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Fantasmi della dogmatica. Sul decreto legge e sulla
15 LUGLIO 2015
Fantasmi della dogmatica.
Sul decreto legge e sulla legge di
conversione
di Francesco Cerrone
Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico
Università degli Studi di Perugia
Fantasmi della dogmatica.
Sul decreto legge e sulla legge di
conversione*
di Francesco Cerrone
Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico
Università degli Studi di Perugia
Sommario: 1. Premessa sulla coerenza come criterio della ragionevolezza. 2. La giurisprudenza
costituzionale del biennio 2007-08 ed il sindacato sui presupposti della straordinaria necessità ed
urgenza. 3. Dogmatica della inemendabilità del decreto legge e sua critica. 4. La giurisprudenza
costituzionale del 2012-14 accoglie parzialmente le prospettive dogmatiche dell’inemendabilità:
critica. 5. Ancora sulla critica alla giurisprudenza più recente ed alle sue fondamenta concettuali.
6. Sull’omogeneità come coerenza e su alcune contraddizioni della dogmatica e della
giurisprudenza.
1. Premessa sulla coerenza come criterio della ragionevolezza
“La ragionevolezza, insieme con il ragionamento analitico, connota l’intero fenomeno giuridico, come anche, forse,
gran parte delle cose umane; connota…tutte quelle, almeno, per cui abbia senso discutere; lasciando in disparte, da
un lato, solo ciò per cui argomentare non ha senso o, dal lato opposto, ciò per cui argomentare equivale a
dimostrare”1. E ancora: “La ragionevolezza è divenuta ormai modo d’essere della funzione legislativa, prima
ancora che canone interpretativo e di sindacato di costituzionalità, trattando di fenomeni coerenti e indissociabili. Il
medesimo impiego dei canoni ermeneutici classici è soggetto ad un criterio di ragionevolezza, che orienta il passaggio
dalla interpretazione letterale a quella logica, a quella sistematica, ecc., ben prima dell’impiego di argomenti, come
quello delle conseguenze, non espressamente codificati; e questo criterio orientativo muove lungo un crinale nel quale
Saggio destinato agli studi in onore di A. Cerri, in corso di pubblicazione.
A. CERRI, Relazione conclusiva, in ID. (a cura di), La ragionevolezza nella ricerca scientifica e il suo ruolo specifico
nel sapere giuridico, t. III, Roma, 2007, p. 283.
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la ragionevolezza si avvicina all’equità del caso concreto” 2. La ragionevolezza non si muove perciò sul
piano di “un ordine sostenuto da una unica razionalità, talmente schematica da non consentire valutazioni più
attente e consapevoli”3. Augusto Cerri ha insegnato che, già nel pensiero generale e non solo in quello
strettamente giuridico, esistono alcuni criteri della ragionevolezza: quello popperiano della non
falsificazione, quello della compatibilità di determinate conclusioni con le condizioni di un
dialogo leale, quello della probabilità (che, aggiungerei, può essere quella frequenziale o statistica
ma anche quella che si riferisce ad eventi unici e che richiede procedure di verifica attinenti alla
topica e non alla statistica), quello della coerenza. Quest’ultimo è “da intendere come struttura che
presuppone la consistenza (cioè: la non contraddizione) ma la trascende. La assenza di contraddizione è condizione
necessaria ma non sufficiente della coerenza. Coerenti sono due o più ipotesi contrassegnate dalla comunanza
(quanto più estesa) delle premesse fondative” 4 . L’ elemento della coerenza è quello sul quale più ci
intratterremo: come criterio della ragionevolezza esso vale per il legislatore (che aspiri ad essere)
ragionevole; vale come canone interpretativo e, perciò, anche nel sindacato di costituzionalità.
Però, se è vero che “la ragionevolezza è sempre una ed i suoi modi di strategia accorta, di coerenza, di
controllo dialettico sono comuni ad ogni disciplina ed anche al legislatore ed al giurista o al giudice”5, è altresì
vero che essa opera “in gradi ristretti e minimali nei confronti del legislatore ed anche in via solo
negativa, così da non assorbirne le valutazioni. La politica è il campo dell’innovazione, della sperimentazione
sociale, da effettuare a condizioni di responsabilità di chi propone qualcosa” 6 . Anche se la vitalità del
processo politico sembra oggi molto appannata e persino revocata in dubbio da alcune
interpretazioni, Cerri non la nega né la rinnega, specie al fine di confermare che, nel campo
dell’azione umana, nel quale non si danno verità definitive ed il dubbio è dominante, l’esperienza,
l’attività dell’esperire soluzioni possibili non può che essere affidata ad una politica e ad un
governo responsabili anziché a giudici irresponsabili. Così, mentre per il giudice la ragionevolezza
e, come criterio di questa, la coerenza, è “assorbentemente prescrittiva” 7 , per il legislatore questa
prescrittività si attenua ma non scompare. Potremmo dire che il giudice delle leggi, in particolare,
dovrebbe considerarsi rigorosamente tenuto al rispetto di un canone di coerenza, e dunque alla
considerazione dei propri precedenti, nel valutare la misura (meno assorbente ma nondimeno)
irrinunciabile della ragionevolezza del legislatore.
ID., op. cit., p. 293.
ID., ibidem.
4 ID., voce Ragionevolezza delle leggi, in Enc. giur., Roma, 2005, p. 1.
5 ID., Relazione conclusiva, cit., p. 312.
6 ID., op.ult.cit., p. 314.
7 ID., op.ult.cit., p. 313.
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2. La giurisprudenza costituzionale del biennio 2007-08 ed il sindacato sui presupposti
della straordinaria necessità ed urgenza
Queste considerazioni potranno forse valere come orientamento nell’addentrarci nella questione
della omogeneità del decreto legge e della legge di conversione. Si tratta di questione nota agli
studiosi delle fonti del diritto e legata alla più recente giurisprudenza costituzionale in materia.
Già con le sentenze nn. 171 del 2007 e 128 del 2008 la corte aveva annullato una legge di
conversione di un decreto legge a causa della carenza dei presupposti costituzionali della
straordinaria necessità ed urgenza, previsti dall’art. 77, comma 2, cost. Fino a quel momento,
nella giurisprudenza costituzionale erano convissuti due orientamenti: il primo negava la
sindacabilità del decreto convertito, il secondo la ammetteva. Il primo, motivato con la sanatoria
che deriverebbe dalla legge di conversione, il secondo, che all’opposto riteneva che il vizio del
decreto legge, derivante dalla carenza o insufficienza dei requisiti della decretazione d’urgenza,
lungi dall’essere sanato dalla conversione, si trasmette alla legge. Questo secondo orientamento,
infine prevalente a partire dal 2007, largamente e con insistenza auspicato dalla dottrina, era
fondato, secondo la corte, soprattutto sull’esigenza di sottrarre al legislatore ordinario il potere di
alterare il riparto di competenze fra parlamento e governo in materia di normazione di rango
primario. Spetta alla corte “la funzione di preservare l’assetto delle fonti normative e, con esso, il rispetto dei
valori a tutela dei quali detto compito è predisposto” 8 , poiché in Italia, come negli altri ordinamenti
costituzionali improntati al “principio della separazione dei poteri e della soggezione della giurisdizione e
dell’amministrazione alla legge, l’adozione delle norme primarie spetta agli organi o all’organo il cui potere derivi
direttamente dal popolo”9.
Sia la sent. n. 171 del 2007 che la n. 128 del 2008, tuttavia, avevano sottolineato che il sindacato
della corte doveva intendersi limitato agli aspetti di evidente carenza dei presupposti richiesti dal
comma 2 dell’art. 77. Le ragioni di tale limitazione erano state esplicitamente ricordate: i
presupposti della straordinaria necessità ed urgenza possono derivare da “una pluralità di situazioni
(eventi naturali, comportamenti umani e anche atti e provvedimenti di pubblici poteri) in relazione ai quali non
sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi”10; la disposizione costituzionale che indica i
suddetti presupposti deve perciò essere intesa molto elasticamente, anche allo scopo di evitare la
Sent. n. 171 del 2007, punto 4 del considerato in diritto.
Sent. n. 171 del 2007, punto 3 della motivazione. Dubbi sull’effettività del sindacato della corte erano
stati peraltro formulati da A. GUAZZAROTTI, Il rigore della Consulta sulla decretazione d’urgenza: una camicia
di forza per la politica?, in www.forumcost.it, secondo il quale, non a torto, la corte tende “a formulare, in tema di
controllo sull’esercizio dei poteri normativi del Governo, principi rigorosi cui fa seguito un basso rendimento pratico” (p. 4).
10 Sent. n. 171 del 2007, punto 4 della motivazione.
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sovrapposizione fra il potere di apprezzamento dei presupposti da parte dei poteri politicamente
responsabili – cioè dapprima il governo, che adotta il decreto legge, poi il parlamento, cui spetta
decidere sulla conversione del provvedimento governativo – e da parte della corte costituzionale.
Compete a quest’ultima, secondo le richiamate sentenze, solo un controllo sull’ evidente difetto
dei presupposti della decretazione d’urgenza, come quello che può derivare dal rapporto fra
epigrafe e preambolo dell’atto, che asseriscano, in ipotesi, la sussistenza dei presupposti, e suo
contenuto dispositivo, dal quale essi invece non emergano in alcun modo; ovvero un sindacato
sulla omogeneità delle norme inserite nel decreto legge, non suffragata adeguatamente da un
esigenza comune di coerenza, in grado di ricondurre norme eterogenee ad una medesima ragione
comune fondata sulla straordinaria necessità ed urgenza. Questo sindacato sulla evidente carenza
dei presupposti costituzionalmente previsti per l’adozione dei decreti legge appare perciò come
esercizio di un controllo sulla ragionevolezza della legge, ed in particolare di uno scrutinio sulla
coerenza del decreto legge o della legge di conversione. E’ vero che qui esiste un aggancio positivo
esplicito nel comma 2 dell’art. 77 cost., ma è proprio la misura largamente elastica che, secondo la
stessa corte costituzionale, è richiesta per l’interpretazione della disposizione a suggerire il ricorso
al canone della ragionevolezza. La formula della“straordinaria necessità ed urgenza”, pertanto,
contiene espressioni da intendersi non in astratto ed una volta per tutte ma in concreto e volta
per volta, sulla base di un apprezzamento che deve intendersi rimesso al governo prima, al
parlamento poi; un apprezzamento che, tuttavia, incontra un limite nel riparto costituzionale delle
competenze fra i due organi in materia di produzione delle fonti primarie, limite che spetta alla
corte costituzionale far valere utilizzando un canone di ragionevolezza. In questi termini, mi pare,
deve essere intesa l’espressione evidente, riferita al difetto dei presupposti della decretazione
d’urgenza sindacabile dalla corte. Essa suggerisce da un lato l’esigenza di evitare che quest’ultima
impinga in una sfera di valutazioni che dovrebbero restare prerogativa di organi politicamente
responsabili e dall’altro quella di delimitare il suo sindacato alla sfera della necessaria coerenza
delle affermazioni del legislatore, governativo e parlamentare, posto che anche questi è tenuto a
rispettare una certa misura di ragionevolezza nell’esercizio delle proprie competenze. La corte è
dunque chiamata ad effettuare un giudizio sulla non contraddittorietà, sulla coerenza, del decreto
legge come della legge di conversione, non per limitarsi solo a ciò che è rilevabile ictu oculi, ma nel
senso che, per il legislatore che voglia essere ragionevole, alcuni vincoli di coerenza del proprio
operato si imporranno con evidenza e saranno fatti valere in sede di giudizio di costituzionalità.
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Questa impostazione della giurisprudenza costituzionale è stata subito criticata dalla dottrina più
legata ad una rigida impostazione dogmatica che l’orientamento della corte metteva in crisi 11.
Secondo questa dottrina, infatti, la corte avrebbe dovuto accogliere un modello dogmatico che
suppone “un controllo in senso tecnico delle Camere, a mezzo di un atto pleno iure di ‘conversione’, come
tale inidoneo a proporsi quale forma alternativa ed originale di normazione ‘libera’, meramente occasionata
dall’iniziativa governativa ed a questa non sostanzialmente legata nei contenuti”12. La tesi ha una sua storia
che è stata magistralmente ricostruita in un recente contributo di Giuseppe Filippetta13 ed ha il
suo centro nell’idea che la legge di conversione sarebbe legge con competenza limitata alla
materia (o all’oggetto? Su questo punto, non chiarito in dottrina, ritornerò più avanti) del decreto.
Il parlamento non potrebbe introdurre quindi, in sede di conversione, contenuti che siano
estranei a quelli del decreto governativo. Le premesse concettuali della tesi vanno cercate
nell’enfasi posta sulla responsabilità governativa (che esplicitamente il comma 2 dell’art. 77 cost.
enuncia) nell’adozione del decreto legge e negli “argomenti della ‘sequenza procedimentale’ e della
‘interrelazione procedimentale’ al fine di provare ad irrobustire il fondamento della configurazione della legge di
conversione come fonte atipica a forza passiva depotenziata” 14 . E’ noto che essa, a partire dalla sua
formulazione nel libro di Pitruzzella15, ha avuto successivi svolgimenti16, sui quali ritengo inutile
Cfr. A. RUGGERI, Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni, Torino, 2005, pp. 166 ss.; ID., Ancora una stretta
(seppur non decisiva) ai decreti-legge, suscettibile di ulteriori, ad oggi per vero imprevedibili, implicazioni a più largo raggio (a
margine di Corte cost. n. 171 del 2007), in www.forumcostituzionale.it; ID., “Evidente mancanza” dei presupposti
fattuali e disomogeneità dei decreti-legge (a margine di Corte cost. n. 128 del 2008), in www.rivistaaic.it, n. 2008.
12 Così A. RUGGERI, Ancora una stretta, cit., pp. 2 s.
13 G. FILIPPETTA, L’emendabilità del decreto-legge e la farmacia del costituzionalista, in Rivista AIC, 2012. Più di
recente v. anche ID., La sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, ovvero dell’irresistibile necessità e
dell’inevitabile difficoltà di riscrivere l’art. 77 Cost., in Federalismi.it – Focus Fonti, n.1/2014.
14 G. FILIPPETTA, L’emendabilità, cit., p. 31.
15 G. PITRUZZELLA, La legge di conversione del decreto legge, Padova, 1989, pp. 127 ss. e 194 ss., secondo il
quale esiste un nesso di presupposizione fra i due procedimenti normativi, uno che mette capo
all’adozione del decreto legge, l’altro alla legge di conversione. Ne deriverebbe, secondo Pitruzzella, che
quest’ultima, in quanto “sottospecie della legge ordinaria del parlamento dotata di proprie peculiarità procedimentali e di
efficacia”, è legge a competenza tipica, circoscritta al solo oggetto normativo del decreto legge. Si v.,
peraltro, già M. RAVERAIRA, Necessità e urgenza dei decreti-legge e legge di conversione, in Giur. cost., 1986, pp.
602 ss.
