVOLIN R., Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 71 e ss.. L’obbligo assoluto del previo interpello affinché il contribuente possa dimostrare la propria operatività potrebbe trovare una giustificazione “solo se, per qualche ragione, il potere di disapplicazione dovesse venire riservato all’Amministrazione Finanziaria, salvo assoggettarlo ad un controllo giurisdizionale esterno, simile al sindacato sull'eccesso di potere. Tuttavia, la stessa Amministrazione Finanziaria sembra ammettere che il sindacato della Commissione Tributaria sia pieno, riferendosi alla sussistenza di situazioni che hanno impedito il raggiungimento dei risultati attesi”. Secondo l’autore l’obbligatorietà dell’interpello preventivo attraverso il quale il diritto di difesa in giudizio viene procedimentalizzato sembra piuttosto rispondere ad un’esigenza fiscale di far emergere fin da subito le società ritenute di comodo comprese quelle che si trovano nella condizione di avere valide ragioni per poter disapplicare la normativa. 282 ATTARDI C., Tutela giurisdizionale delle società di comodo: profili problematici, in Fisco (Il), 2007, 32, pag. 1-4372. Sottolinea l'autore che senza una previsione legislativa in proposito, riguardante l’inammissibilità del ricorso in mancanza dell'atto disapplicativo, non viene rispettato l’art. 111 della Costituzione il quale afferma che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalle leggi (...)”. Quanto stabilito nella Circolare n. 5/E del 2007 cit. appare quindi difficilmente conciliabile con la previsione costituzionale dell'art.111. 105 in ogni stato e grado del procedimento (...)” e contemporaneamente ci si pone in contrasto con le disposizioni processuali. Quest’ultime prevedono infatti la sanzione dell’inammissibilità del ricorso per fattispecie particolarmente gravi, non come il caso di mancata presentazione dell’istanza disapplicativa. La prova contraria può essere fornita in qualsiasi momento e l'interpello disapplicativo non deve costituire alcun pregiudizio per il contribuente che è libero di presentarlo o meno. Come detto precedentemente a tal conclusione sembra essere giunta in parte anche l'Amministrazione Finanziaria, rivedendo la proprio posizione. Nonostante rimanga l’obbligatorietà di presentazione dell'interpello, al contribuente è data comunque la possibilità di far valere le proprie ragioni, dando spiegazione della propria situazione anche successivamente. Per quanto concerne l’obbligatorietà di avviare l'istanza di disapplicazione, sostenuta dall’Amministrazione anche nella Circolare del 2010, il comma 3 dell'art. 30 della Legge n. 724/1994 stabilisce che “la società [possa] richiedere(...)”. Il dato normativo lascia quindi intendere che l’istanza disapplicativa è una possibilità data al contribuente, il quale è libero di attivarla o meno. Non sembra corretto prevedere l’obbligatorietà dell’interpello, dato il tenore letterale di quanto previsto dal legislatore, oltre al fatto che nessun elemento d’ordine logico o sistematico ravvisa nell'istanza disapplicativa un istituto di cui è necessario “servirsi” per realizzare determinati effetti. Il contribuente può dimostrare anche successivamente, con l’emissione di un eventuale avviso d’accertamento volto a porre a tassazione il maggiore reddito, che la società svolge effettivamente un'attività d'impresa anche se non ha superato il test d’operatività o le ragioni per cui non è stata in grado di produrre un reddito almeno pari al livello minimo283. Si deve quindi affermare che l’istanza disapplicativa deve essere considerata come una facoltà attraverso la quale si possono prevenire controversie e future incertezze; rappresenta quindi un’opportunità aggiuntiva il cui mancato esercizio non può pregiudicare le possibilità di difesa giurisdizionale284. L'interpello non è uno strumento necessario in via preventiva per 283 BEGHIN M., Diritto tributario. Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, cit., pag. 638 e seguenti. Sottolinea l’autore che la possibilità di difendere la propria posizione non solo mediante l’istanza d’interpello ma anche successivamente in sede contenziosa è in linea con il sistema giuridico; l'art. 113 della Costituzione prevede infatti che “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (...)”. 284 LUPI R., Le società di comodo come disciplina antievasiva, cit., pag. 1097 e ss.. In particolare a pag. 11061107 si sottolinea come per far rientrare l'interpello disapplicativo previsto per le società di comodo tra quelli previsti dall'art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 c’è stato bisogno di “estendere gli effetti dell’interpello oltre le colonne d’Ercole delle disposizioni antielusive, il che conferma che altrimenti non sarebbe stato ammesso, in quanto relativo a fattispecie diverse da quelle da quelle in cui sospetta la presenza di un’evasione (...)”. Inoltre se nel caso per esempio di interpello previsto in materia di imprese estere controllate normate nell'art. 167 del TUIR il legislatore utilizza espressamente il termine “deve interpellare” questo non avviene nella disciplina delle società di comodo e proprio per questo motivo l’interpello disapplicativo non può essere un obbligo ma rappresenta una possibilità data al contribuente. 106 pervenire alla disapplicazione della disciplina della non operatività, dal momento che la stessa Amministrazione Finanziaria non fa derivare alcuna preclusione da tale asserita obbligatorietà, essendo stato superato l’orientamento dell’ente impositore di ritenere inammissibile il ricorso contro l'avviso d'accertamento del contribuente che non abbia attivato precedentemente il procedimento disapplicativo previsto dal comma 4-bis dell'art. 30 in esame285. Se il contribuente decide di presentare l’istanza di disapplicazione e riceve una risposta positiva tale effetto vincola sicuramente il fisco, che può tuttavia rettificare il reddito dichiarato con gli ordinari poteri d’accertamento qualora ne ricorrano i giusti motivi. Nel caso in cui invece il contribuente non riceva risposta da parte del Direttore regionale delle Entrate all’istanza di disapplicazione presentata, c’è chi ritiene possa essere applicato l’art. 20 comma 1 della Legge n. 241/1990286, il quale stabilisce che “(…) nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda (...) se la medesima amministrazione non comunica all'interessato [nel termine previsto dalla legge] il provvedimento di diniego”. Secondo questa tesi i presupposti perché l’articolo 20 citato trovino attuazione risiedono nel fatto che la materia tributaria non risulta esclusa dall’ambito d’applicazione di tale previsione normativa, inoltre l’istanza posta dalla società è esplicitamente volta a sollecitare il provvedimento di disapplicazione dell’art. 30 della Legge n. 724/1994287. Tuttavia tale linea interpretativa appare non condivisa da chi sostiene invece che il silenzio sull’istanza d'interpello disapplicativo non è autonomamente impugnabile e non equivale al silenzio-assenso o al silenzio-diniego. Le caratteristiche peculiari dell’interpello in materia di società di comodo (ed in generale di interpello presentato ai sensi dell'art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973) escluderebbero l’applicazione della regola generale stabilita nell'art. 20 della Legge n. 241del 1990; sembra corretto ritenere che qualora il legislatore avesse 285 A tal proposito si sono espresse con più sentenze anche le Commissioni di merito, con pareri contrastanti. La non obbligatorietà della presentazione dell'interpello disapplicativo è per esempio stata affermata nella Sentenza n. 16/2012 dalla Comm. Trib. Prov. di Vercelli e nella Sentenza n. 101/2012 dalla Comm. Trib. Prov. di Reggio Emilia. A parere opposto sono giunti invece i giudici nelle Sentenze n. 78/2012 della Comm. Trib. Reg. della Puglia e n. 437/2014 della Comm. Trib. Prov. di Pisa. 286 Tale articolo è stato così riformato dal Decreto Legge n.35/2005 convertito con modificazioni dalla Legge 14 marzo 2005, n. 80. 287 PISTOLESI F., L'interpello per la disapplicazione del regime sulle società di comodo, cit., pag. 2987. L’autore sottolinea infatti che anche se l’interpello disapplicativo non è “un’autorizzazione in senso proprio, rappresenta senz’altro un atto dotato di una portata peculiare, che esula dalla semplice sfera interpretativa e ben si presta, pertanto, ad essere assimilato ai provvedimenti menzionati dall’art. 20 della Legge n. 241/1990”. L'interpello previsto per le società di comodo attraverso il quale, in caso di risposta positiva, è ammessa la sottrazione dall’applicazione di una norma evidenzia come la risposta fornita spiega un effetto che va oltre l’enunciazione della presa di posizione dell’Amministrazione Finanziaria. “V’è insomma, in tale risposta un quid pluris rispetto ai responsi forniti in base agli altri interpelli (…): la pronuncia del Direttore regionale inibisce qui l’operatività di un precetto normativo”. 