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Leggere e guardare: due atteggiamenti ritmici
Daniele Barbieri Leggere e guardare: due atteggiamenti ritmici Molti dei lavori più notevoli del Settecento, dalle Médailles dell’Imprimerie Royal del 1702 al Manuale tipografico di Bodoni, testimoniano di vere e proprie innovazioni tecniche: una migliore fusione e giustificazione dei caratteri, carta con superfici di stampa più omogenee, inchiostri migliori e migliore impressione. La stampa assunse l’aspetto dell’incisione a un livello stupefacente. La tendenza era iniziata con le grazie artificiali del romain du roi di Grandjean per raggiungere piena espressione nelle lettere drammatiche e rigide di Bodoni e di Firmin Didot. Tali forme sono meravigliosamente immobili. Il carattere e la pagina chiedono di essere ammirati – cioè guardati – e in ciò niente di male, se non fosse per il fatto che guardare e leggere sono due azioni piuttosto diverse, anzi in contraddizione. Siamo legati a quello che leggiamo da un movimento ritmico. Per guardare le cose, o le liberiamo lasciandole vagare, oppure le blocchiamo nel loro movimento. Guardando, tratteniamo il respiro oppure (nel peggiore dei casi) ansimiamo. Leggendo invece respiriamo. (Chappell-Bringhurst [2004:194]) Questa penetrante osservazione di Warren Chappell richiede di essere approfondita, e non solo rispetto alla tipografia di Bodoni e Didot. Leggere e guardare sono le principali attività cognitive di cui è protagonista il nostro senso della vista, e se pure il leggere è in un certo senso un sottoinsieme del guardare (poiché evidentemente non si legge senza guardare), ne è comunque un sottoinsieme caratterizzato in maniera così precisa che possiamo molto chiaramente contrapporlo a tutto quel guardare che non sia leggere. E in questo ultimo senso dunque, come già fa Chappell, intenderemo noi il guardare in queste pagine. Chappell accenna alla presenza di un movimento ritmico nella lettura, che sarebbe assente (o meglio, come vedremo, presente in forma molto diversa e meno chiaramente definita) nel guardare puro e semplice. È proprio sul ritmo che si concentrerà dunque il mio discorso1. Inizierò con alcune considerazioni sullo scorrere del tempo in testualità diverse tra loro, anche per chiarire i confini del campo che intendo affrontare. Poi cercherò di definire la nozione di ritmo che mi interessa mettere in gioco, e cercherò in seguito di applicarla a campi diversi: quello del guardare puro e semplice (come in pittura), quello di un leggere finalizzato a un complessivo guardare (come in cartelloni e manifesti), quello di un guardare finalizzato a un complessivo leggere (come nel fumetto), per arrivare al campo del leggere vero e proprio, rispetto a cui cercheremo di riformulare l’affermazione di Chappell sulla tipografia di Bodoni nei termini che avremo impostato. Mi serve, prima di tutto, chiarire bene una differenza, quella tra le testualità in cui lo scorrere del tempo è definito da una sorta di contratto (a volte predefinito, a volte discusso implicitamente nel corso della stessa lettura) tra testo e fruitore, e quelle in cui non c’è nessun contratto, e, per la sua stessa natura, il testo impone al fruitore il proprio tempo di scorrimento. Queste seconde testualità, che definiamo non-contrattuali, comprendono i testi cinematografici, teatrali, musicali, televisivi e radiofonici, ma comprende anche tutto ciò che è parola parlata: tutto ciò, insomma, che per sua stessa natura si sviluppa nel tempo, e al di fuori del tempo esiste solo come supporto (la pellicola filmica o il nastro registrato) o come notazione (partitura o copione). L’aspetto comune 1 Ai problema del ritmo, dell’aspettativa e dell’attenzione, ho dedicato il volume Barbieri[2004a]. Daniele Barbieri, "Leggere e guardare", Progetto grafico n.11, 2007 1 notevole di tutte le testualità di questo secondo tipo sta nel fatto che, poiché lo scorrimento temporale è costitutivo del testo stesso, eventuali luoghi di maggiore complessità testuale non comportano un rallentamento della fruizione, ma al più una minore comprensione del testo, ed eventualmente la necessità di ripercorrerlo in futuro. Le testualità dell’altro gruppo costruiscono invece il proprio scorrimento temporale sulla base di una sorta di “contratto” implicito tra testo