16 Cfr. G. SILVESTRI, Alcuni profili problematici dell’attuale dibattito sui decreti-legge, in Pol. dir., 1996, pp. 424
ss., dove sostiene che una “sequenza tipica prevista dall’art. 77 cost. si instaura tra atti sul presupposto della
identità di contenuto normativo”, e già V. ANGIOLINI, Attività legislativa del Governo e giustizia costituzionale,
in Riv. dir. cost., 1995, pp. 240 ss., secondo il quale l’art. 77 cost. prevederebbe una procedura
“sostanzialmente unitaria” e che la legge di conversione non potrebbe che confermare la disciplina adottata
con il decreto legge ovvero, respingendola, far perdere sin dall’inizio efficacia all’atto governativo. Più di
recente v. ancora Q. CAMERLENGO, il decreto legge e le disposizioni “eccentriche” introdotte in sede di conversione,
in Rass. parl., 2011, pp. 91 ss., per il quale la legge di conversione avrebbe una funzione costituzionalmente
tipizzata, consistente nello “stabilizzare nel tempo gli effetti altrimenti destinati a venir meno ex tunc del decreto legge”
(p.106), sicché “sono legittimi i soli emendamenti ed integrazioni strettamente strumentali all’assolvimento della
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soffermarmi in dettaglio, poiché una confutazione del tutto convincente, secondo me, può
rintracciarsi nelle dense pagine scritte da Filippetta, pagine che non mi pare siano state prese,
finora, nella dovuta considerazione dalla dottrina costituzionalistica. E’ tuttavia necessario, anche
qui e per parte mia, richiamare l’attenzione su due punti.
3. Dogmatica della inemendabilità del decreto legge e sua critica
Il primo riguarda la serie di argomenti che ruotano attorno all’idea che decreto legge e legge di
conversione siano da ascrivere ad una medesima sequenza procedimentale (o che, pur mettendo
capo a serie diverse, i loro procedimenti sarebbero funzionalmente connessi). Mi pare che colga
perfettamente nel segno la critica di Filippetta, secondo il quale questi argomenti “stravolgono la
temporalità (costituzionalmente orientata) del procedimento di conversione: non è più il decreto-legge che cerca la sua
legittimazione in un successivo atto legislativo secondo una direzionalità progressiva, ma è la legge del Parlamento
che cerca la sua legittimazione in un previo atto del Governo secondo una direzionalità regressiva”17. Nelle sentt.
nn. 171 del 2007 e 128 del 2008 la corte non riprende quegli argomenti (lo farà, come vedremo,
nella giurisprudenza successiva) ed in esse il canone della coerenza e dunque della ragionevolezza
della normativa del decreto legge poi convertito in legge dal parlamento è chiamato a giocare il
proprio ruolo fuori dalle strettoie dogmatiche espresse dagli argomenti della “sequenza
procedimentale”. E’ vero che la corte, per estendere alle norme della legge di conversione la
sindacabilità dei vizi di quelle del decreto che sia carente dei requisiti costituzionali della
straordinaria necessità ed urgenza, sottolinea la necessità di una valutazione congiunta delle une e
delle altre: secondo la corte, “l’immediata efficacia” del decreto, capace di “produrre modificazioni anche
irreversibili sia della realtà materiale, sia dell’ordinamento, mentre rende evidente la ragione dell’inciso della norma
costituzionale che attribuisce al Governo la responsabilità dell’emanazione del decreto, condiziona nel contempo
l’attività del Parlamento in sede di conversione in modo particolare rispetto alla ordinaria attività legislativa”18.
Con ciò, tuttavia, la corte non giunge ad accogliere le ricordate elaborazioni dogmatiche della
dottrina, sia perché il criterio della coerenza, intesa come non estraneità delle disposizioni
impugnate della legge di conversione alla materia o all’oggetto di quelle del decreto legge, è
ritenuto per sé sufficiente ed idoneo a consentire il sindacato della corte; sia perché il giudice
costituzionale, in queste decisioni, muove dal presupposto che, nel nostro ordinamento,
funzione costituzionalmente tipica della legge di conversione. Non sono tali quelli che si discostano palesemente
dalla traiettoria materiale tracciata dalle previsioni del decreto legge” (p. 114).
17 G. FILIPPETTA, L’emendabilità del decreto-legge, cit., p. 32.
18 Sent. n. 171 del 2007, punto 5 della motivazione.
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“l’adozione delle norme primarie spetta agli organi o all’organo il cui potere deriva direttamente dal popolo” 19 ,
spetta dunque al parlamento. Intendo dire che la prospettiva interpretativa da cui muove la corte
è coerente con l’idea, sottolineata opportunamente da Filippetta20, che l’art. 77 della costituzione
non è una disposizione che individua limiti del potere legislativo delle camere ma limiti per il
potere legislativo del governo e che è il decreto ad essere adottato in vista della sua conversione
da parte delle camere, non la legge di conversione ad essere adottata per il limitato scopo di
confermare il decreto del governo, poiché “il processo di integrazione politica è affidato dalla Costituzione
fondamentalmente alla legge”21.
Il secondo punto sul quale intendo richiamare l’attenzione riguarda la necessità di allargare la
visuale sulle ragioni della emersione di queste dogmatiche della inemendabilità, o limitata
emendabilità, in sede di conversione, del decreto legge. Mi limiterò, a questo proposito, a
considerazioni sintetiche, ancora seguendo la traccia degli studi di Filippetta. Dopo l’entrata in
vigore della costituzione la dottrina assolutamente prevalente – da Mortati a Crisafulli a Paladin –
convergeva sulla tesi della illimitata emendabilità del decreto legge in sede di conversione
parlamentare. Queste tesi si fondavano su premesse ben note e conducevano a conseguenze
tanto sul terreno della teoria delle fonti che su quello della relazione fra fonti e forma di governo
e di stato. Il decreto legge, nell’ordinamento costituzionale italiano, è atto che dovrebbe limitarsi
ai soli casi straordinari di necessità ed urgenza e per questo il costituente rimise la sua adozione al
governo che, di regola, può adottare solo atti normativi secondari (classicamente, i regolamenti).
Oltre e fuori da questa regola, in un regime non ordinario ma, appunto straordinario – il che vale
a delimitarne le ipotesi e la astratta ricorribilità della fattispecie normativa derivabile dalla lettera
dell’art. 77 cost. – ove concorrano (si badi, concorrano, i tre elementi devono essere tutti presenti e
non basta che ce ne sia solo uno) straordinarie esigenze di necessità e urgenza, solo in presenza,
dunque, di queste tre condizioni – straordinarietà, necessità ed urgenza – il governo sarà abilitato
ad adottare, senza previa delega legislativa da parte del parlamento, atti con forza di legge. La
straordinarietà dello statuto teorico del decreto legge è poi completata dalla sua provvisorietà, che è
anche caducità: esso, se non convertito dalle camere entro sessanta giorni, perde efficacia fin
dall’inizio. Tanto basti per illustrare, qui, il profilo del decreto legge nella teoria delle fonti. Ma la
teoria non è teoresi e nessun giurista che se ne occupi vorrà affermarne una connotazione in cui
fini ed interessi applicativi siano assenti. Al contrario, è ormai abituale e persino banale
Sent. n. 171 del 2007, punto 3 della motivazione.
G. FILIPPETTA, op. ult. cit., p. 32.
21 G. FILIPPETTA, op. loc. ult. cit.
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sottolineare una connessione, in materia di fonti del diritto ma, per vero, in ogni ambito
dell’esperienza giuridica, fra teoria e prassi, fra statuto teorico ed ambiti applicativi22. Dal mio
punto di vista, lo statuto teorico della decretazione d’urgenza che ho sinteticamente tratteggiato e
che era stato già delineato negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della
costituzione ed ancora avvalorato da larga parte della dottrina per lungo tempo, per almeno
quattro decenni, corrispondeva sia ad un’analisi dei rapporti fra poteri dello stato (ed in
particolare fra parlamento e governo) in quegli anni, sia ad un’analisi dei rapporti fra partiti
politici, dunque ad un’analisi delle condizioni non solo formali ed esteriori ma effettive della
rappresentanza politica, ad un’analisi delle condizioni concrete in cui si trovava, in quegli anni, la
democrazia italiana. Riterrei, inoltre, che la scienza del diritto più consapevole non poteva
separare queste analisi dalle condizioni più complessive – sociali, economiche, etiche, culturali –
della società italiana, condizioni che non nascevano certo con l’avvento della repubblica e che se
erano in cambiamento al tempo stesso risentivano profondamente della sua storia complessa.
Queste analisi (dei rapporti fra poteri, dei rapporti fra partiti, delle condizioni della
rappresentanza politica e della democrazia, delle condizioni concrete della società italiana)
avevano orientato gli interpreti verso letture decisamente limitative dei poteri normativi primari
del governo e verso un pieno riconoscimento del ruolo centrale, nel sistema delle fonti, della
legge parlamentare, ruolo che non veniva meno nel caso della legge di conversione del decreto
legge e doveva invece essere confermato, trovandosi qui la legge parlamentare al cospetto di un
esercizio straordinario, da parte del governo, di poteri normativi primari, senza che le camere
avessero previamente deciso di delegarli all’esecutivo.
Restano, a questo proposito, insuperate per ricchezza e profondità di analisi le riflessioni di G.
CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto (1937), Milano, 1962, passim, ma specie dove osserva che
se, per effetto di una vasta e complessa attività della scienza del diritto l’esperienza giuridica subisce una
trasfigurazione e diventa un complesso di “sistemi di concetti ordinati attorno a grandi centri razionalmente posti e
razionalmente ordinati” (p. 72), tuttavia così “non si sa più se l’esperienza giuridica sia quella che è nella realtà o sia
l’immagine che la scienza ne ha delineato…con questa sua immagine la scienza che si propone di comprendere il suo dato,
l’esperienza, riesce quasi a nascondere il suo dato: costituisce un pericolo per la visione limpida del dato” (p. 73). Se però la
scienza del diritto si sforza di cogliere “il mondo del diritto come unità viva” (p. 135), stando nel vivo
dell’esperienza giuridica, entrando in questa esperienza, conoscendone il mondo dall’interno, anzi
contribuendo a realizzarlo, in termini propriamente vichiani, allora “conoscere l’esperienza significa adeguare
l’esperienza a se stessa” (p. 147). E’ necessario perciò, nell’ordine di idee di Capograssi, che è quello di Vico,
che la scienza colga le idee umane, le idee ed i valori “che sono i principi di azione per lo spirito e quindi principi
formativi di esperienza, principi formativi del mondo storico, che non sono l’opera dell’intelletto riflesso” (p. 165). Il
rapporto fra l’astrazione concettuale di cui si serve la scienza e la dimensione concreta del reale che è
nell’esperienza deve essere costantemente monitorato, onde evitare che l’astratto perda inerenza ed
aderenza al concreto ed anzi l’astrazione è “cogliere il concreto nel suo spiegarsi come movimento” (p. 177).
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La dogmatica sugli atti con forza di legge, ed in particolare sul decreto legge, deve dunque essere
letta e spiegata alla luce di queste complessive condizioni, esteriori allo statuto teorico dell’atto
normativo ma aderenti al concreto della storia politica, sociale, etica e complessivamente culturale
della società italiana. Queste condizioni suggerivano una calibratura della teoria delle fonti che,
per essere attenta alla prassi della concreta esperienza giuridica, vedesse il governo subordinare la
sua azione politica, quando questa si traduceva in adozione di norme di rango primario, a quella
del parlamento, e dunque non solo al controllo che, su quell’azione, avrebbe potuto esercitare la
maggioranza; ma anche ai limiti cui essa sarebbe stata assoggettata per effetto dell’agire politico,
all’interno delle camere, delle minoranze parlamentari e, fuori di esse, di forze sociali rilevanti, in
ipotesi ostili all’azione governativa.
Le prime manifestazioni, già nella seconda metà degli anni sessanta, della crisi del sistema politico
e parlamentare italiano, forse le nuove epifanie di antichi mali23 della società italiana e della sua
Che l’identità nazionale italiana fosse contrassegnata da contraddizioni, ritardi, fratture profonde, che
rispecchiavano anche conflitti fra interessi e blocchi di potere, è cosa ben nota ed osservazione ricorrente
nella storiografia: basti ricordare, per es., E. RAGIONIERI, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia
Einaudi, IV, Dall’unità ad oggi, t. III, Torino, 1976, pp. 1740 ss., dove, parlando delle forze sociali e
parlamentari che, dopo il 1876, appoggiarono i governi della Sinistra, sottolinea che le politiche
accentratrici della Destra avevano scontentato sia la grande proprietà meridionale che l’alta finanza centrosettentrionale e che la “profonda insoddisfazione” di ampi settori delle classi popolari era rappresentata da una
borghesia incapace di incarnare davvero gli interessi di quelle classi. Ne derivò un “cemento negativo”, una
classe dirigente “inconsistente e slegata nel campo dei principi e delle affermazioni” (p. 1740). Le difficoltà in cui si
dibatteva il nuovo stato nazionale provenivano da lontano, già dalla storia antica e medioevale, dal
perdurante dominio straniero sulla penisola – ne era stato consapevole, per es., Antonio Gramsci – poi
dalle carenze etiche e civiche della classe dirigente degli stati preunitari, carenze già avvertite da un
esponente di spicco della Destra come Marco Minghetti, che in più sedi aveva segnalato la tendenza della
classe politica ad ingerirsi con spirito partigiano nell’amministrazione della cosa pubblica: v. spec. M.
MINGHETTI, I partiti politici e l’ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione, Bologna, 1884, passim. Si
consideri, inoltre, che le classi sociali privilegiate degli stati preunitari, non solo il ceto politico, erano
ancora legate ad antichi stili di vita e lontanissime, nel loro complesso, dall’ aver maturato un senso civico:
si v., per es., per un affresco ricco di immagini, notizie, fatti e riflessioni sul regno di Napoli, R. DE
CESARE, La fine di un regno (1895), Lecce, 2005, passim. Proprio nel regno di Napoli, peraltro, si faceva
sentire acutamente, ancor più che altrove, la distanza fra classi popolari e galantuomini: questa espressione,
che “nel resto d’Italia…aveva significato morale...nell’antico Regno [l’aveva] esclusivamente sociale” (p. 561). Sui veri
galantuomini, le c.d. vecchie giamberghe, “signori le cui famiglie contavano qualche secolo di esistenza e avevano in casa il
ritratto degli avi…incombeva il dovere di non far nulla, reputandosi disonorevole l’esercizio di una professione” (ibidem). La
frattura fra galantuomini e cafoni non poteva essere più marcata e “la ricchezza sentiva di rado qualche dovere
sociale. La beneficenza era naturalmente povera cosa in provincie, le quali non avevano avuto vita comunale, né feudale.
L’accentramento politico e amministrativo di ogni cosa a Napoli, fu la vera causa del quasi imbarbarimento della vita locale”
(p. 567). Tutto il discorso sulla questione meridionale, componente fondamentale benché non esclusiva
delle carenze nella formazione di un’identità civica italiana, sarebbe naturalmente molto più complesso.
Queste rade osservazioni, certo insufficienti, tratte da un’opera attenta anche al costume, agli stili di vita,
oltre che alle condizioni economiche, sociali, politiche e culturali del regno di Napoli, vorrebbero
segnalare solo l’esigenza di tener conto di tutto un complesso di fattori nel formare una valutazione sulle
società meridionali.