107 voluto introdurre tale conseguenza dalla mancata risposta dell’Amministrazione l’avrebbe fatto esplicitamente288. Un’altra questione sulla quale è opportuno fare alcune considerazioni e che solleva un certo dibattito riguarda l’impugnabilità o meno del diniego dell’istanza di disapplicazione della disciplina delle società di comodo. A fronte delle linea ferrea sostenuta dall’Amministrazione Finanziaria secondo cui l'interpello disapplicativo non è impugnabile in quanto non è annoverato tra gli atti impugnabili previsti dall’art. 19 del Decreto Legislativo n. 546/1992, in dottrina ed anche in giurisprudenza coesistono opinioni contrastanti. Alcuni ritengono che il diniego dell'istanza disapplicativa non sia un atto impugnabile davanti al giudice tributario, considerato che la risposta dell'interpello non è vincolante per il contribuente e non implica un pretesa impositiva o sanzionatoria289. Il contribuente può far valere le proprie ragioni in sede giurisdizionale, contro l’atto con il quale l’Amministrazione pretende di recuperare quanto non versato disattendendo l’art. 30 della Legge n. 724/1994290. Tale linea sostenuta nella già citata Sentenza n. 414 del 2009, è stata ribadita di recente nella Sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Bari n. 2355 del 14 ottobre 2014, secondo i giudici il diniego alla disapplicazione di norme antielusive non può essere equiparato ad un avviso d'accertamento ed è privo di contenuto a carattere impositivo tale da suscitare l’interesse immediato del contribuente ad impugnarlo. Anche nella sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Bari del 7 ottobre 2013, n. 75 era stato affermato tale orientamento, non potendo l’interpello disapplicativo essere considerato un atto 288 FUCILE S., Riflessioni in tema di impugnabilità del diniego di disapplicazione di una norma antielusiva, in Riv. dir. trib., 2011, 9, pag. 421B. L’autore sostiene la non applicabilità del silenzio-assenso all’interpello disapplicativo evidenziando inoltre che l’art. 20 citato si riferisce a casi nei quali la pubblica amministrazione ha discrezionalità amministrativa nell’emanazione del provvedimento e questo non si ravvisa per l’interpello disapplicativo. La tesi del silenzio-assenso generalizzato non sembra troppo solida, quantomeno con riferimento agli atti non discrezionali e l'interpello disapplicativo sembra rientrare in tale categoria. In tal senso anche STEVANATO D., Istanza di disapplicazione di norme antielusive e significato del silenzio, in BOZZI A. e STEVANATO D., Società di comodo ed interpello disapplicativo, in Dialoghi dir. trib., 2007, 2, pag. 199. L’autore sostiene che “il percorso utilizzato per attribuire al silenzio sull'istanza valore di assenso [non sembra essere persuasivo] per l’improprio accostamento tra la pronuncia che viene richiesta al Direttore regionale ed i provvedimenti amministrativi ad istanza di parte cui si applica la legge generale sul procedimento amministrativo”. 289 Sostiene STEVANATO D., Il diniego di disapplicazione delle norme antielusive: assenza di “efficacia preclusiva” e superfluità di una tutela giurisdizionale, in Dialoghi. dir. trib., 2005, 1,pag. 29 e ss., la “natura interpretativa” del provvedimento dell'Amministrazione che non produce effetti d'accertamento e dunque “non appare sensato affermare la sua impugnabilità in sede giurisdizionale, più di quanto non sia affermare l'impugnabilità di una risoluzione ministeriale”. Si veda poi SCHIAVOLIN R., Commento all’art. 19, in Commentario breve alle leggi del diritto tributario. Terza edizione (a cura di COSOLO C. e GLENDI C.), Padova, 2012, pag. 287. 290 L’impugnazione dell'interpello dovrebbe essere ammessa qualora tale atto fosse ritenuto obbligatorio e la relativa risposta fosse ritenuta indispensabile per evitare di incorrere nel regime delle società di comodo (tale obbligatorietà continua peraltro invece ad essere sostenuta, come già detto, dall'Amministrazione Finanziaria). In caso di obbligatorietà dell’interpello il rigetto della richiesta di disapplicazione sarebbe assimilato ad un atto d’accertamento idoneo a stabilire con efficacia imperativa l'an ed il quantum debeatur previsto dall'ente impositore. In tal senso PISTOLESI F., L’interpello per la disapplicazione del regime sulle società di comodo, cit., pag. 2987; FERRANTI G., Società di comodo e beni ai soci: i chiarimenti di Assonime, cit., pag. 2119. 108 autonomamente impugnabile e necessitando quindi un eventuale avviso d’accertamento da parte dell'Agenzia delle Entrate per poter far ricorso. Secondo questa linea di pensiero la risposta all’interpello disapplicativo non è quindi assimilabile ad alcun atto impugnabile tra quelli stabiliti dall’art. 19 del Decreto Legislativo n. 546/1992, serve ad orientare la condotta del contribuente, ma non lo vincola e non gli crea alcun pregiudizio; tale atto non ha efficacia imperativa e non si esplica in un concreto ed attuale interesse ad agire. E’ vero che il contribuente che presenta l’interpello disapplicativo è titolare di una situazione giuridica soggettiva riconducibile alla nozione di interesse legittimo, dove l’Amministrazione Finanziaria svolge il proprio compito di indagine, controllo e verifica della corretta applicazione dei doveri impositivi. In questo modo l’interesse del soggetto passivo istante viene a coincidere con quello del buon esercizio delle funzioni svolte dall’Amministrazione ed è soddisfatto nel momento in cui il contribuente riceve una risposta all’istanza di disapplicazione della disciplina relativa alle società di comodo. Nel momento in cui la risposta è resa non si riscontra però alcuna lesione dell’interesse legittimo del contribuente. Il diniego di disapplicazione non ha l’effetto immediato di comprimere ulteriormente posizioni soggettive già limitate dalla disciplina, ma ha solo l’obiettivo di indirizzare il contribuente, lasciandolo libero di adeguarsi o meno all'indirizzo dell’Amministrazione Finanziaria e impugnando successivamente un eventuale avviso d’accertamento. Ammetterne l’impugnabilità del diniego significherebbe inoltre permettere l’esercizio di un’azione d’accertamento preventivo che non è ammessa nella materia tributaria e che non produrrebbe alcun benefico effetto in termini di tempo e modalità di definizione dell’eventuale contenzioso291. Appare quindi condivisibile ritenere che in caso di diniego dell'interpello disapplicativo tale atto non possa essere impugnato, non integrando l’interesse ad agire richiesto nel processo tributario. Al contribuente è riconosciuta la tutela giurisdizionale solo in via successiva in sede di impugnazione dell’eventuale atto impositivo292. Altra parte della 291 E’ questa la tesi sostenuta da PISTOLESI F., Tutela differita al giudice tributario in caso di risposta negativa all'interpello, in Corr. trib., 2009, 21, pag. 1685, il quale sostiene che solo nel caso in cui il Diretto regionale delle Entrate “si sottraesse in modo indebito dal rendere noto il responso richiesto vi sarebbe ragione di ricorrere al giudice amministrativo perché l'interesse legittimo del contribuente trovi la necessaria tutela”. Inoltre si ritiene che la disapplicazione della disciplina debba essere pronunciata senza alcun profilo di discrezionalità qualora le prove offerte dal contribuente siano convincenti ed il comportamento descritto nell’istanza sia differente con quello che il legislatore si è proposto do osteggiare. 292 CIMINO F. A., Il diniego di disapplicazione della normativa sulle società ed enti non operativi: impugnazione necessaria o facoltativa?, in Rass. trib., 2013, 4, pag. 749. Viene quindi evidenziato che in dottrina coloro che non ammettono l'impugnabilità della risposta negativa all'interpello la giustificano con ragioni differenti. Si ritiene che tale provvedimento non vincoli il contribuente ed abbia funzione di mero orientamento, o che non sia lesivo della posizione giuridica del contribuente e che quindi l’impugnabilità debba essere esclusa allo stesso modo in cui si esclude l’impugnabilità di una risoluzione ministeriale o ancora che il diniego di disapplicazione abbia natura di provvedimento di “tipo autorizzatorio” anche se emesso senza alcun potere discrezionale e che 109 dottrina sostiene invece che il diniego all'istanza di disapplicazione possa essere identificato come un atto impugnabile. La Corte di Cassazione è intervenuta con più sentenze nel merito ribadendo tale principio e maturando però due orientamenti diversi per quanto concerne la “cristallizzazione o meno” degli effetti derivanti dalla mancata impugnazione della risposta negativa all'interpello. La Corte di Cassazione nella Sentenza n. 8663 del 15 aprile 2011293 ha affermato che il parere reso a seguito dell'interpello disapplicativo è un atto impugnabile, potendo essere equiparato ad un diniego di agevolazione294 e quindi rientrante tra gli atti impugnabili dell'art. 19 del Decreto Legislativo n. 546/1992. La norma è stata così interpretata in modo non “nominalistico”, ma analogico-estensivo, essendo un atto con effetto residuo, diretto ed immediato295. Sull’argomento sembra opportuno sottolineare che c’è chi ritiene non adeguato l’accostamento del diniego di disapplicazione ad un diniego di agevolazione fiscale, dal momento che la società chiedendo la disapplicazione della disciplina delle società non operative non viene ammessa ad un regime agevolativo. L’istanza disapplicativa mira ad evitare una penalizzazione, riconducendo la fattispecie concreta all’interno della disciplina ordinaria. La disapplicazione è infatti il venir meno di una penalizzazione che comporta quindi il ripristino della situazione ordinaria, che spetta di diritto non come vantaggio, con la conseguenza che il diniego di disapplicazione non comporta l’esclusione da una posizione di favore, ma il permanere di una situazione sfavorevole per il contribuente 296. Piuttosto non rientrando tra gli atti nominati dall'art. 19 del Decreto Legislativo n. 546/1992 non possa quindi essere impugnato. SERRANO' M. V., Ancora sull'impugnabilità del diniego di disapplicazione di norme antielusive sulla base di una dubbia equipollenza con il diniego di agevolazioni fiscali, in Dir. prat. trib., 2014, 1, pag. 2117. Si ritiene che sia innegabile la carenza dell’interesse ad agire dal momento che l’interpello disapplicativo rappresenta il presupposto di un atto impugnabile, dunque con tutela differita all'eventuale notifica dell'atto autonomamente e direttamente impugnabile. E' questa la panoramica presente in dottrina di chi condivide l'orientamento espresso dall'Agenzia delle Entrate sulla non impugnabilità del diniego disapplicativo. 