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DOVE ERAVAMO RIMASTI?

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DOVE ERAVAMO RIMASTI?
MENSILE N.4 APRILE 2015 € 3,50
fondazione ente™
dello spettacolo
Speciale
A CHI PIACE
MUSICAL
120 ANNI DI
CINEMA
Il genere più amato dagli
americani. Da Minnelli a
Pitch Perfect 2
I Lumière e l’Italia
muta. Il selvaggio
West e le Nouvelles
Vagues. Una lunga
storia di innovazioni
tecnologiche
ANTEPRIMA
Run All Night,
Liam Neeson
eroe action per
Collet-Serra
Tom Hardy nel
cult di George
Miller. In
anteprima a
Cannes
Poste Italiane SpA - Sped. in Abb. Post. - D.I. 353/2003
(conv. in L. 27.02.2004, n° 46), art. 1, comma 1, DCB Milano
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DOVE ERAVAMO
RIMASTI?
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Typewriter Edition
Bret Easton Ellis, Los Angeles.
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
Punti di vista
Nuova serie - Anno 85 n. 4 aprile 2015
In copertina Tom Hardy in Mad Max: Fury Road
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Buona la prima
DIRETTORE RESPONSABILE
Ivan Maffeis
Nel suo esordio poteva essere scambiato con una sorta di
reportage cronachistico, un’inedita modalità di documentazione,
l’alternativa al tempo che dilapida le tracce dell’umana memoria.
Iniziava ad avverarsi il sogno non soltanto di fermare l’istante e
²VVDUORVXXQVXSSRUWRPDSHU²QRGLSRWHUORULSURGXUUHQHOVXR
divenire: immagini in movimento, per l’appunto.
Ma l’arte non è duplicazione dell’esistente. La nuova possibilità
narrativa subito se ne rivela costruzione articolata: già nel cinema
muto è scuola di creatività espressiva, linguaggio che per molti
versi supera la forza della parola. L’introduzione del montaggio
vedrà il regista comporre frammenti per giungere a un intero:
verosimiglianza e credibilità non impediscono di cogliere che l’opera
è altro rispetto a una semplice restituzione delle cose.
CAPOREDATTORE
Marina Sanna
REDAZIONE
Gianluca Arnone, Federico Pontiggia, Valerio
Sammarco
CONTATTI
[email protected]
ART DIRECTOR
Alessandro Palmieri
HANNO COLLABORATO
Alberto Barbera, Angela Bosetto, Orio Caldiron,
Gianluigi Ceccarelli, Andrea Chimento,
Alessandro De Simone, Bruno Fornara,
Gianfrancesco Iacono, Emanuela Martini, Massimo
Monteleone, Franco Montini, Giuliana Muscio,
Roberto Nepoti, Mattia Pasquini, Manuela Pinetti,
Marco Spagnoli, Chiara Supplizi
REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE DI ROMA
N. 380 del 25 luglio 1986
Iscrizione al R.O.C. n. 15183 del 21/05/2007
STAMPA
7LSRJUD²D6753UHVV6UO9LD&DUSL
Pomezia (RM)
Finita di stampare nel mese di marzo 2015
MARKETING E ADVERTISING
(XUHND6UO9LD/6RGHULQL0LODQR
Tel. 02-83427030 Fax: 02-83427032 Cell. 335-5428.710
e-mail: [email protected]
DISTRIBUTORE ESCLUSIVO
ME.PE. Milano
ABBONAMENTI
ABBONAMENTO PER L’ITALIA (10 numeri) 30,00 euro
ABBONAMENTO PER L’ESTERO (10 numeri) 110 euro
C/C 80950827 - Intestato a Fondazione Ente dello Spettacolo
PER ABBONARSI
[email protected]
Tel. 06.96.519.200
PROPRIETA’ ED EDITORE
PRESIDENTE
Ivan Maffeis
DIRETTORE
Antonio Urrata
UFFICIO STAMPA
XI²FLRVWDPSD#HQWHVSHWWDFRORRUJ
&2081,&$=,21((69,/8332
Franco Conta - [email protected]
COORDINAMENTO SEGRETERIA
Marisa Meoni - [email protected]
DIREZIONE E AMMINISTRAZIONE
9LD$XUHOLD5RPD
Tel. 06.96.519.200 - Fax 06.96.519.220
[email protected]
Ben Kingsley in
Hugo Cabret di
Martin Scorsese
Dall’esterno all’interno: il cinema moderno ci consegna il
ripensamento – e il mescolamento – dei generi; introspezione
e sguardo sulla situazione interiore dei
personaggi portano a sottolineare la
centralità dell’autore, con il suo progetto dalla
chiara funzione ideologica ed educativa.
*OLDQQLGL²QHVHFRORUHJLVWUDQRLOFDORGHOOH
presenze in sala a vantaggio del consumo
televisivo. Sul costo delle produzioni non
arriva alcun soccorso dalla stanchezza della
SURSRVWDFKHVSRVDODVHULDOLWjGL²OPHYHQWL
che non si chiudono mai, contenitori ripetitivi
di elementi disomogenei. A risalire la china
non basta il ricorso alla scorciatoia degli
effetti speciali.
Il presente parla digitale, rivoluzione che attraversa la produzione, la
GLVWULEX]LRQHHODVWHVVDIUXL]LRQHGHO²OP
Cambiano tante cose in centovent’anni. O forse nulla, se si
accosta il cinema come uno strumento di fascinazione, capace di
prendere per mano lo spettatore e di coinvolgerlo in una storia, in
valori ed emozioni, in un punto di vista diverso, dove il reale si fa
prolungamento di ciò che la pellicola racconta. E, poi, la forza di quel
suo consumo non più individuale, ma collettivo…
Per discuterne la redazione della Rivista ha chiesto il contributo di
²UPHTXDOL²FDWHFKHQHOORVSHFLDOHGLTXHVWRQXPHURFLDLXWDQR
a risalire fotogrammi che raccontano di innovazioni tecnologiche,
di luoghi comuni da sfatare, di modelli industriali e culturali, di
un futuro alle porte con grandi possibilità d’espressione, che
interpellano originalità e spessore di contenuti.
A proposito, hai scaricato l’App?
Associato all’USPI
Unione Stampa - Periodica Italiana
Iniziativa realizzata con il contributo della
Direzione Generale Cinema - Ministero dei
Beni e delle Attività Culturali e del Turismo
La testata fruisce dei contributi statali diretti
di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 250
aprile 2015
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
5
nanni moretti
domenico procacci
rai cinema
presentano
margherita buy
john turturro
giulia lazzarini
nanni moretti
MIA MADRE
un film di nanni moretti
CON MARGHERITA BUY JOHN TURTURRO GIULIA LAZZARINI NANNI MORETTI BEATRICE MANCINI
SOGGETTO GAIA MANZINI NANNI MORETTI VALIA SANTELLA CHIARA VALERIO SCENEGGIATURA NANNI MORETTI FRANCESCO PICCOLO VALIA SANTELLA
AIUTO REGISTA CIRO SCOGNAMIGLIO SUONO IN PRESA DIRETTA ALESSANDRO ZANON COSTUMI VALENTINA TAVIANI
SCENOGRAFIA PAOLA BIZZARRI MONTAGGIO CLELIO BENEVENTO FOTOGRAFIA ARNALDO CATINARI ORGANIZZATORE GENERALE LUIGI LAGRASTA
UNA COPRODUZIONE SACHER FILM - FANDANGO CON RAI CINEMA (ITALIA) LE PACTE - ARTE France Cinéma (FRANCIA)
CON LA PARTECIPAZIONE DI CANAL + CINE + ARTE/WDR FILMS BOUTIQUE FILM REALIZZATO CON IL CONTRIBUTO DI EURIMAGES E AIDE AUX CINEMAS DU MONDE
IN ASSOCIAZIONE CON FILMS DISTRIBUTION CINEMAGE 8 COFINOVA 10 INDÈFILMS 2 SOFICINEMA 10 PALATINE ETOILE 11 B MEDIA 2012 – BACKUP MEDIA
E IN ASSOCIAZIONE CON IFITALIA E FELTRINELLI AI SENSI DELLE NORME SUL TAX CREDIT
CON IL SOSTEGNO DELLA REGIONE LAZIO
PRODOTTO DA NANNI MORETTI E DOMENICO PROCACCI
REGIA NANNI MORETTI
DAL 16 APRILE AL CINEMA
SOMMARIO
APRILE 2015
29
18 Brividi di genere
Note su John Carpenter
10 Da Udine a Lecce
Uno sguardo sul Far East e sul
Festival del Cinema Europeo
12 Corsa notturna
Jaume Collet-Serra racconta
Run All Night. Il regista ritrova
Liam Neeson
16 COVER STORY
Bentornato, Max!
BUON
COMPLEANNO,
CINEMA!
16
56
Il guerriero della strada è di
nuovo tra noi: George Miller
riprende in mano la saga e
affida a Tom Hardy le chiavi
del suo bolide.
20 Post-apocalittici e integrati:
come è sopravvissuto il genere?
24 È sempre musical
Arriva Pitch Perfect 2, altro
step di un percorso che in
America non finisce mai. Da
Vincente Minnelli a oggi: ecco
perché
MAD MAX: FURY ROAD
29 SPECIALE
120 anni di magia
24
30 Una storia tecnologica
32 L’invenzione senza futuro
36 L’Italia che parlò il muto
40 L’età dell’oro 44 Far Far,
West 48 Le Nouvelles Vagues
54 Effetto digitale
56 Ritratti
Rod Steiger, incredibile cattivo
PITCH PERFECT 2
12
ROD STEIGER
77
59,²OPGHOPHVH
Recensioni, anteprime, colpi di
fulmine
72 Dvd, Blu-ray & Serie Tv
L’amore bugiardo e Interstellar.
Daredevil su Netflix
78 Borsa del cinema
RUN ALL
NIGHT
80 Libri
DAREDEVIL
82 Colonne sonore
aprile 2015
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
7
brividi di genere
I FESTIVAL
a cura di Massimo Monteleone
Agenda del
mese: ecco gli
appuntamenti da
non perdere
EAST NOW
1 MIDDLE
Località Firenze, Italia
Periodo 8-13 aprile
Tel. 3389868969
Web middleastnow.it
Mail [email protected]
Resp. Lisa Chiari, Roberto
Ruta
SPIRAGLIO –
2 LO
FILMFESTIVAL DELLA
SALUTE MENTALE
Località Roma, Italia
Periodo 9-11 aprile
Tel. 3935246858
Web ORVSLUDJOLR²OPIHVWLYDORUJ
Mail [email protected]
Resp. Franco Montini,
Federico Russo
–
3 RENDEZ-VOUS
APPUNTAMENTO CON IL
SINFONIE DELLA PAURA
John Carpenter, un concentrato di vibrazioni visive e sonore
di Giuseppe Gariazzo
in dal lungometraggio
d’esordio Dark Star, del
1974, John Carpenter ha
composto, salvo rare occasioni, la colonna sonora dei
VXRL ²OP 1RQ VRUSUHQGH
dunque, che recentemente
abbia realizzato il suo primo album, Lost Themes, bel
concentrato delle ossessioni
musicali presenti nella sua
²OPRJUD²D
Il regista newyorkese è assente dagli schermi dal
2010, quando uscì The
Ward, horror ambientato in
un manicomio, viaggio negli
antri della follia, nei labirinWL SVLFRORJLFL H ²VLFL GRYH
F
riappare intatta la tensione
creativa di un maestro del
genere, dove le geometrie
visuali riprendono forma nei
corridoi e nelle stanze più
segrete di un luogo chiuso. Gli spazi claustrofobici,
accentuati proprio dai temi
musicali gravi, sono infatti
un elemento essenziale di
WXWWD O¬RSHUD ²OPLFD GL &DUpenter. Che dopo la fantascienza di Dark Star, realizzò nel 1976 Distretto 13:
le brigate della morte, capolavoro a basso budget e
altissime vibrazioni visive e
sonore utilizzate per descrivere un assedio voodoo in
un commissariato di polizia
dismesso e per costringere
i personaggi in un corpo a
FRUSRLQ²QLWRFRQJOLRJJHWti collocati in un set evocante una prigione western.
In seguito, Carpenter avrebbe aggiunto numerose, maJQL²FKH YDULD]LRQL UHDOL]]DQGR²OPLQFXLRJQLLQTXDdratura, ogni nota (anche
dove la colonna sonora fu
composta da altri musicisti,
come per La cosa ²UPDWD
da Ennio Morricone) sono
costruite con minuziosa precisione. Basterebbe un qualsiasi istante di Fog (1980)
per rievocare tale intensità.
Gli imperdibili
Halloween - La notte delle
streghe (1978)
Carpenter avvia
la saga horror
con Michael
Myers.
8
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
La cosa
Il seme della follia
(1982)
(1994)
Capolavoro del
cinema della
mutazione
aliena.
Le visioni di
uno scrittore.
Omaggio a
Lovecraft.
NUOVO CINEMA FRANCESE
Località Roma, Italia
Periodo 9-18 aprile
Tel. (06) 68601203
Web rendezvouscinema
francese.it
Mail muriel.peretti@
diplomatie.gouv.fr
Resp.9DQHVVD7RQQLQL$OL[
Davonneau
DEL CINEMA
4 FESTIVAL
EUROPEO
Località Lecce, Italia
Periodo 13-18 aprile
Tel. (0832) 520355
Web
festivaldelcinemaeuropeo.com
Mail info@festivaldelcinema
europeo.com
Resp. Alberto La Monica,
Cristina Soldano
DU REÉL 5 VISIONS
FESTIVAL
INTERNATIONAL DE CINÉMA
Località Nyon, Svizzera
Periodo 17-25 aprile
Tel. (0041-22) 3654455
Web visionsdureel.ch
Mail [email protected]
Resp. Luciano Barisone
EAST FILM
6 FAR
FESTIVAL
Località Udine, Italia
Periodo 23 aprile - 2 maggio
Tel. (0432) 299545
Web IDUHDVW²OPFRP
MailIDUHDVW²OP#FHFXGLQHRUJ
Resp. Sabrina Baracetti
FRANCISCO
7 SAN
INTERNATIONAL FILM
FESTIVAL
Località San Francisco
(California), USA
Periodo 23 aprile - 7 maggio
Tel. (001-415) 5615000
Web sffs.org
Mail [email protected]
Resp. Noah Cowan
© Disney
PREMIO OSCAR® 2015 COME
MIGLIOR FILM D’ANIMAZIONE
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AVVENTURA DISNEY DA APRILE SU CHILI!
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Women Who Flirt in
cartellone al 17° Far
East Film Festival. A
seguire, Fatih Akin,
Bertrand Tavernier e
Joe Hisaishi
ORGOGLIO
EURASIA
DAL FAR EAST DEL MOSTRO SACRO JOE HISAISHI ALLA
DOPPIETTA BERTRAND TAVERNIER & FATIH AKIN DI LECCE,
UN UNICO PASSAPORTO: CINEMA
DI LUCA PELLEGRINI
10
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
Dall’Oriente emerge una grande
vitalità, in Europa le riflessioni si
concentrano sul suo futuro incerto.
Due i festival che nel mese di aprile
guardano in queste due diverse
direzioni. Al Far East, in programma a
Udine dal 23 aprile al 2 maggio, sono
approdate le più diverse espressioni
cinematografiche del Sud Est asiatico.
Sabrina Baracetti lo dirige con grande
entusiasmo. E ricorda: “All’inizio della
nostra avventura asiatica ci siamo
domandati in quale altra parte del
mondo, oltre all’Italia, il cinema avesse
le caratteristiche di grande popolarità.
Ci siano rivolti così, per la nostra
"Abbiamo vinto il nostro
pregiudizio occidentale",
dicono a Udine. E giocano la
carta Bruce Lee
edizione zero, a Hong Kong, perché ci
aveva affascinato questo tipo di
cinema capace di raggiungere un
audience amplissima. Nel corso degli
anni si sono modificate tante cose:
abbiamo aperto a cinematografie da
noi assolutamente sconosciute, come
il cinema coreano, che all’epoca stava
vivendo un momento magico. E
abbiamo vissuto un fenomeno
epocale, la crescita esponenziale del
cinema cinese: quando siamo partiti le
sale in Cina erano soltanto 2.000, oggi
sono 35.000”. Film sorprendenti,
pubblico giovanissimo. “Abbiamo
focalizzato sul cinema asiatico e
abbiamo vinto il nostro pregiudizio
occidentale. Il fatto che ancora
esistiamo dimostra come sia
assolutamente comprensibile e le
barriere completamente superate”.
L’edizione 2015 si apre con la
primissima performance italiana del
grande compositore giapponese Joe
Hisaishi, che dirigerà alcune sue
splendide colonne sonore scritte per i
capolavori di Hayao Miyazaki e Takeshi
Kitano. “Il FEFF è dedicato quest’anno
alle mitiche martial arts hongkonghesi
con i più grandi successi di quel
genere, insieme alla sua icona Bruce
Lee. Tra i film in concorso, i coreani The
Hidden Card di Kang Hyung-chul e
Confession di Lee Do-yoon. Per la
prima volta ospitiamo un film
cambogiano, The Last Reel, nel quale il
regista Kulikar Sotho riflette sulla
memoria cinematografica di quel
Paese e aspettiamo l’ultima commedia
di Pang Ho-cheung, Women Who Flirt,
con la super diva Zhou Xun, una
divertente e assolutamente irriverente
romantic comedy made in China, il
primo film completamente cinese del
geniale autore di HK”. E mentre
l’Europa arranca sotto il peso delle
tensioni economiche e politiche, Lecce
rinnova la centralità del cinema
europeo nel suo programma,
disegnato dal Direttore Alberto La
Monica. La XVI edizione, dal 13 al 18
aprile, prevede dieci film europei in
concorso. “Per scoprire nuovi autori precisa - e offrire una rappresentazione
attuale del loro Paese di origine”.
Omaggi a due diversi autori: Bertrand
Tavernier dalla Francia e Fatih Akin
dalla Germania. “Era da anni che
speravo di ospitare il primo a Lecce e
la scelta mi pare assai azzeccata, dopo
che è stato annunciato il suo Leone
d’Oro alla Carriera. Akin, turco-tedesco,
rappresenta l’anima interculturale
dell’Europa di oggi. È un orgoglio
portarlo nel Salento, dove girò nel
2002 Solino. La sua sarà una
retrospettiva completa”. Il cinema
italiano è rappresentato da Milena
Vukotic. “Un’attrice che ha lavorato con
registi importanti: Buñuel, Fellini,
Tarkovsky. Senza dimenticare che è
stata la moglie di Fantozzi,
personaggio celeberrimo”. Infine, i
Premi dedicati a Mario Verdone e
Emidio Greco. Apertura con WAX We
Are the X del leccese Lorenzo Corvino.
