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Improvvisazione in danza come spazio liminale - Arlian

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Improvvisazione in danza come spazio liminale - Arlian
Università degli Studi di Siena
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di studi in Discipline Etno-Antropologiche
Improvvisazione in danza come spazio liminale
Candidato: Margherita Landi
Relatore: Prof. Massimo Squillacciotti
Anno accademico 2010/2011
1
2
INDICE
Introduzione
5
Le prospettive in gioco sul campo
9
1. Il workshop
2. Le performance
10
11
Improvvisazione e danza
17
1. La storia dell’improvvisazione come pratica performativa
Anni ’60 e ’70
Anni ’80 fino a oggi
2. L’improvvisazione come competenza
Affordance
Il tempo dell’improvvisazione
Limite
Ascolto
Accettare
Errore
17
18
22
25
27
29
31
33
34
35
Rapporto pubblico-performer
37
1. Neuroni specchio
2. Gli specchi di Turner
Liminalità, liminale e liminoide
Il flusso
3. La danza come forma di comunicazione non-verbale
4. Conclusioni sull’improvvisazione
37
43
45
47
49
51
L’arte di scegliere
55
1. La libertà nella società postmoderna
2. Il problema della scelta
3. L’improvvisazione come arte di scegliere
4. Il circolo virtuoso dell’improvvisazione
56
58
62
64
Considerazioni conclusive
65
Appendice
73
Bibliografia
81
3
4
INTRODUZIONE
La mia personale esperienza come danzatrice è stata segnata
dall’incontro vivificante con l’improvvisazione, pratica che si è
rivelata centrale nel processo di rielaborazione della varie tecniche
classiche e contemporanee che mi sono trovata a studiare e ad
approfondire nel mio percorso di studi nel campo della danza. Mi
sono rispecchiata, in questo senso, in un’osservazione di Virgilio Sieni
di un utilizzo del corpo improntato al bricolage, termine ripreso dal
“bricoleur” di Levi-Strauss, inteso come uno “sbriciolamento”1 delle
funzioni per riattivarle in maniera diversa, che in danza si configura
accumulando e stratificando tecniche volte a costruire un corpo
consapevole, ad esempio: reimparare a camminare, attraversare lo
spazio in maniera diversa, disattivare e riattivare un’azione quotidiana
e quindi ridarle nuova vita.
Sono rimasta sorpresa dal forte impatto che ha avuto su di me il primo
spettacolo di improvvisazione che ho visto, ormai circa sei anni fa,
evento che mi colpì al punto da iniziare a volgere i miei studi dal
classico al contemporaneo, tenendo sempre un’attenzione di riguardo
per il campo dell’improvvisazione. Lo stesso entusiasmo l’ho visto nel
pubblico che mi sedeva accanto in tale sede, e negli occhi di spettatori
che hanno assistito a successive performance che mi vedevano sia in
scena sia parte del pubblico.
1
Sieni, V., Natali, C., “Intrecci di corpi e di sguardi: l’antropologia e la danza”
www.dialoghisulluomo.it/natali-sieni/intrecci-di-corpi-disguardi-1%E2%80%99antropologia-e-la-danza.
5
Lo studio dell’antropologia mi ha dato lo stimolo per rispondere alle
domande che come performer nascono spontanee: io sono
consapevole di quel che produco improvvisando, ma il pubblico cosa
vede? Quanto sono consapevoli gli spettatori di quello che stanno
osservando? Ma soprattutto, è importante che siano realmente
consapevoli oppure la magia della performance li investe comunque?
L’antropologia infatti, come Cristiana Natali ha fatto notare nella sua
conferenza in Dialoghi sull’uomo, ha la capacità di “rendere strano ciò
che è familiare e familiare ciò che è strano”2 . Come è avvenuto nel
caso del provocatorio articolo di Joann Kealiinohomok, dal titolo “An
Anthropologist Looks at Ballet as a Form of Ethnic Dance”3 , il
balletto classico è apparso notevolmente diverso agli occhi dei fruitori
se guardato da tale punto di vista. In questo senso mi sono chiesta: in
una società postmoderna in cui l’arte si focalizza sul processo che
conduce al prodotto artistico, più che sul prodotto stesso, cosa è in
grado di scorgere l’audience di tale processo? Il performer è
consapevole dei valori culturali trasmessi dal suo modo di muoversi?
La risposta data dalla mia personale esperienza come danzatrice mi ha
tante volte stupito, infatti il pubblico è un attento osservatore, e
l’improvvisazione è forse uno dei settori della danza in cui il processo
è mostrato e messo a nudo, e che permette al pubblico un’esperienza
partecipativa sia attiva che passiva
Da una prospettiva antropologica ho cercato di produrre materiale che
mi potesse permettere di distaccarmi dalla posizione di spettatrice o
danzatrice, per poter osservare con attenzione quale fosse il legame tra
queste due visuali. Ho inoltre approfondito la tematica della liminalità
2
Natali, C., www.dialoghisulluomo.it/natali-sieni/intrecci-di-corpi-disguardi-1%E2%80%99antropologia-e-la-danza.
3
Kealiinohomok, J., http://acceleratedmotion.wesleyan.edu/primary_sources/texts/
ecologiesofbeauty/anthro_ballet.pdf
6
di Turner, concetto che ho trovato illuminante nel chiarire il gioco di
specchi e riflessi che si trova alla base dei processi performativi in
ambito teatrale e non.
I capitoli che seguono sono strutturati partendo dal capitolo primo, in
cui espongo l’esperimento che ho svolto, che si è composto di un
workshop e diverse performance nel centro storico fiorentino, nel
quale ho cercato di indagare la prospettiva del pubblico e dei
performers coinvolti, attraverso dei questionari scritti. I risultati di tali
risposte hanno focalizzato la mia attenzione sulla ricorrenza del
termine “libertà”. Nel secondo capitolo ho esaminato la nascita e lo
sviluppo dell’improvvisazione performativa nell’ambito della PostModern Dance, dagli anni Sessanta fino a oggi. Ho concluso il
capitolo con una spiegazione delle competenze richieste a un
improviser procedendo per termini chiave. Il terzo capitolo è stato
dedicato ai processi che risiedono nel rapporto tra gli spettatori e i
performers, appoggiandomi a studi cognitivi di vario genere, dal ruolo
dei neuroni specchio alla recente analisi neuroestetica riguardo l’arte e
il teatro. Ho poi approfondito la questione che lega i drammi sociali al
concetto di liminale, individuando nell’improvvisazione un fenomeno
che appartiene, nello specifico, al campo liminoide, concetto chiave
nella mia ricerca poiché chiarisce il livello a cui avviene il gioco di
riflessi tra società e attori sociali attraverso il teatro. Nel quarto
capitolo ho presentato il quadro sociale all’interno del quale, a mio
parere, si colloca l’improvvisazione, focalizzando sulla scelta,
collegata all’idea postmoderna di libertà secondo le interpretazioni di
Bauman e Salecl .
7
8
Capitolo primo
LE PROSPETTIVE IN GIOCO SUL
CAMPO
La sfida metodologica a cui siamo chiamati è di riuscire ad articolare la
consapevolezza del traffico tra corpi e ideologie, acquisita in virtù di tutto
ciò che è avvenuto nella danza e negli studi in danza, con l’analisi
dettagliata di come essa stessa funziona
Franko M., Danza e politica, in I discorsi della danza, Utet, Torino 2007
Per potermi permettere di osservare e possibilmente di allontanarmi
un po' dalla prospettiva emica in cui mi trovo, ho condotto un piccolo
esperimento. Mi sono proposta di formare un gruppo di performers,
tra cui vi erano professionisti, semi professionisti e neofiti
dell'improvvisazione. Tutti avevano una formazione teatrale o di
danza.
Insieme alla mia collega, Silvia Bennett, abbiamo svolto un workshop
di formazione e preparazione a performance all'aperto. Ero infatti
interessata a studiare ambiti non teatrali per avere la possibilità di
avvicinarmi a un pubblico il più possibile diversificato, che
contenesse anche persone che normalmente non seguono questo
settore della danza.
Il workshop è stato condotto in forma sia pratica che teorica, ho
sentito la necessità di mettere i danzatori al corrente di parte della mia
9
ricerca, soprattutto per stimolare la loro consapevolezza e attenzione
al rapporto con l'audience.
1. Il workshop
Insieme alla mia collega abbiamo studiato un modo per preparare il
gruppo a improvvisare insieme. Ci siamo proposte di compiere un
percorso di 5 ore al giorno per 3 giorni, all’interno delle quali a metà
giornata proponevo, per una mezz’ora circa, degli spunti di riflessione
teorica riguardo agli studi che stavo conducendo per la tesi, collegati
ad esercizi fisici mirati ai temi proposti.
Ho cercato di fare attenzione a non fornire informazioni che fossero
eccessivamente suggestive o che potessero influire sul risultato
dell'esperimento, mirando solo a quelle in grado di aiutare i danzatori
a focalizzare velocemente il tipo di lavoro richiesto.
Il primo giorno abbiamo lavorato da un punto di vista fisico
sull’animalità e istintività del corpo e, da un punto di vista teorico, ho
proposto di ripercorrere gli studi di neurologia che illustrano i
meccanismi di relazione tra cervello e movimento. Nello specifico ho
trattato le mappe motorie, i neuroni specchio e lo spazio peripersonale.
Ho collegato il discorso al lavoro di Galimberti ripercorrendo la storia
del dualismo occidentale tra mente e corpo, per me propedeutico a
portare l’attenzione sul sentire e sul concepire il proprio corpo come
unificato e vivo, poiché sentire il proprio corpo permette di accedere a
parti profonde e istintuali di sé, per contro l’immaginario può aiutare a
cambiare il movimento e la tessitura del corpo stesso. Il secondo
giorno abbiamo cercato di lavorare sull’emotività, cercando di portare
fuori la componente intuitiva e personale nell’improvvisazione. Ho
introdotto il concetto di affordance, termine non utilizzato dai
10
danzatori, che ho preso in prestito da Sparti, oltre che da Squillacciotti
e Lusini per i campi della cognizione, e che, tra l’altro, ci ha permesso
di dialogare in modo più produttivo con il musicista che ci ha seguito
sia per il workshop che per le performance. Così abbiamo da un lato
cercato di sviluppare un modo per attingere al proprio bagaglio di
esperienze e suggestioni, dall’altro di metterle in connessione con gli
altri, con la musica e con l’ambiente. Il terzo giorno abbiamo cercato
di ripulire dall’emotività personale per focalizzare tutto sull’ascolto e
sul gruppo, proponendo di percepire lo spazio in relazione con
l’architettura del corpo nostro e degli altri danzatori. Come spunti
teorici ho trattato il tema della sincronicità junghiana, come spunto per
riflettere su come l’ascolto porta al “lasciar accadere” azioni, in questo
modo avvengono eventi in sincronia, cose che sembrano talmente rare
da sfidare le leggi statistiche, si tratta di sintonizzarsi sugli stessi
stimoli e approfondirli insieme.
Devo dire che il gruppo ha risposto benissimo al lavoro proposto,
dopo essere riusciti a tirare fuori materiale personale, attingendo
dall’immaginario, dalle proprie esperienze e dagli stimoli esterni, si
sono poi sintonizzati sulla dimensione di gruppo e l’ascolto tra loro
era decisamente forte.
2. Le performance
Già dal pomeriggio dell’ultimo giorno di workshop sono passata a una
fase di performance intensive nel centro storico di Firenze, ogni breve
spettacolo aveva una durata tra i 15 e i 20 minuti. Abbiamo svolto 15
performance in 4 giorni.
I 6 performers si sono alternati lavorando a rotazione, mai più di tre
alla volta, componendosi in soli, duetti e trio. I luoghi erano stati
11
scelti, in accordo col Quartiere 1 di Firenze, in base alle tipologie di
audience che potevano offrire: posti turistici, mercati, piazze. In
questo modo ho cercato di raccogliere giovani, anziani, casalinghe,
famiglie, studenti e turisti.
Il mio ruolo era quello di coordinare le performance, aiutando i
danzatori a gestire al meglio lo spazio, dare il tempo di durata
(attraverso dei cenni avvisavo quando iniziare a trovare una
conclusione) e soprattutto mi occupavo di osservare le reazioni del
pubblico, lo invitavo a rispondere ai questionari senza distrarre dallo
spettacolo. In alcuni casi ho condotto anche delle interviste a voce.
Il primo giorno mi sono trovata a dover rivedere la presentazione del
questionario: un foglio A4 attaccato a una cartella di cartone creava un
senso di distanza dagli spettatori, che mi hanno spesso scambiata per
una sorta di venditrice. Ciò non mi permetteva di mettere a proprio
agio le persone, che difficilmente si rendevano disponibili a compilare
il modulo.
Ho quindi provato a cambiare strategia, lasciando che fosse il
pubblico a interessarsi senza che dovessi porgere i moduli. Ho quindi
messo una scatola con una fessura, una sorta di urna, e ho trasformato
il modulo in una specie di volantino informativo, con accanto in bella
vista delle penne. Il volantino, grazie a una grafica più accattivante,
serviva in questo modo come spiegazione della performance e
invitava a rispondere alle domande. Il risultato è stato decisamente più
positivo, in questo modo non si sentivano più “obbligati” a rispondere,
ma potevano scegliere se farlo senza neanche entrare in contatto
diretto con me. Il tutto aveva un aspetto più giocoso e invitante,
portandomi a più di 100 moduli compilati nel giro di 3 giorni.