293 Tale Sentenza ha rappresentato il primo pronunciamento esplicito del giudice di legittimità in tema di autonoma impugnabilità del diniego. E’ comunque da sottolineare che la Corte di Cassazione già con la Sentenza n. 23731 del 21 dicembre 2004 aveva affrontato il tema riconoscendo di fatto la diretta impugnabilità del diniego di disapplicazione dell’interpello attivato ai sensi dell'art.37-bis del D.P.R. n.600/1973, rientrando tale pronuncia in quella corrente interpretativa che sostiene la non tassatività degli atti impugnabili elencati all'art.19 del Decreto Legislativo n.546/1992. 294 In modo critico FERRANTI G., Società di comodo e beni ai soci: i chiarimenti di Assonime, cit., pag 2119 evidenzia che l’assimilazione dell’istanza disapplicativa ai dinieghi agevolativi appare forzata trattandosi non del riconoscimento di regimi agevolativi, ma più esattamente della presentazione di un’istanza nella quale il contribuente dopo aver descritto l’operazione effettuata indica la disposizione normative di cui chiede la disapplicazione. “Non sussiste alcun vulnus alla tutela giurisdizionale della posizione giuridica soggettiva del contribuente, rinviata al momento in cui viene notificato l’avviso d’accertamento”. Nella successiva Sentenza invece della Comm. Trib. Prov. di Reggio Emilia n. 154 del 21 settembre 2011, i giudici condividono quanto affermato dalla Corte di Cassazione e approvano l'equiparazione del diniego disapplicativo al diniego d'agevolazione, come pure nella Sentenza sempre della Cassazione Civile n. 20394 del 20 novembre 2012, nella quale è stato inoltre ribadito il concetto dell’obbligatorietà dell’impugnazione dell'atto di diniego disapplicativo pena la resa definitiva della carenza di potere di disapplicazione della norma antielusiva. 295 Il diniego di agevolazione è infatti citato tre gli atti impugnabili presenti in tale articolo. Si veda la nota n.180. 296 “Il contribuente non chiede di essere agevolato rispetto agli altri, ma anzi di essere trattato coerentemente col presupposto posto in essere”. Secondo STEVANATO D., Un “principio di diritto” sbagliato per una decisione 110 dovrebbe essere considerato atto impositivo atipico l’interpello disapplicativo, in grado di generare una compiuta e definita pretesa tributaria e quindi suscettibile di autonoma impugnazione. E’ stato sottolineato tuttavia che nonostante non sia un diniego di agevolazione vero e proprio comunque permette la riduzione del prelievo e questa è riconosciuta ai soli contribuenti che hanno richiesto l’istanza di disapplicazione. Si potrebbe inoltre ritenere che il diniego dell’interpello disapplicativo sia assimilabile ad un avviso d’accertamento e rientrante quindi tra gli atti impugnabili secondo l’art. 19 del Decreto Legislativo n. 546/1992, in quanto è presente una fase istruttoria ed una fase successiva di valutazione tecnica per verificare se esistono i presupposti per poter disapplicare la disciplina della non operatività. Si tratterebbe però di un avviso d'accertamento che non prevede la pretesa di imposta da parte del contribuente, il quale lo deve lui stesso attivare e sarebbe limitato alla spettanza del beneficio dell'esclusione dal novero delle società ritenute di comodo. Se si condivide l’idea di poter impugnare il diniego dell'interpello disappplicativo, è necessario escludere che la risposta dell’Amministrazione abbia carattere meramente interpretativo dal momento che essa risulta indispensabile per procedere alla non applicazione di quanto previsto dall'art. 30 della Legge n. 724/1994. La risposta data dal Direttore regionale presuppone l'esercizio della propria funzione amministrativa di accertamento dei presupposti per l’applicazione del regime di tassazione ordinario e vincola anche se risulta negativa il contribuente. L’interpello disapplicativo non configura, secondo questa linea interpretativa, solo come un “parere”, ma è un quid pluris costitutivo di diritti. E’ stato evidenziato che partendo dal presupposto che l’elenco degli atti impugnabili di cui all'art. 19 citato deve essere interpretato non in base al nomen iuris dell’atto non nominato, ma in base alla corrispondenza della funzione e degli effetti con gli atti normativamente previsti, allora l’interpello disapplicativo non potrebbe non apparire così “dissonante” da non poter essere assimilato al diniego di agevolazione o all'avviso d'accertamento e per questo non potrebbe essere giustificata una tutela giurisdizionale differente. Si dovrebbe quindi procedere alla qualificazione dell'atto avendo corretta?, in VOLTOLINA M. e STEVANATO D., Società di comodo, interpello disapplicativo e impugnazione del diniego, in Dialoghi dir. trib., 2012, 1, pag. 41, identificare il diniego disapplicativo come diniego d’agevolazione significherebbe far assumere al concetto “d’agevolazione” un significato abnorme; le agevolazioni si connotano quali deroghe ad un determinato regime fiscale e non si spiegano in ragione di una coerenza interna al tributo, ma in relazione del perseguimento di finalità estranee al tributo stesso. In questo senso deve quindi essere letta l’estraneità al tema delle agevolazioni dell’interpello disapplicativo stabilito al comma 4-bis dell’art. 30 della Legge n. 724/1994. Tale orientamento è condiviso anche da TUNDO F., Impugnabile il diniego di disapplicazione delle norme antielusive?, in Corr. trib., 2011, 11, pag. 1701, il quale evidenzia che l’interpello disapplicativo per le società di comodo risponde alla ratio della norma prevedendo che nell'ipotesi in cui il contribuente non ricada nella fattispecie disciplinata dalla normativa, l’ostacolo deve essere eliminato e si ritorna ad un’imposizione ordinaria. “Non pare quindi sussistere alcun spazio per poter assimilare il diniego di disapplicazione a quello d'agevolazione e questa importante precisazione si riflette sulla non impugnabilità del diniego di disapplicazione in quanto non assimilabile ad un diniego d’agevolazione”. 111 riguardo all'estrinseca finalità perseguita da quelli previsti all'art. 19 del Decreto Legislativo n. 546/1992297. Riprendendo poi quanto sostenuto dalla Suprema Corte nella sentenza del 2011, essa ha inoltre dichiarato che l’impugnazione dell’atto di diniego diventa indispensabile per poter disapplicare la disciplina prevista dall’art. 30 della Legge n. 724/1994, non potendo poi il contribuente più agire in sede di ricorso contro l’eventuale avviso d'accertamento298. Il presupposto per giungere a tale conclusione è quello di ritenere il sindacato del giudice tributario a cognizione piena con la conseguenza che quanto pronunciato dalla giurisdizione tributaria può incidere non solo sulla legittimità del diniego, ma anche sul merito della questione attraverso una valutazione sulla fondatezza o meno della domanda di disapplicazione299. Tra il diniego di disapplicazione e l’avviso d’accertamento si instaura un 297 FUCILE S., Riflessioni in tema di impugnabilità del diniego di disapplicazione di una norma antielusiva, cit., pag. 421B. E’ questo il pensiero condiviso dall'autore secondo il quale se la risposta del Direttore generale è un provvedimento costitutivo di diritti, non può negarsi il fatto che il contribuente abbia interesse ad impugnare il diniego. FRANSONI G., L’Agenzia delle Entrate illustra la non impugnabilità delle risposte agli interpelli, in Corr. trib., 2009, 14, 1131, il quale sottolinea che non si può ammettere un totale superamento dell'art.19 del Decreto Legislativo n. 546/1996, ma è altrettanto impossibile non condividere “moderate” aperture dell’elenco degli atti impugnabili ad atti funzionalmente analoghi a quelli per cui è stata prevista l'impugnabilità normativa. “L’analogia funzionale fra atti di diniego o revoca di agevolazioni e le risposte all'interpello sembra svolgere, appunto, il ruolo di ponte per garantire l’accesso alla tutela anche a questa categoria di atti. Il che si badi bene, non significa necessariamente affermare una totale identità degli uni e degli altri”. CORE E., La natura e l’impugnabilità dell'interpello disapplicativo, cit, pag. 2-307. Deve essere considerato atto d'accertamento non solo quello qualificato in quanto tale, ma anche tutti quegli atti recettizi che abbiano “la funzione di accertare un presupposto diverso od ulteriore ovvero una base imponibile maggiore di quella dichiarata, al fine di ottenere il pagamento di un tributo”. Sostiene l’autrice che l’autonoma impugnazione degli atti anche se non espressamente previsti dall’art.19 del Decreto Legislativo n. 546/1992 deve essere possibile finché l’impianto generale non subisce modifiche. 