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da te mi aspetto - Scuola La Traccia
EDUCARE un rischio un’opportunità Incontri realizzati dalla Scuola Paritaria LA TRACCIA con il Patrocinio del Comune di Merate Media Partner Giornale di Merate – Sponsor Sangiorgio Calzature DA TE MI ASPETTO … Incontro con il Dott. Luigi BALLERINI e con il Prof. Franco VIGANÒ Auditorium del Comune di Merate, 3 dicembre 2014 Dott. Luigi Ballerini Psicoanalista e scrittore Avrei avuto una serie di buoni motivi per rifiutare l’invito che mi è stato fatto a venire qua questa sera; un lungo elenco che mi rendeva ragionevole dire di no. Il motivo per cui ho detto sì è che mi è stato fatto da Paolo Amelio e quindi dalla scuola “La Traccia”, della quale ho profonda stima e con la quale, da anni, ho il piacere di collaborare. Ma è una collaborazione nel senso vero, nel senso che lavoriamo insieme; ogni volta che io mi trovo con loro porto sempre a casa qualche cosa. Primo motivo chi me l’ha chiesto – che fa la differenza – e secondo motivo che, appena mi ha detto il titolo, mi ha messo in moto subito una serie di pensieri. E quando qualcosa mi mette in moto dico di sì. “Da te mi aspetto …”. Subito mi è venuto da dire: guarda che bella, una frase che possiamo leggere nei due sensi. Possiamo leggere “Da te mi aspetto …” detto dal figlio al genitore e “Da te mi aspetto …” detto dal genitore al figlio. E ho detto: va bene, facciamo l’elenco delle aspettative. Vi dico subito che sarebbe stato bellissimo se io fossi riuscito a venire qua dicendo che ci sono i “Da te mi aspetto …” dei figli – ne ho fatto un lungo elenco – e sono tutti buoni; e non sono riuscito a trovare neanche un “Da te mi aspetto …” dei genitori che fosse buono. Guardate, mi sono sforzato tantissimo; è tanto che ci penso, da quando Paolo Amelio mi ha messo in moto. Sarebbe stato bellissimo, anche perché poi parlando con i genitori, so che i genitori si arrabbiano … Sarebbe stato elegante dire che c’è almeno un “Da te mi aspetto …” del genitore che … non l’ho trovato … per cui parto da quelli dei ragazzi, poi vi dirò perché non ho trovato quello dei genitori. I “Da te mi aspetto …” possono cambiare con l’età. Il “Da te mi aspetto …” del più piccolo è “Da te mi aspetto che mi difendi”, “Da te mi aspetto che mi proteggi”. Quando diciamo che il bambino è spericolato e non conosce il pericolo … esempio tipico: il pallone che va in strada e il bambino piccolo che ci corre dietro. Noi guardiamo al bambino e diciamo “È piccolo, non sa ancora che c’è il pericolo”. Guardando tanto i bambini mi sono accorto che questo è un errore di pensiero. Il bambino sa benissimo che c’è il pericolo, ma lui pensa che ci pensa un altro a tirarlo fuori dai guai. E’ sempre successo che, da quando è nato … se sto per cadere mi tieni, se sto ... Per cui posso rincorrere tranquillamente una palla in mezzo alla strada, perché tanto ci sarà qualcuno che pensa a me. Quindi non è vero che non pensa al pericolo, ma pensa che alla sua sicurezza, della sua difesa se ne occupi il grande, da cui – si spera – sia stato trattato bene fino a quel momento. Quindi partiamo dal “Mi aspetto che mi proteggi”, “Mi aspetto che mi difendi” e poi crescendo mi sono chiesto: ma cambiano questi “Da te mi aspetto …”? Nel lungo elenco dei verbi che ho fatto, mi sono accorto che, alla fine, non è che poi cambino tanto. Perché io mi sono messo come verbi: (mi aspetto che) mi proteggi, mi difendi, mi conforti, mi incoraggi, mi sostieni. E’ questo che si aspetta un figlio dal suo genitore. “Mi aspetto che mi proteggi”. Dobbiamo un po’ capire cosa vuol dire questo proteggere, perché sapete che tra i diversi esempi di genitori … la stampa ne è sempre ghiotta, ricca, li promuove e fa bene … abbiamo visto la mamma chioccia, la mamma tigre (vi ricordate quella mamma cinese che aveva legato la figlia al piano per insegnarle a suonare?). Poi sono arrivati i genitori elicottero, che a me piacciono molto – il termine americano è proprio helicoptering … la mamma che il bambino è ai giardinetti e non si mette lì a leggere un libro – cosa che le farebbe un gran bene – è lì, tesa, o in DA TE MI ASPETTO … 1 EDUCARE un rischio un’opportunità Incontri realizzati dalla Scuola Paritaria LA TRACCIA con il Patrocinio del Comune di Merate Media Partner Giornale di Merate – Sponsor Sangiorgio Calzature piedi a fianco allo scivolo o tesa a scattare, non solo se rischia di cadere da quattro metri di altezza, ma anche solo se, quell’altro bambino un po’ più cicciottello osa spingerlo. L’anno scorso avevo saputo – l’ho detto più volte e ho scritto anche un pezzo – che le scuole dello stato di New York hanno vietato un gioco che si chiama Tag me (il Ce l’hai), anzi hanno fatto una policy contact free per l’intervallo, quindi i bambini non si possono toccare, perché sappiamo tutti cosa può succedere se si toccano i bambini … Le scuole di Long Island hanno imposto da un anno di giocare solo con palle morbide a qualsiasi gioco, a qualsiasi età; quindi alle superiori, al college, giocano a basket, a baseball, a football americano, a rugby, a calcio, con delle palle morbide. Immaginate la frustrazione di questi ragazzoni che devono giocare con la palla di spugna. Nella scuola, ovviamente, poi fuori possono fare quello che vogliono. Ma perché? Perché se ti arriva la pallonata stai male. Hanno ritirato dei francobolli su pressione dei genitori, perché questa serie che faceva vedere disegnati gli sport dei bambini, nel francobollo in cui c’era una bambina che faceva la verticale, si sono dimenticati di metterle il caschetto. Come se qualcuno mettesse il caschetto facendo la verticale! Come se i cimiteri avessero delle sezioni intere di bambini morti, perché facevano la verticale senza il caschetto! Schiere di bambini morti con scritto sulla lapide: stavano facendo la verticale senza il caschetto! Ma hanno ritirato la serie e l’hanno dovuta correggere; l’hanno dovuta buttare fuori con il caschetto. Quando dico proteggere, non intendo questo. A parte il fatto che, se noi vediamo il bambino che si è arrampicato su una rete ed è molto in alto, l’unica cosa da non dirgli è “Attento che cadi”, perché verosimilmente cadrà. Se stiamo zitti, come è salito, scende. Poi, se ce la facciamo andiamo a salvarlo, ma il nostro panico non è mai d’aiuto ai bambini. Mai. Non è questo il proteggere. Non è un proteggere dettato dalla paura dell’adulto: paura che gli succeda qualcosa, paura che lo portino via, che