e fruitore. Nel leggere un romanzo, per esempio, il fruitore ha sì virtualmente la possibilità di saltare parole o interi paragrafi, per accelerare lo scorrimento, o addirittura di invertire il senso di lettura, partendo dall’ultima pagina: ma se si comporta così non potrà poi lamentarsi di non aver compreso bene il testo, o di non averne tratto godimento estetico. Un romanzo è un testo che può arricchirci e procurarci godimento estetico a patto che lo percorriamo secondo una norma che tutti conosciamo molto bene, anche se non sta scritta da nessuna parte. È caratteristico delle testualità contrattuali il fatto che un locale aumento della complessità può produrre nel fruitore attento una diminuzione della velocità di fruizione, dovuto al bisogno di trovare il tempo per elaborare e comprendere. Le testualità contrattuali possono perciò modulare la propria velocità di scorrimento temporale, giocando su variazioni della propria complessità locale. Osserviamo quindi sin da ora che, poiché gli effetti ritmici dipendono anche dalla velocità di scorrimento del testo, le testualità contrattuali possiedono un elemento in più rispetto a quelle non-contrattuali per modulare il ritmo del testo. Abbiamo però bisogno di chiarire un’altra distinzione, all’interno delle testualità contrattuali stesse, prima di poter proseguire. Le componenti non predefinite del contratto, che dunque vengono definite in tempo reale durante la fruizione, possono infatti riguardare solo la velocità di fruizione (come accade con i romanzi e tutto ciò che si basa sulla scrittura) oppure possono riguardare non solo la velocità ma anche il percorso di fruizione. Quando si fruisce un’immagine, per esempio un dipinto, il contratto implicito, predefinito, tra testo e fruitore non specifica che cosa si debba guardare prima e che cosa dopo. Il percorso di fruizione viene suggerito dal testo stesso, sulla base delle consuetudini percettive del fruitore: così, presumibilmente, in un dipinto che contenga delle figure umane il nostro sguardo correrà prima di tutto ai volti, e poi considererà i corpi, e poi le relazioni tra loro, e infine passerà agli elementi circostanti. Le aree centrali, in questi percorsi, godranno di privilegi di precedenza, così come quelle più coloristicamente contrastate rispetto a quelle che lo sono meno, e così via. Tutti questi sono però soltanto suggerimenti di percorso che il testo fornisce, essi stessi dunque parte del suo specifico senso complessivo; e non c’è nessuna convenzione precedente, nessuna componente di contratto predefinito (come invece c’è nel caso del romanzo) che ci prescriva un percorso. Già in questo, dunque, si può iniziare a vedere quale sia il quadro di fondo che contrappone il leggere al guardare, ovvero un’attività pre-regolata in generale a una auto-regolata caso per caso. Quando parliamo di ritmo ci riferiamo ai termini della ricorrenza di elementi simili. Poiché la ricorrenza ne è l’elemento chiave, la nozione di ritmo è intimamente temporale. Anche quando osserviamo dei ritmi visivi, li consideriamo come ritmi nella misura in cui ciò che li istanzia è percorribile (con l’occhio o con la mente). In caso contrario non parliamo di ritmo, ma di pattern o di configurazioni regolari o ricorsive. Daniele Barbieri, "Leggere e guardare", Progetto grafico n.11, 2007 2 I fenomeni di ricorrenza mettono dunque in campo una quantità di problemi. Chiunque abbia mai provato ad accordare una chitarra sa bene come cercando quella vibrazione unisona che garantisce la corretta accordatura si attraversino regioni di discordanza più o meno forte tra i due suoni a confronto, che dipendono dalla frequenza con cui vibrano le corde, ovvero dalla quantità delle ricorrenze dell’oscillazione. Un ritmo “giusto”, adeguato alle nostre aspettative, crea un senso di risoluzione armonica, mentre le varie differenze possibili rispetto ai ritmi “giusti” creano stati differenti di tensione, e di attesa della risoluzione. Modulare i ritmi, in un testo sequenziale, significa dunque modulare le tensioni del suo fruitore, in direzione di una risoluzione (che non è detto si possa raggiungere davvero). Parlo di ritmi, al plurale, perché non è mai in gioco un solo livello di ricorrenze. Per esempio, nel leggere un romanzo siamo costantemente consapevoli di numerosi andamenti