298 La Sentenza afferma inoltre che “la posizione giuridica del contribuente non è di interesse legittimo, bensì di diritto soggettivo (…) ed il giudice investito al ricorso contro il diniego non deve limitarsi ad appurare la legittimità dell'atto, ma deve esaminare nel merito la pretesa, eventualmente stabilendo la natura non elusiva dell'operazione”. E’ da sottolineare che tale ultimo principio è stato ribadito anche in una successiva Sentenza della Corte di Cassazione n. 5843 del 13 aprile 2012, dove è stato evidenziato che “la cognizione del giudice tributario rispetto al diniego non è limitata alla legittimità formale dell'atto ma è estesa al merito della pretesa”. In questa sentenza è stato evidenziato che il diniego all'istanza d’interpello disapplicativo costituisce atto autonomamente impugnabile davanti al giudice tributario, qualora contenga una presa di posizione definitiva sulla società di comodo, tramite cui si dia conto dell’analisi effettuata in relazione alle circostanze fattuali ed alle allegazioni documentali prodotte al momento della richiesta di disapplicazione. Non è invece impugnabile la declaratoria d’improcedibilità dell’istanza per mancanza degli elementi minimi necessari alla valutazione. Quest’ultimo provvedimento non può definirsi come diniego definitivo della richiesta di disapplicazione ma come provvedimento “sostanzialmente interlocutorio”. MATTESI E., Cass., n.5843 del 13 aprile 2012 – Ancora sull'impugnabilità degli atti tributari “atipici”: il diniego di disapplicazione delle norme sulle società di comodo, in Fisco (Il), 19, 2012, pag. 2-3001; BORGOGLIO A., Inibita l'impugnabilità della risposta sull'interpello se l'Ufficio la dichiara improcedibile, in Fisco (Il), 2012, 20, pag. 1-3137. 299 STEVANATO D., Disapplicazione di norme antielusive d obbligatorietà dell’interpello, in D. STEVANATO D. e LUPI R., Disapplicazione norme antielusive: verso la facoltatività dell’istanza?, in Dialoghi dir. trib., 2014, 3, pag. 249 il potere di disapplicazione è peculiare in quanto il regime giuridico-tributario viene adattato alla realtà concreta, essendoci un momento interpretativo nel quale si analizza la ragionevolezza o meno dell’applicazione della norma. Alla base dell'interpello disapplicativo non vi è l'incertezza applicativa di una norma come nel caso dell'interpello ordinario, “bensì una questione di equità e giustizia sostanziale, di adeguamento delle ragioni sottostanti alla norma limitatrice rispetto ad una situazione concreta che pur essendo pacificamente sussumibile nella fattispecie astratta non può nemmeno astrattamente dar luogo a quegli effetti elusivi che la norma vuole contrastare”. Non si ritiene inoltre possa essere facoltativa l’impugnazione del 112 rapporto di presupposizione. Come il contribuente che non impugna l’avviso d'accertamento non può difendersi in una fase successiva contro il ruolo, così la mancata impugnazione del diniego disapplicativo comporta l’impossibilità di fare ricorso contro l’atto impositivo emesso dall’Agenzia delle Entrate. Appare condivisibile ritenere quindi che la mancata impugnazione del rigetto dell’istanza disapplicativa “cristallizza” l’applicazione del regime della non operativtà300. E’ questa la conclusione a cui si deve giungere se si considera impugnabile il diniego disapplicativo. Tuttavia chi non condivide tale orientamento sottolinea il fatto che nonostante la Cassazione abbia tentato di ampliare la tutela concessa al contribuente ammettendo appunto l’impugnabilità del diniego di disapplicazione, nel concreto prevedere l’obbligatorietà dell’impugnazione porterebbe a conseguenze altrettanto gravi per il contribuente che o agisce immediatamente impugnando l’atto di diniego o altrimenti gli viene preclusa ogni possibile difesa futura. A fronte quindi di un interesse immediato e di un diritto “perfetto” ad agire, si pone l’effetto che consiste nella decadenza di quel diritto, con la definitiva perdita di possibilità di disapplicare la disciplina in questo caso delle società di comodo. Secondo tale orientamento la conclusione a cui giunge la Suprema Corte nel 2011 in merito alla cristallizzazione degli effetti sembra essere viziata nel presupposto, dato che il soggetto passivo istante può non adeguarsi alla risposta negativa del Direttore regionale delle Entrate esponendosi al rischio di subire successivamente l'accertamento tributario301. La Cassazione ha ribadito la facoltà di impugnazione del diniego dell'interpello disapplicativo nella Sentenza n. 17010 del 5 ottobre 2012, affermando che gli atti contenuti nell’art.19 del Decreto Legislativo n. 546/1992 hanno natura tassativa e che tuttavia è data facoltà al contribuente di impugnare la risposta negativa ricevuta dal Direttore regionale delle Entrate. Secondo questa linea, l’impugnazione non rappresenta un onere perché non ha efficacia rilevante, portando a conoscenza il soggetto passivo richiedente della posizione assunta dall'Amministrazione Finanziaria in ordine ad un determinato rapporto tributario302. Tale diniego all'interpello disapplicativo. 300 BORGOGLIO A., Impugnazione facoltativa del diniego dell'interpello disapplicativo, in Fisco (Il), 2014, 26, pag. 2607. 301 Si fa quindi riferimento al carattere non vincolante della risposta dell'interpello affermata dall’Agenzia delle Entrate nella Circolare n.7/E del 2009 cit. E’ questa quanto sostiene LUNELLI R., Diniego di disapplicazione delle norme “antielusive”: impugnazione facoltativa od obbligatoria?, in Riv. giur. trib., 2011, 8, pag. 680. Secondo l'autore la Corte di Cassazione dovrebbe stabilire invece il diniego di disapplicazione non come assimilabile al diniego di agevolazione, ma come atto facoltativamente impugnabile. In questo modo è soddisfatto sia l’interesse del contribuente ad una tutela immediata sia quello di salvaguardare il diritto/onere di impugnare il successivo atto d’accertamento. 302 Nella Sentenza si evidenzia che sono facoltativamente impugnabili quegli atti che portano a conoscenza il contribuente di una specifica pretesa tributaria con la specificazione delle ragioni fattuali e giuridiche e questo in ragione del fatto che è possibile dare un’interpretazione estensiva delle disposizioni in materia secondo quanto stabilito dalle norme costituzionali di tutela del contribuente (art. 24 e 53 della Costituzione). 113 orientamento è stato confermato ancora più di recente sempre dalla Suprema Corte con la Sentenza n. 11929 del 28 maggio 2014 e con la successiva n. 16183 de15 luglio 2014 dove è stato ribadito che l’impugnazione del diniego rappresenta una facoltà per il contribuente che non pregiudica la possibilità di far valere le ragioni per la disapplicazione della normativa in esame anche successivamente con il ricorso avverso l’avviso d'accertamento. Nella sentenza di luglio è stato inoltre sottolineato che la domanda di interpello non costituisce la via obbligatoria per sottrarsi alla presunzione di non operatività prevista dall'art.30 della Legge n. 724/1994, potendosi dimostrare sempre le ragioni che consentono di fornire la prova contraria303. In questo modo si affermerebbe quindi che la facoltà dell’impugnazione del diniego dell'interpello debba essere ammessa dal momento che il diniego non rappresenta l’atto con cui l’ente impositore definitivamente pronuncia una pretesa in ordine all'esistenza ed al modo d’essere del rapporto tributario. La pronuncia negativa da parte del Direttore regionale delle Entrate non vincola e pregiudica il contribuente, non è espressiva di una richiesta impositiva o sanzionatoria, non può quindi essere sostenuto che la sua mancata impugnazione cristallizzi definitivamente gli effetti. Chi sostiene tale non obbligatorietà dell’impugnazione sottolinea quindi che essa è espressiva di un contemperamento tra l’interesse ad una tutela immediata contro il diniego disapplicativo della disciplina delle società di comodo e l’interesse, rilevante anche questo, a potersi tutelare contro gli eventuali successivi atti d’accertamento e o di diniego dell’istanza di rimborso. Inoltre viene meno anche la difficoltà di equiparare il diniego disapplicativo ad uno degli atti autonomamente impugnabili previsti dell'art. 19 del decreto Legislativo n. 546/1992304. Secondo questa tesi la “facoltà” dell’impugnazione sembrerebbe quindi meglio conciliarsi con la struttura del processo tributario anche se il diniego di disapplicazione esprime un’irreversibile determinazione, ma non “si veste” della forma autoritativa degli atti espressamente richiamati dall'art.19 citato305. 