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CONGEDI PARENTALI: Quando la cura della famiglia è realmente

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CONGEDI PARENTALI: Quando la cura della famiglia è realmente
COMMISSIONE PROVINCIALE PER LE PARI OPPORTUNITÀ
TRA UOMO E DONNA
ATTI del CONVEGNO
La Commissione Provinciale per le Pari Opportunità è stata istituita nel 1993 (L.P.
10/12/1993 n. 41). La Commissione ha il compito di promuovere azioni positive per sostenere le donne a concorrere con le stesse opportunità degli uomini ad apportare il proprio contributo allo sviluppo della nostra società, ad esprimere le proprie potenzialità e creatività, a
lasciare la propria impronta ed a trasmettere la propria esperienza nel corso della vita; è dunque impegnata su molti fronti che spaziano dalla formazione, agli interventi relativi alla vita
personale nei suoi molteplici aspetti (il campo relazionale, affettivo e sessuale, la salute, la
maternità e la paternità, la famiglia e la cultura), alla vita lavorativa (negli innumerevoli settori
e a tutti i livelli), alla vita politica, sociale, ecc…
CONGEDI PARENTALI:
Quando la cura della
famiglia è realmente
condivisa fra mamma
e papà
Dalla sua costituzione sono stati realizzati numerosi progetti inerenti la realtà femminile rivolti a tutte le donne, quelle che si occupano della propria famiglia, quelle che lavorano fuori casa in
ambiti e a vari livelli, quelle che, straniere, cercano di inserirsi nella nostra comunità e, naturalmente, le giovani donne. Inoltre, sono stati realizzati momenti divulgativi per tutta la collettività.
La Commissione ha sede presso gli uffici della Provincia Autonoma di Trento
in via XXIV Maggio, 2 - 38100 Trento - tel. 0461.496.276 - fax 0461.496.288
e-mail: [email protected] - www.pariopportunita.provincia.tn.it
Trento, 8 marzo 2005
CONGEDI PARENTALI
L’attuale Commissione è stata nominata dalla Giunta provinciale nel marzo del 2004 e
rimarrà in carica fino al termine della legislatura; è composta da quindici donne: dodici, elette
dalle Associazioni, provengono da svariate culture ed esperienze della realtà femminile trentina, tre sono esperte di nomina diretta provinciale.
Rapporto di ricerca
L’USO dei CONGEDI PARENTALI
nella PROVINCIA di TRENTO
CONSIGLIERA DI PARITA’
La Consigliera di Parità intraprende ogni utile iniziativa ai fini del rispetto del principio di non
discriminazione e della promozione di pari opportunità per donne e uomini nel mondo del lavoro.
La Consigliera di Parità è gratuitamente a disposizione delle persone che necessitano di
informazioni, o ritengono di subire una discriminazione di genere nell’ambito lavorativo.
Tel. 0461/496256 - fax 0461/496288
e-mail: [email protected] - www.pariopportunita.provincia.tn.it
Commissione provinciale Pari Opportunità tra uomo e donna
a cura di Barbara Poggio e Michela Cozza
La Consigliera di Parità è la figura istituzionale preposta ad intervenire in modo specifico
sulle tematiche delle Pari Opportunità tra uomo e donna legate al mondo del lavoro.
Tale figura svolge funzioni di promozione e controllo sull’attuazione dei principi di uguaglianza di opportunità e non discriminazione per lavoratrici e lavoratori: è un organo di garanzia e vigilanza sul rispetto della legislazioni di parità operante a livello nazionale, regionale e
provinciale; promuove azioni positive a favore dell’inserimento e della permanenza delle donne
nel mondo del lavoro e ha la possibilità di agire in giudizio contro qualsiasi discriminazione,
diretta o indiretta, individuale o collettiva (L. 125/91; d.lgs. 196/2000).
Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale
Provincia Autonoma di Trento
Commissione Provinciale Pari Opportunità tra uomo e donna
2005
ATTI del CONVEGNO
CONGEDI PARENTALI:
Quando la cura della famiglia
è realmente condivisa
fra mamma e papà
Trento, 8 marzo 2005
Rapporto di ricerca
L’USO dei CONGEDI PARENTALI
nella PROVINCIA di TRENTO
a cura di Barbara Poggio e Michela Cozza
Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale
Provincia Autonoma di Trento
Commissione Provinciale Pari Opportunità tra uomo e donna
2005
© Giunta della Provincia Autonoma di Trento
Commissione Provinciale pari opportunità tra uomo e donna
2005
Convegno Congedi parentali: quando la cura della famiglia
è realmente condivisa fra mamma e papà, Trento, 2005
Atti del Convegno Congedi parentali: quando la cura della famiglia è realmente condivisa fra mamma e papà : Trento, 8 marzo
2005. Rapporto di ricerca L’uso dei congedi parentali nella Provincia di Trento / a cura di Barbara Poggio e Michela Cozza. –
[Trento] : Provincia autonoma di Trento : Commissione provinciale
pari opportunità tra uomo e donna, 2005. – 94 p. ; 24 cm
Con il testo della Legge 8 marzo 2000, n. 53
1. Lavoratori - Congedi – Congressi – Trento – 2005 2. Lavoratori – Congedi - Trentino – 2000-2004 – Inchieste sociologiche I.
Poggio, Barbara II. Cozza, Michela III. Tit: Congedi parentali
331.25763
Coordinamento redazionale:
Anna Maria Belluccio
Dipartimento Istruzione - Provincia Autonoma di Trento
È consentita la riproduzione totale o parziale
di quanto pubblicato con citazione della fonte.
SOMMARIO
ATTI DEL CONVEGNO
CONGEDI PARENTALI
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 7
Quando la cura della famiglia è realmente condivisa
fra mamma e papà
RAPPORTO DI RICERCA
L’USO dei CONGEDI PARENTALI
nella PROVINCIA di TRENTO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 35
A cura di Barbara Poggio e Michela Cozza
Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale
3
uesto convegno, sotto forma di incontro pubblico con la cittadinanza,
nasce dalla consapevolezza che in Italia – come in molti altri paesi
d’Europa – sono ancora pochi i padri che utilizzano i congedi parentali
(Legge 8 marzo 2000, n. 53), nonostante questi siano da tempo un diritto
acquisito per legge, riservando solo alle madri il ruolo di cura dei figli.
Grazie alla Legge 53 anche il padre può stare a casa per prendersi cura dei
figli, e ciò a prescindere dal fatto che la madre lavori o meno, che utilizzi o
meno i congedi parentali che la legge pure a lei attribuisce. E’, certamente, un
rilevante passo avanti se si pensa che la normativa in vigore prima di questa
legge, riconosceva il diritto all’astensione dal lavoro alla madre e solo in caso
di rinuncia di quest’ultima, al padre. Eppure i congedi parentali sono ancora
poco conosciuti e, soprattutto, poco sfruttati dai padri.
Carenza di informazione, certo, ma non solo.
Il modello culturale ed il ruolo richiesto agli uomini dalla nostra società contribuiscono a scoraggiare molti padri dall’utilizzare i congedi per la cura dei figli
cosicchè sono solo e sempre le donne ad essere gravate dall’impegno di cura,
conciliandolo con la professione.
Non è possibile parlare di conciliazione senza affrontare la questione di ridistribuzione dei ruoli all’interno della famiglia. Solo dividendo i compiti, potendo contare sulla collaborazione di tutti i componenti della famiglia è possibile
ottenere le giuste soddisfazioni sia personali che professionali.
Ecco i motivi alla base di questo incontro, destinato agli uomini ma a favore di tutti i componenti della famiglia: incoraggiare i nuovi e futuri papà a vivere una paternità attiva, passando attraverso lo strumento della conoscenza dei
diritti, ma anche attraverso un confronto aperto di esperienze e di scambio, al
fine di giungere ad una suddivisione equilibrata dei compiti e dell’impegno tra
i genitori e conciliare così, con successo e serenità per entrambi, vita privata e
vita professionale.
Riteniamo che una maggiore armonia nella divisione dei compiti di cura
della famiglia, possa tradursi, se realizzata veramente, in un reale miglioramento delle relazioni affettive dei padri con i figli, e nella realizzazione di una società in cui ognuno abbia il giusto riconoscimento ed i ruoli familiari non siano
più subordinati l’uno all’altro ma complementari.
Q
Annelise Filz
Presidente della Commissione
Pari Opportunità
5
l percorso che sta alla base del raggiungimento di una uguaglianza di mezzi
ed opportunità fra donne e uomini nel mondo del lavoro passa anche attraverso strumenti come i congedi parentali. Possibili per legge ma spesso
sotto utilizzati dal genere maschile, si configurano come un’occasione di flessibilità e di bilanciamento fra tempi di vita lavorativi e privati e come un importante passaggio verso una più equa distribuzione del lavoro di cura fra i generi; obiettivi questi che incontrano ancora oggi molti ostacoli ma che possono
essere raggiunti attraverso un sostanziale riesame personale e collettivo.
La speranza è che questa pubblicazione possa rappresentare uno spunto di
riflessione sia per lavoratori e lavoratrici che per datrici e datori di lavoro, stimolando quel processo di cambiamento culturale che risulta indispensabile
affinché la nostra società offra realmente pari diritti e possibilità a donne e
uomini nell’ambito della conciliazione tra lavoro e vita privata.
I
dott.a Emanuela Zambotti
Consigliera di Parità
6
ATTI del CONVEGNO
CONGEDI PARENTALI:
Quando la cura della famiglia
è realmente condivisa
fra mamma e papà
Trento, 8 marzo 2005
Apertura dei lavori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 11
Annelise Filz - Presidente della Commissione Provinciale Pari Opportunità
Margherita Cogo - Vicepresidente della Giunta Provinciale e Assessora alla cultura
Marta Damaso - Assessora alle Politiche Sociali
Relazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 15
Barbara Poggio - Università di Trento, Facoltà di Sociologia
Presentazione della ricerca “Utilizzo dei congedi parentali in Trentino”
Eleonora Stenico - Università di Trento, Facoltà di Giurisprudenza
La normativa sui congedi: Istruzioni per l’uso
Franca Gamberoni - ALFID Ass. Laica Famiglie in difficoltà
Quando i papà si impegnano
Testimonianza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 33
Io sono un papà “attivo” e vi racconto la mia esperienza
Trento, Sala Grande ITC
8 marzo 2005
9
APERTURA DEI LAVORI
ANNELISE FILZ
Desidero, innanzi tutto, salutarvi tutti: mi fa piacere vedere anche degli uomini. Porto il
saluto della Commissione Pari opportunità e della Consigliera di Parità, che oggi non ha potuto essere presente.
Vi spiego molto brevemente da cosa nasce l’idea di questa iniziativa, che può apparire assai
curiosa, organizzata proprio l’8 marzo: ebbene, oggi si vuole spostare l’attenzione sugli uomini
e quindi sui padri. L’idea è appunto di creare, di organizzare “un qualcosa”, in occasione del
giorno della Festa della donna, che fosse rivolto anche agli uomini e quindi ai padri. Questa idea
nasce dalla considerazione che il lavoro di cura e la gestione dei figli sono generalmente supportate esclusivamente dalla madre, quindi dalla donna, malgrado che ormai da cinque anni vi
sia in vigore una legge, la n. 53 del 2000, che prevede la possibilità di utilizzare dei periodi di
congedo, quindi di astensione dal lavoro, da parte della madre ma anche dal padre. Questa è
stata la grossa innovazione della Legge, perché prima questa possibilità non era prevista.
Il nostro obiettivo quindi è fare il punto della situazione a cinque anni dall’entrata in vigore di questa Legge, e cioè verificare quanto è stata utilizzata, informare i padri, sensibilizzare
su questo strumento e cercare, a piccoli passi, di cambiare una cultura e degli stereotipi che
vedono sempre il lavoro di cura come una tematica al femminile. Si spera un giorno di poter
superare il concetto di maternità e addirittura anche quello di paternità, per arrivare a parlare
di genitorialità, proprio perché la questione della cura dei figli sia effettivamente condivisa tra
entrambi i genitori, nell’ottica quindi di una redistribuzione dei ruoli all’interno della famiglia.
E’ chiaro che tutto questo ha un ritorno nei confronti delle donne, che riusciranno veramente a conciliare i diversi impegni. “Conciliare” è un verbo spesso ricorrente in questi ultimi
tempi e che, tuttavia, viene sempre coniugato al femminile; questa parola – “conciliare” viene,
tra l’altro, presa in considerazione solo nell’ambito del lavoro, quindi della professione, e del
lavoro di cura, quindi della gestione dei figli, degli anziani, della casa, senza tenere presente la
necessità, che è anche delle donne, di poter conciliare col proprio ozio, il proprio riposo e i
propri hobby. E’ chiaro che se vi è una condivisione dei ruoli all’interno della famiglia, rimane
del tempo alle donne; tempo che possono dedicare a se stesse, alla propria carriera o, come
dicevo, ai propri ozi.
La ricerca, volta a verificare quanti uomini hanno utilizzato questi congedi in questi cinque
anni è stata commissionata alla SPS - Scuola di preparazione Sociale di Trenti, ed è stata realizzata dalla dottoressa Barbara Poggio, con la collaborazione della dott.ssa Michela Cozza,
entrambe del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento.
Avremo poi l’intervento dell’avvocato Eleonora Stenico, anch’essa ricercatrice
dell’Università, che ci esporrà in maniera tecnica quello che prevede la Legge; seguirà poi l’intervento di Franca Gamberoni, mediatrice familiare dell’ALFID, Associazione Laica Famiglie In
Difficoltà, quale osservatrice privilegiata sul campo, proprio perché si trova a gestire molte
situazioni di mediazione familiare e quindi ad avere contatti con entrambi i genitori anche sul
tema di gestione e di cura.
Poi, e di questo siamo veramente onorate - francamente non speravamo tanto, perché
comunque non è stato facile - abbiamo trovato anche un padre che ci racconterà la sua esperienza. Noi lo abbiamo definito “padre attivo” e quindi sentiremo le cose positive e le cose
negative che ci racconterà.
11
MARGHERITA COGO
Sono sei anni che faccio politica attiva, forse 11, pensando anche all’esperienza di Sindaco.
Prima, scambiando delle considerazioni con le relatrici, dicevamo che noi siamo ormai stanche di continuare a parlare di questi argomenti e di non vedere poi risultati oggettivi e sensibili in positivo, cioè di non riuscire a vedere che le cose cambiano e che stanno migliorando.
Infatti, si segna davvero il passo in maniera negativa non solo nel mondo della politica, di cui
non voglio parlare in questo momento, ma anche nel campo del lavoro. Spesso la conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro è davvero molto difficile se non impossibile. Spesso,
quando c’è un bambino, mancando dei servizi essenziali d’assistenza ai figli, è facile che la
coppia si trovi di fronte al bivio di dover scegliere “chi dei due starà a casa”: questa è una scelta molto “semplice”, perché non c’entra nulla la questione culturale, c’entra soltanto la questione economica, cioè “chi prende di più”.
Generalmente sono gli uomini che hanno stipendi più alti: sembra incredibile che, anche
all’interno della nostra società, quella italiana, pur a parità di impiego o di qualifica, non sempre vi sia una parità anche salariale. Questo è un dato non scontato: spesso, parlando con persone anche impegnate nel mondo del lavoro, nella politica e nel sociale, ci accorgiamo che
non si rendono conto che esiste tale disparità di trattamento e trovano, addirittura, che sia
quasi impossibile che esista una simile situazione. Ci sono i contratti di lavoro che regolano
le condizioni di lavoro e quindi non dovrebbero esistere queste disparità di trattamento ma, di
fatto, invece così non è. Direi addirittura che il gap salariale, o meglio stipendiale – si preferisce usare quest’ultimo termine perché “salario” è ormai un termine obsoleto - tra uomini e
donne, è piuttosto alto (per la verità, meno alto rispetto a tanti altri Paesi europei, però è abbastanza considerevole). Tale differenza si aggira quasi intorno al 30%; va anche detto che questi sono dati difficili da reperire, perché indagini serie in questo campo, in Italia, ce ne sono
davvero poche.
Qualche giorno fa, il Professor Schizzerotto, su incarico della Provincia e quindi in collaborazione con l’Università, ha cominciato a svelare la questione, e ha dato una risposta a queste domande: “Chi è più a rischio di povertà?” Le donne, generalmente. “Per quali motivi?” I
motivi sono tanti ed uno di questi è sicuramente la difficoltà di poter realizzare un’attività lavorativa che non abbia interruzioni dovute a motivi familiari, che sia anche un’attività lavorativa
impegnata e che professionalmente proceda secondo standard medi. Infatti, nella vita di una
donna, specie se è sposata, subentra un insieme di necessità e di obblighi, che magari la
donna vuole anche assumersi e che è anche contenta di rispettare ma che, di fatto, le impediscono poi di realizzare una grande carriera nel mondo del lavoro, o comunque la mettono nella
condizione di subire un insieme di interruzioni di carriera.
E’ evidente quindi che noi dobbiamo ripensare il nostro welfare; innanzitutto bisogna procedere ed aumentare la consapevolezza e la necessità che i problemi delle donne siano i problemi della società; in secondo luogo, bisogna procedere culturalmente. In altri termini, bisogna che gli uomini siano consapevoli e coscienti che gli obblighi devono essere parimenti
distribuiti all’interno di una famiglia. In terzo luogo, bisogna anche trovare e adottare delle
misure tali da poter consentire anche alle donne di arrivare alla fine della loro carriera e non
essere poi sulla soglia della povertà quando percepiscono la pensione. Bisogna quindi strutturare la società in modo tale che vi sia un insieme di servizi alla famiglia.
Quindi il primo dato evidente per noi, quando si parla di congedi parentali è pensare a quali
sono i servizi all’infanzia.
Com’è diffuso il servizio di asilo nido sul nostro territorio? I bimbi da 3 mesi a 3 anni, che
12
nella nostra Provincia possono accedere a questo servizio, sono il 13%. La domanda non è
elevatissima, perché noi riusciamo a soddisfare più dell’80% della richiesta. Questo vuol dire
che molti non cercano nemmeno questo servizio perché, se sanno che non c’è, non fanno
nemmeno la richiesta, per cui il dato non è certo. Il dato preciso è che soltanto una piccola
parte di popolazione, da 3 mesi a 3 anni, può accedere a questo servizio.
Questo servizio deve cominciare ad essere un diritto e non può essere un servizio a
domanda individuale ( cioè, se ce lo domandano lo facciamo e se no non lo facciamo). Deve
essere un diritto come è un diritto andare a scuola (accedere alla Scuola materna è diventato
quasi un diritto in Italia e direi che in Trentino sicuramente è un diritto) e come tale l’Ente pubblico deve farsene carico sotto due aspetti - quello funzionale e quello strutturale - , ma anche
sotto il profilo dei costi. Non è possibile che gli asili nido costino così tanto: dobbiamo riuscire ad abbassare la quota di partecipazione delle famiglie, anche se la stessa - nella nostra
Provincia - è tra le più basse del resto d’Italia. Anche questo va assolutamente detto: in altri
termini, noi dobbiamo essere consapevoli che viviamo in una situazione che è positiva come
strutturazione dei servizi ed anche come costi degli stessi, però dobbiamo cercare di guardare a quelle realtà in cui si realizzano situazioni migliori, come per esempio nel Nord Europa.
Dobbiamo, insomma, “puntare al meglio” e non dobbiamo accontentarci, anche perché le
quote a carico delle famiglie sono comunque troppo alte.
Quindi si deve intervenire e rivedere le politiche di welfare per quanto riguarda la possibilità di conciliare i tempi di vita, ed i tempi di lavoro, per questo particolare settore. Ciò vuol dire
anche ri-orientare le risorse e investire maggiormente in questo particolare servizio.
Io mi limito a dirvi questi brevi flash ma è evidente che il discorso potrebbe essere molto
più lungo ed articolato: da anni ne parliamo, discutiamo, sappiamo quali sono i punti di debolezza ed io credo che questa sia una sorta di emergenza di cui dovremo farci carico tutti, ognuno per la propria parte e per il ruolo che svolge.
Grazie.
MARTA DALMASO
Buona sera a tutti ed a tutte . Buona sera anche a voi che avete organizzato e voluto questo momento che credo importante.
Sono venuta attirata dal titolo e dagli interventi che sono previsti e, quindi, sono qua essenzialmente per sentire, per imparare, per capire di più anche dalle esperienze di altri; sono qui
perché di persona vivo un’esperienza positiva, in questo campo, cioè proprio nella disponibilità ad una condivisione della cura della famiglia. Però sono qui anche nella consapevolezza
che in questo settore c’è ancora molto da fare.
Per quel che riguarda anche le competenze che mi sono state affidate - che venivano prima
richiamate anche dalla Vice Presidente Margherita Cogo – devo dire che, veramente, i fronti
aperti sono molti in questa fase di rivisitazione normativa, sia per le politiche sociali, che per
le politiche del lavoro. Questa è una delle attenzioni che io vorrei veramente potenziare e sulle
quali mi sto confrontando anche con le persone che lavorano con me. Infatti – e parlo in particolare per quel che riguarda le politiche del lavoro - uno dei settori che, assieme ad altri, ci è
stato segnalato come un settore nel quale non abbiamo saputo progredire, è proprio quello
dell’occupazione femminile. Ecco quindi che, sicuramente, si tratta di intensificare l’attenzione
e anche la creatività, la nostra disponibilità ad intervenire. E’ evidente che su molti dettagli
13
magari si potrebbe discutere (come, ad esempio, su quanto ha affermato la mia collega prima)
magari in maniera dialettica, però è certo che l’attenzione va potenziata.
Ringrazio quindi nuovamente per quest’invito e per quest’opportunità dalla quale spero di
portare via spunti per il prosieguo del mio lavoro.
ANNELISE FILZ
Direi che rappresenta un messaggio bello ed importante il fatto di sentire che due donne
che stanno nei luoghi dove si prendono le decisioni si facciano carico in maniera così partecipata di queste tematiche. Questo è sicuramente un buon inizio.
Ciò conferma la necessità di “spingere” anche per un’equa rappresentanza politica femminile, che deve esserci, in maniera più presente.
Ora verrà proiettato un breve filmato sull’esperienza di alcuni padri che hanno utilizzato i
congedi parentali.
________ PROIEZIONE FILMATO ________
ANNELISE FILZ
Quanti bei momenti si perdono questi padri! Tutto questo malgrado ci sia una legge invece che lo consente; quindi sentiremo adesso effettivamente i dati raccolti, su quanti uomini,
quanti padri, hanno utilizzato in questi anni i congedi parentali.
Volevo fare una piccola osservazione in relazione al fatto che spesso queste leggi ci sono,
però non solo non vengono utilizzate, ma vengono addirittura stravolte in alcuni casi. Io ho
ricoperto l’incarico di Consigliera di Parità negli ultimi cinque anni e quindi ho potuto verificare proprio sul campo questa realtà. Ci sono contratti, come ad esempio il Contratto dei dipendenti provinciali, che prevedono la possibilità che questi sei mesi riservati, per legge nazionale, solo agli uomini – o meglio ai padri - vengano invece utilizzati tutti dalla madre. Questo sicuramente potrà essere positivo in tutti quei casi in cui c’è la differenza salariale alla quale si è
fatto cenno prima perché, chiaramente, una decurtazione di stipendio in un famiglia può avere
un enorme peso. Certo è che, da un punto di vista culturale, questo stravolge la legge, perché
è un grosso passo indietro, è snaturare completamente il senso della legge.
14
RELAZIONI
BARBARA POGGIO
Buonasera a tutte, buonasera a tutti. Dover parlare di numeri dopo immagini così evocative non è facile! Comunque ci proverò lo stesso.
In questo intervento presenterò i primi esiti - quindi non gli esiti complessivi, comunque
già degli esiti che danno un’idea del fenomeno - di un’indagine sull’utilizzo del congedo parentale nella Provincia di Trento. L’obiettivo della ricerca era proprio quello di realizzare una mappatura, una prima analisi, rispetto all’utilizzo del congedo parentale, istituito dalla Legge 53
dell’8 marzo 2000, a 5 anni dalla sua entrata in vigore. Che senso aveva concentrare l’attenzione su questi dati, cioè sui dati sul congedo e che senso ha presentarli oggi? In parte
Annelise Filz ha già introdotto questo tema ed io vorrei sottolineare alcuni aspetti.
Intanto l’asimmetria dei ruoli di uomini e donne rispetto alla cura dei figli rappresenta sicuramente una delle principali cause della segregazione occupazionale nel mercato del lavoro e la
Legge 53 nasce proprio con l’intento sia di favorire un riequilibrio tra tempi di lavoro, tempi di
cura, tempi di formazione, tempi di relazione, ma soprattutto, con l’obiettivo di favorire una più
equa ripartizione nelle responsabilità familiari e nelle responsabilità professionali tra uomini e
donne. Quindi prendere in considerazione i dati relativi all’uso dei congedi parentali sul territorio provinciale, a distanza di 5 anni dalla loro entrata in vigore, significa - di fatto - fare un primo
bilancio rispetto alla sua applicazione. Direi anche che tale analisi offre altresì alcuni stimoli per
una più ampia riflessione in merito al tema della conciliazione tra tempo di lavoro e tempo familiare e, più in generale, rispetto allo sviluppo di concrete condizioni di pari opportunità tra uomini e donne. Quali sono state le domande alla base della nostra ricerca? Prima di tutto: chi lo utilizza? In particolare: quanti uomini e quante donne, in che misura viene utilizzato, in quali contesti, se c’è una differenza fra settori lavorativi diversi e, eventualmente, con quali problemi e
quali vincoli. Il metodo utilizzato è stato piuttosto semplice. Prima è stata realizzata una raccolta dei dati quantitativi relativi ai principali comparti lavorativi della Provincia. A questo proposito credo che sia utile segnalare fin da subito la difficoltà incontrata nel reperimento dei dati, che
ha fatto sì, ad esempio, che tra i dati mancanti ad oggi ci siano anche quelli relativi alla Provincia
Autonoma di Trento, che non è stata in grado di fornirci in tempo i dati in forma disaggregata,
ovvero distinguendo i congedi parentali da altri tipi di congedo (ad esempio per malattia). In
generale si rileva una significativa difformità nelle modalità di raccolta di questi dati da parte
delle diverse organizzazioni, aspetto che ha reso più problematico il nostro lavoro, perché non
ha favorito la comparazione tra i dati e non ci consente oggi di avere uno sguardo più complessivo rispetto a questo fenomeno. A questo proposito intendo ringraziare Michela Cozza che ha
lavorato con pazienza in questo lavoro difficilissimo di raccolta e recupero dei dati.
Il secondo metodo o, in altre parole, il secondo tipo di lavoro, è stato il realizzare una serie
di colloqui con testimoni privilegiati che ci aiutassero a contestualizzare i dati, a trovare delle
interpretazioni e delle spiegazioni. Quindi abbiamo incontrato rappresentanti sindacali, responsabili del personale dei vari enti, le persone che, all’INPS, si occupano della raccolta di questi
dati e così via - il Consigliere di Parità, esperti del Diritto del lavoro - in modo da avere uno
sguardo il più complessivo possibile rispetto a questo fenomeno. Ciò premesso, vengo dunque ai numeri, o meglio, ai dati che abbiamo raccolto. Vi ripeto, appunto, che non rappresentano tutto il mercato del lavoro trentino, ma comunque una buona parte di esso e ci danno
comunque alcune indicazioni significative rispetto agli andamenti in atto.
15
Questa è una prima immagine complessiva; i dati che abbiamo raccolto su quasi tutti i servizi vanno dal 2000 al 2004, quindi fanno riferimento a 5 anni. I dati relativi al 2000 sono parziali,
perché appunto la legge è entrata in vigore a partire dall’8 marzo e poi c’è stato un periodo di assestamento. Più significativi sono gli altri dati che ci mostrano che, in generale, il numero di congedi richiesto è aumentato, sia per gli uomini che per le donne. E quindi un primo dato positivo.
Mi concentrerò in particolare più sulle cifre relative agli uomini - anche se, per differenza,
possiamo ovviamente dedurre quelli relativi alle donne - perché rispetto alle cose fin qui dette
è importante e significativo vedere poi se lo spirito della Legge (che era anche quello di favorire un maggiore coinvolgimento degli uomini nella gestione familiare) è stato soddisfatto
comunque e in che misura è presente.
