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perché pregare, come pregare

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perché pregare, come pregare
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ENZO BIANCHI
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© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2009
Piazza Soncino 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)
www. edizionisanpaolo.it
Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l.
Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino
ISBN 978-88-215-6591-5
Pagina 4
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rega senza sosta colui che unisce la preghiera
ai necessari impegni e gli impegni alla preghiera.
Soltanto così possiamo mettere in pratica
il precetto «Pregate sempre» (1Ts 5,17):
se consideriamo tutta l’esistenza cristiana come
un’unica grande preghiera,
della quale ciò che siamo abituati
a chiamare preghiera è solo una parte.
P
Origene,
La preghiera 12,2*
er quanto possiamo parlarne,
tutte le nostre parole a proposito della preghiera
non potranno mai eguagliare quel che
l’esperienza insegna.
La preghiera ha bisogno dell’esperienza.
Preghiera è essenzialmente
fare esperienza della Presenza divina.
Al di fuori di questa esperienza di Dio
non c’è preghiera.
Matta el Meskin,
L’esperienza di Dio nella preghiera, p. 371
* Tutte le citazioni dei Padri presenti nel testo sono state tradotte dall’Autore.
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Introduzione
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Finora ci si domandava: «Che cos’è la preghiera?». Oggi tutto
d’un tratto ci si domanda: «Preghiamo ancora?»… Non sappiamo
più se preghiamo, e neppure se la preghiera è ancora possibile.
Forse troppo facile prima, essa sembra oggi incredibilmente difficile. Oggi, come pregare, dove pregare?
(ANDRÉ LOUF, Lo Spirito prega in noi, pp. 10-11)
Alla perplessa domanda sul motivo per cui la fede, nonostante
tutti gli sforzi per vivificarla, svanisce in un numero crescente di
cristiani, si può dare una risposta molto semplice, che forse non rac-
chiude tutta la verità, ma che indica una via d’uscita: la fede svanisce quando non viene più praticata… E tale prassi è la preghiera,
in tutta la pienezza del significato che questo concetto comporta
nella Scrittura e nella tradizione.
(GABRIEL BUNGE, Vasi di argilla, p. 9)
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compito di ogni generazione cri-
stiana, e di ogni cristiano in ogni generazione, riprendere il cammino della preghiera, ridefinire la preghiera
non tanto astrattamente quanto vivendola. Come recita
un famoso adagio: «Se sei teologo, pregherai veramente; se preghi veramente, sei teologo» (Evagrio, La
preghiera 60), sei cioè una persona che tende a quella
conoscenza intima e penetrante di Dio capace di plasmare la propria vita quotidiana. Di fronte a questo
compito occorre subito ammettere che, ieri come oggi,
il pregare non è cosa facile per il cristiano: le difficoltà
relative alla preghiera non costituiscono una novità per
i credenti, che sovente provano malessere nel rappor-
tarsi ad essa. Non è un caso che già i primi discepoli
abbiano avvertito il bisogno di ricevere un’istruzione
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sulla preghiera, giungendo a chiedere a Gesù: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1)…
Ora, al di là degli ostacoli particolari che le diverse
epoche storiche fanno emergere a proposito della pre-
ghiera cristiana, essa è per sua natura un problema: la
preghiera, infatti, è un’operazione che non va da sé, per-
ché non corrisponde a un’attività naturale dell’uomo, né
può essere posta sotto i segni riduttivi della spontaneità
emotiva o dell’esoterica ricerca di tecniche di medita-
zione. Al contrario, lungi dall’essere il frutto del naturale
senso di autotrascendenza dell’uomo o del suo innato
«senso religioso», la preghiera appare, secondo la rivelazione biblica, come dono, cioè come risposta del-
l’uomo alla decisione prioritaria e gratuita di Dio di entrare in relazione con lui; è accoglienza e riconosci-
mento, tramite l’ascolto della Parola e il discernimento
nello Spirito santo, di una Presenza che è in noi ante-
riormente a ogni nostro sforzo di esserle attenti; è un de-
centramento del proprio «io» per lasciare che l’«io» di
Cristo dispieghi la sua vita in noi (cfr. Gal 2,20). In-
somma, la preghiera è un movimento di apertura alla
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comunione con Dio nello spazio dell’alleanza con lui.
Va detto, inoltre, che le difficoltà della preghiera cri-
stiana ci rimandano immediatamente alle difficoltà concernenti la fede. La preghiera è, infatti, sempre oratio
fidei (euchè tês písteos: Gc 5,15), cioè non soltanto pre-
ghiera che va fatta con fede, ma che discende dalla
fede: la preghiera è la capacità espressiva della fede, è
la sua modalità eloquente. In questa luce è drammaticamente significativo che oggi la difficoltà più diffusa
non verta tanto sul come pregare, ma sul perché pre-
gare e che, di conseguenza, si assista a una sorta di
eclisse della preghiera personale.
Dal momento che anche la preghiera, come ogni re-
altà spirituale, è un fenomeno storicamente e culturalmente condizionato, è necessario far precedere al se-
guente itinerario una rapida analisi storica: partendo
dall’esame della situazione in cui la preghiera si è ra-
dicata negli ultimi decenni (la periodizzazione qui adot-
tata sarà forzatamente indicativa), verrò, poi, a esaminare brevemente il clima culturale in cui oggi la preghiera stessa si situa.