303 Peraltro deve essere evidenziato che tale facoltà era stata pronunciata dalla Corte di Cassazione anche nella Sentenza n. 3773 del 18 febbraio 2014. Si era affermato che per gli atti per i quali è prevista la possibilità di una tutela di natura anticipata si deve prevedere la facoltà dell'impugnazione del diniego, potendo contestare la pretesa in un momento successivo quando diventa atto di forma autoritativa espressamente indicato nell'art. 19 del Decreto Legislativo n.546/1992. 304 CIMINO F. A., Il diniego di disapplicazione della normativa sulle società ed enti non operativi: impugnazione necessaria o facoltativa?, cit., pag. 749. L'impugnazione facoltativa del diniego appare inoltre coerente con la struttura impugnatoria presente nel processo tributario, nel quale non è stata mai ammessa un’azione di accertamento negativa generalizzata ma la si è sempre condizionata alla presenza di un atto. 305 PISTOLESI F., La non obbligatorietà dell'interpello “disapplicativo”, in Corr. trib., 2014, 38, pag. 2932. L’interpello disapplicativo sostiene l'autore è un atto che orienta il contribuente e che non ha efficacia imperativa, presupponendo l’esercizio di un’ulteriore attività istruttoria prima che l’Amministrazione adotti un atto impositivo. Deve quindi essere ammessa la facoltà e non l'obbligatorietà per il contribuente di potere impugnare o meno il diniego relativo all'inteerpello disapplicativo presentato. 114 Dall’analisi effettuata si può quindi comprendere come la questione sia di non facile soluzione; secondo la Cassazione Civile il diniego dell’istanza di disapplicazione è un atto impugnabile a differenza della linea sostenuta dall'Agenzia delle Entrate. L’orientamento della Suprema Corte non appare univoco dal momento che a sentenze in cui afferma la cristallizzazione degli effetti derivanti dalla mancata impugnabilità del diniego se ne alternano altre che parlano di facoltà e non obbligo di impugnazione, anche se nelle più recenti sentenze ha affermato la “facoltà” dell’impugnazione del diniego. Alla luce dell’analisi effettuata sembra tuttavia opportuno evidenziare il fatto che se si ammette l’impugnabilità del diniego disapplicativo, allora si deve anche stabilire non la facoltà del contribuente ad agire, ma l’obbligatorietà di impugnare la risposta negativa ricevuta in sede d’interpello. Se il contribuente non si attiva, gli effetti derivanti dal diniego si cristallizzano e non è poi più permesso fare ricorso contro l’eventuale avviso d’accertamento emesso successivamente. Se invece si considera non impugnabile la risposta negativa ricevuta in sede di interpello alla luce del fatto che tale atto esprime un parere e non vincola il contribuente, allora questo implica che il contribuente può disattendere quanto stabilito dal Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate ed agire successivamente impugnando l’eventuale avviso d’accertamento. Si ritiene quindi che questo concetto espresso debba rappresentare un punto fermo in materia di interpello disapplicativo. Il dibattito rimane comunque acceso data la complessità della questione, che può essere valutata in modi differenti a secondo “dell’angolo di visuale” che si decide di osservare e i riflessi che in ogni caso ha l’istanza di disapplicazione in concreto poi per il contribuente. Quello che ne deriva è che la disciplina delle società di comodo diventa sempre più una normativa articolata con il rischio che essa assuma connotazioni abnormi, estranee alla funzione per la quale il legislatore ha deciso di introdurla nel sistema306. 306 STEVANATO D., Le società di “comodo” tra imposizione cripto-patrimoniale e drigistico utilizzo extrafiscale del tributo, in STEVANATO D. e LUPI R., Società “di comodo”:dov'è la capacità economica?, cit., pag. 1 e ss.. 115 CAPITOLO 4 RIFLESSIONI CONCLUSIVE In questo ultimo capitolo si effettuano alcune riflessioni conclusive ed alcune considerazioni relative alla Legge Delega fiscale per il 2014 in materia di società di comodo, alla luce di quanto analizzato nel presente lavoro. La disciplina delle società di comodo venne introdotta per disincentivare le strutture societarie costituite non per lo svolgimento di un’attività economica, ma come contenitori patrimoniali per intestare i beni, utilizzati per scopi personali dagli stessi soci, alle società inserendoli così nel regime d’impresa. Di fronte a tale obiettivo il legislatore ha scelto di prevedere un regime normativo basato sulla predeterminazione del reddito, considerando quindi dei dati di normalità economica ed identificando come soggetti non operativi, le società che non rispettano i limiti previsti dalla normativa stessa. Inizialmente venivano identificati come società di comodo i soggetti che non avevano raggiunto uno specifico livello di ricavi e che non avevano un determinato numero di lavoratori dipendenti, con la Legge Finanziaria per il 1997 venne invece introdotto il test d’operatività che prevedeva il confronto tra il livello dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi effettivi ed il valore dei ricavi presunti, ottenuto applicando determinati coefficienti a specifici beni patrimoniali. Se i ricavi effettivi non superano tale valore predeterminato si è considerati soggetti non operativi. Scatta l’obbligo quindi di dichiarare un reddito minimo ottenuto sempre attraverso il medesimo meccanismo applicativo di predeterminazione, le perdite pregresse possono essere utilizzate in diminuzione solo per la parte di reddito eccedente il minimo, in materia di IRAP sussiste l’obbligo di dichiarare un valore predeterminato che si basa sul valore del reddito minimo dichiarato ed infine esistono delle limitazioni anche in campo IVA, relativamente all’eccedenza di credito che deriva dalla dichiarazione presentata. A partire poi dal 2011 l’ambito d’applicazione della disciplina si è ampliato ulteriormente, includendovi anche i soggetti che conseguono per tre periodi d’imposta perdite fiscali o che le conseguono per due periodi a cui si aggiunge un ulteriore anno in cui il reddito dichiarato risulta inferiore a quello minimo previsto dal comma 3 dell’art. 30 della Legge n. 724/1994. A tal proposito, a partire dal periodo d’imposta 2014 il periodo d’osservazione per essere ritenuti automaticamente soggetti non operativi è esteso a cinque periodi d’imposta, nei quali si registrano perdite fiscali reiterate, come disposto dall’art. 18 del Decreto Legislativo sulle semplificazioni fiscali n. 175 del 21 novembre 2014, attuativo dell’art. 7 della delega fiscale. Inoltre sempre il 116 Decreto Legge n. 138/2011 ha innalzato l’aliquota IRES per le società di comodo al 38%, applicabile quindi alle sole società di capitali e non alle società di persone. Di fronte a queste previsioni il soggetto passivo può essere escluso dalla disciplina perché rientrante in una delle fattispecie di disapplicazione automatica previste dalla normativa stessa, o dai provvedimenti emanati dall’Agenzia delle Entrate nel 2008 e nel 2012, o perche è ricorso all’interpello disapplicativo. In quest’ultimo caso, il contribuente dovrà dare dimostrazione delle oggettive situazioni che non hanno permesso il conseguimento del livello minimo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi o del redito minimo prodotto. Si deve quindi effettivamente dar prova che nonostante i limiti previsti ex-lege non siano stati raggiunti, la società svolge un’attività produttiva e non è stata costituita come mero contenitore patrimoniale. In sintesi questi sono i tratti caratterizzanti della disciplina in esame. Effettuando alcune riflessioni, il legislatore decide di reprime il fenomeno delle società “senza impresa” non affidandosi al diritto commerciale, ma utilizzando la disciplina fiscale, introducendo la normativa prevista dall’art. 30 della Legge n. 724/1994, che almeno nelle intenzioni dichiarate dovrebbe perseguire uno scopo antielusivo. L’obiettivo originario di tale disciplina era quello di contrastare “l’uso improprio della struttura societaria che, anziché essere finalizzata all’esercizio produttivo di attività commerciali, viene impiegata per consentire l’anonimato degli effettivi proprietari dei beni intestati alla società cui si unisce spesso la deduzione di costi che hanno poco a che fare con l’attività che, (…) dovrebbe essere svolta dalla società, mentre di fatto detta società si limita alla mera intestazione di beni che sono tenuti a disposizione dell’effettivo proprietario”307. La disciplina delle società di comodo, che identifica la non operatività di un soggetto attraverso il confronto dei ricavi effettivamente realizzati con quelli presuntivamente realizzabili, stabilisce la predeterminazione dell’imponibile che viene quantificato rispetto al valore ottenuto applicando a talune voci patrimoniali specifici coefficienti “apodittici”, che non si basano su alcuna attendibilità dimostrativa, espressione della discrezionalità del legislatore. Tale scelta implica che non vengano prese in considerazione le caratteristiche dell’attività esercitata e la situazione specifica del contribuente, ma in modo automatico si identifica l’operatività o meno di un soggetto, con il rischio effettivo di poter includere nella disciplina soggetti realmente operativi, invece di non penalizzare quelli che effettivamente non svolgono alcuna attività economica, ma che riescono comunque a realizzare dei ricavi tali da superare il test 307 Relazione governativa al d.d.l. di accompagnamento alla Legge Finanziaria per il 1997, in Corr. trib, 1996, 40, pag. 3102. 