“Un film fresco, dignitoso, europeo”. aprile 2015
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
11
anticipazioni
TUTTA LA
Jaume Collet-Serra al terzo film con Liam Neeson: “Action sì, ma
12
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
NOTTE
di Mattia Pasquini
quello che conta sono le emozioni”. Ecco Run All Night
aprile 2015
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
13
anticipazioni
Liam Neeson in Run All Night - Una notte per sopravvivere. Altre scene del film e, in basso, l'attore con Jaume Collet-Serra
l terzo film di fila con il Liam Neeson scopertosi
eroe action, il regista di Unknown - Senza identità e Non-Stop (ma anche di Orphan), Jaume
Collet-Serra, racconta le difficoltà di girare nella Grande
Mela, ma anche del suo rapporto ambiguo con il genere
e con i limiti che pone. Lo seguiamo nel Queens per le riprese della scena più importante di Run All Night – Una
notte per sopravvivere, in uscita il 30 aprile.
Di nuovo con Liam Neeson, come nasce questa nuova
avventura?
Insieme alla Warner Bros. volevamo fare da tempo questo film. C’è voluto un po’ perché ero impegnato nella
produzione di Non-Stop, ma poi con Liam ci siamo tuffati direttamente in quella di Run All Night.
Siete davvero così uniti?
A questo punto c’è completa fiducia. Ma parliamo di uno
splendido attore, in grado di recitare qualsiasi cosa. Può
imparare una scena di cinque pagine di dialoghi come
anche le fasi dell’azione che dobbiamo girare, a me basta puntare la macchina da presa su di lui.
E in questo caso, di che cosa si tratta?
È un film molto emozionante, diverso dai tanti action
A
“Al centro del racconto
la relazione padre-figlio.
Questioni di perdono e
comprensione”
14
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
che offre oggi il mercato. Anche perché è incentrato
sulla relazione padre-figlio, sul perdono e sulla comprensione.
Hai dovuto cambiare qualcosa o era sempre stato
questo il focus?
Quando sono arrivato lo script era perfetto da un punto di vista delle emozioni, ma forse non c’era tensione
nei punti giusti. Per essere un film così asciutto, la gente si fermava e parlava troppo. Di base, le scene sono
rimaste all’80% le stesse di quelle che erano in origine,
magari riposizionate in diversi punti della vicenda. Abbiamo tolto e aggiunto un paio di cose alla drammatizzazione, specialmente nel secondo atto, tanto per esser sicuri di creare la tensione necessaria.
Per farlo ti sei ispirato a qualche altro film di genere?
Non faccio mai ricerche su altri film. Ho studiato la mafia di New York e le varie famiglie, cosa è successo negli anni ‘80 e nei primi ‘90, quando quelle gang di fatto
si dissolsero a causa di alcuni pentiti. Ma poi ho cercato di creare una linea narrativa credibile su delle basi
reali.
Continua a divertirti girare film action?
Mi piace, ma quello che mi piace di più son sempre i
dialoghi. Vedendo il film prendere vita attraverso i personaggi a volte rimango rapito dalla scena e mi dimentico di dare lo stop. Di certo l’action richiede più tempo
per la sua preparazione e questo mi rende nervoso.
Anche perché spesso puoi fare solo una o due riprese
di certe scene. Come è stato in questo caso. È noioso
ed eccitante insieme.
Una scena molto importante del film è quella dello
schianto sul banco dei pegni, avevate un piano B in
caso di problemi?
È la più importante. E no, non avevamo un piano B. È
tutto talmente pianificato che nulla deve andare storto.
Abbiamo costruito un intero negozio per la scena e
per fortuna è andato tutto liscio. Ma se la macchina
avesse colpito uno dei due pilastri che lo sostenevano
– e uno lo ha mancato davvero di poco – avremmo dovuto pensare a una alternativa. Probabilmente avrei
fatto un primo piano su Liam e avrei risolto tutto!
Nessun problema, quindi, durante le riprese?
Più che il rumore, nelle riprese nella metro, il difficile è
stato girare con la gente comune che veniva fuori dai
vagoni e si trovava di fronte Neeson. Ma il problema
principale è stato il traffico: New York non aspetta nessuno.
© 20th Century Fox
GONE GIRL
LO SCONVOLGENTE THRILLER DI DAVID FINCHER
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COVER STORY
16
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
Dopo 30 anni il western distopico di George
Miller è di nuovo tra noi. Lunga vita al Guerriero
della strada! Fuori concorso a Cannes
MAD
MAX
RELOADED
di Valerio Sammarco
aprile 2015
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
17
COVER STORY
W
E DON’T NEED ANOTHER HERO,
cantava Tina Turner. Neanche lei, al
tempo Aunty Entity, regina della desertica Bartertown, avrebbe mai immaginato che 30
anni dopo sarebbe tornato Max Rockatansky.
Ed è un ritorno, quello di Mad Max, che potrebbe
coincidere con l’operazione più iconica dell’intero
2015.
“My name is Max. My world is fire.
And blood”
Fuoco e sangue. Il canovaccio, rispetto alla trilogia
originale, non sembra essere troppo mutato. Il
“guerriero della strada”, non più Mel Gibson, ma il
lanciatissimo Tom Hardy, si ritrova ancora lì dove
tutto era iniziato, ormai nel lontano 1979: bastarono
sei anni a George Miller per creare una leggenda,
scardinare l’immaginario collettivo e gettare oltre
l’ostacolo quella visione di western post-apocalittico che disegnò nuove traiettorie, partendo dallo
sconfinato outback australiano.
Un futuro, quello immaginato da Miller, che oggi
sembra addirittura sorpassato per doversi poi com-
Quarto episodio
o riavvio della saga? Il
regista non svela, ma
indica: “Il personaggio
di Tom Hardy si rifà
a quello di Mel Gibson,
però è un’altra storia”
piere nuovamente: al centro di tutto, ancora una
volta, la strada. Fury Road, che Warner Bros. porterà nelle sale a partire dal 14 maggio (con anteprima mondiale al Festival di Cannes), per ammissione
dello stesso Miller “è molto vicino a Mad Max 2 (in
Italia era Interceptor - Il guerriero della strada, ndr)
perché il racconto segue gli avvenimenti di un breve periodo di tempo, solamente alcuni giorni. E poi
c’è un lungo inseguimento…”.
Deserto e motori, che dai brevi filmati promozionali
finora rilasciati sembrano ancora una volta dominare la scena. Caratterizzata dai “soliti” pirati dediti a
barbarie di qualsiasi tipo: se nella trilogia originaria
la parola chiave era “gasoline”, questa volta la cac-
18
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
Charlize Theron è Furiosa.
Sopra Tom Hardy. A sinistra,
in alto, Mel Gibson e Tina
Turner in Mad Max oltre la
sfera del tuono; in basso
Mad Max: Fury Road
cia è motivata dalla riconquista di qualcosa di molto prezioso sottratto al potente Immortan Joe (Hugh
Keays-Byrne). Un gruppo di ribelli, guidato dall’Imperatrice Furiosa (Charlize Theron) riesce a fuggire
dalla sua tirannide e Max si ritrova coinvolto con loro nella fuga.
I riferimenti al passato del protagonista – almeno
nelle brevi note finora fatte trapelare dalla produzione – accennano solamente al fatto che l’uomo,
solitario e silenzioso, “cerca pace dopo la perdita
della moglie e del figlio all’indomani dello scoppio
della guerra”. Ma Max Rockatansky perse i suoi cari
all’inizio del primo capitolo della saga: poi che cosa
è avvenuto?...
Dove eravamo rimasti?
La mongolfiera
Stuart. A sinistra,
in alto e a destra
Cattivissimo
me 2
L’arcano, anche se non del tutto, lo ha provato a
svelare proprio George Miller: “Il Max di oggi è certamente basato sullo stesso personaggio interpretato originariamente da Mel Gibson, un guerriero
solitario apparentemente distaccato da quello che
accade nel resto del mondo. Ora Tom Hardy reinterpreta a suo modo quel personaggio, e lo fa calandosi in una storia sostanzialmente diversa”.
Il sospetto è dunque legittimo: Mad Max: Fury Road
(violentissimo, a quanto sembra...) è il quarto capitolo della saga o il suo inaspettato riavvio? Quel che è
certo, trent’anni dopo Oltre la sfera del tuono, è che
George Miller non ne poteva forse più di maialini coraggiosi (Babe va in città) e pinguini ballerini (Happy
Feet 1 & 2) e ha finalmente deciso di tornare al timone del suo bolide cult: lo script, firmato dal regista
insieme a Nick Lathouris e Brendan McCarthy, è stato concepito dopo un lunghissimo lavoro che ha
prodotto oltre 4.500 tavole di storyboard. Immagini
mozzafiato e poche parole: la cifra stilistica della saga è nota, e stavolta le possibilità tecnologiche ne
amplificano la portata. A determinare poi la temperatura visiva di questa folle esplosività ci ha pensato
il direttore alla fotografia Premio Oscar John Seale
(Il paziente inglese), uno che di luci desertiche se ne
intende. Perché si fa presto a parlare di scenari postapocalittici, ma una cosa è darne l’idea in metropoli
che da un giorno all’altro si ritrovano senza milioni di
persone (da 28 giorni dopo a Io sono leggenda, fino
a The Road), un’altra è calare storie e personaggi in
luoghi spopolati a prescindere: è qui che a suo tempo Miller vinse la sua sfida, su strade infinite in cui
sfrecciava la V8 Interceptor del guerriero Max.
L’ultimo percorso, lo credevamo tutti, era quello
che terminava nel Thunderdome (La sfera del tuono): ci sbagliavamo, come Tina Turner, perché è evidente che ancora oggi, forse più di ieri, abbiamo un
disperato bisogno di eroi.
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COVER STORY
M
AD MAX È UN SOPRAVVISSUTO,
sia come personaggio, sia come simbolo del post-apocalittico, genere
nato molto prima di lui, ma del quale ha rappresentato l’apogeo. Basti pensare che, senza il secondo capitolo della saga (Interceptor – Il guerriero della strada,
1981), non avremmo avuto il manga Ken il guerriero.
Ora riguardo al fatto che Max Rockatansky torna al
cinema per la quarta volta (e il suo “collega”
Terminator si prepara alla quinta) è il caso di chiedersi: come è messo il post-apocalittico oggi? Balza
subito all’occhio la prepotente presenza delle saghe
“young adult” (Hunger Games, Divergent, The Maze
Runner, ecc), che, forti del doppio successo cinematografico e letterario, sembrano aver spostato il
genere verso un pubblico normalmente disinteressato al catastrofismo fantascientifico. Ne consegue una
progressiva volontà di ammorbidire le pellicole, sia a
livello visivo, sia a livello tematico, con la tendenza di
far finire tutto a tarallucci e vino. Altrimenti non si
spiegherebbero film come World War Z (2013), in cui
l’apocalisse zombie si consuma senza nemmeno una
goccia di sangue, o l’obbligo del doppio finale consolatorio (l’eroe prima si sacrifica, ma subito dopo riappare sano e salvo).
Dove cercare, quindi, l’angoscia, l’incertezza e l’assenza di regole che seguono una catastrofe globale?
Nei fumetti, per esempio, da Le Transperceneige di
Jacques Lob e Jean-Marc Rochette (da cui Bong
Come è resistito il filone? Dalle saghe
“young adult” ai fumetti, tra zombie e
misteri inspiegabili
di Angela Bosetto
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-
E
SERIALITÀ
Volenti o nolenti,
The Walking Dead
ancora domina. Ma
all’orizzonte…
Dove cercare
l’angoscia,
l’incertezza
e l’assenza di
regole che
seguono una
catastrofe
globale?
[NOW]
Nonostante George A. Romero la
consideri “una soap opera nella
quale, ogni tanto, compare uno
zombie o due” e i puristi del
fumetto originale le abbiano
dichiarato guerra, The Walking
Dead (AMC) domina incontrastata
il panorama post-apocalittico del
piccolo schermo, forte di ascolti in
costante crescita e di una sesta
stagione già rinnovata. Ma, in caso
non attirino i morti viventi (al
centro anche di Z Nation, Syfy),
quali sono le alternative seriali
fantascientifiche, considerando
che quest’anno si concluderà
Falling Skies (TNT) e che
Revolution (NBC) è stata
cancellata? Agli adolescenti ci
pensa il patinatissimo network The
CW con The 100, show basato
sull’omonimo romanzo di Kass
Morgan, in cui, novantasette anni
dopo la guerra nucleare che ha
costretto l’umanità a migrare nello
spazio, vengono rispediti sulla
Terra cento delinquenti minorenni
per vedere se il pianeta è ancora
abitabile. Per gli appassionati di
virus sterminatori continuano Helix
(Syfy), The Last Ship (TNT) e The
Strain (FX, in cui l’epidemia è di
natura vampiresca) ed è iniziato 12
Monkeys (Syfy), adattamento
televisivo del film L’esercito delle
12 scimmie (1995). In attesa di
Wayward Pines, che verrà
trasmessa da Fox a maggio in
contemporanea mondiale, la
novità più curiosa è una sitcom
(sempre della Fox): The Last Man
on Earth, scritta e interpretata da
Will Forte del Saturday Night Live
(in Nebraska era il figlio di Bruce
Dern). Forse è proprio vero che
una risata ci salverà… anche dopo
l’Apocalisse.
A.B.
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COVER STORY
SULLA
CARTA
Romanzi come Io
sono leggenda e
L’ombra dello
scorpione non
esistono più. A meno
che…
Purtroppo oggi in Italia i romanzi post-apocalittici non
hanno vita facile. Nella maggioranza dei casi vengono
pubblicati solo se: a) sono
fenomeni editoriali (come la
trilogia Silo di Hugh Howey)
b) cavalcano la moda globale di epidemie e zombie
c) appartengono al filone
young adult d) li hanno
scritti autori di grido e) sono già stati opzionati per
l’adattamento cinematografico o televisivo.
Prima di guardare al futuro
del genere, però, è meglio
conoscerne bene il passato. Assicuratevi quindi che
nella vostra libreria non
Joon-ho ha tratto Snowpiercer, 2013)
a The Walking Dead di Robert Kirkman
(ispiratore della serie omonima).
E, a proposito di zombie contagiosi, in
questo momento anche la narrativa
subisce il fascino delle epidemie, declinate però in chiave vampiresca, come
dimostra il successo de Il passaggio di
Justin Cronin (che diverrà un film diretto da Matt Reeves) o della trilogia
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manchino L’ultimo uomo
di Mary Shelley, La macchina del tempo di H.G. Wells,
Io sono leggenda di Richard Matheson, La morte
dell’erba di John Christopher, L’ultima spiaggia
di Nevil Shute, Un cantico
per Leibowitz di Walter M.
Miller, Addio Babilonia di
Pat Frank, Cronache del
dopobomba di Philip K.
Dick, Il mondo sommerso
di J.G. Ballard, L’ombra
dello scorpione di Stephen
King, Tenebre di Robert
McCammon, L’ultimo degli
uomini
di
Margaret
Atwood e La strada di Cormac McCarthy.
A.B.
Nocturna di Guillermo del Toro e Chuck
Hogan, su cui si basa la serie tv The
Strain. Pure perché, in ambito virale
“classico”, cosa si può dire che L’ombra
dello scorpione di Stephen King (pronto a sbarcare al cinema) non abbia già
detto nel 1978?
Esiste, però, una strada alternativa, in
cui l’apocalisse non è più lo spunto iniziale, bensì il colpo di scena che spiega
In apertura World War
Z. In basso Maze
Runner, Divergent e
Hunger Games
l’intero mistero, come nel caso (ATTENZIONE: SPOILER) del già citato Maze
Runner o de I misteri di Wayward Pines
di Blake Crouch, i cui diritti sono stati
subito acquisiti da M. Night Shyamalan
per la creazione dell’imminente serie tv.
E la domanda non è più “ci salveremo?”, ma “se il mondo fosse già finito a
nostra insaputa, sarebbe meglio scoprirlo oppure no?”.
tendenze
Musical,
maestro!
Da Vincente Minnelli a Pitch Perfect 2,
un genere che si trasforma ma non passa
mai di moda. Perché tutti vorrebbero
viverci dentro
di Alessandro De Simone
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In Usa lo
preferiscono
addirittura al
western. Il
suo segreto?
Capacità di
plasmare i
desideri
Gene Kelly e Leslie Caron in Un americano a Parigi. A sinistra Wicked e sotto le ragazze di Pitch Perfect
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tendenze
U
n pittore americano a
Parigi si innamora di
una bellissima
ragazza. Lei si farà
chiamare Gigi, lui si
perderà nella
brughiera per amore
di una donna, la
stessa che aveva fatto perdere la testa
a un grande attore tornato sul
palcoscenico in uno spettacolo di
varietà. Non è un film, sono quattro,
capolavori di Vincente Minnelli, il
maestro indiscusso del genere
preferito dagli americani, persino più
del western. Il musical, ovviamente,
che nasce nel momento esatto in cui
Al Jolson apre bocca per la prima
volta sul grande schermo. Era un
cantante di jazz e dopo di lui tanti se
ne sono visti, spesso anche grandi
ballerini, e mentre i tempi e i gusti del
pubblico cambiavano, il musical si
adattava, per non abbandonare mai la
sua seconda casa.
La prima, ovviamente, è il teatro, da lì
arriva, e da lontano, dalla tragedia
greca agli intermezzi delle opere
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scespiriane, fino all’opera lirica. La
forma pura nasce sulle tavole di
sordidi vaudeville tra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Ventesimo
secolo, in quella che ancora oggi è la
sua patria. Londra, il West End, e di lì a
poco dall’altra parte dell’oceano,
Broadway e il cinema, gli anni Trenta
di Busby Berkeley e le sue
fantasmagoriche scenografie e
perfette coreografie, sogni per un
paese devastato da Wall Street.
Ottant’anni e la storia si ripete, al
posto di Ginger e Fred c’è Meryl
Streep, dall’isola greca di Mamma Mia!
ai boschi minacciosi di Into the
Woods, metafora dell’America ferita
delle Torri Gemelle e della crisi, vittima
e carnefice. Eppure tutto passa,
cantando e ballando, persino la
discriminazione di genere, come
accade alle variegate componenti
delle Barden Bellas, la band vocale a
cappella di Pitch Perfect, il cui seguito
arriverà nelle sale italiane il 21 maggio,
sempre protagonista Anna Kendrick,
che non fa neanche in tempo a
smettere i panni di Cenerentola
proprio del film di cui sopra.
Vivere in una favola, questo in fondo è
sempre stato il musical, anche
quando il genere ha preso tutt’altra
direzione. L’ultimo classico fu Hello,
Dolly!, diretto da Gene Kelly (come
dire Maradona che fa un film sul
calcio), nell’America della
contestazione clamoroso fiasco, poi
giustamente celebrato da
quell’immane capolavoro di WALL-E.