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Se tentiamo una lettura della vicenda della preghiera
negli ultimi cinquant’anni, possiamo renderci conto di
un’evoluzione rapida, contraddistinta da esiti spesso
imprevedibili. Negli anni ’60 del XX secolo, il processo
di secolarizzazione e l’assunzione dell’orizzonte «ri-
voluzionario» avevano messo fortemente in crisi la preghiera. In coincidenza con il movimento del ’68, in par-
ticolare, molti giovani rifiutavano la preghiera, rite-
nendola un fenomeno del passato, un’evasione, un alibi
rispetto alle responsabilità e ai compiti urgenti del-
l’uomo nella storia. Si affermava con risolutezza il pri-
mato della prassi, dell’azione politica, a discapito di
ogni forma di «contemplazione». In tale contesto, l’impegno ecclesiale era rivolto principalmente all’incar-
nazione delle istanze evangeliche nel sociale: e così
l’accento era posto sul servizio da compiere tra gli uomini, sulla carità attiva, mentre elementi quali la solitudine e il silenzio erano valutati come un ripiegamento
egoistico su se stessi. In breve, la preghiera appariva
come una sorta di prigione da cui uscire per essere cristiani efficaci nel mondo.
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Negli anni ’70 si è assistito a un ritorno della pre-
ghiera e, più in generale, a una riscoperta della spiri-
tualità. È difficile discernere se si sia trattato solo di
una rivincita del fenomeno religioso: la fatica del-
l’azione, l’impossibilità della rivoluzione permanente,
nonché la mancanza di un risultato nella prassi di tanti
cristiani impegnati aprirono di fatto, e in tempi piutto-
sto rapidi, a una situazione segnata da fenomeni nuovi.
La cosiddetta svolta a Oriente (si pensi ai pellegrinaggi
in India…), con la conseguente scoperta di nuove tecniche di preghiera e di meditazione; il ritorno a una pra-
tica del cristianesimo in senso movimentistico; i tenta-
tivi di attuazione della riforma liturgica: sono solo alcuni dei fenomeni che parevano indicare un risveglio
della preghiera, testimoniato e reso visibile anche dal
fiorire di gruppi spontanei dediti alla lettura della Bib-
bia. Si registravano, inoltre, la creazione di nuovi testi
liturgici, soprattutto nelle comunità monastiche e nelle
comunità di base; la riscoperta del Salterio; un’atten-
zione fino ad allora sconosciuta al «pregare con il
corpo»; l’ampio spazio dedicato alla parola condivisa o,
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negli ambienti carismatici, a espressioni di preghiera libere e spontanee… In tutto questo è facile notare come
la preghiera assumesse connotati più esteriori, comunitari e «sentimentali».
Già all’inizio degli anni ’80 il quadro muta di nuovo.
L’interesse per l’Oriente si affievolisce notevolmente;
nei movimenti carismatici un grande rilievo viene dato
a fenomeni di guarigioni straordinarie; sorgono luoghi
di preghiera legati ad apparizioni; le diocesi organiz-
zano «scuole di preghiera», sovente guidate dai vescovi
in prima persona; presso le comunità monastiche e i
centri di spiritualità si sperimenta il metodo della lectio
divina. I giovani, tuttavia, non ricercano più innanzi-
tutto la preghiera, ma il dialogo sui temi drammatici
che attraversano la coscienza giovanile: non è un caso
che, nei movimenti, l’attenzione maggiore sia nuova-
mente dedicata al tema della collocazione efficace del
cristiano nel mondo e nella storia. Parallelamente, i gio-
vani si volgono verso forme diverse di accompagnamento spirituale, mediante il ricorso a «maestri» – pur-
troppo spesso improvvisati – capaci di orientare la cre18
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scita umana e spirituale mediante la trasmissione di un
vissuto della preghiera. Solo di riflesso, dunque, le
nuove generazioni scorgono nella preghiera un mezzo
necessario per la loro vita.
Va detto, però, che in quegli anni la forma domi-
nante della preghiera è sempre più quella liturgica o
quella collettiva di gruppi radunati con finalità precise: scoperta della vocazione, discernimento degli
impegni da assumere, organizzazione della carità, proclamazione dei diritti dell’uomo, intercessione per la
pace… L’insistenza così marcata sulla dimensione comunitaria e assembleare, disgiunta da un analogo
sforzo di educazione alla preghiera personale, provoca
il rischio di approfondire il fossato tra preghiera e vita,
producendo, per converso, un formalismo che si manifesta in derive «ritualistiche». E così, ancora una
volta, a farne le spese è la preghiera personale: sempre meno richiesta e insegnata, verso di essa si nutrono atteggiamenti di indifferenza e di superficiale
incoscienza, che ne misconoscono l’importanza fondamentale. Nel contempo l’imperativo dominante del19
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l’organizzazione della carità, dell’assunzione di iniziative concrete a favore della pace e della giustizia, se
da un lato va letto come un risveglio salutare della coscienza di solidarietà e corresponsabilità dei cristiani
nei confronti degli altri, dall’altro sembra favorire
l’edificazione di una Chiesa attiva e «protagonista»,
che di fatto fa velo alla signoria di Cristo: si finisce,
così, per anteporre le proprie opere prefissate alla
chiamata libera e assoluta del Signore, l’unica vera
fonte della preghiera.
Venendo, infine, al periodo che va dagli anni ’90 a
questo inizio del terzo millennio, il rapporto dell’uomo
con Dio e con la preghiera appare sotto il segno del-
l’ambiguità, situato com’è tra nichilismo e ritorno del
problema del senso, tra secolarizzazione e nuove forme
di religiosità. Se si analizza la situazione del cristiane-
simo in Occidente, non si possono non rilevare alcuni
ostacoli che si frappongono alla pratica della preghiera,
sotto la forma di fenomeni annidati nel clima culturale
che si respira e ormai ben insediati anche al cuore della
vita ecclesiale.
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1) Il narcisismo: è il sigillo che segna la nostra so-
cietà, il vero e proprio stile di vita dell’uomo contemporaneo. A livello individuale si manifesta in un esage-
rato investimento nella propria immagine a spese
dell’«io» autentico, in un individualismo che compromette la capacità di dire «tu» o di dire «noi». Ne risulta
un «io» patologico, descrivibile con i tratti del primato
accordato all’emozionale sul razionale e dell’estrema
debolezza della vita interiore, istanza sempre più sconosciuta.