Per poter capire meglio quanto conta sapere in precedenza la natura
dello spettacolo, ho mischiato 2 tipi di moduli: uno premetteva che
12
era un’improvvisazione, l’altro invece diceva solo che si trattava
genericamente di una performance di danza. In questo secondo
questionario ho aggiunto una domanda a risposta chiusa, che chiedeva
di identificare se ciò a cui stavano assistendo era un’improvvisazione
o una coreografia.
I risultati dei moduli hanno attirato la mia attenzione su un dato: al di
là di un notevole consenso estetico da parte del pubblico, sembra
piuttosto rilevante la terminologia usata nella descrizione di ciò che è
piaciuto. Mi ha fatto riflettere in particolare la ricorrenza dei termini
“dialogo”, “umano” e “libertà”.
Dialogo: è generalmente usato in riferimento al rapporto tra la musica
e i performers o tra i performers stessi. Questo termine esprime
perfettamente la modalità di svolgimento dell'improvvisazione che
rimanda infatti a un proficuo parallelo con la comunicazione verbale,
la lingua parlata è infatti un ottimo esempio di improvvisazione nel
quotidiano.
Umano: Rimanda al concetto di corpo occidentale, come sostiene
Galimberti esso ha subito un dualismo che si è sviluppato in diverse
fasi partendo da Platone per arrivare fino ai giorni nostri. Nella danza
e in particolare nella danza contemporanea, impregnata di un concetto
di corpo fenomenologico, vivo e unificato, questo dualismo si
dissolve. L'umanità della danza che il pubblico ha notato è la
mancanza di virtuosismo di un corpo che si fa mezzo espressivo,
l'interesse è comunicare più che stupire.
Libertà: Questo termine mi ha suscitato una profonda riflessione. Il
termine è stato usato infatti insieme a “corpo” e “movimento” e, in
13
questo caso, rimanda quindi in qualche modo al termine “umano”. Ma
è stato anche spesso affiancato dal termine “coraggio”. Ciò mi ha dato
molto da pensare, infatti le nostre performance erano in strada, nel
centro storico di Firenze. In un primo momento ho dato per scontato
che si riferissero al coraggio di poter essere così liberi da ballare per
strada. Però pensandoci bene siamo continuamente circondati da
artisti di strada e, per quanto sia effettivamente più difficile
concentrarsi in un ambiente aperto, è in realtà più stressante lavorare
in un teatro per certi versi: in strada infatti il pubblico può scegliere se
rimanere o andarsene, in teatro c'è un pubblico pagante in attesa di
vedere qualcosa all'altezza di ciò che ha pagato, spesso è informato e
preparato sull'argomento o sulla tipologia di spettacolo che sta per
guardare. In generale un danzatore si prepara per esibirsi per anni e
anni, quindi il coraggio dovrebbe essere un ingrediente indispensabile
per il mestiere che vuole affrontare. Perché dovremmo essere più
coraggiosi di giocolieri, musicisti o mimi di strada?
Mi sono allora chiesta se non fosse correlato al concetto di
improvvisazione, effettivamente solo un piccolissima parte di
audience non si è reso conto che era un’improvvisazione, molti invece
hanno capito perfettamente di cosa si trattava. Quindi hanno notato la
libertà e il coraggio di danzare, improvvisando all'aperto.
Gli spettatori hanno dunque notato la capacità dei danzatori di
scegliere nel momento i propri movimenti e di creare una
composizione istantanea di musica e danza. Di fatto molti di coloro
che hanno pensato fosse una coreografia l’hanno reputata scadente,
poiché l’aspettativa compositiva è sostanzialmente diversa. Coloro
che hanno intuito, o a cui è stato detto, che si trattava di
improvvisazione, hanno trovato la performance interessante.
Sembrerebbe dunque che la parola “libertà” usata dal pubblico sia da
14
associare al processo improvvisativo inteso come “scelta”. Da ciò
posso dedurre che quello che affascina è vedere il danzatore creare dal
vivo, in diretta. In questo modo gli spettatori si sentono resi partecipi
del percorso creativo attraverso le scelte attuate nel presente dal
danzatore.
15
16
Capitolo secondo
IMPROVVISAZIONE E DANZA
Il danzatore che sceglie di lavorare con l’improvvisazione spesso soddisfa
un desiderio primario: esprimere liberamente la condizione del corpo.
Il danzatore che sceglie di portare in scena la propria improvvisazione
soddisfa un altro desiderio: dare voce alla propria urgenza.
C’è una ricchezza in questa esperienza che è difficile da descrivere. Il mio
amico Jo l’ha spiegata così: è come vedere un film o leggere un racconto e
dopo venire a scoprire che erano basati su una storia vera. In questo senso
osservando dei danzatori improvvisare si entra in competizione con la
finzione della vita reale.
L.Nelson, Pensieri sulla performance di improvvisazione nella
danza,
in Shoptalk 3, Company Blu, 2006.
1. Storia dell’improvvisazione come pratica performativa
La definizione “danza contemporanea” indica una fase dell’arte del
Novecento, collocabile nel secondo dopoguerra. Pontremoli sostiene
che essa ha come spartiacque Merce Cunningham negli Stati Uniti e il
Tanztheatre in Europa. L’improvvisazione come performance iniziò ad
essere utilizzata intorno agli anni ’60 in America, ma era già
largamente praticata come forma di ricerca dall’Ausdrucktanz tedesca
e dalla Modern Dance americana. Ad essa sono attribuibili diverse
17
valenze: spontaneità, espressione del sé, espressione spirituale,
accessibilità, scelta, autenticità, naturalezza, presenza, rischio,
intraprendenza, sovversione politica e senso del gioco. Nonostante che
l’improvvisazione contenga tutti questi aspetti, a seconda dei periodi
storici ne sono emersi alcuni piuttosto che altri.
Anni ‘60 e ’70
Il termine Post-modern Dance è stato coniato da Yvonne Rainer negli
anni ‘60 per indicare una nuova corrente, distinta dalla Modern
Dance, che propose un diverso modo di concepire il corpo e cambiò la
figura del coreografo e del danzatore nella direzione di una struttura
democratica ed egualitaria anziché gerarchica; nelle compagnie
classiche e moderne, infatti, vigeva una rigida divisione dei ruoli: dal
corpo di ballo ai solisti fino al coreografo. Per questa corrente
nascente l’improvvisazione viene a delinearsi come uno dei mezzi
performativi più utilizzati. La Rainer insieme a Steve Paxton, Trisha
Brown, David Gordon, Simone Forti e Debora Hay fondò il collettivo
del Judson Dance Theatre a New York, in collaborazione con l’allievo
di John Cage, il compositore Robert Dunn.
La Post-modern Dance mette l’enfasi sui concetti di libertà,
abbondanza e comunità. L’improvvisazione era considerata un mezzo
per incorporare tali valori, non solo in danza, ma anche in altre forme
d’arte, fu infatti ispirata dai movimenti d’avanguardia contemporanei,
che misero in discussione le regole tradizionali proponendo un’arte
alla portata di tutti, espressivamente libera e libera di esprimersi. La
danza in molti casi uscì dai luoghi canonicamente pensati per essa, i
danzatori decisero di invadere spazi aperti, città, gallerie d’arte, strade
e metropolitane.
18
Il metodo improvvisativo venne approfondito e studiato dando vita a
quelle che furono chiamate “coreografie indeterminate” o “coreografie
aperte” (opposte alle coreografie tradizionali, “chiuse”), ma anche
“situation-response composition” o “composizioni in situ”. La danza
sperimentata in questo periodo mette in scena un corpo idealizzato
come rilassato, un modo di muoversi e di comporre basato sulla
dialettica fra totale indeterminazione e improvvisazione guidata.
Il riportare il fuoco dell’attenzione compositiva sull’esperienza come
“embodied experience” colma la distanza fra soggetto e medium artistico
e origina una danza come dialogo del danzatore col proprio corpo [...]. La
danza dunque diviene il luogo privilegiato della liberazione del corpo
dall’alienazione che esso subisce in una società regolata unicamente dalla
competizione economica: dall’estetica all’ideologia il passo è breve. 4
A differenza dei metodi basati sulla scelta casuale, sulla chance, che
pongono l’elemento decisionale al di fuori dal sé (come per esempio
per Cunningham e Cage), l’improvvisazione sembrò essere un modo
per attingere al profondo, attivando la creatività personale di ogni
singolo individuo. Iniziarono così a diffondersi eventi e spettacoli,
rimane famoso il Concerto#14 del Judson Dance Theatre nell’Aprile
del 1964, che includeva oltre che un pezzo di gruppo anche i soli dei
singoli danzatori, tra i quali “Some thoughts on Improvisation” di
Yvonne Rainer che conteneva la lettura di un saggio che essa stessa
aveva scritto sul metodo improvvisativo. “Questa prima fase della
post-modern dance è una delle stagioni più fertili e innovative della
storia della danza contemporanea.”5
Sempre negli stessi anni anche un gruppo femminista si afferma, le
4 Pontremoli, A., La danza, Storia, teoria, estetica nel Novecento, Roma-Bari,
Editori Laterza, 2004 p 118
5 Ibidem p 117
19
Natural History of the American Dancer, organizzato nei primi anni
’70 da Barbara Dilley.
All’epoca vi furono due stimoli di eccezionale importanza per la
danza: la nascita della Contact Improvisation e il gruppo Grand
Union.
La Contact Improvisation si diffuse intorno alla fine degli anni ’70,
evolvendosi dalle sperimentazioni di Steve Paxton. Egli stava
portando avanti una serie di esperimenti su duetti maschili, cercava un
modo di danzare insieme che permettesse di eliminare l’aspetto
aggressivo. Paxton trovò così un sistema di ricerca sul movimento
dalle forti implicazioni sociali e terapeutiche, poiché basato
soprattutto sul contatto con un altro corpo e quindi su una forma di
comunicazione fisica e percettiva.
La tecnica fu immediatamente adattabile anche alle donne, diventando
un modo per indagare le dinamiche di un corpo sottoposto alle leggi
fisiche: come dare e ricevere il peso, come alzare il partner, come
seguire, cadere, dirigere, sostenere il peso di un altro corpo. Per
trovare suggestioni e soluzioni a queste necessità dinamiche furono
studiate danze popolari, sport e arti marziali, come l’Aikido. Egli
stesso l’ha così descritta in una recente intervista:
Quello che ho elaborato era una forma di duetto che si concentrava
principalmente sui tipi di messaggi che ci giungono attraverso il tatto; per
esempio approfondire il tatto attraverso il peso, fino ad arrivare ad
immaginare di avere un senso di spazio sferico, in cui il corpo possa
avere qualsiasi relazione con la gravità. Ciò significava che il mio
compito era scoprire come insegnare a cadere, in modo che le cadute non
presentassero un problema per il danzatore. Quindi ho lavorato su questo
spazio sferico e sui problemi che le persone incontrano in rapporto ai loro
sensi, quando devono apprendere nuovi movimenti. E’ ovvio che il
cadere crea paura nella maggior parte di noi, in special modo negli adulti,
20
in quanto non è un’esperienza che facciamo normalmente. Allo scopo di
risolvere questo problema, ho ripreso in mano l’Aikido, un’arte marziale
giapponese che avevo studiato in precedenza, e ne ho estratto
l’insegnamento sui principi del rotolare. Quando si cade su di una
superficie, o quando semplicemente si cade, si colpisce il pavimento.
L’Aikido suggerisce che, in caso di caduta, si può rotolare in modo da
mutare l’energia da una traiettoria verticale a novanta gradi rispetto al
pavimento, in qualcosa che “entra” nel pavimento e cambia facilmente
l’energia in un movimento parallelo al suolo. Quindi l’energia viene reindirizzata molto facilmente.
L’altro elemento è la qualità dell’energia all’interno del corpo nel
momento del rotolare, simile a quella che abbiamo quando al mattino ci
svegliamo e ci stiriamo. Nel rotolare a terra il corpo ha in sé proprio
quella qualità, una tranquilla e semplice qualità di leggerissima
estensione, che dirigiamo verso una certa relazione formale. Nel
momento in cui facciamo questo, ci stiamo in realtà estendendo verso la
caduta. Questo è impossibile da fare se si ha paura di cadere. Quindi, in
realtà questa azione diviene una spirale positiva, tanto che nel momento
in cui si acquista confidenza nella forma, sembra quasi che il movimento
divenga più morbido, e questo da più sicurezza [...]. 6
Questa pratica si diffuse velocemente in tutto il mondo: Stati Uniti,
Canada, Europa, Giappone, Australia, Nuova Zelanda. Ovunque
sorsero comunità di Contacters. Probabilmente la grandezza della
Contact risiede proprio nella sua natura non teatrale, infatti è nelle
“jams” che danzatori e non danzatori si incontrano per praticarla
insieme. Anche negli scenari più perfomativi non viene mai portata su
un palcoscenico, ma in contesti meno formali, situazioni in cui il
pubblico si posiziona in cerchio, vicino ai performers.
A causa dell’uguaglianza tra i generi presentata nella Contact, essa
venne associata ai circuiti culturali alternativi, in questa tecnica infatti
6 Paxton S. in Shoptalk 2, Indagini sull’improvvisazione nella danza
contemporanea, Company Blu, Sesto Fiorentino, 2004.
21
uomini possono alzare uomini, donne possono alzare uomini e donne
possono alzare donne, viene indistintamente sottolineata la forza
femminile come la sensibilità maschile.