si faccia del male, che sparisca. Non è questo il proteggere. Il proteggere è tutelarlo, in modo che lui possa prendere l’iniziativa, possa muoversi, possa agire, possa arrampicarsi … possa farlo anche senza di me, quando è piccolino. Quando è più grande, che possa prendere altre iniziative nel reale, dandogli magari delle indicazioni, vigilando quando serve, ma con un modo di vigilare che non è fare il genitore elicottero. Vanno incoraggiati. “Da te mi aspetto di essere incoraggiato”. Incoraggiare ha sempre più a che fare con il tempo. Ai nostri figli non diamo più tempo. Iniziamo con la materna dove devono imparare a scrivere e a leggere prima di andare alle elementari – io detesto la pre-lettura e la prescrittura, perché … “Devi arrivare sempre prima, così sarai più bravo e fregherai gli altri” … perché il concetto è quello: “Sarai più bravo e prenderai voti più belli, prenderai voti più belli e avrai più successo, avrai più successo e sarai più felice e …” andiamo avanti – ma … non c’è più tempo per niente. Quel bambino adottato – ma ne ho visti tanti – che, arrivato da un paese lontanissimo, con una lingua diversa, i cui caratteri non erano neanche quelli arabi, arrivato qua da tre mesi, passato da un orfanotrofio a una famiglia, passato a una lingua diversa … qua da tre mesi … “C’è il problema che non fa bene il dettato”. Ma perché dovrebbe far bene il dettato, un bambino così? Noi ci impacciamo se ci cambiano appena il programma! “Non è che ha qualcosa?” Il sospetto del genitore. Diamogli tempo … i bambini hanno bisogno di tempo. Il tempo è individuale. Per questo serve una scuola che sappia dare tempo ai bambini, che sappia rispettare i loro tempi di apprendimento, visto che abbiamo parlato di apprendimento. La fregatura dell’edutainment (neologismo nato dalla fusione di educational e entertainment) … che vuol dire “Ti frego mentre giochi”: ti faccio fare il giochino didattico così impari l’inglese. Ti frego, perché tu con “ cow fa muuu” pensi di divertirti, invece … “Arriverai prima degli altri, perché finalmente tu saprai che cow vuol dire mucca”. L’edutainment è una fregatura per i bambini, perché sottrai loro il gioco. Gioco che è per natura libero, è per natura creativo, è per natura fine a DA TE MI ASPETTO … 2 EDUCARE un rischio un’opportunità Incontri realizzati dalla Scuola Paritaria LA TRACCIA con il Patrocinio del Comune di Merate Media Partner Giornale di Merate – Sponsor Sangiorgio Calzature se stesso. Il bambino è serissimo con il gioco. A volte non troviamo un adulto serio con il suo lavoro, come un bambino con il suo gioco. E’ lì tutto intento e lo scopo del gioco è giocare. Non imparare. Non è imparare l’inglese mentre giochi. La fregatura dei bambini è quando sono stati inventati i giocattoli, perché io stesso – che non sono un dinosauro, ho una certa età, ma non sono un dinosauro – i giochi che più mi piacevano erano i giochi di un remoto tempo in cui, in campagna – io detesto la campagna, non sono un bucolico, io adoro il cemento, in campagna stavo chiuso in casa … non c’è nulla di bucolico – ma in campagna c’era una sarta, c’era una zia e c’era un falegname. Tutti nello stesso posto. Allora, dalla sarta io raccoglievo tutti i ritagli delle sue pezze; dalla zia raccoglievo i ritagli di pasta; e dal falegname raccoglievo i legnetti e anche i trucioli. Io non ho mai giocato tanto, quanto con questi, che sono i materiali di risulta. Ai bambini piace tantissimo giocare con i materiali di risulta degli adulti. E’ un gioco estremamente sofisticato per loro, perché nelle mie mani quei pezzi di stoffa e di pasta diventavano delle cose incredibili. Poi, mi regalarono una macchinina bellissima che si muoveva e aveva le lucine, molto molto bella, però devo dire che i miei bei pezzi di pasta mancavano. Poi, forse per quello, mi è piaciuto poi imparare a cucinare bene. Per dire … incoraggiarli vuol dire tener presente il tempo e tener presente che non possiamo … “Vedi come sei … te l’avevo detto che sei così …”. Incoraggiarli vuol dire incoraggiare la loro iniziativa. Un bambino ha deciso di prendere contatti con un bambino straniero, di diventare suo amico. La mamma gli chiede: “Ma a te cosa interessa diventare amico di quel bambino?”. Il figlio era incuriosito dalla lingua che parlava, che non era l’italiano, e voleva impararla. Per cui, questa qua gli continuava a regalare gli edutainment, i dvd della Disney “perché così impari” e poi abbiamo un apprendimento live con un altro bambino che diventa preferito e gli chiede: “Ma che cosa ti interessa?”. “Cosa ti interessa?” vuol dire tagliare le gambe all’iniziativa, all’intrapresa, alla voglia di fare, alla voglia di scoprire. Incoraggiare vuol dire incoraggiare il loro moto, incoraggiare il loro muoversi. Non diciamo “Te l’avevo detto”. Se io vedo un’emergenza a scuola, c’è; ma l’emergenza a scuola, la vedo a casa, più che a scuola. E’ tutta settimana che vedo genitori che vengono a parlarmi, angosciati, dei compiti. E mi descrivono serate infernali, in casa, per i compiti. Cene rovinate, magoni, porte sbattute … e poi, mano mano si diventa grandi, calci sulla porta, porte divelte, zaini rotti, scoppi di rabbia … per cosa? Per i compiti. Perché non li fa, perché non c’ha voglia, perché non … perché … E la questione allora è: ma perché? Non esiste difficoltà scolastica che nasca a scuola, a meno che non ci sia un problema cognitivo. Le difficoltà scolastiche nascono altrove, nascono nella vita. La scuola è un punto di arrivo, un punto di applicazione. Allora, non sarà insistendo su quello. Si collabora con la scuola e si cerca di capire che cosa fa star bene questo ragazzo, questa ragazza. Non sarà l’insistenza sui compiti. Un’insistenza poi di questo tipo, che chiude; che poi accade che quando diventano un po’ più grandi, mi dicono: “Ai miei non interessa niente di me, vogliono solo sapere se ho fatto i compiti”. E’ un giudizio forte. Che poi magari non è vero, però è quello che arriva a loro. L’unica cosa che gli chiedi è “Come sta andando?”, intendendo “Come sta andando la scuola?”, non “Come sta andando … la tua vita, come sta andando … i tuoi amici, come sta andando … i desideri che hai, come sta andando … che ti piacerebbe essere più bravo a basket, come sta andando … che ti hanno detto che il taglio di capelli che ti sei fatto fa schifo, come sta andando … che Martina inizia ad interessarti in un modo un po’ speciale, come sta andando … che mi hanno preso in giro, come sta andando … ?”