2) L’individualizzazione del credere: nelle società
moderne l’adesione religiosa è divenuta sempre più
l’oggetto di una scelta individuale, non l’accettazione di
un dato di tradizione trasmesso con la generazione
stessa. L’attuale generazione che si è lasciata alle spalle
l’epoca della «cristianità» ha visto accentuarsi questo
fenomeno, al punto che è stata giustamente definita
come «la prima società post-tradizionale» (Danièle
Hervieu-Léger).
3) Il sincretismo: il radicalismo pluralista e l’indivi-
dualismo hanno prodotto il sincretismo, l’in-differenza,
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l’indistinzione dello «spirituale». Il singolo si sente
ormai autorizzato alle più strane miscele religiose: «Un
pizzico di islam, un altro di giudaismo, qualche briciola
di cristianesimo, un dito di nirvana, con la possibilità di
tutte le combinazioni, il che prevede anche l’aggiunta
di un po’ di marxismo o anche la confezione di un pa-
ganesimo su misura» (Paul Valadier). Ciò si manifesta,
per esempio, attraverso la pratica di cercare Dio confi-
dando in tecniche di iniziazione e in metodi di meditazione originari dell’estremo Oriente, spesso praticati in
modo maldestro.
4) Il diffondersi delle cosiddette «religioni della
madre»: si tratta di uno «spirituale» a tendenza regres-
siva, in cerca dell’unità fusionale con un dio sentito come
«Energia», «Oceano dell’Essere», non più come il Dio
personale che salvaguarda l’alterità. In questo spirituali-
smo, veicolato da movimenti come quello del New Age,
il simbolico viene confuso con il simbiotico, il calore af-
fettivo del gruppo chiuso viene scambiato con la pro-
fondità dell’esperienza religiosa, l’emozione e la sensazione interiore con l’autenticità dell’esperienza di Dio.
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5) Alcune patologie verificabili a livello ecclesiale
e riassumibili in tendenze, quali il fondamentalismo, il
carismatismo, l’ecclesificazione delle realtà di fede.
Esse implicano, innanzitutto, deformazioni del volto
della Chiesa, rispettivamente in «setta», in «movimento» guidato da un leader carismatico e in «chiesa-
azienda». Quanto alle conseguenze di tali fenomeni
sulla preghiera, quest’ultima finisce per cadere nelle
secche del dogmatismo o in un’azione di autoconferma
dei membri del gruppo; nel primato dell’emozionale e
del miracolistico; nella riduzione delle molteplici
forme di preghiera a quelle più istituzionali ed esteriori.
6) Lo scollamento tra realtà ecclesiale e vita spiri-
tuale: ciò si manifesta soprattutto nello scarto esistente
tra la liturgia della Chiesa e la preghiera personale.
Oggi, l’ambito ecclesiale non è più sentito come scuola
che introduce all’arte della «vita in Cristo»: la Chiesa è
divenuta sempre più ministra di parole etiche, sociali,
politiche, economiche, e sembra aver smarrito l’uso del
suo messaggio proprio… È invalsa l’idea che la vita
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cristiana corrisponda a un impegno sociale, a uno stile
di vita genericamente altruista, tanto che «vita eccle-
siale» è ormai sinonimo di attività organizzativa e pastorale, non di luogo capace di iniziare alla vita umana
e spirituale. E, così, si è persa la consapevolezza che la
trasmissione della fede da parte della Chiesa dovrebbe
essere anche trasmissione dell’arte della preghiera,
ambito privilegiato in cui il credente può pervenire a
un’esperienza autentica di conoscenza del Signore nella
fede.
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CHE
COS ’ È LA PREGHIERA ?
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Quando Gesù Cristo ci unisce alla sua preghiera, quando pos-
siamo fare nostra la sua preghiera, allora siamo liberati dal tormento
degli uomini che non possono pregare. Ma è proprio questo che
Gesù Cristo vuole per noi: egli vuole pregare con noi, vuole che
facciamo nostra la sua preghiera… Noi preghiamo nel modo giusto
quando la nostra volontà e tutto il nostro cuore si uniscono alla pre-
ghiera di Cristo. Solo in Gesù Cristo noi possiamo pregare; ed è
anche con lui che noi saremo esauditi.
(DIETRICH BONHOEFFER, Pregare i Salmi con Cristo, pp. 64-65)
Quando lo Spirito stabilisce la sua dimora nell’uomo, questi non
può più smettere di pregare, perché lo Spirito non cessa di pregare in
lui: dorma o vegli, la preghiera non cessa in lui; mangi o beva, dorma
o lavori, il profumo della preghiera esala spontaneamente dal suo cuore.
Ormai egli non fa più preghiera in ore determinate, ma prega in ogni
momento. Anche il silenzio in lui è preghiera e i moti del suo cuore
sono come una voce che silenziosa e segreta canta, canta per Dio.
(ISACCO DI NINIVE, Prima collezione 35)
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1. La preghiera: «elevazione dell’anima a Dio»
o risposta alla sua Parola?
«Tu ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore non
ha pace finché non riposa in te». Questa affermazione
di Agostino (Confessioni I,1,1), assai celebre e ripetuta
di generazione in generazione, può riassumere bene il
fondamento posto alla preghiera cristiana dall’epoca
dei grandi Padri fino ai nostri giorni. In tale visione la
preghiera esprime il desiderio del bonum supremo che
abita l’uomo, ed è intesa quale movimento del cuore
verso l’infinito, l’eterno, l’assoluto. Ne consegue una
definizione accolta sostanzialmente, seppur con sfumature diverse, da tutti gli autori spirituali di Oriente e
di Occidente: «La preghiera è l’elevazione dell’anima
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a Dio o la domanda a Dio di beni convenienti», come
scriveva sinteticamente Giovanni Damasceno (La fede
ortodossa III,24), definizione ripresa in Occidente da
Tommaso d’Aquino (cfr. Somma teologica II-II, q. 83,
a. 1).