La percentuale dei congedi richiesti da uomini è aumentata nei primi 3 anni; in realtà è aumentata nei primi 4 perché per gli enti di cui abbiamo i dati relativi al 2000 si rileva un aumento anche
a partire dal primo anno, che poi sembra assestarsi con l’ultimo anno (tab. 1 e fig. 1). Il riferimento a questo assestamento è stato poi fatto da molte delle persone che abbiamo intervistato.
Tab. 1 – Numero di congedi e percentuale di congedi utilizzati dagli uomini per anno
Anno
*2000
2001
2002
2003
2004
Totale
Numero Congedi
1059
2278
2451
2544
2736
11068
% Congedi uomini
9,1
10,4
11,3
13,3
12,9
11,8
*I valori relativi al 2000 non comprendono i dati INPS, non disponibili.
Fig. 1 – Andamento delle richieste di congedo di donne e uomini
3000
2500
2000
Uomini
Donne
1500
1000
500
0
2000
2001
2002
2003
2004
Un secondo dato interessante è quello relativo non tanto al numero di congedi richiesti, o
meglio, a quanti uomini richiedono i congedi, ma ai giorni di congedo totali e a quanti di questi sono richiesti dagli uomini (tab.2).
16
Tab. 2 – Percentuali di giorni utilizzati dagli uomini
Anno
*2000
2001
2002
2003
2004
Totale
%
3,5
4,7
5,9
6,0
5,9
5,3
*I valori relativi al 2000 non comprendono i dati INPS, non disponibili.
Qui vediamo che la percentuale si assottiglia nel senso che, se sul totale dei congedi richiesti c’è un 10% circa di richieste da parte degli uomini, sul totale dei giorni di congedo questa
percentuale si riduce al 4%. Quindi la tendenza all’utilizzo dei congedi da parte degli uomini si
riduce ulteriormente nel momento in cui si considera la durata; su questo punto ritorneremo
in seguito.
Consideriamo ora la media dei giorni: qui vediamo, invece, il dato relativo al numero medio
di giorni richiesto da uomini e donne. (Fig.2).
Fig. 2 – Numero medio di giorni di congedo utilizzati da donne e uomini
120
100
donne
uomini
80
60
40
20
0
2000
2001
2002
2003
2004
Totale
Come potevamo aspettarci da quanto appena detto, il numero medio di giorni richiesti dagli
uomini è inferiore – per oltre la metà – rispetto a quello richiesto dalle donne. Vediamo anche
che, complessivamente, c’è una riduzione del numero medio di giorni richiesto sia dalle donne
che dagli uomini. Questo è legato a quel discorso di assestamento che facevamo prima.
Possiamo ora confrontare le organizzazioni e vedere se c’è anche una tendenza diversa, una propensione differente, a richiedere i congedi; esiste, come vedremo, una differenza
fra pubblico e privato, ma anche all’interno, per esempio, dei contesti pubblici o semipubblici
si riscontra una significativa differenza. Ciò conferma l’idea che poi all’interno delle diverse
organizzazioni ci siano culture di genere differenti, che tendono a favorire o meno il fatto che
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le persone si sentano a loro agio, si sentano serene nel richiedere di poter usufruire di un congedo.
Al primo posto troviamo l’IRST che ha una percentuale estremamente elevata di congedi
richiesti da uomini, ovvero il 24%; questo dato può essere spiegato anche dal fatto che qui c’è
una forza lavoro mediamente più giovane e più istruita. Poi c’è l’Università e poi ci sono i
Comuni. All’interno dei Comuni - in realtà - c’è una disomogeneità molto alta, che non sembra
dipendere dalla grandezza dei Comuni: ci sono dei dati davvero molto difformi. Poi c’è il privato, i cui dati ci sono stati forniti in forma aggregata dall’INPS e rispetto al quale quindi non
è possibile differenziare per ambiti. Per ultima troviamo l’Azienda Provinciale per i Servizi
Sanitari, con una percentuale pari al 10,9%.
Se operiamo un confronto tra pubblico e privato e vediamo che (Fig.3), in tutti gli anni considerati, la richiesta dei congedi all’interno degli enti pubblici è più elevata anche se non si
riscontra una differenza particolarmente forte.
Fig. 3 – Richieste di congedo nel settore pubblico e in quello privato in base al sesso
1600
1400
1200
1000
800
600
400
200
0
donne
uomini
Pubblico
Privato
Questo dato sarebbe diverso se non considerassimo i dati dell’Azienda Provinciale per i
Servizi Sanitari: senza quel dato la differenza è molto forte, ma siccome il comparto sanitario
è molto significativo dal punto di vista numerico sul totale della forza lavoro, lo scarto complessivo si riduce (tab. 3).
Tab. 3 – L’utilizzo dei congedi in ambiti organizzativi differenti
Regione T.A.A.
Comuni
ITC-irst
APSS
P.A.T.
Università
% su dipendenti 2004
18,3
9,4
9,3
8,8
6,6
4,1
18
% congedi uomini
13,4
17,6
24,0
10,9
19,8
19,0
% giorni uomini
5,8
7,9
11,1
4,6
7,8
7,3
Questi sono dunque i dati su cui ci è stato possibile realizzare un effettivo confronto. Il problema della disomogeneità della fonti non ci ha purtroppo consentito di sviluppare riflessioni
più articolate su aspetti di interesse, ad esempio rispetto al momento in cui il congedo viene
utilizzato, se nelle prime fasi della nascita oppure dopo, o sul rapporto tra utilizzo del congedo e posizione professionale, titolo di studio e altre variabili.
In sintesi, dunque, possiamo dire che i congedi parentali sono prevalentemente utilizzati
dalle madri, che ne fanno uso per periodi più consistenti, spesso in continuazione dei congedi di maternità. Gli uomini li utilizzano in maniera molto più limitata e anche quando vi ricorrono lo fanno in modo molto più parcellizzato. Li utilizzano infatti prevalentemente nei primi
giorni successivi alla nascita e poi in situazioni di particolare criticità, ad esempio nei momenti in cui sono scoperti dei servizi oppure c’è qualche emergenza per cui la madre non può occuparsene.
L’utilizzo, abbiamo visto, è più elevato nel settore pubblico; esiste una stagionalità dell’utilizzo, nel senso che si utilizzano in misura maggiore nei mesi estivi, quando appunto viene
meno la copertura dei servizi pubblici.
Dai colloqui è emerso poi un altro aspetto, anche se bisogna evitare rischiose stigmatizzazioni, e cioè che esistono casi, che però non abbiamo potuto quantificare per motivi ovvi, di
padri che utilizzano il congedo in modo improprio, cioè che prendono il congedo magari per
finire di costruire una casa, per ritornarsene al paese d’origine, se sono stranieri, o per svolgere attività che non hanno in realtà a che fare con l’accudimento dei figli, che restano comunque a carico delle madri. Sembra tuttavia che si tratti di un fenomeno non particolarmente rilevante dal punto di vista quantitativo.
Se questo è lo scenario complessivo, vorrei ora riportarvi alcune delle interpretazioni che
sono state raccolte dalle persone che abbiamo intervistato.
La prima puntualizzazione che va fatta riprende la preoccupazione che faceva presente
anche Annelise Filz prima e cioè che, purtroppo, non è possibile confrontare questi dati con i
dati di altre regioni, perché non sono ancora presenti. Per questo non sappiamo se in Trentino
ci sono più padri, rispetto ad altre Regioni, che utilizzano il congedo. In ogni caso, forse, anche
una spiegazione del numero ancora contenuto di richieste - perlomeno per quanto riguarda gli
enti pubblici - va messa in relazione con questa contrattazione locale che, di fatto, ha modificato in maniera sostanziale lo spirito originario della Legge nazionale, che era proprio anche
quello di favorire, o di incentivare, la presenza dei padri. Se nella Legge 53 - poi magari con
Eleonora Stenico si vedrà meglio questo punto - si prevede un limite complessivo massimo di
10 mesi (11 se il padre si astiene per almeno 3 mesi), si prevede anche un limite massimo di
6 mesi per ognuno dei genitori. Nella contrattazione locale questo vincolo non c’è più, sparisce, e quindi si consente che sia un solo genitore a fruire dei 10 mesi di astensione facoltativa e, guarda caso, tendenzialmente questo poi ricade sulle madri.
Fatta questa importante puntualizzazione, passerei a segnalarvi tre diversi ordini di interpretazioni che si possono dare a questo fenomeno. Il primo ha a che fare con la distinzione fra
aspetti naturali e aspetti culturali, nel senso che questa significativa differenza quantitativa nell’uso dei congedi da parte di uomini e donne può essere, ovviamente – e lo è spesso - spiegata, facendo ricorso alla naturalità delle differenze sessuali. Dall’altra parte si può anche fare
riferimento alla costruzione sociale di genere ed alla costruzione culturale di genere, che sta
dietro questa divisione asimmetrica.
I molti studi e le molte ricerche che hanno affrontato queste tematiche ci portano in qualche modo a propendere per questa seconda interpretazione, che tende poi ad associare questa diversa distribuzione dei ruoli tra uomini e donne ad altre due dicotomie tipiche della
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nostra cultura: cioè la distinzione tra pubblico e privato, con l’attribuzione del pubblico al
maschile e del privato al femminile e la dicotomia tra produzione e riproduzione, per cui si
distingue appunto tra i compiti maschili, che sono compiti produttivi, che quindi si esplicano
all’interno del pubblico e del mondo del lavoro e producono delle cose ed, invece, i compiti
di riproduzione, che sono quei compiti della quotidianità che ogni giorno vengono ripresi in
mano, rifatti e che sono i compiti per esempio della gestione della casa. Questo è il primo
aspetto.
Il secondo, per restare sul terreno delle dicotomie, chiama in causa due ulteriori concetti,
tradizionalmente contrapposti, spesso anche associati al maschile e femminile e che vengono
richiamati per motivare le strategie familiari non improntate ad una equa distribuzione dei
ruoli. Da un lato ci sono i sentimenti - ed in alcuni dei colloqui si è fatto proprio riferimento ad
un sentimento di ossessività, di gelosia - da parte delle madri nei confronti dei figli, che quindi tendono a faticare, a non essere disponibili a delegare le responsabilità ed il loro rapporto
con i figli, ai loro partner.
Dall’altra parte - e questo forse è anche l’aspetto più significativo - si ha invece a che fare
con le strategie di tipo economico (prima Margherita Cogo parlava di gap stipendiali) e quindi, essendoci una differenza nei redditi maschili e femminili, essendoci una differenza anche
nelle prospettive di carriera di uomini e donne, nel momento in cui si deve decidere chi sta a
casa, si finisce per “sacrificare” chi guadagna meno.
Ricordo che, anni fa, intervistai un manager d’azienda che mi disse: “Dopo la nascita del
figlio, abbiamo deciso di fare un sacrificio e mia moglie è stata a casa”. La definizione delle
strategie familiari procede dunque anche in termini di profitti e di perdite e spesso la rinuncia
della moglie costa meno di quella del marito.
Il terzo aspetto, la terza dimensione, è quella che ha a che fare con l’atteggiamento delle
aziende, perché da un lato abbiamo visto le motivazioni individuali, ma in questo ragionamento non è indifferente il tipo di orientamento, il tipo di atteggiamento, il tipo di cultura di cui le
aziende, le organizzazioni, sono portatrici.
Un primo aspetto riguarda la mancanza di informazione, nel senso che, dalle interviste, dai
colloqui realizzati, emerge una sostanziale mancanza di informazione anche da parte dei datori di lavoro che, spesso, non sono neppure a conoscenza delle eventuali agevolazioni che ci
sarebbero nel promuovere modelli di lavoro e orari più flessibili per favorire il discorso della
conciliazione. C’è dunque quest’aspetto, diciamo strutturale, che non va sottovalutato. Le
aziende poi tendono a vedere il congedo, e più in generale le politiche di conciliazione, sotto
la luce dei costi che queste implicano per l’organizzazione e mai sotto la luce dei vantaggi che,
invece, potrebbero portare, per esempio un clima migliore, che è dato dal benessere delle persone che vi lavorano. Al contrario c’è una forte enfasi sui costi e sulle ripercussioni, di tipo
economico e di tipo organizzativo, che un congedo può comportare per l’organizzazione. Poi
in generale - e questo forse è anche l’aspetto più significativo - c’è una tendenziale ostilità culturale dell’organizzazione verso i congedi che, in qualche modo, vengono accettati con una
sorta di rassegnazione, se a chiederli sono le donne -perché si sa “sono le donne” - ma che
destano più preoccupazione se la richiesta proviene dalla parte maschile. Questo è chiaramente comprensibile se pensiamo quanto è importante il valore del tempo di presenza all’interno
delle organizzazioni, spesso più dell’efficacia e della produttività: essere presente per tempi
lunghi è infatti un segno di lealtà nei confronti dell’organizzazione, quindi il ridurre questi
tempi o il restare a casa per dei periodi, può essere visto come un segno di disimpegno,
soprattutto se riguarda la componente maschile. Va oltretutto segnalato il fatto che gli atteggiamenti di ostilità non provengono soltanto da parte dei datori di lavoro, ma dell’organizza20
zione nel suo complesso, spesso dagli stessi colleghi: si è parlato di situazioni anche di mobbing, in cui la scelta degli uomini di optare per un congedo parentale viene svalutata, viene
sanzionata attraverso battute (ad esempio quelle svalutanti sul “mammo”) o anche attraverso
gesti più gravi.
Mi rendo conto di aver toccato diversi temi che avrebbero bisogno di una più ampia trattazione - e credo che ci sarà spazio per farlo nel dibattito o attraverso i successivi interventi.
Quello che vorrei fare, per chiudere questo intervento, è individuare alcune linee di lavoro,
alcune prospettive rispetto alle quali ci si può muovere.
Una prima cosa è sicuramente quella di sollecitare una più efficace raccolta e gestione di
questo tipo di dati, non solo per facilitare chi in futuro si troverà a fare questo tipo di lavoro
ma, più in generale, perché credo che disporre di dati chiari, articolati ed omogenei, su questi
aspetti, rappresenti una condizione necessaria proprio per una migliore programmazione
organizzativa. Tra l’altro io credo che questa sia una precondizione tutto sommato neanche
particolarmente complicata o difficile.
Poi un secondo aspetto è quello di tornare allo spirito originario della legge, che è quello
di incentivare la presenza maschile. Questo – a mio parere - può essere fatto soprattutto da
chi ha responsabilità politiche o dai sindacati.
Poi un terzo aspetto è quello di lavorare sulla promozione - e questa giornata si colloca
sicuramente all’interno di questa filosofia - e garantire una maggiore informazione: informazione per i datori di lavoro, ma anche per gli stessi lavoratori. I sindacalisti che abbiamo intervistato hanno parlato di una scarsa conoscenza e di una mancata valorizzazione delle opportunità offerte dalla legge.
Direi che c’è un quarto punto, che fa riferimento a qualcosa che non ho citato prima, ma
che credo sia fondamentale, e cioè che questa legge vale solo per i lavoratori dipendenti. Sono
dunque molti ad esserne esclusi e c’è una componente sempre più significativa della forza
lavoro che nel futuro prossimo sarà fortemente interessata da questi tipi di problemi. Si tratta
di coloro che si collocano all’interno dei cosiddetti lavori atipici: la situazione per loro, rispetto per esempio al problema della maternità e della paternità, è sicuramente molto sconfortante. Per questi motivi io quindi credo che, se è sicuramente importante vedere l’implicazione
che ha avuto questa legge e prendere atto che c’è comunque una crescita per cui si devono
incentivarne e migliorarne le caratteristiche, è altrettanto importante non dimenticare coloro
che non possono godere di questi benefici.
ANNELISE FILZ
Certamente i dati sull’utilizzo di questo strumento che la legge oggi mette a disposizione di
per sé potrebbero sembrare deludenti perché effettivamente, rispetto all’utilizzo da parte delle
donne, delle madri, i dati dimostrano che sono ancora molto pochi gli uomini che usufruiscono del congedo parentale. Certo è che un’escalation vi è stata, perché abbiamo visto che, dai
36 iniziali nel 2001, siamo arrivati a circa un centinaio e quindi c’è una certa evoluzione in positivo. Poiché non sono intervenute nuove normative – ed, infatti, la Legge in vigore è sempre
la stessa - è chiaro che è essenzialmente una questione di cultura e in questo senso bisogna
lavorare.
Ma sentiamo quelli che sono gli aspetti propriamente tecnici della Legge dall’avvocato
Eleonora Stenico.
21
ELEONORA STENICO
La Legge 53 del 2000 è intitolata “Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi nelle città”.
E’ una legge che ha introdotto significative innovazioni, non soltanto dal punto di vista terminologico, ma anche, principalmente, sotto il profilo contenutistico, rispetto all’originaria
disciplina in materia di astensione dal lavoro e di permessi per la cura e l’assistenza dei figli,
sia naturali che adottivi.
Il nuovo assetto normativo, ossia la legge 53 del 2000, è poi confluita nel cosiddetto “Testo
Unico sulla tutela ed il sostegno della maternità e della paternità” che è il Decreto legislativo n.
151 del 2001 (Testo Unico perché ha provveduto a riunificare e coordinare le disposizioni precedenti).
L’attuale disciplina costituisce, perciò, il risultato di un processo di riforma e di ampliamento del tradizionale sistema di tutele, incentrato sulla figura della lavoratrice madre, alla quale
era riconosciuto il diritto all’assenza dal lavoro nei due mesi precedenti al parto e nei tre mesi
successivi; la facoltà di astenersi dal lavoro per successivi ulteriori sei mesi durante il primo
anno di vita del bambino; nonché il diritto a periodi di riposo giornaliero per allattamento ed a
permessi per le malattie del figlio di età inferiore ai tre anni: la lavoratrice madre restava, pertanto, la principale destinataria della legislazione di tutela.
Radicalmente diverso è il principio sotteso alla disciplina introdotta dalla Legge 53 del
2000, che recepisce i principi contenuti nella Direttiva comunitaria n. 34 del 1996.
Il principale elemento innovatore rispetto alla legislazione nazionale previgente è costituito
dalla totale equiparazione del padre alla madre nelle attività di cura, assistenza ed educazione
dei figli.
Non solo; la Legge 53 del 2000 prima, e il Decreto Legislativo 151 del 2001 poi, hanno portato a compimento anche il percorso volto alla completa equiparazione dei genitori adottivi e
affidatari rispetto ai genitori biologici.
Tutto ciò è avvenuto, come anticipato poc’anzi, in occasione del recepimento in Italia della
Direttiva comunitaria che, proprio al fine di agevolare la conciliazione delle responsabilità professionali e familiari di entrambi i genitori che lavorano, ha imposto a tutti gli Stati membri
dell’Unione Europea di riconoscere ai lavoratori di ambedue i sessi il diritto individuale al congedo parentale, in occasione della nascita o anche dell’adozione, o affidamento, di un bambino.
Con la locuzione “congedo parentale” ci si riferisce al periodo di astensione facoltativa dal
lavoro nei primi otto anni di vita del bambino; tale diritto viene riconosciuto ad entrambi i genitori – come ha già accennato la mia collega - nel limite complessivo di dieci mesi (che può
però essere esteso ad undici in una specifica ipotesi che vedremo di qui a breve).
Il congedo parentale si affianca ed arricchisce gli istituti esistenti, del congedo di maternità e del congedo di paternità; è necessario, pertanto, non confondere il medesimo con gli altri
due, che sono istituti distinti.
Il congedo di maternità è quello che nel vigore della precedente disciplina era denominato
“Astensione obbligatoria dal lavoro per maternità” e consisteva, come noto, nel divieto di adibire al lavoro le donne nel periodo dei due mesi antecedenti alla data presunta del parto, nel
periodo eventualmente intercorrente tra la data presunta e quella effettiva, nonché nei tre mesi
successivi al parto.
La Legge 53 del 2000, confluita ora nel Testo Unico, ha innovato anche tale istituto, non
solo sotto il profilo terminologico, perché adesso lo qualifica “congedo” di maternità, ma
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anche sotto il profilo contenutistico, riconoscendo maggiore flessibilità alla lavoratrice madre;
in particolare, riconoscendole la possibilità di far decorrere l’astensione obbligatoria dal lavoro a partire da un mese precedente la data presunta del parto fino a 4 mesi successivi, mantenendo ferma invece la durata complessiva del congedo stesso, che resta di 5 mesi.
Tale facoltà è ammessa, peraltro, a condizione che il Servizio Sanitario Nazionale certifichi
che quest’opzione non comporta un eventuale pregiudizio alla salute della madre o del nascituro.
Inoltre questa stessa legge ha espressamente riconosciuto che, in caso di parto prematuro - quindi anticipato rispetto alla data presunta - la madre possa recuperare, dopo la nascita
del figlio, il periodo di assenza dal lavoro effettivamente non fruito. Anche in questo la Legge
colma una lacuna della disciplina previgente.
Accanto all’istituto del congedo di maternità la Legge 53 introduce il congedo di paternità,
ossia attribuisce anche al padre un vero e proprio diritto di astenersi dal lavoro: ciò però soltanto in alcuni casi tassativamente elencati dalla legge. In ogni caso questo diritto si aggiunge
al periodo che può essere fruito dal padre come “congedo parentale”.
Le ipotesi in cui il padre lavoratore ha diritto di fruire del congedo di paternità sono, come
detto, tassative – si tratta di casi abbastanza gravi -, proprio perché la naturale funzione di
allattamento nell’immediatezza del parto è chiaramente devoluta alla madre. I casi comunque
sono i seguenti: la morte o la grave infermità della madre, oppure l’abbandono del figlio da
parte della stessa, o l’affidamento del bimbo esclusivamente al padre.
Per quanto riguarda il trattamento economico, durante il congedo di maternità o di paternità è corrisposta un’indennità giornaliera, e quindi poi mensile, pari all’80% della retribuzione media globale, indennità che peraltro è solitamente migliorata dalla contrattazione collettiva (nella maggioranza dei contratti si arriva a riconoscere il 100% della retribuzione).
Inoltre questo periodo di congedo è computato nell’anzianità di servizio a tutti gli effetti,
compresi quelli relativi alla tredicesima mensilità, alla gratifica natalizia e alle ferie.
E’ importante sottolineare che il diritto al congedo di maternità è oggi riconosciuto dalla
legge anche alle lavoratrici che abbiano adottato, oppure ottenuto in affidamento, un bambino
di età inferiore ai 6 anni, limitatamente, però, al periodo di 3 mesi successivi all’effettivo
ingresso del bimbo nella famiglia. (Questo limite è spiegabile alla luce del fatto che in questo
caso non c’è un parto, quindi non possono essere previsti i 2 mesi o il mese antecedente al
parto; lo sono invece i 3 mesi successivi).
In caso di adozione o di affidamento preadottivo internazionale, i 3 mesi di congedo di
maternità spettano alla madre anche se il bambino abbia superato i 6 anni di età e fino al compimento della maggiore età. Ciò è determinato dalle difficoltà oggettive sussistenti in codeste
fattispecie, connesse alla lingua, alle difficoltà di inserimento e di adattamento, di relazioni,
ecc.; quindi la norma ha lo scopo di favorire una relazione stretta anche col bambino non italiano.
Questo congedo, qualora non venga richiesto dalla madre, è riconosciuto, alle stesse condizioni, anche al padre.
Ulteriore aspetto che dev’essere sottolineato riguarda il divieto di licenziamento per maternità ed il diritto al rientro sul posto di lavoro.
Già la precedente normativa sanciva il divieto di licenziamento della lavoratrice dall’inizio
del periodo di gravidanza fino al compimento del primo anno di età del bambino: oggi la Legge,
oltre a confermare questo divieto per la lavoratrice madre, lo estende anche al padre lavorato23
re - naturalmente in caso di fruizione del congedo di paternità - per la durata dello stesso e,
comunque, fino al compimento del primo anno di vita del bambino.
Inoltre, sia alla madre che al padre è riconosciuto il diritto alla conservazione del posto di
lavoro, il diritto a rientrare nella stessa unità produttiva che occupava precedentemente, o in
un’altra situata comunque nell’ambito dello stesso Comune, e di rimanervi sino al compimento di un anno di età del bambino, e il diritto ad essere adibiti alle stesse mansioni o a mansioni equivalenti a quelle precedentemente svolte.
Infine, le eventuali dimissioni volontarie della lavoratrice in gravidanza o del lavoratore in
congedo di paternità - e fino al compimento del primo anno di vita del bambino, o, in caso di
adozione o di affidamento, entro un anno dall’ingresso del minore in famiglia - devono essere
convalidate dal Servizio Ispettivo del Ministero del Lavoro competente per territorio, al fine di
garantire la genuinità del consenso, potendosi presumere che le dimissioni volontarie in questo periodo non siano in realtà genuine, ma frutto di qualche pressione.
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Accanto a questi istituti la Legge 53 prevede anche quello del “congedo parentale”.
Come anticipato, si tratta di un’astensione facoltativa dal lavoro, riconosciuta ad entrambi
i genitori, per un periodo massimo – continuativo o frazionato - di 6 mesi per ciascun genitore, fino al compimento di 8 anni di vita del bambino.
E’ da sottolineare che questo periodo massimo di 6 mesi è peraltro elevabile a 7 mesi, per
il solo padre lavoratore, nell’ipotesi in cui egli eserciti il diritto al congedo parentale per un
tempo minimo di 3 mesi. Il legislatore ha evidentemente voluto incentivare l’utilizzo di questo
strumento introducendo una sorta di “bonus”: in altri termini, nell’ipotesi in cui il padre fruisca del congedo per almeno 3 mesi, ha diritto ad un mese di congedo in più rispetto ai 6 mesi
massimi previsti. Quindi, alla fine, il periodo complessivo di congedo parentale può arrivare ad
11 mesi, fruibili insieme dai genitori (se la madre ne fa 6 il padre ne potrà fare 4, -o 5-; se la
madre ne fa 5 il padre potrà fare gli altri 5, -o 6-; se la madre ne fa 4 il padre potrà farne 6, –o
7-; la madre potrà invece farne sempre massimo 6).
Questo meccanismo di elevazione di un mese della durata complessiva del congedo parentale va letto in una prospettiva di promozione della condivisione e, quindi, di una maggiore
ripartizione dei ruoli e dei compiti familiari.
A questo punto è necessario chiarire le diverse ipotesi in cui: entrambi i genitori siano lavoratori subordinati, oppure la madre sia lavoratrice autonoma o imprenditrice agricola o artigiana o esercente un’attività commerciale, o, ancora, il caso in cui un genitore sia lavoratore autonomo e l’altro lavoratore subordinato, oppure ci sia invece un unico genitore.
Innanzitutto, come vi ha anticipato la dottoressa Poggio, la Legge ribadisce che nell’ipotesi in cui entrambi i genitori siano lavoratori subordinati, ambedue hanno il diritto al congedo
parentale, ed ambedue per un tempo massimo di 6 mesi (salva l’elevabilità a 7 mesi per il
padre, precedentemente esaminata), per un periodo complessivo di 10 mesi (o, eccezionalmente, di 11). Ciò vale sia per l’impiego privato che per l’impiego pubblico privatizzato.
Nell’ipotesi, invece, di lavoratrici autonome o di artigiane o di esercenti un’attività commerciale o di imprenditrici agricole, le madri lavoratrici hanno diritto al congedo parentale per un
periodo massimo di 3 mesi entro il primo anno di vita del bambino. Quindi si tratta di un diritto parimenti riconosciuto, ma sensibilmente ridotto, quantomeno riguardo al numero di mesi.
Analogo diritto è riconosciuto, a parità di condizioni, in caso di adozione e di affidamento.
Nell’ ipotesi, invece, in cui ci sia compresenza di un genitore lavoratore autonomo e di un
altro genitore lavoratore subordinato, bisogna distinguere a seconda che il lavoratore autonomo sia la madre oppure il padre. Questo perché, se lavoratrice autonoma è la madre, ella
avrà diritto - come vi ho appena chiarito – ai 3 mesi di congedo, ed il padre, lavoratore subordinato, all’utilizzo dei 6 mesi di congedo parentale (7 nel caso in cui ne utilizzi quantomeno
3), e si perverrà, anche in codesto caso, ad un periodo complessivo di congedo parentale di
10 mesi.