. Allora, incoraggiarli è anche proprio incoraggiare il loro moto e aprire lo sguardo, perché la scuola è un aspetto, ma poi c’è la vita. Ed è la vita che deve andare bene. E quando va bene la vita, va bene la scuola. Non è che va bene la vita quando va bene la scuola, è il DA TE MI ASPETTO … 3 EDUCARE un rischio un’opportunità Incontri realizzati dalla Scuola Paritaria LA TRACCIA con il Patrocinio del Comune di Merate Media Partner Giornale di Merate – Sponsor Sangiorgio Calzature contrario. La scuola andrà bene quando inizia ad andare bene la vita. Ancora una volta, avere una scuola che si preoccupi che vada bene la vita non è scontato. Quanti altri “Da te mi aspetto …” … ce ne sono tantissimi detti dai figli, dai ragazzi, ma tutti, tutti, ci potrebbero dire “Da te mi aspetto di diventare tuo erede”. E’ questo che fa mio figlio figlio: il concetto di eredità. Che non è solamente un’eredità materiale, ovviamente. Ma il figlio è caratterizzato dall’essere erede. Con “Voglio essere tuo erede” voglio dire che “Ciò che è tuo voglio che sia mio, ossia che sia a mia disposizione”. Proprio oggi ho visto questo padre che mi ha detto: “Mio figlio ci ruba i soldi in casa”. Io l’ho subito fermato e gli ho detto qualcosa che sapevo che non avrebbe capito, l’avrebbe un po’ irritato, ma non importa … gli ho detto: “I figli non rubano mai i soldi in casa. Ha preso qualcosa che era suo … Non entriamo nella logica che ruba in casa”. Un padre dice: “Quello che è mio è tuo”. Il padre avaro è quello che ho incontrato un po’ di anni fa in questa forma – poi l’ho incontrato in tante altre forme: quando lui è sul tavolo della cucina, apre il giornale e non può starci nessun altro, perché lui deve leggere il giornale in pace. Questo è un padre avaro, i cui averi non sono messi a disposizione. Pensate a come è bello, per un ragazzo, potersi sedere anche lui allo stesso tavolo e leggere anche lui qualcosa. Sarebbe la condivisione di un momento di piacere comune, senza l’obbligo di fare insieme la stessa cosa. Sarebbe fare insieme, senza fare la stessa cosa. E questo padre glielo nega. Essere eredi vuol dire essere figli. Noi possiamo trasmettere solo quello che abbiamo, non possiamo fingere, perché ci sgamano subito, basta pochissimo. “Tu dici così, ma poi …”. A noi da un fastidio tremendo, ma hanno ragione loro. Trattare mio figlio da erede vuol dire che proverò a non trasmettergli, a non fargli ereditare l’idea che il lavoro è una maledizione. Perché noi che contraddizione abbiamo? “Devi studiare, devi essere serio, serio con i tuoi impegni, con quello che ti è chiesto … poi a seconda del … del pezzo di realtà a cui devi aderire …”. Diciamo delle cose che non capiscono. Ma cosa vorrà dire sta roba qua? “… quel pezzo di realtà …”. Io dico al ragazzo: “Prova a chiedere bene a papà che cosa intendeva, perché a volte ripete una formula; prova a costringerlo, perché serve anche a lui che capisca cosa sta dicendo”. A volte noi parliamo loro, però non è il discorso che trasmetto, ma sarà il fatto che se io parlerò del mio lavoro come di una maledizione, che la mattina andare a lavorare è peggio che andare dal dentista a togliere un dente del giudizio, poi mi dicono: “Ma perché io devo studiare?”. Non è che dobbiamo essere coerenti – dobbiamo stare attenti sulla coerenza: Hitler è stato uno dei più coerenti della storia … ha avuto un’idea … coerentissimo – la coerenza astratta non è mai una virtù. La questione è che noi possiamo trasmettere quello che siamo e quello che abbiamo. Allora, trattare mio figlio da erede vorrà dire che sa che io sono lì, non solo per lui; sono lì per le mie cose, son lì per la mia vita, son lì per mia moglie o per mio marito – se siamo ancora insieme e non è scontato – sono lì per il mio lavoro e sono lì anche per lui o per lei. Potrei andare avanti con i “Da te mi aspetto…”, sono tantissimi, ma questi sono quelli che mi interessano di più. Poi mi sono chiesto … il genitore che dice al figlio “Da te mi aspetto X” … qualsiasi contenuto io ho provato a dare alla “X”, mi veniva da star male. Perché dicevo: “Da te mi aspetto … che fai il bravo”, “… che vai bene a scuola”, “… che hai successo”, persino “… che sei felice”. Persino “… che sei felice” è una violenza! Perché ho in testa io come sarai felice. Quindi, o sarai felice come intendo io o la tua non sarà felicità. Noi parliamo della libertà dei ragazzi, però i ragazzi hanno solo la libertà di fare quello che abbiamo in testa noi. L’unica libertà che a volte concediamo è di fare esattamente ciò che noi abbiamo già deciso per loro. Per cui è una libertà vigilata, che concediamo loro. DA TE MI ASPETTO … 4 EDUCARE un rischio un’opportunità Incontri realizzati dalla Scuola Paritaria LA TRACCIA con il Patrocinio del Comune di Merate Media Partner Giornale di Merate – Sponsor Sangiorgio Calzature Qualsiasi contenuto io metta a questa “X” mi suona sempre come una pretesa, mi suona come un’aspettativa rispetto alla quale arriverà prima o poi quel siluro che è meglio non lanciare mai troppo spesso ai figli – è meglio non lanciarlo mai, ma soprattutto troppo spesso – quel siluro che è il “Mi hai deluso”. Dal “Da te mi aspetto X” inesorabilmente arriverà il siluro “Mi hai deluso”, perché non sarà mai come ce l’aspettiamo. Sarà molto di più, ma noi non ce ne accorgeremo, perché saremo fissati sul fatto che … Consultazione di oggi. Genitori preoccupatissimi per un ragazzo di terza media, che va male a scuola. Ingegnosissimo, grande lettore (io che sono uno scrittore, appena sento di un ragazzo lettore per me va già bene … guardate che leggere, per me, è un segnale di salute psichica; intendo dire che un adulto che non sta bene, quando mi dice che riprende a leggere è un segno che inizia a star bene, perché leggere vuol dire fare i conti con un altro; è un altro di carta, ma leggere vuol dire fare i conti con un altro, ossia entrare in rapporto). Quindi, un ragazzo che legge, con gusto, senza che sia una maledizione; è ingegnoso, costruisce delle cose; oscilla ancora tra infanzia e età adulta, per cui si concede anche giochi infantili o guarda dei cartoni che non mi aspetto da uno di terza media. Non riuscivo a capire dov’era il problema. Non riuscivo. Poi mi sono proprio detto: questi genitori non riescono a vedere altro che il parziale insuccesso scolastico. Parziale, perché va bene quasi in tutto, ma ci sono due o tre materie in cui ha quattro. “Un quattro è gravissimo”. “Sì, è