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storia più risalente – il conformismo e, ancor più, il permanere della tendenza alla formazione di
clientele, l’affarismo, la corruzione, tutte le conseguenze patologiche della vena nazionale
trasformista 24 , intrisa di apparenza e spettacolo ed indifferente al merito delle questioni, la
disposizione corriva al cinismo, una certa superficialità, interessata o ideologizzata, il che è forse
la stessa cosa, che aveva spesso dato adito ad un degrado della vita politica, ridotta ad un
“parlamentarismo mediocre” 25 – convinsero una parte della dottrina, di orientamento politico
conservatore ma eticamente impegnata, che la crisi dovesse essere affrontata con un
ridimensionamento dei poteri del parlamento che valesse anche come ridimensionamento del
ruolo dei partiti politici 26 . Non si mancava, però, di offrire bilanciamenti alla correlativa
espansione dei poteri governativi e della p.a. Tuttavia, la crisi era più profonda, come apparve con
maggiore chiarezza nei decenni successivi, poiché era crisi che portava alla luce, ancora, i malanni
antichi della società italiana poc’anzi ricordati, sia pure nelle nuove vesti del contesto moderno,
prima industriale, poi postindustriale, che anche l’Italia, tardivamente rispetto ad altre società
europee più progredite, stava vivendo, ed era illusorio pensare di risolverla comprimendo i poteri
Contribuì non poco ad arginare ed isterilire la riflessione, nella cultura italiana, sui mali antichi della
storia italiana, con il perseguire il progetto culturale di ridimensionarli, B. CROCE, Storia d’Italia dal 1871 al
1915 (1928), Milano, 1991, pp. 17 ss. e 131 ss. Per Croce il trasformismo, il “grande nuovo partito
nazionale” di Depretis – è sempre impressionante costatare come certe espressioni ritornino nella storia,
forse anche nella perfetta ignoranza dei propri precedenti – che sembra evocare sempre qualcosa di
equivoco, corrispondeva invece alla natura delle cose, per le quali “nessuna forza poteva impedire agli uomini di
accordarsi o discordare non su astratti e vuoti programmi, ma su questioni e provvedimenti concreti…Perché gli italiani
avrebbero dovuto sbigottirsi delle frequenti mutazioni ministeriali”, perché avrebbero dovuto “tendere tutti i loro
muscoli per tenere in alto i cartelli di Destra e Sinistra”, perché non contentarsi ed anzi plaudire e “lasciar fare al
Depretis, buon monarchico, uomo d’ordine, con certo cuore popolare”? (p. 37). Si v. anche tutta la polemica crociana
contro “il pessimismo dei correnti giudizi recati dagli italiani sulle cose italiane” (p. 138).
25 Cfr. G. BOLLATI, L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Torino, 1983, pp. X ss.
Vorrei ricordare che il discredito del sistema parlamentare ed in particolare del ruolo del parlamento in
Italia non nasce con la repubblica ma ha tutta una sua storia nell’azione sia della degli uomini della Destra
che in quella degli uomini della Sinistra ed è interessante notare che “la demolizione morale del parlamento fosse
operata soprattutto dai parlamentari medesimi (il che non è nelle consuetudini degli uomini politici liberali)…taluni per fini
reazionari, altri per motivi personali, altri, infine, per sventatezza”: così G. COLAMARINO, Il fantasma liberale,
Milano, s.d. ma 1945, p. 163, del quale vorrei segnalare l’interessantissima polemica contro il risorgimento,
tutta da meditare ancora oggi. Secondo Colamarino il popolo italiano era “abituato più di ogni altro a plaudire
al trionfo della forza e nello stesso tempo sempre in attesa superstiziosa attraverso i secoli dell’avvento di un giusto padrone e
redentore”. Perciò, “il fatto…dell’esistenza di un’unità storica del popolo italiano, allegato al fine di contrastare la tesi di
una espansione semplicemente statale del Piemonte nel periodo del Risorgimento, non è di per se stesso decisivo…E’ da
osservare piuttosto che quella unità storica linguistica e morale degl’italiani era tanto poco connessa a una necessaria
unificazione politica, che si accordava ottimamente col cosmopolitismo tradizionale della nostra gente e col separatismo delle
regioni” (p. 9). Così la conclusione è tanto amara quanto radicale: “l’ideologia risorgimentale…appare interamente
fallita; la massa del popolo, nonostante un settantennio e più di educazione scolastica, di prediche e di commemorazioni
patriottiche, non si è elevata al piano ideale del risorgimento; e viceversa la classe dirigente è stata la prima a discendere
moralmente e civilmente rinnegando la fede nei padri” (p. 11).
26 In argomento v. diffusamente G. FILIPPETTA, L’emendabilità, cit., pp. 12 ss., con riferimento alle tesi
sostenute, nei primi anni settanta, da Crisafulli, da Sandulli e da Ciaurro.
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del parlamento, e non solo illusorio ma anche fuorviante. In effetti, se è vero che processi storici
più ampi hanno ridimensionato, con il trascorrere del tempo, il ruolo della politica nazionale
concentrando in sedi sovranazionali o denazionalizzate ingenti quote di potere, è altrettanto vero
che i partiti sono rimasti saldamente avvinghiati alla gestione di quello che è rimasto nella
disponibilità delle sedi nazionali. Inoltre, il vento favorevole alla c.d. governabilità ha fortemente
ridimensionato le istanze pluraliste, più in generale nella società italiana e, in particolare, nei
partiti, che hanno subito forti processi di accentramento verticistico del potere, venati da
tendenze mediatico-plebiscitarie. Il parlamento ha fatto le spese di questa situazione, stretto
com’è fra un discredito crescente fra i cittadini, per la pochezza della classe politica che lo
frequenta, e la conclamata inettitudine a svolgere un ruolo di protagonista del processo di
integrazione politica. Questi esiti della crisi, arginati in qualche misura solo dalla nuova vitalità, a
mio parere, di una parte delle minoranze parlamentari dopo le elezioni politiche del 2013, mi pare
confermino le buone ragioni della dottrina più risalente che, come ho ricordato, aveva insistito –
in sintonia del resto con la lettera della costituzione e con i lavori dell’assemblea costituente – nel
considerare necessaria un’interpretazione limitativa dei poteri normativi del governo in Italia,
onde arginare derive autoritarie forse troppo rapidamente e superficialmente considerate fuori
della storia e superate. Il fatto è che se è vero che la storia non si ripete mai eguale, tuttavia sotto
nuove spoglie, con manifestazioni mutate, in contesti sociali certo cambiati per ragioni
economiche, di costume, culturali, gli antichi mali di una società, come quella italiana, in larga
misura ancora estranea – talvolta, si direbbe, persino refrattaria – ai valori di un’identità civica
democratica e pluralista, si fanno strada capillarmente, pervasivi, tenaci, pronti a trovare nelle
nuove forme di esercizio del potere terreno d’elezione, humus congeniale per la propria
conservazione e riproduzione.
La crisi attraversata dal sistema politico e parlamentare italiano ha investito con virulenza tutto il
settore delle fonti del diritto. Il “disordine delle fonti”, fenomeno ormai ben conosciuto dai
giuristi, non coincide del tutto, per vero, con la crisi politica ed istituzionale, poiché esso è
espressione di più vasti mutamenti, come quelli che derivano dall’integrazione europea e dalla
globalizzazione. Si noti ancora che, in linea generale, un assetto ordinato, anche se non
certamente statico, delle fonti presuppone, anche, una certa misura di collaborazione fra i suoi
protagonisti: la legislazione, la giurisprudenza, la dottrina27. Questa collaborazione non c’è stata e
V., in tal senso, A. GIULIANI, Le disposizioni sulla legge in generale. Gli articoli da 1 a 15, in P. RESCIGNO
(dir.), Trattato di diritto privato, 1. Premesse e disposizioni preliminari, 2a ed., Torino, Utet, 1999, pp. 379 ss. La
collaborazione non esclude il conflitto su interessi e valori, che è anzi elemento costitutivo degli
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non c’è, tuttora, nell’ordinamento giuridico italiano. Non c’è stata fra fine dell’ottocento e primo
novecento, causa l’alleanza fra legislazione e dottrina contro una giurisprudenza ancora sensibile
ai richiami dell’interpretatio. Legislazione e dottrina convergevano, allora, su un rigido positivismo
che tendeva ad escludere margini interpretativi a favore dei giudici ed a concentrare l’attenzione
sugli aspetti esegetici dell’interpretazione e sistematici della scienza del diritto. I giudici, a loro
volta, maturarono diffidenza per l’elaborazione dottrinale, sempre meno considerata, anzi spesso
ignorata, in sede giurisprudenziale. In tempi più recenti, tuttavia, c’è stata una ripresa di interesse,
nella dottrina, per l’elaborazione giurisprudenziale, anche in coincidenza con il fenomeno della
crescente rilevanza delle giurisprudenze sovranazionali. Nonostante ciò, la giurisprudenza italiana,
compresa quella costituzionale, sembra voler continuare a perseguire una linea di “antiformalismo
occulto”, in virtù della quale le sue decisioni possono apparire, nel migliore dei casi, giuste ma non
giustificate 28 . La dottrina, per parte sua, appare talvolta sin troppo sensibile alle esigenze di
legittimazione di una prassi legislativa che produce effetti molto distorsivi dell’ordinamento
costituzionale, talaltra presa invece da un furore dogmatico, con scarsi appigli alla concretezza
dell’esperienza giuridica.
Per quel che attiene, in particolare, alla decretazione d’urgenza, apparvero, già negli anni sessanta,
i fenomeni inflattivi che ancora conosciamo e, nel tempo, varie manifestazioni distorsive del suo
impiego, sulle quali non intenderei soffermarmi perché ben note agli studiosi 29 . La dottrina
ordinamenti, da cui si dipartono le esigenze costruttive di un ordine, in determinati contesti storici. Ma al
conflitto, che pure mai si dilegua, si accostano anche, tendenzialmente, orientamenti collaborativi,
espressione di sociabilitas, di una propensione alla cooperazione che storicamente si è manifestata in
determinati ordinamenti giuridici, anche nell’essere assunta come principio dell’ordinamento. Tuttavia,
come subito si dice nel testo, possono mancare le condizioni culturali per la maturazione di tendenze
collaborative, come appunto è avvenuto in Italia, tendenze che possono essere considerate forse, nel
nostro ordinamento giuridico non meno che nella nostra società, se non del tutto assenti certamente
ancora molto acerbe.
28 Così A. GIULIANI, op.cit., pp. 406 ss., 422, 428 ss, ecc. L’antiformalismo occulto deriva dall’esitazione
del giudice, data le caratteristiche della cultura giuridica diffusa, “a dichiarare i poteri equitativi, ricorrendo ad
espedienti formalistici e finzionistici, da cui non traspare la reale motivazione della decisione” (pp. 421 s.). L’analisi di
Giuliani parte dal conflitto, dalla costante dialettica legislatore giudice, ereditate dall’ottocento, una
dialettica che è rimessa in discussione dalle nuove condizioni storiche create dall’ordinamento
costituzionale repubblicano e, poi, dai fenomeni di integrazione europea. Tali condizioni hanno
progressivamente fatto emergere una crisi della tradizione positivista e formalista senza che, tuttavia, si sia
ancora formata una nuova cultura giuridica. Scrive, a tal proposito, Giuliani: “La nostra giurisprudenza si trova
ad affrontare problemi analoghi a quelli di un judge made law, ma senza il retroterra culturale, in cui le tecniche di quei
giuristi trovano il loro sostegno. Sulla nostra scienza giuridica pesa l’eredità di una scelta radicale – ad un tempo politica e
culturale – fatta alla fine del XIX secolo, e che potremmo sintetizzare con l’espressione ‘alleanza della scienza con la
legislazione’ ” (p. 414). Tutta la riflessione di Giuliani attende ancora di essere scoperta dai costituzionalisti.
29 Mi riservo, tuttavia, qualche osservazione (infra, § 5) sulla prassi più recente allo scopo, come si vedrà, di
cercare conferme o smentite della attitudine della giurisprudenza costituzionale ad arginare l’abuso della
decretazione d’urgenza. Sulle prassi in materia di decreto legge v., nella dottrina più recente, R.
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avvertì insoddisfazione nei confronti dello statuto teorico del decreto legge e nei confronti delle
corrispondenti analisi della prassi repubblicana: a che vale una teoria così scollata dalla prassi, così
incapace di coglierne le trasformazioni più evidenti? Diversamente dallo scorgerne il perdurare
delle buone ragioni nel contesto modificato, la dottrina perse gradualmente il senso di un
ancoraggio all’idea della subordinazione dell’ azione politica del governo a quella del parlamento e
delle fonti del diritto di origine governativa rispetto a quelle parlamentari. Si impose,
gradualmente, l’idea che una ridefinizione dei rapporti fra parlamento e governo, nel settore della
decretazione d’urgenza, fosse necessaria e potesse essere convalidata da un apparato dogmatico
che facesse perno sulle teorie, già ricordate, della connessione procedimentale fra decreto legge e
legge di conversione e su quelle, propugnate unitamente alle prime, che consideravano la legge di
conversione bensì una legge ma a competenza limitata alla conversione, limitata cioè, per effetto
della decisione politica del governo, alla materia o oggetto del decreto. Abbiamo visto peraltro
come la corte costituzionale, ancora con le sentenze del 2007-2008, non abbia ritenuto di
convalidare questo approccio dogmatico. Le cose cambiano nel 2012, con la sentenza n. 22.
4. La giurisprudenza costituzionale del 2012-14 accoglie parzialmente le prospettive
dogmatiche dell’inemendabilità: critica
Con la sent. n. 22 del 2012 la corte riprende, in parte, le tesi della giurisprudenza del 2007-2008
nel ricordare che, secondo quest’ultima, l’ insussistenza del caso straordinario di necessità e di
urgenza può essere argomentata valutando indici come quello della “evidente estraneità” delle
norme impugnate rispetto alla materia o all’oggetto del decreto legge. La corte, a questo
proposito, ricorda anche il tenore della disposizione di cui al comma 3 dell’art. 15 della l. n. 400
ZACCARIA, L’uso delle fonti normative tra Governo e Parlamento. Bilancio di metà legislatura (XVI), in Giur. cost.,
2010, pp. 4073 ss., spec. 4075 s., che osserva come “viene fatta per decreto-legge la parte più significativa della
manovra economica”; ID., L’omogeneità dei decreti legge: vincolo per il Parlamento o anche per il Governo?, ivi, 2012, pp.
283 ss. M. LUCIANI, Atti normativi e rapporti fra Parlamento e Governo davanti alla Corte costituzionale. Tendenze
recenti, in Alle frontiere del diritto costituzionale. Scritti in onore di Valerio Onida, Milano, 2011, pp. 1151 ss. che
nota come gli atti normativi del governo “sempre più di frequente ridisciplinano interi settori dell’ordinamento o
intervengono, in via d’urgenza, su una vastissima ed eterogenea pluralità di oggetti” (p. 1153). E’ pure noto, del resto,
che non sempre la dottrina considera l’uso odierno della decretazione d’urgenza come abuso: si v., per es.,
ancora R. ZACCARIA, L’omogeneità, cit., p. 284, secondo cui “è questione ormai pacificamente accettata (sic) che
nell’attuale fase storica, soprattutto di fronte alle vicende del tutto nuove introdotte dalla crisi economica, interi capitoli della
politica governativa debbano essere affrontati e disciplinati attraverso lo strumento del decreto legge, che nel suo insieme diventa
lo strumento più appropriato, anche in relazione all’estrema mobilità dei mercati, per attuare l’indirizzo politico governativo”;
nonché M. MANETTI, La via maestra che dall’inemendabilità dei decreti legge conduce all’illegittimità dei maxiemendamenti, in Giur. cost., 2012, pp. 292 ss., spec. 293 s. dove osserva che “se in regime maggioritario è centrale
per l’Esecutivo rendere visibile l’opera di attuazione del proprio programma, i decreti legge si prestano insuperabilmente a
scandirne le tappe, individuando coram populo le misure politicamente più urgenti”.