Il Grand Union
fu attivo tra il 1970 e il 1976. Questo gruppo di
improvvisazione nacque invece dalla sperimentazione di Yvonne
Rainer e fu, a differenza della Contact, un fenomeno esclusivamente
teatrale e principalmente pensato per un’audience. A questo gruppo
appartennero oltre alla Rainer e Paxton anche Trisha Brown, Douglas
Dunn, Barbara Dilley, Lincoln Scott e Nancy Lewis. La loro filosofia
era basata sul fatto di incontrarsi direttamente sul palco e di presentare
il loro materiale “freddi”.
Questo gruppo esplorò l’interazione col movimento e i rapporti sociali
sotto varie prospettive: narrativa, drammatica, meta-teatrale e
quotidiana. I performers cantavano, recitavano, ballavano, citavano
film, creavano immagini con gli oggetti, dando la sensazione che il
palco fosse un luogo dove tutto poteva succedere.
Anni ’80 e ’90 fino a oggi
Negli anni Ottanta in America una generazione di danzatori e
coreografi formatisi e ispirati dai maestri degli anni Sessanta e
Settanta, cercava di distinguersi trovando la loro peculiarità. In
particolare negli anni Ottanta si instaurò una forma di collaborazione
di vari campi artistici portando una forma di “opera totale” o
Gesamtkunstwerk, creata per attrarre l’attenzione del grande pubblico
cercando di far confluire ad un unico spettacolo i fruitori di arte,
musica, teatro e danza, non potendo rischiare l’incertezza causata
dalle “coreografie aperte”.
Verso la fine degli anni Ottanta vi fu un riemergere graduale di
22
interesse per l’improvvisazione che però assunse diversi connotati sia
nel significato che nelle motivazioni. Se in precedenza
l’improvvisazione era un modo per accedere al sé autentico, in questo
periodo storico si assiste alla frammentata molteplicità di identità in
movimento per cui non esiste più un sé. Il contenuto della danza tende
quindi verso un’attestazione esplicitamente politica di identità, di
genere, di preferenze sessuali, di razza e di etnicità.
Il dibattito si complica negli anni Novanta a causa della
contraddizione tra Post-modernismo/Post-strutturalismo e l’identità
politica riguardo alla nozione di soggettività. Infatti anche se l’identità
politica non deve ricorrere necessariamente alla nozione essenzialista
di un gruppo (etnico, sessuale, razziale) spesso viene utilizzata una
retorica essenzialista. L’essenzialismo sosteneva che nonostante le
differenze di identità, sessualità ed etnia esistesse un “io” genuino,
mentre il post-modernismo lo negava. Sorse quindi un dibattito sulla
soggettività e sul sé che si è ripercosso sulla danza dell’epoca.
Se negli anni Sessanta, nelle coreografie aperte, si cercava di
esprimere i concetti di libertà e di creazione di comunità, negli anni
Ottanta si cerca di approfondire il significato di questi termini. Infatti
un tempo l’improvvisazione era collegata all’esplorazione e alla
partecipazione a una cultura dell’abbondanza. Ma gli anni Settanta
segnano l’inizio di una recessione che inizialmente sembrò
temporanea, ma la guerra alla droga, l’epidemia di AIDS, il crollo
dell’Unione Sovietica e la nuova recessione degli anni Novanta
crearono un certo scetticismo nei confronti degli ideali del passato,
facendo sembrare l’abbondanza e le comodità di un tempo antiche e
nostalgiche.
L’improvvisazione continuò ad essere usata in vari modi, non solo per
generare materiale nuovo, cosa che è destinata a rimanere come
23
marchio di fabbrica di tutto il genere contemporaneo (e che è stato un
metodo di composizione forse da sempre) ma anche come elemento di
variazione di set coreografici prestabiliti, e rimase sempre come
preparazione quotidiana per i danzatori. Fu nei primi anni Novanta
che iniziò una nuova fioritura dell’uso dell’improvvisazione come
performance: non solo come preparazione dell’evento, ma come
materiale dell’evento stesso. In tutta l’America iniziarono a
organizzarsi festival per ospitare questo genere di spettacoli, dal New
York Improvisation Festival a Engaging The Imagination di San
Francisco.
Se questa pratica negli anni Sessanta e Settanta fu un modo per
affermare che gli artisti avevano la voglia di giocare ed esplorare un
mondo nuovo che si stava aprendo di fronte a loro, quella degli anni
Novanta esprimeva un senso di urgenza e di frenesia quasi violento.
Contact improvisation was slow and gentle; I needed to explode. There is
a fierce physicality that may be an impact of the New York City
enviroment. For me, improvisation has political overtones. What I do is
related to the work of Lesbian Avengers, a direct action group.7
Si crearono diverse sottocorrenti, che concepirono l’improvvisazione
in diverse direzioni: da un lato la ricerca di superare i limiti delle
proprie capacità fisiche, arrivando all’estremo del proprio corpo
concedendosi al rischio, dall’altro lato un approccio olistico, salutare e
terapeutico di connessione mente-corpo. Su un altro fronte ancora
l’approfondimento della Contact Improvisation portò alla
7 “La Contact Improvisation era così lenta e delicata; avevo bisogno di esplodere.
C’è una fisicità feroce che potrebbe essere un effetto dell’ambiente di New York
City. Per me, l’improvvisazione ha implicazioni politiche. Ciò che faccio è correlato
al lavoro delle Lesbian Avengers, un gruppo d’azione diretta.” Monson J. in Albright
A.C,, Gere David, Taken by surprise, Middletown, Weslyan University press 2003 p
83
24
DanceAbility, che permise ai disabili di approcciarsi alla danza e di
interagire col proprio corpo.
In Europa il declino dei primi anni del dopoguerra aveva causato un
rallentamento nella consolidazione delle correnti moderniste, portando
a una generale marginalizzazione del fenomeno. Negli anni Ottanta
inizia la riconquista di un modernismo di importazione americana e, di
conseguenza, anche delle nuove forme post-moderne.
Si crearono così i presupposti - impliciti nei presupposti teorici del
modernismo stesso e inscritti nel DNA della cultura occidentale a partire
almeno dal Romanticismo in poi - per una nuova ribellione. Questa
ribellione è rimasta “sottotraccia” per oltre due decenni: artisti, correnti,
produzioni, scambi, sia sul piano creativo che formativo, sono avvenuti
ininterrottamente, a tutto campo e a livelli altissimi di energia, ma senza
mai emergere veramente “alla luce del sole”, conservando anzi quelle
caratteristiche di realtà “underground” rispetto alla cultura ufficiale che
ne costituivano l’essenza fin dalle origini, negli anni Sessanta.
Al principio del nuovo millennio questo movimento - al pari di altri
movimenti di opposizione radicale, nel campo delle arti e non solo comincia ad essere largamente visibile anche in Europa e in Italia[...]. 8
2. Improvvisazione come competenza
Il verbo improvvisare allude alla creazione di sequenze di movimento
mentre ci stiamo di fatto muovendo, “in una situazione i cui effetti
continuano ad accadere e possono essere modificati”9, modificando il
senso stesso di quello che stiamo danzando. Si può definire come il
momento in cui composizione ed esecuzione coincidono dando vita a
8 Bertozzi, D. in Shoptalk, Opinioni a confronto sul tema dell’improvvisazione,
Company Blu, Sesto Fiorentino, 2003.
9
Sparti D., Suoni Inauditi, Bologna, Il Mulino 2005 p. 117
25
una forma di composizione in tempo reale.
La competenza per tale pratica si costruisce attraverso un lungo lavoro
di esercizio ed esperienza, per cui non si crea quasi mai dal nulla, ma
dal recupero di un background di conoscenza corporee e di esercizio
fisico e mentale per raggiungere l’efficacia adeguata.
Nonostante l’esistenza di una grande quantità di stili e modi diversi di
pensare l’improvvisazione, poiché probabilmente ve ne sono tanti
quanti i danzatori che la praticano e la insegnano, esistono delle linee
guida comuni che costituiscono la base di una buona tecnica per
improvvisare col corpo. A tale proposito mi riferirò a Sparti, che ha
brevemente riassunto le condizioni dell’improvvisazione nel jazz.
Queste, non a caso, sono valide anche per l’improvvisazione in danza:
1. Inseparabilità. Composizione ed esecuzione sono atti inseparabili
nell’improvvisazione, viene quindi mostrato il processo creativo nel
momento in cui accade. Nelle coreografie invece creazione e
composizione avvengono in un momento precedente all’esecuzione.
2. Originalità. In questo senso ogni perfomance non sarà mai uguale
all’altra, poiché irripetibile. Originalità è intesa anche come potere
di sorprendere, come “capacità di spingersi al di là del noto”10.
3. Estemporaneità. In quanto avviene nel presente, in un qui e ora che
non permette di avvalersi di materiale preparato precedentemente.
Ma nonostante ciò è un’attività situata, che non nasce dal niente, ma
da una lunga preparazione .
L’espressione - di Quintiliano - ex tempore actio significa un'azione
che non è frutto di un lungo e giudizioso processo deliberativo, ma è
come se avvenisse fuori dal tempo, e non solo nel senso che accade
proprio adesso, in questo fragile istante, ma che accade in un adesso
che è inatteso (e tuttavia opportuno), un momento irripetibile e
10
ibidem p 118
26
tuttavia propizio. 11
4. Irreversibilità. Nell’atto di improvvisare si può solo proseguire, non
è possibile tornare indietro e cambiare ciò che si è fatto. E’ possibile
“solo continuare a partire da quanto già eseguito”12 . Come dice
Sparti non vi è “istituto del perdono”, nel senso che anche non
esiste atto che possa cancellare quello precedente, si può solo
continuare.
5. Responsività. In questa pratica vige l’esigenza di essere attenti agli
stimoli forniti da musica, corpo e spazio ed essere in grado di
reagire velocemente a questi. Ciò deve avvenire in tempi molto
ristretti, poiché a differenza della coreografia, la composizione
avviene istantaneamente. Essere responsivi è quindi una qualità
estremamente importante per un perfomer.
Affordance
Negli anni Sessanta lo psicologo James Jerome Gibson sostenne la
teoria secondo la quale animali e esseri umani vedono il loro ambiente
circostante non in modo oggettivo, quindi come forme e volumi, ma in
base al loro potenziale comportamentale. In altre parole, percepiamo
immediatamente ciò che vediamo in termini di come pensiamo di
poter interagire con esso. Facendo un esempio: guardando una sedia
vediamo la sua sedibilità, guardando una tazza di caffè vediamo la sua
afferrabilità o la sua capacità di contenere un liquido.
Sparti ha riadattato questo termine per spiegare il meccanismo che si
innesca durante l’improvvisazione. Egli definisce l’affordance come
11 ibidem
12 ibidem
27
“ciò che offre la possibilità di un’azione non ancora intrapresa (e che
non necessariamente verrà di fatto intrapresa)”.13
Riportando questa definizione nel campo del movimento possiamo
quindi dire che un movimento agevola quello successivo, senza
esserne necessariamente la causa. Poiché tale atto non obbliga ma
permette una risposta. Infatti la risposta dipenderà in realtà “dal
bagaglio di conoscenza e dalle capacità inferenziali di chi riceve - e
poi agisce su- quell’atto articolando appunto il suo sapere di
sfondo”14.
Trovo che la definizione di Sparti sia estremamente calzante per
questo ambito, poiché la danza ha effettivamente a che fare con
l’affordabilità dello spazio. Il lavoro di un performer ha anche a che
fare col percepire lo spazio tra corpi, tra volumi, tra architetture e
darvi un significato spesso diverso dal quotidiano. Nel mio primo
periodo di formazione nel campo dell’improvvisazione mi colpì una
frase che il mio insegnante, Alessandro Certini, spesso ripeteva: “ la
danza non si trova in me o in te, ma proprio nello spazio che creano i
nostri corpi”, ciò mi ha stimolato a concepire la danza come qualcosa
che non produco io da sola, ma che si crea nell’interazione con ciò che
mi circonda: il muro, il pavimento, gli altri corpi, e i dettagli come
buchi e venature nel legno o la consistenza del muro, tutto può
diventare stimolo, basta trovare il modo di sfruttarne l’affordance.
Come Sparti sottolinea la reazione alla affordance non è arbitraria , ma
è la continuazione più prossima alla sollecitazione fornita, di modo
che, per chi guarda (o ascolta nel caso del jazz), sia possibile tracciare
una connessione con l’atto precedente. Per agevolare questa
comprensibilità è molto importante che i performers siano capaci di
13 Sparti D., Suoni Inauditi, Bologna, Il Mulino 2005 p. 168
14 Ibidem p. 169
28
dosare molto bene la durata di ogni singola azione e la quantità di
azioni che si stanno svolgendo in scena. Infatti un’eccessivo accumulo
di frasi danzate rende illeggibile la dinamica che si instaura tra i
performers in azione, come d’altro canto esiste un tempo fisiologico
per il pubblico di assimilazione di un’azione, per cui a volte l’uso di
pause e fermate aiuta a spezzare il flusso di movimento e a renderlo
leggibile. Il termine che si usa in queste situazioni è “asciugare”, che
si intende sia nel fatto di chiarire l’affermazione che si ha intenzione
di proporre con tale movimento (che quindi non può essere casuale ma
deve avere una valenza comunicativa anche se astratta), sia nel senso
di ridurre la quantità di proposizioni, trovando invece un modo di
valorizzare anche quelle degli altri, affidandosi appunto
all’affordabilità di tali movimenti.