Non era una rivolta nei confronti del
genere, solo della sua forma, in un
decennio in cui Robert Wise aveva
fatto incetta di Oscar con West Side
Story e Tutti insieme
appassionatamente.
A indicare nuove strade ci pensano
Bob Fosse, con Sweet Charity,
Cabaret e All That Jazz, Norman
Jewison, che fa di Gesù una Superstar,
e i grandi iconoclasti degli anni
Settanta. Brian De Palma inventa
l’opera rock con quel capolavoro de Il
fantasma del palcoscenico, Ken
Russell la vira in acido con Tommy. Gli
anni Ottanta sono l’anteprima
dell’oggi: Saranno famosi, Flashdance,
Footloose, Chorus Line, l’importante è
sognare, il successo arriverà. Una
filosofia che ancora funziona.
Il segreto del musical sta nella sua
capacità di plasmarsi sui desideri del
pubblico rimanendo fedele a se stesso,
quando sembra morto, eccoti spuntare
un Dirty Dancing o un Chicago che lo
riporta in vita, mentre i cinquantenni di
oggi ancora ballano Greased Lightning
con la sciatica. D’altronde, essere
Grizabella la gatta per il tempo di un
ricordo, sconfiggere la gravità come la
Strega dell’Ovest (a proposito, Wicked
è previsto per il 2016, tranquilli):
difficile immaginare qualcosa di
meglio. Genere crossmediale, dalla
televisione con reality di vario genere e
serie come Glee, Nashville e, ai
videogiochi, perché Guitar Hero e
SingStar altro non sono che variazioni
sul tema, il musical è vivo, lotta insieme
a noi e arriverà dove nessuno è mai
giunto prima: il salto mortale
cinematografico. Primi indiziati, Billy
Elliot e We Want Sex: da commedie
sociali a spettacoli di spaventoso
successo nel West End, per tornare poi
al cinema in questa forma. Incredibile.
Roba da musical.
Cyd Charisse in Spettacolo
di varietà. A destra Billy
Elliot. Pagina accanto, Meryl
Streep in Mamma Mia! e
Pitch Perfect 2
Quello
che conta
è sognare,
il successo
arriverà. Una
filosofia che
ancora
funziona
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120 ANNI
DI CINEMA
Era il 1895 e iniziava un’avventura
straordinaria. Ripercorriamola insieme, con
l’aiuto di critici, studiosi e direttori di festival
Foto per gentile concessione del Museo Nazionale del Cinema di Torino
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bonanniversaire
dalle origini a oggi
Una storia
tecnologica
Il sonoro, il colore, il panavision, il 16 mm e il digitale:
120 anni di cinema all’insegna dell’innovazione. To be continued…
DI ALBERTO BARBERA
I
l 28 dicembre 2015 ricorrerà il centoventesimo anniversario della nascita del cinema, che si fa coincidere con
la prima proiezione pubblica organizzata dai Fratelli Lumière, al Gran Café del Boulevard des Capucines di Parigi.
Ma è possibile raccontare la storia dei primi centoventi anni
del cinema in altro modo rispetto a quello tradizionale? Oltre che linguaggio espressivo – come tale, appartenente al
dominio della storia dell’arte – l’invenzione del Cinématographe fu anche il prodotto di una tecnica che mise a frutto
alcuni secoli di ricerche (a partire almeno dall’invenzione
della lanterna magica, alla fine del ‘600), intese a dotare di
movimento le immagini statiche. La tecnologia, tuttavia, è
per sua natura soggetta a continue, repentine e radicali trasformazioni, destinate ad avere una profonda influenza sulla
dimensione linguistica e spettacolare del cinema cui si applicano. Raccontare questa vicenda significa ripercorrere
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un’evoluzione non lineare caratterizzata da salti bruschi, discontinuità repentine, innovazioni narrative e formali, rese
possibili dai progressi tecnologici.
Le prime tre decadi (dalle origini alla fine degli anni ’20) si
possono riassumere nella messa a punto di un paradigma
linguistico ed espressivo autonomo che, sfruttando la vocazione sincretica del nuovo mezzo, si appropria degli esiti di
altri linguaggi artistici – teatro, letteratura, danza, pittura –
per dar vita ad un linguaggio autonomo ed originale. Pur
entro i condizionamenti imposti dai limiti tecnici del nuovo
mezzo, il cinema raggiungerà negli ultimi anni del muto una
maturità espressiva pressoché totale e in se stessa compiuta.
L’invenzione del sonoro ne mette radicalmente in discussione i codici narrativi ed espressivi. Dopo alcuni anni di palese
regressione a forme di emulazione teatrale, il cinema si av-
Hugo Cabret di Martin
Scorsese. Accanto Tempi
moderni di Charlie
Chaplin
Le sperimentazioni si
susseguono senza sosta.
Alcune sono destinate a
rimanere, altre no
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bonanniversaire
silenzio ai cliché
via a conquistare la pienezza di un linguaggio creativo che è alla base della
cosiddetta età d’oro del cinema classico (dalla seconda metà degli anni ‘30
alla fine degli anni ’50).
Le innovazioni e le sperimentazioni
tecniche si susseguono tuttavia senza
sosta. Alcune saranno destinate a rimanere per sempre, come l’introduzione
graduale del colore (grazie all’invenzione del Technicolor), che sostituisce
quasi completamente il bianco e nero
dopo un ventennio di sostanziale convivenza. Altre, quali i sistemi Vistavision e CinemaScope (che allarga l’inquadratura con l’uso di lenti anamorfiche) sono destinate a confluire nei più
moderni sistemi creati dalla Panavision,
che conferiscono all’immagine una dimensione molto più grande che in passato, con l’intento iniziale di far concorrenza alle più ridotte proporzioni dello
schermo televisivo. Altre ancora, come
i primi tentativi abortiti di dar vita ad
immagini tridimensionali con il sistema
degli occhialini anaglifici, dovranno attendere il digitale per ottenere risultati
destinati a durare nel tempo grazie all’innovativa tecnologia 3D basata su
lenti (attive o passive) di adeguata efficacia spettacolare. La diffusione delle
tecnologie leggere alla fine degli anni
’50 (il 16 mm, l’invenzione dei registratori di suono portatili Nagra, la maggiore sensibilità delle pellicole) favorisce invece in tutto il mondo la nascita
delle cosiddette Nouvelles Vagues che,
abbandonati i costosi studi di produzione, consentono ai registi di sconfinare in esterni e di realizzare in ambienti reali storie più prossime alla vita
quotidiana delle persone, mettendo a
frutto l’innovativa lezione del neorealismo italiano.
Ma la rivoluzione più profonda è quella
digitale. Avviata sul finire del XX secolo
e compiuta nel giro di soli tre lustri ai
danni dei sistemi analogici di riproduzione delle immagini, ha determinato
una fase di straordinaria sperimentazione legata alla creazione di effetti speciali computerizzati e d’inedite modalità narrative, che stanno radicalmente
cambiando il modo di concepire, produrre, distribuire e consumare le immagini cinematografiche. Quello che si sta
imponendo è un inedito paradigma destinato a conferire al cinema una rinnovata vitalità, che ci auguriamo destinata
a durare per molto tempo ancora.
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L’invenzione
La biografia del cinematografo
è piena di falsità e pregiudizi.
A partire dai Lumière, che non
credevano nell’avvenire della
propria creatura
DI ROBERTO NEPOTI
senza futuro
Il set di Cleopatra.
A destra i fratelli
Lumière e Viaggio nella
luna di Méliès
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bonanniversaire
P
silenzio ai cliché
er decenni le storie del
cinema muto (incluse le
migliori) hanno accreditato
una serie di pregiudizi che
sono diventati sapere
comune. Che il cinema
muto, innanzitutto, fosse davvero muto:
mentre era regolarmente accompagnato
dalla musica, che ne costituiva parte
integrante. Che fosse in bianco e nero: al
contrario era policromatico, dipinto
fotogramma per fotogramma o colorato
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con filtri. Che fosse “documentario”: invece
il primo film proiettato in pubblico,
L’uscita dalle officine Lumière (1895),
denotava già una regia. Altro luogo
comune (Jean-Luc Godard si divertì poi a
ribaltarlo, e non solo per il suo gusto
dell’iconoclastia) quello di contrapporre il
“documentarismo” dei Lumière alla
“finzione” di Méliès. Le stesse storie del
cinema si preoccupavano inoltre di
assegnare una “prima volta” a ogni cosa:
vedi, esempio per tutti, i “primi movimenti
di macchina” attribuiti all’italiano La caduta
di Troia (1911). Etichette a dir poco
discutibili, data l’enorme quantità di
materiale filmico andata perduta prima che
il cinema si scoprisse una vocazione
filologica. Però l’errore più grave sarebbe
considerare il cinema “sonoro e parlante”
come un’evoluzione del cinema “muto”.
Certo, il secondo utilizzò largamente le
acquisizioni e le competenze linguistiche
del primo, perché fu il cinema delle origini
a strutturarsi come un linguaggio. Tuttavia
“muto” e “sonoro” non sono solo due
periodi, bensì due modalità diverse di
concepire e fare cinema. Considerato dai
suoi padri, i Lumière, “un’invenzione
senza avvenire”, il cinema scoprì molto
presto la vocazione a raccontare storie.
Non disponendo dello strumento della
parola, i film dei primi decenni dovettero
o narrare vicende già largamente note al
pubblico (non a caso il soggetto più
spesso messo in immagini era la vita di
Gesù Cristo) o dotarsi di didascalie (che
entravano a buon diritto a far parte del
testo filmico: vedi l’estetica del lettering
nei film espressionisti); ma soprattutto
dovettero trovare gli strumenti espressivi
per mostrare, o suggerire, quel che la
parola si sarebbe limitata a enunciare. È
proprio perciò che l’introduzione della
parola nel film fu percepita dai maestri
dell’epoca (Ejzenštejn, Chaplin...) come
una minaccia alla creatività linguistica del
cinema; ed è per lo stesso motivo se
alcuni, come il genio del comico Buster
Keaton, dovettero soccombere al
depauperamento espressivo provocato dal
sonoro. Il cinema muto fu grande, a volte
perfino smisurato: come nei kolossal
storici che videro la luce in Italia a pochi
anni dalla nascita di quella che Pudovkin
chiamò “la settima arte” (Quo Vadis?,
Cabiria, che con Maciste/Bartolomeo
Pagano inaugurò il divismo
cinematografico) e dai quali Hollywood
avrebbe tratto lezioni fondamentali. Da
quel debutto nel 1895 (occasione in cui,
CIÒ CHE È AVVENUTO IN POCO PIÙ DI UN SECOLO
NON HA PERFEZIONATO L’ARTE.
SEMPLICEMENTE L’HA PERPETUATA
secondo un’altra favola accreditata dalle
storie del cinema, gli spettatori sarebbero
stati presi dal panico all’Arrivo del treno
alla stazione di La Ciotat) al cinema
bastano meno di trent’anni per diventare
un linguaggio completo e ammirevole.
Quel che è seguìto nel quasi-secolo
successivo non è stato un completamento
e meno ancora un perfezionamento.
Sonoro o a colori, dotato di schermi
panoramici, effetti speciali o 3D (e
immaginiamo anche di laser,
periodicamente richiamato in causa dai
futurologi), consumato nelle sale Imax o
sullo schermo di un computer, il cinema
(meglio: “i” cinema, muto e sonoro) resta
sostanzialmente lo stesso; come resta, in
ultima analisi, invariata quella macchina
percettiva e affettiva che è il suo
spettatore.
Il monello di Chaplin. Dall'alto, Tabù di
Murnau, il regista Ejzenštejn. Pagina accanto
Buster Keaton
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bonanniversaire
l’eccellenza perduta
L’Italia
che parlò
il muto
Prima che gli americani
inventassero lo star system, era
il cinema tricolore a
conquistare il mondo con i suoi
spettacolari colossi storici
DI GIULIANA MUSCIO
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D
urante il “cinema muto” si
sviluppano i modelli
industriali e culturali delle
cinematografie nazionali, così
diversi tra loro da sembrare
tali per natura e che seguono
invece un percorso storico ben tracciabile. Il
cinema americano è frutto di
un’imprenditoria avanzata (Edison con il
Trust costruito intorno ai suoi brevetti
industriali) ma è pensato per un consumo
popolare (nelle fiere e poi nei nickelodeon,
ovvero negli stanzoni sovraffollati di
immigrati, a cinque centesimi a spettacolo),
mentre il cinema europeo nasce coi fratelli
Lumière, imprenditori moderni che
propongono la loro invenzione al caffè, sui
Maciste alpino.
Sopra Intolerance
di Griffith e a sinistra
Cabiria di Pastrone
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bonanniversaire
l’eccellenza perduta
boulevard, per la buona borghesia.
In Italia il cinema è hobby costoso di
aristocratici oppure investimento di banche
improvvide. I quarti di nobiltà del cinema
italiano, ancorché altisonanti, creano uno
scarto immediato tra il progetto
imprenditoriale commerciale e popolare
caratteristico del cinema americano e quello
borghese con aspirazioni artistiche del
cinema europeo (in particolare francese)
che spopola anche nei nickelodeon
americani, come ha raccontato Richard
Abel in Red Rooster Scare, rivelando un
primato franco-italiano sul mercato
cinematografico mondiale, che la storia –
scritta sempre dai vincitori, quindi da
Hollywood – ha cancellato.
Il primato italiano stabilito nel 1908 con lo
spettacolare Gli Ultimi giorni di Pompei
dall’Ambrosio, e stabilizzato tra il 1911 e il
1914, coincide con il primo snodo
fondamentale nella storia del muto, ovvero
il passaggio dai film brevi, di qualche
decina di minuti, al lungometraggio. Mentre
Cabiria. In alto
la diva del muto
Lillian Gish. A
destra, dall'alto:
Gli ultimi giorni
di Pompei e una
scena di Maciste
alpino. In basso la
vamp Asta
Nielsen
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Griffith girava ancora per la Biograph corti
in due bobine, il cinema italiano,
incoraggiato dai suoi titolati produttori a
mostrare patenti di artisticità, affrontava
racconti sempre più complessi, dall’Inferno
dantesco al colosso storico, come La
Gerusalemme liberata, Quo vadis?
(Guazzoni) e Spartacus. Infatti il colosso
storico, che oggi associamo alla
megalomania hollywoodiana, nasce invece
in Italia, in quanto i produttori erano alla
ricerca di un prodotto artistico, di qualità
visiva e letteraria, che legittimasse la cultura
di cui erano portatori e magari divulgasse
l’idea di una cultura nazionale, sia
figurativamente che ideologicamente
fondata sui fasti del passato. La nascita del
colosso storico coincide inoltre con la
conquista della Libia ovvero con il sogno
coloniale e rispolvera i miti della romanità,
fasci inclusi, che poi diverranno
l’iconografia del fascismo. Caso esemplare
Cabiria (Pastrone, 1914) che inventa uno
dei più efficaci eroi dello schermo, il
I NOSTRI PRODUTTORI
VISIVA E LETTERARIA,
ERANO ALLA RICERCA DI UN’OPERA ARTISTICA, DI QUALITÀ
CHE LEGITTIMASSE LA CULTURA DI CUI ERANO PORTATORI
forzuto Maciste, schiavo numida che salva
la fanciulla romana rapita dai cattivi
cartaginesi (nordafricani). L’iconografia del
film si ispira alle scoperte archeologiche
dell’epoca e alla loro musealizzazione, oltre
ad attingere alla pittura di genere, fiorita
intorno agli scavi di Pompei all’interno del
movimento simbolista. Le didascalie di
Cabiria, firmate dal vate D’Annunzio,
hanno una dignità letteraria non provinciale
che impressiona gli americani stessi (Anita
Loos le studia per scrivere Intolerance per
Griffith). Il cinema italiano conta inoltre
sulle dive, in un embrionale star system che
si sviluppa a partire dal divismo della lirica
facendosi però ben presto moderno per
l’impatto sul costume e sulla moda. I ricchi
aristocratici girano dunque i film muti nelle
loro ville, con i loro arredi raffinati,
contando sull’appeal delle dive, che spesso
sono le loro mogli. Mentre il cinema
americano continua ad usare fondali
dipinti, il cinema italiano vanta scenografie
accurate quanto fastose, oltre a utilizzare
spazi reali, dai castelli ai ruderi di varie
epoche, sfruttando negli esterni la varietà
del paesaggio o pittoreschi spazi urbani
(Assunta Spina). Anche i nordici avevano
cominciato a sviluppare un loro divismo
con la vamp Asta Nielsen e a puntare sul
lungometraggio, in film di interesse sociale
o psicologico (Ibsen viene adattato
prestissimo), mentre i francesi spopolavano
con le serie sia avventurose che comiche.
Nel frattempo, il cinema americano
abbandona la costa Est per trasferirsi
nell’assolata California, dove peraltro non
sono attivi i sindacati e, con un colpo di
mano, muta leadership, con gli
imprenditori del Trust scavalcati dagli
immigrati, ovvero dai cosiddetti
Indipendenti, che diventano il nucleo
intorno al quale si sviluppano le majors.
In epoca classica danno vita allo Studio
System, un monopolio verticale
(produzione, distribuzione, esercizio)
accompagnato da un sistema di contratti
che costituisce la base industriale di un
colosso mediatico tuttora dominante.
L’altro snodo significativo è infatti la prima
guerra mondiale: gli americani invadono gli
schermi del pianeta, mentre gli europei, in
sofferenza dopo il conflitto, perdono
terreno e si identificano con importanti
sperimentazioni artistiche (impressionismo,
espressionismo sovietico) mentre il cinema
italiano arranca perché il nostro movimento
artistico autoctono e precoce – il futurismo
– non trova adeguata espressione nel
cinema. Tra il 1922 e l’avvio del sonoro, la
produzione cinematografica italiana si
azzera, mentre nelle sale domina
incontrastata Hollywood.
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bonanniversaire
la lingua universale
Gene Kelly in Cantando
sotto la pioggia. A destra
Bogart e la Bergman in
Casablanca e Gloria
Swanson in Viale del
tramonto
L’età
dell’oro
Arriva il sonoro e Hollywood
impone la sua voce al mondo: si
codificano i generi, nasce lo star
system, il cinema americano
diventa “classico”
DI ORIO CALDIRON
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a tutto il mondo. Sono soprattutto i generi,
con le loro forti scansioni spettacolari e le
singolari capacità di assecondare le attese
degli spettatori, a svolgere un ruolo
determinante in un’epoca in cui anche
l’autore più geniale deve fare i conti con
le regole dell’azienda e nessuno può
infischiarsene dei risultati del box office.
Il genere più nuovo è il musical che senza
il sonoro non ci sarebbe neppure.