ritmici, tra cui: il ritmo tipografico della sequenza dei caratteri e quello della sequenza di parole e spazi, il ritmo sintattico delle proposizioni e quello del succedersi dei periodi, il ritmo tipografico-sintattico del succedersi dei capoversi, il ritmo tipografico del succedersi delle linee di stampa e quello del succedersi delle pagine, il ritmo semantico del succedersi dei concetti veicolati dalle espressioni linguistiche, il ritmo espositivo-narrativo del succedersi dei capitoli, il ritmo semantico-narrativo del succedersi degli eventi locali, il ritmo narrativo del succedersi degli elementi di rilievo per la storia raccontata2. Il lettore è consapevole costantemente di tutti questi ritmi e subisce gli effetti della loro modulazione, accumulando e risolvendo tensioni, venendo comunque condotto avanti nella sua fruizione. La parola chiave dell’elenco che avete appena letto è “succedersi”: affinché si determinino effetti ritmici è infatti necessario che vi sia una successione di eventi. Questo pone chiaramente un problema quando ci occupiamo del guardare. In altre parole, ha senso cercare effetti di ritmo in un’attività come quella del guardare, che per sua natura è libera, non legata a successioni preordinate? O piuttosto, da questo specifico punto di vista, non dovremmo semplicemente riconoscere che ciò che caratterizza il guardare (in quanto contrapposto al leggere, o a qualsiasi altra attività che sia basata su una successione preordinata) è la semplice assenza di effetti ritmici? Io credo che il guardare non sia esente dalla presenza di successioni. Lo è senz’altro quando ci si limita a uno sguardo fugace per cogliere la forma complessiva; tuttavia, quando si guarda (poniamo) un dipinto, il guardare è un’attività che ha una durata, e che dunque segue dei percorsi, e che quindi inevitabilmente costruisce una successione. È importante notare che i percorsi del guardare non sono né soltanto né principalmente i percorsi dell’occhio: guardare è infatti diverso dal semplice vedere. Il guardare è un’attività cognitiva su base visiva, e i percorsi davvero importanti sono quelli della comprensione, che a loro volta guidano l’occhio alla ricerca di conferme delle ipotesi. Nel guardare un dipinto, sono possibili numerosi percorsi interpretativi diversi, ma questi percorsi hanno molte caratteristiche in comune, e non qualsiasi percorso è un percorso possibile. Prendiamo come esempio un dipinto famoso3. Credo che si possa tranquillamente escludere la possibilità che Diego Velázquez prevedesse che si possa iniziare a guardare Las Meninas come se Questa idea è mutuata da Meyer[1956], che parlava di gerarchie di percorsi di aspettative in musica. Vedi Barbieri[2004a] per maggiori dettagli. 2 3 Un’analisi più dettagliata di questo percorso interpretativo si trova in Barbieri[2005]. Daniele Barbieri, "Leggere e guardare", Progetto grafico n.11, 2007 3 fosse un dipinto astratto: la prima cosa che il nostro sguardo certamente fa è infatti cercare di decifrare lo spazio raffigurato come se fosse uno spazio reale, e di farsi un’idea delle figure in gioco e delle relazioni spaziali tra loro. Per fare questo, inevitabilmente l’occhio dello spettatore percorre le figure in direzione dei loro volti, che ne sono la parte maggiormente caratterizzante (quella che contiene solitamente la maggiore quantità di informazione, per noi), e solo dopo le mette in relazione con lo spazio circostante. Una volta chiarita a grandi linee la situazione spaziale, si passerà a cercare di capire che cosa questo dipinto rappresenti. Solo a questo punto, dunque, sarà possibile porsi il problema del perché vi sia un pittore in scena, di che rapporti sociali vi siano tra le diverse persone raffigurate, del perché vi sia uno specchio sul fondo della sala e di chi siano le persone riflesse nello specchio. E solo una volta che si sia osservata la presenza dello specchio, ci si potrà rendere conto che le persone riflesse si trovano grosso modo nella medesima posizione spaziale dello spettatore del dipinto, verso la quale tutte le figure ritratte stanno guardando; per cui diventa possibile capire che quello che stiamo vedendo non è semplicemente un ritratto di gruppo, in cui le persone guardano chi le ritrae perché sono in posa, ma è la raffigurazione di una situazione in cui è chi sta dalla