117 d’operatività308. Alla singola realtà economico-contabile si sostituisce una realtà normativa che si basa quindi sul fatto che il contribuente, avendo a disposizione determinati asset patrimoniali, dovrebbe generare un determinato livello di ricavi presunti. Il contribuente finisce con l’essere assoggettato a tale disciplina solo perché non ha superato il test d’operatività, ben potendo essere soggetto operativo a tutti gli effetti. In questo modo viene meno la personalizzazione del prelievo stabilita dall’art. 53 Cost., che dovrebbe garantire a ciascun contribuente un trattamento che sia specchio della capacità contributiva a lui effettivamente ascrivibile. Il passo successivo previsto dalla disciplina, che stabilisce per i soggetti non operativi la determinazione di un reddito almeno pari a quello minimo determinato applicando specifici coefficienti al valore dei beni patrimoniali, fa emergere non solo il problema della predeterminazione del reddito ma anche la questione relativa alla nozione stessa di reddito, oltre al fatto che viene imputato un reddito ad un soggetto che per definizione è non operativo. Si pone cioè a tassazione non l’incremento della ricchezza ascrivibile al contribuente, ma il reddito presuntivamente ottenibile, basandosi sul patrimonio del soggetto passivo, quale grandezza statica e non dinamica. In questo modo l’imposizione delle società di comodo presenta una natura sostanzialmente patrimoniale, dal momento che ci si basa sulla mera disponibilità di determinati asset patrimoniali, prevedendo che all’aumentare del loro valore aumenti anche la redditività stessa presunta dal legislatore. Viene meno quindi l’imposizione sul reddito, quale grandezza dinamica che coglie la ricchezza prodotta dal soggetto passivo in un determinato periodo d’imposta. Si sottopone a tassazione il reddito basandosi sui valori patrimoniali posseduti dalla società, con il rischio di attribuire al soggetto passivo un imponibile che si allontana notevolmente dalla ricchezza effettivamente prodotta nel periodo d’imposta. Emerge quindi un problema relativo all’indice di capacità economica scelto dal legislatore, che è rappresentato appunto dalla disponibilità dei beni patrimoniali e dalla redditività che ne dovrebbe derivare. Ci si allontana dal rispetto del principio di capacità contributiva stabilito dall’art. 53 Cost. sia per quanto concerne la personalizzazione del tributo, che dovrebbe rispettare l’idoneità soggettiva alla contribuzione, sia in relazione all’effettività dell’arricchimento, ben potendo essere sottoposta a tassazione una ricchezza fittizia stabilita dal legislatore e che non rispecchia minimamente la situazione oggettiva del contribuente. In sostanza la disciplina delle società di comodo prevede “un’integrazione della tassazione reddituale con un prelievo sul patrimonio”309 in modo tale 308 TOSI L., Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale. Contributo alla trattazione sistematica dell’imposizione su basi forfettarie, cit., pag. 364. 309 SCHIAVOLIN R., Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, in AA.VV., Le 118 che in ogni caso si concorra alle spese pubbliche, basandosi appunto sugli elementi dell’attivo patrimoniale e a prescindere dal fatto che la società abbia generato utile o meno, sganciandosi completamente dalla tassazione in termini di capacità contributiva. Si rischia quindi non solo di tassare ricchezza creata appositamente dal legislatore, ma di incidere sulla disponibilità economica del contribuente stesso, facendo così emergere la potenzialità confiscatoria dell’imposta. E’ questo l’impianto normativo delle società di comodo, nel quale le criticità sono riscontrabili all’origine stessa della disciplina, in relazione sia alla scelta della predeterminazione forfettaria del reddito, sia alla natura stessa del reddito imputabile alla società di comodo che si basa sul valore patrimoniale di determinati asset. La disciplina nel corso del tempo ha subito continue modifiche che hanno riguardato il cambiamento del valore dei coefficienti applicabili ai beni patrimoniali per la determinazione dei ricavi presunti e del reddito minimo, le cause d’esclusione e di disapplicazione automatica della normativa, in relazione a specifiche situazioni o indici rappresentativi del fatto che la società non viene utilizzata come schermo societario per la gestione del patrimonio dei soci. Tuttavia il dato di fondo è che l’impianto normativo del legislatore non si è focalizzato sul verificare concretamente che la società effettui un’attività economico-produttiva e che non venga utilizzata invece come schermo societario per gestire il patrimonio dei soci. Si è delineata sempre più una normativa articolata di non facile applicazione, il cui obiettivo iniziale postosi dal legislatore ha finito invece per penalizzare le realtà effettivamente operative, ma che non sono in grado di raggiungere le soglie di ricavi e di reddito previste ex lege. Una svolta in senso negativo è stata data inoltre dall’eliminazione del contradditorio anticipato presente fino al 2006, necessario perché l’Amministrazione Finanziaria potesse emettere un eventuale avviso d’accertamento inerente alla situazione di non operatività della società, a cui ha fatto seguito l’introduzione dell’interpello disapplicativo. In questo modo si è inciso sul diritto di difesa del contribuente e l’automaticità posta a base della disciplina della non operatività risulta ancora maggiore. Il contribuente deve lui stesso agire per poter dimostrare le oggettive situazioni che identificano il non raggiungimento dei limiti stabiliti dal legislatore e quindi il fatto che la società è realmente operativa. In merito all’interpello sono sorte non poche problematiche, dal momento che nonostante la previsione legislativa parli di possibilità per il contribuente di attivare tale procedura, l’Amministrazione Finanziaria la ritiene obbligatoria e fino al 2010 affermava inoltre che non era impugnabile l’avviso d’accertamento emesso, se in precedenza non era stato richiesto l’interpello disapplicativo. Il contribuente deve essere società di comodo (a cura di TOSI L.), cit., pag. 67. 119 libero di presentare l’istanza di disapplicazione, potendo fornire la prova contraria in qualsiasi momento e non necessariamente preventivamente. Riguardo poi all’eventuale risposta negativa ricevuta in sede d’interpello, si pone un duplice problema riguardante da un lato il fatto che esso rappresenti o meno un atto autonomamente impugnabile, non essendo compreso negli atti impugnabili espressamente previsti dall’art. 19 del Decreto Legislativo n. 546/1992, e dall’altro lato se l’impugnazione del diniego sia facoltativa o obbligatoria. A tal proposito la Corte Suprema non detiene una linea d’indirizzo univoca, alternando sentenze nelle quali afferma l’obbligatorietà dell’impugnazione del diniego disapplicativo ad altre in cui stabilisce la facoltà dell’impugnazione. Appare condivisibile ritenere innanzitutto che l’interpello disapplicativo debba essere identificato come una possibilità concessa al contribuente che in via preventiva vuole attivarsi e non un obbligo, potendo essere data dimostrazione della reale operatività della società anche successivamente, qualora venga emesso un avviso d’accertamento. Inoltre in relazione al fatto che la risposta negativa ricevuta in sede di interpello disapplicativo sia un atto impugnabile o meno, sembra opportuno affermare che qualora si ritenga impugnabile il diniego disapplicativo, allora tale impugnazione non può risultare facoltativa, è obbligatoria e la mancata presentazione ne cristallizza in modo definitivo gli effetti. Quindi se si ammette l’impugnabilità essa è obbligatoria ed il contribuente che non si attiva perde la possibilità di agire successivamente in sede di ricorso contro l’avviso d’accertamento emanato. Se invece si sostiene che la risposta ricevuta a seguito dell’istanza disapplicativa rappresenti un parere non vincolante per il contribuente e che il diniego disapplicativo non si esplichi in un atto impugnabile, allora sembra corretto stabilire che il contribuente possa disattendere quanto stabilito dall’Amministrazione Finanziaria ed agire in una fase successiva a seguito dell’avviso d’accertamento eventualmente emesso. Queste brevi considerazioni sull’interpello disapplicativo mettono in risalto che l’introduzione di questo strumento ha reso ancora più complessa la disciplina dell’art. 30 della Legge n. 724/1994, oltre al fatto che tale modifica, rispetto all’obbligatorietà precedente del contradditorio anticipato, ha inciso sulla possibilità di difesa del