gravissimo, ma siamo a dicembre, è in ritardo su alcune materie, dovremo capire cosa succede, dovremo capire come aiutarlo”. Ma capite com’è diverso guardare alla totalità di questo ragazzo e dire: ha degli amici, fa sport, legge, guarda cose interessanti alla televisione, è creativo … E’ proprio solo una miopia che ci può far dire “C’è un problema grave nella nostra famiglia”. Ma perché? Perché c’è il “Da te mi aspetto …”. Quasi tutti i genitori hanno delle aspettative buone … Non dobbiamo neanche mitizzare il genitore: ci sono dei pessimi genitori. Se a uno sono capitati dei pessimi genitori farà i conti con questo, ma se la può cavare lo stesso. L’educazione è rischiosa, perché può anche andare male. L’educazione non è una parola magica che noi possiamo spendere … perché può anche essere un’educazione alla violenza, un’educazione verso certe teorie. Per cui non è l’educazione una parola magica e dobbiamo stare attenti, perché in certi ambienti ci sono delle educazioni tremende che vengono fatte ai ragazzi, che sono indottrinamenti. Io mi sono sforzato di cercare … persino “Da te mi aspetto che sei felice” … La felicità non può essere comandata. La felicità è una storia individuale. Allora mi son detto “Mi piacerebbe che … tu fossi felice”. Ma “Mi piacerebbe che tu fossi felice” vuol dire “Mi piacerebbe che tu riuscissi a trovare la tua strada”, ossia la strada che con l’educazione che io ti ho dato, con il bagaglio che ti ho regalato e rispetto al quale tu dovrai iniziare a bazzicare un po’ dentro e decidere cosa va bene e cosa va male … perché noi non abbiamo preso tutto dai nostri genitori. Se siamo stati bravi, certe cose le abbiamo prese e certe le abbiamo scartate. Certe idee di mio padre e di mia madre erano assolutamente da scartare, certe altre prendibilissime. Allora, anche i nostri figli dovranno fare questo. Allora a noi tocca riempire questo zaino con le cose più buone che pensiamo. Poi dobbiamo aspettarci che sarà lui che, in compagnia, magari di altri adulti, non necessariamente solo noi – ed è qua che interviene la scuola, intervengono altre realtà educative, anche realtà associative, anche lo sport (pensate un bravo allenatore di una squadra quanto può essere importante, quanto può diventare un punto di riferimento) … Allora, noi assieme ad altri adulti affidabili – perché bisogna anche lavorare sul giudizio di affidabilità dell’adulto – possiamo fornire questo, che poi il ragazzo o la ragazza inizierà a praticare e a capire se va bene per lui/lei, in che modalità e in che tempi. Per cui, per concludere, ho una lunghissima lista, che ho fatto molto breve, di “Da te mi aspetto …”, che è legittimo che i nostri figli ci dicano – domande, non pretese, ma domande – questo è corretto. DA TE MI ASPETTO … 5 EDUCARE un rischio un’opportunità Incontri realizzati dalla Scuola Paritaria LA TRACCIA con il Patrocinio del Comune di Merate Media Partner Giornale di Merate – Sponsor Sangiorgio Calzature Se mi chiedete quale è il “Da te mi aspetto …” detto dal genitore rispetto al figlio che gli faccia davvero bene, io proprio non sono riuscito a trovarlo. Non so, chiamatela gratuità, sarà questo? Non lo so, me lo pongo come questione. Sarà questa la gratuità: fare qualcosa senza aspettarsi niente? Può darsi. E’ una provocazione che lancio a me stesso. Quando dico che questo titolo mi ha messo in moto, è perché è da un po’ che sto dicendo: cosa vorrà dire gratuità per un genitore? Forse la risposta parziale a cui sono arrivato in questi giorni è: potrebbe anche voler dire “Io ti metto a disposizione ciò che è mio, quindi i miei soldi, ma anche i miei pensieri, le cose in cui credo, i miei affetti, il mio affetto per te … te lo metto tutto a disposizione, ma non ti chiedo niente. Ti chiedo solo di essere serio con questo”. Ecco, forse “Ti chiedo di essere serio”. Vuol dire che rilancio e a un certo punto dico: “Fa tu! Sei tu che devi fare.” Il “Fa tu!” diventa tanto più grande quanto più l’età cresce. Ma c’è un “Fa tu!” che può partire anche dal bambino, che è “Prova a muoverti tu”. Ecco, allora io ti investo di questa facoltà. E la facoltà di cui li investiremo sarà una facoltà che li renderà grandi e li aiuterà poi ad affrontare le questioni importanti della vita. Per concludere, oggi ero in una scuola superiore fuori Milano, abbiamo fatto un laboratorio di scrittura. Ho dato come incipit di un testo che dovevano scrivere, l’incipit del mio ultimo libro, che si intitola “Click”: “C’è chi dice che gli anni peggiori della propria vita sono quelli delle medie. Si vede che non è ancora in seconda superiore.” Erano di seconda superiore questi ragazzi e mi hanno raccontato delle medie. È incredibile quello che hanno raccontato. Io mi dicevo: ma a casa sapranno della ricchezza di questo loro diventare grandi, dei desideri, delle aspettative? Lo sapranno? Speriamo di sì, perché perdersi questa è perdersi un’occasione grandissima e le sfide che loro hanno, ma fin da piccoli, non sono meno sfide delle nostre. Non è che perché poi si diventa grandi … I grandi amori che ci sono alle elementari – che sono veri, grandissimi amori – noi ci permettiamo di snobbarli, perché non hanno la componente sessuale. Li snobbiamo per quello, ma a loro non interessa ancora la componente sessuale, non si sono ancora sviluppati! Ma il trasporto che si può provare per una bambina o per un bambino alle elementari è intensissimo. Allora il rispetto è: non fare la battuta sul “C’hai il fidanzatino?”. Perché questo è l’adulto che svilisce. E invece li ascolto, li guardo e mi stupisco per quanto son capaci di amare alle elementari. E mi verrebbe da dire: magari ne fossi capace anch’io, adesso che ho cinquant’anni. Prof. Franco Viganò Presidente del Comitato Scientifico dell’Istituto Scolastico Don Gnocchi di Carate Brianza Quanto ho ascoltato e quanto avete ascoltato, per questa sera è sufficiente. E’ sufficiente, lo dico molto seriamente, perché aggiungere complicherebbe e tirerebbe via dal bersaglio semplice. Mi permetto solo una chiosa a quanto ho ascoltato. La formulazione è stata chiara e semplice, dal punto di vista di noi adulti. Ho preso gli appunti: qualsiasi “Da te mi aspetto …”, qualsiasi contenuto metto a questa “X” si genera sicuramente una pretesa. Questa è un’affermazione di una verità e di una profondità, per la mia esperienza, straordinaria, perché il giovane, mio alunno, non è chiamato ad essere quello che io mi aspetto da lui. Non è chiamato ad essere