parte dello spettatore a venire ritratto, mentre le persone nel dipinto assistono all’evento della produzione del ritratto. Non prima di questa fase il percorso interpretativo inizierà forse a mettere in gioco altri elementi, considerando pure la dimensione planare, o cosiddetta plastica, dell’immagine, ovvero la distribuzione delle forme sul piano della tela, indipendentemente da quello che raffigurano. Ci si potrà dunque accorgere, per esempio, delle linee impostate dalle teste dei gruppi di figure, corrispondenti alla linea della schiena del cane; o della rima visiva tra il retro della grande tela a sinistra e la porta aperta sul fondo, al centro. E così via. E nell’accorgersi di questi aspetti sarà possibile ripensare il senso delle relazioni tra le figure non soltanto rispetto alla loro posizione reciproca nello spazio raffigurato, ma anche sul piano del dipinto. Il percorso di interpretazione è ben lontano dall’esaurirsi qui: come si vede, si tratta di un percorso che ha grandi gradi di libertà, ma anche dei passaggi obbligati. Questo percorso non ha alla base il ritmo del respiro, bensì, semmai, quello più irregolare del teatro o della musica, in cui momenti più lenti e momenti più intensi si succedono senza che si possa conoscerne in anticipo l’ordine. Là lo spettatore non sa che cosa avverrà di fatto; qui non sa che cosa sta per scoprire sulla base di nuove osservazioni basate sulle proprie precedenti ipotesi. Quello che manca a questa fruizione è un ritmo regolare di fondo, ma la successione delle scoperte cognitive imposta inevitabilmente a sua volta un ritmo, che, per riprendere Chappell, potrà essere ora affannoso, ora sospeso. Incontriamo una situazione non particolarmente dissimile quando dal guardare puro e semplice passiamo a un guardare combinato con il leggere, come succede nel manifesto. Non c’è dubbio che la comunicazione visiva impostata da Erberto Carboni in un suo famoso cartellone per Barilla, del 1952, proponga un percorso cognitivo più breve di quello richiesto da Velázquez. Il dipinto di Velázquez si presta bene a esemplificare la complessità e durata di un percorso interpretativo, e anche rimanendo in campo pittorico è difficile trovare altre opere che gli tengano testa, da questo punto di vista. Tuttavia, in generale, è proprio la modalità di fruizione impostata dal linguaggio specifico a farci propendere per una lunga e ripetuta osservazione dei dipinti e per uno sguardo fugace ai cartelloni pubblicitari. Il manifesto di Carboni contiene delle parti da leggere, all’interno di un contesto che è sostanzialmente da guardare. Lo sguardo dello spettatore è presumibilmente colpito prima di tutto Daniele Barbieri, "Leggere e guardare", Progetto grafico n.11, 2007 4 dalle grandi figure in bianco delle posate, dalle sagome gialle della pasta che vi volteggiano sopra e dal logo Barilla in basso. Ma il tutto acquista un senso più preciso solo dopo che lo sguardo è arrivato a leggere lo slogan in alto: “la pasta del buon appetito”. La posizione dello slogan gli conferisce un ruolo di apertura del discorso, che, seguendo la logica sinistra-destra alto-basso della lettura, viene impostato logicamente come una sequenza, che si apre con lo slogan, prosegue con l’immagine delle posate e della pasta, che esemplificano lo slogan, prosegue con il logo Barilla, che risponde alla domanda implicita impostata dallo slogan e dall’immagine, e si conclude con la didascalia “casa fondata a Parma nel 1877 per la produzione di paste alimentari”, che descrive che cosa sia Barilla in maniera parallela al modo in cui l’immagine dà figura allo slogan. Questo percorso logico, quasi narrativo, che segue la linea della lettura, è tuttavia in contrasto con il percorso seguito dall’interprete, che prima vede immagine e logo, e poi slogan e didascalia. Per poter leggere è quindi necessario guardare; per poter conquistare l’andamento regolare del respiro bisogna percorrere l’immagine con l’andamento irregolare del teatro. È interessante osservare anche che lo slogan non è uno slogan qualsiasi, ma è un verso novenario dal ritmo ternario perfetto, in cui la regolarità della parola letta viene richiamata con particolare forza. Eppure, il percorso interpretativo non si conclude nemmeno qui. Quello che resta, alla fine, nella consapevolezza dello spettatore, è