S’impongono le composizioni geometriche
dei balletti e le spericolate angolazioni
S
ospeso tra muto e sonoro,
melodramma e musical,
risultato e progetto, Il cantante
di jazz (1927) di Alan Crosland,
il primo talkie, sembra fatto
apposta per incarnare la svolta
della fine degli anni venti destinata a
cambiare il corso del cinema. Nessuna
delle grandi case se l’era sentita di
investire su sistemi pioneristici considerati
toppo costosi. Soltanto la Warner Bros. in
piena crisi decide che le conviene
rischiare. La scommessa è quasi un salto
nel vuoto se Sam Warner, uno dei titolari,
per lo stress muore d’infarto il giorno
prima della prima. Il successo della storica
proiezione del 6 ottobre 1927 al Warners’
Theatre convince anche i più scettici. La
storia del giovane ebreo Jakie Rabinowitz,
il figlio del cantante di sinagoga che
scappa di casa per sfondare a Broadway,
commuove quasi come un rito di
passaggio il pubblico segnato dai grandi
flussi migratori delle più diverse etnie.
Non importa che i dialoghi siano
pochissimi e ancora molte le didascalie. La
perfetta sincronizzazione della musica
decreta il trionfo del film. Soprattutto
quando Al Jolson inginocchiato, le braccia
protese verso gli spettatori, canta My
Mammy il pubblico impazzisce.
Naturalmente non ci si può aspettare che
la rivoluzione tecnica corrisponda subito
alla rivoluzione estetica. Soltanto nei
decenni successivi – i mitici trenta e
quaranta – il cinema americano raggiunge
la maturità, in bilico tra autore e
artigianato, routine e trasgressione,
prototipo e serie. Il cuore del sistema, anzi
dello Studio System, è la codificazione dei
generi che si vengono definendo nella
stagione d’oro della fabbrica dei sogni. La
macchina hollywoodiana raggiunge il
massimo della popolarità e conquista in
modo irreversibile il pubblico americano e
internazionale, imponendo miti di
consolazione e modelli di comportamento
della macchina da presa di Busby
Berkeley, ma quando nella magia del
bianco e nero irrompono Fred Astaire e
Ginger Rogers abbiamo l’impressione di
entrare nello spazio privilegiato del mito.
Nella sala del Casinò di Venezia, Fred
invita a ballare guancia a guancia la
riluttante Ginger. Cheek to Cheek è il
momento clou di Cappello a cilindro
(1935) di Mark Sandrich, uno dei musical
più belli degli anni trenta che sull’onda
delle melodie di Irving Berlin riesce a
LA FABBRICA DEI SOGNI RAGGIUNGE
IL MASSIMO DELLA POPOLARITÀ IMPONENDO
MITI DI CONSOLAZIONE E COMPORTAMENTO
aprile 2015
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
41
bonanniversaire
la lingua universale
trasformare in musica e danza la
stereotipata artificiosità della trama. Se
l’erotismo del musical è di solito astratto,
qui la passione s’impone sull’eleganza
formale anche attraverso la sensualità dei
passi. Nel crescendo della melodia
sembra di assistere a una scena di
seduzione.
La commedia sofisticata è il genere che
beneficia maggiormente della conquista
della parola, ma anche le lacrime del
melodramma hanno assolutamente
bisogno delle dichiarazioni verbali, delle
confessioni del cuore. Se il mappamondo
dell’inizio di Casablanca (1942) di
Michael Curtiz gira fino a inquadrare
Parigi e poi Lisbona, centro dell’imbarco
per l’America, i meno fortunati aspettano
Una delle memorabili
performance di Fred
Astaire in Sua altezza
si sposa di Stanley
Donen
42
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
i visti per potersene andare. Solo alla fine
si capisce che il sacrificio di Humphrey
Bogart corrisponde alla necessità
dell’intervento americano nella seconda
guerra mondiale. “È un colpo di cannone
o è il mio cuore che batte?”, si chiede
Ingrid Bergman. Nonostante il richiamo
struggente di As Time Goes By, nel
rapporto tra pubblico e privato prevale
l’urgenza del momento storico che
risolve le difficoltà sentimentali del
melodramma, uno dei maggiori di tutti i
tempi.
Il cinema americano degli anni
cinquanta torna a più riprese sul proprio
passato, s’interroga sul passaggio
epocale dal muto al sonoro. Viale del
tramonto (1950) di Billy Wilder mette in
scena Gloria Swanson, la revenante che
vive nella casa-museo dove cerca di
rinascere cannibalizzando lo
sceneggiatore William Holden. Solenne
come un rito funebre, lascia sospeso il
giudizio sul presente. Cantando sotto la
pioggia (1952) di Stanley Donen rivisita il
luogo del delitto, la storica prima
dell’autunno 1927 in cui tutto è
cominciato. Animato dall’energetico
vitalismo di Gene Kelly, guarda con
ironia al parlato degli inizi per vedere
meglio nel futuro. Racconta il decollo
del sonoro, ma allude all’arrivo della
televisione che già comincia a sottrarre
spettatori alle sale e nel giro di qualche
anno segnerà la crisi di Hollywood e di
una stagione irripetibile del cinema.
Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche
Audiovisive e Multimediali
LA GRANDE CONVENTION
D E L L’ I N D U S T R I A C I N E M A T O G R A F I C A
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cinematografica nell’area espositiva del Trade Show
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bonanniversaire
senza frontiere
Far, Far
West
Da Ford al nuovo Tarantino, l’epopea di
cowboy, pionieri e indiani ha sempre avuto
bisogno di spazio e di lontani orizzonti. Per
questo è stato inventato il CinemaScope
DI BRUNO FORNARA
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rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
Qui e accanto
Marilyn Monroe in
La magnifica preda
’
L
antidigitale Quentin
Tarantino sta girando in 70
mm il western The Hateful
Eight, ambientato in
Wyoming, terra di western,
nei primi anni dopo la
guerra civile, epoca di western, con otto
cacciatori di taglie che si rifugiano in un
piccolo emporio durante una tempesta di
neve, tipica situazione da western di
montagna, e vivono una vicenda di
tradimenti, noto tema western che ci porterà
a chiederci se riusciranno a sopravvivere,
domanda molto western.
Il western ha sempre amato i lontani
orizzonti, le mandrie di mucche, le cavalcate
dei fuorilegge in fuga, l’avanzare ordinato dei
cavalleggeri in doppia fila. Ha prediletto
deserti, praterie e montagne nelle larghe
inquadrature in CinemaScope che
aprile 2015
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
45
bonanniversaire
senza frontiere
disanamorfizzavano (!) l’immagine deformata
sulla pellicola proiettandola nelle proporzioni
di 2,35 a 1 (fino anche a 2,55 e 2,66).
Per questo Tarantino usa il glorioso – lui dice
“breathtaking”, che toglie il respiro –
CinemaScope in 70 mm perché il western ha
bisogno di spazio, nel fotogramma e sullo
schermo. Il western sta dalla parte della
wilderness. Anche quando la vicenda si
svolge tra l’ufficio dello sceriffo e il saloon
(Un dollaro d’onore), il mondo al naturale è
pur sempre là fuori, appena oltre l’ultima
casa della cittadina. Compiti dell’uomo
americano sono stati l’avanzamento della
frontiera mobile verso l’Ovest e la
trasformazione del deserto e della wilderness
in giardino. Ma il western è della wilderness
che ha sempre bisogno, è lì che la natura si
mostra e l’uomo può muoversi senza confini
o può rimpiangere di non poterlo più fare.
Nel Cavaliere della valle solitaria di George
Stevens, Shane (Alan Ladd) arriva alla casa
del colono Joe Starrett (Van Heflin). Gli
chiedono dove stia andando. Lui risponde da
westerner senza confini: “Vado a Nord...”.
Ecco: il genere ha bisogno di spazi simbolici
e iperbolici, terre promesse, giardini
dell’Eden, luoghi dove valgono solo i punti
cardinali. Lo sfondo naturale sta dietro
all’azione ma le dà il senso di una
produzione simbolica che trasforma in
protagonista l’uomo a cavallo, lo sceriffo con
la stella, il colono sul carro in cerca di una
fertile valle. Poi, quando il western si fa
autunnale, lo sfondo naturale diventa
nostalgia struggente, paradiso perduto,
rammarico e consapevolezza. Lo scope sa
esaltare questo spazio nella sua obiettività e
nella sua vocazione emotiva ed emblematica.
Il primo film in scope è La tunica di Henry
Koster, del 1953. L’anno successivo arrivano
i primi western nel nuovo formato. In La
magnifica preda, titolo originale River of No
Return, lo scope è usato al di sotto delle
possibilità. C’è qualche bella inquadratura di
paesaggio, ma in questo unico western di
IL WESTERN STA
DALLA PARTE
DELLA
WILDERNESS : È LÌ
CHE LA NATURA SI
MOSTRA E L’UOMO
PUÒ MUOVERSI
SENZA CONFINI
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rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
John Wayne in
L'uomo che uccise
Liberty Valance. Sopra
Sentieri selvaggi e
Gary Cooper in Vera
Cruz
Otto Preminger, che segue Robert
Mitchum e Marilyn Monroe su una zattera
lungo le rapide di un vorticoso fiume,
molte sequenze furono girate in studio
con l’uso del trasparente e con i
collaboratori del regista che gettavano, dal
fuoricampo, secchiate d’acqua sulla
coppia e sul figlio di lui. Anche nel chiuso
melodramma La lancia che uccide di
Edward Dmytryk lo scope non può essere
usato al meglio. È in Vera Cruz di Robert
Aldrich, con Ernest Laszlo direttore della
fotografia, che lo scope risplende per tutto
il viaggio con la carrozza e con l’oro,
trova vigoria nelle scene di battaglia,
rende sfolgorante il sorriso di Burt
Lancaster.
Ugualmente utile è lo scope in Giorno
maledetto di John Sturges con Spencer
Tracy, in originale Bad Day at Black Rock
(1955). Film stringato e teso, con una
decisa intonazione di civile moralità, con
lo scope che, nella fotografia di William C.
Mellor, fa dello spoglio paesaggio una
presenza autorevole e drammatica.
Interessante è seguire il percorso di alcuni
grandi registi. Anthony Mann gira - tra il
1954 e il 1955 - il picaresco Terra lontana
senza scope, che invece usa al meglio per
i paesaggi del New Mexico di L’uomo di
Laramie e per L’ultima frontiera, così
come la fotografia di Ernest Haller
contribuisce all’ottimo risultato di Dove la
terra scotta (1958). John Ford è più
diffidente: non usa lo scope in uno dei
suoi più alti risultati, Sentieri selvaggi
(1956), e neppure nei successivi Soldati a
cavallo (1959), I dannati e gli eroi (1960)
e Cavalcarono insieme (1961). Nel
mastodontico e plurale La conquista del
West (1962) gira invece in Cinerama quel
tragico, piccolo episodio sulla battaglia di
Shiloh. Poi lascia lo scope per L’uomo che
uccise Liberty Valance, sempre del 1962,
memorabile riflessione sul tema
wilderness/legge/democrazia, e non usa lo
scope neppure nel suo western indiano di
viaggio e di paesaggi Il grande sentiero
(1964), in originale Cheyenne Autumn.
È già arrivato l’autunno. Sam Peckinpah
ha già filmato in scope, nel 1962, in Sfida
nell’Alta Sierra, il romantico e malinconico
duello finale con il sole al tramonto sui
suoi attempati e stanchi eroi, l’idealista
Joel Mc Crea e il pragmatico Randolph
Scott. Un duello sotto lo sguardo di un
amorevole CinemaScope è – forse – meno
doloroso.
Dall'alto Burt Lancaster e Gary Cooper in
Vera Cruz, Quentin Tarantino, James Stewart
e Debbie Reynolds nella Conquista del West
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rivista del cinematografo
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bonanniversaire
l’ondata europea
Nel 1959, con
I quattrocento colpi,
nasce il movimento
artistico che avrebbe
cambiato per sempre
la settima arte. Dalla
Francia agli Stati Uniti
DI EMANUELA MARTINI
Le Nouvelles
Vagues
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rivista del cinematografo
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aprile 2015
I
‘‘
l film di domani mi appare ancora più
personale di un romanzo, individuale
e autobiografico come una
confessione o un diario intimo. I
giovani cineasti si esprimeranno in
prima persona e ci racconteranno
vicende da loro vissute: potrà essere la
storia del loro primo amore o dell’ultimo,
della loro presa di coscienza politica, un
racconto di viaggio, una malattia, il loro
servizio militare, il loro matrimonio, le loro
ultime vacanze, e questo piacerà quasi per
forza, perché sarà vero e nuovo. Il film di
domani non sarà realizzato da funzionari
della macchina da presa, ma da artisti per i
quali girare un film è un’avventura
formidabile ed esaltante. Il film di domani
sarà un atto d’amore”. Lo scriveva, nel 1957
su “Arts”, un critico venticinquenne molto
agguerrito, già regista di alcuni
cortometraggi: François Truffaut, che nel
1959, con I quattrocento colpi (premio alla
regia al Festival di Cannes, che fu scosso
anche dallo “scandalo” di Hiroshima mon
amour di Alain Resnais), avrebbe
ufficialmente inaugurato la Nouvelle Vague,
il più meditato e denso dei tanti movimenti
che cambiarono la faccia del cinema tra la
fine degli anni Quaranta e gli anni Settanta.
I giovani cineasti francesi erano tanti, erano
bravi, erano stati critici militanti (soprattutto
sui “Cahiers du cinéma”, fondati nel 1950 da
André Bazin, teorico della “politique des
auteurs”), conoscevano il cinema del
passato (che scoprivano alla Cinémathèque
Française di Henri Langlois, luogo di
dibattiti infiniti) e difendevano i loro
numerosi amori, la durezza e la velocità del
cinema americano di genere, la purezza e la
profondità di maestri dallo spirito
indipendente. Si chiamavano Truffaut,
Resnais, Jean-Luc Godard, Claude Chabrol,
Jacques Rivette, Eric Rohmer, Agnès Varda,
Chris Marker, teorizzavano le possibilità
infinite offerte da un cinema più “leggero” e
arioso, girato a costo contenuto, talvolta in
16 mm, spesso all’aperto e a luce naturale,
sconvolgevano i canoni espressivi
tradizionali (dal montaggio all’angolo delle
riprese), osavano quell’imperfezione che
avevano visto balenare in certi film come
segno di rottura rispetto all’immobile
reiterazione dell’odiato “cinema di papà”,
costruito a tavolino negli studi.
aprile 2015
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
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bonanniversaire
l’ondata europea
François Truffaut sul set del
Ragazzo selvaggio. Sotto un
giovane Jean-Luc Godard.
E nella pagina precedente una
scena di Jules et Jim e ancora
Truffaut
50
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
In realtà, i giovani della Nouvelle Vague
avevano colto e organizzato in un discorso
critico e operativo sistematico gli spunti che
trapelavano in tutto il mondo da qualche
anno, a partire dal neorealismo italiano e
soprattutto dall’opera di Roberto Rossellini,
che nel 1945 aveva girato Roma città aperta
senza soldi, con tre tipi diversi di pellicola
(spesso di scarto), molti attori non
professionisti, per strada. Era la realtà della
guerra che invadeva sgranata lo schermo.
Ed era stata la realtà di Coney Island e
Brooklyn che avevano cercato, nel 1953,
Morris Engel, Ruth Orkin e Ray Ashley, con
una macchina da presa 35 mm leggera, a
spalla, inventata dall’amico fotografo di
guerra Charles Woodruff. Nasce Il piccolo
fuggitivo, modello non solo per Truffaut e
Godard, ma anche per tutti i “movimenti”
che si succedono nel cinema americano, dal
solitario esplosivo debutto di John
Cassavetes, nel 1959, con Ombre (girato a
New York con 15.000 dollari, in 16 mm, poi
gonfiato in 35), alle esperienze del New
American Cinema Group di Jonas Mekas,
Shirley Clarke, Robert Frank, Stan Brakhage,
Gregory Markopoulos e gli altri (fino a
Andy Warhol), sospesi tra la rivendicazione
di una libertà espressiva e distributiva
alternativa alla macchina hollywoodiana e il
richiamo alle avanguardie storiche europee.
Lo stile è diretto, la gente è vera, le storie si
liberano delle imposizioni di sceneggiature
di ferro, si colgono l’attimo, gli umori che
cambiano, l’insofferenza quotidiana, il
primo insorgere della politica come
Jean-Paul Belmondo e
Jean Seberg in Fino
all'ultimo respiro.
Sotto Anna Magnani
elemento fondante della vita di ciascuno (e
questa, per il cittadino americano, è una
svolta radicale). Ed era stata la realtà di una
Londra proletaria e suburbana o di una
domenica in un parco divertimenti popolare
che avevano raccontato fin dall’inizio degli
anni Cinquanta i giovani cineasti e critici
britannici raggruppati intorno alla rivista
“Sequence” (fondata a Oxford nel 1946),
nella quale fu coniata l’espressione Free
Cinema, per indicare i film caratterizzati
dall’uso personale ed espressivo del mezzo.
Il gruppo, formato da Lindsay Anderson,
Karel Reisz, Tony Richardson, esce allo
scoperto all’inizio di febbraio del 1956, con
un programma di cortometraggi presentato
al National Film Theatre, nel quale
definiscono i loro film liberi, “una sfida
all’ortodossia”, cui seguiranno altri cinque
programmi, che comprendono anche i
primi lavori degli svizzeri Alain Tanner e
Claude Goretta, di Truffaut, Chabrol,
Polanski e Borowczyk, fino al 1959, anno in
cui il Free Cinema passa al lungometraggio,
con I giovani arrabbiati di Richardson.
Girati per lo più in 16 mm, spesso prodotti
dal British Film Insitute, O Dreamland ed
Every Day Except Christmas di Anderson,
Momma Don’t Allow di Reisz e Richardson,
Together di Lorenza Mazzetti, Siamo i
ragazzi di Lambeth di Reisz modificano
radicalmente l’immagine di sé che
l’Inghilterra ha dato negli ultimi anni: i
giovani, i teddy boys, i locali notturni
periferici, le marce contro il nucleare, il
“popolo” inglese, diventano i soggetti della
nuova narrazione che mette il cinema alla
pari con la storia di un paese il cui assetto
culturale e politico si sta letteralmente
ribaltando (l’Impero è caduto con la crisi di
Suez del ‘56, in letteratura e teatro sono
esplosi gli “angry young men”, gli immigrati
rivendicano i loro diritti, di lì a poco
arriveranno i Beatles, i Rolling Stones e la
minigonna di Mary Quant).