Il tempo dell’improvvisazione
Un danzatore contemporaneo durante la sua formazione si troverà
sicuramente a dover studiare diverse forme di improvvisazione,
infatti, come abbiamo detto precedentemente, questa oltre che una
pratica performativa è una pratica indispensabile per effettuare una
ricerca sul corpo per scopi coreografici e, in entrambi questi settori,
esistono stili e modi di pensare diversi. Potremmo quindi distinguere
in generale tra un’improvvisazione di studio e un’improvvisazione
performativa. Si tratta di due approcci abbastanza diversi, poiché sono
diverse le finalità. Sono comunque attività compenetranti e
indispensabili l’una all’altra. In ogni caso è richiesta un’estrema
sensibilità che necessita di molta concentrazione e dedizione per
essere raggiunta.
Nel caso di studi coreografici l’attenzione si focalizza sul produrre
29
materiale ed essere quindi in grado di accedere al materiale prodotto
anche in un secondo momento. In questa situazione quindi sono
indispensabili ripetizioni, sviluppi e leggere variazioni di uno stesso
movimento, per poter essere in grado di sviluppare una memoria fisica
e di indagare tutte le possibilità espressive di un singolo segmento
danzato. La dimensione temporale cambia, i tempi “scenici” sono, per
quanto sempre importanti, in secondo piano e vengono considerati al
momento della composizione.
Nel settore performativo dell’improvvisazione invece il “quando”
assume un ruolo fondamentale per la fruibilità del pubblico. Infatti è
necessario chiarire immediatamente ciò che si sta producendo, in
questo senso è utile saper gestire la tempistica per rendere il ritmo
della performance leggibile e al tempo stesso godibile. Quindi bisogna
essere capaci di sentire “quando” entrare in scena, “quando” uscire,
“quando” finire, “quando” lasciare il tempo di sviluppare qualcosa o
“quando” interromperlo. Imparare a gestire il “quando” è
indispensabile, ma è estremamente difficile non lasciarsi prendere
dall’irrefrenabile istinto di riempire lo spazio e il tempo di movimenti.
Improvvisando ci si sente spesso in un flusso, in cui da una cosa nasce
un’altra e poi un’altra e poi un’altra, si genera un tempo interno,
condiviso dai performers, che può portare a un movimento continuo e
indistinto dal ritmo piatto e noioso, tra l’altro tendenzialmente
incomprensibile. Si tratta di dosare con estrema attenzione e di
riuscire a percepire la composizione che si sta creando momento per
momento anche dall’esterno, dando il giusto tempo all’osservatore di
entrarvi partecipando col suo sguardo.
Sempre a proposito del jazz Sparti dice:
Il jazzista
compone nel presente, mentre questo si compie, ma tale
30
presente viene esteso in modo ritenzionale e protenzionale, [...]. Posso
infatti ricordarmi quello che ho suonato fino adesso attraverso la
ritenzione - termine che esprime il nesso fra quello che suono (o ascolto)
e quello che ho suonato un paio di note fa, e che viene ancora trattenuto
(o “ritenuto”, appunto) - nonché attraverso la riproduzione, la quale rinvia
ad una seconda forma di memoria, relativa a un passato non contiguo ma
più remoto, ad esempio una figura musicale che è parte del mio
repertorio, o un passaggio che ho suonato eseguendo lo stesso brano due
anni fa. E posso anche presentire il futuro attraverso protenzioni (le
aspettative sul futuro immediato che si formano mentre suono) e
anticipazioni di un futuro più lontano e indeterminato [...]. In questo
senso chi improvvisa esibisce l’accadere del tempo.
Questa cornice temporale pone il performer in una condizione
particolare in cui si è in qualche modo vincolati a ciò che si è appena
svolto, come dicevamo anche in precedenza possiamo solo continuare.
Limite
Porre dei limiti restrittivi all’improvvisazione è interessante sia nel
campo della ricerca coreografica sia in performance. Come abbiamo
appena detto il danzatore è comunque vincolato da ciò che ha fatto
pochi secondi prima, quindi il concetto di vincolo e di limite è in
qualche modo insito nel concetto stesso di improvvisazione. Nel jazz
si usa rielaborare pezzi di repertorio improvvisandovi e rielaborandoli.
In danza una tendenza è quella di improvvisare preparando strutture,
dandosi appuntamenti, o anche scegliendo limitazioni nella qualità di
movimento.
Nell’improvvisazione di ricerca coreografica è molto importante
riuscire a stabilire dei limiti e mantenerli, questi infatti più sono stretti
e limitanti più permettono di uscire dagli schemi usuali. Il corpo tende
a costruire dei percorsi privilegiati per cui è molto facile che alcune
31
qualità di movimento ci rimangano più “affezionate” ripresentandosi
improvvisazione dopo improvvisazione. Il vincolo di dover stare in
una specifica qualità o in uno specifico soggetto aiuta il corpo a uscire
da tali pattern e permette di scoprire nuove possibilità e nuove strade
espressive.
Ciò ha inoltre delle applicazioni utili anche in campo compositivo. Per
esempio nel metodo Nikolais si usa comporre facendo improvvisare i
danzatori su una vera e propria griglia composta di spazio, tempo,
motore e forma, da costruire secondo ciò che si intende esprimere. Per
cui potrei trovarmi a improvvisare su uno spazio piccolo e direzionale,
con un tempo veloce, motore vibrato e forme spigolose, restituendo
delle immagini sicuramente claustrofobiche, come potrei invece
improvvisare su uno spazio circolare, con un tempo medio e regolare,
motore accentato e forme aperte e morbide, proponendo in questo
modo delle immagini certamente più serene e pacificanti.
Nell’ambito performativo avere una preparazione in tale direzione
permette di avere un vocabolario di movimento variegato e una
maggiore consapevolezza di ciò che sono le nostre tendenze e quindi
di decidere se cavalcarle o uscirne. Spesso si scelgono strutture
all’interno delle quali far nascere l’improvvisazione, ciò dipende
molto dal tipo di concezione che si ha dell’improvvisazione stessa e
da che tipo di situazione si cerca di ricreare. E’ possibile dare una
struttura drammaturgica all’interno della quale improvvisare, oppure
stabilire solo un’ordine di apparizione e composizione dei performers,
per esempio decidere che dovrà svolgersi un duo, un solo e poi un trio,
oppure semplicemente concordare delle qualità di movimento e in
base a quelle costruire la relazione tra i performers, come per contro è
possibile non concordare niente e lasciar accadere stabilendo solo la
durata del pezzo.
32
Ascolto
L’ascolto è davvero considerato la base di una buona pratica
improvvisativa. Il danzatore deve essere capace di porsi in relazione
col contesto, sia che questo sia dato da altri performers, dallo spazio,
dal pubblico e dalla musica. Deve essere ricettivo ad ogni stimolo,
responsivo e percettivo. Non è possibile improvvisare senza ascoltare
ciò che abbiamo intorno.
Per mettersi in questa condizione è di grande aiuto eliminare il
giudizio, infatti giudicarsi non aiuta a lasciarsi andare al flusso
improvvisativo, ma blocca e allontana dalla concentrazione
necessaria, portandola dentro di sè invece che fuori di sè.
Non è un caso che si usi questo termine che ha a che fare proprio con
il senso dell’udito. Sembra interessante l'osservazione di Cohen Bull
che identifica nel balletto classico una disciplina strettamente visiva,
in cui l'interesse è sul perimetro del corpo del danzatore, rispetto alla
Contact Improvisation che si basa invece sul contatto fisico e sui
processi interni al danzatore. I sensi di riferimento in queste due forme
artistiche sono quindi in un caso la vista nell'altro il tatto.
La Contact è sempre più indispensabile nella formazione di un
danzatore contemporaneo proprio perché è volta a creare una
sensibilità al tatto e alle sensazioni interne, il senso del sé diventa
posizionato nel corpo, ma si estende anche a tutto ciò che è intorno.
Sia nella Contact che nel balletto classico l'attenzione rimane
comunque sul corpo, ma da due prospettive diverse: nel balletto è
oggettivato e visto dall'esterno, nella Contact si aspira a essere
soggetto di esperienze interne.
33
What is revealed (in contact improvisation) is mutual understanding, a
basic system, a mode of communication. Touch. The fast and subtle skin
processing masses, vectors, emotions, giving the muscles the information
to correctly move the bones, so the duet, can fall through the time and
space of demostration, neither partner hurt, hampered, subjected,
objectified. Steve Paxton (ibidem p275)
Nell’improvvisazione in danza tale contatto fisico può non essere
presente, in questo caso è indispensabile acuire tutti i sensi e l’udito ha
effettivamente una parte fondamentale.
Per ascolto si intende quindi riuscire a sviluppare quella sensibilità
tale da permettere di sentire, con sentire intendo tutte le possibili
accezioni del termine. Bisogna infatti riuscire a sentire dove si trova
l’altro anche quando, come spesso succede, questo si trova alle
proprie spalle e riuscire a mantenere una percezione della
composizione che si sta creando insieme.
Accettare
Collegata alla tematica dell’ascolto vi è la questione dell’accettazione.
Infatti l’ascolto è direzionato alla formulazione di scelte condivise, è
quindi importante porsi in una condizione di accettazione delle
proposte degli altri e non affezionarsi troppo alle proprie. Infatti nella
costruzione di decisioni condivise è possibile che le proprie scelte
vengano accolte come scartate. Spesso accade di aver avuto
un’intuizione su come sviluppare un movimento o una composizione
nello spazio e qualcun altro propone una soluzione diversa, il tempo di
reazione deve essere estremamente breve per cui succede di dover
essere capaci di proporre con estrema chiarezza, ma anche di
34
abbandonare le proprie proposte altrettanto velocemente. Infatti
sviluppare questa capacità permette di inserire eventuali “incidenti di
percorso” in un discorso comunque coerente.
Si dice che il danzatore deve in qualche modo mettere da parte l’ego,
con ciò si intende mettere in primo piano la composizione e farsi
strumento di quel che avviene. Questo implica di abbandonare le
proprie manie di protagonismo. Ascoltare e accettare servono anche a
capire come e quando dare spazio agli altri, nell’ottica di valorizzare
la composizione totale.
Errore
Come abbiamo illustrato fino ad ora l’improvvisazione richiede uno
stato mentale particolare, bisogna essere in ascolto concentrati,
accoglienti, propositivi e responsivi e, come se non bastasse, non
giudicarsi e mantenere una presenza scenica appropriata.
Nonostante si riesca a soddisfare tutte queste condizioni l’errore e gli
incidenti di percorso saranno sempre all’ordine del giorno, per la
natura stessa dell’improvvisazione. La cosa interessante è riuscire a
inglobare l’errore nel flusso, in alcuni casi è infatti possibile
“cavalcare l’errore” come si suol dire. Per fare un esempio semplice
inciampare può aprire la strada a nuove dinamiche di caduta,
ovviamente ciò non sempre è possibile e, come abbiamo detto, è
importante non giudicarsi e non giudicare, poiché
nell’improvvisazione, per la sua caratteristica irreversibilità, non c'è
“istituto del perdono” come ci sottolinea giustamente Sparti.
35
36
Capitolo terzo
RAPPORTO PUBBLICO-PERFORMER
“Dance is a spatial extension of the body that reaches out and touches other
bodies,
just as a voice is a aural extension”15
Ivar Hagendoorn
1. Neuroni Specchio
Nei primi anni 90 un gruppo di ricercatori dell'università di Parma,
coordinato da Giacomo Rizzolati e composto da Luciano Fadiga,
Leonardo Fogassi e Vittorio Gallese, si stava dedicando allo studio
della corteccia premotoria. Allo scopo di studiare i neuroni
specializzati nel controllo dei movimenti della mano, avevano
collocato degli elettrodi nella corteccia frontale inferiore di un
macaco, quella parte preposta alla selezione, pianificazione ed
esecuzione di azioni come raccogliere un oggetto e portarlo alla
bocca. Durante ogni esperimento era registrato il comportamento dei
singoli neuroni nel cervello della scimmia mentre la si faceva accedere
a frammenti di cibo.
L'aneddoto racconta che, mentre uno dei ricercatori prendeva un frutto
da un cesto preparato per gli esperimenti, alcuni neuroni della
scimmia che osservava la scena avevano reagito. Come poteva essere
15
“La danza è un’estensione spaziale del corpo che si estende verso l’esterno e tocca
gli altri corpi, proprio come la voce è un’estensione uditiva.” op cit in S. Blackeslee,
M. Blakeslee, The body has a mind of its own, New York, Random House Trade
Paperback Edition, 2008.
37
accaduto se fino ad allora si credeva che quei neuroni si attivassero
solo per funzioni motorie? Inizialmente si pensò a un errore, fu quindi
un caso fortuito la scoperta nel cervello della scimmia e, in seguito,
nel cervello umano, di uno speciale tipo di neuroni, - attivati sia
dall'esecutore durante l'azione che dall'osservatore della medesima
azione - la funzione dei quali sarebbe alla base “della cognizione,
dell'intenzione, dell'azione e della rappresentazione, oltre che
dell'interazione sociale”16
Nel corso di tali sperimentazioni, verrà individuata la presenza di due
tipi di neuroni che sono stati chiamati “canonici” e “specchio”. I primi
reagiscono durante l'esecuzione di un'azione compiuta in prima
persona e durante l'osservazione di un oggetto che può partecipare alla
medesima azione, ad esempio, mentre la scimmia afferra il cibo o
mentre osserva il cibo che può essere afferrato. I secondi, i “neuronispecchio”, reagiscono sia quando l'azione è eseguita in prima persona,
sia quando è osservata la stessa azione eseguita da un altro. Per la
scimmia, nei molti test effettuati, lo stimolo visivo rivelatosi più
efficace per attivare i neuroni-specchio è la visione di un'azione in cui
la mano o la bocca di un altro individuo interagisce con un oggetto. In
ogni caso, anche in assenza di oggetto, il gesto motorio deve essere
finalizzato ad una azione che abbia un senso per la scimmia: non ha
senso per lei vedere qualcuno che mima il gesto di prendere
un'inesistente nocciolina, ha senso invece schioccare le labbra, in
assenza dell'oggetto cibo, mentre spulcia una compagna. In assenza di
oggetto, i neuroni specchio della scimmia non reagiscono ad una
pantomima.