questo, per cui qualunque aspettativa io definisco, esercito una violenza. Ho dimostrato che l’ho ascoltato. Non ho fatto nient’altro. Ma la chiosa è questa: che come criterio di giudizio di azione ci è stata detta una cosa estremamente complessa. Provate ad applicare questa affermazione passo passo alle circostanze. Non è così semplice. Sono stati fatti tanti esempi e questo ci aiuta. Ma non è così semplice. Allora, adesso c’è da lavorarci sopra. Adesso bisogna che papà e mamma vadano a casa e discutano di quello che hanno sentito: cosa implica, cosa dobbiamo cambiare … E occorre che ci si trovi a bere il caffè, se ne parli. DA TE MI ASPETTO … 6 EDUCARE un rischio un’opportunità Incontri realizzati dalla Scuola Paritaria LA TRACCIA con il Patrocinio del Comune di Merate Media Partner Giornale di Merate – Sponsor Sangiorgio Calzature La gioia più grande che mi danno i miei alunni è questa: quando si trovano dopo pranzo, al pomeriggio, e discutono tra loro di questioni per loro importanti, per loro interessanti. C’è un pudore complicato in un giovane, per cui, come dicono loro, scusate il termine, “Con gli amici si cazzeggia”, cioè con gli amici si mettono sempre avanti le cose banali, superficiali. Quando cominciano a mettere in comune le cose che importano e discutono in un gruppetto di cinque o sei di cose che io so che hanno a cuore, io passo, tendo l’orecchio, li sento e dico “Ci siamo!”. E’ partito qualcosa di serio. Ma questo succede anche a noi adulti. Allora mi permetto, da vecchio che sono, di dare un semplice suggerimento. Questa questione ascoltata deve diventare oggetto di un confronto, di un aiuto, di un giudizio, così diventa nostra in modo non superficiale. Infatti, si sono fatti tanti studi per arrivare a dire questo. Io faccio un breve intervento, da insegnante … “una vita nella scuola” … così sono stato presentato … perdonami Paolo, tipica affermazione da epitaffio. Però io sono quaranta anni e rotti che lavoro nella scuola … veramente un’enormità. Io vorrei dirvi, non so, quel che racconterò a mia moglie stasera se è ancora sveglia quando andrò a casa e mi dirà “Com’è andata?” e io le dico le cose che mi ha suscitato, che mi ha fatto venire in mente. Cioè voglio darle un disegno di inizio di un dialogo e di un confronto, perché se si ascolta una questione interessante, perdonatemi l’insistenza (ho qua gli appunti, dovevo dire tutt’altro, ma reagisco a quello che ho ascoltato), si dice: “Che giusto! Che bello!” e poi con la moglie e il marito e gli amici si parla di tutt’altro, non entra in relazione con chi ci accompagna nella vita, è già persa. Racconto due episodi, che documentano, mi sembra, il valore e la profondità di quanto ascoltato. Due episodi da insegnante. Consiglio di classe, tanti anni fa. Si parla di un ragazzino di prima. Complicato, bloccato, frenato. Capita ai ragazzini di prima superiore, quattordici anni, di essere complicati e frenati. Ma questo tantissimo. Un ragazzino talmente sveglio e intelligente, ma che di fronte alla prova e alla difficoltà ha paura della sua ombra. Si discute tra gli insegnanti. Non se ne viene a capo. Io dirigo, facevo già il preside e dico: “Pazienza, abbiamo messo a fuoco il problema, adesso, senza fretta, osserviamo, bisogna capire da dove viene, cosa fare”. Passa il tempo, finché un giorno un giovane collega, che sapevamo essere quello che stava più simpatico a questo ragazzino, mi porta una lettera che gli ha consegnato il ragazzo dicendogli: “Professore, l’ho scritta per lei, ho delle cose da dirle”. Il professore gli dice: “Ma davvero hai scritto una lettera per me?”. Non è normale che un ragazzo di quattordici anni scriva una lettera; lo può fare una ragazzina un po’ sentimentale, ma un maschietto … Il professore insiste un po’; insomma, dietro la decisione di scrivere questa lettera c’era stata l’insistenza della mamma. Me la fa leggere. In breve dice alcune cose e la conclusione è agghiacciante: “… le garantisco, caro professore, che mi impegnerò a studiare e andar bene a scuola, per fare contenta mia mamma”. Ho detto: “Ci siamo, ho capito tutto!”. Perché, al ragazzo è riservata la fatica e lo scopo quale è? Far contenta la mamma. Alla mamma è riservato essere contenta. Se un ragazzo non studia per essere contento lui, non ha l’orizzonte di essere contento lui, cioè non risponde a una sua aspettativa, lo studio inevitabilmente è fatica e peso. Per studiare ci vuole la fatica, ma lo scopo non è fare fatica, lo scopo è essere contenti. Allora, da lì abbiamo cominciato a lavorarci su, ho letto sta lettera con la mamma … Secondo episodio. Questo invece era proprio un mio alunno. Insegnavo italiano. Un ragazzo molto fragile psicologicamente, non la faccio lunga, con vicende difficili e una fragilità affettiva notevolissima. Cacciato da una scuola con tutti tre e quattro. Fragile psicologicamente e anche debole intellettivamente, però un ragazzo che ci dava dentro, serio, interessante. E’ arrivato, mi pare in quarta, io gli stavo dietro parecchio, come è giusto fare con un ragazzo che ha più difficoltà di altri. E vedevo che questo ragazzo mi si stava affezionando tantissimo, dipendeva tantissimo da quello che io dicevo, da quello che io gli suggerivo. Ciò per un insegnante è positivo, perché vuol DA TE MI ASPETTO … 7 EDUCARE un rischio un’opportunità Incontri realizzati dalla Scuola Paritaria LA TRACCIA con il Patrocinio del Comune di Merate Media Partner Giornale di Merate – Sponsor Sangiorgio Calzature dire che aveva trovato un punto di riferimento affettivo, un punto di certezza (aveva diciotto anni). E’ positivo, ma bisogna starci molto attenti, perché può essere anche molto rischioso perché sposta il problema fuori di noi: si vedeva che si impegnava a scuola per me. Il sottinteso di un alunno dedito al suo insegnante non mi è mai piaciuto: un insegnante deve dare sicurezza, ma appunto non deve essere il termine del suo impegno. Sto ragazzo faceva fatica in italiano. Io quando lo interrogavo facevo interrogazioni molto soft, prudenti, senza chiedergli troppo, perché se no lo ammazzavo. E dopo le mie interrogazioni prudenti usciva sempre il sei: aveva studiato, si era impegnato, sapeva un po’ poco, però le mie domandine, adeguate a lui … Dopo qualche mese vedevo che in classe interveniva di più, con più sicurezza, vedevo che cominciava a prenderci, dopo un po’ di mesi di lavoro in italiano, in letteratura, forse aveva trovato un autore che gli sfagiolava di più. Tocca a lui l’interrogazione e penso tra me e me: “Stavolta rischio: gli faccio domande più toste”, anche perché lui si accorgeva che gli facevo le domande prudenti e questo non lo gratificava. “Oggi provo, gli faccio domande più …”. Un disastro! Non se la cava e alla fine devo dargli quattro, perché se no lo offendo. Vedo la faccia disperata, cerco di prenderlo in giro, ma se ne va. Insomma, dopo tre ore mi telefona la mamma: è uscito di scuola, è salito in macchina … cento metri … ha preso il palo, ha distrutto la macchina e non si è fatto niente. Lo vedo la mattina dopo, gli vado incontro deciso e gli dico: “Giovanni, ma sei proprio un cretino, devi andare a impastarti per un quattro preso? Sai io quanti ne ho presi?”