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del 1988, dove prescrive che il decreto legge “deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”. La
disposizione, ammette la corte, non ha rango costituzionale e non può assurgere a parametro per
il giudizio di costituzionalità, e tuttavia essa costituirebbe esplicitazione della ratio implicita nel secondo
comma dell’art. 77 Cost., il quale impone il collegamento dell’intero decreto-legge al caso straordinario di necessità e
urgenza”30.
Il richiamo ai propri precedenti del 2007-2008 serve però alla corte per precisare che l’ “intrinseca
coerenza” delle norme di un decreto legge può affermarsi sia dal punto di vista “oggettivo e
materiale” che da quello “funzionale e finalistico”, poiché la coerenza può riguardare tanto l’oggetto
che le finalità del decreto. La precisazione, nel caso di specie, serve a “salvare” la prassi dei decreti
legge c.d. milleproroghe, per definizione eterogenei dal punto di vista materiale e che però
sarebbero dotati di una specie di omogeneità di scopo, costituito dall’ “intento di fronteggiare
situazioni straordinarie complesse e variegate, che richiedono interventi oggettivamente eterogenei, afferenti quindi a
materie diverse, ma indirizzati all’unico scopo di approntare rimedi urgenti a situazioni straordinarie venutesi a
determinare”31. Dalla “intrinseca coerenza” delle disposizioni del decreto legge si passa perciò ad un
decreto che, per perseguire la stessa (non specifica ma molto generica) finalità, quella di prorogare
scadenze di termini relativi a materie disparate – sicché la ratio unitaria del provvedimento, come
abbiamo visto, risiederebbe nella latissima finalità comune di impedire il compimento delle
suddette scadenze, prorogandole – è costitutivamente composto di disposizioni eterogenee,
quanto alla materia. Tuttavia, ragioni di economia potrebbero dissuadere dall’ovvia obiezione che,
per rispettare un criterio di “intrinseca coerenza” materiale sarebbe sufficiente che il governo
adotti distinti atti normativi urgenti. Sarebbe assurdo pretendere un decreto legge per ogni
termine in scadenza, non altrettanto assurdo, tuttavia, suggerire un provvedimento d’urgenza che
proroghi termini relativi al medesimo ambito materiale e solo qualora non si potesse procedere in
tal modo, a causa della frammentazione estrema delle scadenze, relative a materie le più disparate,
Sent. n. 22 del 2012, punto 3.3. della motivazione. Questo collegamento fra decreto legge e caso
straordinario di necessità ed urgenza che ne rappresenta il presupposto di adozione è ulteriormente
corroborato dalla successiva sent. n. 220 del 2013: norme aventi carattere ordinamentale sfuggono
necessariamente, secondo la corte, alla competenza di provvedimenti del governo che, proprio sulla base
dei loro presupposti di adozione costituzionalmente fissati, non possono che consistere in interventi
specifici e puntuali. Riforme organiche sono dunque escluse dall’orizzonte del decreto legge le cui
disposizioni, per giunta, debbono avere operatività immediata, operare immediatamente, in quanto appunto
adottate sulla base di presupposti di straordinaria necessità ed urgenza. Sulla sent. n. 220 del 2013 v., fra gli
altri, N. MACCABIANI, Limiti logici (ancor prima che giuridici) alla decretazione d’urgenza nella sentenza della Corte
costituzionale n. 220 del 2013, in Giur. cost., 2013, pp. 3242 ss., nonché l’ampio saggio di GIU. SERGES, Per
un superamento delle “decisioni rinneganti” in materia di decretazione d’urgenza. Spunti di riflessione a partire dalla più
recente giurisprudenza costituzionale, in federalismi.it – Focus Fonti n. 1/2014, pp. 21 ss.
31 Cfr. punto 3.3 del Considerato in diritto.
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ritenere ammissibili i decreti milleproroghe, da considerarsi come un treno in corsa sul quale
devono saltare tutti i termini in corso di scadenza e che il governo ritenga opportuno ed urgente
prorogare. Resta il fatto che lo strumento previsto dall’art. 77 cost. non sembra il più adatto a
provvedere a simili occorenze: ammettiamo pure che le scadenze siano necessarie ed urgenti,
dove mai ritroveremo la straordinarietà dei presupposti di adozione di un decreto milleproroghe
se essi sono divenuti ormai un appuntamento fisso per le camere, chiamati a convertirli, come la
stessa corte riconosce, “con cadenza ormai annuale”32?
Ma ammettiamo pure che i decreti milleproroghe non siano incostituzionali e che non sia
possibile provvedere altrimenti alle esigenze cui rispondono. Le disposizioni impugnate però, nel
caso definito con la sent. n. 22 del 2012, erano state introdotte dalla legge in sede di conversione.
Secondo il giudice delle leggi, la loro incostituzionalità derivava dal contenere un frammento di
una disciplina nuova ed “a regime” in materia di protezione civile, una disciplina perciò del tutto
estranea dalla comune finalità delle disposizioni accolte in un decreto milleproroghe. In un
decreto siffatto né il governo nell’adottarlo né il parlamento nel convertirlo potrebbero inserire
disposizioni che non rispondano alla “ratio unitaria di intervenire con urgenza sulla scadenza dei
termini”33. Secondo la corte, perciò, non solo il decreto legge deve essere omogeneo, nel senso
ricordato (omogeneità materiale o finalistica) ma anche la legge di conversione deve rispettare il
medesimo criterio di coerenza.
Tralascio qui di approfondire le ragioni ad adiuvandum che la corte dapprima avanza, a sostegno
dell’ estensione del criterio della omogeneità dal decreto legge alla legge di conversione – o, per
dir meglio, della estensione del criterio suddetto al rapporto fra decreto legge e legge di
conversione, posto che è al primo, adottato dal governo, alle sue scelte normative, che la legge di
conversione, adottata dal parlamento, dovrà adeguarsi nel rispetto di un canone di coerenza che
la corte mette a punto come criterio di omogeneità. La prima di queste ragioni rinvia alla
disciplina del regolamento della camera dei deputati (art. 96bis, comma 7, che affida al presidente
il compito di dichiarare “inammissibili gli emendamenti e gli articoli aggiuntivi che non siano strettamente
attinenti alla materia del decreto-legge”); la seconda ragione si riferisce alla posizione espressa dal
presidente del senato nel senso di intendere in termini rigorosi il comma 1 dell’art. 97 r.s.,
secondo cui “sono improponibili…emendamenti…che siano estranei all’oggetto della discussione”, posizione
cui potrebbe aggiungersi anche il parere della giunta per il regolamento del senato dell’8.11.1984,
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Sent. n. 22 del 2012, punto 3.4 della motivazione.
Sent. n. 22, ibidem.
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che già esprimeva, con specifico riferimento alla conversione dei decreti legge, la tesi 34 della
necessaria stretta inerenza degli emendamenti ai presupposti di necessità ed urgenza del
provvedimento governativo; la terza, infine, fa riferimento alle ripetute prese di posizione del
presidente della repubblica (già in un caso del presidente Ciampi nel 2002 ma soprattutto del
presidente Napolitano), culminate – ma non esaurite – con il comunicato del Quirinale del 26
febbraio 2011, con il quale, nel promulgare la legge di conversione, con modificazioni, del
decreto legge 29.12.2010, n. 225 – la stessa poi sottoposta a scrutinio dalla sent. n. 22 del 2012 –
si arriva ad affermare che “il presidente Napolitano ha … preso atto dell’impegno assunto dal Governo e dai
Presidenti dei gruppi parlamentari di attenersi d’ora in avanti al criterio di una sostanziale inemendabilità dei
decreti legge. Si tratta di una affermazione di grande rilevanza istituzionale che vale…a ricondurre la decretazione
d’urgenza nell’ambito proprio di una fonte normativa straordinaria ed eccezionale, nel rispetto dell’equilibrio tra i
poteri e delle competenze del Parlamento, organo titolare in via ordinaria della funzione legislativa, da esercitare nei
modi e nei tempi stabiliti dalla Costituzione e dai regolamenti parlamentari”35.
Tesi, questa, che sembra perfettamente calibrata con quella che sarà la giurisprudenza costituzionale del
2007-2008, sottolineando il nesso ragionevole che gli stessi organi politicamente responsabili – parlamento
e governo – non debbono eludere fra sussistenza dei presupposti di adozione del decreto legge e coerenza
del dettato normativo, da intendersi nel senso di una medesima inerenza alla materia o all’oggetto del
provvedimento, in modo da escludere che il parlamento, in sede di conversione, introduca norme del tutto
estranee alla ratio che ha fondato l’adozione del decreto.
35 S’intende che lo spiccato impegno del presidente Napolitano a favore dell’inemendabilità dei decreti
legge è vicenda che merita ed ha meritato specifica attenzione, ai fini di una valutazione delle tesi di fondo
che essa implica, tesi che attengono al rapporti fra poteri e fra le forze politiche, ed in particolare, per
quanto riguarda la materia delle fonti del diritto, al coinvolgimento del capo dello stato nella formazione
dei decreti legge. Su questi argomenti esiste ormai copiosa dottrina e persino una approfondita riflessione
in sede monografica, quella di D. CHINNI, Decretazione d’urgenza e poteri del Presidente della Repubblica,
Napoli, 2014, cui si rinvia anche per la completa indicazione della letteratura sull’argomento. Qui vorrei
limitarmi a citare P. CARNEVALE, Mancata promulgazione di legge di conversione e rinvio alle Camere: il caso del
messaggio presidenziale del 29 marzo 2002, in Rass. parl., 2003, pp. 385 ss.; N. MACCABIANI, La <<difesa>>
della posizione costituzionale degli organi parlamentari nelle procedure normative affidate alle esternazioni del Presidente
Napolitano, in www.rivistaaic.it, n. 2/2011; ID., La mancata conversione di un decreto-legge per effetto del rinvio
presidenziale, e G. D’AMICO, Gli argini della Costituzione ed il <<vulcano>> della politica. Brevi considerazioni a
riguardo del rinvio presidenziale della legge di conversione del decreto-legge 25 gennaio 2002, n. 4, e del suo <<seguito>>
governativo, entrambi in www.forumcostituzionale.it; P. CARNEVALE-D. CHINNI, C’è posta per tre. Prime
osservazioni a margine della lettera del Presidente Napolitano inviata ai Presidenti delle Camere ed al Presidente del
Consiglio in ordine alla conversione del c.d. decreto milleproroghe, in www.rivistaaic.it, n. 2/2011; A. RUGGERI,
Evoluzione del sistema politico-istituzionale e ruolo del Presidente della Repubblica, in www.forumcostituzionale.it; A.
SPERTI, Il decreto-legge tra Corte costituzionale e Presidente della Repubblica dopo la “seconda svolta” e
M.E.BUCALO, L’ “anomala estensione dei poteri presidenziali a fronte della “ritrosia” della Corte costituzionale
nell’epoca del maggioritario, entrambi in www.gruppodipisa.it; I. NICOTRA, Una inedita declinazione del principio
di leale collaborazione istituzionale: verso un nuovo ruolo del Quirinale nell’attività di formazione delle leggi e degli atti
equiparati, in Alle frontiere del diritto costituzionale. Scritti in onore di Valerio Onida, cit., pp. 11 ss. E’ appena il
caso, inoltre, di ricordare che la sostanziale inemendabilità, in sede di conversione, promossa tenacemente
da Napolitano per un buon lustro prima della sent. n. 22 del 2012, poteva vantare le ragioni, sopra
ricordate, del rispetto delle competenze del parlamento e della natura straordinaria ed eccezionale del
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Vengo perciò al cuore dell’argomentazione della corte: il 2° comma dell’art. 77 cost. avrebbe
istituito un “nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo ed emanato dal Presidente
della Repubblica, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a
quello ordinario” 36 . E’ così pienamente accolta dalla giurisprudenza la dogmatica della relazione
funzionale fra decreto legge e legge di conversione, già messa a punto, come sappiamo, dalla
dottrina a partire dalla fine degli anni ottanta, dogmatica che implica una concezione della legge di
conversione come legge “funzionalizzata e specializzata” 37 . Questa ricostruzione è comprovata,
secondo la corte, dal fatto che l’iniziativa del disegno di legge di conversione sarebbe riservata al
governo; che il procedimento di approvazione deve ritenersi distinto da quello ordinario e
peculiare delle sole leggi di conversione poiché i tempi del procedimento sono “particolarmente
rapidi”, tanto da far ritenere che la costituzione abbia attribuito al parlamento il potere di
convertire in legge i decreti legge “con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in
legge un decreto-legge”38. La conclusione, più asserita che argomentata, è che siccome il parlamento “è
chiamato a convertire, o non, in legge un atto, unitariamente considerato…in definitiva, l’oggetto del decreto-legge
decreto legge – forse non immediatamente comprensibili al profano, che potrebbe non a torto
sorprendersi per la pretesa di difendere la funzione legislativa delle camere limitandone le competenze in
sede di approvazione di emendamenti da apportare ad una legge di conversione – specie a causa della
prassi, cui i governi della repubblica sono particolarmente affezionati, di presentare maxiemendamenti ai
disegni di legge di conversione, con i quali regolano i conti non tanto con le minoranze parlamentari ma
soprattutto con segmenti della maggioranza, spesso accogliendo emendamenti proposti da esponenti delle
forze politiche che sostengono il governo, maxiemendamenti sui quali l’esecutivo poi pone la questione di
fiducia. Lo stesso governo in parlamento, perciò, è spesso il vero protagonista della immissione di norme
estranee ai presupposti di straordinaria necessità ed urgenza nel testo del disegno di legge di conversione.
Limitare in modo sostanziale i poteri parlamentari di emendamento del decreto legge dovrebbe perciò,
negli auspici del capo dello stato, avere il significato di porre un argine a questa prassi, certamente
irrispettosa delle prerogative parlamentari ed esiziale per una procedura deliberativa che intenda
valorizzare la dialettica fra le forze politiche e le esigenze di approfondimento dei temi affrontati.
Riprenderò la questione più avanti ma confermo, sin da ora, che a mio giudizio la sensazione che il
profano potrebbe avere, che così operando si getti via il bambino insieme all’acqua sporca, non è
infondata.
36 Sent. n. 22 del 2012, punto 4.2. della parte motiva.
37 Così testualmente l’ord. n. 34 del 2013, che riprende gli argomenti usati nella sent. n. 22 del 2012, ed
analogamente la sent. n. 32 del 2014, ove si afferma che la legge di conversione “non può…aprirsi a qualsiasi
contenuto ulteriore…Pertanto, l’inclusione di emendamenti e articoli aggiuntivi che non siano attinenti alla materia oggetto
del decreto-legge, o alle finalità di quest’ultimo, determina un vizio della legge di conversione in parte qua”: punto 4.1. del
considerato in diritto. Sulla sent. n. 32 del 2014, oltre gli interventi pubblicati sul Focus Fonti, n1/2014 di
Federalismi.it, anche G. PICCIRILLI, La sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014: legge di conversione e
articoli aggiuntivi eterogenei, in Quad. cost., 2014, pp. 396 ss.