Ebbene, oggi questa definizione della preghiera
come evento collocato nello spazio della ricerca di Dio
da parte dell’uomo appare non smentita, ma perlomeno
insufficiente, perché gli uomini e le donne del nostro
tempo, in particolare quelli appartenenti alle nuove generazioni, sono allergici alle concezioni ascendenti e
«verticali» disseminate in tutta la spiritualità cristiana.
Tale insofferenza può essere salutare, nella misura in
cui ci aiuta a focalizzare un dato ben presente all’uomo
biblico: la Presenza di Dio è data, non plasmata o raggiunta dall’uomo con le sue forze, e all’uomo spetta
l’accoglienza della sua venuta epifanica, così come del
suo ritirarsi nel silenzio o nel nascondimento.
In altre parole, il Dio della rivelazione biblica non è
l’oggetto della nostra ricerca, ma è colui che ha l’iniziativa, è il soggetto, è il Dio vivente che non sta al ter30
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mine di un nostro ragionamento, non si trova nella logica dei nostri concetti, ma si dà, si consegna nella li-
bertà amorosa dei suoi atti, che lo mostrano in costante
ricerca dell’uomo. È lui che vuole e stabilisce un dialogo con noi, è lui che dalla Genesi fino all’Apocalisse
viene, cerca, chiama, interroga l’uomo, chiedendogli
semplicemente di essere ascoltato e accolto. Il Dio che
«ci ha amati per primo» (1Gv 4,19) parla, dando inizio
al dialogo; l’uomo, di fronte a questa auto-rivelazione
di Dio nella storia, re-agisce nella fede attraverso la benedizione, la lode, l’azione di grazie, l’adorazione, la
domanda, la confessione del proprio peccato… In-
somma, reagisce attraverso la preghiera, che è sempre
risposta a Dio, finalizzata all’amore verso di lui e verso
i fratelli.
È tenendo conto di questa prospettiva, meno esplo-
rata dalla tradizione spirituale, che vorrei non tanto ridefinire la preghiera cristiana, perché essa sfugge a ogni
«formula», quanto piuttosto tentare di ricollocarla, con
molta umiltà, nell’alveo biblico. In esso emerge chia-
ramente che la preghiera, come si è appena detto, non
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è ricerca di Dio, ma risposta; che le sue forme sono accidenti, mentre ciò che è sostanziale è la relazione con
Dio; che il suo fine è l’agape, la carità, l’amore: la pre-
ghiera è un’apertura alla comunione con Dio, dunque
all’amore, perché «Dio è amore» (1Gv 4,8.16). L’«io»
che risponde a Dio è definitivamente decentrato nella
preghiera, mentre l’agente, il soggetto è Dio stesso il
quale, riversando nella nostra preghiera il suo amore,
lo effonde nel mondo attraverso di noi, costituiti
amanti.
2. La preghiera cristiana è innanzitutto ascolto
Nell’ottica appena delineata, la preghiera cristiana è
innanzitutto ascolto per giungere all’accoglienza di una
presenza, la presenza di Dio Padre, Figlio e Spirito
santo. L’operazione è semplice ma non per questo facile, anzi è faticosa e richiede capacità di silenzio inte-
riore ed esteriore, sobrietà, lotta contro gli idoli molteplici che ci minacciano.
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Dio parla: questa è l’affermazione fondamentale che
attraversa tutta la Scrittura, è la «cosa grande», senza la
quale noi non potremmo avere nessuna relazione per-
sonale con lui. Con decisione assoluta, con iniziativa
libera e gratuita, Dio si è rivolto agli uomini per entrare
in relazione con loro, per instaurare un dialogo finaliz-
zato alla comunione. Nel Deuteronomio viene posta
sulla bocca di Mosè questa riflessione:
Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal
giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità
all’altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si
udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia
ascoltato la voce di Dio parlare dal fuoco, come tu l’hai
ascoltata, rimanendo vivo? (Dt 4,32-33).
Dio si rivela come Parola e fa di Israele il popolo del-
l’ascolto, prima ancora che il popolo della fede, svelandone la vocazione permanente: la chiamata ad ascol-
tare. Non a caso la preghiera ebraica è ritmata dallo
Shema‘ Jisra’el, dall’«Ascolta, Israele» (cfr. Dt 6,4-9),
un comando che, in varie forme, è ripetuto più volte
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nella Torah, la quale, invece, raramente chiede di parlare
a Dio. Se la preghiera dell’uomo come desiderio di Dio
presenta un moto ascendente di parole verso il cielo,
l’ascolto è, invece, caratterizzato da un movimento di-
scendente, da una discesa della Parola di Dio nell’uomo:
il vero orante, a partire da Abramo (cfr. Gen 12,1), è
colui che ascolta, colui che presta l’orecchio a Dio. Per
questo, «ascoltare è meglio del sacrificio» (1Sam
15,22), meglio cioè di ogni altro rapporto uomo-Dio che
poggia sul fragile fondamento dell’iniziativa umana.
Di più, si potrebbe dire che, se per Dio «in principio
è la Parola» (cfr. Gv 1,1; Gen 1,3.6…), per l’uomo «in
principio è l’ascolto»! Nel Nuovo Testamento questa
verità è sintetizzata in modo mirabile nell’esordio della
Lettera agli Ebrei: «Dio, dopo aver parlato nei tempi
antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo
dei profeti, negli ultimi giorni ci ha parlato per mezzo
del Figlio» (Eb 1,1-2); ormai è a lui, al Figlio, che deve
andare il nostro ascolto, in seguito al comando della
voce del Padre: «Questi è il mio Figlio, l’amato, ascoltatelo!» (Mc 9,7).
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CHE COS’È LA PREGHIERA?