Nell’ipotesi, invece, in cui lavoratore autonomo sia il padre, la normativa è diversa: la legge
non prevede - per il lavoratore autonomo padre - il diritto al congedo parentale e quindi la famiglia potrà fruire soltanto del congedo parentale riconosciuto alla madre, cioè i 6 mesi previsti
dalla Legge 53 del 2000, nei primi 8 anni di vita del bambino.
L’ultima ipotesi a cui ho accennato ricorre quando il genitore è unico: in questo caso la
Legge riconosce il diritto di astenersi dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non
superiore a 10 mesi.
Al riguardo sorge spontanea una domanda: Quando il genitore può considerarsi “unico?”
Evidentemente, nell’ipotesi di morte della madre, di abbandono del figlio da parte della madre,
di affidamento esclusivo del bimbo al padre ed anche nell’ipotesi di non riconoscimento del
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figlio. Quest’ultima ipotesi è rilevante perché significa che le situazioni di ragazza madre e di
genitore single non sono considerate dalla legge di per sé ipotesi di “genitore unico”: è necessario, in questo caso, per poter fruire del periodo di congedo di 10 mesi, il mancato riconoscimento del figlio da parte dell’altro genitore: solo in tale ipotesi vi è l’unicità del genitore.
Nell’ipotesi invece di genitore di minore con handicap in situazione di gravità - situazione
che, peraltro, deve essere accertata dalla competente Azienda Sanitaria Locale - è riconosciuto alla madre, in alternativa al padre, il prolungamento del congedo parentale sino ai 3 anni;
tutto questo, a meno che il bambino sia ricoverato, a tempo pieno, in un istituto specializzato
(in tale ipotesi mancano i presupposti per poter godere di tale diritto).
Il Legislatore quindi è stato sensibile anche sotto questo profilo, perché ha avuto presente
la situazione di un minore con handicap grave che richiede un’assistenza costante, profonda e
lunga.
Per quanto riguarda le modalità di esercizio, va precisato che l’esercizio del diritto a fruire
del congedo parentale è subordinato al solo obbligo di preavviso non inferiore a 15 giorni,
mentre non è consentito al datore di lavoro rifiutare il congedo parentale oppure posticiparlo,
cioè concederlo successivamente, adducendo giustificati motivi organizzativi dell’azienda.
Proprio con riferimento a quest’ultimo aspetto, in effetti, la giurisprudenza si era già pronunciata nel senso della illegittimità del comportamento di quel datore di lavoro che avesse
impedito la fruizione del congedo parentale adducendo la necessità di soddisfare esigenze
organizzative imprenditoriali.
Ancora: anche nell’ipotesi di fruizione del congedo parentale, come già abbiamo visto per
il congedo di maternità e di paternità, il lavoratore o la lavoratrice che usufruiscono di tale diritto hanno diritto alla conservazione del posto, ovvero, di rientrare nella stessa unità produttiva
precedentemente occupata, o comunque, in un’altra sita nello stesso Comune, ed hanno diritto di rimanervi quantomeno fino al compimento del primo anno di vita del bambino e di essere adibiti alle stesse mansioni o a mansioni equivalenti a quelle precedentemente svolte.
Per quanto riguarda il trattamento economico, invece, è prevista un’indennità pari al 30%
per un periodo complessivo massimo di 6 mesi fino al compimento del terzo anno di vita del
bambino, salva, naturalmente, l’eventuale disciplina migliorativa, sempre possibile, del contratto collettivo. E’ noto, infatti, che la legge indica “i minimi retributivi indispensabili” al di
sotto dei quali non si può scendere, ma la contrattazione collettiva spesso innalza queste percentuali, quantomeno per i primi mesi di congedo parentale.
Per i congedi che eccedono i 6 mesi, oppure goduti dopo i primi 3 anni di vita del bambino, l’indennità retributiva del 30% è prevista soltanto in presenza di soglie minime di reddito:
è quindi un’indennità strettamente commisurata al reddito individuale di chi intende godere del
congedo.
Va poi sottolineato - ma di questo ci parlerà poi anche “il padre attivo” - che la disciplina
vigente non contiene disposizioni regolative del regime transitorio, ossia relativo ai figli nati
prima dell’entrata in vigore della Legge del 2000 ma che non abbiano ancora compiuto 8 anni,
e che quindi rientrerebbero nella facoltà di utilizzo del congedo parentale. Al riguardo si ritiene, in effetti, che il congedo parentale possa essere fruito anche da questi genitori ma, naturalmente, dovrà essere sottratto il periodo di astensione facoltativa eventualmente già fruito in
forza della vecchia normativa.
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Congedi parentali
Padre lavoratore
6 mesi, elevabili a 7
Madre lavoratrice
6 mesi
Unico genitore
10 mesi
complessivamente
max 10 mesi,
elevabili a 11
entro 8 anni di etˆ
del bambino
prolungamento fino a tre anni, in alternativa,
per figli con handicap grave
trattamento economico
entro i 3 anni di etˆ del bambino
primi 6 mesi
complessivi: 30%
retribuzione
dopo i 3 anni di etˆ del bambino
mesi ulteriori: 30%
retribuzione se ricorrono
i requisiti di reddito
30% di retribuzione
se ricorrono i requisiti
di reddito
Qualche parola va spesa anche per i c.d. “riposi giornalieri”.
Il Decreto legislativo 151 ha introdotto il diritto, per le lavoratrici madri, di ottenere, durante il primo anno di età del bambino, due periodi di riposo giornaliero di un’ora ciascuno. Questi
permessi sono ridotti alla metà nell’ipotesi in cui nella struttura - quindi nell’azienda, pubblica
o privata che sia - sia istituito un asilo nido, così come le stesse due ore vengono ridotte ad
un’ora nel caso, invece, in cui la giornata lavorativa sia complessivamente inferiore alle 6 ore.
Anche il padre ha diritto ai riposi giornalieri qualora non vi sia la madre: quindi, nell’ipotesi di morte della madre o di sua grave infermità, nell’ipotesi di abbandono del figlio o di affidamento esclusivo al padre, o anche nell’ipotesi in cui la madre non se ne avvalga.
Come vedete, c’è una leggera differenza rispetto agli altri istituti: in questo caso non c’è un
pari diritto del padre e della madre a fruire dei riposi giornalieri perché il diritto del padre è
subordinato al fatto che la madre vi rinunci perché non se ne avvale, altrimenti è riconosciuto
in prima battuta alla madre.
Una disciplina particolare è riscontrabile, poi, nel caso di parto plurimo (parto gemellare o
tri-gemellare….): in tali casi il permesso è raddoppiato (non moltiplicato quanti sono i figli:
quindi se 2, 3 o più gemelli il permesso rimane raddoppiato).
Il diritto ai riposi giornalieri ed ai permessi spetta anche in caso di adozione o di affidamento, comunque entro il primo anno dall’ingresso del bambino nella famiglia.
27
Infine un accenno merita anche l’istituto del “congedo per la malattia del figlio”.
E’ noto che la precedente disciplina prevedeva il diritto della madre lavoratrice o, in alternativa, del padre lavoratore, ad assentarsi dal lavoro durante la malattia del bambino di età
inferiore ai 3 anni. Anche in riferimento a questo istituto la disciplina innova in maniera sensibile, perché il diritto di astensione dal lavoro è riconosciuto oggi sia alla madre che al padre
per tutto il periodo della malattia, senza limiti di tempo, fino al compimento del terzo anno di
vita del bambino (termine che, in caso di adozione o di affidamento, è elevato ai 6 anni).Tale
diritto all’astensione viene invece limitato a 5 giorni all’anno per ciascun genitore, dai 3 agli 8
anni di età del figlio (e dai 6 agli 8 anni in caso di adozione o di affidamento).
C’è da sottolineare, infine, che nel caso in cui entrambi i genitori siano lavoratori subordinati, essi non possono usufruire contemporaneamente di queste astensioni per malattia, e
quindi il genitore che se ne avvale deve presentare una dichiarazione, nelle forme di un’autocertificazione, che attesta che l’altro genitore non è in congedo nello stesso periodo, per le
stesse ragioni.
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ANNELISE FILZ
L’avvocato Stenico è stata, come al solito, chiarissima. In ogni caso volevo ricordare che
sia la sua relazione con gli schemi, sia i contenuti della ricerca che ci ha esposto la dottoressa Poggio, sono disponibili sul nostro sito, che è www.pariopportunita.provincia.tn.it.
Volevo poi ricordarvi anche che, all’interno della Commissione Pari Opportunità, c’è una
figura che è quella della Consigliera di Parità, ricoperta attualmente dalla dottoressa Emanuela
Zambotti - che oggi non ha potuto essere presente.
La dottoressa Zambotti tiene uno sportello completamente gratuito, aperto al pubblico,
dove vengono date queste informazioni, ma non solo.
Presso lo sportello si può anche trovare un appoggio per eventuali interventi nel caso in
cui questi diritti non vengano concessi o si creino delle situazioni di ritorsione, a seguito
appunto dell’utilizzo di questi congedi.
FRANCA GAMBERONI
Con questo intervento vi vorrei dare dei flash di ragionamento che coincidono con alcune
situazioni, molto interessanti, che abbiamo visto nel video.
Mi sono sentita molto motivata e stimolata nell’essere qui oggi a rappresentare i padri:
sembra una contraddizione.
Mi ricordo le lotte delle donne negli anni ’70 alle quali ho partecipato e i tanti “8 marzo”
trascorsi discutendo di temi al femminile.
Per questo mi sembra una contraddizione: rappresentare i padri nel giorno della donna…
ed invece non lo è perché i cambiamenti culturali che stiamo vivendo ci portano a delle curiosità e al desiderio di esserne partecipi.
29
Voi sapete che nel sistema familiare attuale sono avvenute delle profonde mutazioni che,
di frequente, ci rimandano a situazioni di grande confusione e che, nell’ambito psicologico,
vengono evocate spesso con toni cupi e d’inquietudine: più divorzi, meno figli, unioni instabili, atipiche, figli del primo matrimonio, figli del secondo, ecc.
Capita che il caos che ne deriva ci disturbi e la velocità dei cambiamenti non ci aiuta.
In tutto questo scenario c’è un fenomeno correlato, semplice, comune e ben visibile a tutti
che, invece, almeno a prima vista, è tenero e rassicurante: è quello dei nuovi padri.
Desidero dirvi, prima di proseguire, tre cose che, secondo me, voi dovreste tenere assolutamente presenti altrimenti questo mio intervento potrebbe risultare da una parte “carico di
enfasi” e dall’altra “superficiale .“ Il primo aspetto è che la maggioranza dei padri è fortemente distratta in merito alla vita dei figli e questo è noto. Ci sono molti padri lontani, giovani uomini che diventano padri senza mai aver smesso di essere figli, padri che rimangono spaventati
per troppo tempo da questo evento mettendo così in crisi il loro rapporto di coppia, (vedi
molte separazioni con la nascita del primo figlio) padri guerrieri, autoritari, violenti, padroni e,
in ogni caso, spesso inadeguati ad offrire ai figli modelli validi.
La seconda cosa da ricordare è legata alla novità del fenomeno ed alle numerose zone
d’ombra che qualunque mutamento di tipo culturale, psicologico e sociale porta con sé. Quello
che dico, dunque, può essere molto criticabile. Per ultimo una preoccupazione rispetto a queste mie riflessioni e cioè il timore che le stesse possano essere strumentalizzate: tra qualche
giorno in Parlamento sarà ripresa la discussione sull’affidamento condiviso e, francamente,
devo dire che è lungi da me essere favorevole ad allargare questa nicchia di padri al mondo
intero. I padri che cerco oggi di rappresentare sono, come dicevo prima, una piccola parte
nelle costellazioni familiari odierne. I padri che hanno usufruito dei congedi parentali e non
solo sono padri che “si sono rimboccati le maniche” quando hanno saputo che sarebbero
diventati papà. Chi sono questi padri?
Sono uomini - e l’abbiamo visto nel filmato precedente - capaci di rivoltare abilmente nelle
loro mani il neonato da cambiare, disponibili ad alternarsi con le madri al biberon e/o ad accorrere se il piccolo si sveglia di notte. Sono persone sensibili e gentili- nel video uno di loro l’ha
detto molto bene - svolgono quasi tutte le funzioni con grande naturalezza e senza alcuna ostentazione ideologica. Nelle passate generazioni avveniva che molti uomini quando eccezionalmente ed occasionalmente, prendevano il posto della mamma , se ne facevano un vanto tanto è vero
che c’era una frase significativa che veniva detta e cioè: “Ti aiuto a tenere il bambino”.
Qui è necessario accennare al fatto che i rapporti tra uomini e donne sono cambiati e l’autorità viene sempre più frequentemente divisa fra padre e madre.
I mezzi di comunicazione hanno coniato un termine che definisce questi padri che si occupano in prima persona dei bambini e li accudiscono, che è “il mammo”. Questo, secondo me,
è un brillante ed infelice esempio di uno stereotipo di cui è difficile liberarsi e della pervicacia
con cui esso circola nel nostro modo di pensare. Speriamo che questo termine abbia i giorni
contati perché non è proprio il caso di farne una caricatura.
Questi nuovi padri sono quelli che sono; sono uomini senza modelli da imitare, sono genitori il cui genitore molto spesso non può essere un esempio da seguire. Loro sono il prototipo di una nuova generazione di padri, l’anello non più mancante ma ancora fragile di una rivoluzione familiare destinata a rimanere altrimenti incompiuta.
Questi uomini giocano la carta di una nuova paternità. Seguono la vita prenatale del figlio
condividendone il momento della nascita; si assentano dal lavoro per poter stare accanto alla
moglie che ha appena partorito e, soprattutto,se possono si mettono in congedo per alternarsi con la mamma nella cura della prole così da poter vivere assieme con i loro figli.
30
Dunque è importantissimo che, simbolicamente, un figlio possa situarsi tra un polo paterno ed un polo materno, anche se le differenze sono oggi più legate alle caratteristiche individuali e di genere che a dei ruoli definiti in anticipo ed uguali per tutti.
Un papà che spinge una carrozzina è sempre un papà ed una mamma che punisce è sempre una mamma. Padri che desiderano i figli e hanno voglia e soprattutto motivazioni per mettersi in gioco. La prima cosa che salta agli occhi a me quando parlo con loro, è proprio questo “mettersi in gioco” ed è forse il segreto del buon genitore.
Significa essere presenti, mettersi a disposizione, volersi coinvolgere nella vita dei figli.
Certo non c’è da gridare al miracolo; molte donne sono ancora lì a reggere il peso di una condizione che le vuole onnipresenti dentro e fuori casa, come madri, come mogli, come lavoratrici, produttrici di un doppio reddito, protagoniste di carriere a scarsa visibilità sociale, ecc.
Siamo e restiamo, in Europa, il Paese con la maggiore asimmetria di ruoli all’interno della
coppia, quello in cui la partecipazione maschile alle minute e opprimenti fatiche della quotidianità domestica è irrisoria. Questi nuovi padri sono persone molto vulnerabili e con pochi punti
di riferimento e si trovano a fianco mamme che questo ”mettersi in gioco” sul piano emotivo
lo danno per scontato. Questi nuovi padri affrontano il groviglio delle emozioni che accompagnano il percorso della paternità concretamente; sanno piangere e ridere, hanno speranza e
fiducia, sanno parlare delle loro emozioni e delle loro ansie e, come dicevo, hanno pochi
modelli di riferimento. I modelli che loro hanno introiettato sono quelli “dell’uomo forte, dell’uomo che non piange, dell’uomo che non deve chiedere mai”. Dunque, per me, sono anche
molto coraggiosi. Il pregiudizio che le “cose affettive” fossero “robe da mamme” aveva contaminato anche le teorie psicologiche: il padre è l’autorità e la madre è il calore. Anche qui, perché stupirsene? Non esiste “un vuoto pneumatico” nel quale nascono le teorie degli esperti:
anche gli esperti crescono in un determinato clima culturale, lo respirano e se ne cibano.
Quelle teorie che rispecchiavano la cultura che le aveva generate hanno spesso contribuito a
sollevare i padri dal coinvolgimento nelle faccende emotive dell’educazione.
Hanno relegato il padre, se mai, nel ruolo del burbero guardiano delle norme e distaccato
dalla gestione dell’autorità in famiglia. Oggi accade di sentire questi nuovi padri raccontare che
condividono i loro pensieri di padri ai giardini con altre mamme ma pochissimo fra loro e, in
questo senso, mi auguro che gli uomini possano avere la possibilità di vincere l’ostacolo del
blocco emotivo. Dovrebbero trovare spazi d’ascolto e di fiducia, momenti di confidenza e di
dialogo nel quale aprirsi con altri uomini, sul significato profondo associato all’esperienza di
diventare padre. L’attenzione e l’impegno che dimostrano nell’attraversare quest’esperienza li
portano poi a stare nelle emozioni che sentono e ad occuparsi, come dicevo, sia manualmente ma anche psicologicamente così da diventare per i figli una guida autorevole che li aiuti a
crescere, a capire il mondo, ad acquistare sicurezza, autonomia e identità.
In questo senso il padre è veramente un punto di riferimento importante per il bambino che
cresce e questa è la funzione paterna, non tanto dunque “il mammo”.
I padri che ho incontrato sono perfettamente consapevoli del compito che li aspetta, di presenza affettiva oltre che normativa, di figura accudente anche “al di là del portare a casa il pane”.
Li ho sentiti consapevoli e desiderosi di migliorarsi, forse un po’ spaventati; certo stimolati da un compito che stanno costruendosi, inventandosi pazientemente, mentre alle loro compagne tale compito è stato consegnato dalla storia e dalla cultura.
Nel mio lavoro, oltre che avere appunto il privilegio - come diceva l’avvocato Filz - di vivere dall’interno i cambiamenti familiari e poter così avere molti stimoli di ragionamento, incontro spesso padri che si separano e padri, chiamiamoli, “putativi”, nel senso che non sono i
padri naturali ma si occupano a tutto tondo dei bambini della compagna.
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In questo senso non esiste nemmeno una terminologia adeguata: si chiamano patrigni
(vale anche per le matrigne). Non ci sono nuovi vocaboli e il nome “patrigno” però ha una connotazione negativa.
Invece loro sono degli educatori: non entrano in competizione con il padre naturale ma
“stanno accanto”, “accompagnano” e “si prendono cura”. Sono figure adulte di riferimento e
di possibilità d’identificazione significative e può anche essere, a lungo termine, un effetto
benefico per questi bambini che spesso emergono dai tormenti di un’unione non riuscita.
Quando questi nuovi padri si separano riescono benissimo nel percorso di mediazione
familiare a capire le esigenze dei figli, a trovare quasi subito non tanto gli accordi di visita,
quanto le modalità di visita, che sono delle cose ben precise.
Vi faccio un esempio: un padre che ha quest’esperienza capisce benissimo che è meglio
che i figli rientrino qualche ora prima nella casa della mamma dopo il fine settimana che stanno con loro e non alle 20 come spesso sancisce il Giudice.
Infatti i bambini, che non vogliono mai la separazione dei genitori, sono tesi e nervosi
soprattutto quando devono lasciare uno per andare dall’altro. Ai figli questa situazione non
piace e la loro tristezza passa spesso anche attraverso il nervosismo; ecco perché comprendere questo stato d’animo, riportare il bimbo in tempo affinché possa avere lo spazio per decongestionarsi e arrivare ad andare a dormire abbastanza tranquillo è segno di grande attenzione.
Se i bambini vengono portati a casa verso le 20, 20.30 è comprensibile che a dormire
vanno alle 23. E così in mille altre situazioni.
Padri e madri che si dividono se sono in grado di tener conto dello stato d’animo dei
figli, fanno sì che l’evento della separazione sia vissuto dai figli stessi come un ostacolo della
vita e non come un trauma. Per concludere vorrei sottolineare che l’impegno che gli uomini
mettono in quest’esperienza a me dà molta gioia e soddisfazione. Numerose ricerche ma
anche nostre semplici osservazioni di vita quotidiana, dimostrano che anche gli uomini possono prendersi cura dei piccoli rispondendo alle loro necessità.
I modi maschili non sono uguali a quelli femminili: ciò però non vuol dire che siano meno
efficaci o dannosi e non significa neppure che un uomo rinunci alla propria identità maschile.
Certamente alcuni uomini continueranno a sentirsi inadeguati ma anche le donne cominciano
ad avere delle difficoltà. Devo dire che la maternità, per molti aspetti, è un argomento terribilmente complesso e ambivalente. Nonostante ciò un numero crescente di giovani padri avverte che questo è un ambito in cui è possibile impegnarsi, mettersi in gioco, esprimersi e da cui
si possono ricevere soddisfazioni e gioie.
Finisco con una preoccupazione che la dott.ssa Poggio prima ha toccato solo marginalmente in cui però mi ritrovo in pieno ed è una preoccupazione che rivolgo a noi donne.
Cosa succede oggi? Nelle situazioni delle quali ho parlato - ossia laddove osserviamo questi nuovi padri prendersi cura delle figlie e dei figli, dove li vediamo crescere e percorrere strade di rinnovamento e modificazione rispetto al passato - sovente accade che ad entrare in crisi
siano le madri. E’ uno spiazzamento cognitivo ed affettivo sorprendente, legato non solo alla
perdita di ruolo ma proprio ad uno spostamento di cultura.
Cosa accade allora? Non c’è da preoccuparsi; mi pare che l’apprendimento avvenga proprio attraverso la sorpresa e lo spiazzamento. Se le donne, le madri, s’interrogano seriamente
assieme al partner, padre dei loro figli, magari a passi lenti la cultura cambia perché cambiano le identità di un ruolo perpetrato in millenni di storia. Dunque anche noi donne di fronte a
questi nuovi padri dovremmo trovare un’ulteriore duttilità e disponibilità a condividere la fatica di svolgere funzioni adulte; le donne dovrebbero imparare a “decentrare le responsabilità
familiari” mentre gli uomini dovrebbero “imparare a decentrarsi”.
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TESTIMONIANZA
ROBERTO LISIMBERTI
Buonasera. Devo stare attento a quello che dico perché è qui presente tutta la mia famiglia
e quindi, se sbaglio, “mi bastonano tutta la sera”.
Io ho usufruito di questo congedo parentale e sono molto contento di avere fatto questa
scelta, nostante tutta la cultura che c’è dietro faccia in modo che il padre sia una persona che
pur tendendo a stare con i bambini, lo fa però in maniera più limitata rispetto alla madre. Sono
molto felice di aver trascorso dei periodi in più coi miei figli e condivido appieno i filmati che
ho visto in apertura di questo dibattito.
Dovete scusarmi perché non sono abituato a parlare in pubblico…
Che altro dirvi; al di là che sono un pioniere di questa cosa, infatti ne ho fatto uso praticamente agli esordi di questa legge, ed ho trovato delle grandi perplessità a livello lavorativo. Le
aziende non sono preparate ad avere dei padri di questo genere, perché ci sono delle ripercussioni che ricordano la sit-com televisiva “camera – cafè”: bisbigli, commenti ironici, eccetera
o magari dei capi che non condividono appieno questa scelta e quindi tendono ad assumere
comportamenti che sono propri del mobbing … cose di questo genere. Devo comunque dire
che, tutto sommato, è stata un’esperienza positiva, che ha portato altri colleghi a utilizzare questo tipo di congedo, che ha dato anche a loro grande soddisfazione.
Devo anche precisare che non ho avuto nessuna difficoltà a stare coi miei figli, anche perché si dall’inizio mia moglie mi ha coincolto moltissimo nella loro cura. Mi ricordo, quando
nacque il nostro primo figlio, che durante i primi sei giorni d’ospedale chiedeva continuamente dove fosse suo marito.
Io ero sempre al nido a lavare il bambino, a cambiarlo, a fare tutte le cose che comunque
una cultura - secondo me sbagliata - porta a delegare essenzialmente alla donna; anche noi
siamo in grado di farle benissimo insomma.
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Rapporto di ricerca
L’USO dei CONGEDI PARENTALI
nella PROVINCIA di TRENTO
a cura di Barbara Poggio e Michela Cozza
Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale
Università di Trento
SPS
Scuola di Preparazione Sociale
INDICE
PREMESSA
pag. 39
1. NOTA METODOLOGICA
“ 41
2. LE “COORDINATE” LEGISLATIVE: UN BREVE EXCURSUS
“ 43
2.1 I contenuti della legge 53/2000
2.2 Nazionale e locale: testi a confronto
3. I DATI SULL’UTILIZZO DEI CONGEDI
“ 51
3.1 Il numero e la durata dei congedi
3.2 La distinzione per settore
3.3 In sintesi
4. GLI APPROFONDIMENTI
4.1
4.2
4.3
4.4
4.5
4.6
4.7
“ 57
Il lavoro di cura
Un principio disatteso
Ragione e sentimento
Il valore della presenza
Una scelta condizionata
Gli effetti sul lavoro
Soluzioni possibili
5. CONSIDERAZIONI FINALI
“ 73
ALLEGATI
“ 75
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
“ 91
37
PREMESSA
Oggetto di questa ricerca è l’utilizzo dei congedi parentali previsti dalla legge 8 marzo 2000,
n. 53 (“Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla
formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”) nella Provincia Autonoma di Trento.
Il lavoro nasce, a cinque anni dall’entrata in vigore della legge, dall’esigenza di verificare il
grado di conoscenza e di utilizzo di uno degli strumenti più importanti che il panorama legislativo italiano mette a disposizione, ovvero la già citata legge 53/2000. Tale normativa nazionale – in primis attraverso la definizione dei congedi parentali – sostiene e invita all’adozione di
modalità organizzative e di orario a favore della conciliazione. Il tema dei congedi familiari rappresenta infatti una questione particolarmente significativa nel dibattito relativo al rapporto tra
lavoro e famiglia e alla promozione di pari opportunità. L’esistenza di modelli asimmetrici nella
cura e nella gestione delle responsabilità genitoriali è infatti uno dei principali fattori alla base
dei fenomeni di segregazione e discriminazione di genere nel mercato del lavoro. A loro volta,
i fenomeni di segregazione e discriminazione di genere presenti nel mondo lavorativo e nei luoghi delle decisioni, tendono a rinforzare l’asimmetria dei ruoli familiari. Tra i due fattori –
modelli normativi di famiglia e condizioni del mercato del lavoro – si crea dunque un rapporto circolare, che tende ad autoalimentarsi. Condizione essenziale per il raggiungimento di una
effettiva equità di genere sembra dunque essere la capacità di interrompere tale circolo vizioso, favorendo una ridefinizione dei ruoli e delle responsabilità di uomini e donne non soltanto
all’interno dei contesti lavorativi, ma anche all’interno delle famiglie, a partire proprio dalle
responsabilità genitoriali, alimentando una azione sinergica volta da un lato a sostenere le
opportunità professionali delle donne e dall’altro a promuovere una nuova immagine di uomo,
finalmente riconciliato al ruolo di compagno e di padre.
Con questa ricerca vorremmo pertanto stimolare attraverso la lettura dei dati raccolti, le
amministrazioni locali e le altre realtà produttive a progettare ed implementare azioni e buone
prassi più incisive sul territorio provinciale, contribuendo anche al dibattito nazionale sulla
necessità di un cambiamento – nelle aspettative, negli atteggiamenti e nei comportamenti di
uomini e donne – già in atto, ma non ancora pienamente diffuso all’interno della popolazione.
39
1. NOTA METODOLOGICA
Le fasi della ricerca
1) Analisi della normativa nazionale e della corrispondente Contrattazione locale
È stato avviato un lavoro di approfondimento della conoscenza della normativa vigente in
materia di parità e pari opportunità attraverso la raccolta di materiale documentario e lo
studio sia delle leggi italiane precedenti la normativa n. 53/2000 e il successivo DL n.
151/2001, anch’essi oggetto di approfondimento, sia del testo della Contrattazione locale
vigente in Provincia di Trento, considerandone le eventuali differenze fra i comparti e fra le
aree all’interno di ciascun comparto.