38 Sent. n. 22 del 2012, punto 4.2. della motivazione. Analogamente la sent. n. 32 del 2014, ove si afferma
che “la legge di conversione…segue un iter parlamentare semplificato e caratterizzato dal rispetto di tempi particolarmente
rapidi, che si giustificano alla luce della sua natura di legge funzionalizzata alla stabilizzazione di un provvedimento avente
forza di legge, emanato provvisoriamente dal Governo e valido per un lasso temporale breve e circoscritto” (punto 4.1. della
motivazione).
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tende a coincidere con quello della legge di conversione” 39 . Le camere possono ancora apportare
emendamenti al testo del decreto ma solo nei limiti di oggetto o di finalità segnati dal decreto
medesimo e dunque le leggi di conversione debbono avere un contenuto omogeneo rispetto a
quello del provvedimento d’urgenza.
E’ perciò con la sent. n. 22 del 2012 che “il profilo della ‘tipizzazione’ della legge di conversione si delinea
con chiarezza” 40 , una tipizzazione che irrigidisce il ruolo del parlamento impedendogli una più
ampia facoltà di emendamento – questo il suo effetto, diremmo, diretto – e che irrigidisce, o
dovrebbe irrigidire il ruolo del governo, impedendogli (nelle intenzioni di parte della dottrina e,
come si è visto, del presidente Napolitano) di proporre emendamenti (o maxiemendamenti)
eterogenei, poi corredati dalla proposizione della questione di fiducia – questo il suo effetto
indiretto ma, forse, ancora più al centro delle esigenze di contenimento dell’abuso della
decretazione d’urgenza41. Nella sent. n. 22, rispetto ai suoi precedenti del biennio 2007-2008, si
consuma il distacco e si perfeziona la conseguente autonomia del criterio della omogeneità dalla
valutazione sulla sussistenza dei presupposti della straordinaria necessità ed urgenza. Il distacco è
esplicitamente sancito nella sent. n. 22 laddove afferma che l’interruzione del legame essenziale
fra decretazione d’urgenza e conversione in legge fa sì che la violazione del comma 2 art. 77 cost.
non derivi dall’assenza o carenza dei presupposti previsti dalla disposizione costituzionale “per le
norme eterogenee aggiunte, che, proprio per essere estranee e inserite successivamente, non possono collegarsi a tali
condizioni preliminari…ma [derivi dall’] uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la
Costituzione gli attribuisce, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge un
decreto-legge”42.
E’ noto che già venti anni fa, con la sent. n. 29 del 1995, la corte aveva affermato il principio
secondo cui il difetto dei requisiti previsti dal co. 2 dell’art. 77 cost. si traduce, una volta
intervenuta la conversione, in vizio in procedendo della relativa legge. Quest’ultima risulterebbe in
ipotesi viziata per aver “valutato erroneamente l’esistenza di presupposti di validità in realtà insussistenti e,
Ancora sent. n. 22, punto 4.2. del considerato in diritto.
Così G. SERGES, La “tipizzazione” della legge di conversione del decreto-legge ed i limiti agli emendamenti
parlamentari, in Consultaonline, 2012, poi anche in Giur.it., 2012.
41 Nella prassi dell’abuso della decretazione d’urgenza convergono, come si sa, tutta una serie di aspetti
problematici della crisi e del declino della democrazia parlamentare italiana, non ultimo quello dei rapporti
fra governo e maggioranza parlamentare, spesso contrassegnati da reciproci ricatti e bracci di ferro. Si
tratta però di una prassi rispetto alla quale è ben difficile immaginare un’ escalation di interventi della corte
costituzionale – per le condivisibili ragioni di prudenza e di rispetto dei limiti del proprio ruolo già
ricordate – ed ancor meno, forse pessimisticamente (me lo auguro) improvvise resipiscenze della politica
parlamentare, per esempio in sede di valutazione della sussistenza dei presupposti previsti dal 2° co.
dell’art. 77 cost. Diversamente v. M. MANETTI, La via maestra, cit., pp. 296 ss.
42 Sent. n. 22 del 2012, punto 4.2. della motivazione.
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quindi, convertito in legge un atto che non poteva essere legittimo oggetto di conversione”. Così ragionando, la
corte può escludere che le sia preclusa un’indagine sulla sussistenza dei presupposti di
straordinaria necessità ed urgenza “dal momento che il correlativo esame delle Camere in sede di conversione
comporta una valutazione del tutto diversa e, precisamente, di tipo prettamente politico sia con riguardo al
contenuto della decisione, sia con riguardo agli effetti della stessa” 43 . Evidente ed opportuna appare la
preoccupazione della corte di delimitare la sfera del proprio sindacato sulla sussistenza dei
presupposti della decretazione d’urgenza rispetto ai poteri degli organi politicamente responsabili
ed evidente, altresì, la continuità di questo atteggiamento di cautela della corte, come già
sottolineato nel corso dell’esame della giurisprudenza del biennio 2007-2008. E’ bene ancora
notare che la linea argomentativa della corte, dal 1995 in poi, nel definire come vizio in procedendo
quello dell’ assenza dei requisiti previsti dal 2° co. art. 77 cost., rinvia alla elaborazione della
giurisprudenza amministrativa sull’eccesso di potere. Questa elaborazione esprime una tradizione
che a sua volta intese distinguere nettamente la valutazione del merito di un provvedimento da
quella che può essere rimessa ad un organo giurisdizionale nell’esercizio di un sindacato sull’
abuso o sullo sviamento44 del potere (come, forse più correttamente, si esprime il lessico della
tradizione francese che parlava di détournement de pouvoir). La migliore dottrina costituzionalistica
italiana aveva da tempo sostenuto, inoltre, che fra i vizi formali della legge possono rientrare
“anche quelli che attengono non al procedimento di formazione in senso stretto dell’atto avente valore legislativo,
sibbene ai suoi presupposti”45.
Sent. n. 29 del 1995, punto 2 della motivazione.
Cfr. G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, Torino, 1990, p. 178, e già F. SORRENTINO,
Spunti sul controllo della Corte costituzionale sui decreti-legge e sulle leggi di conversione, in Scritti Mortati, IV, Milano,
1977, p. 760.
45 Cfr. A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale plurale, Milano, 2012, p. 131, ma già ID., Sindacabilità da parte
della Corte costituzionale dei presupposti della legge e degli atti con forza di legge, in Riv.trim.dir.pubbl., 1965, pp. 420 ss.;
nonché F. MODUGNO, L’invalidità della legge, II, Teoria dell’atto legislativo e oggetto del giudizio costituzionale,
Milano, 1970, pp. 135 ss., spec. p. 141 e pp. 151 ss., ove nel distinguere fra vizi sostanziali e vizi formali
con grande chiarezza ed acume afferma che i primi ricorrono ove “si tratti di interpretare una disposizione e
quindi di rilevare il contrasto tra una norma e il parametro…mentre quando si tratti di esaminare i presupposti dell’atto,
questo medesimo nel suo svolgersi o il prodotto dell’attività, o a n c h e i l s u o s t e s s o c o n t e n u t o d i s p o s i t i
v o , n o n però propriamente p e r q u e l c h e d i s p o n e , ma p e r s è s t e s s o , in quanto ad esso debba
corrispondere una certa forma, si cade nella ipotesi di vizi formali” (p. 153). I vizi formali comprendono i vizi dei
presupposti dell’atto i quali sono “modalità soggettive od oggettive, rilevabili a l d i f u o r i d e l p r o c e d i m e n t
o di formazione dell’atto” (p. 154), il cui difetto può anche derivare dal contenuto dispositivo dell’atto
medesimo; v. ancora ID., Legge (vizi della), in Enc. dir., XXIII, Milano, 1973, pp. 1000 ss., spec. pp. 1005 ss.
Dunque, un vizio formale, ed in particolare un vizio che derivi da carenza dei presupposti, nel nostro caso
dalla carenza dei presupposti previsti dal comma 2 dell’art. 77 cost., implica un sindacato sul contenuto
dispositivo dell’atto, sindacato che però non riguarderà questo contenuto in quanto tale, in quanto cioè
intrinsecamente incompatibile con determinate prescrizioni costituzionali; invece, il contenuto dispositivo
potrà rivelarsi indice, elemento di identificazione di una carenza della straordinaria necessità ed urgenza, che è
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Un sindacato sui presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, per sua natura, può dunque
condurre ad evidenziare un vizio di ragionevolezza che, a sua volta, potrà emergere da un
apprezzamento della coerenza delle norme impugnate, sia del decreto legge che della legge di
conversione, rispetto al fine, o principio elastico, preordinato dalla disposizione costituzionale,
che il governo adotti, cioè, prescrizioni aventi forza di legge (solo) in casi straordinari di necessità
e di urgenza. Abbiamo già visto come, in linea con questa impostazione, la giurisprudenza del
biennio 2007-2008 abbia configurato criteri di apprezzamento della coerenza fra norme
impugnate (del decreto o della legge) e requisiti di cui all’at. 77 co. 2 cost., ed in particolare quelli
del rapporto fra epigrafe e preambolo dell’atto, che asseriscano la sussistenza dei presupposti, e
suo contenuto dispositivo, dal quale essi invece non emergano in alcun modo; ovvero della
eterogeneità delle norme inserite nel decreto legge, non suffragata adeguatamente da un’ esigenza
comune di coerenza, in grado di ricondurre norme eterogenee ad una medesima ragione comune
fondata sulla straordinaria necessità ed urgenza. Questo sindacato sulla evidente carenza dei
presupposti costituzionalmente previsti per l’adozione dei decreti legge appare perciò, lo ripeto,
come esercizio di un controllo sulla ragionevolezza della legge, ed in particolare da uno scrutinio
sulla coerenza del decreto legge o della legge di conversione.
La mancanza di omogeneità delle disposizioni del decreto legge e della legge di conversione era
dunque chiamata a giocare il ruolo di sintomo, in ipotesi, della insussistenza di un contesto
normativo coerente e dunque rispettoso dell’indicazione costituzionale. Nelle sent. nn. 22 del
2012 e 32 del 2014, invece, la carenza di omogeneità non è più possibile sintomo di una
incoerenza e perciò della irragionevolezza della legge o dell’atto normativo ma elemento che
mostra la frattura del legame procedimentale fra provvedimento d’urgenza e legge di conversione
e prova dell’uso improprio, da parte del parlamento, del potere legislativo (non generale ma
speciale) di convertire in legge il decreto del governo.
presupposto per la legittima adozione del decreto legge. Di conseguenza, un sindacato di ragionevolezza
che utilizzi il canone della coerenza o della non estraneità o omogeneità delle disposizioni del decreto legge fra
loro considerate, ovvero delle disposizioni, inserite da emendamenti, in sede di conversione del medesimo
decreto, può considerarsi pienamente coerente con la natura formale del vizio del presupposto. Perciò,
non pare sia dogmaticamente necessario – ed anzi, sembrerebbe ultroneo – configurare in termini
autonomi il vizio che derivi da carenza di omogeneità, qualificandolo come vizio formale derivante dal
procedimento – non più dalla carenza dei presupposti – che, per essere non più il procedimento ordinario
di formazione della legge ma quello speciale e funzionalizzato alla sola conversione dei provvedimenti
d’urgenza, sarebbe stato viziato dall’adozione di emendamenti eterogenei rispetto alla materia o
all’oggetto del decreto legge.
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5. Ancora sulla critica alla giurisprudenza più recente ed alle sue fondamenta concettuali
Siamo perciò di fronte ad un tornante significativo della giurisprudenza costituzionale in materia
di atti con forza di legge: fino al 2012 era considerato preminente un sindacato, necessariamente
deferente – per il dovuto rispetto delle valutazioni rimesse ai soli poteri politicamente
responsabili – sui requisiti di straordinaria necessità ed urgenza; un sindacato nel corso del quale
la corte poteva considerare come sintomo, fra altri, della insussistenza o carenza di quei requisiti
la eterogeneità delle disposizioni del decreto legge o anche delle disposizioni della legge di conversione
rispetto a quelle dell’atto governativo46, eterogeneità da considerarsi come fattore di incoerenza e perciò
di irragionevolezza della normativa scrutinata. A partire dalla sent. n. 22 del 2012, invece, è
abbandonata la prospettiva flessibile del controllo di ragionevolezza e si privilegia
un’impostazione più rigidamente dogmatica, imperniata, come ormai sappiamo, sui concetti della
legge specializzata, dotata cioè della sola competenza, tipica, a convertire il provvedimento
d’urgenza del governo, e del nesso funzionale fra decreto legge e legge di conversione.
Non vorrei tornare sulle ragioni di fondo, già ricordate in apertura del precedente § 3, che
secondo me suggeriscono di non condividere questi sviluppi della giurisprudenza costituzionale,
Questo, infatti, avrebbe potuto essere lo sviluppo più coerente della giurisprudenza del biennio 20072008, del resto forse già, in qualche misura, implicito in essa. Si ricorderà, invero, che la corte, nella sent. n.
171 del 2007, aveva sottolineato l’esigenza di “preservare l’assetto delle fonti normative” e di garantire che
“l’adozione delle norme primarie spetta agli organi o all’organo il cui potere derivi direttamente dal popolo”. Ebbene, nel
nostro ordinamento costituzionale, la funzione legislativa spetta collettivamente alle due camere (art. 70)
che la esercitano nel rispetto delle modalità previste dall’art. 72 cost. e quindi, fra l’altro, discutendo e
votando articolo per articolo i progetti di legge. Questa regola subisce eccezione nel caso della discussione
e votazione dei disegni di legge di conversione dei decreti legge, caso in cui tutto il procedimento è
imperniato sulla valutazione dell’ articolo unico con il quale la legge recepisce il provvedimento
governativo. L’eccezione si comprende e si giustifica proprio in vista dei presupposti di straordinaria
necessità ed urgenza, che sono a fondamento dell’adozione dei decreti legge; così come si comprendono e
giustificano l’abbreviazione dei termini e lo snellimento complessivo del procedimento legislativo, previsti
e regolati dai regolamenti parlamentari. Se, però, emendamenti parlamentari vengono presentati al di fuori
di quei presupposti, essi verrebbero adottati in violazione non solo dell’art. 77 ma anche dell’art. 72,
comma 1, cost.: quest’ultimo sarebbe eluso, in particolare lo sarebbe la previsione della discussione e
votazione articolo per articolo. Le camere, inoltre, si avvarrebbero di un procedimento, bensì ordinario ma
molto snellito, per la disciplina di casi che non rientrano fra i presupposti di straordinaria necessità ed
urgenza e perciò in violazione del comma 2 dell’art. 77 cost. Sul ruolo della discussione e votazione
articolo per articolo nel procedimento ordinario di formazione della legge v. soprattutto A.A. CERVATI,
Commento all’art. 72, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, La formazione delle leggi, t. I, 1,
Bologna-Roma, 1985, pp. 124 ss. , nonché ID., Interrogativi sulla sindacabilità dell’abuso del decreto-legge, in Giur.
cost., 1979, pp. 880 ss., a proposito del difetto della valutazione articolo per articolo nel corso del
procedimento di conversione dei decreti legge. Si v. anche le interessanti considerazioni di G.