È chiaro, dunque, che la preghiera autentica germo-
glia là dove c’è l’ascolto. «Parla, Signore, perché il tuo
servo ti ascolta» (1Sam 3,9): questo è il primo atto della
preghiera, che noi – purtroppo – siamo costantemente
tentati di capovolgere in: «Ascolta, Signore, perché il
tuo servo parla». Sì, l’ascolto è preghiera e ha un pri-
mato assoluto, in quanto riconosce l’iniziativa di Dio,
il fatto che Dio sia il soggetto del nostro incontro con
lui: non è passività, ma risposta attiva, azione per ec-
cellenza della creatura nei confronti del suo Creatore e
Signore. È significativo che, all’invito rivoltogli da Dio
di presentargli delle richieste, il giovane re Salomone
abbia replicato chiedendo un lev shomea‘ (1Re 3,9),
«un cuore capace di ascolto» – non un «cuore docile»,
come traduce la Bibbia CEI –: «e al Signore piacque che
Salomone avesse domandato questo» (1Re 3,10). È, in-
fatti, la richiesta altamente gradita al Signore nella no-
stra preghiera, perché è la domanda che è generata dalla
volontà di Dio, è la domanda primordiale, la necessità
prima e fondamentale, il presupposto della fede: non a
caso Paolo dirà che «la fede nasce dall’ascolto» (fides
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PERCHÉ PREGARE, COME PREGARE
ex auditu: Rm 10,17). Si comprende, allora, perché, interrogato su quale fosse il primo comandamento, Gesù
abbia risposto innanzitutto: «Ascolta!», ben sapendo
che da tale capacità discende anche quella di conoscere
e amare il Signore Dio e il prossimo (cfr. Mc 12,29-31).
Ecco così delineato il movimento complessivo della
preghiera cristiana: dall’ascolto alla fede, dalla fede
alla conoscenza di Dio, e dalla conoscenza all’amore,
risposta ultima al suo amore gratuito e preveniente per
l’uomo. Non lo si dirà mai abbastanza: dove non è ben
chiaro il primato dell’ascolto di Dio, la preghiera tende
a diventare un’attività umana ed è costretta a nutrirsi di
atti e formule, in cui il singolo cerca la propria soddisfazione e assicurazione: diventa l’epifania di un’arro-
ganza spirituale, il surrogato della propria esecuzione
della volontà di Dio. Tutt’al più si trasforma in una disciplina di concentrazione che forse elimina le distra-
zioni, ma non apre realmente a un’attenzione orante al
Signore che parla (cfr. Dt 4,32-33) e che ama (cfr. Dt
7,7-8): che parla perché ama!
Occorre, infine, ricordare un dato del quale è più dif36
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ficile assumere la consapevolezza, ma che sempre «av-
volge» la nostra preghiera: con l’ascolto della Parola
noi entriamo nel mistero del dialogo intra-trinitario.
La comunione di amore che regna tra il Padre, il Figlio
e lo Spirito è, infatti, alimentata dall’ascolto reciproco,
come attestano alcune parole di Gesù: «Tutto ciò che
ho ascoltato dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv
15,15); «Quando verrà lo Spirito di verità… non parlerà
da sé, ma dirà tutto ciò che avrà ascoltato» (Gv 16,13);
«Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato» (Gv
11,41).
3. L’accoglienza di una Presenza
L’ascolto della Parola di Dio contenuta nella Scrit-
tura, Parola accolta, custodita e meditata nel cuore, non
può che svelare in noi una Presenza, la presenza del
Dio vivente, più intima di quanto noi possiamo esserlo
a noi stessi (cfr. Agostino, Confessioni III,6,11). La pre-
ghiera ci porta così a scoprire la nostra verità più pro37
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PERCHÉ PREGARE, COME PREGARE
fonda: Dio è presente in noi, non come frutto della no-
stra ricerca, non come risultato del nostro desiderio –
perché la sua presenza ci precede, è anteriore al nostro
sforzo di esserle attenti –, ma come dono e consegna di
Dio stesso attraverso la sua Parola.
Tutto l’Antico Testamento testimonia un’iniziazione
all’accoglienza, da parte dell’uomo, della presenza di
Dio, l’Emmanuele, il Dio-con-noi; ma con l’umanizzazione di Dio in Gesù, è Dio stesso che ha compiuto
un gesto definitivo: «La Parola si è fatta carne e ha
posto la sua dimora in mezzo a noi» (Gv 1,14). Ascoltare la Parola significa, pertanto, accogliere il Figlio
nella sua presenza di Signore e accettare che egli venga
con il Padre a porre la dimora in noi (cfr. Gv 14,23),
mediante lo Spirito santo; e accogliere il Figlio non si-
gnifica solo dimorare «in Cristo», ma diventare sua di-
mora, cioè sperimentare la vita di Cristo in noi, fino a
confessare: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive
in me» (Gal 2,20). Si tratta di un’esperienza capitale
per il credente, al punto che la consapevolezza del «Cri-
sto in noi» (cfr. Rm 8,10; Col 1,27) diventa il criterio in
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base al quale discernere la qualità della nostra fede cristiana, come ci ricorda l’apostolo Paolo, il quale invi-
tava i cristiani a mettersi alla prova: «Non riconoscete
che Gesù Cristo abita in voi?» (2Cor 13,5). In forza di
questa reciproca inabitazione, noi possiamo fare nostra
la preghiera di Cristo, avere in noi i suoi stessi senti-
menti (cfr. Fil 2,5): questa è la preghiera cristiana, nella
quale lo Spirito ci conforma sempre più al Figlio nel
suo essere costantemente rivolto verso il Padre. Siamo
attirati all’identificazione con il Figlio, fino ad essere
per grazia il Figlio di Dio – secondo l’audace espressione di Ireneo di Lione (cfr. Contro le eresie III,19,1)
–, perché Cristo è l’io del nostro io.