. Mi guarda serio e mi dice: “Non è per il quattro, ma professore è per il dispiacere che le ho dato”. E lì ho capito in un attimo che era un punto decisivo e che non potevo più accettare questa posizione. Allora ho rischiato e gli ho detto: “Oh Giovanni, ma che dispiacere credi di avermi dato? Dopo tre minuti io mi ero già dimenticato del voto che ti avevo dato”. E’ sbiancato, c’è rimasto malissimo. Però dovevo farlo, perché era inaccettabile, per me insegnante, che lui studiasse per dar soddisfazione a me. Poi ci ho pensato, dopo tre ore l’ho cercato e gli ho detto: “Giovanni, ti spiego. Tu ti sei accorto che ti ho sempre fatto interrogazioni un po’ leggere …”, “Sì”, “E capisci anche perché …”, “Sì, perché io faccio fatica nella sua materia”, “Bravo, hai capito tutto. Ti sei accorto che è un po’ di volte che ci prendi di più in classe?”, “Sì”, “E allora ho provato a farti un’interrogazione più difficile … si vede che ho tirato troppo sul livello e non ci sei arrivato. Quale è la conclusione? Che hai confermato il livello di prima. Cioè, il problema non è che hai preso sei o quattro, ma cosa io volevo andare ad appurare e che lo condividiamo. Ti ho detto che mi sono dimenticato dopo tre minuti, non perché non me ne frega niente di te, sia chiaro, ma perché per me non è decisivo questo fattore”. Allora, da quella volta è cominciato con questo ragazzo un rapporto meno dipendente e più maturo. E questa questione poi, invecchiando, facendo di fatto l’insegnante degli insegnanti, ho imparato a curarla tantissimo. Io ero preside di settanta insegnanti. E il mestiere del preside sta non nell’insegnare il mestiere agli insegnanti nel senso “siediti lì che ti spiego come si fa”, per carità … ma di aiutarli a essere consapevoli, di guidare gli incontri collegiali, di ragionarci sopra. Io sono convinto di questo: gli insegnanti più pericolosi, quelli di cui ho paura, sono quelli che cercano la gratificazione dei ragazzi, che sono contenti se i ragazzi dicono “Professore, che bravo, che belle cose ci spiega” e se invece gli arriva qualche moccolo ci restano male. A parte che io sono convintissimo che un professore serio qualche moccolo deve pur riceverlo, se no non è un professore serio. Un professore chiede una fatica, un lavoro. Ma se uno fa il mio mestiere avendo a cuore la propria gratificazione, inevitabilmente definisce ciò che si aspetta dai ragazzi: essere gratificato. Questa dinamica di mettere le “X” sulle aspettative, cioè questa dinamica per cui la questione decisiva di un adulto di fronte a un giovane è se lo aiuta a diventare se stesso, a realizzare le sue risorse, le sue aspettative oppure si pone come suo traguardo, la scuola può fare molto male e molto bene. Di questo sono certissimo. E’ una questione assolutamente seria. DA TE MI ASPETTO … 8 EDUCARE un rischio un’opportunità Incontri realizzati dalla Scuola Paritaria LA TRACCIA con il Patrocinio del Comune di Merate Media Partner Giornale di Merate – Sponsor Sangiorgio Calzature La scuola può fare molto male quando risponde a questo schema – tenete conto che io ho settant’anni e ho sempre lavorato nelle medie superiori, per cui le immagini che do, l’esperienza che ho è tipica dei ragazzi dai quindici ai diciotto anni; sulle elementari ci vorrebbero sfumature diverse … ma uno parla di quello che sa e di quello che ha vissuto … La scuola fa molto male sulla questione che abbiamo ascoltato, quando si pone in questo modo: ci sono delle cose da sapere e delle cose da saper fare. Il ragazzo va bene a scuola quando apprende in modo adeguato le cose da sapere o quando sa fare in modo adeguato le cose da saper fare. Pensateci un attimo. Questa definizione che ho dato della scuola è la definizione dominante nell’immaginario della gran maggioranza dei genitori e degli insegnanti. Si possono fare dei gran bei discorsi, ma la gran maggioranza pensa che il problema sia questo: che per un ragazzo il problema di imparare di matematica o di storia o di filosofia sia di impadronirsi di un sapere già saputo. L’insegnante va in classe e spiega e cosa deve fare il ragazzo? Saper rispiegare bene quel che l’insegnante ha spiegato; oppure l’insegnante va in classe e dice: “Oggi vi faccio vedere come funziona un’equazione di secondo grado”; il ragazzo deve imparare a far funzionar bene l’equazione di secondo grado. Cioè, nel campo conoscitivo, che è quello proprio di una scuola, l’aspettativa è già definita nel dettaglio e questo schiaccia i ragazzi. Sia chiaro, non sto attaccando il banale nozionismo. Le cose da sapere possono essere anche profonde e complesse, importantissime; possono essere la data di una battaglia e possono essere la critica della ragion pura di Kant. Ma se è già definito ciò che mi aspetto che il ragazzo sappia, è già definito che il ragazzo non sviluppa quello che lui è. Il professore, quello che comunica, sul libro di testo si va a trovare; adesso la scuola è molto sofisticata e online si trovano tante cose, ma la questione è sempre all’interno di un percorso già definito. Io l’ho capito dopo, crescendo, diventando uomo. Io ho finito il liceo classico che non ne potevo più, la scuola era noiosissima. Era noiosissima per una ragione sola, che era già definito il percorso che dovevo fare. Dico velocemente invece alcune cose di come può essere una scuola che non definisca a livello conoscitivo il punto d’arrivo del ragazzo. Faccio alcuni flash. Lo dico secondo la mia sensibilità, senza nessuna pretesa di definire nulla, solo cercando di dire un po’ come io l’ho imparata (io ho imparato innanzitutto da studente, perché poi ho fatto l’insegnante sempre sviluppando le cose che avevo capito da studente o meglio che avevo vissuto da studente e che poi ho capito). Della mia vicenda