PICCIRILLI, L’emendamento nel processo di decisione parlamentare, Padova, 2008, pp. 295 ss., che, pur orientato
a favore dell’idea che l’omogeneità possa costituire un autonomo indice di illegittimità costituzionale,
sembra far risalire già alla sent. n. 171 del 2007 una ragionevole esigenza di coerenza fra provvedimento
governativo e legge di conversione.
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ragioni che non attengono solo a meri aspetti di teoria delle fonti ma che riguardano anche e
soprattutto il nesso di questa teoria con la prassi e l’esperienza costituzionale italiana. Vorrei
invece ancora notare che il grumo dogmatico, costituito dall’abbinamento fra nesso funzionale
decreto legge – legge di conversione e concezione di quest’ultima come legge funzionalizzata a
competenza tipica, conduce la corte a ritenere che la carenza di omogeneità degli emendamenti
introdotti in sede di conversione si traduca in vero e proprio vizio formale attinente al
procedimento di formazione in senso stretto: una volta ammesso, infatti, che la legge di
conversione è fonte a competenza specializzata, cioè che la costituzione attribuisce al parlamento
il potere di convertire in legge i decreti del governo “con speciali modalità di procedura”47, e che fra
queste speciali modalità di procedura deve annoverarsi l’adozione di norme non estranee alla
materia o alle finalità del decreto governativo, ecco compiuto il piccolo miracolo della
conversione di un vizio di legittimità costituzionale dipendente da una valutazione di
ragionevolezza in un vizio di legittimità costituzionale fondato sulla possibilità di “raffronto
immediato alla stregua di una regola di non contraddizione fra norma di livello costituzionale e norma di livello
legislativo”48. Come se si passasse, nel giudizio amministrativo, da un vizio per eccesso di potere ad
un vizio per violazione di legge. Ma dove cercare, nel nostro caso, la “violazione di legge”, la
violazione dello specifico disposto dell’art. 77, comma 2, cost., se non nella fantasia concettuale
della dottrina e, poi, della giurisprudenza costituzionale? Dov’è mai scritto, o dove mai può esser
letto, nell’art. 77 o in altre disposizioni costituzionali, che il parlamento, quando converte in legge
un decreto, non sta esercitando la propria ordinaria funzione legislativa – sulla quale potrà poi
cadere un sindacato di ragionevolezza – ma un potere tipico e specializzato, il cui scopo è quello
di convertire il provvedimento d’urgenza? Potenza della elaborazione dogmatica, vien da pensare,
il cui scopo è proprio quello, per mezzo della riflessione e della categorizzazione concettuale e
sistematica, di far vedere ciò che, sulle prime, non appare, immerso com’è nel flusso perenne
dell’esperienza. Il rischio, però, è che appaiano fantasmi della realtà e non più la realtà stessa, se la
dogmatica non si assoggetta ad una rigorosa vigilanza sulla propria rispondenza al concreto
spessore dell’esperienza indagata.
Siamo allora di fronte alla realtà o ai suoi fantasmi? Si dirà, a sostegno della prima ipotesi, che la
rappresentazione della realtà che affiora dalla giurisprudenza costituzionale del 2012-2014, e già
prima dalla dottrina che aveva impostato nei termini dogmatici che conosciamo il rapporto fra
decreto legge e legge di conversione e la natura funzionalizzata e specializzata di questa, intende
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Così la sent. n. 22 del 2012, punto 4.2. del considerato in diritto.
Cfr. A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale plurale, cit., p. 141.
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cogliere, della realtà, una verità profonda, non immediatamente percepibile dal profano ma ben
nota allo specialista: che il parlamento non è più padrone del procedimento di formazione della
legge e tantomeno di quello, regolato da specifiche norme dei regolamenti parlamentari, di
conversione dei decreti; che le prassi parlamentari hanno sancito questo stato delle cose, che è
conseguenza di complessivi assetti, come abbiamo visto, dei rapporti fra poteri, dei rapporti fra
partiti, delle condizioni della rappresentanza politica e della democrazia, delle condizioni concrete
della società italiana49; che, per effetto di questo stato delle cose, che culmina nelle prassi perverse
di abuso della decretazione d’urgenza (fra tutte, quella della presentazione, da parte del governo,
di maxiemendamenti al disegno di legge di conversione, seguita dalla posizione della questione di
fiducia) il tentativo più convincente per arginare la prassi degli abusi e tornare alla “restaurazione
della legge parlamentare a forma ordinaria di disciplina”50, sarebbe quello di irrigidire concettualmente sia
il rapporto fra decreto legge e legge di conversione sia la natura di questa. Da questo
irrigidimento, infine, dovrebbe derivare l’impercorribilità della via degli emendamenti eterogenei
al disegno di legge di conversione del provvedimento d’urgenza, impercorribilità che si
imporrebbe a tutte le parti politiche in parlamento ed allo stesso governo, sottraendo al
procedimento di conversione le sembianze di “unica via disponibile per la legiferazione”51. Questa la
terapia, come già ricordato, suggerita per un buon lustro dal presidente della repubblica
Napolitano, prima del suo accoglimento da parte della corte con la sent. n. 22 del 201252, terapia
incentrata concretamente, oltre la sua configurazione dogmatica, sulla drastica limitazione del
potere di emendamento del disegno di legge di conversione.
Beninteso, la dottrina più rigorosa, nel sostenere l’esigenza di dogmatizzare nei termini più volte
ricordati decreto legge e legge di conversione, ha poi mostrato insoddisfazione per la
giurisprudenza costituzionale, che non avrebbe compiuto del tutto e con coerenza il passo
dogmatico necessario a rendere davvero inemendabili (se non per aspetti meramente formali) i
decreti legge. Questa dottrina, del resto, sembra presa nella contraddizione della diffidenza
mostrata nei confronti del concetto di omogeneità, considerato “incerto, impalpabile, indefinibile in
astratto”53 ma, al tempo stesso, indefettibile per ogni atto normativo, non solo per decreto legge e
V. supra, § 3.
Così M. MANETTI, La via maestra, cit., p. 292.
51 Ancora M. MANETTI, op.cit., p. 295.
52 V. supra, § 4 e nota 35.
53 Così A. RUGGERI, In tema di norme intruse e questioni di fiducia, ovverosia della disomogeneità dei testi di legge e dei
suoi possibili rimedi, in Federalismi.it, n. 19/2009, p. 3. Secondo Ruggeri, gli emendamenti eterogenei
approvati in sede di conversione dovrebbero intendersi come affetti da un vizio d’ incompetenza, che poi
si risolve e rende palese per il tramite di un vizio di ragionevolezza: v. ID., Fatti e norme nei giudizi sulle leggi e
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legge di conversione. Si segue qui il filo di una suggestione molto astratta, in virtù della quale
commi, articoli, testi normativi dovrebbero essere dotati, pena la loro contrarietà a costituzione,
di un certo tasso di omogeneità: certo, si ammette, non precisabile nei suoi presupposti
concettuali ma che potrà essere fatta valere sia nelle competenti sedi all’interno delle camere
(commissione affari costituzionali, comitato per la legislazione) che, soprattutto, di fronte alla
corte costituzionale54.
Tuttavia, in senso contrario alla rappresentazione della realtà per come sopra descritta, si può
forse obiettare non certo che tutta la materia della decretazione d’urgenza non sia oggetto di
abusi reiterati, cosa innegabile, né che gli abusi non siano appunto quelli indicati. Piuttosto, ci si
può chiedere se la terapia consistente nella affermazione della inemendabilità del decreto legge da
parte della legge di conversione e la relativa elaborazione dogmatica che la sostiene siano davvero
in grado di produrre risultati. I decreti legge, per vero, continuano ad essere considerati lo
strumento privilegiato di legislazione e continuano ad essere scritti, prima ancora di qualsivoglia
intervento da parte delle camere, in modo da ricomprendervi ambiti materiali disparati. Si prenda, ad
esempio, il d.l. 12 settembre 2014, n. 133, poi conv. in l. 11 novembre 2014, n. 164. Già
l’intitolazione dice molto: “Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la
digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa
delle attività produttive”. Nel corso dell’esame del provvedimento, alla camera dei deputati, il
comitato per la legislazione, chiamato ad esprimersi ai sensi dell’art. 96bis, comma 1, del r.c.,
aveva notato come nel decreto erano state coartate “misure che incidono su una pluralità di ambiti
le “metamorfosi” dei criteri ordinatori delle fonti, Torino, 1994, pp. 127 ss.; analogamente v. anche G.
PICCIRILLI, L’emendamento nel processo di decisione parlamentare, cit., pp. 295 ss. Anche G. SERGES, La
“tipizzazione” della legge di conversione, cit., pp. 5 s., ritiene che un sindacato, come quello prefigurato dalla
corte, sulla estraneità all’oggetto o alle finalità originarie del decreto, degli emendamenti apportati al
disegno di legge di conversione, imposti l’eterogeneità di questi su “un raggio di escursione amplissimo e, in molti
casi, assai sfuggente”; l’omogeneità di un provvedimento normativo è “requisito difficile, se non impossibile, da
definire a priori” (p. 419), “sfuggente e scivoloso” (p. 457) benché ineludibile, come dichiarato già nel titolo del
proprio studio, secondo N. LUPO, L’omogeneità dei decreti-legge (e delle leggi di conversione): un nodo difficile, ma
ineludibile per limitare le patologie della produzione normativa, in Scritti in memoria di A. Concaro, Milano, 2012, pp.
419 ss.
54 V. ancora A. RUGGERI, In tema di norme intruse, cit., pp. 2 ss. Secondo questa dottrina, alcune
conseguenze positive – sembra di capire, nel senso della limitazione degli abusi della prassi – si sarebbero
già conseguite proprio in materia di decretazione d’urgenza. Purtroppo, gli “esiti applicativi” che
costituirebbero un “risultato di non secondario rilievo” in materia sembrano sussistere solo nella fantasia
dogmatica di Ruggeri, come subito vedremo, a meno di non considerare tali, in sé, il nuovo corso della
giurisprudenza costituzionale in materia. Sulla omogeneità come caratteristica essenziale delle leggi (ma
non tale da suggerire l’annullamento di quelle che ne siano prive) v. M. LUCIANI, Commento all’art. 75, in
Commentario della Costituzione, fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, I, 2, La formazione delle
leggi, Bologna-Roma, 2005, pp. 407 ss.
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materiali e la cui complessiva riconducibilità a una ratio unitaria non appare univocamente desumibile neppure
dal preambolo e dal titolo del decreto”, al punto da ritenere opportuno “frazionare i decreti per consentirne
un esame più approfondito”. Nella seduta antimeridiana del 24.9.2014 del comitato la relatrice,
esponente della maggioranza, non aveva mancato di esprimere un parere molto articolato anche
sulla questione della omogeneità, rilevando come il provvedimento contenesse misure in materia:
di lavori pubblici ed opere di privati; di ambiente, risorse idriche, rischio idrogeologico, ecc.; di
imprese e rilancio dell’economia (promozione del made in Italy, operatività della cassa depositi e
prestiti, patrimonializzazione delle imprese, ecc.); trasporti; edilizia; energia; finanza regionale e
locale; partecipazione delle comunità locali alla valorizzazione del territorio; rimozione di vincoli
amministrativi, ecc., notando che il decreto era non solo sprovvisto di omogeneità per materia
ma anche privo di nesso unitario sotto il profilo teleologico, di una ratio unitaria, poiché al
contrario in esso era possibile riscontrare “la coesistenza di diverse finalità”55 e richiamando il governo
al rispetto della sent. n. 22 del 2012 della corte. Al senato, invece, ogni rilievo sull’ eterogeneità
del provvedimento scompare dal parere formulato dalla comm. affari costituzionali, parere “non
ostativo” benché il decreto legge sia disseminato di “molteplici e rilevanti criticità” 56 derivanti dalla
rilevata violazione del riparto di competenze legislative fra stato e regioni e dal mancato rispetto
dell’autonomia finanziaria di regioni ed enti locali. Appena il caso di dire che il provvedimento è
diventato legge conservando tutta l’ampiezza e l’indeterminatezza materiale e finalistica che aveva
appena uscito dalle stanze ministeriali.
Del resto, anche chi, in dottrina, aveva salutato con favore il nuovo indirizzo giurisprudenziale
inaugurato con la sent. n. 22 del 2012, aveva poi sottolineato l’esigenza che il vincolo
dell’omogeneità non dovesse pesare solo sulla legge di conversione ma anche sul provvedimento
del governo, per evitare il rischio di “aggravare proprio quello stesso problema che si vorrebbe risolvere,
Bollettino delle Giunte e delle Commissioni parlamentari, Comitato per la legislazione, mercoledì 24
settembre 2014, relatore on. Marilena Fabbri. Alcuni giorni dopo, il 16 ottobre 2014, la commissione affari
cost. della camera esprime parere favorevole sul decreto, pur rilevando, in apertura, che esso contiene “una
pluralità di interventi volti ad incidere su numerosi e complessi settori dell’ordinamento”, senza però trarre conseguenze
da questa osservazione. Come anche il comitato per la legislazione, così la commissione affari
costituzionali si sofferma invece su altri aspetti critici, come per es. la violazione del principio di leale
collaborazione. Molto diversa l’impostazione della proposta alternativa di parere formulata, nella
commissione, dal gruppo del movimento cinque stelle, nel quale si rileva “l’eccezionale eterogeneità” del
provvedimento e si sostiene l’insufficienza e la eccessiva vaghezza di un fine come quello del “rilancio
dell’economia” per “giustificare l’emanazione di un provvedimento così complesso e articolato”, con richiami, anche in
questo caso, alla sent. n. 22 del 2012.
56 Parere della prima Commissione permanente Affari costituzionali del Senato, 3 novembre 2014.
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ovverosia il giusto equilibrio nei rapporti fra Parlamento e Governo”
57
. Dunque, la ricetta dell’
inemendabilità della legge di conversione non ha sortito alcun benefico effetto, i rapporti fra
parlamento e governo sono sempre più squilibrati e ciò è conseguenza, come abbiamo visto, di
uno stato di cose molto complesso, che affonda radici nelle condizioni della democrazia italiana,
dei rapporti fra partiti ed anche, più in profondità, nelle trasformazioni, nei cambiamenti, ma
dialetticamente anche nelle ricorrenze, nei vizi antichi di una società che, cambiando, mostra
anche tendenze a tornare sui propri passi, a ripetere antiche movenze ed antiche forme di
espressione, avrebbe scritto Balzac, della corruzione umana.