Di più: noi non preghiamo la Tri-unità di Dio, ma
piuttosto preghiamo in essa, coinvolti nella comunione
di vita e di amore che è la stessa relazione divina. Se,
infatti, a partire dalla coscienza della vita di Cristo in
noi, cerchiamo di accogliere la presenza di Dio, sco-
priamo che il soggetto della preghiera, il suo vero pro-
tagonista, è lo Spirito santo: tale certezza garantisce
perseveranza e continuità alla nostra preghiera, libe39
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PERCHÉ PREGARE, COME PREGARE
randoci dal soggettivismo e dagli impulsi psichici del
momento. È lo Spirito che ci fa gridare: «Abba, Padre»
(Rm 8,15; Gal 4,6) e, unendo al nostro gemito il suo
gemito inesprimibile, ci spinge a rivolgerci a Dio come
a un «tu», a una Presenza personale: «O Dio, tu sei il
mio Dio» (Sal 63,2); è lo Spirito che immette in noi il
suo desiderio (cfr. Rm 8,27) e ci fa conoscere la vera
natura dei nostri bisogni. Grazie alla sua azione, infatti,
i desideri confusi che ci abitano diventano desiderio di
Dio, sete di comunione e di alleanza con lui: «Lo Spi-
rito che scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio, ci
rivela le cose di Dio che nessuno conosce… ci rivela il
pensiero di Cristo» (cfr. 1Cor 2,10-11.16), e così ci in-
segna a pregare. Sì, ogni preghiera cristiana è implicitamente un’epiclesi, è un’invocazione dello Spirito
santo, grazie alla quale può avvenire un reale ri-orientamento di tutta la nostra esistenza: ci rivolgiamo al
Padre, attraverso il Figlio, nella potenza dello Spirito
santo. E così, secondo le parole rivolte da Gesù alla
donna samaritana, siamo resi capaci di adorare il Padre
«in Spirito e Verità» (Gv 4,23-24), cioè nello Spirito
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santo e in Cristo Gesù. E il luogo di tale adorazione è
il nostro corpo, è questa nostra concreta umanità: «Noi
siamo infatti il tempio del Dio vivente», afferma con
audacia Paolo (2Cor 6,16)…
Una volta acquisita questa consapevolezza, si com-
prende che riconoscere Dio come il mio Dio, rivolgermi
a lui con il tu chiamandolo «Abba», significa entrare in
relazione con colui che abita in me: non è esteriore, ma
interiore, è altro da me, eppure è in me. La preghiera di-
viene, così, un fare esperienza spirituale di colui che
«non è infinitamente lontano, ma è vicino, al centro
della vita» (Dietrich Bonhoeffer); è il mio consenso, la
mia adesione a questa vita dialogica, trinitaria, la cui
sorgente è in Dio. È l’accoglienza di una Presenza sco-
perta, desiderata, invocata; una Presenza a volte im-
mensa, schiacciante, come dice il salmista: «Signore,
tu mi scruti, mi conosci… mi esamini quando cammino
e quando riposo, ti sono note tutte le mie vie… mi precedi, mi segui, mi stringi… Dove andare lontano dal
tuo Spirito, dove fuggire lontano dal tuo volto?» (Sal
139,1-7); altre volte, invece, infinitamente silenziosa
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PERCHÉ PREGARE, COME PREGARE
fino a prendere la forma del nascondimento, dell’as-
senza. Ma anche nel silenzio che ci costringe a riconoscere l’alterità dell’Altro, Dio si mostra Padre per chi sa
di essere figlio: il silenzio della presenza di Dio non è
mai indifferenza, bensì segno della sua gratuità e della
sua libertà, perché egli non si lascia esaurire dalle nostre immagini o concezioni o desideri…
4. Apertura a una comunione
Dall’ascolto, attraverso la scoperta di una Presenza,
nella preghiera noi ci apriamo al dialogo, alla comunione con il Signore. Ma proprio a questo livello la preghiera appare come un’attività delicata che, radicandosi
nel nucleo più profondo del nostro essere, può essere
facilmente manipolata. La Parola, che è giunta fino a
noi facendoci prendere atto della presenza di Dio, ora
ci chiama a passare al Padre. Se la vita è adattamento
all’ambiente, la preghiera, che è vita spirituale in atto,
è adattamento al nostro ambiente ultimo, che è la realtà
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di Dio in cui tutto e tutti sono contenuti (cfr. At 17,27-
28): egli è sempre là e ci attende «nel segreto» (Mt
6,4.6.18).
In questa tappa della preghiera cristiana la prima cosa
necessaria è ammettere la nostra debolezza. Dobbiamo
comportarci come il pubblicano della parabola evan-
gelica che prega così come egli è in verità, che si presenta a Dio senza indossare maschere, ma riconoscendo
la propria qualità di peccatore (anzi, alla lettera, «il pec-
catore»: Lc 18,13). Non solo le sue parole («O Dio,
abbi pietà di me, il peccatore») sono un modello per
noi, ma lo è soprattutto la sua disposizione interiore:
soltanto chi è capace di un atteggiamento umile, povero, ma realissimo, può stare davanti a Dio accettando
di essere conosciuto da Dio per quello che egli è veramente. D’altronde, noi ci conosciamo in modo imper-
fetto, e quel che conta è che siamo conosciuti da Dio
(cfr. 1Cor 13,12; Gal 4,9).