contribuente. Col trascorrere del tempo la normativa delle società di comodo si è distanziata sempre più dall’obiettivo di contrastare le società utilizzate come contenitori patrimoniali e i continui correttivi che sono stati introdotti non sono riusciti a cogliere i profili di irragionevolezza insiti nella disciplina. Questi ultimi si sono resi ancora più evidenti con le modifiche apportate nel 2011, che dimostrano il ricorso del legislatore alla disciplina come strumento intimidatorio, per reperire gettito ma non per colpire i soggetti che realmente non svolgono attività imprenditoriale. L’ampliamento della normativa tout court ai soggetti in perdita 120 sistematica per più periodi d’imposta, evidenzia ancora una volta l’automatismo di tale normativa e la conseguenza di includere tra le società di comodo i soggetti che si trovano in crisi economica e che sono però realmente operativi. Per quanto riguarda poi l’innalzamento dell’aliquota IRES al 38% è difficile trovare una valida ragione giustificatrice, quello che risulta chiaro è la disparità di trattamento soprattutto all’interno delle stesse società non operative, dato che solo le società di capitali sono colpite da tale maggiorazione. Tale intervento ha accentuato “i profili di irrazionalità della disciplina che appare ormai un prelievo selettivo, sganciato da ogni logica e coerenza, ed esclusivamente finalizzato al reperimento del gettito a tutti i costi”310. L’evoluzione della disciplina dell’art. 30 della Legge n. 724/1994 è giunta ad assumere dei connotati che sono estranei alla stessa logica per cui era stata inserita. A fronte dell’obiettivo di contrastare le strutture societarie che non svolgono attività economico-produttiva, costituite per poter trarre vantaggio dai beni inseriti nel regime d’impresa, ma utilizzati personalmente dai soci, si è giunti a delineare una disciplina che è difficilmente inquadrabile come specifica norma antielusiva o antievasiva. Accanto all’originaria ratio antielusiva di contrasto all’abuso delle strutture societarie utilizzate come contenitori patrimoniali, si è di fronte ad una struttura impositiva che collega a determinati beni patrimoniali una presunzione di fruttuosità minima, in relazione al fatto che i costi deducibili all’interno del reddito d’impresa risulterebbero invece indeducibili qualora i beni fossero intestati direttamente ai soci, che declina in una forma di imposizione patrimoniale. In sostanza la disciplina delle società di comodo nonostante preveda che il tributo pagato dai soggetti non operativi sia formalmente commisurato al reddito, in realtà incide direttamente sul capitale produttivo, attingendo al patrimonio. Per “frenare” l’abuso delle strutture societarie utilizzate come meri contenitori patrimoniali, il legislatore ha scelto di non rivolgersi al diritto commerciale, ma di ricorrere al diritto tributario, stabilendo una sanzione fiscale per una violazione civilistica. A tal proposito rimane di fondo l’interrogativo di tale scelta e di quale relazione ci debba essere tra una penalizzazione tributaria e gli utilizzi impropri dello schermo societario per attività di mero godimento. L’intento originario di penalizzare le società “senza impresa” con il tempo si è smarrito, si è creata di fatto una disciplina sempre più complessa e disorganica che penalizza non tanto le società utilizzate come schermi societari ma i soggetti realmente operativi. Tale regime di tassazione risulta totalmente estraneo alle logiche dell’imposta personale sul reddito, contrastando con i principi di uguaglianza e di capacità contributiva. 310 STEVANATO D., Società “di comodo”: un capro espiatorio buono per ogni occasione, cit., pag. 3889. 121 In questo contesto di criticità si inserisce la Legge Delega per la riforma fiscale n. 23 dell’11 marzo 2014, la quale all’art. 12, comma 1, lett. d) ha previsto la “revisione, razionalizzazione e coordinamento della disciplina delle società di comodo e del regime dei beni assegnati ai soci o ai loro familiari (…)con l’obiettivo di evitare vantaggi fiscali derivanti dall’uso di schermi societari per l’utilizzo di beni aziendali o di società di comodo (…)”311. Il legislatore ha quindi stabilito che si debba procedere a revisionare tale normativa che, come si è cercato di mettere in risalto, è diventata una disciplina sempre più complessa e disarticolata che porta alla penalizzazione, non tanto dei soggetti che utilizzano le strutture societarie come degli schermi per finalità extra-imprenditoriali, ma delle società realmente operative che non riescono a superare il test d’operatività o che si trovano in difficoltà economica, perseguendo risultati negativi per più periodi d’imposta. Le modifiche apportate nel 2011 hanno ulteriormente peggiorato l’impianto normativo delle società di comodo, allontanandolo sempre più dal fine originario per cui tale disciplina era stata introdotta. Tale intervento è stato definito privo di “valutazione economica effettiva che [avesse] sufficiente coerenza logicosistematica”312, in relazione al tentativo di dare dei segnali di credibilità dell’Italia nel periodo nel quale lo spread aveva raggiunto dei livelli elevatissimi. L’allontanamento dal rispetto dei principi costituzionali d’uguaglianza e capacità contributiva è sempre più evidente, quindi l’inserimento nella delega fiscale di un intervento in materia di società di comodo rappresenta un passaggio per certi versi obbligatorio, alla luce proprio delle problematiche che sono state esaminate in merito a tale normativa. Tuttavia il legislatore, come si può comprendere dall’articolo citato ha previsto una sorte di “delega in bianco”, dal momento che in modo generico si afferma la revisione e razionalizzazione del sistema normativo delle società di comodo, ma non vengono stabiliti dei chiari principi e dei criteri direttivi cui il delegato, cioè il Governo, deve uniformarsi, tranne precisare che si vuole evitare la possibilità di trarre vantaggi fiscali dall’uso degli schermi societari. E’ proprio su questo punto che allora sembra utile porsi degli interrogativi e riflettere sulla via da intraprendere per modificare effettivamente tale disciplina, riconducendola ad effettiva norma di contrasto per le società che non svolgono alcuna attività economico-produttiva ed allineandola al rispetto dei principi costituzionali previsti dall’art. 3 e 53 della Carta Fondamentale. Mantenendo l’istituto basato 311 Come descritto in precedenza una prima modifica riguardante le società in perdita sistematica, le quali a partire dal periodo d’imposta 2014 sono ritenute “società di comodo”, dopo cinque anni di perdite fiscali reiterate e più non dopo tre anni, è avvenuta con l’emanazione del Decreto Legislativo sulle semplificazioni fiscali. 312 MARRONE F., Le società di comodo sono diventate un espediente per incrementare il gettito indipendentemente dalla manifestazione di capacità economica?, in DAMIANI M., MARRONE F. e LUPI R., Società “non operative” e determinazione della ricchezza, cit., pag. 262. 122 sulla predeterminazione del reddito e sul rapporto tra asset patrimoniali e valore dei ricavi effettivamente realizzati, si potrebbe razionalizzare la disciplina rivedendo il valore dei coefficienti applicabili ai beni patrimoniali ed estendendo le cause di esclusione e di disapplicazione automatica313. Tuttavia è evidente che agendo in questo modo resta comunque invariato il dato di fondo, non si modificano i presupposti errati posti a base della disciplina. Il soggetto passivo continua ad essere tassato in base ad un reddito ipoteticamente producibile e non sull’indice di ricchezza a lui effettivamente ascrivibile. Inoltre il reddito imponibile deve essere espressione dell’incremento di ricchezza avvenuto in un determinato periodo d’imposta e non della presunta redditività del valore patrimoniale dei beni, proprio perché il reddito è una grandezza dinamica e non statica, quale risulta essere invece il patrimonio. Procedendo in questa direzione, che appare quindi difficilmente condivisibile, è stato ipotizzato314 che il coefficiente del 6% da applicare attualmente al valore degli immobili per il calcolo dei ricavi figurativi da confrontare con quelli effettivamente realizzati, dovrebbe essere ridotto al 4% per tutti gli immobili acquistati o rivalutati negli ultimi dieci anni. Attualmente tale coefficiente ridotto è imputabile solo agli immobili abitativi acquistati o rivalutati nell’ultimo triennio. Inoltre seguendo questa linea si potrebbero effettuare delle modifiche anche per quanto concerne le cause d’esclusione e di disapplicazione automatica. Partendo dal presupposto che la disciplina prevista nel 1994 è stata introdotta per contrastare le società costituite non per svolgere attività imprenditoriale ma per gestire il patrimonio dei soci, e che secondo quanto stabilito dall’Amministrazione Finanziaria la si applica anche alle società che, sebbene costituite non per finalità antielusive, non svolgono in concreto alcuna attività d’impresa, prive di obiettivi imprenditoriali immediati315, ci si può trovare di fronte all’ipotesi di una società che nonostante non ricada in tali fattispecie sia comunque considerata di comodo perché non supera il test d’operatività. Può essere l’esempio di una società che ha concesso in affitto l’unica azienda posseduta e che non riesce a realizzare ricavi tali da superare la soglia della non operatività, ricedendo quindi nella disciplina delle società di comodo. Tale casistica è inoltre esclusa dall’applicazione degli studi di settore in relazione alla specificità della situazione. E’ stato quindi affermato che il legislatore dovrebbe incidere nell’ipotesi specifica dell’affitto dell’unica azienda, prevedendone l’esclusione dalla normativa e stabilendo in generale che, come la coerenza e la congruità agli studi di settore 313 FERRANTI G., La revisione della disciplina delle società di comodo e dei beni in godimento ai soci, cit., pag. 1911; MENEGHETTI P., L’evoluzione della normativa sulle società di comodo, in Corr. trib., 2014, 20, pag. 1522. 