2) Disegno della ricerca e campionamento
Sono state individuate le domande di ricerca (Chi utilizza i congedi parentali? In che misura? In quali contesti? Con quali problemi e vincoli?) in base alle quali circoscrivere il campo
per la raccolta dei dati (qualitativi e quantitativi).
Il periodo di tempo considerato è quello compreso tra il 2000 (anno di entrata in vigore
della legge) e il 31 dicembre 2004.
Il campo di ricerca, entro il quale raccogliere i dati quantitativi, e il campione di soggetti da
intervistare, sono stati definiti in base a criteri di rappresentatività (del settore pubblico e
privato), di conoscenza della legge e competenza nella sua applicazione. Le organizzazioni
contattate comprendevano cinque enti pubblici, tre sedi sindacali, l’INPS, l’ASL,
l’Università, un Istituto di Ricerca.
I colloqui sono stati realizzati con le rappresentanze sindacali, alcuni dirigenti e responsabili del personale presso gli enti pubblici e privati, esperte del Diritto del Lavoro, rappresentanti della Commissione Provinciale per le Pari Opportunità.
3) Raccolta dei dati quantitativi
Il progetto iniziale prevedeva la raccolta di una pluralità di dati che consentissero di prendere in considerazioni differenti variabili potenzialmente in relazione con l’utilizzo dei congedi (dalla posizione professionale e al tipo di contratto dei genitori, all’età dei figli).
Va tuttavia segnalata fin da subito la significativa difficoltà nel reperire anche i dati essenziali per delineare le caratteristiche del fenomeno: ciò è dovuto in alcuni casi al fatto che i
dati relativi ai congedi risultano aggregati ai dati relativi ad altre forme di astensione dal
lavoro (come le malattie), in altri all’introduzione di nuovi sistemi informatici e modelli di
archiviazione nel periodo considerato, in altri ancora al ritardo accumulato dalle organizzazioni nell’archiviazione degli stessi dati, tanto che in alcune situazioni le cifre sono addirittura state calcolate “a mano”, senza l’ausilio di un software informatico.
La necessità di confrontare dati omogenei ha così portato a limitare l’analisi alle poche
tipologie di dati disponibili in tutti le organizzazioni considerate. In questo rapporto presenteremo pertanto i dati relativi all’utilizzo dei congedi nel periodo 2000-2004, distinti in base
al sesso, suddivisi per anno e relativi sia al numero di congedi che di giorni utilizzati, senza
distinzione fra lavoratori/lavoratrici a tempo determinato e indeterminato.
41
4) Realizzazione delle interviste
Oltre alla raccolta dei dati quantitativi, sono state realizzate una serie di intervista semistrutturate, la cui griglia è stata opportunamente integrata e declinata nel corso degli incontri sulla base della specifica competenza dell’interlocutore e di quanto emerso dalla conversazione. Le interviste sono state realizzate nel mese di febbraio 2005, presso le singole strutture, ad eccezione di un caso. Ciascun colloquio è stato registrato con il consenso
dell’intervistato/a. Tutte le interviste realizzate sono state trascritte ed analizzate.
42
2. LE “COORDINATE” LEGISLATIVE: UN BREVE EXCURSUS
La promozione delle pari opportunità è un importante obiettivo politico e sociale. Una condizione necessaria per il suo raggiungimento è legata al fatto che uomini e donne conoscano
gli strumenti, innanzitutto legislativi, attualmente a disposizione.
Si tratta di leggi che, se conosciute e correttamente applicate, consentono un effettivo
superamento delle asimmetrie di genere: basti pensare alle leggi per la conciliazione del lavoro con la funzione genitoriale, o alle altre leggi di parità e pari opportunità con impatto sulle
dinamiche aziendali e contrattuali.
Fra le altre possiamo ad esempio ricordare la legge 9 dicembre 1977, n. 903, sulla “parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”, la legge 10 aprile 1991, n. 125 per
la promozione di “azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”, e
la legge 8 marzo 2000, n. 53, avente per oggetto “disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi
delle città”, cui è seguito il decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 contenente il “testo
unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della
paternità”.
La legge 53 rappresenta per l’Italia uno strumento rivoluzionario, ponendo le condizioni di
un effettivo superamento degli ostacoli che a tutt’oggi riproducono la tradizionale divisione di
genere del lavoro domestico ed extrafamiliare.
Le difficoltà tuttavia non mancano, soprattutto laddove si tratti di applicare la normativa sui
congedi parentali nei contesti lavorativi.
Prima di entrare nel merito dei risultati emersi dalla ricerca sull’uso dei congedi parentali
nella Provincia Autonoma di Trento, pensiamo sia utile ripercorrere brevemente le tappe principali di un iter che riteniamo giunto ad un passo decisivo, ma non risolutivo.
Il percorso della legislazione italiana per la tutela e la promozione del lavoro femminile iniziò nel 1902, con la legge 242 che vietava alcune tipologie di lavoro per le donne e, in particolare, imponeva una sospensione nel periodo precedente e in quello immediatamente successivo al parto, in un’ottica esclusiva di tutela e protezione, e in ultima analisi, di marginalizzazione del lavoro femminile.
La legge 1176 del 1919 sulla capacità giuridica della donna era ispirata dallo stesso principio: la legge sanciva il divieto di impiegare personale femminile in attività relative all’uso dei
poteri pubblici e giuridici e dei diritti politici.
Tristemente noto è il periodo fascista per le norme introdotte a tutela della donna in quanto soggetto debole all’interno del mondo del lavoro, della quale era riconosciuta essenzialmente la funzione riproduttiva e di cura all’interno della famiglia.
Solo con l’estensione del diritto di voto alle donne e l’entrata in vigore della carta costituzionale, fu introdotto nel nostro ordinamento il concetto di uguaglianza (salariale e di trattamento: artt. 3, 37, 51), pur mantenendo un’ottica di tutela della madre e del nascituro limitatamente al periodo di maternità.
Negli anni Cinquanta e Sessanta furono varate leggi quali la 860/1956 di tutela delle madri
lavoratrici e la 7/1963 che dichiara nulle le clausole di nubilato.
È a partire dagli anni Settanta che vennero finalmente introdotte una serie di leggi (cfr.
tabella 1), funzionali alla promozione delle pari opportunità tra donne e uomini, a partire dalla
legge 1204/1971 per la tutela del posto di lavoro in caso di maternità, che assicura la protezione fisica delle gestanti e un insieme di diritti per la cura del bambino.
43
Tabella 1 – Principali leggi sulle pari opportunità (1971-2001)
LEGGE
MATERIA
Legge 1204, 30 dicembre 1971
DPR 1026, 25 novembre 1976
Legge 903, 9 dicembre 1977
Tutela delle lavoratrici madri
Legge 194, 22 maggio 1978
Norme per la tutela sociale della maternità
e sull’interruzione volontaria della gravidanza
Legge 125, 10 aprile 1991
Azioni positive per la realizzazione della parità
uomo-donna nel lavoro
Legge 215, 25 febbraio 1992
Legge 476, 1998
Legge 53, 8 marzo 2000
Azioni positive per l’imprenditoria femminile
DL 151, 26 marzo 2001
Testo unico delle disposizioni legislative in materia di
tutela e sostegno della maternità e della paternità, a
norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53
Regolamento di esecuzione della legge 1204/1971
Parità di trattamento tra uomini e donne in materia
di lavoro
Legge che modifica la 184/1983
Disposizioni per il sostegno della maternità e della
paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e
per il coordinamento dei tempi delle città
Nel 1977 viene emanata la legge 903 per la “parità di trattamento tra uomini e donne in
materia di lavoro”, in attuazione dell’art. 37 della Costituzione e della direttiva comunitaria
76/207/CEE del 9 febbraio 1976 sulla parità di trattamento nell’accesso al lavoro, alla formazione, alla promozione professionale e delle condizioni di lavoro. Come ci ricordano Lea
Battistoni e Gianna Gilardi (1992) la legge 903 non è stata molto fortunata, non avendo prodotto gli effetti e i risultati che il legislatore si augurava potesse avere. Secondo le due studiose quando fu emanata se ne parlò molto, ma più come fatto di costume, che come strumento
legislativo e contrattuale capace di modificare le condizioni di lavoro delle donne e aumentarne le opportunità. Fra i motivi socio-culturali addotti come causa della scarsa efficacia della
legge, viene citato innanzitutto il fatto che non sia nata dal movimento delle donne, allora non
ancora sufficientemente attento al rapporto donne-lavoro, alla difficoltà di accesso ai diversi
lavori e alle diverse professionalità, ai percorsi di carriera, all’organizzazione del lavoro.
L’attenzione della legge era prevalentemente rivolta ai condizionamenti che la lavoratrice subiva per l’assenza di servizi sociali. Lo stesso sindacato non si era molto adoperato al momento della contrattazione, anche perché la rappresentanza femminile tra i delegati, i dirigenti sindacali, era piuttosto scarsa. Solo più tardi, sotto la spinta di direttive e programmi d’azione
comunitari e della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, il sistema legislativo italiano è venuto a dotarsi di strumenti più efficaci, in particolare ricordiamo la legge 125 del 1991,
con la quale il sistema stesso è stato allineato ai dettami del secondo comma dell’art. 3 della
Costituzione1.
1 “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando, di fatto la libertà
e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
44
Con la legge 125 si passa da una politica di difesa delle donne alla promozione del lavoro
femminile come risorsa per il mondo della produzione e viene rafforzata l’efficacia della legge
903, con l’inversione dell’onere della prova: pur obbligando la lavoratrice a motivare “con elementi precisi e concordanti” la discriminazione, è previsto che sia il datore di lavoro chiamato in giudizio a dover “dimostrare l’inesistenza del comportamento discriminatorio”. Accanto
a questo primo importante strumento, la legge 125 introduce in Italia le “azioni positive” per
la rimozione degli ostacoli di fatto sulla via dell’eguaglianza, azioni già note a livello europeo
dagli inizi degli anni Ottanta. Tale strumento presuppone azioni di lungo periodo che, partendo da una seria analisi del contesto organizzativo, mirino a realizzare un cambiamento culturale profondo nella vita aziendale2 e sociale.
La complessità della conciliazione tra tempo di lavoro e tempo di vita, essenziale ai fini del
raggiungimento della parità effettiva tra donne e uomini, è finalmente affrontata dalla legge 53
del marzo 2000, più spesso identificata come legge sui congedi parentali. Il concetto di “conciliazione”, introdotto in Italia con tale legge, sta a significare la possibilità di bilanciare tempi
di vita pubblica e tempi di vita privata attraverso una riorganizzazione del lavoro e la predisposizione di un sistema di servizi che permettano, soprattutto ai “genitori lavoratori”, di poter
svolgere attività retribuite e non retribuite personali e di cura. Poiché si tratta di una materia
complessa e impegnativa, la cui trattazione non può essere demandata unicamente ai soggetti
del mondo del lavoro, con gli artt. 22-28 sono previste incentivazioni per Regioni e Comuni che
provvedano all’attuazione di piani territoriali degli orari e la costituzione di banche del tempo, al
fine di coordinare il funzionamento dei servizi urbani agli orari dei lavoratori e delle lavoratrici
e delle attività commerciali. Nel testo di legge assume particolare rilevanza la concezione di
“genitore lavoratore” la quale sostituisce il riferimento esclusivo alla “madre lavoratrice” con un
nuovo e rivoluzionario modo di intendere la gestione familiare e di cura dei figli/e. Nel periodo
precedente l’emanazione della legge 53/2000, un padre poteva prendere il congedo parentale
solo se sposato con una donna che godeva di questo diritto. Non era cioè un diritto individuale. La recente legge ha cancellato questa discriminazione: con essa il legislatore ha voluto
soprattutto riconoscere alla figura paterna il diritto di conciliare il lavoro e la cura dei figli, indipendentemente dalla lavoratrice madre. Si tratta quindi di un diritto riconosciuto in capo al lavoratore stesso al fine di ampliare non solo le possibilità per l’accudimento dei figli, ma di attenuare la tradizionale attribuzione del ruolo di cura alla donna. Di seguito cercheremo di sintetizzare i contenuti della legge 53/2000, rinviando alle sezioni successive per una lettura più dettagliata del testo normativo in relazione al contesto locale trentino e agli esiti della ricerca.
2.1 I contenuti della legge 53/2000 3
Sebbene lo strumento dei congedi sia disciplinato dall’art. 3 della legge 53, occorre precisare che è il decreto legislativo 151/2001 a chiarire la distinzione tra le varie tipologie di congedo, modificando la terminologia usata dalle vecchie leggi come segue:
• per “congedo di maternità” si intende l’astensione obbligatoria dal lavoro della lavoratrice;
• per “congedo di paternità” si intende l’astensione dal lavoro del lavoratore, fruito in alternativa al congedo di maternità;
2 La legge 125 contempla l’obbligo per le aziende con più di 100 dipendenti di fornire ogni due anni alla Consigliera
di parità regionale ed alle Rappresentanze Sindacali Unitarie un rapporto sulla situazione occupazionale del personale maschile e femminile; ciò consente di avere a disposizione uno strumento basilare di conoscenza e monitoraggio.
3 vd allegato
45
• per “congedo parentale” si intende l’astensione facoltativa della lavoratrice o del lavoratore;
• per “congedo per la malattia del figlio” si intende l’astensione facoltativa dal lavoro della
lavoratrice o del lavoratore in dipendenza della malattia stessa;
• per “lavoratrice” o “lavoratore”, salvo che non sia altrimenti specificato, si intendono i
dipendenti, compresi quelli con contratto di apprendistato, di amministrazioni pubbliche,
di privati datori di lavoro nonché i soci lavoratori di cooperative.
I congedi parentali implicano il diritto ad un congedo di durata massima di 6 mesi, da utilizzare nei primi 8 anni di vita della figlia o del figlio. L’utilizzo del congedo va coordinato con
il congedo del partner lavoratore, fino ad un massimo di 10 mesi per la coppia (estendibile a
11 mesi qualora il padre utilizzi almeno 3 mesi anche frazionati4). La legge, in tal senso, ha
voluto dare maggiori incentivi “regalando” ai padri che chiedono almeno 3 mesi di congedo
parentale un mese in più. Marina Piazza (2003), commentando la legge, riconosce che si tratta di misure di incentivazione che funzionano particolarmente bene nei settori del pubblico
impiego, dove meno forte è la competizione per la carriera e la penalizzazione operata dalle
aziende. Degna di nota è la possibilità offerta ai genitori di fruire anche contemporaneamente
del congedo, trasformando – almeno potenzialmente – un periodo di permanenza a casa per
la cura del figlio/a in un momento di crescita comune e di condivisione dei piaceri/doveri connessi al ruolo genitoriale.
Proseguendo nell’analisi del testo normativo, leggiamo che – in base a quanto stabilito –
se la madre è, o diventa, single le spettano interamente i 10 mesi. Il congedo può essere utilizzato intero o frazionato. A livello nazionale non è stabilita una durata minima ma, a tutela
anche del datore di lavoro, è richiesto un preavviso di 15 giorni, salvo casi di oggettiva impossibilità (e salvo previsioni contrattuali diverse). Per quanto riguarda il trattamento economico
è prevista dalla legge la corresponsione del 30% della retribuzione, per un periodo massimo
complessivo di 6 mesi tra i due genitori, entro i primi 3 anni del figlio/a, coperti da contribuzione figurativa. Se la lavoratrice ha una soglia di reddito inferiore alla soglia individuale di reddito annua (pari a 2,5 volte la pensione sociale), la copertura economica riguarda l’intero periodo di congedo fino agli 8 anni di vita. I periodi di congedo parentale sono computati nell’anzianità di servizio, esclusi gli effetti su ferie e gratifiche.
Una diversa e migliore distribuzione del lavoro di cura tra uomini e donne, attraverso la
fruizione di congedi per maternità, paternità, di congedi parentali, delle possibilità offerte per
la formazione e il coordinamento dei tempi delle città, consentono di equilibrare le disparità di
fatto e di contrastare la segregazione con cui spesso molte donne, nonostante tutto, si devono confrontare nel mondo del lavoro. È forte il paradosso di fronte al quale si trovano ancora
oggi molte lavoratrici e lavoratori italiani: nonostante gli strumenti previsti dalla normativa
nazionale e quelli messi a punto nelle diverse realtà amministrative locali ed aziendali (telelavoro, banca delle ore, asili aziendali) per consentire la conciliazione della vita professionale con
gli impegni della famiglia, permangono notevoli disagi nella ricerca di un equilibrio tra vita pubblica e vita privata. Oggi la presenza delle donne in più mondi vitali porta ad un aumento della
complessità dell’identità femminile adulta che sempre meno è in grado di riflettere il tradizionale modello di “moglie-madre” full time. Sempre più spesso la donna assume, attraverso il
lavoro, una visibilità e una valenza pubblica rilevanti ai fini di una ridefinizione dei ruoli genitoriali e della gestione familiare. A questa crescente presenza pubblica femminile non corri-
4 Esempio: 6 mesi la madre + 5 mesi il padre; 4 mesi la madre + 7 mesi il padre; 5 mesi la madre + 6 mesi il padre.
46
sponde però una riduzione dei problemi, delle ambivalenze e delle contraddizioni che minacciano la ricomposizione e l’armonia tra tempi di vita e, in primo luogo, tra responsabilità familiari e impegni lavorativi, tra pubblico e privato, quasi confermando quel mito delle sfere separate cui frequentemente la letteratura ha fatto riferimento (Scisci, Vinci 2002). La resistenza
che molti padri continuano a dimostrare verso la condivisione delle responsabilità di cura dei
figli/e non agevola il processo di cambiamento degli atteggiamenti e dei rapporti tra uomini e
donne.
Nel prossimo paragrafo cercheremo di analizzare, in una prospettiva comparata, come la
Provincia Autonoma di Trento abbia cercato di favorire il cambiamento intervenendo – secondo le modalità previste – sul testo normativo. Ci limiteremo tuttavia ad indicare e commentare le modifiche sostanziali apportate alla legge 53/2000 nell’intento di condividere le considerazioni derivate dal confronto fra la normativa nazionale e la contrattazione locale.
2.2 Nazionale e locale: testi a confronto
Di seguito riportiamo alcuni estratti della normativa nazionale (T.U. 151/2001: “Testo Unico
delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità a
norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53”) e, in sintesi, le parti corrispondenti
della Contrattazione Collettiva Provinciale cui maggiormente hanno fatto riferimento gli intervistati.
Nel BOX 1 facciamo riferimento alle disposizioni vigenti in materia di tempi previsti per la
fruizione del congedo parentale. In questo caso la differenza principale riguarda da un lato la
rigidità con cui la legge nazionale fissa i limiti massimi di astensione facoltativa dal lavoro per
ciascun genitore, dall’altro come nella Contrattazione Provinciale, mancando un’indicazione
precisa, la possibilità di fruire dell’intero periodo di congedo sia lasciata anche ad un solo genitore.
Nel BOX 2 il focus è sul diverso trattamento economico previsto a livello nazionale e locale. Meritano particolare attenzione le disposizioni di maggior favore dettate dalla Contrattazione
Collettiva.
È necessario specificare sin d’ora che abbiamo preferito sintetizzare anziché citare il testo
della normativa locale, poiché all’interno dei singoli comparti di Contrattazione Collettiva
(Autonomie locali, Scuola, Sanità, Ricerca) esistono aree specifiche alle quali sono applicate le
disposizioni del T.U. 151/2001. Al fine di evitare inutili confusioni ogni riferimento alla
Contrattazione locale andrà pertanto inteso a prescindere dai casi specifici (es.: area dirigenziale medica; area dirigenziale non-medica del comparto Sanità).
BOX 1: I TEMPI
E LA NORMATIVA NAZIONALE: “I relativi congedi parentali dei genitori non possono complessivamente eccedere il limite di dieci mesi […] Nell’ambito del predetto limite, il diritto di astenersi dal
lavoro compete: alla madre lavoratrice, trascorso il congedo di maternità […] per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi; al padre lavoratore, dalla nascita del figlio, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi, elevabile a sette […]; qualora vi sia un solo
genitore, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a dieci mesi. Qualora il padre lavoratore eserciti il diritto di astenersi dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a
tre mesi, il limite complessivo dei congedi parentali dei genitori è elevato a undici mesi” (art. 32, T.U.
151/2001)
47
E LA CONTRATTAZIONE LOCALE: Nei primi otto anni di vita del bambino la madre lavoratrice e il
padre lavoratore possono astenersi dal lavoro, anche contemporaneamente, per la durata massima
complessiva tra gli stessi di dieci mesi. Qualora il padre lavoratore eserciti il diritto di astenersi dal
lavoro per un periodo non inferiore a tre mesi, il limite complessivo (dieci mesi) delle astensioni dal
lavoro è elevato a undici mesi.
BOX 2: TRATTAMENTO ECONOMICO
E LA NORMATIVA NAZIONALE: “Le lavoratrici hanno diritto ad un’indennità giornaliera pari all’80
per cento della retribuzione per tutto il periodo del congedo di maternità” (Trattamento economico e
normativo: art.22, T.U. 151/2001). Al padre che intenda fruire del congedo di paternità spetta lo stesso trattamento economico e normativo previsto per la madre nel periodo del congedo di maternità
(Trattamento economico e normativo: art.29, T.U. 151/2001). “Per i periodi di congedo parentale […]
alle lavoratrici e ai lavoratori è dovuta fino al terzo anno di vita del bambino, un’indennità pari al 30
per cento della retribuzione, per un periodo massimo complessivo tra i genitori di sei mesi”
(Trattamento economico e normativo: art.34, T.U. 151/2001)
E LA CONTRATTAZIONE LOCALE: Il congedo parentale è considerato assenza retribuita per i primi
trenta giorni di calendario ed è prevista la corresponsione dell’intera retribuzione
È facile constatare come i principali cambiamenti apportati dalla Contrattazione locale
riguardino due aspetti di per sé critici della conciliazione, sui quali vale la pena soffermarsi
anticipando quanto sarà oggetto di discussione nei prossimi paragrafi.
Per quanto riguarda la gestione dei tempi riteniamo che la questione possa essere affrontata anche da un punto di vista generale, connesso ad un’interpretazione gendered del tempo
e del suo utilizzo per la cura dei figli/e. C’è infatti – come ci spiegano Maria Cristina Bombelli
e Simona Cuomo (2003) – una specificità di genere anche nella concezione e nel modo di vivere lo scorrere del tempo, tanto più se associamo questo al lavoro di cura, all’impegno che esso
richiede in termini di coinvolgimento e dedizione richiesta, alla complessità di conciliare maternità e paternità con il lavoro extrafamiliare. Con gli occhi delle donne potremmo affermare che
“l’esperienza della maternità, in particolare dell’attesa, porta con sé una visione assolutamente peculiare del tempo. È esperienza di tempo biologico, naturale, contro quello veloce e artefatto della tecnologia; è esperienza di abbandono e di espropriazione contro la logica di controllo e di programmazione insita nel tempo organizzativo” (Bombelli, Cuomo 2003, 18). Ma
soprattutto – per ritornare al tema dei congedi e alle implicazioni che la loro diversa fruizione
determina – il lavoro di cura connesso alla presenza di figli/e ha in sé un aspetto interessante
sul piano macro-sociologico: l’allocazione dei tempi, così come la dimensione culturale del
genere, nasce e si sviluppa sul rapporto tra l’universo familiare e quello lavorativo, universi
presieduti da logiche opposte, non riconducibili una all’altra e per questo tanto più problematiche da “governare” in solitudine, come capita a molte madri. Lo confermano anche i dati raccolti nella Provincia di Trento, dove cioè i congedi parentali sono in massima parte usati dalle
madri piuttosto che dai padri: fenomeno in gran parte legato alla – e in molti casi determinato dalla – Contrattazione locale, la quale prevede la possibilità che ad astenersi sia anche un
solo genitore (solitamente la madre) per l’intero periodo di congedo concesso. In questo contesto qualunque ipotesi sulla naturalità del lavoro di cura associato alla figura materna è indebolita, mentre assume spessore un’interpretazione culturale delle scelte familiari che in parte
48
ancora riflettono un contesto sociale tradizionale, quanto a divisione del lavoro domestico e
delle responsabilità di cura. Laddove quindi – dal punto di vista istituzionale – esisterebbero le
condizioni per un “riscatto” della figura paterna (possibilità di astenersi dal lavoro per sei
mesi), questa rimane generalmente ancorata ad una pratica di delega alla partner delle competenze di cura dei figli/e: operazione che nasce dalla distanza che molti uomini spesso introducono tra l’“essere” – sigillo di designazione sociale – e il “fare” il padre – dimensione di relazione quotidiana (Ventimiglia 1994).
Se tuttavia – come discuteremo oltre – rimangono dei dubbi sulla bontà delle disposizioni
previste dalla Contrattazione locale nella Provincia di Trento, pur essendo evidente il vantaggio
economico che essa detta rispetto alla normativa nazionale, anche la questione economica non
è esente da considerazioni legate al genere. L’entità della retribuzione infatti gioca un ruolo non
secondario nella determinazione della “scelta” all’interno della coppia: se consideriamo che
mediamente lo stipendio percepito dalla popolazione femminile è inferiore a quello della parte
maschile, e generalmente nelle famiglie è proprio l’entrata meno consistente ad essere “sacrificata” per la cura della casa e dei figli/e, ne consegue che ancora una volta l’onere del ruolo
genitoriale grava in massima parte sulla donna.
Questo e altri aspetti saranno oggetto, nei prossimi paragrafi, di una discussione puntuale e approfondita. Nella prossima sezione infatti dedicheremo per ciascuna delle evidenze
emerse nel corso della ricerca, singoli paragrafi privilegiando nell’argomentazione quegli
aspetti che – di volta in volta – ci sono sembrati fornire indicazioni funzionali sia alla successiva interpretazione dei dati raccolti sia alla caratterizzazione della ricerca come contributo al
dibattito sui congedi parentali in Italia.
49
3. I DATI SULL’UTILIZZO DEI CONGEDI
Prima di addentrarci nella presentazione e nell’analisi dei dati sull’utilizzo dei congedi parentali in provincia di Trento ci pare utile richiamare l’attenzione su alcune criticità relative alle modalità
di raccolta e gestione di tali dati da parte degli enti e delle organizzazioni considerati, che non ci
hanno consentito una analisi più approfondita del fenomeno in questione. Al di là delle difficoltà
dovute all’introduzione di nuovi sistemi operativi nel periodo considerato dalla ricerca, che implicano una mancanza di uniformità nei modi di registrazione, o addirittura al persistere di modalità
non informatizzate di gestione dei dati, che impediscono del tutto di accedervi, abbiamo riscontrato notevoli problemi dovuti alle modalità di categorizzazioni: in alcune organizzazioni ad esempio i
dati sui congedi parentali sono assimilati ad altri tipi di assenza dal lavoro (come la malattia) e nella
quasi totalità dei casi risulta molto difficile ottenere dati disaggregati in base a variabili che sarebbero significative per avere un quadro più completo del fenomeno, come l’età e la collocazione professionale dei genitori, l’età dei figli o la distribuzione temporale del congedo. Gli unici dati che è
stato possibile recuperare in modo uniforme per tutte le realtà considerate sono quelli relativi ai
numeri di congedi richiesti, distinti per sesso. Tutto ciò ci pare sintomatico di una scarsa attenzione delle organizzazioni nei confronti di un aspetto che invece richiederebbe un accurato monitoraggio, se non in un’ottica di sviluppo delle pari opportunità, per lo meno in una prospettiva di pianificazione organizzativa. In questa sezione verranno dunque presentati i dati relativi alla distribuzione delle richieste di congedo delle principali realtà lavorative della provincia dal 2000 al 2004,
distinti per anno, per sesso del richiedente, per ambito lavorativo. Verrà inoltre presentato il dato
relativo al numero complessivo di giorni di congedo richiesti, ma relativo ai soli enti pubblici e funzionali. I dati relativi al settore privato, sono stati forniti dall’INPS in modo aggregato e quindi non
consentono una distinzione né tra le varie aziende, né tra i diversi settori lavorativi. Oltre ai dati
dell’INPS (che riguardano un totale di 60.442 lavoratori dipendenti presso aziende collocate nelle
aree di Trento, Val Giudicarie, Val di Cembra e Valsugana5), sono stati considerati i dati relativi ai
lavoratori della Provincia Autonoma di Trento, dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari, dei
Comuni di Trento, Rovereto, Pergine e Riva del Garda, dell’Università di Trento, dell’ITC-irst, della
Regione Trentino Alto Adige che complessivamente fanno riferimento a 78.084 lavoratori su un
totale complessivo di circa 150.000 occupati alle dipendenze nella Provincia Autonoma di Trento.