Chi compie questa adesione alla realtà è in grado
anche di confessare: «Noi non sappiamo che cosa do-
mandare per pregare come si deve», non conosciamo
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in modo pieno nemmeno i nostri gemiti, «ma lo Spirito
intercede per noi» (Rm 8,26). Si tratta, allora, di supplicare, di chiedere lo Spirito santo: se ci sono parole
nostre nella preghiera, le prime che noi possiamo balbettare, sono quelle con cui invochiamo la discesa dello
Spirito. La domanda dello Spirito santo, cosa buona
tra le cose buone, è prioritaria e assoluta rispetto a
tutte le altre, perché in essa tutto è incluso; Gesù stesso
ci ha assicurato che questa preghiera è sempre esaudita
dal Padre: «Se voi che siete cattivi sapete dare cose
buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste
darà lo Spirito santo a coloro che glielo chiedono» (Lc
11,13; cfr. Mt 7,11). Persino l’atto elementare della fede
non è possibile senza lo Spirito, perché «nessuno può
dire: “Gesù è il Signore” se non nello Spirito santo»
(1Cor 12,3). Solo lo Spirito, infatti, può far sgorgare in
noi parole che diventino dialogo con Dio nella lode, nel
ringraziamento, nella domanda, nell’intercessione: è lui
che le suggerisce, le guida, le sostiene come parole ca-
paci di raggiungere Dio. Lo Spirito opera sempre, come
operano il Padre e il Figlio (cfr. Gv 5,17), e «viene in
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aiuto alla nostra debolezza» (Rm 8,26), versando nei
nostri cuori la capacità di riconoscerci figli, di riconoscere tutto e tutti come voluti, creati e amati da Dio.
Così possiamo «offrire il culto secondo lo Spirito di
Dio e gloriarci in Cristo Gesù, senza porre la nostra fi-
ducia nella carne» (cfr. Fil 3,3). È da qui che nasce la
nostra parresia nella preghiera: essa è fiducia, auda-
cia, libertà nello stare davanti a Dio, nel parlare a lui
con franchezza, attendendo la sua risposta, che è sempre anche un giudizio pronunciato sulla nostra vita.
Ecco, allora, il dialogo, o meglio ancora, il duetto, la
comunione… Non si tratta di negare il peso del nostro
peccato, di nascondere la nostra miseria, ma di trascendere la conoscenza che abbiamo di noi stessi, a favore della conoscenza che Dio ha di noi. Chi prega in
questo modo conosce di essere egapeménos (cfr. Col
3,12; 1Ts 1,4; 2Ts 2,13), amato da Dio; conosce
l’agape di chi per primo lo ha amato, di chi lo ha per-
donato, mentre lui era ancora peccatore e nemico (cfr.
Rm 5,6-11), di chi gli offre costantemente il suo amore.
Ed è proprio nell’accettazione di questo amore, nel cre45
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PERCHÉ PREGARE, COME PREGARE
dere a questo amore (cfr. 1Gv 4,16), che la preghiera
trova il suo telos: l’agape di Dio diventa in noi amore
per tutti gli uomini, fino all’amore per i nemici, diventa
compassione, misericordia. Così il comando di Gesù:
«Pregate per i vostri nemici» (cfr. Lc 6,27-28) non appare solo come un’ampiezza più grande conferita alla
preghiera, ma è partecipazione all’amore stesso di Dio,
che ama tutti gli uomini senza esclusione, che fa piovere la sua benedizione sui giusti e sugli ingiusti (cfr.
Mt 5,45).
Giunti a questo punto, scopriamo che tutte le forme
di preghiera sono relative, e così respingiamo «l’uomo
vecchio» (Rm 6,6; Ef 4,22; Col 3,9) che è in noi, sempre tentato dalle sue ambizioni religiose di scambiare
i mezzi e gli sforzi per il fine. Oggi, in particolare,
troppi improvvisati maestri di spiritualità e di preghiera, in nome di una concezione antropologica della
preghiera stessa, forgiano iniziazioni ispirate allo
yoga, allo zen, alla meditazione trascendentale o ad
altro ancora; ma questo si traduce sovente in una confusione tra la sostanza (la comunione con il Signore)
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e gli accidenti (l’esperienza di stati interiori, psichici).
Lo stesso si deve dire a proposito di quanti, più ancorati alla tradizione ecclesiale, sopravvalutano riti e sacramenti rispetto al fine della preghiera, che è l’amore
verso Dio e verso gli uomini. Scriveva con intelli-
genza un monaco, ben consapevole del telos della preghiera:
Quando penso alle cinque ore che ogni giorno passo nella
preghiera, esse mi appaiono come un immenso mucchio di
sabbia che io trascino davanti a Dio. Ogni tanto vi affio-
rano delle pepite di offerta autentica e solo queste pepite
hanno importanza. Esse, però, affiorano in modo rigorosamente imprevedibile, e non esiste purtroppo nessun me-
todo per filtrarle prima e, quindi, avere solo esse da presentare, evitando la fatica di trascinare tutto questo mucchio di sabbia in cui si trovano sommerse… Questo la-
voro serve, io lo spero, a cogliere sempre di più il mio es-
sere nelle sue più remote profondità, in modo che io diventi globalmente un essere che, consapevolmente o inconsapevolmente, non fa e non vuole nient’altro che stare
davanti a Dio conoscendo il suo amore e trascinando con
sé tutti gli uomini che gli sono prossimi.