314 Si veda a tal proposito MENEGHETTI P., L’evoluzione della normativa sulle società di comodo, in Corr. trib., 2014, 20, pag. 1522. 315 Circolare Agenzia delle Entrate n. 7/E del 29 marzo 2013, par. 6. 123 implica la non applicazione della disciplina della non operatività, allo stesso modo tale disapplicazione deve valere anche quando gli studi di settore non devono proprio essere effettuati316. Per quanto concerne poi le società in perdita sistematica appare contradditorio che si applichi la disciplina tout court nel quarto periodo d’imposta e a partire dal 2014 nel sesto periodo d’imposta, anche se proprio in quell’anno la società risulta aver superato il test d’operatività. Dovrebbe essere presa in considerazione tale ipotesi e non applicare l’art. 30 della legge n. 724/1994 perché si è di fronte ad una penalizzazione iniqua. Inoltre appare contradditorio anche il fatto che le cause di disapplicazione individuate dal Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 2012 si applichino solo con riferimento al triennio d’osservazione. Questo significa che se la causa di disapplicazione si manifesta nell’anno in cui la società dovrebbe essere considerata società di comodo in relazione alla reiterazioni delle perdite conseguite, essa non rileva e questo risulta contradditorio317. Sempre con riferimento poi alle perdite sistematiche, un’evidente penalizzazione riguarda le società che si occupano di trading di immobili, che costruiscono immobili destinati alla vendita, ma che spesso non sono in grado di cedere a causa della crisi che ha colpito in modo pesante il settore dell’edilizia negli ultimi anni. In questi specifici casi la società non genera ricavi, sostiene dei costi e quindi possono essere generate perdite, che se reiterate finiscono col portare la società nel canale della non operatività. Sotto questo punto di vista la modifica apportata dal Decreto Legislativo sulle semplificazioni, relativa all’estensione del periodo d’osservazione delle perdite fiscali conseguite a cinque anni, sembra rappresentare una soluzione a queste problematiche. Tuttavia anche tale scelta appare inadeguata, resta il fatto che trascorsi quei determinati anni stabiliti dal legislatore, si è considerati automaticamente soggetti non operativi prescindendo dalle reali condizioni in cui versa il soggetto passivo. Sebbene la presenza di perdite fiscali reiterate possa far sorgere il dubbio legittimo di verificare la reale condizione economica della società, ben altro impatto ha l’identificazione automatica del soggetto come società di comodo. La società strutturalmente in perdita non per forza “costituisce una forma di utilizzo improprio della strumentazione offerta dal reddito d’impresa e non è certo rilevatrice, a priori, di situazioni di evasione o elusione”318. Inoltre se si considera il fatto che l’art. 24, comma 1, del D.L. 78/2010, ha stabilito che ci sia una “vigilanza sistematica, basata su specifiche analisi di rischi” per le società in perdita fiscale 316 FERRANTI G., La revisione della disciplina delle società di comodo e dei beni in godimento ai soci, cit., pag. 1911. 317 MENEGHETTI P., L’evoluzione della normativa sulle società di comodo, cit., pag. 1522. 318 SBROIAVACCA A., La necessità di valutare le predite alla luce del settore economico d’appartenenza, in STEVANATO D. e SBROIAVACCA A., Società in perdita sistematica e tassazione degli utili inesistenti, una bomba ad orologeria da disinnescare, cit., pag. 502. 124 per più di un periodo d’imposta, si potrebbe prevedere che tale istituto sia sufficiente a contrastare i comportamenti antieconomici ed eliminare l’estensione della normativa ai soggetti in perdita sistematica. Al di là di queste modifiche volte a razionalizzare la disciplina vigente delle società di comodo, il legislatore per riuscire a “colpire” in modo più incisivo il fenomeno dell’abuso dello strumento societario utilizzato per finalità extra-imprenditoriali, dovrebbe effettuare un passo decisivo eliminando interamente la normativa attuale delle società di comodo. Nonostante le “cuciture migliorative” che si possono inserire, rimane una normativa complessa, disorganica ed evidente è la collisione di fondo con il rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza e di capacità contributiva. E’ stato ipotizzato che di fronte all’effettiva mancanza di un’attività economico-produttiva ed all’inesistenza di una reale struttura societaria, indici dell’utilizzo improprio della forma societaria, tali società non genererebbero reddito d’impresa, equiparando il regime delle società di comodo a quello delle persone fisiche, nonostante la loro forma commerciale319. In questo modo verrebbe disconosciuta in primis la deducibilità dei costi, che rappresenta il fatto principe per cui si decide di intestare beni personali alle società e l’imposizione avverrebbe a carico dei soci, attraverso la tassazione progressiva IRPEF. Sempre secondo questa linea si potrebbe inoltre stabilire lo scioglimento agevolato delle società attualmente definite di comodo, come è stato già attuato in passato; tale previsione risulta in linea con il fatto di ricondurre l’intestazione dei beni alle persone fisiche che li utilizzano320. Tuttavia in modo critico ci si pone l’interrogativo su come possano essere considerate inopponibili tali strutture societarie all’Amministrazione Finanziaria e cioè in base a quale criterio verrebbe disconosciuto il regime del reddito d’impresa, se facendo riferimento alla disposizione antielusiva prevista dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, che però si applica ad un elenco tassativo di operazioni, o se utilizzando il principio del divieto dell’abuso di diritto; oltre al fatto che agendo in questa direzione ci si colloca però sempre all’interno della disciplina tributaria. Sembra più opportuno invece focalizzare l’attenzione sul motivo per cui il legislatore ha deciso di porre rimedio alle società “senza impresa” attraverso la disciplina fiscale e non invece affidandosi al diritto commerciale, rappresentando tale fenomeno una violazione civilistica della struttura societaria non costituita per il reale svolgimento di un’attività 319 Così NUSSI M., La disciplina delle società di comodo tra esigenze di incentivazione e rimedi incoerenti, cit., pag.491; FERRANTI G., La revisione della disciplina delle società di comodo e dei beni in godimento ai soci, cit., pag. 1911. 320 FERRANTI G., La revisione della disciplina delle società di comodo e dei beni in godimento ai soci, cit., pag. 1911. 125 economica. L’utilizzo dello strumento fiscale per finalità extrafiscali può essere legittimo a condizione però che l’imposizione colpisca reale indici di capacità contributiva; essa non può risultare una forma espropriativa di tassazione e ed i principi costituzionali devono essere tutelati. Il principio di capacità contributiva espresso dall’art. 53 della Costituzione deve sempre rappresentare il presupposto, il parametro ed il limite per ogni forma di imposizione e questo non si verifica per la normativa delle società di comodo. Il ricorso alla disciplina fiscale per sanzionare una violazione civilistica relativa all’utilizzo distorto delle strutture societarie non rappresenta lo strumento adeguato come deterrente, alla luce del rispetto stesso del principio di capacità contributiva. In modo ancora più drastico si potrebbe pensare di rimuovere dall’origine “il vizio” delle strutture societarie che non svolgono una reale attività economico-produttiva, non solo eliminando l’intera disciplina fiscale ma affidando al diritto commerciale la risoluzione dell’utilizzo delle società quali meri contenitori patrimoniali, prevedendo magari l’inserimento di un’apposita disposizione civilistica che colpisca il fenomeno fin dalla sua nascita. L’auspicio è che il legislatore colga davvero l’occasione fornita dalla delega fiscale per incidere sulla disciplina delle società di comodo, sempre consapevole del fatto che la discrezionalità legislativa non può superare il limite del rispetto di capacità contributiva dell’art. 53 della Costituzione a prescindere dalle necessità di gettito. 126 BIBLIOGRAFIA DOTTRINA AA.VV. Evasione fiscale e repressione penale. 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