delle elementari mi ricordo che andare a scuola mi piaceva, ero bravo, prendevo bei voti, la cosa mi gratificava … una bella esperienza. Però in quinta elementare è arrivata una maestra incredibile, che mi ha fatto amare tantissimo la scuola. Sto parlando di me non di qualunque alunno. Io ero un ragazzino introverso, molto chiuso, molto timido, molto curioso. Questa maestra, Rachele Margutti, mi ricordo, facevo la quinta elementare, ma me la ricordo benissimo, faceva una cosa semplicissima: ci raccontava. Chissà perché, ma nel mio ricordo qualunque cosa ci spiegava lei raccontava. Mi ricordo come se fosse ieri la mattina che ci ha raccontato “I promessi sposi”. Io ricordo ancora le cose che ci ha raccontato de “I promessi sposi”. Ma anche se parlava di storia, di geografia era sempre un racconto. E questo racconto mi spalancava al mondo, mi faceva sentire grande, mi incuriosiva e non definiva un bel nulla, mi spingeva ad andare avanti. C’era l’enciclopedia a casa mia e andavo a casa il pomeriggio, non facevo i compiti e non studiavo le lezioni, però andavo a cercare sull’enciclopedia di più di quel che aveva raccontato e quando mi interrogava mi dava nove. Come dire, mi ha fatto amare la scuola, perché andare a scuola rispondeva profondamente a un’esigenza che io a quell’età avevo. Era un’esigenza assolutamente aperta, non definita. DA TE MI ASPETTO … 9 EDUCARE un rischio un’opportunità Incontri realizzati dalla Scuola Paritaria LA TRACCIA con il Patrocinio del Comune di Merate Media Partner Giornale di Merate – Sponsor Sangiorgio Calzature Poi sono andato alle medie. Probabilmente perché ero timido, introverso e non avevo amici, studiavo tanto ed ero additato a esempio di ottimo studente … otto, nove, dieci. Ero contento di andare bene. In terza media è arrivato il secondo – li ho già finiti, ne ho avuti due di grandi insegnanti – l’insegnante di lettere, di italiano, Angelo Malinverno – dico i nomi per farvi vedere che i grandi maestri ti si imprimono nel cuore. Questo, caso strano, raccontava molto anche lui. Leggeva, ci ha letto tanta poesia, ma c’era una cosa in più: che mi chiedeva in modo insistente non cosa ne pensavo, ma cosa dicevano a me quelle cose lì. Era un continuo riportarle a me. Mi piaceva Foscolo, non voleva sapere da me quel che aveva detto Foscolo, ma voleva sapere quel che aveva provocato in me Foscolo. Questo mi metteva in difficoltà, ma mi apriva un nuovo mondo. Sono un po’ schematico, però è stato così davvero: la maestra delle elementari mi ha aperto il mondo esterno, questo ha cominciato a aprirmi il mio interno, a farmi conoscere me. Mi ricordo – indimenticabile – quando mio papà e mia mamma discutevano fra di loro, intuivo che parlavano di noi figli, io andavo a spiare e mi ricordo mio papà che diceva a mia mamma, scontento di questo insegnante: “Eh, lo so io come va a finire: lo farà diventare un saputello, vuol sempre sapere quel che dice lui”. Mio papà si difendeva da questo e invece mi ha fatto un bene enorme. Poi sono andato al liceo. Ero sempre bravo, prendevo bei voti, ma mi pesava sempre di più, perché più nessuno mi chiedeva … Ho cominciato ad accorgermi consapevolmente che sta scuola mi stava stretta, fino a che, indimenticabile, in terza classico – allora si chiamava prima classico – mi è scoppiata addosso. Ricordo due episodi. Una delle prime ore con la professoressa di scienze, una materia che iniziava al terzo anno. Spiega l’atomo. Adesso tutti i ragazzini sanno cos’è l’atomo. Io sono vecchissimo, se ne parlava poco. Per la prima volta in vita mia sentivo parlare dell’atomo e la ascoltavo rapito. Questa storia che c’era il nucleo, gli elettroni che girano, tutto un gran movimento, mi incuriosiva tantissimo. Ricordo benissimo che finisce la spiegazione, io ci penso un attimo e alzo la mano: “Professoressa, ma proprio tutta tutta la materia è fatta di atomi?”. Mi guarda e mi dice: “Sì, tutta”. Ci penso un attimo, rialzo la mano e dico: “Io non ci credo”. Ero abbastanza ancora timido e impacciato, però proprio non ci credevo. Mi guarda un po’ stupita e dice: “Perché non ci credi?”. Allora io indico la parete e dico: “Vede, questa è materia. Se fosse fatta tutta di tanti pallini con gli elettroni che gli girano intorno, tutti tutti che si muovono, io la vedrei muovere, invece la vedo ferma”. Ha avuto una reazione irosa, il tono era “Come ti permetti”, non ricordo le parole; comunque, con fare sprezzante, mi ha dato una spiegazione che allora mi sembrò stupidissima, poi chiesi conferma ad esperti di chimica e mi confermarono che era stupidissima. Perché mi ha detto: “Perché gli atomi sono piccolissimi”. E io le ho risposto: “Sì, ma tanti piccoli uniti fanno un grande … se tutto si muove ci deve avere qualcosa che si muove”. Ha chiuso lì. Certamente la mia obiezione, la mia domanda era ingenua. Un bravo insegnante mi avrebbe valorizzato tantissimo, perché io ho fatto un’operazione metodologicamente corretta: ascolto quello che mi viene insegnato, lo paragono con la realtà e dico il risultato come me ne viene. Mi ha talmente irritato questo fatto che l’insegnante ha reagito in modo sprezzante, che per tre mesi non ho più aperto il libro di scienze. E la stessa cosa mi è successa in filosofia. Avevo amici, i primi amici veri che ho trovato, con cui studiavamo assieme, discutevamo e ci venivano delle idee. Una volta toccava a me nell’interrogazione, mi son lanciato e gli ho detto quello che pensavo io. Di nuovo, il professore mi ha trattato come il bambino saccente. Certamente avrò detto cose banali, di basso livello, però sbagliando gravemente mi ha fatto capire con ironia – che è quella che brucia di più – di non permettermi di dire quello che pensavo. Io lì mi sono accorto lucidamente che era l’opposto del mio professore di terza media. Ultimo episodio che racconto; questo da insegnante. Quando ho cominciato a fare l’insegnante avevo un’idea fissa in testa: che non volevo mettere “X” – esattamente questa – su ciò che i miei DA TE MI ASPETTO … 10 EDUCARE un rischio un’opportunità Incontri realizzati dalla Scuola Paritaria LA TRACCIA con il Patrocinio del Comune di Merate Media Partner Giornale di Merate – Sponsor Sangiorgio Calzature alunni imparavano, ma volevo aiutarli a scoprire loro. Dopo, ho fatto il preside di una scuola che non esisteva ancora – l’ho fatta nascere, mi hanno assunto che la scuola ancora non c’era – e l’idea che avevo in testa era che volevo insegnanti capaci di aizzare i ragazzi