l’associazione tra l’immagine gialla bianca e blu e il marchio Barilla, per cui il messaggio visivo cruciale è semplicemente “pasta Barilla”. Il percorso di lettura ha sicuramente caratterizzato questo messaggio, ma in fin dei conti quel leggere basato su un guardare finisce nuovamente per essere funzionale a un guardare. Le volte successive alla prima in cui il manifesto di Carboni ci capita sotto gli occhi presumibilmente non leggeremo più né lo slogan né la didascalia, ma il nostro sguardo viaggerà brevemente su questi oggetti appetitosi e festosi vaganti nell’aria, contro lo sfondo solido e vagamente Déco che raffigura i simboli dell’attività che dà loro senso, il mangiare, avvolto nel colore della carta da alimenti. Quella pasta è ormai la pasta del buon appetito anche se non leggiamo più lo slogan, ed è Barilla anche se ignoriamo la didascalia. Il leggere ha prodotto un migliore guardare, ma è il prodotto del guardare che ci resta in mente. Nel fumetto assistiamo al fenomeno inverso. Nell’idea stessa di una narrazione per immagini è implicita la sequenzialità del leggere (o del parlare, raccontando a voce), e a questa sequenzialità si trova finalizzata anche la non sequenzialità del guardare, che caratterizza l’approccio complessivo alle pagine, e soprattutto quello specifico alle singole vignette. In altre parole, la pagina del testo a fumetti è sottoposta a un duplice guardare: c’è prima uno sguardo complessivo, orientativo, non diverso da quello che abbiamo nei confronti di un’illustrazione o di un dipinto o di un manifesto. Poi però, l’attenzione si orienta verso la posizione iniziale, in alto a sinistra, e procede, nel senso classico della lettura, verso destra e verso il basso. Di nuovo però, esplorando le singole vignette, ci troviamo intenti in un guardare, e dunque in un percorrere l’immagine non secondo una regola riconosciuta e antecedente, ma secondo i suggerimenti percettivi dell’immagine stessa. Anche nelle immagini autonome della cultura occidentale, la direzione sinistra-destra non è equivalente a quella destra-sinistra, ma nel fumetto la prossimità estrema che questo guardare ha con il leggere rende più forte questa asimmetria4. E così le azioni fluide avverranno molto più frequentemente procedendo verso destra, e la successione dei dialoghi nelle vignette (naturalmente 4 Delle conseguenze del verso di lettura dei fumetti ho parlato più diffusamente in Barbieri[2004b]. Daniele Barbieri, "Leggere e guardare", Progetto grafico n.11, 2007 5 procedente da sinistra verso destra in quanto scrittura) confermerà continuamente questa tendenza. Troviamo dunque nel fumetto una serie di atteggiamenti del guardare che però si risolvono comunque in un complessivo leggere. Questo avviene anche nelle articolate tavole di Sergio Toppi, che ho scelto per esemplificare il mio discorso proprio perché molto più vicine (almeno in apparenza) alla concezione unitaria dell’illustrazione (o della pittura) che non a quella frammentata in vignette del fumetto tradizionale. In queste tavole, anche se l’impostazione grafica è figurativamente unitaria, lo sguardo segue la traiettoria che abbiamo descritto sopra: vi è una prima esplorazione complessiva dell’immagine, e poi lo sguardo sale in alto a sinistra e percorre lo spazio verso destra e verso il basso. Questo movimento può essere contraddetto solo dall’esplicita presenza di vettori visivi, come accade con il tortuoso seguito delle parole del dignitario, che giungono sino al cuore del re. Siamo dunque di fronte a un leggere. Ma il fatto di avere alla propria base un guardare rende più affannoso e incerto il respiro. Invece di una sequenza complessivamente omogenea di parole, che lo sguardo percorre in maniera tendenzialmente uniforme, qui siamo in presenza di blocchi visivi (le vignette e le pagine) che costruiscono ciascuno la propria durata. Il fumetto, dunque, rispetto al romanzo, possiede una possibilità in più di costruzione di effetti ritmici: quella basata sulla modulazione della durata visiva delle singole immagini. Per restare nella metafora di Chappell, la lettura del fumetto imposta dunque, attraverso la propria componente del guardare, un respiro di base irregolare, di per sé potenzialmente più ansiogeno di quello della scrittura tout court. Eppure anche nella scrittura tout court