Il 1956 è un anno chiave anche per un’altra
vasta parte d’Europa: si tiene infatti in
quell’anno il XX Congresso del Partito
TUTTI SONO ALLA RICERCA DI UN MONDO
NUOVO E DI UN MODO DIVERSO
DI ESPRIMERE LE LORO EMOZIONI
Comunista Sovietico, nel quale il segretario
Nikita Kruscev annuncia la destalinizzazione
e l’inizio del “disgelo”. Per quanto
contraddittorio (proprio nel ‘56 l’Urss invade
l’Ungheria), è un periodo segnato dalle
fibrillazioni del rinnovamento: in Polonia,
esordiscono Andrzej Munk, Wojciech Has,
Jerzy Kawalerowicz, Andrzej Wajda e, negli
anni Sessanta, Roman Polanski e Jerzy
Skolimowski; in Cecoslovacchia nasce la
Nova Vlná (la nuova ondata), con Milos
Forman, Vera Chytilová, Jirí Menzel; in
Ungheria si affermano Miklós Jancsó, István
Gaál, András Kovács, István Szabó. Toni,
stili, linguaggi differenti, dalla vena
surrealista dei cecoslovacchi e di Polanski e
Skolimowski alle potenti metafore di Jancsó
e Has al pessimismo romantico di Wajda:
ma tutti questi autori sono comunque alla
bonanniversaire
l’ondata europea
ricerca di un mondo nuovo e, soprattutto,
di un modo diverso di esprimere le loro
emozioni e la loro insofferenza rispetto a
culture e stili di vita che non li
rappresentano più. In Italia, la famiglia
esplode con I pugni in tasca di Marco
Bellocchio, gli ideali si incrinano con
Prima della rivoluzione di Bernardo
Bertolucci, i sottoproletari impongono la
loro disarmonia con Accattone di Pier
Paolo Pasolini. In Spagna, Carlos Saura
racconta il franchismo morente con La
caccia. In Brasile l’estetica della fame di
Glauber Rocha e Ruy Guerra, tra
simbolismo e realismo, impone il Cinema
Nõvo, mentre in Argentina, in Bolivia, a
Cuba, Fernando Solanas e Octavio Getino
(La hora de los hornos), Jorge Sanjinés
(Revolución), Tomás Gutiérrez Alea
(Memorie del sottosviluppo) raccontano tra
documentario e ballata la storia e le
condizioni miserevoli dei loro paesi. Il 28
febbraio del 1962, ventisei cineasti
tedeschi (tra i quali Alexander Kluge ed
Edgar Reitz) firmano un breve testo che
dice: “Anche in Germania il
cortometraggio è diventato la scuola e il
campo di sperimentazione per i film. Noi
dichiariamo di voler creare il nuovo film
tedesco a soggetto. Questo cinema ha
bisogno di nuove libertà: deve essere
liberato dalle convenzioni, dalla
commercializzazione, dalle tutele
finanziarie. Abbiamo idee concrete, sul
piano intellettuale, estetico ed economico.
Insieme siamo pronti a sopportare i rischi
economici. Il vecchio cinema è morto,
crediamo in quello nuovo”. È il “Manifesto
di Oberhausen”, l’avvio per la rinascita del
cinema tedesco, che si prolunga fino agli
anni Ottanta con il lavoro di Herzog,
Fassbinder, Schroeter, Wenders. È l’ultimo
dei grandi movimenti di rinnovamento,
insieme alla New Hollywood che, dalla
metà degli anni Sessanta per circa un
decennio, stravolge le regole, i miti, i volti
del cinema americano, ancora una volta
“alleggerendo”, rubando alla strada, alla
vita, ai sogni, alle inquiete esperienze di
una generazione inquieta che, quasi
contraddittoriamente, si ritrova poi (con
Spielberg, Lucas, Scorsese, Coppola,
Cimino, De Palma, e con i due grandi
maestri più “maturi”, Robert Altman e Sam
Peckinpah) a rifondare Hollywood. Tutti
loro, come ha detto Godard, si erano
trovati “all’ora giusta”.
Dall'alto, Ombre
di John Cassavetes,
Pier Paolo Pasolini,
Jean-Pierre Leaud
nel Vergine di
Skolimowski,
Roman Polanski,
I pugni in tasca e
una scena di Prima
della rivoluzione
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aprile 2015
Elio Germano
Palomar e Rai Cinema
presentano
il giovane
favoloso
un film di Mario Martone
“Un film bellissimo,
uno dei più straordinari e
originali di Martone,
una storia che ne
contiene molte altre”
La Repubblica
“Elio Germano in
un’intensa prova d’attore”
Corriere della Sera
“Grazie Martone
per questo Leopardi”
La Stampa
IN VENDITA
IN DVD E BLU-RAY DISC
DAL 16 APRILE
PER VISUALIZZARE I CONTENUTI EXTRA
DEL FILM SCARICA L'APP DI AR-CODE
E INQUADRA L'IMMAGINE
bonanniversaire
oltre lo schermo
Effetto
digitale
Il computer ha cambiato la
natura dell’immagine, l’industria
del film e le modalità di
fruizione. Ma la vera rivoluzione
è ancora di là da venire
DI GIANLUCA ARNONE
C
he le immagini potessero
essere catturate da un fascio
di elettroni è una scoperta
che dobbiamo a un
elettricista, Philo Farnsworth.
Era il 1921 e l’uomo sarebbe
morto prima di vederne l’applicazione sul
campo. Le immagini animate vengono
tracciate nel 1967, mentre per i primi test
sul digitale bisogna aspettare Il mondo dei
robot di Michael Crichton (1973). Nel 1977
George Lucas sperimenta in Guerre stellari
l’introduzione di immagini di sintesi su
pellicola. Nel 1979, per Star Trek 2, viene
formata la primissima squadra di computer
graphics. Con Terminator 2 (1991), James
Cameron ne sviluppa le potenzialità
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rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
creative. La rivoluzione del digitale è soft.
La sua storia non travolge la storia del
cinema, ma l’accompagna, in punta di
piedi. A differenza del sonoro, istituisce un
nuovo paradigma visivo senza fretta né
clamori. Ora che è sotto gli occhi di tutti,
si ha il sospetto che non ci abbia ancora
fatto vedere tutto. Dal punto di vista
estetico, certamente. L’industria finora ha
optato per una sperimentazione al ribasso.
Nonostante lo sforzo di pionieri quali
Spielberg, Zemeckis, Cameron, gli effetti
speciali del digitale sono stati usati
soprattutto per rafforzare l’impressione di
realtà delle immagini. Il primato
dell’occhio e l’eredità del realismo hanno
fatto sì che le nuove immagini generate e
assemblate al computer finissero
semplicemente per sostituire quelle vecchie
“impresse” su pellicola. Suscitano
certamente ammirazione i dinosauri ricreati
digitalmente da Spielberg in Jurassic Park
(1993) o i vichinghi di Zemeckis in Beowulf
(2007), vero e proprio salto in avanti delle
performance motroniche (è la tecnologica
che consente di trasdurre le azioni di attori
in carne e ossa nei loro omologhi virtuali).
Tuttavia, è un salto evolutivo che avviene
IN FUTURO,
SECONDO ALCUNI,
IL CINEMA
RIUSCIRÀ A
SIMULARE IL
MODO IN CUI NOI
VEDIAMO CON IL
CERVELLO
nel recinto protetto del cinema
istituzionale, laddove il digitale non supera
ma “assiste” il vecchio film analogico: gli
impresta il nome, gli regala l’effetto, ne
taglia i costi. Un tempo sarebbero stati
impiegati robot e macchinari ingombranti,
make-up, costumi e scenografie. Oggi il
digitale ricrea ex novo tutto questo,
risparmiando su materiali e maestranze. Si
spinge più in là Cameron, che con Avatar
dimostra come sia possibile coniugare
tradizione mitopoietica e immaginazione
creativa offrendo un’esperienza immersiva
(il 3D) senza precedenti. Ma è un maestro
come Kurosawa a mostrarci in Sogni
(1990) l’implicita vocazione della computer
grafica a trattare il fotogramma come un
dipinto e l’inquadratura come un quadro.
L’immagine digitale, non riferendosi più a
qualcosa che gli sta davanti (il pro-filmico)
o la travalica (il fuoricampo), è
fondamentalmente auto-genetica e
autoreferenziale, come la tela che il pittore
va riempiendo. “La coloritura di un pixel –
scrive Antonio Costa ne Il cinema e le arti
figurative – è più vicina alla stesura di una
campitura di colore di quanto non lo sia la
ripresa cinematografica d’un paesaggio”. Il
che ci riporta anche al cinema delle origini
dove i fotogrammi venivano dipinti a
mano. Inoltre, rispetto agli automatismi del
procedimento analogico (la ripresa con la
mdp), l’autore di un’immagine digitale è
più responsabile delle sue creazioni.
Peccato che questa responsabilità sia stata
spesso appaltata dagli studios in funzione
del massimo realismo ottico o della
riconoscibilità del brand (esiste un preciso
figurativismo Disney, Pixar o
DreamWorks). Se non altro la dicotomia
analogico/digitale ha nutrito tutta una
generazione di cineasti – i postmoderni à
la Tarantino – che ha giocato apertamente
con i meccanismi veritativi del film e ha
ridato linfa a un filone, la fantascienza, che
sembrava essersi eclissato con la guerra
fredda: i vari Matrix, eXistenZ, Minority
Report sono popolati di doppi, cyborg,
simulacri, che riflettono la confusione di
biologico e artificiale. Più feconde e
promettenti sono però le ricadute
socioeconomiche della digitalizzazione,
dalla convergenza trans-mediale che fa
viaggiare il film da un supporto all’altro,
alla disponibilità di tutta una serie di
dispositivi di “ripresa” leggeri, economici e
facili da usare, che costituiscono oggi una
risorsa fondamentale per filmaker e autori
“off”. Infine, c’è tutto un mondo
accademico che ha ripreso a ragionare sul
cinema da quando il digitale ne ha
cambiato i connotati: se da un lato la
scomparsa del “mondo vero” nella
fantasmagoria dell’algoritmo ha ridato fiato
ai cantori del catastrofismo – quelli che
l’immagine digitale è diabolica – dall’altro
ha suscitato sforzi di immaginazione fino a
ieri impensabili. Studiosi come Weibel,
Manovich, De Rubeis o Zeki, ancorano la
riflessione sul digitale ai recenti studi sui
meccanismi “neuronali” della visione,
ipotizzando uno scenario in cui il cinema
del futuro sarà in grado di simulare il
modo in cui vediamo non con gli occhi,
ma con il cervello.
Blade Runner.
Sopra Beowulf, a
sinistra Avatar e
un artwork di
Terminator
aprile 2015
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
55
RITRATTI
di Orio Caldiron
Tra i più iconici
“cattivi” del
grande schermo,
Steiger. È stato
Napoleone,
Mussolini, Al
Capone.
E non solo
See you later, Rod
56
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
S
In apertura Rod
Steiger nel
ritratto di Marco
Letizia. Sopra in
L'uomo illustrato
di Jack Smight
e la figura tarchiata, il collo taurino, l’aspetto
rude sembravano destinarlo ai ruoli di fianco
e non a quelli dei protagonisti di bell’aspetto,
Rod Steiger è riuscito a diventare uno dei più
riconoscibili cattivi del cinema americano,
incarnando con la sua prepotente fisicità il
peggior cinismo del “secolo breve” in una
galleria di duri incorreggibili, dal serial killer
psicopatico al terrorista spietato, senza
contare Napoleone e Mussolini. Nasce a
Westhampton nello Stato di New York il 14
aprile 1925 da una coppia di attori di
vaudeville che presto si lasciano. Dopo
un’infanzia difficile, a quindici anni scappa di
casa per arruolarsi in marina, combattendo
nel Pacifico. Nel dopoguerra si stabilisce a
New York, dove lavora presso l’associazione
reduci e frequenta vari corsi di recitazione.
Ma è l’Actors Studio di Lee Strasberg a
incidere profondamente sul giovane
appassionato di teatro che sarà segnato per
sempre dai manierismi del Metodo. Si fa
notare in Fronte del porto (1954) dove è il
corrotto fratello maggiore di Marlon Brando.
Non meno sgradevoli l’inquisitore che in
Corte marziale (1955) si accanisce contro
l’idealismo di Gary Cooper. O l’odioso
produttore de Il grande coltello (1955) che
ricatta Jack Palance, il divo ad alto tasso
alcolico. O l’ambiguo organizzatore di boxe
de Il colosso d’argilla (1956) che si scontra
con il giornalista Humphrey Bogart alla sua
ultima apparizione.
Sempre sopra le righe ma memorabile è
anche il suo debordante Al Capone (1959), di
cui si ricorderà Robert De Niro ne Gli
intoccabili di quasi trent’anni dopo. Negli anni
sessanta è proverbiale la performance
adrenalinica del costruttore Nottola in corsa
per il posto di assessore ne Le mani sulla città
(1963), vibrante requisitoria contro la
speculazione edilizia di Napoli firmata
Francesco Rosi. Nevroticamente incisiva è
anche l’interpretazione di Sol Nazerman,
l’usuraio dell’Upper East Side newyorkese di
L’uomo del banco dei pegni (1964) che sfoga
sui poveracci del quartiere l’odio accumulato
nel lager nazista. Ma soltanto il rude sceriffo
di provincia, bigotto e razzista di La calda
notte dell’ispettore Tibbs (1967) – il thriller in
cui indaga con Sidney Poitier su un caso di
omicidio nel profondo Sud – gli fa
guadagnare l’Oscar come miglior
protagonista.
Non si contano gli aneddoti sul suo carattere
polemico. Si dice che sul set di Waterloo
(1970), indispettito perché gli facevano pochi
primi piani, si sia presentato vestito solo dalla
cinta in su, mentre dalla vita in giù era in
mutande, per costringere il regista a
inquadrarlo almeno a mezza figura.
Nonostante la grave crisi depressiva, negli
ultimi decenni appare in un gran numero di
titoli. Ma è poco più di un caratterista.
Quando in Mars Attacks! (1996) impersona il
generale schiacciato dal piede
dell’ambasciatore marziano, la carriera del
grande istrione è ormai alle spalle. Si è
sposato cinque volte e ha avuto due figli,
Anna e Michael. Muore a Los Angeles il 9
luglio 2002. Sulla sua lapide aveva deciso che
fosse scritto: “See you later”.
aprile 2015
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
57
I TOP 5
60
al Cinema
OTTIMO BUONO SUFFICIENTE MEDIOCRE SCARSO
Wild
63
62
White God
68
Il padre
65
Ritorno al Marigold Hotel
Short Skin
64
69
Tomorrowland
Samba
66
The Fighters
67
Ex Machina
60 Wild
62 White God
62 L’ultimo lupo
63 Short Skin
64 Samba
65 Ritorno al Marigold Hotel
65 Into the Woods
66 Black Sea
66 The Fighters
67 Ex Machina
68 Humandroid
68 Il padre
69 Preview
Il racconto dei racconti
Il ragazzo della porta
accanto
La giovinezza
The Gunman
Leviathan
Tomorrowland
aprile 2015
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
59
i film del mese
Un’Eneide al
femminile, in cui
la protagonista
metaforicamente
porta la madre
sulle spalle
60
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
WILD
Reese Witherspoon cammina verso una seconda vita.
E taglia il traguardo grazie al bel biopic di Vallée
In sala
Regia Jean-Marc Vallée
Con Reese Witherspoon,
Laura Dern
Genere Drammatico (120’)
L
a carriera di un attore
può essere strana
dopo un Oscar. Come
quella di Reese
Witherspoon, fidanzatina
d’America dopo La rivincita
delle bionde, vincitrice della
statuetta per il ruolo della
moglie di Johnny Cash in
Walk the Line. Da allora,
film sbagliati e una vita
privata burrascosa. Non è
un caso, quindi, che Miss
Witherspoon sia rimasta
folgorata dalla storia di
Cheryl Strayed, ragazza
destinata a un brillante
futuro che dopo un’infanzia
travagliata viene travolta
dall’improvvisa morte della
madre. Seguirà una discesa
agli inferi da cui cercherà di
risalire con un lungo
percorso, nel vero senso
della parola, interiore e
fisico. Quasi duemila miglia,
per l’esattezza, sulla
meravigliosa Pacific Crest
Trail, dal confine con il
Messico alla frontiera
canadese. Wild è la storia di
questo viaggio, di cui si è
innamorato per primo Nick
Hornby che ha tratto la
sceneggiatura dal libro
biografico della Strayed e
che ha poi trovato la dura
Reese come compagna di
viaggio. Diretto da JeanMarc Vallée, regista esperto
nell’ammorbidire il cuore
degli spettatori, senza
dimenticare di scuoterli
quando necessario, e
specializzato nel regalare
ruoli da Oscar (Matthew
McConaughey e Jared Leto
per Dallas Buyers Club),
Wild va oltre il mero
prodotto hollywoodiano. Il
suo pregio è la sensibilità
con cui è tratteggiato il
rapporto madre-figlia, vero
motore della storia, scritto
con partecipazione da
Hornby che definisce due
figure tormentate senza
farne cliché. La splendida
madre Laura Dern è una
donna che ha sofferto e che
cerca una rivincita che non
arriverà. La figlia
Cheryl/Reese ha
l’autodistruzione nel DNA e
raccoglie l’eredità interrotta
per salvarsi. Più che un Into
the Wild al femminile, viene
in mente lo straordinario
Stories We Tell di Sarah
Polley, in cui la famiglia
viene tratteggiata come
entità misteriosa tanto
quanto i rapporti che la
tengono insieme.
Il viaggio, epico
nell’accezione più classica
del termine, parte da qui,
un’Eneide in cui la
protagonista porta la
genitrice sulle spalle, non
solo metaforicamente, fino
alla meta finale, un luogo
dello spirito da dove
ricominciare. Non si tratta
di una geniale intuizione
narrativa: in fondo tutte le
storie hanno radici lontane
e si evolvono con le
necessarie variazioni sul
tema, ed è questa una
formula che si può
applicare alla vita stessa,
che vale sempre la pena di
essere raccontata, felice o
dolorosa, noiosa o
spericolata. La Witherspoon
cammina, lo fa con dignità e
soprattutto umiltà, qualità
da tempo dimenticata,
mette il film nel suo
capiente zaino e non spreca
la fatidica seconda
occasione che prima o poi a
tutti si presenta. Citando il
Tom Hanks di Salvate il
soldato Ryan, adesso se la
deve meritare.
ALESSANDRO DE SIMONE
aprile 2015
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
61
i film del mese
WHITE GOD
Cani contro uomini: parabola che abbaia ma non morde
canile per essere abbattuto. Fugge di
nuovo, stavolta alla testa di 300
esemplari tosti come spartani: parte la
caccia all’uomo. Vincitore dell’ultimo Un
Certain Regard, White God – Sinfonia
per Hagen ha un valore politico che
oltrepassa i propri meriti artistici. Il
messaggio è smaccato, l’ambasciatore
manicheo, la busta che porta ha i
contrassegni del thriller, ma un ritmo da
passeggiata domenicale e una suspense
da picnic in pineta. Un po’ Gli uccelli e
un po’ Torna a casa Lassie! – senza però
la tensione drammaturgica dell’uno né
la spensierata leggerezza dell’altro
– White God storpia ovviamente
il White Dog di Samuel Fuller (1982), in
cui un pastore svizzero bianco
azzannava persone di colore senza
neppure abbaiare. In questo caso
invece, il film abbaia ma non morde mai.