alla ricerca, alla conoscenza. Gli insegnanti erano d’accordo. Ce n’è una di matematica, che per me è una delle insegnanti più straordinarie che ho trovato. Insegna matematica in prima liceo scientifico in questo modo. Dice: “Ragazzi, dobbiamo affrontare una nuova regola, comincio a darvi degli esercizi in cui questa regola viene applicata. Voi andate a casa e vedete di fare questi esercizi. Vi avviso subito: non ci riuscite, perché la regola non la conoscete. Non andate a cercare la regola, provate a risolverli, tentate, girateci intorno, fate qualcosa”. Il giorno dopo: “Tu, cos’hai fatto? Fuori alla lavagna” e uno dice il suo tentativo, un altro … un altro … un altro … e lei riesce a tirar fuori la regola dai tentativi dei ragazzi. Una cosa certo la conquista: non se la dimenticano più. Perché quando uno si conquista la regola, gli resta in mente. A volte ne ottiene un’altra: i ragazzi diventano molto in gamba in matematica, perché non sono i ripetitori. Assemblea di classe con i genitori, una sera, indimenticabile. Un genitore, con tono molto aggressivo, dice: “Ho una critica da fare all’insegnante di matematica” – nelle assemblee di classe si fa subito il clima un po’ teso – “l’insegnante assegna gli esercizi senza neanche controllare che cosa assegna; glieli assegna sbagliati, perché sono su regole che i ragazzi non hanno studiato, così mi tocca a mia figlia spiegare la regola per consentirle di fare l’esercizio”. Tutti i volti dei genitori vanno sull’insegnante, che si fa una gran risata e dice: “Adesso ho capito perché sua figlia in matematica è così impacciata, perché lei ha già deciso il percorso che deve fare”. E gli spiega come lavora. Altra assemblea coi genitori. Questa molto più bella, questa insegnante spiega il suo metodo, come lei insegna matematica. Io vedevo un genitore che la osservava intento e quando finisce di spiegare fa un salto letterale sulla sedia e dice: “Adesso ho capito, perché lei è un’insegnante di così gran valore, perché sta facendo davvero piacere la matematica a mia figlia. Vi racconto un episodio. Io sono un dirigente d’azienda di alto livello e quando incontro un problema chiamo a raccolta i miei sottoposti e dico loro “C’è questo problema, discutiamo come affrontarlo” e in genere la risposta più o meno esplicita è questa “Ma dottore ci dica cosa dobbiamo fare, non ci faccia discutere, tanto lei lo sa già dove ci vuol portare, ci dica quello che dobbiamo fare che noi lo facciamo”. Questi miei sottoposti non hanno mai avuto un’insegnante come la professoressa Frigerio; sono stati abituati ad eseguire quello che altri dicevano. Vi garantisco da esperto – ho fatto anche il consulente aziendale – che oggi il mondo del lavoro non si aspetta bravi esecutori, ma si aspetta persone che sappiano affrontare l’imprevisto, cioè situazioni che non conoscono”. E questo genitore è poi entrato nel Consiglio d’Istituto ed adesso lavora alacremente per la scuola. Ultimo episodio e poi chiudo. Sto facendo quello che reagisce a quello che ha ascoltato. Voglio solo documentare come son vere nell’esperienza queste cose. Da insegnante di italiano, un bel po’ di anni fa avevo una ragazza che era veramente straordinaria, aveva una sensibilità estetica, una sensibilità linguistica che io non avevo mai visto. Era bellissimo fare lezione a questa Maddalena, perché aveva sempre le sue idee, leggeva e vedevo che cresceva. In quinta scientifico assegno un tema per casa, era un lavoro su Dante. Una settimana di tempo. Dopo una settimana arriva col suo tema: ventitré pagine di protocollo scritto fitto fitto. Reazione da insegnante: “Adesso mi tocca correggerglielo tutto!”. Vado a casa, correggo prima gli altri, arrivo a quello della Maddalena … ci ho messo un pomeriggio intero a leggerlo, a capire bene quello che aveva scritto, cosa voleva dire, ho dovuto andare a prendere i riferimenti sul testo. È stato un pomeriggio faticoso, ma interessante. Finito il gran lavoro “Adesso che voto le do? Che commento le metto?” e ho avuto un’idea azzeccatissima: voto 10 (primo 10 che ho dato), commento “Hai fatto un lavoro veramente di valore, io non sarei stato capace di fare un lavoro così” – ho detto la verità – “ciò significa che hai avuto un ottimo insegnante”. Poi le ho messo la DA TE MI ASPETTO … 11 EDUCARE un rischio un’opportunità Incontri realizzati dalla Scuola Paritaria LA TRACCIA con il Patrocinio del Comune di Merate Media Partner Giornale di Merate – Sponsor Sangiorgio Calzature citazione di Leonardo da Vinci: “Felice quel maestro che viene superato dal suo allievo”. Da quel giorno questa citazione è il mio motto di insegnante. E’ chiaro: se un insegnante decide quello che i ragazzi devono sapere e devono saper fare si progetta il percorso molto più ordinato. Prima si impara questo, poi questo e dal punto di vista dell’apprendimento magari rende anche di più. Solo che ammazza i ragazzi. Se l’insegnante tira fuori le cose da loro, capita anche che faccia un po’ di confusione, che si perda – sto parlando di un liceo, perché l’università è un po’ diversa; l’università deve fornire competenze specifiche e specialistiche; per liceo io intendo scuola media superiore … nella mia scuola c’è anche l’istituto alberghiero e un bravissimo insegnante di sala-bar che lavora esattamente in questo modo. All’età in cui si forma la personalità, bisogna insegnare avendo a cuore uno scopo: che il ragazzino scopra che ha dentro di sé risorse più grandi di quelle che credeva di avere. La scuola deve essere esigente e severa. Sto facendo tutto tranne che l’elogio della scuola naif dove si improvvisa. L’insegnante deve guidare e se un ragazzino scopre una cosa che è una stupidaggine gli deve dire che è una stupidaggine. Quando nelle interrogazioni, di fronte al professore che voleva il loro parere gli dicevano “Questo sonetto di Petrarca secondo me significa una terribile tristezza”, “Bravo, documenta, andiamo a vedere nel sonetto dov’è la tristezza”, “No, non lo so, a me sembra” … e io, scusate il termine, “A me sembra che sei un cretino”, “Come fa professore a dire che sono un cretino”, “No, mi sembra!”. Le cose vanno documentate e l’insegnante deve guidare, ma se il problema è tirar fuori da un ragazzo le risorse che ha – cosa che non sempre riesce … il mestiere dell’insegnante è difficile – può essere che il ragazzo si accorga di valere molto di più di quello che si immaginava nel campo conoscitivo. Appunti non rivisti dai relatori DA TE MI ASPETTO … 12