3.1 Il numero e la durata dei congedi
Il primo dato considerato riguarda la distribuzione complessiva dei congedi distinti per
anno e per sesso del richiedente. Dalla tabella 1 si può prima di tutto osservare che il numero
di congedi utilizzati è aumentato progressivamente di anno in anno.
Tab. 1 – Numero di congedi e percentuale di congedi utilizzati dagli uomini per anno
Anno
*2000
2001
2002
2003
2004
Totale
Numero Congedi
1059
2278
2451
2544
2736
11068
% Congedi uomini
9,1
10,4
11,3
13,3
12,9
11,8
*I valori relativi al 2000 non comprendono i dati INPS, non disponibili.
5 I dati relativi alle altre zone sono attualmente non utilizzabili perché non incompleti e comunque non ancora inseriti nel sistema elettronico.
51
I dati confermano inoltre l’esistenza di una significativa asimmetria nella propensione ad
usufruire del congedo parentale da parte di donne e uomini (fig. 1): se consideriamo il dato
relativo alla percentuale di congedi utilizzati dagli uomini vediamo infatti come nell’ultimo anno
considerato, il 2004, soltanto un congedo su otto è usufruito dalla componente maschile. Dal
2000 al 2003 la percentuale di congedi richiesti dagli uomini è andata lentamente aumentando e sembra assestarsi nel 2004 intorno al 13%. Il dato risulta comunque più favorevole
rispetto a quello campionario nazionale fornito dall’ISTAT, pari al 7% .
Fig. 1 – Andamento delle richieste di congedo di donne e uomini
3000
2500
2000
Uomini
Donne
1500
1000
500
0
2000
2001
2002
2003
2004
La differenza tra donne e uomini si accentua qualora si prendano in considerazione i dati
relativi al numero di giorni utilizzati6 (tab.2). In tal caso le percentuali relative alla componente maschile si assottigliano ulteriormente, arrivando ad un dato complessivo del 5,3%, anche
se pure in questo caso si nota una lieve tendenza ininterrotta di crescita che vada 3,5% del
2000 al 5,9% del 2004.
Tab. 2 – Percentuali di giorni utilizzati dagli uomini
Anno
*2000
2001
2002
2003
2004
Totale
%
3,5
4,7
5,9
6,0
5,9
5,3
*I valori relativi al 2000 non comprendono i dati INPS, non disponibili.
Se prendiamo ora in considerazione il numero medio di giorni richiesti sia dagli uomini che
dalle donne si osserva che tale indice presenta un andamento negativo: da una media di 63
giorni nel 2000 si perviene ad una media di 38 giorni nel 2004.
6 Va ricordato che i dati relativi al numero di giorni non comprendono il settore privato.
52
Fig. 2 – Numero medio di giorni di congedo utilizzati da donne e uomini
120
100
donne
uomini
80
60
40
20
0
2000
2001
2002
2003
2004
Totale
Dopo un primo significativo calo tra il 2000 e il 2001 (particolarmente rilevante per la componente femminile che scende da una media di 103 giorni ad una di 71), dovuto probabilmente
al fatto che al momento della sua entrata in vigore la legge viene utilizzata in maniera consistente anche da coloro che non hanno avuto occasione di farlo in precedenza, si assiste ad un lento
assestamento discendente, che riguarda sia le donne (che arrivano ad una media di 54 giorni)
che gli uomini (che scendono ad una quota di 23), come è possibile osservare nella figura 2. Il
confronto tra uomini e donne mostra che i primi tendono ad utilizzare il congedo per periodi di
tempo più limitati (e più frammentati, come è emerso dalle interviste) rispetto alle donne. A differenza delle donne, infatti, che spesso utilizzano il congedo parentale come prolungamento del congedo obbligatorio di maternità, gli uomini ne fanno maggiormente uso in situazioni di criticità o di
emergenza, in molti casi per coprire la compagna quando non può essere lei stessa a farne uso.
3.2 La distinzione per settore
Un ulteriore aspetto che ci pare utile prendere in considerazione riguarda le differenze esistenti tra realtà lavorative ed organizzative differenti, in primis tra settore pubblico e privato e
poi considerando in particolare il settore pubblico, non disponendo di dati disaggregati relativi al privato. Il confronto tra settore pubblico e privato consente di rilevare nel pubblico un più
elevato utilizzo di congedi parentali ed in particolare di mettere in evidenza una più significativa percentuale di richieste da parte dei padri (15,2% vs. 10,6%) nel settore pubblico, come è
possibile osservare nella figura 3.
Fig. 3 – Richieste di congedo nel settore pubblico e in quello privato in base al sesso
1600
1400
1200
1000
800
600
400
200
0
donne
uomini
Pubblico
Privato
53
Una delle principali ragioni di questa differenza sta sia nei diversi costi che le queste assenze possono avere per organizzazioni di dimensioni differenti, sia nell’esistenza di differenti culture organizzative e quindi anche di conseguenze diverse in termini di sviluppo di carriera o
semplicemente di riconoscimento e accettazione all’interno dell’organizzazione.
Il dato trentino può essere confrontato con quello nazionale, considerando una ricerca
campionaria condotta dall’Osservatorio nazionale sulla famiglia che ha riguardato i soli dipendenti di enti pubblici: a differenza di quanto si rilevava per la totalità dei lavoratori sembra in
questo caso emergere un deficit da parte della nostra provincia, che nel 2003 presentava una
percentuale di congedi utilizzati da parte degli uomini pari al 14,8% rispetto al 19,4% segnalato dalla ricerca nazionale.
La tabella 3 mostra la distribuzione nell’utilizzo complessivo dei congedi, nella richiesta
da parte degli uomini e nella percentuale di giorni richiesta dagli uomini all’interno dei diversi ambiti nel corso dell’ultimo anno considerato, ovvero il 2004. L’organizzazione che presenta la maggiore incidenza di congedi sul totale dei dipendenti é la Regione (con una percentuale del 18,3%, significativamente al di sopra delle altre) seguita a distanza dai Comuni
(9,4%), mentre all’estremo opposto troviamo l’Università (4,1%). La percentuale complessiva di congedi sembra essere in relazione con il grado di femminilizzazione delle organizzazioni, con la sola eccezione dell’ITC-irst, che pur avendo alle dipendenze circa una quota di
uomini pari al 66%, presenta una percentuale di congedi sul totale dei dipendenti piuttosto
significativa (9,3%).
Tab. 3 – L’utilizzo dei congedi in ambiti organizzativi differenti
Regione T.A.A.
Comuni
ITC-irst
APSS
P.A.T.
Università
% su dipendenti 2004
18,3
9,4
9,3
8,8
6,6
4,1
% congedi uomini
13,4
17,6
24,0
10,9
19,8
19,0
% giorni uomini
5,8
7,9
11,1
4,6
7,8
7,3
Se poi prendiamo in considerazione la percentuale di congedi richiesti dagli uomini nel
2004 possiamo osservare che tale valore risulta positivamente correlato con la percentuale di
uomini presenti nelle organizzazioni: la quota più elevata riguarda questa volta l’ITC-irst (24%),
seguita dalla Provincia Autonoma di Trento e dall’Università (la presenza maschile in quest’ultima organizzazione risulterebbe più elevata rispetto alla precedente, ma intervengono in questo caso alcuni fattori di tipo strutturale, come l’età mediamente elevata del corpo docente, od
organizzativo, come la maggiore flessibilità relativa ad orari e luoghi di lavoro, che tendono a
ridurre l’utilizzo dei congedi da parte della componente maschile). Il valore più circoscritto è
quello dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari (10,9%), che presenta appunto la percentuale più elevata di personale femminile (68%). L’eccezione in questo caso è rappresentata da
uno dei quattro Comuni considerati, quello di Pergine, che pur essendo caratterizzato da una
pari componente di uomini e donne, presenta una percentuale particolarmente elevata di congedi richiesti da uomini (29,4%).
54
Il terzo dato presentato nella tabella 3 è quello relativo alla percentuale di giorni di congedo
usufruiti, che in tutte le organizzazioni risulta più circoscritta rispetto alla percentuale di congedi. Anche in questo caso la percentuale più elevata riguarda l’ITC-irst (11%), cui fanno seguito i
Comuni, con una media del 7,9% (ma che presentano tra loro significative differenze, che vanno
dal 4,6% del Comune di Rovereto, al 35,8% del Comune di Riva del Garda). Il dato più contenuto è quello relativo all’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari, che risulta inferiore al 5%.
Fig. 4 – Numero medio di giorni utilizzati da donne e uomini per organizzazione
140,0
120,0
100,0
80,0
uomini
donne
60,0
40,0
20,0
0,0
APSS
università
Regione
T.A.A.
Concentrando infine l’attenzione sul numero medio di giorni richiesti da uomini e donne
(fig. 4) possiamo osservare che entrambi i valori risultano più elevati all’interno dell’APSS,
seguita dall’Università nel caso delle donne e dai Comuni nel caso degli uomini. L’ITC-irst, che
aveva mostrato valori particolarmente significativi rispetto al numero di congedi usufruiti e alla
percentuale di giorni richiesti dagli uomini, presenta in questo caso un dato medio particolarmente circoscritto sia per la componente maschile che per quella femminile.
3.2 In sintesi
In conclusione è possibile sintetizzare i dati emersi dall’analisi in alcuni punti principali:
- L’obiettivo della legge 53 di incentivare una redistribuzione dei ruoli di cura nei nuclei
familiari sembra ancora lontano: la quota di uomini che usufruiscono del congedo parentale è ancora fortemente minoritaria rispetto a quella delle donne. Se i primi anni di attuazione della legge hanno visto un andamento di progressiva crescita, i dati relativi agli ultimi due anni mostrano un assestamento della percentuale di congedi utilizzati dai padri
intorno al 13%, una soglia davvero ancora molto bassa e sicuramente al di sotto delle
aspettative alla base della formulazione della legge.
- Il ricorso al congedo da parte degli uomini risulta in un certo senso residuale rispetto a
quello delle donne: spesso infatti gli uomini lo utilizzano in situazioni di eccezionalità e/o
quando le donne sono impossibilitate a farlo. Per questo i congedi dei padri sono di più
breve durata e spesso utilizzati in modo più frazionato rispetto a quelli delle madri.
55
- L’utilizzo dei congedi è legato al tipo di organizzazione e di settore di appartenenza. In
particolare i dati mostrano che esso è più elevato nel settore pubblico, dove sembra
avere costi meno rilevanti sia in termini economici per l’organizzazione, che in termini di
sviluppo di carriera e di riconoscimento professionale per i lavoratori.
56
4. GLI APPROFONDIMENTI
Di seguito abbiamo approfondito e sintetizzato i temi emersi dalle interviste privilegiando
le questioni ricorrenti e gli aspetti maggiormente interessanti ai fini della ricerca, riportando in
appositi riquadri citazioni ad hoc tratte dalle interviste7. Del più ampio e articolato dibattito sull’uso dei congedi parentali abbiamo affrontato e discusso in particolare il tema del lavoro di
cura e della tradizionale divisione dei ruoli sociali; il testo della Contrattazione Provinciale nella
parte in cui, non specificando i limiti di tempo massimo concesso a ciascun genitore, pone le
premesse per un consolidamento della tradizionale divisione del lavoro di cura all’interno della
famiglia; il tema della costruzione dei ruoli sociali e dell’identità femminile e maschile. Abbiamo
inoltre commentato alcune riflessioni, emerse nel corso delle interviste, sull’uso dei congedi
da parte dei padri e sulle condizioni che concorrono a determinare scelte e rinunce all’interno
della coppia; vengono inoltre proposte alcune considerazioni sugli effetti concreti che la fruizione dei congedi parentali può avere sulla vita lavorativa di donne e uomini. Al termine della
sezione proponiamo una sintesi critica delle ipotesi formulate dagli intervistati su modalità e
strategie per incentivare un maggiore utilizzo dei congedi parentali da parte dei padri.
4.1 Il lavoro di cura
La maggioranza degli intervistati è concorde nell’affermare che i congedi parentali sono
prevalentemente utilizzati dalle madri; solo una minoranza dei padri fruisce infatti del diritto di
astensione (facoltativa) dal lavoro per la cura dei figli/e. Il carattere residuale del fenomeno
maschile viene ricondotto innanzitutto ad una matrice culturale che sembra ancora orientare
le scelte familiari e determinare una limitata condivisione del lavoro di cura tra i due genitori.
Si tratterebbe insomma di una scelta “culturale” legata alla tradizionale assegnazione del lavoro di cura alle donne.
[con riferimento al trattamento di maggior favore previsto dalla
Contrattazione locale] “la domanda ricorrente che ci facciamo è: chi usufruirà di
questi benefici? E la risposta è stata “sempre e comunque la donna”, dando per
scontato che sia la donna” (D1)
“è una faccenda culturale. È molto faticoso seguire i figli e probabilmente è
anche questo che in alcuni casi limita i padri … lo stare a casa non è legato a
una situazione di rilassamento” (U1)
“ritengo ci sia conoscenza rispetto alla possibilità di usare lo strumento, poi
dipende anche dalla ripartizione dei ruoli all’interno della famiglia, dal profilo
culturale” (U6)
Del resto non è nuova l’idea che il “prendersi cura dell’altro” sia naturalmente parte della
vita delle donne ed è tutt’oggi diffusa l’opinione che l’attenzione alle esigenze altrui qualifichi e
contraddistingua l’essere donna, madre, moglie, figlia. Stiamo quindi parlando di un modo
d’intendere il femminile e il maschile basato su astratti criteri di distinzione fra comportamen7 Al fine di mantenere l’anonimato delle persone intervistate abbiamo scelto di utilizzare le sigle D (= Donna) o U (=
Uomo) numerandole in modo casuale, quindi senza alcun riferimento all’ordine cronologico con cui gli incontri
hanno avuto luogo, in modo da preservare una certa logica nell’attribuzione delle citazioni.
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ti ed etiche di uomini e donne. Non è di per sé evidente che l’etica della cura abbia un genere,
perlomeno per chi si sforzi di andare oltre un’interpretazione determinista dei fatti sociali o non
si limiti a dare per scontato, naturale ed ovvio il senso e il significato dell’ambiente circostante. Già nell’età vittoriana era radicata l’idea che le donne possedessero certe virtù femminili che
le rendevano adatte al compito di assistere i malati. Idee simili circa l’esistenza di virtù specificamente femminili e maschili, e di un ordine naturale con specificità legate al genere, si possono trovare in molti scritti filosofici, da Jean-Jacques Rousseau a Schopenhauer, senza
dimenticare il contributo di Sigmund Freud – ritenuto il padre della psicanalisi – secondo il
quale “per le donne il livello di ciò che è eticamente normale è diverso dal livello di ciò che è
tale per gli uomini”.
Alcune studiose, a partire da Mary Wollstonecraft (1759-1797), guardarono con sospetto
alla distinzione tra virtù femminili e ragione maschile e iniziarono ad interrogarsi sull’origine
culturale della divisione del lavoro produttivo e riproduttivo. Più recentemente Nancy
Chodorow (1978) e Carol Gilligan (1982), utilizzando un approccio psicologico assai discusso, hanno sostenuto e argomentato l’esistenza di una prospettiva morale essenzialmente
diversa fra donne e uomini.
Su questa materia, tutt’ora largamente dibattuta, rimane la pericolosità di un appiattimento a spiegazioni essenzialiste, che riconducono a fattori psicologici e/o biologici i modelli di
comportamento umano, a scapito parziale o totale dei fattori sociali di costruzione, organizzazione e divisione di ruoli, competenze, sfere di azione. Il mito delle sfere separate (Scisci, Vinci
2002) è centrale nella definizione e comprensione del lavoro di cura. Siamo concordi nell’affermare che il lavoro retribuito e quello non retribuito sono entrambi basilari per il buon funzionamento della vita familiare.
Nonostante questo rileviamo una tendenza persistente a considerare il lavoro retribuito
come l’unica vera forma di lavoro, a scapito del lavoro non retribuito che sappiamo essere
comunque sostanziale nella gestione della quotidianità familiare. Al di là delle specificità di
ogni singolo nucleo familiare nel definire priorità e quantità dei bisogni, vi sono compiti elementari quali la pulizia della casa e il far da mangiare, cui si aggiunge eventualmente l’accudimento dei figli, che devono essere svolti da qualcuno; spesso lo svolgimento di queste mansioni resta invisibile per bambini e uomini che ne sono i principali beneficiari, ma è un gran
peso per le donne che quotidianamente lo affrontano.
Il lavoro per la famiglia ha poca visibilità perché svolto in ambito privato ed è spesso sottovalutato, o addirittura non riconosciuto, in base allo stereotipo culturale secondo cui una
moglie e una madre dovrebbero comunque, anche in presenza di un’attività extradomestica,
occuparsi del lavoro di casa. D’altra parte il lavoro retribuito, che si svolge per lo più in un contesto pubblico e quindi più visibile, tende per lo stesso meccanismo ad essere associato agli
uomini, in quanto da un marito e un padre di famiglia responsabile ed affidabile ci si aspetta
che abbia un lavoro e uno stipendio regolari.
Delle molteplici implicazioni, reali e simboliche, e quindi della “densità” del concetto di cura
c’è generalmente scarsa consapevolezza, se non da parte di quanti ne hanno fatto materia di
studio o di coloro che coltivano un interesse specifico – non necessariamente professionale –
sull’argomento. Marina Piazza (2001) ha efficacemente sintetizzato i significati che il lavoro di
cura ha assunto nel corso del tempo, evidenziando l’enorme complessificazione e diversificazione che oggi lo caratterizzano. Il lavoro di cura può quindi essere definito come:
1. Lavoro multiplo: è un lavoro materiale di cura della casa (lavare, stirare, cucinare, ecc.);
è un lavoro di consumo (collegamento tra mercato privato e bisogni della famiglia); è
un lavoro di rapporto (attenzione, risoluzione dei conflitti interni alla famiglia e con
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l’esterno); è un lavoro di manutenzione dell’apparato tecnologico-domestico; è il lavoro
materno (con il suo aspetto “moderno” di intensificazione dell’interazione psico-affettiva rispetto alla cura materiale); è un lavoro di mediazione con le istituzioni e le agenzie
del welfare (nidi, scuole, ospedali, ecc.); è un lavoro amministrativo e organizzativo
(delle risorse monetarie e umane della famiglia)
2. Lavoro legato ai cambiamenti demografici degli individui e delle famiglie: è un lavoro
connesso alle diverse fasi della vita e quindi riguarda principalmente la cura dei bambini e degli anziani. In questa accezione va sottolineato come il concetto stesso di solidarietà e responsabilizzazione siano stati a tal punto tematizzati ed enfatizzati da causare
un diffuso senso di inadeguatezza. Infatti l’associazione del concetto di cura con risorse e capacità “professionali”, può determinare una crescente percezione di incapacità
rispetto ad un lavoro che professionale non è, ma che comunque dev’essere svolto. Ciò
può significare la chiusura della persona (nella gran parte dei casi donna) in una morsa
che aumenta il senso di solitudine e di oppressione
3. Lavoro simbolico: un’operazione filtrata nei secoli, attraverso miti e letteratura, ha fatto
sì che l’“umile” lavoro di cura assumesse una specifica connotazione femminile; il lavoro di cura è diventato un modo di produzione definito dalla relazionalità, dall’espressività, dall’orientamento ai bisogni, dalla disponibilità, dalla comunicatività
4. Lavoro che si trasforma nel tempo: si modella infatti sul corso di vita della famiglia,
intrecciandosi con le vicende dei cicli di vita dei singoli membri, tracciando scenari
mutevoli in cui si definiscono volta a volta maggiori o minori simmetrie e asimmetrie.
Queste definizioni del lavoro di cura ci aiutano a chiarire l’oggetto della ricerca: quando parliamo di congedi parentali facciamo riferimento alla possibilità, per entrambi i genitori, di vivere il rapporto di coppia e quello con i propri figli/e in tutta la sua complessità, contraddittorietà e ricchezza ma, ciò che è più importante, di condividere responsabilità altrimenti gravose e
destabilizzanti. Con questa considerazione ci avviamo alla discussione di un aspetto particolarmente rilevante ai fini della ricerca e che noi abbiamo identificato con uno dei punti di maggiore criticità della Contrattazione locale.
4.2 Un principio disatteso
I testimoni intervistati evidenziano come – a livello provinciale – il testo della
Contrattazione Collettiva – pur stabilendo condizioni di maggior favore per i genitori rispetto
alla normativa nazionale – abbia disatteso la ratio con cui era stata formulata la legge 8 marzo
2000, n. 53 per il sostegno alla maternità e alla paternità. Per alcuni testimoni che sia concretamente la madre ad assumersi per intero il compito della cura dei figli nell’arco dei mesi concessi, non può che essere positivo, un ulteriore vantaggio derivante dalla Contrattazione
Provinciale. Per altri si tratta di un limite fondamentale che sminuisce la portata innovativa ed
il valore originario della normativa. Il testo della Contrattazione infatti sembra non incoraggiare i padri ad esercitare il loro ruolo all’interno della famiglia: la maggioranza fra loro sembra
ancora “immatura” ed impreparata a condividere il lavoro di cura.
“Penso sia comunque un vantaggio lasciando la libetà ai genitori di scegliere.
Abbiamo avuto dei casi in cui i padri hanno usufruito dell’intero periodo: sono
pochi casi ma penso sia un vantaggio non mettere limiti” (D9)
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“La battuta ‘piuttosto che restare a casa preferisco andare a lavorare’ … è
indicativa di un certo atteggiamento da parte dei padri che vedono la propria
presenza in casa in termini di convenienza per la coppia più che per i figli, ragionando nei termini ‘per noi due qual è la soluzione migliore?’ Forse dobbiamo
concludere che il padre non è ancora sufficentemente maturo … la
Contrattazione esplicitamente non favorisce la madre; nei fatti porta a delle scelte quasi obbligate. Nel caso di coniugi con parità di condizione lavorativa la scelta cade comunque sulla madre” (U4)
“Avendo tolto l’obbligo di cumulo si è un po’ disatteso lo spirito della 53
perché sicuramente non incita i padri a prendere il permesso … molti genitori
lavorano entro il contesto provinciale con una tendenza a far fruire comunque
alla madre i benefici della Contrattazione” (D7)
Poiché nella maggioranza dei casi la scelta cade naturalmente sulla madre, alla quale è
affidata la cura pressoché esclusiva dei figli, è lecito pensare che – allo stato attuale – la normativa provinciale contribuisca indirettamente a determinare le scelte genitoriali e, più in
generale, all’affermazione di un’etica della cura femminile in un contesto ancora evidentemente impreparato a valorizzare, autonomamente nel privato, la paternità. Del resto è solo nell’ultimo decennio che, soprattutto attraverso le ricerche condotte attorno alla condizione femminile, è emersa una certa attenzione alle pratiche differenziate delle donne e degli uomini all’interno della famiglia (Bimbi, Castellano 1990). Se numerosi sono infatti gli studi sulla maternità, pochi sono quelli sulla paternità e scarsi gli sforzi compiuti sinora per recuperare l’uomo al suo ruolo di padre reale e presente nelle vicende che scandiscono la quotidianità domestica. Carmine Ventimiglia (1994) riconduce questa secolare latitanza dei padri all’assenza di
memoria culturale, di tracce precedenti nella loro biografia, ovvero di modelli analoghi a quelli di madre che da sempre sono oggetto di comunicazione interpersonale nell’esperienza di
donne tra donne. Analisi di questo tipo, che potrebbe suonare ad un tempo come ennesima
giustificazione di mancanze spesso consapevoli e strategiche, portano ad un livello superiore
la nostra riflessione sulla paternità. Se da un lato va riconosciuta la mancanza di riferimenti
validi per i giovani padri, dall’altro proprio l’assenza di modelli dà la possibilità di “inventare”
il proprio ruolo all’interno della famiglia e nel rapporto con i figli/e. Permangono tuttavia delle
ambivalenze sulle quali è bene interrogarsi. Ambivalenze che riguardano ad esempio non
tanto il desiderio maschile di appropriarsi anch’esso della cura e dell’esperienza della cura del
figlio/a, quanto il rischio di strutturare tali aspirazioni più in chiave competitiva con la madre.
C’è poi un altro rischio: quello di assumere il modello dell’altra (il “mammo”) eludendo il problema di fondo che non è quello dell’inversione di un modello di paternità virile ed emotivamente staccata con un modello di paternità affettuosa e “adorabile”, quanto quello di riconoscere che ciascuna identità – proprio perché portatrice di specificità – ha il diritto di ricercare ed esprimere proprie modalità relazionali. La transizione ad una paternità vissuta, il “pensarsi” padre diventa un pensarsi materiale solo attraverso i piccoli eventi che fanno la storia
quotidiana delle relazioni. Se queste rimangono astratte e disancorate dall’impegno etico del
farsi carico concreto e globale, tanto dei vincoli quanto delle possibilità inscritte nell’esercizio
della paternità, allora il rischio è quello di vivere la condizione di padre assumendo tacitamente la madre come il proprio doppio o delegando interamente ad essa il ruolo affettivo e l’impegno di cura.
60
Un ulteriore elemento di criticità in tal senso è dato dall’assenza di possibilità per il padre
di astenersi dal lavoro nel giorno del parto: è paradigmatico che, laddove la legge ha come
primo obiettivo la ri-conciliazione dei padri alla cura dei figli, prevedendo anche la contemporaneità della fruizione dei congedi da parte dei genitori, non sia ancora riconosciuta la possibilità di astensione dal lavoro il giorno del parto.
Esistono quindi molte ragioni per sostenere una maggiore partecipazione degli uomini nel
lavoro di cura. Non solo una più equa divisione del carico familiare agevolerebbe le donne nel
tentativo di conciliare tempi e impegni pubblici e privati, ma darebbe loro l’opportunità di ridefinire la propria identità arricchendola di esperienze e stimoli prezioni di crescita individuale. Una
più equa condivisione – adeguatamente supportata a livello istituzionale – potrebbe anche migliorare il benessere fisico e psicologico di uomini e donne ponendo le premesse per una società più
sana ed “equilibrata” (Commissione delle Comunità Europee-Rete di esperti per l’infanzia 1993).
La legge 53/2000 sui congedi parentali ha fatto intravedere l’inizio di un processo di riequilibrio all’interno delle coppie nella cura dei figli. Laddove la Contrattazione locale ha invece
– suo malgrado – causato un indebolimento del principio guida riteniamo serva innanzitto
intervenire con un’attenta analisi della situazione presente cercando di capire cosa guida i
comportamenti e le scelte di uomini e donne.
4.3 Ragione e sentimento
Fra le testimonianze raccolte c’è chi – con riferimento al territorio provinciale e ai vincoli
posti dalla Contrattazione locale – ritiene che all’origine della scarsa o nulla partecipazione del
padre al lavoro di cura ci sia anche una sostanziale “gelosia” delle madri nei confronti di un
ruolo che storicamente appartiene a loro; tale gelosia si tradurrebbe quindi nella difesa di uno
spazio privato del quale, per secoli, sono state “padrone”: esattamente e specularmente come
gli uomini vedono con apprensione e ostilità l’avventurarsi delle donne nel campo, fino a ieri
loro riservato, del lavoro per il mercato.