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5. Un occhio contemplativo
Nello spazio della comunione e dell’agape, chi prega
giunge a poco a poco alla contemplazione. Essa non è
visione di Dio – perché «chi vede Dio muore», ammo-
nisce l’adagio dell’Antico Testamento (cfr. Es 33,20),
cui fa eco il discepolo amato nel ribadire: «Dio nessuno
l’ha mai visto» (Gv 1,18) –, ma è uno sguardo nuovo su
tutto e su tutti. «Noi camminiamo per mezzo della fede
e non ancora per mezzo della visione» (2Cor 5,7), afferma a sua volta l’apostolo Paolo; ciò significa che
nella fede Dio non si fa vedere a noi, e tuttavia egli si
manifesta, secondo la promessa di Gesù: «Chi mi ama
sarà amato dal Padre mio, e anch’io lo amerò e mi ma-
nifesterò a lui» (Gv 14,21). Tale manifestazione non avviene però, come si è detto, attraverso la visione, né in
una conoscenza teorica, ma in una comunicazione interiore della potenza divina: Dio svela il suo disegno di
salvezza, la sua economia, in cui sostiene la creazione
intera e ama tutte le creature, tutti gli uomini. Ecco,
dunque, l’autentica contemplazione cristiana: fissare
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lo sguardo sull’amore di Dio fino a vedere, per grazia,
tutta la realtà con i suoi occhi. Allora Dio brilla nei nostri cuori per far risplendere «la conoscenza della sua
gloria che rifulge sul volto di Cristo» (2Cor 4,6), e noi
partecipiamo del suo sguardo su tutta la storia e su tutte
le creature. Il nostro occhio diventa quello dei cheru-
bini, un occhio contemplativo, pieno di amore e di misericordia…
E così ci è data la makrothymía di Dio, il vedere, il
sentire, il pensare in grande ogni cosa, ogni creatura,
anche la più disgraziata, anche quella più segnata dal
peccato e più ferita nella sua somiglianza con Dio: que-
sto è il vero discernimento, che ha come frutto l’«apo-
calisse», la rivelazione di tutte le cose! L’orante diventa
«dioratico», diventa cioè capace di vedere «oltre», di
vedere in profondità: egli vede che tutto è grazia, tutto
è dono di Dio, e si fa viscere di misericordia nelle viscere di misericordia di Dio, anche di fronte al male e
al peccato che contraddicono l’agape. Ecco come si
esprimeva in proposito Isacco di Ninive, il grande padre
della Chiesa siriaca:
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PERCHÉ PREGARE, COME PREGARE
Che cos’è un cuore misericordioso? È l’incendio del cuore
per ogni creatura: per gli uomini, per gli uccelli, per le be-
stie, per i demoni e per tutto ciò che esiste. Al loro ricordo
e alla loro vista, gli occhi [del cristiano] versano lacrime,
per la violenza della misericordia che stringe il suo cuore
a motivo della grande compassione. Il cuore si scioglie e
non può sopportare di udire o vedere un danno o una piccola sofferenza di qualche creatura. E per questo egli offre
preghiere con lacrime in ogni tempo, anche per gli esseri
che non sono dotati di ragione, e per i nemici della verità
e per coloro che la avversano, perché siano custoditi e rin-
saldati; e perfino per i rettili, a motivo della sua grande
misericordia, che nel suo cuore sgorga senza misura, a immagine di Dio (Prima collezione 74).
Se la preghiera è autenticamente cristiana, se sgorga
dall’ascolto di Dio, se si apre alla sua Presenza e di-
venta comunione fino a vivere con lui il rapporto di alleanza, allora il suo frutto è la carità, è l’amore per Dio,
per gli uomini e per l’intera creazione. La preghiera
tende, così, a farsi vita, permea tutta l’esistenza del credente, che può cantare con il salmista: «Io sono pre50
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CHE COS’È LA PREGHIERA?
ghiera» (Sal 109,4). Egli non fa più preghiere ma diventa preghiera, come si è potuto scrivere di France-
sco d’Assisi: «Non pregava più, era ormai divenuto
preghiera» (non tam orans, quam oratio factus: Tommaso da Celano, Vita seconda 95).
Al termine della sua vita di preghiera, Benedetto da
Norcia, stando alla finestra e fissando l’occhio nelle
fitte tenebre della notte, scorse una luce che scendeva
dall’alto e fugava la densa oscurità: in quella visione
«il mondo intero fu posto davanti ai suoi occhi come
raccolto in un unico raggio di sole» (Gregorio Magno,
Dialoghi II,35)… Così vede il mondo il contemplativo:
con grande misericordia, con profonda compassione.
Egli ha ricevuto in dono lo sguardo di Dio!
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INDICE
Introduzione
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2. La preghiera cristiana è innanzitutto ascolto »
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PREGARE OGGI
I.
CHE COS’È LA PREGHIERA?
1. La preghiera: «elevazione dell’anima a Dio»
o risposta alla sua Parola?
3. L’accoglienza di una Presenza
4. Apertura a una comunione
5. Un occhio contemplativo
II. COME PREGARE?
1. Gli insegnamenti di Gesù sulla preghiera
a. «Prima di pregare, riconciliati con il tuo
fratello» (cfr. Mt 5,23-24; Mc 11,25)
b. «Quando preghi, ritirati nella tua camera»
(Mt 6,6)
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PERCHÉ PREGARE, COME PREGARE
c. «Tutto ciò che chiederete nel mio Nome
lo farò» (Gv 14,13)
d. Pregare con umiltà, come il pubblicano
(cfr. Lc 18,9-14)
pag. 65
e. Pregare insieme, accordandosi con i fratelli
(cfr. Mt 18,19-20)
f. Pregare con fiducia (cfr. Mt 6,7-8)
g. Pregare sempre, senza stancarsi
(cfr. Lc 18,1-8 e 21,34-36)
2. La preghiera cristiana:
tra domanda e ringraziamento
a. La preghiera di domanda
b. La preghiera di ringraziamento
III. PERCHÉ PREGARE? DIFFICOLTÀ
»
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E OSTACOLI ALLA PREGHIERA
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b. Preghiera e secolarizzazione
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1. Obiezioni più generali
a. Preghiera e male del mondo
c. Pregare è utile?
d. C’è esaudimento?
e. La preghiera è una componente efficace
della storia?
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INDICE
2. Obiezioni legate all’esperienza personale
a. Fatica
b. Non ho tempo
c. Le distrazioni
d. Sono incostante
e. Lavorare, impegnarsi è pregare
pag. 104
» 104
» 107
» 110
» 112
» 114
CONCLUSIONE
» 117
Bibliografia minima
» 123
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Stampa: 2009
Società San Paolo, Alba (Cuneo)
Printed in Italy
9-06-2009
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