GIANLUCA ARNONE
PER DENUNCIARE il razzismo di
ritorno nella natia Ungheria, Kornél
Mundruczó riesuma il vecchio apologo
orwelliano. Siamo a Budapest, una
nuova legge vieta il possesso di cani
“non di razza” e a farne le spese è un
meticcio, Hagen, metà Labrador e metà
Shar Pei. Abbandonato dai suoi
padroni, il cane finisce nelle grinfie di un
sadico che lo addestra alla violenza per
usarlo nei combattimenti clandestini.
Scappa, viene catturato e portato in un
In uscita
Regia Kornél Mundruczó
Con Zsófia Psotta, Sándor Zsótér
Genere Drammatico (119’)
L’ULTIMO
LUPO
Favola ecologista nella
Mongolia “dei cinesi”:
ben tornato Annaud!
In sala
Regia Jean-Jacques Annaud
Con Shaofeng Feng, Shawn Dou
Genere Avventura (118’)
JEAN-JACQUES ANNAUD non è un
regista dotato, ma se si tratta di
adattare bestseller, dirigere bestie
feroci e girare in luoghi impervi e
lontani, porterà a casa il risultato.
L’ultimo lupo, tratto dal romanzo di
Jiang Rong, arriva per lui al momento
giusto: dopo un periodo
d’appannamento culminato nel flop de
Il principe del deserto, Estremo Oriente
(dove aveva girato L’amante e Sette
anni in Tibet) e creature selvagge
confermano di avere sul nostro un
62
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
potere taumaturgico. Il lupo della
Mongolia gioca qui il ruolo che fu de
L’orso e dei Due fratelli tigrotti, ovvero
quello di cuore simbolico dello scontro
tra natura e cultura. Anche questa è una
favola ecologica che mostra come
l’equilibrio del mondo venga messo in
pericolo non dagli animali - che
uccidono solo per istinto - ma dalla
cattiveria degli uomini. Periodo e
ambientazione - siamo nel 1967, nel
pieno della Rivoluzione culturale di Mao
e dell’oppressione a danno delle
comunità nomadi della Mongolia aggiungono qualche nota di “colore” a
un impianto narrativo che, pur con
qualche asprezza, resta spettacolare,
ingenuo e sentimentale. A un film
costato ai cinesi la bellezza di 40
milioni di dollari non si poteva
onestamente chiedere di più.
GIANLUCA ARNONE
SHORT SKIN
Opera prima targata Biennale College: dramma trattato con la giusta ironia
Anteprima
Regia Duccio Chiarini
Con Matteo Creatini, Francesca Agostini
Genere Commedia (83’)
NON CAPITA SPESSO, almeno negli
ultimi anni, di imbattersi in un film
italiano capace di trattare con
delicatezza tematiche coraggiose senza
scadere nella retorica più bieca. Se, per
di più, pensiamo al novero delle opere
prime, ottenere un tale risultato sembra
ormai impossibile. In questo (piccolo)
miracolo è riuscito Duccio Chiarini, già
documentarista radiofonico e
cinematografico, con la sua opera prima
Short Skin. E i rischi di certo non
mancavano, visti i tormenti che vive il
protagonista Edoardo, diciassettenne
pisano sofferente di una fimosi al pene
che gli impedisce la masturbazione e lo
rende insicuro e impacciato con le
ragazze. Mentre tutti intorno a lui
sembrano parlare solo di sesso,
Edoardo si rinchiude sempre più nel suo
microcosmo solitario e infelice. Una
nuova amica conosciuta per caso e un
risvegliato interesse da parte della
ragazza dei suoi sogni lo porteranno,
però, a uscire dal guscio che si è creato
e ad affrontare le proprie paure. Figlio
del progetto Biennale Cinema College,
Short Skin riesce nel difficile compito di
far ridere con garbo e di trattare un
argomento drammatico con un buon
equilibrio di ironia e seriosità. Al centro
della pellicola c’è indubbiamente il
percorso (simbolico) di crescita del
protagonista, ma a colpire è anche la
cura con cui sono scritti i tanti
personaggi di contorno, familiari di
Edoardo e non. Nessun elemento risulta
fuori luogo ed è proprio l’incisivo
disegno d’insieme il pregio principale di
un lungometraggio che racconta con
forza l’universo adolescenziale, e quelle
paure che, in modi diversi, sono toccate,
toccano o toccheranno ciascuno di noi.
Se non è difficile rimanere coinvolti dalla
storia di Edoardo, il merito va anche a
una discreta estetica visiva, acerba solo
a tratti, e in grado di dare un ulteriore
valore alla pellicola. Curioso che,
durante la visione, più volte si perdano
le coordinate di trovarsi di fronte a un
prodotto italiano: Short Skin sembra
infatti un film indie statunitense, di quelli
che si vedono al Sundance e che poi
hanno successo in diverse altre
kermesse internazionali.
ANDREA CHIMENTO
A colpire è la cura con cui sono
scritti i personaggi di contorno
aprile 2015
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
63
i film del mese
SAMBA
Dopo Quasi amici una commedia “clandestina” e romantica per Nakache e Toledano
Anteprima
Regia E. Toledano, O. Nakache
Con Omar Sy, Charlotte Gainsbourg
Genere Commedia (116’)
UN IMMIGRATO SENEGALESE, in cerca
di permesso di soggiorno, una donna in
carriera con il morale spezzato dal
troppo stress da lavoro. Si può
immaginare qualcosa di più lontano?
Eppure nella Parigi di Samba si
incontrano e si innamorano. È la nuova
scommessa di Eric Toledano e Olivier
Nakache che – tre anni dopo la
commedia evento Quasi amici –
spiazzano il pubblico con una
commedia romantica, ma dai profondi
toni di riflessione sociale.
All’origine c’è un romanzo, Samba pour
la France, scritto dalla scrittrice\regista
Delphine Coulin (autrice con la sorella
di 17 ragazze). Grazie alla complicità di
Omar Sy, ancora una volta
64
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
protagonista come in Quasi amici, ci
aggiriamo con ironia in centri di
accoglienza, uscite di sicurezza di infimi
ristoranti, uffici per la richiesta di
permessi. E ci si ritrova a sorridere (con
un pizzico di amarezza) di burocrazia e
fughe dalla polizia, con Samba, il
protagonista, che cerca un lavoro per
trovare un’identità nella società
francese, nascondendo la propria. In
una Parigi “clandestina”, dove spesso i
protagonisti (Omar Sy ma anche il
compagno di sventure Tahar Rahim)
sono costretti a correre, in fuga da una
società che ne sfrutta il lavoro ma fa
finta di non vederli. A questo intreccio
del film – decisamente il più riuscito – si
affianca la commedia romantica, nella
quale entra in gioco la nevrotica
Charlotte Gainsbourg, il cui equilibrio è
messo a rischio proprio dal troppo
lavoro e che decide – in modo
impacciato e insicuro – di dedicarsi al
volontariato per superare le sue crisi di
ansia. Una storia d’amore tutta giocata
sulla forza dei sentimenti, capaci di
azzerare le differenze sociali tra i due.
Una sorta di favola, nella quale
finalmente vediamo la Gainsbourg in un
ruolo leggero (non a caso ne
recuperiamo sorriso e bellezza), mentre
Omar Sy si conferma attore capace di
spiazzare lo spettatore. Resta il dubbio
che forse un pizzico di coraggio in più
avrebbe reso più graffiante il ritratto di
una Parigi impermeabile a quel che
accade nelle sue strade.
MIRIAM MAUTI
Charlotte Gainsbourg finalmente
“leggera”: sorriso e bellezza
RITORNO AL MARIGOLD HOTEL
Torna la Villa Arzilla dei mostri sacri. Piacevole
quantomeno l’idea di base a rendere il
tutto interessante, del Ritorno al
Marigold Hotel non si sentiva il
bisogno. John Madden, regista tanto
fortunato quanto sopravvalutato, punta
questa volta sulla beata gioventù, Dev
Patel e Tina Desai, mettendo al centro
della storia i preparativi del loro
colorato e danzerino matrimonio
indiano, cercando di fare di questa
celebrazione del futuro una metafora
della vita che non finisce a settant’anni.
Non ci riesce, e il film procede per
episodi slegati e poco interessanti.
Restano gli attori, per fortuna,
affiancati da un Richard Gere in
vacanza premio e con un bel cameo di
David Strathairn, attore straordinario
che con più spazio avrebbe dato molto
a un sequel che certo non si può
considerare memorabile.
ALESSANDRO DE SIMONE
MAGGIE SMITH, Bill Nighy, Judi Dench.
Difficile trovare un concentrato
maggiore di classe e talento, senza il
quale la storia del Marigold Hotel non
avrebbe avuto un minimo di interesse
già dal primo episodio, figuriamoci per
un sequel. Ma il cinema, ogni tanto, non
è fatto solo di supereroi e sfumature di
colori, e vedere questi attempati
interpreti ricordare al mondo cosa
voglia dire l’arte della recitazione è un
piacere raro. Ma se nel primo film c’era
Anteprima
Regia John Madden
Con Bill Nighy, Maggie Smith
Genere Commedia (122’)
INTO THE
WOODS
Favole canterine si
incontrano, ma convincono
poco. Non basta il cast
In sala
Regia Rob Marshall
Con Meryl Streep, Anna Kendrick
Genere Fantasy (125’)
IMMAGINATE CENERENTOLA, Jack e i
suoi fagioli magici, Raperonzolo e
Cappuccetto Rosso che si incontrano
al bar e cominciano a cantare. Into the
Woods funziona più o meno così.
Tratto da uno dei maggiori successi di
Broadway degli ultimi vent’anni,
questa nuova incursione dell’esperto
Rob Marshall nel musical non fa
purtroppo dimenticare le brutture di
Nine, ma questa volta non è colpa
sua. Il premio Oscar per Chicago
dirige bene un cast eccellente che
sembra però davvero sperduto nel
bosco. Colpa di una storia che non
trova una direzione, se non quella che
proprio Marshall gli offre, costruendo
il film come un 11 settembre delle
fiabe. Purtroppo la terribile partitura e
il libretto ridondante lasciano poco
scampo, e le parti migliori sono quelle
dal taglio più ironico, su tutte il
magnifico duetto dei principi azzurri
“Agony” con un Chris Pine da
applausi. Non basta, per una volta,
neanche la strepitosa Meryl Streep, a
salvare un film che per un pubblico
non addestrato è ostico e noioso.
Peccato, perché la bella confezione,
impreziosita dai sontuosi costumi di
Colleen Atwood e le belle
interpretazioni di Anna Kendrick,
James Corden ed Emily Blunt, avrebbe
meritato di più.
ALESSANDRO DE SIMONE
aprile 2015
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
65
i film del mese
BLACK SEA
Macdonald negli abissi. Salvo Jude Law
NON SONO MOLTI i documentaristi
che affrontano il cinema di finzione
con la stessa qualità con cui
approcciano le storie di vita. Esempio
recentissimo è James Marsh, di cui
ricordiamo gli eccezionali Man on Wire
e Project Nim, mentre ben poco
docu-fiction alpinistica La morte
sospesa. Black Sea ne è il contraltare
sottomarino, storia di marinai
disoccupati che si trasformano in
mercenari per recuperare un carico
prezioso affondato nelle profondità
oceaniche. Atmosfere claustrofobiche,
introspezione umana e thriller, gli
ingredienti c’erano tutti, ma manca
paradossalmente l’elemento che
contraddistingue il documentarista.
Black Sea è un film freddo, il
sottomarino un formicaio attraverso
cui osservare le interazioni dei
personaggi. Latitano empatia e ritmo,
difetto di cui soffrivano anche le
precedenti opere di finzione del
cineasta scozzese. Resta l’ennesima
bella prova d’attore di Jude Law, che
migliora di pari passo alla stempiatura.
entusiasmo suscitano Doppio gioco e
La teoria del tutto, opere piuttosto
convenzionali. Lo stesso accade a
Kevin Macdonald, produzione
documentaria d’eccellenza, come Un
giorno a settembre, sulla strage delle
Olimpiadi di Monaco del 1972, o alla
ALESSANDRO DE SIMONE
d’addestramento militare e prove di
sopravvivenza nel bosco. Esperienze
di gioco e disagio, nell’urgenza di una
stagione che brucia (metaforicamente,
letteralmente), vogliosa di frutti,
tremenda e lieve come pioggia di
cenere. I nipoti della Nouvelle Vague
hanno l’ansia dei nonni ma non le
bandiere dietro cui camuffarla. Le
istituzioni – famiglia, scuola, esercito –
hanno fallito, i ribelli però sono finiti
prima. Ragazzi che non vogliono più
sapere per cosa lottare, ma come e
fino a quando. Baldanzosi e ingenui,
arroganti e fragili. Pronti alla guerra,
impreparati all’amore. Disposti a
provare di tutto, eccetto il rischio di
“provare” qualcosa. Che vivranno solo
arrendendosi alla vita. Catartico.
In uscita
Regia Kevin Macdonald
Con Jude Law, Jodie Whittaker
Genere Avventura (114’)
THE FIGHTERS
Originali senza il bisogno
di essere nuovi: sono
i teenager di Cailley
In uscita
Regia Thomas Cailley
Con Adèle Haenel, Kévin Azaïs
Genere Commedia (98’)
INIZIA CON UNA MORTE e finisce con
una rinascita, The Fighters, film
pluripremiato alla Quinzaine e ai César.
Un ragazzo e una ragazza, crisi da età
di passaggio, scoperta dei sentimenti,
crescita. Nuovo? No, ma quanta
freschezza, a dimostrazione che se le
storie sono finite, il piacere di
reinventarle è invece inesauribile. Il
bell’esordio di Cailley inanella
situazioni inedite e dialoghi
paradossali nel più classico dei
canovacci: la liason tra l’esile Arnaud e
la spigolosa Madeleine si dipana tra
beach wrestilng, campi
66
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
GIANLUCA ARNONE
EX MACHINA
Lo sceneggiatore di Danny Boyle esordisce alla regia con uno sci-fi maieutico
In uscita
Regia Alex Garland
Con Domhnall Gleeson, Oscar Isaac
Genere Fantascienza (108’)
IL CINEMA È FATTO DI STORIE, senza
una buona idea non si può fare un
buon film. Alex Garland ne ha avute
alcune, quasi sempre frustrate dal
regista con cui ha lavorato di più, il
caro vecchio Danny Boyle. Escludendo
28 giorni dopo e la prima metà di
Sunshine, il Premio Oscar di The
Millionaire ha sempre avuto una
straordinaria abilità a demolire le
sceneggiature che gli sono capitate tra
le mani. Bene ha fatto, quindi, il bravo
scrittore inglese a intraprendere la via
della regia, con una storia dalle molte
sfaccettature morali, proprio come
piace a lui. Un giovane programmatore
vince la possibilità di passare una
settimana con il geniale fondatore della
sua azienda. Nel corso di questi sette
giorni dovrà testare l’ultima creazione
del suo capo: un’intelligenza artificiale
autocosciente, con le fattezze di una
bellissima ragazza. Garland entra nel
recinto di un affascinante sottogenere
fantastico, quello del rapporto uomomacchina, e lo allarga a dismisura,
ponendo in Ex Machina una serie di
interrogativi etici e morali enormi a cui
non vuole certamente dare delle
risposte, semmai offrire degli strumenti
essenziali per la costruzione di un
dibattito. Film dal necessario impianto
teatrale, l’opera prima dell’autore di
The Beach ha nei dialoghi il punto di
forza. Giochi di logica e digressioni
filosofiche che lo scrittore porta a livelli
terreni, rendendoli il motore del film,
creando con intelligenza il serrato
ritmo narrativo proprio attraverso
l’evoluzione del complesso
ragionamento affrontato dai due
protagonisti. Un’opera dialettica e
maieutica, gestita con grande bravura
dai due protagonisti, Domhnall
Gleeson e Oscar Isaac, quest’ultimo
davvero eccezionale nei panni del
genio ambiguo e tormentato. Tra loro
la bellissima Alicia Vikander, robot con
un cuore e un’anima. Forse. Ma quello
che resta impresso di Ex Machina è
l’interrogativo che scienza, cinema e
letteratura si pongono da anni, e a cui
prima o poi bisognerà dare una
risposta: gli androidi sognano pecore
elettriche?
ALESSANDRO DE SIMONE
La domanda è la solita: gli androidi
sognano pecore elettriche?
aprile 2015
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
67
i film del mese
HUMANDROID
Blomkamp sempre più lontano dai fasti di District 9
SI GRIDÒ AL MIRACOLO quando Neill
Blomkamp esordì con District 9.
Fantascienza sociale anticapitalista
politicamente scorretta per un film
abbastanza originale per cui
l’entusiasmo fu forse eccessivo. Una
parziale conferma la offre Elysium,
riprogrammato dal suo creatore (Dev
Patel) per dargli un’intelligenza
artificiale e una coscienza. Andrà a
finire nelle mani di una scalcagnata
banda criminale che diventerà la sua
famiglia disfunzionale. Blomkamp
mette troppa carne al fuoco e perde
spesso le redini di un film slegato, dai
molti buchi narrativi e dalle idee
confuse. Humandroid è un grosso
passo indietro rispetto alle opere
precedenti e poco possono gli attori,
nonostante un buon Hugh Jackman in
versione villain e i sorprendenti Ninja
e Yolandi, coppia musicale
sudafricana che nei panni dei criminali
genitori sono la cosa migliore del film.
Speriamo che l’annunciato nuovo
Alien ci consegni un talento fino a ora
solo accennato.
interessante ma molto già visto, e
Humandroid è la prova definitiva.
Strano incrocio tra RoboCop e Corto
circuito, il terzo lungometraggio del
regista sudafricano è una favola
cyberpunk in cui un robot della polizia
di Johannesburg viene
ALESSANDRO DE SIMONE
attraverso il ricorso sistematico a
metafore, figure emblematiche e
scene madri, finisce per sottrarre
all’operazione il necessario calore
umano. Vittime e carnefici non hanno
rilievo, la drammaturgia si avvoltola su
se stessa e anche la struttura
transfrontaliera del suo cinema cede
stavolta a un esotismo posticcio.
Come tutti i progetti ambiziosi, Il
padre confida troppo nel disegno
sottovalutando il processo, il tratto e la
matita. Anche i momenti più riusciti come la scoperta del cinematografo
da parte dei sopravvissuti armeni (si
proietta Il monello) - appaiono
estemporanei, e la buona colonna
sonora – mix di rock e canti
tradizionali – non basta a scuotere un
film sprovvisto di autentiche
vibrazioni.