“Molte donne hanno riconosciuto la difficoltà, dettata culturalmente, di permettere al proprio partner di prendere parte alla cura della casa, sono consapevoli della possibilità che lui effettivamente prenda parte ai lavori domestici. C’è
un ostacolo culturale che impedisce di lasciare che sia il proprio partner a portare avanti determinate tipologie di lavoro … Molte donne ci hanno testimoniato anche della disponibilità del partner e hanno ammesso la bontà del loro possibile operato, tuttavia hanno anche riconosciuto di essere loro stesse a non
permetterglielo per timore di non sentirsi più ‘madri’ ” (D1)
“C’è una certa gelosia nei confronti del padre che porta a non ‘concedergli il
figlio’, la cura della casa, per timore di sentir vacillare il proprio ruolo …
Affermazioni del tipo ‘lui non è capace, arriva tardi, è lento, è sempre troppo impegnato’, non sembrano del tutto fondate oppure, a forza di ripeterle, ingabbiano il
partner in una scarsa consapevolezza del suo ruolo e delle sue capacità” (D8)
Ancora oggi per molte donne l’identità femminile coincide innanzitutto con la maternità e
la possibilità di esercitare il ruolo di madre all’interno di uno spazio (domestico) nel quale il
padre occupa una posizione solo marginale. La paura di “sentir vacillare il proprio ruolo” nasce
dalla natura del cambiamento che il legislatore si proponeva di avviare con la legge 53/2000:
61
un aumento della partecipazione degli uomini nella cura ed educazione dei bambini significa
definire e essumere nuovi ruoli, nuove identità e nuove relazioni. Questo mutamento che sembrerebbe coinvolgere esclusivamente la popolazione maschile agisce invece anche sulle donne
che pertanto da un lato non dovrebbero essere escluse dal problema, dall’altro andrebbero aiutate – assieme ai loro partner – in questo percorso di trasformazione. Tuttavia fin tanto che fra
le donne ci saranno resistenze, fino a che molte continueranno a non permettere agli uomini,
loro compagni e mariti, di assumersi maggiori responsabilità di cura dei bambini e sino a
quando mancherà l’intenzione unanime di sostenere questo processo di cambiamento, sarà
difficile che esso si realizzi (Commissione delle Comunità Europee-Rete di esperti per l’infanzia 1993). La maggiore partecipazione degli uomini nella cura ed educazione dei figli/e comporta modificazioni importanti nell’identità maschile e femminile, ma non implica la loro fusione in un’unica identità comune. Non significa che gli uomini e le donne debbano agire, come
genitori e come individui, omologandosi ad un’unica identità di genere, ma vuol dire creare le
condizioni affinchè ciascuno possa sperimentare proprie strategie d’intervento all’interno della
famiglia. Questo per non incentivare il ricorso a formule autogiustificative di assenze o manifestazioni di noncuranza verso problematiche pertanto riversate sulla propria partner o – seppur accada di rado – sul proprio partner. Non sarebbe un caso che dalla gelosia di qualche
madre derivasse una sorta di effetto perverso in base al quale il partner accetta un ruolo affettivo e gestionale residuale che, al momento opportuno, può anche diventare un comodo alibi
per demandare alla partner l’intero lavoro cura.
Per interpretare e superare questa pratica diffusa e la tradizionale distinzione tra sfera pubblica maschile, centrata sulla gestione degli affari, e privata femminile, sede degli affetti e delle
incombenze domestiche, occorre innanzitutto comprenderne il carattere derivato, non naturale. Il pensiero filosofico moderno ci ha lasciato in eredità l’opposizione fra pubblico e privato,
tra ragione e sentimento, tra passioni pubbliche e sentimenti privati, tra produzione e riproduzione, affidando il dominio delle due sfere rispettivamente agli uomini e alle donne, con ripercussioni significative nelle vite di entrambi.
Il superamento delle dicotomie dipende innanzitutto dalla possibilità per le donne di raggiungere l’autonomia all’esterno della famiglia. Introducendo nella sfera pubblica parte dei
valori di cura a cui è stata suo malgrado socializzata, la donna ha la possibilità di trasformare
una scomoda eredità culturale nell’occasione per farsi promotrice di una nuova etica della cura
ispirata al dialogo fra le parti (Pulcini 2003). Ad esempio attraverso il coinvolgimento del partner nelle attività domestiche e di formazione dei figli/e è possibile aggirare ostacoli di cui
spesso la donna stessa è artefice oltre che vittima. L’eventuale considerazione dell’altro come
incapace e inadatto allo svolgimento di determinate mansioni infatti non favorisce la collaborazione, ma alimenta l’ostilità e la resistenza alla condivisione degli impegni familiari. È necessario che la donna sappia riconoscere ciò che “intrappola” la conciliazione e impedisce il riequilibrio della sfera pubblica e privata. Il primo passo consiste nell’applicazione del principio
di delega: il passaggio di responsabilità va fatto lasciando al partner la libertà di agire sperimentando il proprio stile. Ancora oggi infatti per molte donne non è facile delegare la gestione di ambiti, relazioni e spazi che consentono un pur limitato esercizio del potere. Il secondo
passaggio consiste nel trasmettere quanto di più positivo c’è nel “governare” la casa e gli affetti che essa custodisce: l’aspetto sgradevole delle mansioni di cura non sarebbe un buon incentivo alla collaborazione e condivisione del carico familiare.
Sul piano istituzionale e sociale occorre procedere all’attivazione di misure a sostegno delle
donne affinchè possano iniziare e completare il proprio inserimento nella sfera pubblica, al
tempo stesso valorizzando ed incentivando il contributo che la figura paterna può dare nella
62
dimensione domestica, affettiva ed emotiva. In questo senso pare che un maggior sforzo da
parte delle istituzioni e dei datori di lavoro per ricompensare il lavoro di cura, che molte donne
già svolgono pazientemente e con grandi sacrifici, non solo sarebbe un riconoscimento per
l’importante contributo che esse offrono in silenzio e gratuitamente alla collettività, ma potrebbe agire da incentivo anche per la parte maschile. Su questo punto tuttavia riteniamo di dover
soffermarci per chiarire il carattere controverso della questione.
Attualmente nessuno può permettersi di ignorare il prezzo – in gran parte simbolico – del
lavoro di cura. Tuttavia il valore sociale, seppur in crescita (in questo senso pensiamo anche
all’importanza di avere una baby sitter, una badante, una persona che aiuti nelle faccende
domestiche e possa coprire ogni altra urgenza “domestica”), è ancora piuttosto basso e si
riflette nello scarso riconoscimento economico del lavoro di cura. Questa è anche una delle
ragioni per cui molti uomini – innanzitutto nel ruolo di padri – ritengono che occuparsene
potrebbe costituire un passo indietro nella scalata personale al successo o al raggiungimento
di determinati obiettivi professionali. Se quindi è lecito supporre che da un lato un innalzamento del valore sociale e quindi economico del lavoro di cura potrebbe attirare più uomini, dall’altro sarebbe giustificabile l’atteggiamento di riprovazione da parte di quelle donne che già lo
svolgono senza alcuna forma di riconoscimento. In questo senso molte potrebbero desiderare il cambiamento, un maggior coinvolgimento degli uomini nella cura della casa e dei figli, ma
tale desiderio potrebbe contenere una commistione comprensibile di ansia e dubbio. Questa
ambivalenza dev’essere oggetto di grande attenzione nello sviluppare strategie appropriate per
incoraggiare e sostenere il cambiamento, senza alimentare nuove occasioni di scontro o
incomprensione fra uomini e donne.
4.4 Il valore della presenza
Fra gli intervistati c’è accordo nel riconoscere che fra i cambiamenti più significativi apportati dalla legge n. 53 del 2000, il principale riguarda il riconoscimento di un diritto del padre
ad astenersi dal lavoro per destinare parte del suo tempo alla cura dei figli. Fermo restando il
maggiore utilizzo dei congedi da parte delle madri, i giovani padri che usufruiscono del congedo parentale si assentano dal lavoro soprattutto nel periodo immediatamente successivo
alla nascita del figlio/a.
Da un lato questo fa supporre una loro maggiore attenzione – rispetto al passato – nei confronti della partner; alcuni testimoni affermano si tratti di una scelta dichiarata di “qualità”: il
padre sceglie, quando non sussistano condizioni sfavorevoli, di seguire subito il proprio
figlio/a, riconoscendo il valore della presenza di entrambi genitori. Sarebbe questo un modo
per dare spessore ai rapporti familiari attraverso un uso consapevole del tempo.
“I giovani padri,diversamente dal passato, scelgono di vivere momenti come
il periodo successivo alla nascita, accanto alla compagna. È una scelta dettata
da una valutazione del valore del momento. C’è un approccio diverso, c’è una
diversa mentalità, la maternità e la paternità sono vissute in modo diverso dai
giovani padri. Si tratta di condividere certi momenti” (D3)
“Sono scelte maturate, proprio ponderate all’interno della famiglia, indipendentemente dal ruolo ricoperto dal padre nella struttura perché abbiamo avuto
richieste di congedo parentale non solo dal personale non dirigenziale, ma
anche dal personale dirigenziale” (U2)
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Dall’altro lato c’è chi ipotizza che la corresponsione dell’intera retribuzione, come previsto
dalla Contrattazione nei primi trenta giorni di congedo, rappresenti un incentivo importante per
i padri, laddove prevalga la ragione economica.
“Il primo mese retribuito al 100% lo hanno usato tutti, mentre prima nessuno si è mai interessato di accudire il figlio … il padre, fatta eccezione per il
primo mese al 100%, non prende ulteriori mesi” (D7)
“Noi possiamo dire di essere molto avvantaggiati rispetto al settore privato
in virtù di queste disposizioni contrattuali provinciali che prevedono la retribuzione al 100% per i primi trenta giorni di congedo parentale … Questo è un
grosso vantaggio” (D2)
Prima che la legge n. 53 del 2000 introducesse in Italia il concetto di “conciliazione”
rispondendo all’urgenza di una maggiore partecipazione maschile al lavoro di cura, si sono
succeduti anni di accesi dibattiti e polemiche – all’origine sollecitate dal movimento femminista – attorno al famoso paradigma della doppia presenza (Balbo 1978; Zanuso 1987). Come ci
ricorda Marina Piazza (2003) è dalla metà degli anni Settanta, e quindi a partire dal fenomeno
di un accesso allargato e più qualificato delle donne e dal fatto che cominciavano a restare sul
mercato anche se sposate e con figli, che si è appunto formato il paradigma della doppia presenza. Il termine “presenza” (invece di lavoro) stava ad indicare il significato, non puramente
strumentale, che le donne attribuivano al loro esserci nel mercato del lavoro: quindi non una
presenza dettata dalla pura necessità economica – che oggi è percepita in modo sempre più
concreto – bensì dalla volontà di esprimere una parte importante della loro identità.
Accanto a queste problematiche, solo oggi si comincia a parlare oltre che dell’“invisibile
dilemma del daddy stress” (Piazza 2003) – un conflitto non esplicitato tra i doppi doveri della
famiglia e del lavoro che i padri spesso temono e stentano ad affrontare – anche dei primi dati
incoraggianti relativi ai padri che prendono i congedi parentali e offrono testimonianze confortanti, se non esaltanti, della loro esperienza. Della prima questione in parte abbiamo già
discusso e sarà oggetto di ulteriori argomentazioni nei prossimi paragrafi. Vorremmo quindi
dare maggior risalto proprio al secondo tema.
I giovani padri sembrano essere, nonostante tutto, più vicini ai loro figli di quanto non lo
siano state le generazioni precedenti. Chi offre la propria testimonianza parla di esperienze, a
volte non solo limitate al periodo di congedo, molto gratificanti in virtù dalla maggiore vicinanza emotiva ai proprio figli/e. Del resto esistono nuove aspettative verso i padri, non più solo
considerati come i responsabili del mantenimento della famiglia, ma anche come figure di
cura. Parlare di paternità oggi non significa creare – come sottolinea Ventimiglia (1994) una
contrapposizione tra una figura paterna di ieri, superata perché arida e priva di sentimenti, e
una figura paterna di oggi, moderna e nuova perché capace di vivere i proprio sentimenti con
trasparenza e orgoglio.
Si tratta piuttosto di considerare e studiare i processi di evoluzione delle identità di genere a partire dai segnali positivi che la nuova immagine di padre – fortemente attesa e incoraggiata – lancia all’interno dei contesti pubblici e privati. Il segno di relativa novità, se si vuole,
che oggi sembra caratterizzare i comportamenti paterni, specie quelli delle ultime generazioni,
riguarda la possibilità e la ricerca della configurazione espressiva dei sentimenti, di un’estetica dell’amore oggi finalmente legittimata e legittimante. Ciò non deve comunque infondere una
eccessiva sicurezza, perché molto c’è ancora da fare, soprattutto per accrescere la consape64
volezza nei padri che il loro ruolo non va esercitato esclusivamente per coprire le urgenze e
svolgere compiti limitati – fornendo una “presenza su richiesta” (Piazza 2003) – né tanto meno
per presenziare ai soli momenti di gioco nella vita dei propri figli/e – offrendo di sé un’immagine esclusiva e “mono-espressiva” (Ventimiglia 1994) –. Ciò significa che gli uomini dovrebbero imparare a farsi carico anche dei lavori domestici, dell’aspetto meno gratificante del lavoro di cura per offrire un contributo sostanziale all’interno della famiglia e dare valore concreto
alla propria presenza.
4.5 Una scelta condizionata
La scelta e le modalità di fruizione del congedo non dipendono solo da ragioni culturali, ma
in larga parte sono determinate dal trattamento economico e dalla condizione lavorativa dei
genitori: come già sottolineato, mediamente la retribuzione delle madri è inferiore a quella dei
padri e ciò influisce pesantemente nella scelta di chi fra i coniugi si asterrà dal lavoro, dove si
cercherà di arrecare il minor danno possibile all’economia familiare.
Quando entrambi i coniugi sono lavoratori dipendenti in strutture tutelate dalla
Contrattazione Collettiva, la scelta tende a ricadere sulla madre; laddove solo uno dei due
coniugi può godere delle misure previste dalla Contrattazione, la scelta converge tendenzialmente su tale genitore, per ovvie ragioni di convenienza economica. Più complessa risulta la
scelta nel caso di genitori lavoratori del settore privato, liberi professionisti, oppure lavoratori
con forme contrattuali atipiche scarsamente tutelate dalla Contrattazione e dalla legge.
“Il trattamento di favore previsto dalla nostra contrattazione fa sì che difficilmente, se la madre è dipendente pubblica sia lei a rinunciare a favore del padre,
perché ha un migliore trattamento economico … Nel privato le difficoltà sono
maggiori: la minor fruizione di questi benefici evita di compromettere il rapporto col datore di lavoro” (U4)
“Dipende anche dalla realtà circostante: nel Trentino ci sono molti lavoratori
autonomi, commercianti, piccoli imprenditori, artigiani per cui ovviamente qui
sono in maggior parte le madri a prendere il congedo. I lavoratori autonomi
sono pur sempre lavoratori, ma non hanno la possibilità del congedo, e questo
fa ricadere l’onere sulle madri” (D6)
“Strumenti come la legge 53 stanno facendo il loro tempo di fronte alla nuova
legislazione del lavoro che permette una sempre maggiore precarietà: la legislazione del lavoro è recentemente cambiata e quindi non ha più senso parlare di
leggi come queste con la gran parte dei lavoratori che lavorano a tempo determinato se non adirittura per pochi giorni (anche per sostituzioni maternità) …
questi strumenti interessano sempre lavoratori protetti in settori già protetti …
sono strumenti basati su prospettive di lavoro di lungo periodo” (D8)
La possibilità di astenersi dal lavoro è inoltre commisurata alla posizione lavorativa: mediamente chi svolge funzioni dirigenziali o assimilate da un lato può contare su un trattamento
economico che rende meno impegnativo l’affidamento dei figli a strutture esterne durante
l’orario di lavoro, dall’altro deve però fare i conti con la richiesta di una costante presenza sul
lavoro.
65
“Un lavoro semplice, operativo, non lascia grandi possibilità di carriera; il problema dell’assenza dal lavoro è forse più sentito per i lavori di responsabilità e
dove ci sono possibilità di carriera. Se l’assenza non incide sulla carriera, incide comunque sulla disponibilità temporale che si dà all’azienda e l’ordine delle
priorità: l’azienda ha mille modi per renderti la vita difficile, ad esempio non
favorire la flessibilità degli orari, dei turni, in modo compatibile con l’organizzazione degli impegni familiari. Se si lavora in aziende grandi, con molti dipendenti l’assenza di una persona conta meno che in un’azienda di quindici venti persone” (U1)
“Un professionista … dirigente ha maggiori necessità di essere presente e
questo fa sì che ancora una volta sia tendenzialmente la madre a richiedere il
congedo … la dirigenza è prevalentemente maschile, rispetto al comparto non
dirigenziale che è in larga parte femminile” (U4)
Non sono mancate le riflessioni sulla relazione tra conciliazione e funzionalità dei servizi sul
territorio (asili nido, scuole, strutture di assistenza all’infanzia …) che potrebbero costituire un
reale aiuto al problema dell’accudimento dei figli per i genitori lavoratori (Tempi delle città:
Capo VII, legge n. 53/2000). Laddove invece i servizi sul territorio sono erogati secondo tempi
e modi che prescindono dalle reali necessità di gran parte delle famiglie, rimane – come unica
soluzione – la tradizionale rinuncia, totale o parziale, da parte della madre al proprio lavoro e,
nei casi migliori, la scelta del padre di usufruire del congedo proprio nel periodo estivo, in
alternativa alla partner. A questo proposito Chiara Saraceno (2002) ha individuato la radice del
problema nell’organizzazione dei tempi delle città e dei suoi servizi in quanto concepiti su standard obsoleti rispetto alle profonde modifiche che il mercato e l’organizzazione del lavoro stanno subendo.
“Nel periodo estivo si sovrappongono assenze di questo tipo per l’assenza
delle strutture esterne come gli asili nido, le scuole materne e elementari. Se già
il periodo estivo è critico per le ferie, lo diventa ancora di più per la fruizione dei
congedi” (D3)
“Le astensioni si concentrano nei periodi estivi … le suole chiudono e quindi
c’è l’esigenza di essere presenti in famiglia” (D9)
Gli aspetti a cui viene dato maggior rilievo riguardano quindi la complessità del settore privato; la crescente precarizzazione del mercato del lavoro cui non corrisponde un adeguamento normativo sufficientemente rapido; le priorità che i genitori lavoratori, con ruoli dirigenziali
e responsabilità organizzative, sono in parte costretti a stabilire fra sfera pubblica e sfera privata: aspetto che tocca anche il tema delle difficoltà che le donne incontrano nello sviluppo
della propria carriera lavorativa.
Per quanto riguarda il settore privato, il dibattito sulla necessità di attuare azioni positive
per favorire l’occupazione femminile e la conciliazione tra vita familiare e professionale trova
nella rappresentanza imprenditoriale un interlocutore spesso reticente e ostile. Innanzitutto va
ricordato che in questi anni – per quanto riguardo il settore privato – si è verificata una notevole trasformazione sia rispetto alle modalità di accesso, sia per quanto riguarda l’organizza-
66
zione interna delle imprese. Questo mutamento è focalizzato su due cardini o parole chiave:
flessibilità e competenze.
Da un lato è pressante il “bisogno” delle aziende di assicurarsi il controllo del rapporto con
i lavoratori e le lavoratrici, dall’altro è più forte la richiesta ai propri dipendenti di dimostrare
la propria affidabilità e capacità di sintonizzarsi con l’ambiente aziendale aderendo ai suoi
valori.
“La difficoltà è a monte: l’azienda non è ben disposta al fatto che si facciano
figli, ci si costruisca una famiglia. Questo è il problema perchè il lavoratore o
lavoratrice ha scelto e posto fra le priorità la propria vita privata e non l’azienda,
il lavoro” (U1)
“Chiedere la maternità ‘disturba’ … Nelle aziende la maternità è da sempre un
problema. Lo vedo all’interno della mia struttura: se una donna va in maternità
è un dramma … il datore di lavoro tende a non dare responsabilità a donne con
figli: i figli infatti tendono ad assorbire l’attenzione delle madri” (U5)
Queste priorità del mercato lavoro gravano come macigni sulle agende private dei “genitori lavoratori” di cui parla la legge 53/2000. Silvia Gherardi a proposito ribadisce che “non basta
che ci siano le leggi; occorre che vengano utilizzate, che nascano culture organizzative di genere, capaci di sostenere l’uso delle leggi con un atteggiamento attivo: la legislazione esistente
va conosciuta, fatta conoscere, e il ricorrervi deve essere legittimato nella cultura organizzativa di riferimento” (2002, 21).
E proprio dalle testimonianze raccolte si evince come spesso le resistenze dei datori di
lavoro non equivalgano unicamente ad una tendenza a tutelare i propri interessi economici.
In alcuni casi manca un’informazione corretta e completa: non tutti gli imprenditori conoscono la normativa sull’utilizzo dei congedi parentali e non sempre sono al corrente delle agevolazioni fiscali – previste dal fondo per l’occupazione – per gli imprenditori che promuovono forme di flessibilità sul lavoro. In Italia è la legge 125 del 1991 a contenere le disposizioni volte a favorire l’occupazione femminile, la realizzazione dell’uguaglianza sostanziale tra
uomini e donne nel lavoro mediante l’adozione di misure per la realizzazione di pari opportunità.
Tuttavia, nonostante la presenza di leggi come questa, senza una reale condivisione degli
obiettivi fra istituzioni, imprese e lavoratori è difficile immaginare un’alternativa sostanziale alle
discriminazioni che non solo danneggiano la popolazione femminile, ma imprigionano l’intero
sistema sociale ed economico in schemi e scelte solo apparentemente remunerativi.
Va comunque detto che il mutamento può ricevere un forte impulso dalle numerose iniziative e movimenti “dal basso”, ad esempio nel contesto dei rapporti familiari o nei luoghi di
lavoro fra colleghi: il cambiamento nei ruoli e nei rapporti tra i sessi non può essere deciso
dall’alto, né tantomeno si possono obbligare uomini e donne ad accettarlo se non lo desiderano. In questo senso gli interventi a livello sociale possono svolgere un ruolo importante offrendo opportunità, sostegno e incoraggiamento.
Come dimostrano le testimonianze che discuteremo tra poco, la genitorialità non è un
accadimento privato o individuale, ma un fatto sociale, che – in quanto valore di tutti – va protetto, valorizzato e accompagnato da misure che la riconoscano come momento importante
nella vita della persona e della collettività.
67
4.6 Gli effetti sul lavoro
Ferma restando la diversità fra settore pubblico e privato, nelle interviste sono evidenziate
da un lato le difficoltà cui devono far fronte amministrazione o impresa in assenza di personale, dall’altra gli effetti spesso deleteri sul lavoratore/lavoratrice al rientro al lavoro, soprattutto
se dipendente privato.
Nel primo caso è particolarmente sentita la difficoltà di gestire, dal punto di vista amministrativo e contabile, i congedi parentali frazionati più volte dalla stessa persona. Per questo, ad
esempio, alcuni enti locali – entro i margini di interpretazione consentiti – hanno fissato al proprio interno alcuni vincoli per limitare gli effetti negativi che la frazionabilità del congedo
potrebbe avere sull’erogazione del servizio pubblico. Per quanto riguarda il privato, oltre ai casi
di inadempienza per mancata o errata conoscenza della legge, vi sono testimonianze che parlano di una cattiva predisposizione del datore di lavoro sull’uso dei congedi determinata da
ragioni prettamente economiche: il datore di lavoro infatti deve corrispondere sin dall’inizio,
per conto dell’INPS – l’ente erogatore – la somma prevista.
“I diversi enti hanno diversamente regolamentato alcuni aspetti non dettagliati dal contratto e che riguardano misure organizzative: questo per far fronte a
problematiche di gestione delle risorse. Nel nostro caso abbiamo adottato una
misura organizzativa interna che prevede che i periodi richiesti siano di almeno
una settimana, perché è successo che il congedo fosse frazionato in singoli
giorni” (D3)
“Ci sono datori di lavoro non disponibili, nonostante la legge, soprattutto per
le realtà piccole, dove subentra il problema della sostituzione. Poi subentra la
motivazione economica: il datore di lavoro deve anticipare, per legge e subito,
per conto dell’INPS” (D6)
Dal punto di vista dei dipendenti, l’ostacolo maggiore è rappresentato dall’atteggiamento
dei colleghi che, tanto più nei confronti dei padri che scelgono di fruire del congedo, non
risparmiano derisione e contrarietà. Perché? Da un lato – come ci spiega Piazza (2003) – le
difficoltà originano in una cultura esistente e condivisa per cui la cura dei figli/e è compito della
madre. Siamo quindi in presenza – e la provincia di Trento non sembra fare eccezione – di un
condizionamento sociale e culturale ancora molto forte, che non solo delegittima e ridicolizza
comportamenti peraltro promossi da una legge dello Stato, ma produce notevoli effetti di stigmatizzazione negli ambienti di lavoro. Dall’altro lato c’è appunto l’ostilità di molte aziende a
permettere ai propri dipendenti di usufruire di tali congedi. Il mutamento – auspicato e già parzialmente in atto – dei comportamenti maschili non dovrebbe sbattere contro l’insofferenza e
la resistenza dei datori di lavoro che, al contrario, dovrebbero riconoscere e prendere atto del
crescente numero di lavoratori che vivono in maniera conflittuale il rapporto tra lavoro e famiglia, con conseguenti ripercussioni sulla loro professionalità e sulla produttività. Più in generale i datori di lavoro, di fronte ad una forza lavoro con delle responsabilità familiari importanti, trarrebbero in prima persona vantaggio da iniziative a favore delle famiglie. La volontà di
aumentare la produttività e di contare su una forza lavoro motivata potrebbe quindi contribuire ad aprire un ventaglio di possibilità per nuove condizioni di lavoro che favoriscano la conciliazione e una più equa condivisione (Commissione delle Comunità Europee-Rete di esperti
per l’infanzia 1993).
68
“Alcuni uomini che sono venuti da noi hanno riportato una difficoltà sotto
l’aspetto culturale dimostrata dal proprio ambiente lavorativo nei loro confronti
al momento della richiesta da parte loro di prendere il congedo di paternità: ad
esempio la derisione da parte dei colleghi di lavoro” (D1)
“Danno fastidio le donne quando entrano in gravidanza … lascio immaginare
come possa essere giudicato il padre qualora chiedesse il congedo” (U5)
Le reazioni peggiori – nell’ambiente di lavoro – si manifestano al rientro: cambia il “clima” e
l’atteggiamento nei confronti della persona; alcune persone sono persino costrette ad accettare
spostamenti d’ufficio e ridimensionamenti dell’incarico professionale. Spesso accade che l’organizzazione, ancor prima di verificare la minore affidabilità del dipendente, riduca le proprie aspettative nei confronti di questo/a alimentando in lui o in lei una spiacevole sensazione di isolamento.
“Come tutte le leggi e i contratti le possibilità ci sono, ma nei fatti spesso
l’azienda fa capire che magari le prospettive di carriera non sono più le stesse,
le responsabilità difficilmente ti saranno assegnate, e quindi chi viene da noi ha
già interiorizzato la possibilità che ci sia un risvolto negativo” (U1)
“Il peso della scelta è dato anche dall’ostilità del mondo circostante che spesso non è disponibile ad accogliere anche questi aspetti della vita del lavoratore,
lavoratrice. È l’ufficio che dovrebbe cambiare. Non è solo una questione di coppia: è un fatto sociale” (D8)
“Le persone in alcuni casi sono soggette ad umiliazioni e atteggiamenti di colpevolizzazione verso chi si è assentato oltre i mesi che sarebbero stati graditi
all’azienda; nel privato molti meno uomini hanno avuto accesso ai congedi
parentali, spesso non fanno neppure richiesta” (D5)
Sono di particolare rilevanza, soprattutto per la gravità dei fenomeni cui fanno riferimento,
le considerazioni sugli effetti che la fruizione dei congedi parentali può avere sulla vita lavorativa del genitore. Fenomeni di mobbing o forme più attenuate di “violenza organizzativa”
(Casilli 2000) riguardano quasi esclusivamente il settore privato, laddove cioè la persistenza di
taluni comportamenti è favorita dalla gestione privata del lavoro. La dedizione incondizionata
e la fedeltà assoluta all’azienda sono parte di un’ideologia del lavoro che detta condizioni insostenibili per qualunque persona desideri conciliare vita pubblica e vita privata. Il “tempo di facciata”8 (Gherardi, Poggio 2003) da trascorrere al lavoro oltre l’orario minimo pattuito diventa
una richiesta insostenibile in presenza di figli da accudire. L’aggravarsi del “clima” sul lavoro
però non solo pesa sulla vittima, ma costa all’impresa in termini simbolici e reali: da un lato
peggiora il morale complessivo dell’azienda e fa calare la motivazione dei dipendenti, dall’altro
compromette la produttività anche di elementi competenti. Antonio Casilli ci fornisce un breve
ma significativo elenco – che riportiamo in tabella 2 – dei costi prettamente economici che il
mobbing ha sulle aziende e le casse dello Stato, se quindi considerassimo i casi peggiori.