6. Sull’omogeneità come coerenza e su alcune contraddizioni della dogmatica e della
giurisprudenza
L’idea che la legge di conversione non costituisca esercizio della ordinaria funzione legislativa e
che il nesso funzionale esistente fra il decreto legge e la legge di conversione renda quest’ultima
una legge dotata di una sola specifica competenza, quella di convertire il provvedimento
governativo; la conseguenza che se ne è tratta, in dottrina, della inemendabilità del
provvedimento d’urgenza da parte delle camere, ed in giurisprudenza, della modificabilità limitata
ai soli emendamenti omogenei alla materia o all’oggetto trattati dal decreto governativo, sono
impostazioni che hanno trasformato, come abbiamo visto, un vizio formale dell’atto legislativo
e/o della legge derivante da difetto o carenza dei presupposti in vizio formale attinente al
procedimento in senso stretto. Più precisamente, la corte rileva che il vizio deriva dall’aver
adottato un procedimento – quello di conversione – al posto di un altro – quello ordinario – così
abbandonando, come essa esplicitamente fa nella sent. n. 22 del 2012, la via del sindacato sulla
assenza o carenza dei presupposti previsti dall’art. 77 comma 2. Seguendo quest’ultima via, come
è stato esattamente notato 58, “la disomogeneità compare come uno strumento rilevatore” del difetto dei
presupposti, “non come autonomo vizio della normativa impugnata”. Aver reso autonomo il vizio, sulla
base della premessa che il procedimento di conversione sia procedimento legislativo distinto da
quello ordinario ed a competenza specializzata significa, secondo la dottrina che con più
Così R. ZACCARIA, L’omogeneità dei decreti legge, cit., p. 289. In termini ancor più netti, commentando la
sentenza n. 29 del 1995, Paladin aveva sostenuto che “tale decisione chiude le porte della stalla, dopo che i buoi sono
scappati. Lo scandalo della decretazione d’urgenza riguarda l’uso arbitrario dei decreti-legge, ben più che la rivalutazione e
l’appropriazione di tali provvedimenti da parte delle Camere…Rispetto a quegli abusi, che in prima linea offendono il
riparto costituzionale delle attribuzioni legislative fra il Governo e il Parlamento, le leggi di conversione rappresentano un
falso bersaglio”: L. PALADIN, Atti legislativi del Governo e rapporti fra i poteri, in Quad. cost., 1996, pp. 24 s.
58 Da P. CARNEVALE, Giuridificare un concetto: la strana storia della “omogeneità normativa”, in Federalismi.it –
Focus Fonti, n. 1/2014, p. 10.
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determinazione e rigore ha sostenuto questa tesi, non solo trarre la conseguenza della
inemendabilità dei decreti legge ma anche recuperare “il significato originario, genuino, della ‘conversione’
”59. Ma questo significato era stato originariamente, nel senso di storicamente, inteso in senso del
tutto diverso60.
Come sappiamo, inoltre, non convincono le letture del fenomeno dell’abuso della decretazione d’
urgenza, anche se sostenute dalla moral suasion dell’ ex presidente Napolitano, secondo cui limitare
l’emendabilità significa limitare il fenomeno dell’abuso. In realtà, come potevano percepire anche
le opinioni dei profani, limitare l’emendabilità non vale in alcun modo a limitare l’abuso ma vale a
rappresentare il rovesciamento del processo di integrazione politica, che si vuole ormai non più
affidato alla legge ed alla dialettica fra maggioranza ed opposizioni in parlamento ma,
fondamentalmente, ad una leadership carismatica e mediaticamente sostenuta che, con metodi
populistici, governa i rapporti politici, scavalcando le istanze pluraliste rappresentate dal
procedimento legislativo parlamentare. L’impressione, infatti, è che, nonostante i richiami
all’esigenza di tornare a valorizzare tale procedimento, limitando gli abusi della decretazione
d’urgenza, si ritenga ormai da più parti, non solo nelle sedi politiche ma anche in quelle dottrinali,
che nel nostro ordinamento non esista alternativa alla legislazione tramite decreto legge. Si è forse
convinti che la “fuga” dalla legge abbia ormai assunto proporzioni sistemiche complessive – uso
della delega legislativa e della delegificazione, poteri di ordinanza, abuso di decreti di natura non
regolamentare e dei decreti del presidente del consiglio dei ministri – tali da suggerire che, per
stringere il fuoco solo sul nostro tema della decretazione d’urgenza, sia preferibile favorire che
l’agenda politica del governo possa tradursi rapidamente in legge senza affrontare la discussione
ed il confronto con le minoranze ed ancor meno con la maggioranza parlamentare, evitando così
ogni esigenza di mediazione o sollecitazione emendativa, comprese quelle che possono
accendersi, nel corso del procedimento di conversione, anche all’interno della stessa compagine
governativa.
V. A. RUGGERI, In tema di norme intruse, cit., p. 7.
Vale ancora il rinvio al saggio di G. FILIPPETTA, L’emendabilità del decreto-legge, pp. 1 ss., che ricostruisce
con accuratezza il dibattito nell’assemblea costituente e le posizioni assolutamente prevalenti in dottrina
fino a tutti gli anni ottanta: l’art. 77 della costituzione era stato concepito come una disposizione che
sanciva una netta delimitazione dei poteri normativi primari del governo, delimitazione rispetto alla quale
la piena latitudine dell’emendabilità del decreto da parte del parlamento in sede di conversione valeva a
ribadirne il ruolo determinante nel processo di integrazione politica, affidato essenzialmente alla legge ed a
convalidare una fondamentale opzione pluralista dell’ordinamento, rigorosa nel far valere il rispetto delle
prerogative delle minoranze.
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Ma torniamo sul versante del nostro tema concernente la giurisprudenza costituzionale. Abbiamo
visto come, dopo la sent. n. 29 del 1995, la corte, pur riconoscendo l’importanza e lo spessore
istituzionale della valutazione politica, affidata agli organi politicamente responsabili, governo e
parlamento, sulla sussistenza dei presupposti della decretazione d’urgenza, affermi che questa
valutazione politica non può sottrarsi ad ogni verifica di ragionevolezza, di coerenza. Accanto alla
valutazione politica anzidetta, perciò, la corte ammette e riconosce la propria valutazione, che
potrà condurre anche alla rilevazione della sussistenza di un vizio in procedendo, nel senso di vizio
formale, attinente alla evidente carenza dei presupposti dell’atto e che può condurre anche ad
inficiare l’atto nel suo complesso senza necessariamente indirizzarsi, come nel caso dei vizi
materiali, nei confronti di singole norme desumibili da sue disposizioni. Questo accertamento del
vizio, come si è visto nel corso dell’esame della giurisprudenza costituzionale del biennio 200708, implica non un apprezzamento in astratto dell’atto in sé, inteso per la sua struttura formale o
per il procedimento della sua formazione, ma una valutazione in concreto sulla ricorrenza della
straordinaria necessità ed urgenza, valutazione che dovrà necessariamente farsi tenendo conto da
un lato del contenuto del provvedimento, di ciò che dispone; dall’altro delle condizioni di fatto e di
diritto che influiscono, nello specifico caso del provvedimento d’urgenza in esame, a rendere, in
ipotesi, evidente l’insussistenza o la carenza dei requisiti della straordinaria necessità ed urgenza.
Valutazioni di questo tipo, riconducibili, come abbiamo visto, alla ragionevolezza, apprezzabile
attraverso il canone della coerenza, possono essere fatte utilizzando una pluralità di indici. Fra
questi, il criterio dell’omogeneità sembra del tutto appropriato, nell’ottica promossa dalla sent. n. 29
del 1995 e poi dalla giurisprudenza costituzionale del 2007-08. Si tratta, in definitiva, di valutare se
le disposizioni del decreto legge (in ipotesi, singole disposizioni rispetto alle altre contenute nel
provvedimento, le prime da ritenersi eccentriche, eterogenee e perciò incoerentemente inserite in
esso; ovvero tutte le disposizioni, riconducibili, ciascuna, a distinti ambiti tematici, così da rendere
il provvedimento privo di ogni requisito di coerenza, senza che sia in alcun modo desumibile dall’
atto normativo una ratio comune, che non si riduca a mera asserzione, perentoria, come per
esempio generiche ragioni riconducibili alla crisi economica o finanziaria o all’emergenza
dell’ordine pubblico, ecc.) ovvero quelle approvate con emendamenti dal parlamento in sede di
conversione siano talmente e con evidenza estranee ai presupposti previsti dall’art. 77, comma 2
cost. da pregiudicare la validità del decreto legge o della legge di conversione. Questa
impostazione è coerente con una concezione che lascia intatto il senso dell’art. 77 cost. come
previsione intesa a limitare il potere normativo primario del governo, nel senso che il decreto
legge “presuppone la legge di conversione, nel senso che esso è adottato in vista della sua conversione ad opera delle
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Camere e non può neppure essere pensato se non in vista di essa, tanto che la mancata conversione comporta
l’eliminazione della sua rilevanza giuridica, il suo tamquam non fuisset. La legge di conversione, più che
presupporre il decreto-legge, è provocata da quest’ultimo, e lo è quale manifestazione piena della potestà legislativa
delle Camere”61.
Al contrario, gli argomenti dottrinali, poi accolti dalla corte con le sentt. n. 22 del 2012 e n. 32 del
2014, della atipicità della legge di conversione e della particolarità della sua procedura, irrigidendo
inopportunamente in una tipizzazione forzata la legge di conversione stessa, trasformano
arbitrariamente la “precarietà del decreto-legge nella precarietà del potere parlamentare di conversione…stando
alla Costituzione non è la legge di conversione che deve essere approvata entro sessanta giorni, ma è il decreto che
deve essere convertito entro questo termine, pena la decadenza” 62 . Questi argomenti, in definitiva, nel
tipizzare la legge di conversione ne danno una versione fortemente ridimensionata, limitata ad un
procedimento legislativo alternativo “attraverso il quale il Governo precostituisce una legge obbligando le
Camere a pronunciarsi su di essa, approvandola, respingendola o modificandola compatibilmente con il requisito
dell’omogeneità entro sessanta giorni”63.
Si consideri, inoltre, che l’eterogeneità delle disposizioni aggiunte in sede di conversione
determinerebbe, secondo quanto affermato dalla corte 64, “un vizio procedurale peculiare, che per sua
stessa natura può essere evidenziato solamente attraverso un esame del contenuto sostanziale delle singole
disposizioni aggiunte in sede parlamentare, posto a raffronto con l’originario decreto-legge”, vizio della
procedura non ordinaria ma funzionalizzata alla sola conversione. Senonché, proprio questo
assunto – che si tratti di procedimento legislativo non pieno ma limitato e funzionalizzato – è
contraddetto, oltre che dalla lettera dell’art. 77 cost., come tradizionalmente interpretato, dalla
persistenza del potere di emendamento. In altri termini, la contrazione dei tempi anche se drastica
e persino l’eliminazione della discussione e votazione articolo per articolo – derivante dal fatto
che le camere sono chiamate ad esprimersi, come è noto, su un articolo unico che recepisce il
testo del provvedimento governativo – non sembrano essere sufficienti a ritenere che non ci si
trovi più al cospetto del procedimento ordinario di formazione della legge. Del resto, “la più
rilevante espressione della potestà delle Camere di decidere sui contenuti della legislazione è costituita dalla potestà
di emendamento. Solo ove tale potestà risultasse realmente limitata si potrebbe dubitare che la conversione dei
decreti legge costituisca ‘pieno esercizio della funzione legislativa’ ”65. Ora, né la disciplina costituzionale né
Così G. FILIPPETTA, L’emendabilità, cit., p. 32.
G. FILIPPETTA, op.ult.cit., p. 33.
63 Ancora G. FILIPPETTA, op.loc.ult.cit.
64 Cfr. sent. n. 32 del 2014, punto 4.1. del considerato in diritto.
65 In tal senso A.A. CERVATI, Interrogativi sulla sindacabilità dell’abuso del decreto-legge, cit., p. 882.
61
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quella regolamentare sopprimono la potestà di emendamento delle camere. Il regolamento della
camera, in particolare (ar. 96 bis, comma 7) stabilisce che “Il Presidente dichiara inammissibili gli
emendamenti e gli articoli aggiuntivi che non siano strettamente attinenti alla materia del decreto-legge. Qualora
ritenga opportuno consultare l’Assemblea, questa decide senza discussione per alzata di mano”. Appare con
chiarezza, in questa disposizione, che la potestà di emendamento può subire i soli limiti, di
ragionevolezza, di cui abbiamo più volte detto e che, ben lungi dal rappresentare un drastico
ridimensionamento di tale facoltà, in qualche modo assimilabile ad una sua soppressione, la
disciplina del regolamento della camera prevede limiti che derivano da esigenze di rispetto della
ragionevolezza: un difetto di attinenza alla materia del decreto legge significa difetto di
riconducibilità ai suoi presupposti, di straordinaria necessità ed urgenza, significa cioè che,
certamente, non si possono (non si dovrebbero poter) introdurre nuovi ambiti materiali o nuove
finalità nel corpus normativo di un provvedimento d’urgenza, senza far venir meno l’esigenza,
costituzionalmente avvalorata, che ne è il presupposto. Non è, perciò, che le camere sono dotate
di una competenza legislativa ridotta in caso di leggi di conversione; è invece che il rispetto di un
canone di coerenza, e dunque di ragionevolezza – di cui esplicitamente si fa carico la succitata
disposizione regolamentare – richiede una limitazione della potestà di emendamento per il caso
delle leggi di conversione, limitazione strettamente funzionale, qui è il caso di dirlo, alla sola
esigenza di tutela della ragionevolezza, cui anche i poteri politicamente responsabili devono
assoggettarsi.
Gli argomenti accolti dalla corte nella sua più recente giurisprudenza, dunque, trasformano
l’eterogeneità, da criterio valutativo della assenza o carenza del canone della coerenza della
disciplina e dunque della sua ragionevolezza, in “autonomo vizio della normativa impugnata”66, con una
forzatura dogmatica non innocente e non priva di conseguenze. Si potrà ancora tornare ad
invocare l’esigenza di ristabilire, per questa via, i corretti rapporti fra parlamento, governo e
presidente della repubblica ma resta il fatto che l’omogeneità, nel senso della non estraneità delle
disposizioni del decreto e della legge di conversione ad una ratio comune, era stata intesa come
criterio di ragionevolezza per contenere gli abusi della decretazione d’urgenza ed è invece, oggi,
disancorata “dal suo oggetto originario per il quale essa era stata pensata” 67 e può condurre ad esiti
paradossali, come quello di imporre alla legge di conversione un’omogeneità che il decreto legge
sarà ben lungi dall’aver osservato.
66
67
P. CARNEVALE, Giuridificare un concetto, cit., p. 120.
ID., op.loc.ult.cit.
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Come già sappiamo, il criterio dell’omogeneità è stato considerato con grande sospetto sotto il
profilo del suo statuto logico, perché ritenuto troppo sfuggente e di difficile determinazione.