In uscita
Regia Neill Blomkamp
Con Sharlto Copley, Hugh Jackman
Genere Fantascienza (120’)
IL PADRE
Debole apologo sul male
con il genocidio armeno
sullo sfondo
In uscita
Regia Fatih Akin
Con Tahar Rahim, Simon Abkarian
Genere Drammatico (138’)
IL CALVARIO GLOBALE di un padre
partito alla ricerca delle due figlie
sopravvissute al genocidio armeno.
Dalla Turchia al Libano, da Cuba agli
States: Fatih Akin costruisce attorno a
un protagonista muto come Charlot,
inerme e inespressivo (un Tahar Rahim
sottotono) un’implacabile geografia
della sventura. Il tema del “Male in
assoluto” (per ammissione del regista
di origini turche) ha come svolgimento
lo svuotamento sistematico della
cornice storica del film e una messa in
scena stilizzata che, passando
68
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
GIANLUCA ARNONE
i film del mese preview
a cura di Manuela Pinetti
IL RACCONTO DEI
RACCONTI
IL RAGAZZO DELLA LA GIOVINEZZA
PORTA ACCANTO
LIBERAMENTE ispirato a Lo cunto de
li cunti di Giambattista Basile, raccolta
di cinquanta fiabe in lingua
napoletana della prima metà del XVII
secolo, Il racconto dei racconti è
senz’altro uno dei film più attesi della
stagione (passaggio sicuro a Cannes).
Per il suo ottavo lungometraggio,
Garrone sceglie un fantasy ambizioso
e sanguinario, girato in lingua inglese
in meravigliosi castelli, giardini e ville
sparsi per l’Italia.
QUANTO POSSIAMO DIRE di
conoscere chi vive accanto a noi?
Claire (Jennifer Lopez), insegnante
fresca di separazione, ha una
brevissima liaison con l’aitante,
nuovissimo, giovanissimo – è
coetaneo del figlio – vicino di casa
Noah (Ryan Guzman, già visto in un
paio di Step Up). Il ragazzo diventa
ben presto onnipresente nella vita di
Claire, trasformandosi nel suo peggior
incubo. Dal regista del primo Fast and
Furious.
Regia Matteo Garrone
Con Salma Hayek, Vincent Cassel
Regia Rob Cohen
Con Jennifer Lopez, Ryan Guzman
FRED, direttore d’orchestra ormai in
disarmo, è in vacanza sulle Alpi con
l’amico Mick, regista cinematografico
tutt’ora molto attivo, ma anche
inevitabilmente stanco. Entrambi
ottantenni si ritrovano, tra una sauna
e l’altra, a discorrere su cosa
aspettarsi dalla vita e dal futuro, ora
che il tempo a disposizione si riduce
sempre più. Primo film di Paolo
Sorrentino – anche lui probabilmente
a Cannes – dopo l’Oscar per La
grande bellezza.
Regia Paolo Sorrentino
Con Michael Caine, Harvey Keitel
THE GUNMAN
LEVIATHAN
TOMORROWLAND
“MI PIACE PIERRE MOREL”. Questa
l’asciutta spiegazione di Sean Penn
riguardo il suo esordio nell’action
movie, il primo della sua lunga
carriera. E per Morel, già regista di
Banlieue 13 e Io vi troverò, l’attore due
volte Premio Oscar ha rivestito il ruolo
di Jim Terrier, un ex soldato delle
forze speciali in fuga dai suoi assassini
per mezza Europa. Tratto dal romanzo
Posizione di tiro di Jean-Patrick
Manchette.
IL FILM è ambientato in una cittadina
costiera che affaccia sul Mare di
Barents, nella Russia dei giorni nostri,
eppure si respirano antiche atmosfere
bibliche. Protagonista è Kolja (Aleksei
Serebryakov), un ex militare che si
lancia in una lotta impari dopo aver
subito un’ingiustizia da Vadim
(Roman Madyanov), politico potente
e corrotto. Miglior Sceneggiatura a
Cannes 2014 e Golden Globe (Miglior
Film Straniero).
TOMORROWLAND è in pericolo, e la
prescelta per salvarlo è Casey (Britt
Robertson), ragazzina dal carattere
burrascoso e curiosità vivace.
Tomorrowland è un parco tematico
della Disney realmente esistente, che
nel film è allo stesso tempo anche
ingresso - e copertura - verso un
mondo fantastico in cui vigono leggi
incredibili. Nel cast anche George
Clooney e Hugh Laurie. Scritto, diretto
e prodotto da Brad Bird.
Regia Pierre Morel
Con Sean Penn, Javier Bardem
Regia Andrei Zvyagintsev
Con V. Vdovichenkov, E. Lyadova
Regia Brad Bird
Con George Clooney, Britt Robertson
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rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
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Dvd /// Blu-ray /// SerieTv /// Borsa del cinema /// Libri /// Colonne sonore
TELE
DA NON PERDERE
L’amore bugiardo
di David Fincher
e cofanetti
da collezione
A CURA DI VALERIO SAMMARCO
La classe dei classici
The Hobbit Trilogy
Film in orbita
Worldwide
Social Surfing
Strani incontri
IN QUESTO NUMERO
Grandi registi da “rileggere”,
attori sovraesposti, star da
ingaggiare in base ai
follower e musiche da
viaggio
Interstellar
Il kolossal sci-fi
di Nolan in alta
definizione
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TELECOMANDO
/// Dvd e Blu-ray ///-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
È
disponibile dal 9 aprile, in Bluray e Dvd, L’amore bugiardo di
David Fincher. Tratto dall’omonimo bestseller di Gillian Flynn – anche
sceneggiatrice dell’adattamento cinematografico – il film porta alla luce i segreti di un matrimonio. Quello tra Nick
Dunne (Ben Affleck) e Amy (Rosamund
Pike). Proprio quest’ultima, il giorno del
quinto anniversario di nozze, scompare
misteriosamente: sotto la costante pressione della polizia e dei media, il felice
ritratto di famiglia di Nick inizia a sgretolarsi. In poco tempo le sue bugie, gli
inganni e gli strani comportamenti portano tutti a farsi la stessa domanda: è
stato Nick Dunne a uccidere sua moglie?
Candidato a 4 Golden Globe e nominato all’Oscar per l’interpretazione di Rosamund Pike, L’amore bugiardo è un
insolito thriller, per certi versi disturbante: David Fincher utilizza con maestria i classici requisiti del genere, plasmandoli però attraverso la lente del
circo mediatico e delle conseguenti derive sulla “costruzione” dell’opinione
pubblica. A suo modo inquietante, da
non perdere. Negli extra il commento
audio del regista.
DISTR. 20TH CENTURY FOX H. E.
L’amore bugiardo
Gone Girl
Anche in Blu-ray il thriller di Fincher.
Dal romanzo di Gillian Flynn
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rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
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Laclasse
deiclassici
a cura di Bruno Fornara
Primo amore
La lunga scena che
occupa la seconda parte
del film è indimenticabile.
Detto questo, si può
aggiungere che il titolo
originale è il nome della
protagonista, Alice
Adams, una fulgida
Katharine Hepburn, che
cerca, nella sua piccola
città, di salire qualche
gradino della rigida
piramide sociale, lei figlia
di una madre triste e di un
padre invalido, decisa a
tutto pur di mettere la
testa fuori da una miseria
così pesante che non le
consente di comprarsi un
piccolo bouquet per
andare a una festa, tanto
da farle raccogliere solo
qualche violetta in
un’aiuola dove è proibito
prendere i fiori. Al party,
snobbata da tutti, è
notata dal ricco e molto
umano Fred MacMurray
che, in quella scena
indimenticabile, è a cena
in casa di lei. E qui
succede di tutto e si ride
di gusto: la minestra è
orribile, i cavoletti sono
puzzolenti, il gelato si
squaglia, la corpulenta
cameriera nera (Hattie
McDaniel), ingaggiata per
l’occasione, fa un disastro
dopo l’altro e la crestina le
va di traverso sugli occhi...
Commedia memorabile.
Di George Stevens
Con K. Hepburn, F. MacMurray
Genere Commedia (Usa, 1935)
Distr. Terminal Video
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rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
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/// Dvd & Blu-ray ///--------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
TELECOMANDO
Hunger Games - Il
Canto della Rivolta:
Parte 1
Interstellar
Arriva il 15 aprile,
in Blu-ray e Dvd,
il primo episodio
dell’ultimo capitolo della saga tratta
dai romanzi di Suzanne Collins. Katniss (Jennifer
Lawrence) è custodita nel Distretto 13 dopo aver annientato i
giochi per sempre. Sotto la guida della Presidente Coin (Julianne Moore) e i consigli dei suoi
fidati amici, Katniss si prepara
alla battaglia finale, per salvare
Peeta (Josh Hutcherson) e un
intero Paese incoraggiato dalla
sua forza. Numerosi gli extra, tra
i quali il making of del film, un
omaggio al compianto Philip
Seymour Hoffman, le scene eliminate e il video musicale del
tema portante, Yellow Flicker
Beat, cantato da Lorde.
DISTR. UNIVERSAL PICTURES H.E.
Magic in the
Moonlight
Disponibile in Bluray e Dvd la nuova commedia di
Woody Allen, che
dopo Blue Jasmine
ci porta stavolta
negli anni ’20, in Costa Azzurra,
dove un famoso illusionista (Colin Firth) e una giovane sensitiva
(Emma Stone) sono chiamati ad
affrontare una serie di disavventure: scopriranno le prove di un
mondo al di là delle leggi della
fisica, o cadranno sotto l’influenza di una chimica terrena? Commedia romantica dall’inconfondibile tocco alleniano, il film
esplora i regni della mente e del
cuore. Negli extra l’approfondimento “Behind the Magic” e le
immagini della Premiere di Los
Angeles.
DISTR. WARNER BROS. H.E.
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rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
S
iamo d’accordo: Christopher Nolan
non è Stanley Kubrick, come Interstellar non è 2001: Odissea nello spazio. Resta il fatto che ogni film del regista
di Memento e Inception, nonché artefice
della gloriosa trilogia su Batman, andrebbe visto: l’occasione si presenta con l’arrivo in homevideo di questo kolossal sci-fi,
preferibilmente da recuperare in Blu-ray.
Ambientato in un futuro non lontano, il
film ipotizza la prossima fine del pianeta
Terra. Una squadra di esploratori intraprende un viaggio nella galassia per sco-
prire se gli uomini potranno avere un futuro tra le stelle. Interpretato da Matthew
McConaughey, Anne Hathaway, Jessica
Chastain e Michael Caine, Interstellar è arricchito da numerosi extra, tra i quali “The
Science of Interstellar”, “Plotting An Interstellar Journey - Progettare un viaggio interstellare”, “Shooting In Iceland: Miller’s
Planet/Mann’s Planet – Creazione di due
mondi completamente diversi in un solo
paese” e molti altri ancora.
DISTR. WARNER BROS. H.E.
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Mad Max Collection
La trilogia originale, aspettando il
nuovo corso
The Hobbit
Trilogy
Un Natale
stupefacente
In concomitanza
con l’uscita homevideo (22 aprile)
dell’ultimo capitolo
de Lo Hobbit (La
battaglia delle cinque armate), è disponibile un
cofanetto comprendente tutta la
trilogia della saga firmata da Peter Jackson. La collezione – in
formato Blu-ray, Blu-Ray 3D e
Dvd – include Un viaggio inaspettato, La desolazione di
Smaug e il già citato ultimo episodio. Inoltre nei cofanetti Bluray e Blu-Ray 3D è incluso l’esclusivo Diario di Bilbo, oltre ai
contenuti speciali già presenti su
ogni singolo disco, come “Nuova
Zelanda: Casa della Terra di
Mezzo - Parte 3”, “ll reclutamento delle cinque armate”, “Una saga in sei parti” e altri ancora.
A suo modo rivoluzionario, il cinepanettone diretto
per la prima volta
da Volfango De
Biasi arriva in homevideo (Blu-ray e Dvd) dall’8
aprile. Rivoluzionario, perché
dopo anni di struttura a episodi, il film natalizio targato Filmauro ritrova l’unicità di una
singola storia. Basata ovviamente sulla coralità e sulla verve di
Lillo & Greg, stavolta nei panni
di zio Remo e zio Oscar, improvvisamente costretti a prendersi cura del nipotino di 8 anni... Nel cast anche Ambra Angiolini, Paola Minaccioni, Paolo
Calabresi, Francesco Montanari
e Riccardo De Filippis. Backstage, speciale e papere negli extra.
DISTR. WARNER BROS. H.E.
Disponibile per la prima
volta in Blu-ray (e
nuovamente in Dvd), la
trilogia originale di Mad
Max, la saga postapocalittica di George
Miller (vedi pagina 16)
interpretata da Mel
Gibson. In attesa del
nuovo, spettacolare Fury
Road (nelle sale dal 14
maggio), riviviamo le
gesta di Max Rockatansky:
Interceptor, Interceptor - Il
guerriero della strada e Mad Max - Oltre la sfera del
tuono ci riportano ai duelli e agli inseguimenti su
automobili e potenti motociclette rombanti e
sfreccianti che prendono vita nella cornice di un
paesaggio australiano fatto di strade asfaltate infinite
e terreni aridi da togliere il fiato. Dalla V8 Interceptor
a “We Don’t Need Another Hero!” cantata da Tina
Turner: il cammino di Mad Max – personaggio che
portò alla ribalta un giovanissimo Mel Gibson – è
appena (ri)cominciato…
DISTR. WARNER BROS. H.E.
DISTR. FILMAURO
WINTER IS COMING MARATONA GAME OF THRONES
Il trono di spade
In cofanetto le prime quattro
stagioni della serie HBO. Countdown
verso il 12 aprile
Ci siamo. Il 12 aprile parte la
quinta stagione della serie
evento targata HBO. Per
prepararsi al meglio, Warner
Home Video propone un
imperdibile cofanetto da
collezione (Blu-ray e Dvd)
contenente le stagioni 1-4
del Trono di Spade, con tutti
i contenuti speciali finora
rilasciati. Strumento
indispensabile per chi,
ancora lontano dal mondo
creato da George R.R. Martin
(Le cronache del ghiaccio e
del fuoco), volesse iniziare
da zero il suo percorso. Per
tutti gli altri, invece,
segnaliamo il cofanetto
singolo della quarta
stagione (disponibile anche
questo dal 1° aprile, in Bluray e Dvd): i Lannister
mantengono saldo il
controllo sul Trono di Spade.
Ma riusciranno a preservare i
loro interessi sotto le
continue, numerose
minacce? Mentre un
imperturbabile Stannis
Baratheon continua la
ricostituzione della sua
armata alla Roccia del
Drago, un pericolo più
imminente giunge da Sud
quando Oberyn Martell, la
“Vipera Rossa di Dorne”,
carico di odio verso i
Lannister, arriva ad Approdo
del Re per le nozze di
Joffrey…
DISTR. WARNER BROS. H.E.
La teoria del tutto
Disponibile dal 29
aprile, in Blu-ray e
Dvd, il commovente film di James Marsh tratto
da Travelling to
Infinity: My Life with Stephen di
Jane Wilde Hawking, biografia
sul marito Stephen Hawking, fisico britannico tra i più famosi al
mondo, affetto da atrofia muscolare progressiva. Candidato a 5
Premi Oscar, con Eddie Redmayne premiato per la migliore interpretazione maschile, il film ripercorre le tappe più significative della vita di Hawking, partendo dal 1963: brillante laureando
in Fisica all’Università di Cambridge, Stephen si innamora di
Jane (Felicity Jones), con la quale nascerà una storia d’amore
destinata a durare (e a cambiare)
nel tempo.
DISTR. UNIVERSAL PICTURES H.E.
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rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
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TELECOMANDO
/// Serie Tv ///---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Murder in the First
[CANALE 324 DEL DIGITALE TERRESTRE]
Dal 23 aprile, la serie poliziesca creata da Steven Bochco ed Eric Lodal
A
rriva su Premium Crime (dal 23
aprile, ogni giovedì) Murder in
the First, detective drama targato
TNT e creato da Steven Bochco ed Eric
Lodal. Un unico caso da risolvere nell’arco di 10 puntate.
San Francisco. Il dipartimento di polizia
della città si ritrova a dover investigare
su due omicidi che apparentemente
non sembrano avere nessun legame tra
filminorbita
76
loro. Le indagini vengono affidate agli
ispettori Terry English (Taye Diggs) –
detective della sezione omicidi che affronta con passione e dedizione il suo
lavoro, alle prese nella vita privata con
la dolorosa malattia della moglie – e
Hildy Mulligan (Kathleen Robertson),
madre single dal carattere forte e risoluto. Analizzando il caso i due poliziotti
scoprono che le vittime hanno un parti-
colare che li lega: entrambi conoscevano Erich Blunt (Tom Felton), facoltoso
e giovane talento della tecnologia, all’apice del successo nella Silicon Valley.
Durante le indagini verrà fuori anche il
nome di Chris Walton (Charles Baker):
uno spacciatore con molti precedenti
che si trovava nei pressi della scena del
crimine e che verrà sospettato di essere
un esecutore al soldo di Blunt.
a cura di Federico Pontiggia
Al Pacino
Greta Garbo
Fast Cars
Studio Universal
Studio Universal
Studio Universal
Buon 75° compleanno! Ogni
martedì (21.15), si festeggia
con Serpico e Donnie
Brasco, giorni da cani e
maledette domeniche…
Ogni lunedì (21.15), torna
la Divina che si ritirò da
Hollywood 70 anni fa:
poker di film, da Anna
Karenina a Grand Hotel.
Ogni venerdì (231.15)
Giancarlo Fisichella, pilota
di Formula 1, accende i
motori e scatena i cavalli,
da Bullitt a Interceptor.
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
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WORLDWIDE
Nel segno
della Marvel
Indici d’ascolto, censura? Nessun problema: ci
pensa Netflix. Che ospita il “diavolo custode” di
Frank Miller
a cura di Angela Bosetto
Happyish
L’irriverente umorista Shalom
Auslander scrisse questa sitcom satirica per il compianto
Philip Seymour Hoffman, che
però riuscì a girare solo il pilot
prima della tragica scomparsa.
Il difficile compito di
sostituirlo nel ruolo di Thom
Payne (uomo di mezza età in
crisi esistenziale e lavorativa,
che riflette sulla ricerca della
felicità) spetta dunque
all’inglese Steve Coogan,
candidato all’Oscar per la
sceneggiatura di Philomena
(2013) e al debutto seriale su
una rete americana come la
Showtime.