8 Erving Goffman definisce “facciata” “quella parte della rappresentazione dell’individuo che di regola funziona in
maniera fissa e generalizzata allo scopo di definire la situazione per quanti la stanno osservando” (1959, tr. it. 32)
69
Attraverso questa ricerca non ci è stato possibile né riscontrare direttamente casi di mobbing, né approfondire la problematica, ma abbiamo raccolto testimonianze che allertano e invitano – soprattutto le autorità pubbliche ed istituzionali – a prestare attenzione ad un fenomeno certamente presente, ma evidentemente sommerso, la cui trattazione richiederebbe altri
tempi di analisi, metodi di rilevazione e specifici interventi.
Tabella 2
I costi per le aziende …
I costi per lo Stato …
Il mobber (= molestatore), al posto di lavo- Il mobbing provoca malattie professionali
rare, impiega fino al 15% del proprio tempo
a molestare colleghi e sottoposti
Il mobbing peggiora il morale dell’azienda e fa La malattia professionale si traduce in un
calare la motivazione dei dipendenti (“sabo- costo per la sanità pubblica
taggio motivazionale” o “social loafing”)
L’azienda rischia di essere coinvolta in cause La sanità sovraccarica diventa sempre meno
civili in cui le vittime chiedono risarcimenti efficiente e non soddisfa più la domanda
per danni fisici e morali
sociale
Il mobbing spesso fa licenziare elementi pro- Per venire incontro alla domanda sociale
duttivi e competenti dell’organizzazione
bisogna aumentare la spesa pubblica e quindi il carico fiscale per tutti (compreso un
aumento del prelievo alle imprese e un
aumento del costo del lavoro)
Se la vittima si licenzia l’azienda deve pagar- Se, per venire incontro alla domanda sociagli la liquidazione
le, si scegliesse di ricorrere alle strutture private di assistenza, questo farebbe aumentare il tasso di inflazione
Sostituire un lavoratore licenziato costa in
media 15.000.000 di lire, fra inserzioni, selezioni, formazione di base ecc.
Riteniamo sia necessario un reale cambiamento nel modo di guardare la maternità e la
paternità al lavoro: “bisogna cambiare filosofia” e cominciare a pensare che, ad esempio, una
donna che torna al lavoro dopo una maternità ed è contenta e motivata porta energia e rende
di più rispetto a una neomamma frustrata e poco considerata. È addirittura Giuseppre
Morandini, di Confindustria, a suggerire la necessità di “nutrire” un cambiamento culturale
nelle aziende: “nelle realtà della piccola industria la maternità è ancora percepita come un
costo. Un costo che nella nostra cultura deve diventare un guadagno perché la maternità è un
patrimonio della società: genera capitale umano, il vero e unico motore per il nostro sviluppo”
(Retico 2004). La citazione è particolarmente rilevante se rapportata alla realtà produttiva della
provincia di Trento, dove sono soprattutto le piccole-medie imprese a crescere sul territorio.
Per quanto riguarda la pubblica amministrazione ci troviamo di fronte ad una realtà lavorativa di tutt’altro genere, ma non per questo meno interessata a produrre cambiamento. Una
rinnovata concezione della madre come risorsa che all’occorrenza può trasformarsi in valore
70
economico per i datori di lavoro e l’attivazione di misure a sostegno dei padri che intendano
affiancare la partner nel difficile lavoro di cura sono obiettivi ambiziosi, ma premianti nel lungo
periodo.
4.7 Soluzioni possibili
Osservando i dati sull’uso dei congedi c’è chi ritiene sia in atto un cambiamento culturale,
ancora poco visibile, ma destinato a crescere, relativo soprattutto ai giovani padri, più presenti e attivi che in passato; c’è chi invece si limita a constatare l’esiguità del fenomeno e la necessità di attivare azioni a sostegno della paternità più incisive sul piano economico, nella convinzione che anche questa possa essere una strada percorribile per ottenere, in un secondo
tempo, risultati migliori sotto il profilo di una crescita culturale. Le ipotesi vanno dall’innalzamento delle indennità per congedo, eventualmente corrisposte senza effettuare la verifica dell’ammontare del reddito individuale, all’estensione dei limiti temporali previsti per il padre,
senza tralasciare l’importanza di un’azione di sensibilizzazione dei datori di lavoro. La visibilità di modelli positivi e una maggiore attenzione su questi da parte dei media potrebbero contribuire ulteriormente ad incentivare l’uso dei congedi da parte dei padri, nonostante qualcuno
ritenga si tratti piuttosto di una libera scelta dell’individuo da maturare all’interno della famiglia.
“[ci vorrebbero degli incentivi] economici: vediamo che laddove c’è la retribuzione per intero, il papà tende ad avvalersi della possibilità di congedo, a meno
che non ci siano gravi problemi. Anche perché se la moglie è casalinga o dipendente presso un altro ente il marito difficilmente sceglie di stare a casa” (D7)
“Potrebbe solo essere un incentivo economico; la scelta comunque è fatta
all’interno del nucleuo familiare. Altra soluzione potrebbe essere quella di
aumentare i mesi del padre” (U4)
“Sarebbe importante la sensibilizzazione da parte di alcuni datori di lavoro, ma
questo è un discorso vecchio” (D6)
“A livello culturale sarebbe utile dare visibilità a chi, già in posizione di prestigio professionale, ha comunque scelto di utilizzare il congedo: potrebbe fungere da ‘modello positivo’ ” (D1)
“I media potrebbero dedicare maggiore attenzione e parlare in termini positivi” (D8)
Gli interventi di carattere sociale possono promuovere il cambiamento in almeno tre modi:
• a livello culturale, affrontando la complessa tematica relativa ai comportamenti che sono
considerati “appropriati” e ridefinendo la “cura dei bambini” come una priorità che
riguarda sia gli uomini che le donne;
• offrendo sostegno e maggiori opportunità a uomini e donne che desiderino introdurre
cambiamenti nella loro vita e nei loro rapporti o che almeno siano interessati ad affrontare questi temi;
• influenzando gli equilibri di potere per quanto riguarda la negoziazione all’interno della
famiglia, dei luoghi di lavoro e negli altri contesti dove può avvenire il cambiamento.
71
La transizione verso un cultura che rifiuta l’inferiorità della donna e ne ritiene necessaria la
promozione accanto alla rivalutazione della paternità e del maschile non più come antagonista
bensì come complice, ruota attorno alla presa di coscienza della discriminazione culturale vissuta dalle donne in quanto donne, e dagli uomini in quanto tipicamente socializzati ad un ruolo
affettivo e di cura marginale; al conseguente rifiuto di tale discriminazione avvertita come profondamente ingiusta; all’individuazione dei nodi culturali, degli orientamenti di valore e dei
comportamentali intorno ai quali tale discriminazione si è costruita e che si fondano sulla divisione sessuale dei ruoli;
all’elaborazione e alla promozione di nuovi valori e orientamenti nel comportamento che,
da una parte, cancellino la discriminazione, dall’altra, positivamente concorrano alla promozione di una “cultura dell’equivalenza”, di una cultura cioè che, pur nella differenza che assolutamente non va negata, riscatta l’uguale valore di donne e di uomini.
Un’azione strutturata a partire da questi quattro assi fondamentali e correttamente declinata sul tema della conciliazione e della tutela della maternità e della paternità, contiene le premesse per un cambiamento radicale ma necessario.
72
5. CONSIDERAZIONI FINALI
Attraverso l’analisi di quanto emerso nel corso delle interviste e dalla lettura dei dati raccolti è possibile trarre alcune semplici conclusioni.
Innanzitutto è nostra precisa intenzione sottolineare che la conciliazione e il lavoro di cura
non riguardano o non dovrebbero riguardare esclusivamente le donne. Ha quasi la forza di un
ammonimento l’affermazione di Chiara Saraceno laddove sostiene che il tema della conciliazione “è cruciale per le donne perché nella pratica quotidiana esse rappresentano lo strumento fondamentale di conciliazione per gli uomini. Bisogna ripensare la questione in questi termini, altrimenti non la risolveremo mai: gli uomini con responsabilità familiari non hanno gli
stessi problemi di conciliazione perché in famiglia continuano a far riferimento a quel ‘naturale’ strumento di conciliazione che sono da sempre le mogli, le madri e le figlie” (2002, 11).
Qualunque politica attuata per favorire la mediazione fra esigenze private e necessità pubbliche non è politica solo per le donne: questa strada purtroppo rischia di condurre in un vicolo
cieco dal quale tuttavia è possibile uscire comprendendo che certamente le donne – in questo
momento – sono quelle che potrebbero avere i maggiori benefici, ma – inevitabilmente e speriamo a breve – le loro esigenze potrebbero essere indifferentemente quelle di donne e uomini. Se i numeri da un lato testimoniano ancora un’esigua partecipazione dei padri al lavoro di
cura e di formazione dei figli, dall’altro sono comunque la prova che un cambiamento c’è stato
e potrebbe svilupparsi positivamente in futuro.
In secondo luogo dobbiamo ricordare che le opportunità offerte dalla legge n. 53 del 2000
sui congedi parentali riguardano una questione complessa, che richiede l’impegno di tutti per
essere compresa e tradotta in azioni realmente positive ed efficaci. La problematica infatti investe più ambiti: da quello strettamente personale, intimo, familiare dei rapporti tra uomo e
donna, alla sfera sociale, all’organizzazione dei servizi, fino alla dimensione organizzativa delle
aziende. Tutto questo fa apparire lontana e irraggiungibile una soluzione che invece si nasconde nello sforzo congiunto fra persone, istituzioni e aziende di percorre strade magari un po’
più brevi e meno ambiziose, ma concrete. Si tratta infatti di temi che toccano non solo gli individui, ma anche la cultura pubblica, politica e sociale.
Per questo occorre affrontare i problemi relativi alla sostenibilità del lavoro di cura innanzitutto parlandone, diffondendo una corretta informazione sulle risorse legislative a disposizione della cittadinanza.
È nell’ottica di un superamento delle barriere culturali e strutturali che torneremo quindi a
trattare il tema della conciliazione e del lavoro di cura: è chiaro infatti che si tratta di questioni aperte sulle quali non basta intervenire legislativamente. Occorre fare un lavoro di formazione e sensibilizzazione capillare, molto delicato, a cui dedicarsi e riservare spazi di discussione
in modo continuativo e mirato.
73
Allegati
TRACCIA DI INTERVISTA
• Ritiene che la legge 53/2000 sia una “buona” legge?
• Quali sono i principali benefici apportati dalla legge per lavoratori e lavoratrici?
• Secondo lei sono diverse le conseguenze che l’applicazione della legge può avere
su lavoratori e lavoratrici in termini di possibilità di lavoro/carriera?
• Quali sono le principali difficoltà incontrate nell’applicazione della legge e/o nella
fruizione dei congedi parentali?
• Secondo lei è una legge sufficientemente conosciuta?
• Ci sono differenza nell’uso dei congedi in base ai settori occupazionali?
• Viene usata/applicata in modo “appropriato”?
• Ci sono delle specificità nell’applicazione della legge nella realtà trentina?
• In che misura i congedi sono richiesti e usati dai padri?
• Perché così poche richieste sono fatte dai padri?
• Quali iniziative potrebbero essere avviate per stimolare un utilizzo maggiore
del congedo anche da parte dei padri?
• Secondo lei ci sono degli aspetti particolari di cui tener conto nella
interpretazione/applicazione della legge?
77
LEGGE 8 MARZO 2000, N. 53
DISPOSIZIONI PER IL SOSTEGNO DELLA MATERNITÁ E DELLA
PATERNITÁ, PER IL DIRITTO ALLA CURA E ALLA FORMAZIONE
E PER IL COORDINAMENTO DEI TEMPI DELLE CITTÁ
madri di bambini nati a decorrere dal 1° gennaio 2000. Alle predette lavoratrici i diritti previsti dal comma 1 dell’articolo 7 e dal comma
2 dell’articolo 15 spettano limitatamente ad
un periodo di tre mesi, entro il primo anno di
vita del bambino”.
Capo I
PRINCIPI GENERALI
Art. 1. (Finalità).
1. La presente legge promuove un equilibrio
tra tempi di lavoro, di cura, di formazione e di
relazione, mediante:
a) l’istituzione dei congedi dei genitori e
l’estensione del sostegno ai genitori di
soggetti portatori di handicap;
b) l’istituzione del congedo per la formazione
continua e l’estensione dei congedi per la
formazione;
c) il coordinamento dei tempi di funzionamento delle città e la promozione dell’uso
del tempo per fini di solidarietà sociale.
2. L’articolo 7 della legge 30 dicembre 1971,
n. 1204, è sostituito dal seguente:
Art. 7. - 1. Nei primi otto anni di vita del bambino ciascun genitore ha diritto di astenersi
dal lavoro secondo le modalità stabilite dal
presente articolo. Le astensioni dal lavoro dei
genitori non possono complessivamente
eccedere il limite di dieci mesi, fatto salvo il
disposto del comma 2 del presente articolo.
Nell’ambito del predetto limite, il diritto di
astenersi dal lavoro compete:
a) alla madre lavoratrice, trascorso il periodo
di astensione obbligatoria di cui all’articolo 4, primo comma, lettera c), della presente legge, per un periodo continuativo o
frazionato non superiore a sei mesi;
b) al padre lavoratore, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei
mesi;
c) qualora vi sia un solo genitore, per un
periodo continuativo o frazionato non
superiore a dieci mesi.
2. Qualora il padre lavoratore eserciti il diritto
di astenersi dal lavoro per un periodo non
inferiore a tre mesi, il limite di cui alla lettera
b) del comma 1 è elevato a sette mesi e il
limite complessivo delle astensioni dal lavoro
dei genitori di cui al medesimo comma è conseguentemente elevato a undici mesi.
3. Ai fini dell’esercizio del diritto di cui al
comma 1, il genitore è tenuto, salvo casi di
oggettiva impossibilità, a preavvisare il datore di lavoro secondo le modalità e i criteri
definiti dai contratti collettivi, e comunque
Art. 2. (Campagne informative).
1. Al fine di diffondere la conoscenza delle
disposizioni della presente legge, il Ministro
per la solidarietà sociale è autorizzato a predisporre, di concerto con il Ministro del lavoro
e della previdenza sociale, apposite campagne informative, nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio destinati allo scopo.
Capo II
CONGEDI PARENTALI, FAMILIARI E
FORMATIVI
Art. 3. (Congedi dei genitori).
1. All’articolo 1 della legge 30 dicembre 1971,
n. 1204, dopo il terzo comma è inserito il
seguente: “Il diritto di astenersi dal lavoro di
cui all’articolo 7, ed il relativo trattamento
economico, sono riconosciuti anche se l’altro
genitore non ne ha diritto. Le disposizioni di
cui al comma 1 dell’articolo 7 e al comma 2
dell’articolo 15 sono estese alle lavoratrici di
cui alla legge 29 dicembre 1987, n. 546,
79
2. Per i periodi di astensione facoltativa di cui
all’articolo 7, comma 1, ai lavoratori e alle
lavoratrici è dovuta:
a) fino al terzo anno di vita del bambino,
un’indennità pari al 30 per cento della retribuzione, per un periodo massimo complessivo tra i genitori di sei mesi; il relativo
periodo, entro il limite predetto, è coperto
da contribuzione figurativa;
b) fuori dei casi di cui alla lettera a), fino al
compimento dell’ottavo anno di vita del
bambino, e comunque per il restante periodo di astensione facoltativa, un’indennità
pari al 30 per cento della retribuzione, nell’ipotesi in cui il reddito individuale dell’interessato sia inferiore a 2,5 volte l’importo
del trattamento minimo di pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria;
il periodo medesimo è coperto da contribuzione figurativa, attribuendo come valore
retributivo per tale periodo il 200 per cento
del valore massimo dell’assegno sociale,
proporzionato ai periodi di riferimento,
salva la facoltà di integrazione da parte dell’interessato, con riscatto ai sensi dell’articolo 13 della legge 12 agosto 1962, n.
1338, ovvero con versamento dei relativi
contributi secondo i criteri e le modalità
della prosecuzione volontaria.
3. Per i periodi di astensione per malattia del
bambino di cui all’articolo 7, comma 4, è
dovuta:
a) fino al compimento del terzo anno di vita
del bambino, la contribuzione figurativa;
b) successivamente al terzo anno di vita del
bambino e fino al compimento dell’ottavo
anno, la copertura contributiva calcolata con
le modalità previste dal comma 2, lettera b).
4. Il reddito individuale di cui al comma 2, lettera b), è determinato secondo i criteri previsti in materia di limiti reddituali per l’integrazione al minimo.
5. Le indennità di cui al presente articolo sono
corrisposte con gli stessi criteri previsti per
l’erogazione delle prestazioni dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie dall’ente
con un periodo di preavviso non inferiore a
quindici giorni.
4. Entrambi i genitori, alternativamente, hanno
diritto, altresì, di astenersi dal lavoro durante
le malattie del bambino di età inferiore a otto
anni ovvero di età compresa fra tre e otto anni,
in quest’ultimo caso nel limite di cinque giorni lavorativi all’anno per ciascun genitore, dietro presentazione di certificato rilasciato da un
medico specialista del Servizio sanitario
nazionale o con esso convenzionato. La malattia del bambino che dia luogo a ricovero ospedaliero interrompe il decorso del periodo di
ferie in godimento da parte del genitore.
5. I periodi di astensione dal lavoro di cui ai
commi 1 e 4 sono computati nell’anzianità di
servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla
tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia.
Ai fini della fruizione del congedo di cui al
comma 4, la lavoratrice ed il lavoratore sono
tenuti a presentare una dichiarazione rilasciata ai sensi dell’articolo 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15, attestante che l’altro genitore
non sia in astensione dal lavoro negli stessi
giorni per il medesimo motivo”.
3. All’articolo 10 della legge 30 dicembre
1971, n. 1204, sono aggiunti, in fine, i seguenti commi: “Ai periodi di riposo di cui al
presente articolo si applicano le disposizioni
in materia di contribuzione figurativa, nonché
di riscatto ovvero di versamento dei relativi
contributi previsti dal comma 2, lettera b),
dell’articolo 15. In caso di parto plurimo, i
periodi di riposo sono raddoppiati e le ore
aggiuntive rispetto a quelle previste dal primo
comma del presente articolo possono essere
utilizzate anche dal padre”.
4. L’articolo 15 della legge 30 dicembre 1971,
n. 1204, è sostituito dal seguente:
“Art. 15. - 1. Le lavoratrici hanno diritto ad
un’indennità giornaliera pari all’80 per cento
della retribuzione per tutto il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro stabilita dagli
articoli 4 e 5 della presente legge. Tale indennità è comprensiva di ogni altra indennità
spettante per malattia.
80
assicuratore della malattia presso il quale la
lavoratrice o il lavoratore è assicurato e non
sono subordinate a particolari requisiti contributivi o di anzianità assicurativa”.
contributi, calcolati secondo i criteri della prosecuzione volontaria.
3. I contratti collettivi disciplinano le modalità di partecipazione agli eventuali corsi di formazione del personale che riprende l’attività
lavorativa dopo la sospensione di cui al
comma 2.
5. Le disposizioni del presente articolo trovano applicazione anche nei confronti dei genitori adottivi o affidatari. Qualora, all’atto dell’adozione o dell’affidamento, il minore abbia
un’età compresa fra sei e dodici anni, il diritto di astenersi dal lavoro, ai sensi dei commi
1 e 2 del presente articolo, può essere esercitato nei primi tre anni dall’ingresso del minore nel nucleo familiare. Nei confronti delle
lavoratrici a domicilio e delle addette ai servizi domestici e familiari, le disposizioni dell’articolo 15 della legge 30 dicembre 1971, n.
1204, come sostituito dal comma 4 del presente articolo, si applicano limitatamente al
comma 1.
4. Entro sessanta giorni dalla data di entrata
in vigore della presente legge, il Ministro per
la solidarietà sociale, con proprio decreto, di
concerto con i Ministri della sanità, del lavoro
e della previdenza sociale e per le pari opportunità, provvede alla definizione dei criteri per
la fruizione dei congedi di cui al presente articolo, all’individuazione delle patologie specifiche ai sensi del comma 2, nonché alla individuazione dei criteri per la verifica periodica
relativa alla sussistenza delle condizioni di
grave infermità dei soggetti di cui al comma 1.
Art. 4.
(Congedi per eventi e cause particolari).
1. La lavoratrice e il lavoratore hanno diritto
ad un permesso retribuito di tre giorni lavorativi all’anno in caso di decesso o di documentata grave infermità del coniuge o di un parente entro il secondo grado o del convivente,
purché la stabile convivenza con il lavoratore
o la lavoratrice risulti da certificazione anagrafica. In alternativa, nei casi di documentata grave infermità, il lavoratore e la lavoratrice possono concordare con il datore di lavoro diverse modalità di espletamento dell’attività lavorativa.
Art. 5. (Congedi per la formazione).
1. Ferme restando le vigenti disposizioni relative al diritto allo studio di cui all’articolo 10
della legge 20 maggio 1970, n. 300, i dipendenti di datori di lavoro pubblici o privati, che
abbiano almeno cinque anni di anzianità di
servizio presso la stessa azienda o amministrazione, possono richiedere una sospensione del rapporto di lavoro per congedi per la
formazione per un periodo non superiore ad
undici mesi, continuativo o frazionato, nell’arco dell’intera vita lavorativa.
2. Per “congedo per la formazione” si intende
quello finalizzato al completamento della
scuola dell’obbligo, al conseguimento del
titolo di studio di secondo grado, del diploma
universitario o di laurea, alla partecipazione
ad attività formative diverse da quelle poste in
essere o finanziate dal datore di lavoro.
2. I dipendenti di datori di lavoro pubblici o
privati possono richiedere, per gravi e documentati motivi familiari, fra i quali le patologie
individuate ai sensi del comma 4, un periodo
di congedo, continuativo o frazionato, non
superiore a due anni. Durante tale periodo il
dipendente conserva il posto di lavoro, non
ha diritto alla retribuzione e non può svolgere
alcun tipo di attività lavorativa. Il congedo non
è computato nell’anzianità di servizio nè ai fini
previdenziali; il lavoratore può procedere al
riscatto, ovvero al versamento dei relativi
3. Durante il periodo di congedo per la formazione il dipendente conserva il posto di lavoro e non ha diritto alla retribuzione. Tale periodo non è computabile nell’anzianità di servizio e non è cumulabile con le ferie, con la
malattia e con altri congedi. Una grave e
81
2. La Contrattazione Collettiva di categoria,
nazionale e decentrata, definisce il monte ore
da destinare ai congedi di cui al presente articolo, i criteri per l’individuazione dei lavoratori e le modalità di orario e retribuzione connesse alla partecipazione ai percorsi di formazione.
documentata infermità, individuata sulla base
dei criteri stabiliti dal medesimo decreto di
cui all’articolo 4, comma 4, intervenuta
durante il periodo di congedo, di cui sia data
comunicazione scritta al datore di lavoro, dà
luogo ad interruzione del congedo medesimo.
4. Il datore di lavoro può non accogliere la
richiesta di congedo per la formazione ovvero
può differirne l’accoglimento nel caso di comprovate esigenze organizzative. I contratti collettivi prevedono le modalità di fruizione del
congedo stesso, individuano le percentuali
massime dei lavoratori che possono avvalersene, disciplinano le ipotesi di differimento o
di diniego all’esercizio di tale facoltà e fissano
i termini del preavviso, che comunque non
può essere inferiore a trenta giorni.
3. Gli interventi formativi che rientrano nei
piani aziendali o territoriali di cui al comma 1
possono essere finanziati attraverso il fondo
interprofessionale per la formazione continua, di cui al regolamento di attuazione del
citato articolo 17 della legge n. 196 del 1997.
4. Le regioni possono finanziare progetti di
formazione dei lavoratori che, sulla base di
accordi contrattuali, prevedano quote di riduzione dell’orario di lavoro, nonché progetti di
formazione presentati direttamente dai lavoratori.
Per le finalità del presente comma è riservata
una quota, pari a lire 30 miliardi annue, del
Fondo per l’occupazione di cui all’articolo 1,
comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993,
n. 148, convertito, con modificazioni, dalla
legge 19 luglio 1993, n. 236. Il Ministro del
lavoro e della previdenza sociale, di concerto
con il Ministro del tesoro, del bilancio e della
programmazione economica, provvede
annualmente, con proprio decreto, a ripartire
fra le regioni la predetta quota, sentita la
Conferenza permanente per i rapporti tra lo
Stato, le regioni e le province autonome di
Trento e di Bolzano.
5. Il lavoratore può procedere al riscatto del
periodo di cui al presente articolo, ovvero al
versamento dei relativi contributi, calcolati
secondo i criteri della prosecuzione volontaria.
Art. 6.
(Congedi per la formazione continua).
1. I lavoratori, occupati e non occupati, hanno
diritto di proseguire i percorsi di formazione
per tutto l’arco della vita, per accrescere
conoscenze e competenze professionali. Lo
Stato, le regioni e gli enti locali assicurano
un’offerta formativa articolata sul territorio e,
ove necessario, integrata, accreditata secondo le disposizioni dell’articolo 17 della legge
24 giugno 1997, n. 196, e successive modificazioni, e del relativo regolamento di attuazione. L’offerta formativa deve consentire percorsi personalizzati, certificati e riconosciuti
come crediti formativi in ambito nazionale ed
europeo. La formazione può corrispondere ad
autonoma scelta del lavoratore ovvero essere
predisposta dall’azienda, attraverso i piani formativi aziendali o territoriali concordati tra le
parti sociali in coerenza con quanto previsto
dal citato articolo 17 della legge n. 196 del
1997, e successive modificazioni.
Art. 7. (Anticipazione del trattamento di fine
rapporto).
1. Oltre che nelle ipotesi di cui all’articolo
2120, ottavo comma, del codice civile, il trattamento di fine rapporto può essere anticipato ai fini delle spese da sostenere durante i
periodi di fruizione dei congedi di cui all’articolo 7, comma 1, della legge 30 dicembre
1971, n. 1204, come sostituito dall’articolo 3,
comma 2, della presente legge, e di cui agli
articoli 5 e 6 della presente legge.
82
Capo III
L’anticipazione è corrisposta unitamente alla
retribuzione relativa al mese che precede la
data di inizio del congedo. Le medesime
disposizioni si applicano anche alle domande
di anticipazioni per indennità equipollenti al
trattamento di fine rapporto, comunque
denominate, spettanti a lavoratori dipendenti
di datori di lavoro pubblici e privati.
FLESSIBILITÀ DI ORARIO
Art. 9. (Misure a sostegno della flessibilità
di orario).
1. Al fine di promuovere e incentivare forme
di articolazione della prestazione lavorativa
volte a conciliare tempo di vita e di lavoro,
nell’ambito del Fondo per l’occupazione di cui
all’articolo 1, comma 7, del decreto-legge 20
maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236, è
destinata una quota fino a lire 40 miliardi
annue a decorrere dall’anno 2000, al fine di
erogare contributi, di cui almeno il 50 per
cento destinato ad imprese fino a cinquanta
dipendenti, in favore di aziende che applichino accordi contrattuali che prevedono azioni
positive per la flessibilità, ed in particolare:
a) progetti articolati per consentire alla lavoratrice madre o al lavoratore padre, anche
quando uno dei due sia lavoratore autonomo, ovvero quando abbiano in affidamento o in adozione un minore, di usufruire di
particolari forme di flessibilità degli orari e
dell’organizzazione del lavoro, tra cui part
time reversibile, telelavoro e lavoro a
domicilio, orario flessibile in entrata o in
uscita, banca delle ore, flessibilità sui
turni, orario concentrato, con priorità per i
genitori che abbiano bambini fino ad otto
anni di età o fino a dodici anni, in caso di
affidamento o di adozione;
b) programmi di formazione per il reinserimento dei lavoratori dopo il periodo di
congedo;
c) progetti che consentano la sostituzione del
titolare di impresa o del lavoratore autonomo, che benefici del periodo di astensione
obbligatoria o dei congedi parentali, con
altro imprenditore o lavoratore autonomo.