la componente del guardare è spesso presente e influente, con modalità non troppo dissimili da quelle che riconosciamo nel fumetto. Prendiamo la scrittura a mano; non quella normalizzata dei monaci del medioevo, che prelude alla stampa, ma quella dei nostri appunti, delle lettere personali che forse qualche volta ancora tracciamo con la penna, o delle ricette del medico. Un aspetto caratteristico della scrittura a mano è la sua espressività. Potremmo arrivare sensatamente a dire che le variazioni personali e del momento che le parole subiscono rispetto a uno standard ideale quando vengono tracciate rapidamente a mano, sono il corrispondente grafico delle inflessioni della voce che rendono unico e specificamente espressivo il parlare di ciascuno di noi. Non che si possa tracciare una qualsiasi corrispondenza diretta tra una specifica inflessione vocale e un tratto particolare della scrittura di una persona; ma in generale non dubitiamo che la scrittura rifletta la personalità e l’emotività del momento proprio come lo fanno le inflessioni della voce. La scrittura manuale comunica dunque parte del proprio contenuto anche secondo modalità squisitamente visive, non verbali. L’alterazione della normalità della scrittura ha delle conseguenze sull’atto del leggere: vuoi per la maggiore espressività, vuoi per una minore leggibilità, l’occhio è costretto a guardare, anziché leggere, le singole parole, proprio come accade con le vignette del fumetto (seppur in misura minore). Pure qui, dunque, il ritmo di base si trova modulato, reso meno regolare, da una componente comunicativa di carattere visivo, legata al guardare e non al leggere. Osserviamo, d’altra parte, che la modulazione espressiva della voce non produce lo stesso effetto di irregolarità temporale. Nelle testualità a scorrimento rigido (come la musica, il cinema, o tutto ciò che è legato al parlato) l’aumento di espressività non modifica in sé il ritmo, proprio perché non influisce sul tempo di fruizione. Il testo scorre indipendentemente dal nostro agire interpretativo, e se diventa più complesso non abbiamo altra scelta che aumentare il nostro livello Daniele Barbieri, "Leggere e guardare", Progetto grafico n.11, 2007 6 di attenzione – oppure, se esso è già al massimo, finiremo per perdere qualcosa, sperando che non sia essenziale per la comprensione complessiva. Quello che la normalizzazione della scrittura produce (nella stampa, ma ancora prima nella scrittura normalizzata degli amanuensi) è una neutralizzazione della componente emotiva locale, che richiamerebbe un guardare, in modo che la parola possa essere, finalmente, semplicemente letta. Attraverso questa neutralizzazione, in maniera apparentemente un po’ paradossale, la parola scritta recupera l’omogeneità temporale di quella parlata, permettendo anche, a un eventuale lettore ad alta voce, di interpretare con le proprie intonazioni il testo verbale, a partire dal suo contenuto semantico. Rispetto a quella scritta a mano, dunque, la parola normalizzata attraverso la stampa recupera in leggibilità quello che perde in espressività: poiché però si tratta comunque di parola, il guadagno è solitamente superiore alla perdita, perché la fluidità del discorso è a sua volta una componente espressiva che una scarsa leggibilità penalizza. Inoltre, nel corso del tempo, la parola scritta si è adeguata alla sua minore espressività rispetto a quella parlata, evolvendo forme adatte al contesto: per questo non si scrive come si parla. La parola scritta, come risultante del processo evolutivo, non è più la semplice trascrizione di quella parlata, ma una diversa forma di comunicazione – sebbene con fortissime relazioni con la parola orale. La parola scritta usa espressioni diverse e possiede un diverso ritmo, che sa fare a meno delle intonazioni dell’orale. Questo ritmo (poiché la grammatica e la sintassi sono le stesse) si basa sul ritmo tipografico dato dalla successione di parola-spazio, parole-punteggiatura, riga-a capo, dei capoversi e delle pagine (oltre che di tutte le altre convenzioni impostesi con la stampa). L’omogeneità del font e del corpo è resa necessaria dal bisogno di una loro neutralità espressiva locale. Ma la neutralità espressiva locale non comporta quella globale. Il font ideale per un testo verbale a stampa è dunque quello che in