Wolf Hall
Daredevil
Fino a pochi anni fa, l’idea di trasformare
un fumetto in serie tv live action senza
sottostare al target del canale ospitante
sembrava impossibile. Oggi, invece, basta
ignorare le reti tradizionali e rivolgersi a
Netflix (il servizio online a pagamento
che permette di scaricare subito l’intera
stagione): nessun limite, nessuno stress
da ascolti e, soprattutto, nessuna censura.
Logico che la furba Marvel abbia subito
stretto un accordo per ben cinque
show. Si comincia il 10 aprile con Daredevil, il “diavolo custode” trasformato da
Frank Miller in uno dei personaggi più
cupi della Casa delle Idee. Nei panni
del supereroe cieco troviamo Charlie
Cox, mentre il ruolo della sua nemesi
Kingpin tocca a Vincent D’Onofrio. Al
pensiero che la serie possa somigliare al
film del 2003… facciamo le corna!
Dopo l’esordio in patria a
gennaio, la miniserie BBC
tratta dai romanzi storici di
Hilary Mantel (Wolf Hall e
Anna Bolena, una questione di
famiglia, entrambi vincitori del
Booker Prize) sbarca negli USA
grazie alla PBS. Sei puntate,
dirette da Peter Kosminsky
(Cime tempestose, 1992) e
scritte da Peter Straughan (La
talpa, 2011), per raccontare
l’ascesa del machiavellico
Thomas Cromwell (Mark
Rylance), da politico di umili
origini a conte di Essex e
primo ministro di Enrico VIII
(Damian Lewis).
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rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
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TELECOMANDO
/// Borsa del cinema ///-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
ATTORI ALLO
SBADIGLIO
Da Raoul Bova a Papaleo, passando per Ambra Angiolini
e Marco Giallini: è la girandola dei soliti noti
di Franco Montini
Raoul Bova e Luca
Argentero in Fratelli
unici di Alessio
Maria Federici
I
n questi giorni è nei cinema, protagonista de La scelta di Michele Placido, e presto lo vedremo in Torno indietro e cambio vita di Carlo Vanzina,
senza contare che nel corso di questa
stagione era già apparso, sempre nel
ruolo principale, anche in Sei mai stata
sulla luna? di Paolo Genovese; Scusate
se esisto! di Riccardo Milani; Fratelli unici
di Alessio Maria Federici. Ma il caso di
Raoul Bova, che nell’ultimo anno e mezzo ha girato anche Buongiorno papà di
Edoardo Leo e Indovina chi viene a Natale? di Fausto Brizzi, non rappresenta
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rivista del cinematografo
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aprile 2015
un’eccezione, bensì l’esasperazione di un
fenomeno ormai diffuso nel cinema italiano che tende ad affidare i film sempre
agli stessi volti.
Lo dimostrano le filmografie di Riccardo
Scamarcio, che, pur spaziando in generi
diversi, ha girato 6 film in meno di due
anni; di Marco Giallini che, da Tutti contro tutti a Se Dio vuole (di prossima uscita), è stato coinvolto in 7 film; 6 film per
Rocco Papaleo, 5 per Claudio Bisio. Con
ritmi intensi sul fronte femminile hanno
lavorato Ambra Angiolini, anche lei impegnata accanto a Bova ne La scelta e
protagonista di 6 film solo nell’ultimo periodo o Anna Foglietta, 3 film in questa
stagione – Confusi e felici, Noi e la Giulia, La prima volta (di mia figlia) – ed altri 2 in quella precedente.
A favorire questo fenomeno è anche la
tendenza della commedia italiana ad imbastire storie sempre più corali: una volta
c’erano i mattatori, negli anni sessanta
Sordi, Gassman, Manfredi, Tognazzi; poi
Celentano, Pozzetto, Montesano e Villaggio; successivamente Verdone, Benigni,
Troisi, Nuti.
Oggi invece si punta sul lavoro di squa-
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Surfing
dra, che offre più occasioni e più opportunità al gruppo dei volti di moda. Intendiamoci, gli attori utilizzati in queste ultime più recenti stagioni sono tutti ottimi
professionisti che meritano la popolarità
e il successo conquistati. Anzi, per alcuni
di essi, vedi Bisio, Papaleo e Giallini, la
consacrazione è arrivata perfino con colpevole ritardo.
Tuttavia l’impressione è che questo sfruttamento intensivo di un ristretto numero
di interpreti non sia utile né ai diretti interessati, né al cinema italiano. Si produce un effetto saturazione che accorcia le
carriere e rischia la ripetitività. In proposito si può citare il caso di Alessandro
Gassman, che è molto cresciuto ed è diventato uno splendido attore, tanto da risultare l’interprete più convincente dei
vari film a cui partecipa, ma l’avvocato
rampante del film I nostri ragazzi di Ivano De Matteo e l’immobiliarista spumeggiante de Il nome del figlio di Francesca
Archibugi sono davvero, e non certo per
colpa dell’interprete, due personaggi
troppo simili, analoghi, destinati all’effetto fotocopia.
Quanto al cinema italiano in genere, lo
sfruttamento degli stessi volti produce
una lievitazione degli ingaggi e dei compensi per gli attori e, come per i calciatori, è tutto da verificare se in alcuni casi
valga la pena di spendere certe cifre: il
ritorno in termini di incasso giustifica i
soldi impegnati? Anche perché il cinema
italiano è ricco di bravissimi attori poco
noti e per nulla inflazionati: basterebbe
solo avere un po’ di curiosità e di perseveranza nel ricercarli. L’esempio recente
di Anime nere di Francesco Munzi, ottimo film corale caratterizzato da una serie
di convincenti performance d’attore, affidate a volti quasi sconosciuti, ne è palese
e concreta dimostrazione.
Marco Spagnoli
La presenza digitale
Sei brava/o? Conta fino ad un certo punto: quanti follower hai?
n direttore
casting di
grande
esperienza ha
ammesso che oltre al
talento, alla bravura, al
fisico e alla bellezza, a
contare per la scelta di
un ruolo sono anche i
follower dell’attore e
dell’attrice su Twitter,
Facebook, Instagram e
Pinterest. La
cosiddetta ‘presenza’,
quindi, non è soltanto
quella che si può avere
davanti alla macchina
da presa, ma anche
quella digitale. Anche
se i direttori casting
ribadiscono che il
talento resta (e meno
male) la prima
motivazione per
essere scelti per un
ruolo. Soltanto che, a
parità di qualità
artistiche, la presenza
di follower e del
cosiddetto ‘buzz’
social fa senza dubbio
la differenza,
spingendo l’ago della
scelta verso chi è più
riconoscibile sui Social
Media rispetto a chi,
invece, è magari un
U
interprete più
introverso e, forse,
perfino ‘serio’. Il
perché è presto detto:
se una volta il fascino e
il carisma di un
interprete destavano
l’attenzione del
pubblico verso un film
o una fiction, oggi
questi si traducono in
numeri facili da
contare e tradurre in
un incasso potenziale
in termini di audience.
Questo, almeno, è
quello che vogliono
sempre più i produttori
che possono avere
nuovi elementi su cui
riflettere per il lancio
dei loro film.
Basti pensare che
alcuni attori, da soli,
raggiungono più
persone delle
televisioni di alcune
nazioni europee. Vin
Diesel ha 90 milioni di
follower su Facebook,
mentre Will Smith
supera i 76 milioni. Su
Twitter, il conduttore
degli Oscar Neil
Patrick Harris
raggiunge i 14 milioni.
Basti pensare che un
regista di culto come
David Lynch ha ‘solo’
due milioni e mezzo di
seguaci. Dunque, un
attore o un’attrice che
comunicano
direttamente con i loro
fan, possono rivelarsi
un asset importante
per una produzione di
medio livello, perché
tramite i loro post
possono influenzare le
vendite dei biglietti o
l’auditel del pubblico
davanti al teleschermo.
È innegabile, poi, che il
fenomeno si stia
espandendo anche in
Italia: l’attore e regista
Edoardo Leo è stato
molto presente con la
sua attività social già
durante la
finalizzazione del suo
ultimo film, Noi e la
Giulia. Leo ha 14.400
follower su Twitter, il
coprotagonista Luca
Argentero circa
492.000, Stefano Fresi
2.398. Numeri che
contano e che anche
domani nel nostro
paese potrebbero
arrivare a ‘fare la
differenza’.
Lo sfruttamento
intensivo non
è utile né ai diretti
interessati, né al
cinema italiano
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rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
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/// Libri ///------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
TELECOMANDO
La versione di...
Stanley Kubrick
Non ho risposte
semplici. Il genio
del cinema si
racconta
Nel 1971 John Hofsess chiese a
Kubrick: “Ha mai letto un critico
che le abbia fatto capire qualcosa di nuovo dei suoi film?” “No”,
rispose lui, “sono molto pochi i
critici che lavorano con attenzione e con sufficiente serietà. È
assurdo vedere un film una volta
sola e poi scriverne la recensione”. A fornirci la sua versione di
un’intera carriera ecco la raccolta
di interviste curata dall’amico
Gene D. Phillips, il cui titolo
deriva dalla replica del regista
alle parole di Tim Cahill di
“Rolling Stone” (“Lei crea emozioni forti, ma si rifiuta di darci
risposte semplici”). Da leggere
insieme a I mondi di Kubrick.
Cinema, estetica, filosofia di
Roberto Lasagna (Mimesis) per
confrontare l’autoanalisi con
l’approccio filosofico.
(Minimum Fax, Pagg. 290, € 16,00)
Cineasti
da studiare
Kubrick, Godard, Welles e
Schoedsack: ancora non era
stato scritto tutto
ANGELA BOSETTO
Jean-Luc è per
sempre
Alberto
Scandola
L’immagine e il
nulla: l’ultimo
Godard
Il Godard lontano dagli anni
Sessanta e dalla necessità dell’eversione, e della militanza; il
Godard che dai primi anni ‘80
esula dalla narrazione filmica,
sempre pretestuosa, in favore dei
rimandi extracinematografici e di
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rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
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una sempre maggiore autonomia
dell’immagine. Da Si salvi chi
può - la vita fino a Adieu au langage, la destrutturazione del
mezzo cinematografico passa
dagli iperproduttivi anni ‘80 di
Prénom Carmen, Je vous salue,
Marie e King Lear, centrale nel
porre (letteralmente) il suo autore in scena a domandarsi una
volta ancora cos’è un’immagine,
fino agli ultimi film, dove la
riproduzione della realtà ha
ceduto il passo alla natura e alla
metafora, tra ricordo e oblio, visibile e invisibile.
(Kaplan, pagg. 276, € 20)
GIANLUIGI CECCARELLI
Il potere di Orson
Nuccio Lodato,
Francesca
Brignoli
Orson Welles.
Quarto potere
Ricordando l’uscita di Quarto
potere (Citizen Kane, 1941),
Simone de Beauvoir scrisse ne
La forza delle cose: “Si raccontavano mirabilia di Hollywood. Un
giovane genio di ventisette anni,
Orson Welles, aveva rivoluziona-
to il cinema”. Nonostante il regista considerasse il suo capolavoro una commedia (“nel senso
che fa da parodia a simboli tragici”), ancora oggi l’idea di avvicinarsi a Quarto potere intimidisce.
Questa minuziosa analisi, accompagnata da 40 giudizi critici d’essai, capitanati da quelli di Erich
von Stroheim (“Superbo!”) e di
Jorge Luis Borges (“Geniale nel
senso più cupo e oscuro del termine”), spiega perché, a dispetto
di chi lo ritiene “pietrificato nella
storia”, la modernità di questo
film resta dirompente.
(Lindau, Pagg. 160, € 16,50)
ANGELA BOSETTO
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Stanley Kubrick
sul set di Orizzonti
di gloria
lotta libera, reporter e viaggiatore, ma soprattutto regista capace
di passare con naturalezza dal
natural drama al disaster peplum
realizzando cult movies come Il
dottor Cyclops, La pericolosa partita o King Kong. Attraverso
diversi saggi, il libro ricompone
l’immaginario del cineasta, un
“Nuovo Cinema Barnum” in cui i
protagonisti, freaks alla deriva,
naufraghi della vita, “topi da
laboratorio” da analizzare in
vitro, trovano un nuovo equilibrio trasformandosi in icone.
(Edizioni Il Foglio, Pagg. 240, €
16,00)
CHIARA SUPPLIZI
Va, pensiero
Sergio Miceli e
Marco Capra (a
cura di)
Verdi & Wagner
nel cinema e nei
media
Non solo King
Kong
Mario Gerosa (a
cura di)
Il cinema di
Ernest B.
Schoedsack
È difficile raccontare Ernest B.
Schoedsack e la sua avventurosa
vita da romanzo. Operaio nei
cantieri stradali, autista della
Croce Rossa nei territori di guerra, operatore alla macchina sul
set di von Stroheim, esperto di
“Io non posso ascoltare troppo
Wagner, lo sai” affermava Woody
Allen in Misterioso omicidio a
Manhattan “sento già l’impulso
ad occupare la Polonia!” Per non
parlare di Apocalypse Now, dove
il colonnello Kilgore faceva suonare La Cavalcata delle Valchirie
per accompagnare gli attacchi
aerei. Dal canto suo, Verdi non
provoca simili “effetti collaterali”,
ma non è meno importante per
l’immaginario cinematografico:
basti solo pensare ai mille diversi
usi della Traviata, da Visconti a
Pretty Woman. Per capire come i
vari media hanno interagito con
le loro opere, ecco la pubblicazione degli atti del convegno
svoltosi alla Casa della Musica di
Parma nel 2013, in occasione del
bicentenario dei due grandi.
(Marsilio, Pagg. 128, € 15,00)
ANGELA BOSETTO
Strani
incontri
Gattopardo
Tre grandi scrittori per altrettante
dive: Anita Ekberg, Brigitte Bardot
e Claudia Cardinale
di Angela Bosetto
Cosa accade quando le
dive incontrano i grandi
letterati del Novecento?
Può succedere che,
sull’onda de La dolce
vita, Salvatore
Quasimodo conduca
Anita Ekberg alla
scoperta delle meraviglie
barocche di Noto,
parlando di sogni, arte,
amore e bellezza:
l’italiano ancora
approssimativo
dell’attrice consacrata da
“Fellino” (così lo chiama
lei) crea un curioso
contrasto con la
forbitezza linguistica del
poeta, che rimane però
folgorato dai “colori
botticelliani della sua
immagine fisica”. O che,
nel 1962, Alberto Moravia
provochi con arguzia (e
una punta di malizia)
Claudia Cardinale sul suo
ruolo di consapevole
oggetto del desiderio, in
un continuo rimbalzo fra
pubblico e privato,
ragione e sentimento,
apparenza e sostanza.
Ma l’incontro può anche
essere metaforico e
indurre a riflessioni
d’altro tipo, come quelle
di Simone de Beauvoir, la
quale, nel 1959, difende
la “scandalosa” B.B.,
sostenendo che la
pubblica morale si sente
minacciata in quanto “il
suo erotismo non è
magico, ma aggressivo;
nel gioco dell’amore, ella
è ugualmente cacciatrice
e preda; il maschio è
oggetto come a sua volta
lei per lui. È questo che
ferisce l’orgoglio
maschile […] la
naturalezza di Brigitte
Anita Ekberg.
Dialogo e fotografie
Brigitte Bardot.
Dialogo e fotografie
Claudia Cardinale.
Dialogo e fotografie
Bardot sembra loro più
perversa di tutte le
sofisticazioni”. Speriamo
che a questi volumetti,
testimoni di una fervida
stagione culturale e
arricchiti dal relativo
apparato iconografico,
ne seguano presto altri.
TELECOMANDO
/// Colonne sonore ///--------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
STELLE NEL BOSCO
Beh, se non la bravura tout court, di
certo la fama non si discute: l’ugola di
Into the Woods è d’oro, per il cachet
e, in molti casi, per la stella sulla Walk
of Fame degli interpreti chiamati a
trasporre sul grande schermo il
musical di Broadway. Bacchetta a
Paul Gemignani, già direttore
d’orchestra dello stage show, la
colonna sonora è firmata dal
compositore Stephen Sondheim,
mentre le voci eccellenti sono, tra gli
altri, di Johnny Depp, Emily Blunt,
Meryl Streep, Anna Kendrick, Chris
Pine. Che dite, un ensemble più da
Emmy che da Oscar?
F.P.
BORN TO BE...
COSA IMPIEGARE per la playlist che in Wild
accompagna una giovane vagabonda in cerca di
un senso alla propria esistenza nelle terre selvagge
dell’America? Il folk appare una scelta quasi
obbligata. Magari contaminato con il rock dei 70’s,
così immutabile ed eterno, come la natura
circostante. Il prodotto è ammiccante, quasi
ossequioso, ma sa uscire dal seminato ripescando
dal serbatoio della memoria collettiva il McCartney
del periodo Wings (Let’Em In), la voce unica di
Billy Swan, le stupende Shangri-Las, il merseybeat
degli Hollies che è sempre una sicurezza, a fronte
di scelte forse più scontate come la Suzanne
coheniana, i Simon & Garfunkel di El Condor Pasa
(ottimo invece il ripescaggio di Homeward Bound),
lo Springsteen della ben nota Tougher Than the
Rest. Molto ben riuscito l’accostamento con un
cantautorato di ultima generazione, ci sono nomi
molto interessanti: il duo svedese First Aid Kit
regala emozioni, il country lo-fi di Dusted ed Eric
D. Johnson è un’idea non banale. Mentre Glory Box
dei Portishead, brano simbolo della stagione triphop di Bristol, rivela impietoso il lento scorrere del
tempo per chi, nel 1994, aveva vent’anni. Quel
tempo ancora tutto da scorrere per il piccolo Evan
O’Toole, che presta la voce per la breve, conclusiva
Red River Valley.
GIANLUIGI CECCARELLI
82
rivista del cinematografo
fondazione ente dello spettacolo
aprile 2015
THIRD PERSON
Ma voi ve lo immaginate
Moby a spartire qualcosa
con Gigi D’Alessio? Eppure,
succede, complice Paul
Haggis: se Moby firma The
Only Thing, Gigi risponde
con Chiaro, Cronaca
d’amore e Sarai, in coppia
con Anna Tatangelo. No
F.P.
comment.
FABER IN SARDEGNA
Faber in Sardegna, il bel doc di
Gianfranco Cabiddu, è la storia del
rapporto fra un uomo e la terra: che
quell’uomo fosse uno dei più grandi
cantautori del XX secolo non è
essenziale all’archetipo. Un Faber
sorprendente, appassionato
coltivatore di ulivi e allevatore,
inesauribile cercatore di suggestioni,
parlava il gallurese meglio dei
galluresi stessi. E poi, c’è la musica,
che sopravvive alle speculazioni, alle
facili strumentalizzazioni, alle mode.
La musica e la terra. Del resto, “dai
diamanti non nasce niente, dal letame
G.I.
nascono i fior”.
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