Nell’uomo è stata riscontrata oltre alla presenza di neuroni specchio
visuo-motori, che reagiscono secondo un sistema di “risonanza
16
Cappelletto, C., Neuroestetica. L’arte del cervello, Milano, Laterza ,2010, p 127
38
motoria” più complesso di quello della scimmia, anche di neuroni
specchio audio-visivi, che rispondono al suono di azioni avvenute e
quindi anche ad azioni di natura astratta. Le reazioni umane
all’ambiente non sono risposte agli stimoli sensoriali esterni, ma sono
piuttosto “forme di immaginazione attraverso le quali il soggetto
simula internamente l'intenzione psicofisica associata all'azione che
sta osservando”.17
Si possono quindi considerare intenzioni e volontà come espressione
di una spinta energetica interna, un”conato esecutivo”, in questo caso
cerebrale e muscolare. L'intenzionalità, che ricorre nelle “Ricerche
logiche” di Husserl, può essere definita come “movimento di
reciprocità dell'atto intellettuale di un soggetto che si rivolge a un
oggetto, prendendolo di mira, e di un oggetto che gli risponde,
prestandosi ad essere afferrato intellettualmente”18.
Eugenio Barba, in “La canoa di carta”, delinea il concetto di sats:
Nell'istante che precede l'azione, quando tutta la forza necessaria è già
pronta a liberarsi nello spazio, ma come sospesa e ancora tenuta in pugno,
l'attore sperimenta la sua energia sotto forma di sats, preparazione
dinamica. Il sats è il momento in cui l'azione viene pensata-agita
dall'intero organismo che reagisce con tensioni anche nell'immobilità. E'
il punto in cui si è decisi a fare.19
La relazione attore-spettatore mette in evidenza ed attua il
meccanismo di rispecchiamento che stiamo trattando. Lo stesso
Gallese esprime in un suo studio una prima analisi:
17
Ibidem 129
18
Ibidem p131
19
Barba cit in Cappelleto p 131
39
L'antropologia teatrale, attraverso la dissezione del comportamento
dell'attore, riconduce la totalità della sua espressione ad una molteplicità
di livelli di organizzazione delle prassi corporee di movimento. Ciò
costituisce un naturale ponte di dialogo con le neuroscienze cognitive che
indagano il ruolo del sistema corpo-cervello nella cognizione sociale.20
Le indagini neuroscientifiche sui neuroni-specchio hanno individuato
nello schema di interazione tre elementi di estremo interesse.
1. L'azione osservata e la risposta osservativa sembrano indifferenti
all'identità dell'esecutore. Per il macaco osservare l'azione di un
uomo o di una scimmia è indifferente; per l'uomo, l'osservazione di
azioni di masticamento e di comunicazione, agiti da un uomo, da
una scimmia e da un cane, ha registrato reazioni diverse:
indifferente alle diverse identità per gli atti di masticazione,
decisamente differenziata per quanto riguardava le azioni
comunicative, intensa attivazione per l'uomo, poca per la scimmia,
nulla per il cane.
Risulta dunque che ci è indifferente l'identità nominale e ontologica
dell'attore, ma non quella motoria; non importa chi esso sia ma come
esso sia, una differenza a partire dalla quale si possono delineare
indagini interessanti rispetto all'uso delle maschere e degli attrezzi
scenici del teatro, e al grado di distorsione che questi possono
legittimamente imporre al corpo dell'uomo, tenendo anche conto del
fatto che, per l'attore, protesi di vario tipo producono una
modificazione del senso di vicino e lontano che innanzitutto sono non
misure metriche, ma espressioni di relazioni spaziali relative al corpo
proprio. Vicino e lontano sono egocentrici e somariferiti.21
2. Il sistema corpo-cervello si integra con un oggetto e un ambiente. Il
20
Gallese cit in Cappelletto 131
21
Ibidem p 132
40
risultato degli esperimenti ha rivelato che l'attivazione neuronale
dell'osservatore risulta maggiore quando l'azione è accompagnata
da un'intenzione contestuale. Sebbene il gesto sia spesso ambiguo,
non si può sciogliere tale ambiguità dicendo che il suo senso
dipende dal contesto,
ma piuttosto “è forse più interessante
chiederci che cosa produce il fatto che un gesto possa avere la
stessa definizione posturale e aprirsi a azioni e intenzioni
plurivoche.” 22
3. Il carattere finzionale del sistema specchio. Una delle differenze
fondamentali tra il sistema specchio della scimmia e quello umano
è che quest'ultimo reagisce anche alla osservazione dell'azione
mimata.
Secondo Stafford - che riprende la posizione aristotelica- la scoperta
dei neuroni-specchio, intesa come una comunicazione senza fili,
riporta la mimesi al centro del dibattito estetico dopo l'interruzione
dovuta allo strutturalismo e pone la tensione tra l'esperienza in prima
persona e la costruzione della conoscenza altrui, una tensione interna
al singolo corpo intelligente. … Se da un lato, come indicava
Berenson, quando mi identifico con un altro corpo, quando mi
immergo in un modo d'essere immaginario e immaginato, sento la mia
vita intensificata, dall'altro lato la concezione proteiforme dell'uomo
che i neuroni specchio sembrano fondare neurobiologicamente, apre a
una nozione caleidoscopica dell'identità, che non solo si presta a
suggerire narrazioni plurivoche e concomitanti della costruzione del
soggetto, ma si candida a essere a sua volta tema narrativo, e infatti
stimola 'neuroplot'.23
Secondo Rizzolati e Senigaglia, i neuroni specchio più che essere
22
Ibidem p 134
23
Ibidem p135
41
legati a un comportamento imitativo hanno piuttosto a che fare con la
comprensione degli eventi motori altrui e delle altrui intenzioni
partendo dall’esperienza di sé. Infatti è proprio partendo dai propri atti
motori che viene garantita la comprensione di quella degli altri, “dove
per comprensione qui non si intende la spiegazione dell’intenzione,
ma la capacità di riconoscere nell’evento motorio un tipo di atto”.24
Calvo-Merino ha condotto delle indagini di neuroimaging nel campo
dell’estetica teatrale. L’esperimento consisteva nel mostrare dei video
di capoeira a soggetti di diverse competenze: esperti nella danza
classica, esperti in capoeira e inesperti del tutto. Nei soggetti che
avevano un’allenamento tale da poter compiere i movimenti mostrati,
risultava una maggiore attivazione nella corteccia premotoria, nel lobo
parietale superiore destro e nel solco temporale sinistro. Quindi il
cervello umano comprende le azioni altrui attraverso una simulazione
motoria e ciò dipende dal soggetto coinvolto.“Il cervello risponde
dunque a configurazioni di azioni orientate che possiamo definire
educate, ma non transitive od orientate a uno scopo.”25
Il danzatore dunque improvvisando imposta il suo bagaglio di
esperienza, abitudini motorie, libertà espressiva e creativa nel
costruire con l’improvvisazione una sequenza di movimenti in cui
ogni movimento è necessario a quello prossimo. In questo modo lo
spettatore risponde immaginando in anticipo il movimento che sta per
svolgere il danzatore.
La capacità di immaginare il futuro prossimo è data proprio dai neuroni
specchio che non costituiscono semplicemente un ponte tra azione e
percezione, e sono piuttosto il veicolo di un contagio, secondo
l’espressione di Jeannerod, un contagio emotivo che unisce scena e sala,
24
Ibidem p137
25
Ibidem p 139
42
solidali tra loro [...] 26
Gli studi di Umiltà sul ruolo dell’intenzione nello svolgimento di
un’azione hanno invece portato a ipotizzare, in prospettiva biologica,
ciò che Worringer, in estetica, aveva identificato come impulso di
empatia e impulso di astrazione. Quindi la ragione per cui godiamo di
un’opera d’arte è riconducibile all’impulso di empatia che porta a
proiettare in essa il nostro senso vitale, mentre l’impulso di astrazione
porta ad estrarre l’oggetto dal contesto in cui si trova naturalmente.
Entrambi questi impulsi fanno riferimento ad un processo di
autoalienazione che permette di estraniarsi dal contesto per potersi
immergere empaticamente nell’opera artistica.
Una tale collaborazione costituisce una delle condizioni preliminari della
fruizione estetica, per la quale il fruitore sospende il proprio vissuto
esperienziale immediato, e si immedesima in quanto osserva senza con
ciò illudersi, dando vita a realtà o esperienze allucinatorie. Lo spettatore
non si confonde cioè con quanto vede, né ritiene quanto è rappresentato e
raffigurato come dotato di vita autonoma.27
I questo modo lo spettatore “danza sulla sedia” come disse Eugenio
Barba, diventando per questo un’esperienza partecipativa.
2. Gli Specchi di Turner
La natura riflessiva della perfomance è stata analizzata da Turner
nell’ottica di un gioco di specchi tra i processi socioculturali e le
performance umane. Il legame tra dramma sociale e dramma scenico è
26
Ibidem p 140
27
Ibidem p 143
43
dato dall’osservazione che riguarda la struttura di entrambi. Turner ha
infatti riscontrato che i drammi sociali seguono un procedimento
drammaturgico composto da quattro fasi:
1. Rottura 2. Crisi 3. Compensazione 4. Reintegrazione (o nuova
rottura)
Egli considera dunque la matrice empirica dei principali generi di
performance culturali proprio il dramma sociale, dunque sono queste
quattro fasi a fornire il contenuto, la forma e le procedure dei generi
performativi più tardivi.
Un dramma, come suggerisce l’etimologia del termini, non è realmente
completo fin quando non viene inscenato, cioè recitato su una qualche
specie di palco di fronte al pubblico. Il pubblico teatrale vede il materiale
della vita reale presentato in forma significativa, non si tratta solo di
semplificare e ordinare le esperienze cognitive e emozionali che nella
“vita reale” risultano caotiche. Si tratta di mettere in discussione i principi
ordinatori accettati nella “vita reale”.28
In una cultura complessa dunque la perfomance si configura come una
modalità attiva ed agente capace di fare da “specchio” a problemi,
questioni e crisi sociali. Si tratta tuttavia di un riflesso deformato, di
una “sala di specchi” in cui le immagini sono molteplici, ingrandite,
rimpicciolite, in modo da “provocare in chi li guarda, non soltanto
pensieri ma anche potenti emozioni e la volontà di modificare
l’andamento delle faccende quotidiane”.29
Un’altra osservazione interessante di Turner riguarda il fatto di
considerare le performance culturali come al modo “congiuntivo”
della cultura:
Il congiuntivo è definito da Webster come “modo verbale utilizzato per
esprimere supposizione, desiderio, ipotesi, possibilità, ecc. piuttosto che
28
Turner, Antropologia della performance, Bologna, Il Mulino 1983, p 83
29
Turner, Dal rito al teatro, Bologna, Il Mulino, 1986, p187
44
per affermare un fatto reale: per esempio il modo di fossi nella frase se io
fossi te”. Rito, carnevale, festa, teatro e generi performativi analoghi
possiedono chiaramente molti di questi attributi. 30
Dunque si procede in campo performativo secondo la logica del
“come se”, rispetto alla forma indicativa della cultura che sarebbe poi
la forma dei drammi sociali.
liminalità, liminale e liminoide
Il concetto di liminalità fu introdotto da Van Gennep nella descrizione
dei rituali di passaggio. Turner si interessò alle possibilità che lo
schema di Van Gennep offriva nell’interpretazione delle necessità
sociali. La liminalità corrisponde alla fase intermedia dei rituali di
passaggio, essa è la fase di transizione chiamata appunto limen o
margine, quella in cui i soggetti attraversano la fase ambigua del
rituale perché hanno abbandonato la situazione sociale precedente ma
non sono ancora passati al nuovo status. Si tratta quindi della fase di
perdita di riferimenti in cui sorgono nuovi modelli, simboli e
paradigmi aprendo la strada alla creatività culturale, è la fase in cui
avviene la “scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e
nella ricomposizione libera o “ludica” dei medesimi in ogni e
qualsiasi configurazione possibile, per quanto bizzarra”. 31
La liminalità corrisponde dunque alla sospensione strutturale, è un
cambiamento radicale di rottura, per permettere agli individui di
rientrare poi nella struttura modificandola e rielaborandola. Quindi sia
i riti di passaggio che i drammi sociali si avvalgono di una forma
processuale che definisce l’ordine di svolgimento della frattura tra il
30
Turner, 1983, p187
31
Ibidem p 61
45
prima e il dopo. La liminalità si colloca in uno spazio atemporale di
momentanea sospensione del passato, un attimo di “pura
potenzialità”32 . Questa corrisponde alla terza fase dei drammi sociali,
quella fase di compensazione in cui si cerca di condurre una sorta di
autoanalisi collettiva successiva alla “crisi” avvenuta.
Fanno dunque riferimento a questa fase tutti i rituali religiosi e
giuridici ma anche lo sport, il gioco, il teatro, il cinema, la letteratura,
la musica e tutto ciò che “gioca” con “i fattori della cultura,
raccogliendoli in combinazioni di carattere sperimentale, talvolta
casuali e grotteschi, improbabili, sorprendenti, sconvolgenti.”