prima istanza corrisponde come tono espressivo al contenuto (eventualmente anche contraddicendolo, se è questo che si vuole: in ogni caso, impostando un tono espressivo sulla base del quale il testo verbale verrà letto), e in seconda istanza si neutralizza completamente, scomparendo agli occhi del lettore dal punto di vista espressivo. Le due esigenze sono abbastanza in opposizione, e la seconda è prevalente in tutti i testi che richiedono prolungata attenzione (dove, dunque, gli effetti ritmici abbiano modo di manifestarsi). La prima esigenza può prevalere nei testi brevi, come i titoli, in cui l’efficacia espressiva immediata è più importante della tutela degli aspetti ritmici. I titoli, infatti, si guardano forse più di quanto si leggano: lo si vede da come sono strutturati nelle pagine dei quotidiani. La scelta del font per una rivista o una collana editoriale privilegia dunque inevitabilmente la seconda esigenza, ma non può dimenticare del tutto la prima. L’impostazione ideale, per la seconda esigenza, è quella che permette al ritmo della lettura di dispiegarsi naturalmente, neutralizzando al massimo le inevitabilmente presenti componenti grafiche. Per esempio, come ogni buon grafico sa, caratteri troppo grandi o troppo piccoli o in font troppo particolari finiscono per attrarre spesso l’attenzione su di sé, linee di testo troppo lunghe richiedono che una parte dell’attenzione venga spesa nel trovare la giusta linea successiva (e l’intervallo perché l’occhio passi dalla fine di una riga all’inizio della successiva è troppo lungo per poter essere neutralizzato, influendo dunque sul ritmo). Ogni ostacolo alla leggibilità visiva è un inciampo al dispiegarsi del ritmo naturale; ogni eventuale configurazione che richiami l’attenzione sulla componente visiva (cioè che richiami l’attenzione sul guardare, anziché sul leggere) la distoglie da quella verbale: se per esempio, si creano degli allineamenti verticali degli spazi tra le parole, appaiono sulla pagina delle righe Daniele Barbieri, "Leggere e guardare", Progetto grafico n.11, 2007 7 bianche verticali che attraggono l’attenzione in quanto forme salienti; qualcosa di simile accade se ci sono delle rime visive tra aree della pagina, e così via. Il guardare, dunque, in tutti questi casi, finisce per essere nemico del leggere. Qualunque cosa chieda di essere guardata distoglie l’attenzione dalla lettura, e ne sminuisce l’efficacia, introducendo elementi spuri rispetto alla significatività della pura sequenza di parole. Non tutta la parola stampata segue tuttavia questi principi. Per esempio, da vari secoli a questa parte, la poesia ha sfruttato le concordanze anche visive tra aree testuali diverse. Se questo non fosse vero, la divisione in versi potrebbe essere marcata da un semplice separatore (come “/”, che talvolta si usa nelle citazioni), e non vi sarebbe nemmeno ragione di marcare graficamente la separazione tra le quattro strofe (due quartine e due terzine) di un sonetto, visto che alla lettura ad alta voce tale separazione non risulta, se non attraverso l’implicita organizzazione delle rime. Non è sicuramente un caso che i primi esperimenti di tipografia espressiva artistica da parte degli scrittori siano stati fatti proprio in campo poetico, da Mallarmé5 ad Apollinaire a Marinetti, e tanti altri, da Desnos a Pound. Nei componimenti visivamente sperimentali di questi autori l’espressione grafica è parte del senso poetico, anche se non vi è poi modo di tradurla nella lettura ad alta voce – se non inventando liberamente delle modalità espressive sonore che si possano intendere come corrispondenti di quelle visive. Quello che la parola scritta perde, in questi casi, è proprio il suo respiro continuo, il ritmo regolare del respiro naturale – a cui si sostituisce, come peraltro sempre in poesia, il ritmo costruito del respiro del verso, qui più che mai costruito visivamente. Una pagina tipografica che chieda di essere guardata più che di essere letta sarà, in generale, una pagina che privilegia la comunicazione visiva rispetto a quella verbale; in altre parole sarà una pagina di cui è più autore il tipografo di quanto non lo sia lo scrittore. Credo che le affermazioni di Chappell su Didot e Bodoni non intendano arrivare a tanto; tuttavia, anche solo osservare che le pagine di questi artisti