2. Gli statuti delle forme pensionistiche complementari di cui al decreto legislativo 21
aprile 1993, n. 124, e successive modificazioni, possono prevedere la possibilità di conseguire, ai sensi dell’articolo 7, comma 4, del
citato decreto legislativo n. 124 del 1993,
un’anticipazione delle prestazioni per le spese
da sostenere durante i periodi di fruizione dei
congedi di cui agli articoli 5 e 6 della presente legge.
3. Con decreto del Ministro per la funzione
pubblica, di concerto con i Ministri del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, del lavoro e della previdenza sociale
e per la solidarietà sociale, sono definite le
modalità applicative delle disposizioni del
comma 1 in riferimento ai dipendenti delle
pubbliche amministrazioni.
Art. 8.
(Prolungamento dell’età pensionabile).
1. I soggetti che usufruiscono dei congedi
previsti dall’articolo 5, comma 1, possono, a
richiesta, prolungare il rapporto di lavoro di
un periodo corrispondente, anche in deroga
alle disposizioni concernenti l’età di pensionamento obbligatoria. La richiesta deve essere comunicata al datore di lavoro con un preavviso non inferiore a sei mesi rispetto alla
data prevista per il pensionamento.
2. Con decreto del Ministro del lavoro e della
previdenza sociale, di concerto con i Ministri
per la solidarietà sociale e per le pari opportunità, sono definiti i criteri e le modalità per la
concessione dei contributi di cui al comma 1.
83
Capo IV
di astensione obbligatoria prima del parto
vengono aggiunti al periodo di astensione
obbligatoria dopo il parto. La lavoratrice è
tenuta a presentare, entro trenta giorni, il certificato attestante la data del parto”.
ULTERIORI DISPOSIZIONI A SOSTEGNO
DELLA MATERNITÀ E DELLA PATERNITÀ
Art. 10.
(Sostituzione di lavoratori in astensione).
Art. 12.
(Flessibilità dell’astensione obbligatoria).
1. L’assunzione di lavoratori a tempo determinato in sostituzione di lavoratori in astensione obbligatoria o facoltativa dal lavoro ai
sensi della legge 30 dicembre 1971, n. 1204,
come modificata dalla presente legge, può
avvenire anche con anticipo fino ad un mese
rispetto al periodo di inizio dell’astensione,
salvo periodi superiori previsti dalla
Contrattazione Collettiva.
1. Dopo l’articolo 4 della legge 30 dicembre
1971, n. 1204, è inserito il seguente:
“Art. 4-bis. - 1. Ferma restando la durata
complessiva dell’astensione dal lavoro, le
lavoratrici hanno la facoltà di astenersi dal
lavoro a partire dal mese precedente la data
presunta del parto e nei quattro mesi successivi al parto, a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con
esso convenzionato e il medico competente ai
fini della prevenzione e tutela della salute nei
luoghi di lavoro attestino che tale opzione non
arrechi pregiudizio alla salute della gestante e
del nascituro”.
2. Nelle aziende con meno di venti dipendenti, per i contributi a carico del datore di lavoro
che assume lavoratori con contratto a tempo
determinato in sostituzione di lavoratori in
astensione ai sensi degli articoli 4, 5 e 7 della
legge 30 dicembre 1971, n. 1204, come
modificati dalla presente legge, è concesso
uno sgravio contributivo del 50 per cento. Le
disposizioni del presente comma trovano
applicazione fino al compimento di un anno di
età del figlio della lavoratrice o del lavoratore
in astensione e per un anno dall’accoglienza
del minore adottato o in affidamento.
2. Il Ministro del lavoro e della previdenza
sociale, di concerto con i Ministri della sanità
e per la solidarietà sociale, sentite le parti
sociali, definisce, con proprio decreto da
emanare entro sei mesi dalla data di entrata in
vigore della presente legge, l’elenco dei lavori ai quali non si applicano le disposizioni dell’articolo 4-bis della legge 30 dicembre 1971,
n. 1204, introdotto dal comma 1 del presente
articolo.
3. Nelle aziende in cui operano lavoratrici
autonome di cui alla legge 29 dicembre 1987,
n. 546, è possibile procedere, in caso di
maternità delle suddette lavoratrici, e comunque entro il primo anno di età del bambino o
nel primo anno di accoglienza del minore
adottato o in affidamento, all’assunzione di un
lavoratore a tempo determinato, per un periodo massimo di dodici mesi, con le medesime
agevolazioni di cui al comma 2.
3. Il Ministro del lavoro e della previdenza
sociale, di concerto con i Ministri della sanità
e per la solidarietà sociale, provvede, entro
sei mesi dalla data di entrata in vigore della
presente legge, ad aggiornare l’elenco dei
lavori pericolosi, faticosi ed insalubri di cui
all’articolo 5 del decreto del Presidente della
Repubblica 25 novembre 1976, n. 1026.
Art. 11. (Parti prematuri).
1. All’articolo 4 della legge 30 dicembre 1971,
n. 1204, sono aggiunti, in fine, i seguenti
commi:
“Qualora il parto avvenga in data anticipata
rispetto a quella presunta, i giorni non goduti
Art. 13.
(Astensione dal lavoro del padre lavoratore).
1. Dopo l’articolo 6 della legge 9 dicembre
1977, n. 903, sono inseriti i seguenti:
84
“Art. 6-bis. - 1. Il padre lavoratore ha diritto di
astenersi dal lavoro nei primi tre mesi dalla
nascita del figlio, in caso di morte o di grave
infermità della madre ovvero di abbandono,
nonché in caso di affidamento esclusivo del
bambino al padre.
Art. 15. (Testo unico).
1. Al fine di conferire organicità e sistematicità alle norme in materia di tutela e sostegno
della maternità e della paternità, entro dodici
mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Governo è delegato ad emanare un decreto legislativo recante il testo unico
delle disposizioni legislative vigenti in materia, nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri
direttivi:
a) puntuale individuazione del testo vigente
delle norme;
b) esplicita indicazione delle norme abrogate,
anche implicitamente, da successive
disposizioni;
c) coordinamento formale del testo delle
disposizioni vigenti, apportando, nei limiti
di detto coordinamento, le modifiche
necessarie per garantire la coerenza logica
e sistematica della normativa, anche al fine
di adeguare e semplificare il linguaggio
normativo;
d) esplicita indicazione delle disposizioni, non
inserite nel testo unico, che restano
comunque in vigore;
e) esplicita abrogazione di tutte le rimanenti
disposizioni, non richiamate, con espressa
indicazione delle stesse in apposito allegato al testo unico;
f) esplicita abrogazione delle norme secondarie incompatibili con le disposizioni legislative raccolte nel testo unico.
2. Il padre lavoratore che intenda avvalersi
del diritto di cui al comma 1 presenta al datore di lavoro la certificazione relativa alle condizioni ivi previste. In caso di abbandono, il
padre lavoratore ne rende dichiarazione ai
sensi dell’articolo 4 della legge 4 gennaio
1968, n. 15.
3. Si applicano al padre lavoratore le disposizioni di cui agli articoli 6 e 15, commi 1 e 5,
della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, e successive modificazioni.
4. Al padre lavoratore si applicano altresì le
disposizioni di cui all’articolo 2 della legge 30
dicembre 1971, n. 1204, e successive modificazioni, per il periodo di astensione dal lavoro di cui al comma 1 del presente articolo e
fino al compimento di un anno di età del bambino.
Art. 6-ter. - 1. I periodi di riposo di cui all’articolo 10 della legge 30 dicembre 1971, n.
1204, e successive modificazioni, e i relativi
trattamenti economici sono riconosciuti al
padre lavoratore:
a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo
padre;
b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga;
c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice
dipendente”.
Art. 14. (Estensione di norme a specifiche
categorie di lavoratrici madri).
2. Lo schema del decreto legislativo di cui al
comma 1 è deliberato dal Consiglio dei ministri ed è trasmesso, con apposita relazione
cui è allegato il parere del Consiglio di Stato,
alle competenti Commissioni parlamentari
permanenti, che esprimono il parere entro
quarantacinque giorni dall’assegnazione.
1. I benefici previsti dal primo periodo del
comma 1 dell’articolo 13 della legge 7 agosto
1990, n. 232, sono estesi, dalla data di entrata in vigore della presente legge, anche alle
lavoratrici madri appartenenti ai corpi di polizia municipale.
3. Entro un anno dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo di cui al comma 1
possono essere emanate, nel rispetto dei
princìpi e criteri direttivi di cui al medesimo
comma 1 e con le modalità di cui al comma 2,
disposizioni correttive del testo unico.
85
Art. 16.
(Statistiche ufficiali sui tempi di vita).
1. L’Istituto nazionale di statistica (ISTAT)
assicura un flusso informativo quinquennale
sull’organizzazione dei tempi di vita della
popolazione attraverso la rilevazione sull’uso
del tempo, disaggregando le informazioni per
sesso e per età.
2. La richiesta di dimissioni presentata dalla
lavoratrice o dal lavoratore durante il primo
anno di vita del bambino o nel primo anno di
accoglienza del minore adottato o in affidamento deve essere convalidata dal Servizio
ispezione della direzione provinciale del lavoro.
Art. 17. (Disposizioni diverse).
1. Nei casi di astensione dal lavoro disciplinati dalla presente legge, la lavoratrice e il lavoratore hanno diritto alla conservazione del
posto di lavoro e, salvo che espressamente vi
rinuncino, al rientro nella stessa unità produttiva ove erano occupati al momento della
richiesta di astensione o di congedo o in altra
ubicata nel medesimo comune; hanno altresì
diritto di essere adibiti alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti.
MODIFICHE ALLA LEGGE 5 FEBBRAIO
1992, N. 104
Capo V
Art. 19. (Permessi per l’assistenza a portatori di handicap).
1. All’articolo 33 della legge 5 febbraio 1992,
n. 104, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al comma 3, dopo le parole: “permesso
mensile” sono inserite le seguenti: “coperti da contribuzione figurativa”;
b) al comma 5, le parole: “, con lui convivente,” sono soppresse;
c) al comma 6, dopo le parole: “può usufruire” è inserita la seguente: “alternativamente”.
2. All’articolo 2 della legge 30 dicembre 1971,
n. 1204, è aggiunto, in fine, il seguente
comma: “Al termine del periodo di interdizione dal lavoro previsto dall’articolo 4 della presente legge le lavoratrici hanno diritto, salvo
che espressamente vi rinuncino, di rientrare
nella stessa unità produttiva ove erano occupate all’inizio del periodo di gestazione o in
altra ubicata nel medesimo comune, e di permanervi fino al compimento di un anno di età
del bambino; hanno altresì diritto di essere
adibite alle mansioni da ultimo svolte o a
mansioni equivalenti”.
Art. 20. (Estensione delle agevolazioni per
l’assistenza a portatori di handicap).
1. Le disposizioni dell’articolo 33 della legge
5 febbraio 1992, n. 104, come modificato dall’articolo 19 della presente legge, si applicano
anche qualora l’altro genitore non ne abbia
diritto nonché ai genitori ed ai familiari lavoratori, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assistono con continuità e in via
esclusiva un parente o un affine entro il terzo
grado portatore di handicap, ancorché non
convivente.
3. I contratti collettivi di lavoro possono prevedere condizioni di maggior favore rispetto a
quelle previste dalla presente legge.
4. Sono abrogate le disposizioni legislative
incompatibili con la presente legge ed in particolare l’articolo 7 della legge 9 dicembre
1977, n. 903.
Capo VI
NORME FINANZIARIE
Art. 21. (Copertura finanziaria).
1. All’onere derivante dall’attuazione delle
disposizioni degli articoli da 3 a 20, esclusi gli
articoli 6 e 9, della presente legge, valutato in
Art. 18. (Disposizioni in materia di recesso).
1. Il licenziamento causato dalla domanda o
dalla fruizione del congedo di cui agli articoli
3, 4, 5, 6 e 13 della presente legge è nullo.
86
compiti consultivi in ordine al coordinamento
degli orari delle città e per la valutazione degli
effetti sulle comunità locali dei piani territoriali degli orari.
lire 298 miliardi annue a decorrere dall’anno
2000, si provvede, quanto a lire 273 miliardi
annue a decorrere dall’anno 2000, mediante
corrispondente riduzione dell’autorizzazione
di spesa di cui all’articolo 3 del decreto-legge
20 gennaio 1998, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 marzo 1998, n. 52,
concernente il Fondo per l’occupazione;
quanto a lire 25 miliardi annue a decorrere
dall’anno 2000, mediante corrispondente
riduzione dell’autorizzazione di spesa di cui
all’articolo 1 della legge 28
agosto 1997, n. 285.
4. Nell’ambito delle proprie competenze in
materia di formazione professionale, le regioni promuovono corsi di qualificazione e riqualificazione del personale impiegato nella progettazione dei piani territoriali degli orari e nei
progetti di riorganizzazione dei servizi.
5. Le leggi regionali di cui al comma 1 indicano:
a) criteri generali di amministrazione e coordinamento degli orari di apertura al pubblico dei servizi pubblici e privati, degli uffici
della pubblica amministrazione, dei pubblici esercizi commerciali e turistici, delle attività culturali e dello spettacolo, dei trasporti;
b) i criteri per l’adozione dei piani territoriali
degli orari;
c) criteri e modalità per la concessione ai
comuni di finanziamenti per l’adozione dei
piani territoriali degli orari e per la costituzione di banche dei tempi, con priorità per
le iniziative congiunte dei comuni con
popolazione non superiore a 30.000 abitanti.
2. Il Ministro del tesoro, del bilancio e della
programmazione economica è autorizzato ad
apportare, con propri decreti, le occorrenti
variazioni di bilancio.
Capo VII
TEMPI DELLE CITTÀ
Art. 22. (Compiti delle regioni).
1. Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge le regioni definiscono,
con proprie leggi, ai sensi dell’articolo 36,
comma 3, della legge 8 giugno 1990, n. 142,
e successive modificazioni, qualora non vi
abbiano già provveduto, norme per il coordinamento da parte dei comuni degli orari degli
esercizi commerciali, dei servizi pubblici e
degli uffici periferici delle amministrazioni
pubbliche, nonché per la promozione dell’uso
del tempo per fini di solidarietà sociale,
secondo i principi del presente capo.
6. Le regioni a statuto speciale e le province
autonome di Trento e di Bolzano provvedono
secondo le rispettive competenze.
Art. 23. (Compiti dei comuni).
1. I comuni con popolazione superiore a
30.000 abitanti attuano, singolarmente o in
forma associata, le disposizioni dell’articolo
36, comma 3, della legge 8 giugno 1990, n.
142, e successive modificazioni, secondo le
modalità stabilite dal presente capo, nei tempi
indicati dalle leggi regionali di cui all’articolo
22, comma 1, e comunque non oltre un anno
dalla data di entrata in vigore della presente
legge.
2. Le regioni prevedono incentivi finanziari
per i comuni, anche attraverso l’utilizzo delle
risorse del Fondo di cui all’articolo 28, ai fini
della predisposizione e dell’attuazione dei
piani territoriali degli orari di cui all’articolo
24 e della costituzione delle banche dei tempi
di cui all’articolo 27.
3. Le regioni possono istituire comitati tecnici, composti da esperti in materia di progettazione urbana, di analisi sociale, di comunicazione sociale e di gestione organizzativa, con
2. In caso di inadempimento dell’obbligo di
cui al comma 1, il presidente della giunta
87
regionale nomina un commissario ad acta. 3.
I comuni con popolazione non superiore a
30.000 abitanti possono attuare le disposizioni del presente capo in forma associata.
guare l’azione dei singoli assessorati alle
scelte in esso contenute. Il piano è attuato
con ordinanze del sindaco.
Art. 25. (Tavolo di concertazione).
1. Per l’attuazione e la verifica dei progetti
contenuti nel piano di cui all’articolo 24, il sindaco istituisce un tavolo di concertazione, cui
partecipano:
a) il sindaco stesso o, per suo incarico, il
responsabile di cui all’articolo 24, comma 2;
b) il prefetto o un suo rappresentante;
c) il presidente della provincia o un suo rappresentante;
d) i presidenti delle comunità montane o loro
rappresentanti;
e) un dirigente per ciascuna delle pubbliche
amministrazioni non statali coinvolte nel
piano;
f) rappresentanti sindacali degli imprenditori
della grande, media e piccola impresa, del
commercio, dei servizi, dell’artigianato e
dell’agricoltura;
g) rappresentanti sindacali dei lavoratori;
h) il provveditore agli studi ed i rappresentanti delle università presenti nel territorio;
i) i presidenti delle aziende dei trasporti urbani ed extraurbani, nonché i rappresentanti
delle aziende ferroviarie.
Art. 24. (Piano territoriale degli orari).
1. Il piano territoriale degli orari, di seguito
denominato “piano”, realizza le finalità di cui
all’articolo 1, comma 1, lettera c), ed è strumento unitario per finalità ed indirizzi, articolato in progetti, anche sperimentali, relativi al
funzionamento dei diversi sistemi orari dei
servizi urbani e alla loro graduale armonizzazione e coordinamento.
2. I comuni con popolazione superiore a
30.000 abitanti sono tenuti ad individuare un
responsabile cui è assegnata la competenza
in materia di tempi ed orari e che partecipa
alla conferenza dei dirigenti, ai sensi della
legge 8 giugno 1990, n. 142, e successive
modificazioni.
3. I comuni con popolazione non superiore a
30.000 abitanti possono istituire l’ufficio di
cui al comma 2 in forma associata.
4. Il sindaco elabora le linee guida del piano. A
tale fine attua forme di consultazione con le
amministrazioni pubbliche, le parti sociali, nonché le associazioni previste dall’articolo 6 della
legge 8 giugno 1990, n. 142, e successive
modificazioni, e le associazioni delle famiglie.
2. Per l’attuazione del piano di cui all’articolo
24, il sindaco promuove accordi con i soggetti pubblici e privati di cui al comma 1.
5. Nell’elaborazione del piano si tiene conto
degli effetti sul traffico, sull’inquinamento e
sulla qualità della vita cittadina degli orari di
lavoro pubblici e privati, degli orari di apertura al pubblico dei servizi pubblici e privati,
degli uffici periferici delle amministrazioni
pubbliche, delle attività commerciali, ferme
restando le disposizioni degli articoli da 11 a
13 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n.
114, nonché delle istituzioni formative, culturali e del tempo libero.
3. In caso di emergenze o di straordinarie
necessità dell’utenza o di gravi problemi connessi al traffico e all’inquinamento, il sindaco
può emettere ordinanze che prevedano modificazioni degli orari.
4. Le amministrazioni pubbliche, anche territoriali, sono tenute ad adeguare gli orari di
funzionamento degli uffici alle ordinanze di
cui al comma 3.
5. I comuni capoluogo di provincia sono
tenuti a concertare con i comuni limitrofi,
attraverso la conferenza dei sindaci, la riorganizzazione territoriale degli orari. Alla confe-
6. Il piano è approvato dal consiglio comunale su proposta del sindaco ed è vincolante per
l’amministrazione comunale, che deve ade88
renza partecipa un rappresentante del presidente della provincia.
singoli cittadini o della comunità locale. Tali
prestazioni devono essere compatibili con gli
scopi statutari delle banche dei tempi e non
devono costituire modalità di esercizio delle
attività istituzionali degli enti locali.
Art. 26.
(Orari della pubblica amministrazione).
1. Le articolazioni e le scansioni degli orari di
apertura al pubblico dei servizi della pubblica
amministrazione devono tenere conto delle
esigenze dei cittadini che risiedono, lavorano
ed utilizzano il territorio di riferimento.
Art. 28. (Fondo per l’armonizzazione dei
tempi delle città).
1. Nell’elaborare le linee guida del piano di cui
all’articolo 24, il sindaco prevede misure per
l’armonizzazione degli orari che contribuiscano, in linea con le politiche e le misure nazionali, alla riduzione delle emissioni di gas
inquinanti nel settore dei trasporti. Dopo l’approvazione da parte del consiglio comunale, i
piani sono comunicati alle regioni, che li trasmettono al Comitato interministeriale per la
programmazione economica (CIPE) indicandone, ai soli fini del presente articolo, l’ordine
di priorità.
2. Il piano di cui all’articolo 24, ai sensi del
decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e
successive modificazioni, può prevedere
modalità ed articolazioni differenziate degli
orari di apertura al pubblico dei servizi della
pubblica amministrazione.
3. Le pubbliche amministrazioni, attraverso
l’informatizzazione dei relativi servizi, possono garantire prestazioni di informazione
anche durante gli orari di chiusura dei servizi
medesimi e, attraverso la semplificazione
delle procedure, possono consentire agli
utenti tempi di attesa più brevi e percorsi più
semplici per l’accesso ai servizi.
2. Per le finalità del presente articolo è istituito un Fondo per l’armonizzazione dei tempi
delle città, nel limite massimo di lire 15
miliardi annue a decorrere dall’anno 2001.
Alla ripartizione delle predette risorse provvede il CIPE, sentita la Conferenza unificata di
cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28
agosto 1997, n. 281.
Art. 27. (Banche dei tempi).
1. Per favorire lo scambio di servizi di vicinato,
per facilitare l’utilizzo dei servizi della città e il
rapporto con le pubbliche amministrazioni, per
favorire l’estensione della solidarietà nelle
comunità locali e per incentivare le iniziative di
singoli e gruppi di cittadini, associazioni, organizzazioni ed enti che intendano scambiare
parte del proprio tempo per impieghi di reciproca solidarietà e interesse, gli enti locali possono sostenere e promuovere la costituzione di
associazioni denominate “banche dei tempi”.
3. Le regioni iscrivono le somme loro attribuite in un apposito capitolo di bilancio, nel
quale confluiscono altresì eventuali risorse
proprie, da utilizzare per spese destinate ad
agevolare l’attuazione dei progetti inclusi nel
piano di cui all’articolo 24 e degli interventi di
cui all’articolo 27.
4. I contributi di cui al comma 3 sono concessi prioritariamente per:
a) associazioni di comuni;
b) progetti presentati da comuni che abbiano
attivato forme di coordinamento e cooperazione con altri enti locali per l’attuazione
di specifici piani di armonizzazione degli
orari dei servizi con vasti bacini di utenza;
interventi attuativi degli accordi di cui all’articolo 25, comma 2.
2. Gli enti locali, per favorire e sostenere le
banche dei tempi, possono disporre a loro
favore l’utilizzo di locali e di servizi e organizzare attività di promozione, formazione e
informazione. Possono altresì aderire alle
banche dei tempi e stipulare con esse accordi che prevedano scambi di tempo da destinare a prestazioni di mutuo aiuto a favore di
89
5. La Conferenza unificata di cui all’articolo 8
del decreto legislativo 28 agosto 1997, n.
281, è convocata ogni anno, entro il mese di
febbraio, per l’esame dei risultati conseguiti
attraverso l’impiego delle risorse del Fondo di
cui al comma 2 e per la definizione delle linee
di intervento futuro. Alle relative riunioni sono
invitati i Ministri del lavoro e della previdenza
sociale, per la solidarietà sociale, per la funzione pubblica, dei trasporti e della navigazione e dell’ambiente, il presidente della società
Ferrovie dello Stato spa, nonché i rappresentanti delle associazioni ambientaliste e del
volontariato, delle organizzazioni sindacali e
di categoria.
6. Il Governo, entro il mese di luglio di ogni
anno e sulla base dei lavori della Conferenza
di cui al comma 5, presenta al Parlamento
una relazione sui progetti di riorganizzazione
dei tempi e degli orari delle città.
7. All’onere derivante dall’istituzione del
Fondo di cui al comma 2 si provvede mediante utilizzazione delle risorse di cui all’articolo
8, comma 10, lettera f), della legge 23 dicembre 1998, n. 448.
La presente legge, munita del sigillo dello
Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale
degli atti normativi della Repubblica italiana.
E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.
90
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94
Finito di stampare
nel mese di Novembre 2005
dalla Litografica Editrice Saturnia
in Roncafort di Trento
COMMISSIONE PROVINCIALE PER LE PARI OPPORTUNITÀ
TRA UOMO E DONNA
ATTI del CONVEGNO
La Commissione Provinciale per le Pari Opportunità è stata istituita nel 1993 (L.P.
10/12/1993 n. 41). La Commissione ha il compito di promuovere azioni positive per sostenere le donne a concorrere con le stesse opportunità degli uomini ad apportare il proprio contributo allo sviluppo della nostra società, ad esprimere le proprie potenzialità e creatività, a
lasciare la propria impronta ed a trasmettere la propria esperienza nel corso della vita; è dunque impegnata su molti fronti che spaziano dalla formazione, agli interventi relativi alla vita
personale nei suoi molteplici aspetti (il campo relazionale, affettivo e sessuale, la salute, la
maternità e la paternità, la famiglia e la cultura), alla vita lavorativa (negli innumerevoli settori
e a tutti i livelli), alla vita politica, sociale, ecc…
CONGEDI PARENTALI:
Quando la cura della
famiglia è realmente
condivisa fra mamma
e papà
Dalla sua costituzione sono stati realizzati numerosi progetti inerenti la realtà femminile rivolti a tutte le donne, quelle che si occupano della propria famiglia, quelle che lavorano fuori casa in
ambiti e a vari livelli, quelle che, straniere, cercano di inserirsi nella nostra comunità e, naturalmente, le giovani donne. Inoltre, sono stati realizzati momenti divulgativi per tutta la collettività.
La Commissione ha sede presso gli uffici della Provincia Autonoma di Trento
in via XXIV Maggio, 2 - 38100 Trento - tel. 0461.496.276 - fax 0461.496.288
e-mail: [email protected] - www.pariopportunita.provincia.tn.it
Trento, 8 marzo 2005
CONGEDI PARENTALI
L’attuale Commissione è stata nominata dalla Giunta provinciale nel marzo del 2004 e
rimarrà in carica fino al termine della legislatura; è composta da quindici donne: dodici, elette
dalle Associazioni, provengono da svariate culture ed esperienze della realtà femminile trentina, tre sono esperte di nomina diretta provinciale.
Rapporto di ricerca
L’USO dei CONGEDI PARENTALI
nella PROVINCIA di TRENTO
CONSIGLIERA DI PARITA’
La Consigliera di Parità intraprende ogni utile iniziativa ai fini del rispetto del principio di non
discriminazione e della promozione di pari opportunità per donne e uomini nel mondo del lavoro.
La Consigliera di Parità è gratuitamente a disposizione delle persone che necessitano di
informazioni, o ritengono di subire una discriminazione di genere nell’ambito lavorativo.
Tel. 0461/496256 - fax 0461/496288
e-mail: [email protected] - www.pariopportunita.provincia.tn.it
Commissione provinciale Pari Opportunità tra uomo e donna
a cura di Barbara Poggio e Michela Cozza
La Consigliera di Parità è la figura istituzionale preposta ad intervenire in modo specifico
sulle tematiche delle Pari Opportunità tra uomo e donna legate al mondo del lavoro.
Tale figura svolge funzioni di promozione e controllo sull’attuazione dei principi di uguaglianza di opportunità e non discriminazione per lavoratrici e lavoratori: è un organo di garanzia e vigilanza sul rispetto della legislazioni di parità operante a livello nazionale, regionale e
provinciale; promuove azioni positive a favore dell’inserimento e della permanenza delle donne
nel mondo del lavoro e ha la possibilità di agire in giudizio contro qualsiasi discriminazione,
diretta o indiretta, individuale o collettiva (L. 125/91; d.lgs. 196/2000).
Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale
Provincia Autonoma di Trento
Commissione Provinciale Pari Opportunità tra uomo e donna
2005
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