Se questa fase liminale nelle società tribali inverte lo status quo, nelle
società industriali lo sovverte. Quindi se il rituale tende ad accogliere
il conflitto, dimostrandolo simbolicamente, nel teatro e nei generi di
“intrattenimento” della società industriale svela i conflitti, mostrando
le zone d’ombra e il malessere sociale.
i generi specializzati di intrattenimento artistico e popolare (cultura di
massa, cultura pop, cultura folk,
cultura alternativa, cultura di
avanguardia, ecc.) si moltiplicano, in contrasto con il numero
relativamente limitato dei generi simbolici in una “società tribale”, e
ciascuno di essi al suo interno lascia ampio spazio a scrittori, poeti,
drammaturghi, pittori, scultori, compositori, musicisti, attori, comici,
cantanti folk, musicisti rock e in generale i “produttori” di cultura, per
creare non soltanto forme strane, ma anche, e abbastanza di frequente,
modelli, diretti o in forma di parabola o di favola esopica, che
contengono una severa critica dello status quo, in tutto o in parte.
Turner compie dunque una distinzione tra il liminale, delle società
tribali, e il liminoide della società industriale. Dove il primo è pervaso
di dovere, l’altro lo è di volere. Infatti il fenomeno liminale assume
32
Ibidem p 87
46
toni piuttosto seri, a volte minacciosi, mentre il fenomeno liminoide è
una questione di gioco e di divertimento, in cui non vige l’obbligo a
prendervi parte, ma vi si partecipa solo se si vuole. Oltretutto il
liminoide si presenta come fenomeno “individualizzato”, nel senso
che il singolo artista, in quanto specialista del suo settore, produce
fenomeni di questo tipo, ciò non vuol dire che esso produca simboli,
idee e immagini dal nulla, ma si confronta con l’eredità collettiva. Alla
base di questa distinzione tra liminale e liminoide vi è l’elemento
importante dell’alta specializzazione e professionalizzazione che si è
sviluppata nelle società industriali, per cui anche l’intrattenimento
entra a far parte di un settore di professionisti specializzati nel
mestiere.
il flusso
Schechner trattando il tema dell’intensità della performance fa
riferimento a un particolare momento, in cui avviene la connessione
tra il pubblico e i performers e “ si manifesta una presenza, qualcosa è
accaduto”33. Ciò che “accade” è che i performers sono riusciti a
muovere il pubblico e secondo Schechner questo è ciò che Mihaly
Csikszentmihalyi ha chiamato “flusso” che è citato e approfondito
anche da Turner:
Il termine “flusso” denota la sensazione olistica presente quando agiamo
in uno stato di coinvolgimento totale ed è una condizione in cui un’azione
segue all’altra secondo una logica interna che sembra procedere senza
bisogno di interventi consapevoli da parte nostra [...]. Ciò che esperiamo
è un flusso unitario da un momento a quello successivo, in cui ci
sentiamo padroni delle nostre azioni, e in cui si attenua la distinzione tra
33
R. Schechner, Magnitudini di perfomance, Roma, Bulzoni editore,1999, p 23
47
il soggetto e il suo ambiente, fra stimolo e risposta, o fra presente, passato
e futuro. 34
Turner chiarisce che Csikszentmihalyi ha individuato 6 tratti distintivi
del flusso che ha dedotto analizzando vari metageneri liminoidi della
nostra società, ma il concetto di “flusso” viene poi esteso
all’esperienza creativa in generale:
1. Esperienza della fusione tra azione e coscienza. Un’eccessiva
autocoscienza distrae dall’azione, l’attore o il danzatore ha bisogno
di essere completamente immerso in quello che sta facendo
altrimenti si interrompe il ritmo o viene dato spazio a
preoccupazioni.
2. Concentrazione su un campo di stimoli limitato, in cui solo l’ora ha
importanza. Questo si ottiene intensificando la consapevolezza,
cosa che si raggiunge ad esempio attraverso le regole di un gioco o
dalla motivazione che nasce dalla competizione, in questo modo
viene eliminata la distrazione creata dalla realtà sociale o dai troppi
stimoli che arrivano dall’esterno.
3. Perdita dell’io. Ciò non ha a che fare con il solipsismo, ma al
contrario Csikszentmihalyi lo definisce “un’intuizione dell’unità,
della solidarietà, della pienezza, e dell’accettazione”35 il soggetto
dunque tende piuttosto a sentirsi tutti gli uomini. Quindi non c’è più
necessità di un sé come tramite con gli altri, ma sono le regole a
garantire e a gestire questa relazione.
4. Sentirsi padroni delle proprie azioni e dell’ambiente. Del risultato
della performance si diventa realmente consapevoli solo alla fine,
ripercorrendola retrospettivamente, dunque porsi in questo stato di
autocontrollo aiuta a superare le difficoltà che possono sorgere
34
Csikszentmihalyi M., op cit in Turner V., Dal Rito al Teatro, p 105
35
Csikszentmihalyi M., op cit in Turner V., Dal Rito al Teatro p 107
48
durante l’esecuzione, scacciando la paura o la preoccupazione.
5. Esigenza di azioni non contraddittorie, coerenti, bisogna accettare
per vere le regole che sono date dall’evento liminoide che stiamo
praticando.
6. Non necessita di finalità o ricompense esterne, è proprio il flusso
stesso la felicità massima.
Turner sottolinea che ciò che va analizzato del flusso è soprattutto il
contenuto di questa esperienza, pur essendo un’esperienza individuale,
porta dei simboli condivisi dalla communitas.
3. La danza come forma di comunicazione non-verbale
Judith Lynne Hanna definisce la danza come un comportamento
umano composto, dalla prospettiva del danzatore, da sequenze di
movimenti del corpo non-verbali, intenzionali, significative, ritmiche
e culturalmente conformate, diverse quindi dalle attività motorie
quotidiane. E’ movimento coerente e colmo di valore estetico. La
danza è un comportamento umano, distinto dunque dalle “danze”
degli animali a causa dei contenuti simbolici, dell’espressione emotiva
e della capacità di usare sintatticamente forme di movimento originali.
Ciò che sembra mancare agli animali, e che è invece presente negli
uomini, è un certo livello si sinestesia, cioè la capacità di percepire e
trasmettere simultaneamente stimoli ai diversi sensi, che riguarda ad
esempio l’associazione di un colore ad un certo suono.
In particolare Hanna sottolinea l’impatto multisensoriale della danza,
poiché il pubblico viene di fatto “sedotto” da una larga gamma di
stimoli proposti: la sensazione di attività cinestetica e di empatia, lo
sguardo del performer, il suono del corpo sul pavimento, il modo in
cui avviene questo tocco, il fiato alterato dei danzatori e l’odore dei
49
corpi o anche lo spostamento d’aria causato da un movimento vicino.
Per comprendere il potenziale comunicativo della danza possiamo
impostare un paragone con il linguaggio verbale e non verbale. Hanna
propone di considerare la danza nel non verbale come consideriamo la
poesia rispetto alla prosa nel verbale. In comune danza e linguaggio
hanno varie caratteristiche: hanno entrambi una ricezione direzionale;
intercambiabilità, nel senso che mittente e destinatario possono essere
la stessa persona; dislocazione, l’oggetto cui si fa riferimento può non
essere direttamente presente; produttività, messaggi mai creati prima
possono essere inviati e recepiti all’interno di principi strutturati;
trasmissione culturale; ambiguità; affettività, come espressioni di stati
interni con il potenziale di poter cambiare umore e cambiare il senso
di una situazione; e un assortimento di potenziali partecipanti alla
comunicazione.
Esistono per contro delle differenze tra danza e linguaggio:
1. la danza è principalmente motoria, visuale e cinestetica, mentre il
parlato usa il canale audio-vocale, secondariamente entrambe le
comunicazioni si appoggiano anche su canali auditori, olfattivi,
prossemici e tattili.
2. Il linguaggio verbale esiste in una dimensione temporale, mentre la
danza richiede oltre a questa anche la dimensione spaziale.
3. L’abilità di un interlocutore di percepire l’esito del proprio discorso
è un fenomeno acustico, cosa impossibile nella multisensorialità
della danza, se non altro perché il danzatore non può vedere la
propria immagine.
4. Il fatto che chi parla può contemporaneamente compiere altre
azioni non è generalemente applicabile alla danza.
5. La danza ha più difficoltà nel comunicare complesse strutture
logiche rispetto al linguaggio parlato.
50
6. Nello studio della lingua si tende a ridurre a fonemi e morfemi,
mentre in danza l’esistenza di unità minime non è riscontrata. Cosa
che secondo Hanna è più che altro riconducibile a mancanza di
studi sull’argomento poiché una sorta di sintassi come quella che
governa il linguaggio verbale può essere riscontrato anche in danza.
4. Conclusioni sull’improvvisazione
Alla luce di queste considerazioni sul teatro e sulla danza possiamo
iniziare a individuare il profilo dell’improvvisazione. Abbiamo detto
che per comprendere a pieno il concetto di performatività è necessario
riflettere sull’idea stessa di performance come pratica corporea,
necessaria ad una ridefinizione critica del reale e potenziale non-luogo
di margine e di passaggio da situazioni socio-culturali, definite da
nuove aggregazioni sperimentali. Mi sono quindi messa alla ricerca di
cosa realmente venga rappresentato in questa particolare pratica
performativa.
La mia tesi è che l’improvvisazione sia legata alla prassi postmoderna di mettere attenzione sui processi rispetto ai risultati, ciò che
accade è che viene esposto il processo creativo dell’artista e ne viene
fatto spettacolo. Dall’analisi dei questionari che ho sottoposto agli
spettatori durante il mio esperimento, è apparso chiaro che coloro che
non si sono accorti che la performance che stavano osservando era
improvvisata, hanno tendenzialmente risposto che non gli era piaciuta.
Invece la maggior parte degli spettatori che hanno capito, o a cui è
stato svelato che i performers improvvisavano, hanno invece gradito
lo spettacolo.
Dunque qualcuno ha considerato la performance una coreografia
scadente. Effettivamente secondo un’aspettativa di tipo estetico o
51
drammaturgico uno spettacolo di improvvisazione sarà quasi sempre
deludente. Ma allora chi invece ha gradito la performance cosa ha
visto?
La risposta che mi sono data è che l’improvvisazione in qualche modo
mette in scena la “crisi” del performer, non intendo questo termine in
senso esistenziale, in scena non viene mai portato qualcosa di troppo
personale, anzi come abbiamo detto si va piuttosto nella direzione di
perdita dell’io. Intendo invece “crisi” in termini turneriani come la
fase di transizione e di ridefinizione: è la fase ambigua del liminale
che si trova tra crisi e compensazione. In scena abbiamo difatti un
performer messo a nudo, che si trova a creare e a comporre momento
dopo momento esponendo le proprie proposte, ripensamenti, tentativi
e incidenti di percorso, che deve quindi definirsi movimento dopo
movimento. E’ ciò che Csikszentmihalyi chiama flusso che permette
questo, e che diventa protagonista nell’improvvisazione.
Molte persone mi sono venute a cercare, dopo lo spettacolo, per
chiedermi quanto fosse improvvisato di ciò che i danzatori facevano.
Quando spiegavo loro che niente era stato strutturato, e quindi si
trattava di un improvvisazione completamente libera non volevano
crederci. Ciò creava ancora più attenzione e curiosità riguardo alle
performance che si stavano susseguendo.
Credo che questa reazione sia comprensibile alla luce del fatto che
l’improvvisazione non è molto conosciuta in Italia, anche se
largamente praticata, essa assume dunque un’aura magica per chi è
abituato a vedere solo coreografie e a pensare che i danzatori
procedano nel loro lavoro solo in quella direzione.
Mi sembra però imprescindibile che ciò che tiene alto l’interesse del
pubblico sia osservare il performer interagire con lo spazio, col suono,
con gli altri danzatori, o con il pubblico stesso, creando passo passo.
52
Dà una sorta di brivido vedere come questo decide cosa fare momento
dopo momento, la domanda che viene spontanea al pubblico è “cosa
farà ora?...e ora?”.
Rispetto alla teoria di Turner l’improvvisazione in danza si propone
come un fenomeno liminoide, mettendo al modo congiuntivo la scelta
del performer e dunque questo rappresenta all’indicativo il dramma
sociale legato alla scelta.
Considerando che la danza contemporanea ha trovato diverse
tecniche, strategie e metodi per mettere il danzatore in condizione di
sapere cosa deve fare e come lo deve fare passo dopo passo, mi
sembra quindi che essa proponga una soluzione piuttosto chiara,
configurandosi come terza fase dei drammi sociali, cioè quella
compensativa, d’altronde lo stesso Turner definisce questa come la
fase da cui il teatro stesso nasce.
53
54
Capitolo quarto
L’ARTE DI SCEGLIERE
Vedo l’improvvisazione come un approccio alla danza che mette a fuoco quel
momento di passaggio dal non conosciuto al conosciuto. Le situazioni che si
vengono a creare nell’improvvisazione cambiano continuamente a vari
livelli. Uno stato di precarietà che può diventare molto creativo. All’interno
di esso possiamo infatti fare delle scelte che trasformano il caos in azioni
con una forma e un senso compiuto, sempre partendo dall’interazione con
gli altri, con il pubblico, cogliendo l’imprevisto per agire all’interno di esso.