Direi tuttavia che, in termini propriamente kantiani, potrebbe essere enunciato come principio di
omogeneità la regola di ragione per la quale non solo fra fenomeni naturali ma anche, per quel
che qui interessa, fra proposizioni normative, possono essere cercate e trovate unificazioni
concettuali sempre più estese, poiché “nel molteplice di una esperienza possibile è necessariamente
presupposta una omogeneità (benché a priori non ne possiamo determinare il grado), perché senza di essa non
sarebbero possibili concetti empirici, né quindi un’esperienza”68. Certo, un criterio di omogeneità suppone
un ambito di indagine sul quale esso potrà esercitarsi: se gli oggetti di un decreto legge e poi della
legge di conversione sono molteplici, toccando addirittura, come molto spesso accade, aree
materiali disparate, allora il sindacato della corte dovrà limitarsi a verificare la sussistenza di
finalità non apoditticamente enunciate, che esprimano una ratio comune tale da giustificare l’aver
costretto in un medesimo provvedimento, per le medesime ragioni di straordinaria necessità ed
urgenza, disposizioni concernenti settori materiali distinti. Se, all’opposto, gli oggetti non sono
molteplici ma sufficientemente individuati, la corte potrà pronunciarsi, in ipotesi, sulla estraneità
di una o più disposizioni all’ambito materiale, sufficientemente determinato, del provvedimento
governativo e/o della legge di conversione. Direi, al riguardo, che sarebbe importante correlare
alla nozione di materia, preferendola a quella di oggetto, notoriamente più ristretta69, l’omogeneità
della legge di conversione, come ha acutamente osservato Giuseppe Filippetta. La ragione è
tutt’altro che puramente formale e linguistica: si tratta di riconoscere al parlamento, in sede di
conversione – e quindi anche alle minoranze, che potranno contestare le scelte del governo – il
potere di “rimodellare tanto le misure recate dal decreto, quanto le caratteristiche di scopo e di oggetto che rendono
questo omogeneo”70. Perché mai le camere dovrebbero essere astrette, nelle proprie scelte politiche,
ai soli fini ed oggetti selezionati dal governo con il decreto legge? Perché le camere non sarebbero
abilitate, nell’ambito della materia o delle materie toccate dal decreto, ad esercitare la funzione che
espressamente è loro attribuita dalla costituzione, una volta ritenuti sussistenti i presupposti della
straordinaria necessità ed urgenza? Mi pare che lo spettro delle possibili scelte politiche non possa
I. KANT, Critica della ragion pura, II, Appendice alla dialettica trascendentale, trad. it., Roma-Bari, 1985, p. 511.
V. N. TOMMASEO, Dizionario dei sinonimi, Milano, 1884, sub materia: “Materia e soggetto riguardano poi le
cose su cui versano i nostri discorsi e pensieri. Materia è più generale. La giurisprudenza è la materia di un trattato; i
testamenti ne sono lo speciale soggetto. Opera che tratta una materia può abbracciar più soggetti. Per ben trattare il menomo
soggetto, convien possedere tutta quanta la materia” (p. 572), dove ben si vede come nell’uso comune del linguaggio,
determinante per il giurista, che usa il linguaggio ordinario e non uno distinto e formalizzato, materia e
soggetto (oggetto) siano in rapporto di genere a specie.
70 G. FILIPPETTA, op.ult.cit., p. 34.
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arbitrariamente essere sottratto al parlamento e ritenuto invece prerogativa esclusiva del governo,
come se fosse riservata a quest’ultimo la disciplina normativa di rango primario dei casi
straordinari di necessità e di urgenza71.
E’ opportuno, infine, valutare attentamente l’entità delle oscillazioni della giurisprudenza
costituzionale nella materia in esame. Infatti, con la sent. n. 237 del 2013 la corte, richiamandosi
al precedente della sent. n. 63 del 1998 contraddice, mi pare, la più recente sent. n. 22 del 2012
(poi seguita, come sappiamo, dalla n. 32 del 2014 ed ancora, più di recente, dalla n. 251 del 2014).
La sent. n. 237 ha stabilito che la legge di conversione può spezzare il nesso funzionale che
V. invece, in tal senso, Q. CAMERLENGO, Il decreto legge, cit., pp. 114 s., nonché le tesi di G.
PITRUZZELLA, La legge di conversione, cit., p. 87, dirette a convalidare la sussistenza di una “relazione
fiduciaria che intercorre direttamente tra i partiti della maggioranza ed il governo, dalla quale quest’ultimo può trarre
direttamente la propria rappresentatività che potrà poi essere accresciuta tramite i frequenti contatti con le molteplici
manifestazioni del pluralismo sociale”. Si tratta di posizioni, un tempo minoritarie, ma oggi sempre più
avvalorate dalla dequalificazione della rappresentanza politica parlamentare. Però, nel tempo della
involuzione “oligarchica della nostra forma di stato e della trasformazione della rappresentanza che ne deriva” è
importante che scienza e giurisprudenza conservino “vivi e saldi i principi essenziali della nostra tradizione
costituzionale…per il momento in cui…a tali principi ci si rivolgerà di nuovo” (così G. ZAGREBELSKY, Conclusioni,
in La delega legislativa. Atti del seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, 24.10.2008, Milano, 2009, p.
329). La formulazione del nuovo art. 77 cost., co. 6, nella versione approvata dalla camera dei deputati il
10 marzo 2015, prevede che “nel corso dell’esame di disegni di legge di conversione dei decreti legge non possono essere
approvate disposizioni estranee all’oggetto o alle finalità del decreto”. La disposizione, naturalmente, dovrebbe essere
valutata nel quadro complessivo di una revisione costituzionale, ancora in corso, che merita specifica
attenzione che, tuttavia, non posso dedicare in questa sede. Si rifletta solo sull’abbinamento fra nuova
disciplina della decretazione d’urgenza e previsione, nel nuovo testo dell’art. 72 cost., di un voto a data
certa, in virtù della quale “il Governo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni dalla
richiesta, che un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità
all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei deputati entro il termine di settanta giorni
dalla deliberazione. In tali casi, i termini di cui all’art. 70, terzo comma, sono ridotti della metà [i termini, cioè, concessi
al nuovo senato per disporre di esaminare un disegno di legge e per deliberare proposte di modifica]. Il
termine può essere differito, di non oltre quindici giorni, in relazione ai tempi di esame da parte della commissione nonché alla
complessità del disegno di legge. Il regolamento della Camera dei deputati stabilisce le modalità e i limiti del procedimento,
anche con riferimento all’omogeneità del disegno di legge”. La disposizione non prevede più, come invece
nell’originario disegno di legge governativo e nel testo approvato in prima deliberazione dal senato, il c.d.
voto bloccato, in base al quale, decorso il termine – che era di sessanta giorni e che non prevedeva
differimenti – il testo proposto o accolto dal governo è votato, su richiesta del governo stesso, senza
modifiche, articolo per articolo e con votazione finale. E’ verosimile che, con simile disciplina, si sia inteso
soppiantare il ricorso alla posizione della questione di fiducia per garantire l’approvazione dei progetti di
legge di iniziativa governativa ed altresì limitare il ricorso alla (e l’abuso della) decretazione d’urgenza.
All’opposto, il rischio è che l’abbinamento fra voto a data certa e decretazione d’urgenza, che, nonostante
i tentativi di arginarne l’abuso resterà ben lungi dall’essere ricondotta effettivamente ai soli casi straordinari
di necessità e di urgenza, sancisca il completo predominio dei poteri direttivi del governo sulla
programmazione parlamentare ed il definitivo esautoramento del potere legislativo, con un netto
slittamento di questo potere dalla camera dei deputati, la sola eletta direttamente dal corpo elettorale nella
riforma in itinere, al governo. Alle camere non restano che margini esigui per discussioni frettolose su
progetti o decreti redatti dal governo, determinando un netto squilibrio, privo di compensazioni sul piano
delle garanzie, della forma di governo italiana, che resterebbe tuttavia, contraddittoriamente, una forma di
governo parlamentare.
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avrebbe dovuto vincolarla al decreto legge poiché essa può accogliere persino disposizioni di
delega. La legge di conversione potrebbe scindersi in un contenuto duplice: uno destinato ad
assicurare la conversione del decreto legge, l’altro ad accogliere le disposizioni di delega, nel
rispetto però del limite “dell’omogeneità complessiva dell’atto normativo rispetto all’oggetto o allo scopo” 72 .
Prestare ossequio al limite dell’omogeneità, tuttavia, non significa assicurare coerenza con la
propria più recente giurisprudenza, orientata a dar risalto al nesso procedimentale fra decreto
legge e legge di conversione. Si noterà, piuttosto, come aver reso autonomo il vizio della carenza
di omogeneità della legge di conversione dalla verifica sulla sussistenza o carenza dei presupposti
della straordinaria necessità ed urgenza sia servito, nel caso della sent. n. 237 del 2013, ad
agevolare l’interpretazione accolta: la corte, avvalendosi proprio di questa autonomia, può
conservare una parvenza di coerenza con l’indirizzo interpretativo promosso con la sent. n. 22
del 2012 – resta fermo il limite dell’omogeneità – ma compie in realtà una giravolta che le
consente di far salva una disposizione di delega sulla riorganizzazione e distribuzione sul
territorio degli uffici giudiziari, forse prudente sul terreno politico e che però sembra recidere
ogni legame tra presupposti previsti dal comma 2 dell’art. 77 cost. e legge di conversione, in
controtendenza, probabilmente, con gli stessi orientamenti, più risalenti, della sent. n. 29 del 1995
e, soprattutto, del biennio 2007-08.
In effetti, la corte sottolinea condivisibilmente l’ “autonomo fondamento” delle disposizioni
approvate in sede di conversione rispetto a quelle contenute nel decreto governativo. Questa
autonomia dovrebbe legittimare, come abbiamo visto, il potere del parlamento di emendare il
provvedimento d’urgenza, con il solo limite della materia (non dell’ oggetto) affrontata. La corte,
tuttavia, compie un passo ulteriore, negando che le disposizioni della legge di conversione siano,
come quelle del decreto legge, vincolate al rispetto dei presupposti della straordinaria necessità ed
urgenza. Questo passo la corte può compiere facendo leva sulla dissociazione fra requisiti previsti
dal comma 2 art. 77 cost. e disposizioni eterogenee aggiunte dalla legge di conversione, che la
sent. n. 22 del 2012 aveva patrocinato per convalidare l’autonomia del vizio di eterogeneità di tali
disposizioni dalla verifica del rispetto dei presupposti previsti dalla statuizione costituzionale.
Siamo così ormai lontani dalla giurisprudenza del 1995 e del 2007-08 che, come ho cercato di
argomentare73, sottolineava l’esigenza di far salvo un principio di fondo del nostro ordinamento
Sent. n. 237 del 2013, punto 9.1. del considerato in diritto. Per una critica della sent. n. 237 v. E.
FRONTONI, Sono ancora legittime disposizioni di delega inserite in sede di conversione?, in federalismi.it – Focus Fonti,
n. 1/2014. Si v. anche, fra gli altri, A. LO CALZO, La Corte torna sulla materia dei decreti legge dopo la “svolta”
della sent. n. 22/2012: alcune considerazioni sulla sent. n. 237/2013, in Consultaonline.it, 2013.
73 V. supra, § 3, in apertura, e nota 46.
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costituzionale delle fonti, in forza del quale l’adozione delle disposizioni di rango primario è
prerogativa del solo parlamento, unico organo dotato di diretta legittimazione popolare. Questo
principio, a sua volta, implicava la necessità di una valutazione congiunta del decreto legge e della
legge di conversione. Senza assoggettare questa valutazione congiunta alle strettoie concettuali
delle teorie sul nesso funzionale e sulla conseguente funzionalizzazione della legge di
conversione, la sent. n. 171 del 2007 chiaramente sottolineava il condizionamento che grava
anche sulla legge di conversione e che deriva dal provvedimento d’urgenza, adottato sulla base
dei presupposti costituzionali. Richiamandosi al precedente della sent. n. 391 del 1995, la sent. n.
237 del 2013 può invece affermare, apoditticamente, che l’amputazione della discussione e
votazione articolo per articolo sugli articoli originari del decreto e sugli emendamenti successivi
non viola il comma 1 dell’art. 72 cost. Tuttavia, la discussione e votazione sull’articolo unico della
legge di conversione può ammettersi come eccezione, lo si è già notato, al procedimento
ordinario, giustificata dalla sussistenza dei presupposti della straordinaria necessità ed urgenza.
Che senso ha, allora, prescinderne, affermando che la legge di conversione non è in alcun modo
da essi vincolata? La conseguenza di questa impostazione porta diritti verso l’elusione sia dell’art.
77 che dell’art. 72 cost.74
Inoltre, come sappiamo75, con la sent. n. 220 del 2013 la corte aveva, fra l’altro, affermato la
necessaria immediata operatività delle disposizioni del decreto legge richiamando – come già nel
caso della sent. n. 22 del 2012 – l’art. 15, comma 3, della l. n. 400 del 1988, secondo cui il
provvedimento governativo d’urgenza deve contenere “misure di immediata applicazione” ed
affermando che tale disposizione esplicita un aspetto connaturato al decreto legge. Ciò che al
decreto legge è certamente precluso, per il dovuto ossequio ai presupposti della straordinaria
necessità ed urgenza, è però consentito alla legge di conversione, una volta ammesso che
quest’ultima non si esaurisce nel rapporto o nesso funzionale con il primo e può invece contenere
disposizioni ulteriori ed autonome da quel nesso, disposizioni che, tuttavia, devono conservare
legami di inerenza materiale (l’omogeneità) con q
uelle del decreto legge. Un bel groviglio
concettuale che, dipanato, mostra, come ho cercato di argomentare, più di una lacuna. Il fatto è
che la giurisprudenza, specie quella di un giudice costituzionale, dovrebbe mostrare grande
prudenza nel far sue escogitazioni dogmatiche: può accadere che, invece di cogliere aspetti reali
dell’esperienza giuridica, esse proiettino ombre o fantasmi di questa esperienza, come filtrata dalla
fantasia dogmatica della scienza e che non si riesca più a decifrare se “l’esperienza giuridica sia quella
74
75
V. ancora, amplius, supra, nota 46.
V. supra, nota 30.
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che è nella realtà o sia l’immagine che la scienza ne ha delineato. E quasi si direbbe che con questa sua immagine
la scienza che si propone di comprendere il suo dato, l’esperienza, riesce quasi a nascondere il suo dato: costituisce
un pericolo per la visione limpida del dato”76.
Nel capitolo ventunesimo della prima parte del Don Chisciotte, il fiero cavaliere mancego è
convinto di essersi imbattuto in una straordinaria avventura e, rivoltosi a Sancho, esclama:
“Dimmi, non vedi quel cavaliere che viene verso di noi sopra un cavallo grigio pomellato, che ha in testa un elmo
d’oro?”. Don Chisciotte è subito convinto che l’elmo sia nientemeno che l’elmo di Mambrino,
leggendario re saraceno. Sancho prova ad avvertirlo: lo scudiero vede solo “un uomo sopra un asino,
grigio scuro come il mio, che ha sulla testa qualcosa che luccica”. In effetti, quello che don Chisciotte
scambia per un cavaliere dall’elmo d’oro altri non è che un barbiere, a cavallo del suo asino che,
per ripararsi dalla pioggia, si era messo in testa un bacile di ottone, che usava per il proprio
mestiere. Don Chisciotte attacca e travolge il povero barbiere il quale si dà alla fuga “più svelto di
un daino” e lascia nelle mani del novello cavaliere errante l’ambitissimo elmo, un elmo che rende
addirittura invulnerabili. Però, l’elmo non era che una bacinella e non riesce a proteggere il suo
nuovo e valoroso possessore dalle tante legnate che le sue successive avventure gli riserveranno.
Tempo dopo (capitoli XLIV e XLV), in una locanda in cui si trovano don Chisciotte, Sancho e
molti altri personaggi delle straordinarie vicende del romanzo, accade che arrivi anche il barbiere.
Riconosciuto Sancho, subito lo aggredisce pretendendo la restituzione del maltolto ed infine la
questione viene posta agli altri ospiti della locanda. I quali ospiti, sapendo della pazzia di don
Chisciotte, decidono di sostenerla e di affermare perciò che il bacile non è bacile ma elmo d’oro.
Il povero barbiere burlato esclama: “Questa è una cosa da far restare di stucco una intera università, per
dotta che sia”. La questione viene messa ai voti e definitivamente risolta. Il fantasma dell’elmo di
Mambrino l’aveva avuta vinta sul misero ma reale bacile da barbiere.
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Così G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto, cit., p. 73.
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