tipografi chiedono di essere guardate (oltre a essere lette) significa sottolineare l’importanza che, nella creazione e coeva fruizione di quelle pagine, aveva la componente visiva della comunicazione. In altre parole, se nel corso di una lettura normalmente ritmica (quale comunque anche i caratteri di Bodoni permettono) dobbiamo fermarci di tanto in tanto per ammirare l’eleganza della pagina (e rompere così il ritmo), allora inevitabilmente le significazioni emergenti da questo guardare faranno parte della significanza complessiva dell’opera. Potrebbe trattarsi di un errore, di un eccesso di protagonismo da parte del tipografo. Ma il successo di Bodoni nella sua epoca ci obbliga a escludere questa ipotesi. Bodoni aveva successo perché, secondo il sentire dell’epoca, la sua tipografia nobilitava i testi verbali, dando loro l’espressione grafica che si meritavano. Siamo dunque autorizzati a pensare che questi testi venissero stampati da Bodoni non solo per essere letti, ma soprattutto per essere celebrati: in un certo senso, Bodoni dunque non stampava semplicemente i testi, ma edificava loro dei monumenti. Nel monumento la persona celebrata resta di solito riconoscibile, ma non è presente di persona: e quello che conta è la sua celebrazione in quanto tale. Nella visione di Chappell, la tipografia settecentesca (che ha in Didot e Bodoni il suo culmine) sarebbe allora una tipografia che tende alla celebrazione monumentale piuttosto che alla semplice trasmissione del sapere. La valorizzazione del testo verbale vi appare più importante della sua semplice trasmissione, la quale può essere parzialmente sacrificata: non può evidentemente essere 5 Su Mallarmé e le sue preoccupazioni tipografiche vedi Rossi[2005]. Daniele Barbieri, "Leggere e guardare", Progetto grafico n.11, 2007 8 sacrificata del tutto, perché il testo verbale deve restare presente, e quindi leggibile. Si sacrifica solo qualche aspetto della sua fluidità ritmica, a vantaggio degli aspetti che permettono di celebrarlo. La tipografia bodoniana – pur se di fatto applicata a diversi tipi di testi verbali – appare dunque adeguata a esprimere più propriamente quei testi verbali che meno giocano sui lunghi ritmi di lettura. Appare quindi adatta, per esempio, alla stampa dei testi poetici, i quali, come abbiamo visto, giocano da sempre sulla tipografia più dei testi in prosa, e il loro respiro ritmico si basa molto di più su espedienti tipografici di quanto non faccia la prosa. Questa osservazione appare coerente con la collocazione storica di Bodoni, a cavallo tra monumentalità neoclassica e drammaticità (poetica) romantica. La tipografia di Bodoni è la tipografia di un’epoca che celebra se stessa, espressione di una cultura incline a pensare principalmente in termini monumentali – e capace poi solo all’interno del monumento di declinare tutte le altre potenzialità dell’espressione. Ci vorrà un secolo perché la cultura visiva europea esca da questo modo di concepire l’immagine. Dal neoclassico al neogotico cambieranno infatti le modalità di celebrazione, ma non lo spirito monumentale. Solo con l’Impressionismo e le sue conseguenze ritroveremo lo spirito di una comunicazione non glorificante, più piana e “popolare”, forse più democratica. E ritroveremo anche un leggere che possa fare a meno di essere celebrato attraverso il guardare – rimanendo in tal modo un semplice leggere, con tutta l’onestà della lettura. RIFERIMENTI Barbieri, Daniele [2004a] Nel corso del testo. Una teoria della tensione e del ritmo, Milano, Bompiani Barbieri, Daniele [2004b] “Samurai allo specchio”, Golem L’indispensabile, periodico on line, n. 8, novembre 2004 (http://www.golemindispensabile.it/default3.asp?num=43) Barbieri, Daniele [2005] “Appunti per un’estetica del senso”, Tempo fermo, n. 4 (anche on line all’indirizzo http://www.arteadesso.net/tempofermo/numeri/4/barbieri_tf_4.html) Chappell, Warren, Bringhurst, Robert [2004], Breve storia della parola stampata, Milano, Sylvestre Bonnard. Meyer, Leonard B. [1956] Emotion and Meaning in Music, Chicago & London, The University of Chicago Press. Tr.it. Emozione e significato nella musica, Bologna, Il Mulino, 1992. Rossi, Fabrizio M. [2005] “Mallarmé: scrittura e forma del testo”, Progetto Grafico n. 6 Daniele Barbieri, "Leggere e guardare", Progetto grafico n.11, 2007 9