Certini A., “Opinioni a confronto sul tema dell’improvvisazione”, in
Shoptalk, Company Blu, 2003
Il tema della libertà è quello che più ha colto la mia attenzione
all’interno dei questionari presentati al pubblico durante il mio breve
esperimento. Mi ha colpito per il fatto che nell’improvvisazione in
realtà si tende a stare entro strutture, limiti e regole, che sono proprio
quelle che generano il flusso, che vengono profondamente assimilate e
accettate per poter essere seguite e sentite dai performers. Ciò mi ha
portato a riflettere sulla visione di libertà e di scelta nella società
contemporanea, poiché, a mio parere, è proprio su questi temi,
compenetranti e interdipendenti, che avviene il gioco di specchi e
rispecchiamenti di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente.
55
1. La libertà nella società postmoderna
In epoca moderna Freud aveva introdotto un concetto di “civiltà”
come
“costruita su una restrizione delle pulsioni”36 , quindi una
società basata su concetti di ordine, bellezza, pulizia, uniti in un sorta
di compromesso a discapito degli impulsi individuali. Veniva quindi
proposta, e poi anche accettata collettivamente, l’idea di una società
civile in cui convivono piaceri e sofferenze, soddisfazione e disagio,
obbedienza e ribellione. Secondo Bauman la libertà individuale fu
sacrificata in cambio della sicurezza, in questa società l’incremento
dell’ordine ha generato un aumento della frustrazione.
Al giorno d’oggi la libertà individuale sembra invece regnare sovrana,
la nostra società pare aver trovato la soluzione, che secondo Freud era
impossibile, di conciliazione tra ordine e libertà individuale. Siamo
nel tempo della deregulation.
Essa si propone di fondere il prezioso metallo di un “ordine puro” e di
“pulizia meticolosa” estraendo direttamente la materia prima della umana
(troppo umana) ricerca di piaceri, sempre più numerosi e appaganti - una
ricerca che un tempo era del tutto screditata e condannata come
autodistruttiva. 37
Se quindi da un lato è stato guadagnato in libertà individuale abbiamo
dunque perso quella sicurezza che teneva insieme la società moderna,
infatti ogni passaggio di valori porta a guadagni e a perdite.
Nel mondo postmoderno vige la frammentazione e la mancanza di un
quadro, sembrano mancare gli strumenti concettuali per esaminare la
situazione in modo coerente e integrato. Secondo Bauman in realtà
36
Bauman Z., La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999, p 8
37
ibidem p 9
56
l’ambivalenza dell’esperienza di questa sorta di crollo e “la
conseguente incoerenza di desideri e atteggiamenti si sono proiettati
nella sconfitta dell’ordine mondiale e nel fallimento dell’audacia
intellettuale e delle sue capacità di comprensione”. In sostanza dunque
al posto delle “leggi di natura” si sono sostituite le “leggi di mercato”.
La crescente incertezza di cui parla Bauman è dovuta ad alcuni fattori
responsabili:
1. Il nuovo disordine mondiale: le politiche del blocco di potere sono
state sostituite da qualcosa di sconosciuto, dall’aspetto incoerente e
disorientato. La mancanza di interpretazioni coerenti porta a
previsioni apocalittiche.
2. La deregulation universale: la competizione economica è regolata
dalla totale cecità morale. La fiducia di un tempo nelle capacità di
autoregolazione lascia spazio solo a una crescente disuguaglianza
economica tra continenti, paesi e cittadini stessi. Nessuna
occupazione è garantita e non c’è abilità in grado di assicurarla a
lungo.
3. Lo spirito del consumismo ha indebolito anche la rete di protezione
costituita dai rapporti interpersonali. Si tende a identificare l’altro
come un “potenziale mezzo per ottenere gradevoli esperienze”38 .
Parallelamente a questo è avvenuto il lento disfacimento delle
competenze sociali, sostituite, ancora una volta da prodotti
tecnologici offerti sul libero mercato.
4. I media veicolano un potente messaggio, supportato da mezzi di
persuasione efficace, che sottolinea “l’essenza indeterminata e
leggera del mondo”. In un mondo tale nulla accade definitivamente,
ma si dissolve rapidamente senza lasciare traccia, non esistono
conoscenze che non siano precarie e provvisorie.
38
ibidem p 63
57
La “società dell’incertezza” porta dunque a non poter mai risolvere il
“problema dell’identità”, poiché mancano le basi per la costruzione di
un’identità solida, cioè le nozioni di familiare ed estraneo, di “noi” e
“altri”. In mancanza di una “verità unica”, definizione che Bauman
sottolinea come pleonastica, siamo preda di una responsabilità
maggiore nel fare le nostre scelte.
Mentre farsi un’identità è un’esigenza fortemente sentita e un esercizio
incoraggiato da ogni autorevole medium culturale, avere un’identità
solidamente fondata e resistente e restarne in possesso “per tutta la vita”,
si rivela un handicap piuttosto che un vantaggio poiché limita la
possibilità di controllare in modo adeguato il proprio percorso
esistenziale [...].39
2. Il problema della scelta
Bauman sostiene che i moderni mezzi tecnologici invece di creare
occupazione, hanno ridotto le richieste di forza lavoro e le
“privatizzazioni” hanno deresponsabilizzato i poteri centrali, lasciando
un vuoto e trasformando ciò che per la modernità era desiderio di
uniformarsi in desiderio di autoformazione e autoaffermazione. La
nuova paura che assilla l’uomo postmoderno è l’inadeguatezza:
Non l’inadeguatezza “vecchio stile” misurata da lontano in base a un
criterio definito e immutabile a cui ci si deve uniformare, ma una forma
nuova e progredita: una inadeguatezza postmoderna, che rimanda
all’incapacità di acquisire la forma e l’immagine desiderate, qualunque
esse siano; alla difficoltà di rimanere sempre in movimento e di doversi
fermare al momento della scelta, di essere flessibile e pronto ad assumere
39
ibidem p 67
58
modelli di comportamento differenti, di essere allo stesso tempo argilla
plasmabile e abile scultore.40
Su questa linea Renata Salecl sostiene che il nuovo motto
contemporaneo è “inventare se stessi”. Secondo questa studiosa il
capitalismo avrebbe fatto leva proprio su questo senso di
inadeguatezza per costruire un concetto di scelta che si conformi ai
fini consumistici. L’idea di poter scegliere il proprio destino fu
promossa verso la fine del settecento, per supportare gli ideali
illuministici di libertà politica, ma era stata introdotta già dal seicento
in Gran Bretagna per combinare l’idea di successo professionale
individuale con gli ideali religiosi del tempo. Anche nell’America
settecentesca l’espressione “self-made man” divenne famosa e ispirò i
racconti di Horatio Alger nella metà dell’ottocento, storie di
lustrascarpe, venditori ambulanti e artisti di strada che riescono a farsi
rispettare dalla classe media, superando la condizione sociale di
nascita. All’epoca si discuteva sul ruolo che dovesse assumere lo Stato
nei confronti dei cittadini e se fosse giusto che ogni individuo fosse in
diritto di dare sfogo alla propria personale ambizione a discapito degli
altri. I sostenitori del libero mercato credevano che onestà personale e
buone intenzioni bastassero ad autoregolare tali ambiti. Uniti al
concetto di uomo che si fa da sé vi erano ideali che legavano il
successo all’ottimizzazione delle proprie risorse, tra queste anche
quelle morali, quindi successo e onestà risultavano procedere insieme.
Al volgere del ventesimo secolo fu invece l’idea di lotta per la
sopravvivenza ad essere collegata al successo personale, l’esistenza
era vista come un campo di battaglia in cui bisogna essere pronti a
tutto per emergere. A complicare la situazione vi fu l’emancipazione
40
ibidem p 109
59
femminile, una crescente competizione che pose accanto al “self-made
man” la “self-made woman”.
Nella visione postmoderna invece la situazione cambia poiché un
relativo benessere economico sembrerebbe essere garantito, non esiste
più un percorso definito e chiaro per la realizzazione personale. La
vita individuale è concepita più che altro come un opera o come
un’impresa, come qualcosa che va sviluppata, perfezionata e
rielaborata fino a raggiungere il massimo potenziale.
L’idea di scelta si radicalizza: ogni aspetto della propria vita diventa una
questione di decisioni da prendere con cura, in modo da avvicinarsi
quanto più all’idea di felicità e di realizzazione di sé proposto dalla
società. [...]. Tutti noi siamo invitati a comportarci come aziende: fare un
piano per gli obiettivi della nostra vita, compiere investimenti a lungo
termine, essere flessibili, riorganizzare l’impresa della nostra esistenza e
rischiare il dovuto in modo da incrementare gli utili.41
Al giorno d’oggi però sembra che anche semplici scelte, come quale
detersivo comprare, ci mettano di fronte a una crescente incapacità di
scegliere. Nell’indecisione la tendenza è comprare la cosa più
pubblicizzata, oppure prendersi del tempo per valutare accuratamente
tutte le possibilità che vengono offerte.
Nella vita privata sembra evidente la stessa forma di paralisi, che porta
alla ricerca di un consiglio di “esperti” per poter prendere le proprie
decisioni. Figure professionali come coach, motivatori e consulenti in
ogni settore ne sono sintomo. Questo sembra confermato anche
dall’aumento spropositato di vendite di libri di autoaiuto e di riviste
pronte a dare consigli su come migliorare ogni settore della propria
41
Salecl R., La tirannia della scelta, Laterza, Bari, 2010, p 25
60
vita: sessuale, familiare, lavorativo e personale. Ogni scelta implica
prendersi una responsabilità:
l’accettazione della responsabilità non è un compito facile: non solo
perché introduce il tormento della scelta (che comporta sempre una
perdita e un guadagno), ma anche perché preannuncia la perenne
preoccupazione di aver compiuto un errore.
Sembra dunque che un mondo in cui si prospettano infinite possibilità
di scelta, in realtà, ci abbia reso solo più ansiosi. Forse come
sosteneva Kierkegaard l’ansia deriva da un eccesso di libertà, e quindi
da un eccesso di possibilità?
La Salecl sostiene che non è l’eccesso di possibilità il problema del
mondo industrializzato, ma piuttosto l’interiorizzazione di un concetto
di scelta razionale, preso in prestito dalla sfera economica e proposto
come unico tipo di scelta.
La psicoanalisi ha dimostrato che è raro agire direttamente e
deliberatamente in modo da massimizzare il proprio piacere e
minimizzare il dolore. Spesso sappiamo, razionalmente, che una certa
cosa ci nuoce, ma non riusciamo a fermarci o arriviamo a trovare qualche
forma di soddisfazione nel dolore. 42
Ciò che dunque è importante sottolineare è che il problema della
scelta nella società postmoderna fa riferimento a un’ideologia, poiché
di fatto le decisioni importanti della nostra vita sono per lo più
irrazionali, intuitive e derivano da impulsi inconsci, e, soprattutto, la
maggior parte delle scelte che compiamo sono sociali, nel senso che
rispecchiano ciò che la società reputa appropriato. In questa direzione
42
ibidem p 45
61
la Salecl riprende il concetto del grande Altro, di Lacan, che secondo
le conclusioni di Dufour in epoca postmoderna è scomparso.
Il soggetto umano è ora decentrato a tempo indeterminato; lo spazio
simbolico che lo circonda è sempre più anomico e indefinito. Per questo
il dibattito sul postmoderno si è concentrato sulla scomparsa della grandi
narrazioni e delle autorità su cui fare affidamento. L’individualismo ha
raggiunto un nuovo stadio in cui il soggetto vede sempre più se stesso nel
ruolo di artefice del sé.
3. L’improvvisazione come arte di scegliere
Nel gioco di specchi dell’improvvisazione come fenomeno liminoide
possiamo quindi iniziare a intravedere quali sono i nessi tra questa
pratica performativa e la società postmoderna.
L’improvvisazione non lascia traccia, non è definitiva e non è
ripetibile. Il performer si definisce nel presente della performance,
compiendo le sue scelte passo dopo passo sulla scena. Si pone in una
situazione di “precarietà creativa” per riprendere le parole di Certini
sopra citate. Sembra che il danzatore si sia volutamente calato nei
panni di attore sociale in scena. Come se avesse riprodotto una
“scenografia postmoderna” della situazione sopra descritta. In questo
senso la definizione di Post-Modern Dance non poteva essere più
calzante. Oltretutto il corpo percettivo, e sensibile del performer
sembra corrispondere perfettamente al nuovo concetto di corpo del
cercatore di sensazioni descritto da Bauman:
Il corpo postmoderno è prima di tutto recettore di sensazioni, assorbe e
assimila le sue esperienze, e la sua attitudine e capacità ad essere
stimolato lo trasforma in uno strumento di piacere. [...] Non è tanto la
62
performance fisica che conta , quanto la qualità delle sensazioni che il
corpo riceve durante le prestazioni.43
Anche in questo settore della danza vi è una rinuncia del virtuosismo a
favore dell’espressività, tesa a fornire sensazioni al pubblico e a
sentirle il danzatore stesso.
Sono presenti nella logica dell’improvvisazione però delle differenze,
il performer infatti non soffre delle proprie scelte. Ciò è possibile
grazie alla mancanza di un giudizio, poter lavorare senza giudicarsi o
giudicare il lavoro dei propri colleghi permette di lasciarsi andare e
non interrompere il flusso. Inoltre è l’ascolto a guidare la performance
per cui sentirsi in un flusso di scelte condivise permette di accettare ed
essere accettati anche con i propri errori.
Trovo interessante il ruolo dei limiti. La Salecl nota che la mancanza
di restrizioni a cui siamo sottoposti al giorno d’oggi porta a ridefinire
personalmente dei limiti, e che in realtà persone soggette a una minore
possibilità di scelta sembrano essere più soddisfatte degli altri. Il
limite nell’improvvisazione ha infatti un ruolo creativo e vivificante,
anche quando l’improvvisazione è libera il limite è comunque dato dal
dialogo con il contesto.
Sembra che l’arte abbia proposto uno spazio protetto in cui potersi
liberare dall’ansia della scelta, in cui le parole chiave sono
accettazione, ascolto e mancanza di giudizio. Sembra inoltre aver
riportato l’attenzione su un nodo cruciale: la scelta non è quasi mai
razionale, è intuitiva e sociale. Di fatto i performers si allenano a
compiere decisioni condivise e a dover sentire cosa fare, più che a
decidere cosa è meglio fare.
43
Bauman Z., La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999, p 113
63
4. Il circolo “virtuoso” dell’improvvisazione
Il mondo del lavoro pare essersi accorto che questo spazio aperto
dall’improvvisazione permette di allenare le proprie capacità di scelta.
Come Bauman e Salecl hanno entrambi dimostrato, il problema legato
al prendere decisioni è un problema che riguarda la nostra epoca, di
conseguenza siamo tutti coinvolti. Esistono figure professionali che
fanno della scelta il proprio mestiere e che per questa ragione hanno
un grande di carico di responsabilità. In questi settori del lavoro, da
qualche anno a questa parte, l’improvvisazione è richiesta nel percorso
di formazione, è infatti stata notata la possibilità di sviluppare
attraverso di essa le proprie capacità di problem solving, decision
making, team building, leadership e mind mapping. Proprio questa
terminologia sembra avvalorare l’idea della Salecl e di Bauman su
un’eccessiva interiorizzazione delle leggi che regolano il mercato e
l’impresa: all’improvvisazione, in questo campo, sono state tolte le
terminologie usate dagli artisti e tradotte in termini fruibili al settore
manageriale.
64
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Nel percorso dell'esposizione del mio lavoro ho attraversato campi
diversi per apparato teorico, di riferimento e metodologico, data la
complessità del tema e la sua innovatività. Infatti solo di recente è
sorto un interesse verso la danza come spazio d'analisi per i risvolti
cognitivi del suo processo di produzione e messa in atto. Per questo ho
ritenuto opportuno, al termine di ogni capitolo, ricapitolare le
questioni affrontate e che, per comodità di lettura, riporto qui di
seguito.
Conclusioni sull’improvvisazione
Alla luce di queste considerazioni sul teatro e sulla danza possiamo
iniziare a individuare il profilo dell’improvvisazione. Abbiamo
detto che per comprendere a pieno il concetto di performatività è
necessario riflettere sull’idea stessa di performance come pratica
corporea, necessaria ad una ridefinizione critica del reale e
potenziale non-luogo di margine e di passaggio da situazioni socioculturali, definite da nuove aggregazioni sperimentali. Mi sono
quindi messa alla ricerca di cosa realmente venga rappresentato in
questa particolare pratica performativa.
La mia tesi è che l’improvvisazione sia legata alla prassi postmoderna di mettere attenzione sui processi rispetto ai risultati, ciò
che accade è che viene esposto il processo creativo dell’artista e ne
viene fatto spettacolo. Dall’analisi dei questionari che ho sottoposto
agli spettatori durante il mio esperimento, è apparso chiaro che
65
coloro che non si sono accorti che la performance che stavano
osservando era improvvisata, hanno tendenzialmente risposto che
non gli era piaciuta. Invece la maggior parte degli spettatori che
hanno capito, o a cui è stato svelato che i performers
improvvisavano, hanno invece gradito lo spettacolo.
Dunque qualcuno ha considerato la performance una coreografia
scadente. Effettivamente secondo un’aspettativa di tipo estetico o
drammaturgico uno spettacolo di improvvisazione sarà quasi
sempre deludente. Ma allora chi invece ha gradito la performance
cosa ha visto?
La risposta che mi sono data è che l’improvvisazione in qualche
modo mette in scena la “crisi” del performer, Non intendo questo
termine in senso esistenziale, in scena non viene mai portato
qualcosa di troppo personale, anzi come abbiamo detto si va
piuttosto nella direzione di perdita dell’io. Intendo invece “crisi” in
termini turneriani come la fase di transizione e di ridefinizione: è la
fase ambigua del liminale che si trova tra crisi e compensazione. In
scena abbiamo difatti un performer messo a nudo, che si trova a
creare e a comporre momento dopo momento esponendo le proprie
proposte, ripensamenti, tentativi e incidenti di percorso, che deve
quindi definirsi movimento dopo movimento. E’ ciò che
Csikszentmihalyi chiama flusso che permette questo, e che diventa
protagonista nell’improvvisazione.
Molte persone mi sono venute a cercare, dopo lo spettacolo, per
chiedermi quanto fosse improvvisato di ciò che i danzatori
facevano. Quando spiegavo loro che niente era stato strutturato, e
quindi si trattava di un’improvvisazione completamente libera non
volevano crederci. Ciò creava ancora più attenzione e curiosità
riguardo alle performance che si stavano susseguendo.
66
Credo che questa reazione sia comprensibile alla luce del fatto che
l’improvvisazione non è molto conosciuta in Italia, anche se
largamente praticata, essa assume dunque un’aura magica per chi è
abituato a vedere solo coreografie e a pensare che i danzatori
procedano nel loro lavoro solo in quella direzione.
Mi sembra però imprescindibile che ciò che tiene alto l’interesse
del pubblico sia osservare il performer interagire con lo spazio, col
suono, con gli altri danzatori, o con il pubblico stesso, creando
passo passo. Dà una sorta di brivido vedere come questo decide
cosa fare momento dopo momento, la domanda che viene
spontanea al pubblico è “cosa farà ora?...e ora?”.
Rispetto alla teoria di Turner l’improvvisazione in danza si propone
come un fenomeno liminoide, mettendo al modo congiuntivo la
scelta del performer e dunque questo rappresenta all’indicativo il
dramma sociale legato alla scelta.
Considerando che la danza contemporanea ha trovato diverse
tecniche, strategie e metodi per mettere il danzatore in condizione
di sapere cosa deve fare e come lo deve fare passo dopo passo, mi
sembra quindi che essa proponga una soluzione piuttosto chiara,
configurandosi come terza fase dei drammi sociali, cioè quella
compensativa, d’altronde lo stesso Turner definisce questa come la
fase da cui il teatro stesso nasce.
L’improvvisazione come arte di scegliere
Nel gioco di specchi dell’improvvisazione come fenomeno
liminoide possiamo quindi iniziare a intravedere quali sono i nessi
tra questa pratica performativa e la società postmoderna.
67
L’improvvisazione non lascia traccia, non è definitiva e non è
ripetibile. Il performer si definisce nel presente della performance,
compiendo le sue scelte passo dopo passo sulla scena. Si pone in
una situazione di “precarietà creativa” per riprendere le parole di
Certini sopra citate. Sembra che il danzatore si sia volutamente
calato nei panni di attore sociale in scena. Come se avesse
riprodotto una “scenografia postmoderna” della situazione sopra
descritta. In questo senso la definizione di Post-Modern Dance non
poteva essere più calzante. Oltretutto il corpo percettivo, e sensibile
del performer sembra corrispondere perfettamente al nuovo
concetto di corpo del cercatore di sensazioni descritto da Bauman:
Il corpo postmoderno è prima di tutto recettore di sensazioni, assorbe
e assimila le sue esperienze, e la sua attitudine e capacità ad essere
stimolato lo trasforma in uno strumento di piacere. [...] Non è tanto la
performance fisica che conta , quanto la qualità delle sensazioni che il
corpo riceve durante le prestazioni.44
Anche in questo settore della danza vi è una rinuncia del
virtuosismo a favore dell’espressività, tesa a fornire sensazioni al
pubblico e a sentirle il danzatore stesso.
Sono presenti nella logica dell’improvvisazione però delle
differenze, il performer infatti non soffre delle proprie scelte. Ciò è
possibile grazie alla mancanza di un giudizio, poter lavorare senza
giudicarsi o giudicare il lavoro dei propri colleghi permette di
lasciarsi andare e non interrompere il flusso. Inoltre è l’ascolto a
guidare la performance per cui sentirsi in un flusso di scelte
condivise permette di accettare ed essere accettati anche con i
propri errori.
44
Bauman Z., La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999, p 45
68
Trovo interessante il ruolo dei limiti. La Salecl nota che la
mancanza di restrizioni a cui siamo sottoposti al giorno d’oggi
porta a ridefinire personalmente dei limiti, e che in realtà persone
soggette a una minore possibilità di scelta sembrano essere più
soddisfatte degli altri. Il limite nell’improvvisazione ha infatti un
ruolo creativo e vivificante, anche quando l’improvvisazione è
libera il limite è comunque dato dal dialogo con il contesto.
Sembra che l’arte abbia proposto uno spazio protetto in cui potersi
liberare dall’ansia della scelta, in cui le parole chiave sono
accettazione, ascolto e mancanza di giudizio. Sembra inoltre aver
riportato l’attenzione su un nodo cruciale: la scelta non è quasi mai
razionale, è intuitiva e sociale. Di fatto i performers si allenano a
compiere decisioni condivise e a dover sentire cosa fare, più che a
decidere cosa è meglio fare.
Il circolo “virtuoso” dell’improvvisazione
Il mondo del lavoro pare essersi accorto che questo spazio aperto
dall’improvvisazione permette di allenare le proprie capacità di
scelta.
Come Bauman e Salecl hanno entrambi dimostrato, il problema
legato al prendere decisioni è un problema che riguarda la nostra
epoca, di conseguenza siamo tutti coinvolti. Esistono figure
professionali che fanno della scelta il proprio mestiere e che per
questa ragione hanno un grande di carico di responsabilità. In
questi settori del lavoro, da qualche anno a questa parte,
l’improvvisazione è richiesta nel percorso di formazione, è infatti
stata notata la possibilità di sviluppare attraverso di essa le proprie
capacità di problem solving, decision making, team building,
69
leadership e mind mapping. Proprio questa terminologia sembra
avvalorare l’idea della Salecl e di Bauman su un’eccessiva
interiorizzazione delle leggi che regolano il mercato e l’impresa:
all’improvvisazione, in questo campo, sono state tolte le
terminologie usate dagli artisti e tradotte in termini fruibili al
settore manageriale.
Abbiamo dunque visto nella storia dell’improvvisazione come pratica
performativa, nell’ambito della Post-modern Dance, quanto essa sia
profondamente legata, fin dalla sua nascita, ai concetti di libertà e
comunità. Ho anche mostrato la maggiore complessità di tali concetti
al giorno d’oggi e come l’improvvisazione sia tuttora uno specchio di
tale complessità.
Concludo quindi che la ricorrenza del termine “libertà” collegata a
“coraggio”, all’interno dei questionari che ho presentato al pubblico,
abbia a che fare con il quadro descritto della società postmoderna.
Dunque l’improvvisazione come fenomeno liminoide riflette al
pubblico l’immagine di un performer che sceglie e che in questo senso
è libero dal peso e dalla frustrazione legate alla scelta. E’ plausibile
dedurre che il pubblico, toccato da questa tematica probabilmente a
livello solo parzialmente consapevole, si sia riconosciuto e abbia
usato, a ragione, i termini “libertà” e “coraggio”.
A questo punto delle considerazioni conclusive intendo mettere in
risalto come un campo così frammentato di approcci richieda una più
approfondita sperimentazione e studio proprio “nel fare”
improvvisazione in danza, con altri performers là dove la preparazione
tecnica, l’interazione nel gruppo e con il pubblico possa evidenziare le
implicazioni ed i processi cognitivi messi in atto. E’ in questa
prospettiva che mi sono orientata con questo mio lavoro su cui intendo
70
continuare non solo professionalmente ma anche nello studio e
riflessione.
71
72
APPENDICE
Workshop guidato da Margherita Landi e Silvia Bennett
73
74
Performance: Portici di P.zza Repubblica, Firenze
75
Performance: Ponte Vecchio, Firenze
Performance: P.zza S.Ambrogio, Firenze
76
Performance: Via Calzaiuoli, Firenze
77
INFO:
State assistendo ad una performance di
improvvisazione che fa parte di un progetto
dellʼUniversità di Siena legato alla danza.
Stat
impro
dellʼ
Per completare il lavoro avremmo bisogno delle vostre risposte ad
alcune semplici domande su quello a cui state assistendo.
Per comp
alcune sem
Se non
Se non vi andasse di scrivere saremo lieti di raccogliere le vostre
impressioni a voce!
1) Ti è piaciuto
1) Ti è piaciuto ciò che ha visto?
si
no
non so
si
2) Cosa ti è piaciuto?
2) Cosa ti è pi
3) Cosa NON ti è piaciuto?
3) Cosa NON t
4) Che cosa ti ricordi meglio di ciò che ha visto?
(Descrivi brevemente un passaggio, un movimento, unʼimmagine, unʼespressione...)
4) Che cosa ti
(Descrivi bre
5) Abbiamo quasi finito! Come ultimo sforzo descrivi con 3 aggettivi ciò che ha visto
5) Abbiamo qu
Dacci qualche informazione in più su di te:
Dacci qualche i
Età:.........................................................................
Età:..................
Occupazione:..........................................................
Occupazione:..
ADESSO PUOI IMBUCARE NELLA SCATOLA
GRAZIE !
Questionario/volantino presentato al pubblico in cui si chiarisce che si
tratta di improvvisazione.
78
INFO:
State assistendo ad una performance che fa
parte di un progetto dellʼuniversità di Siena
legato alla danza.
Per completare il lavoro avremmo bisogno delle vostre risposte ad
alcune semplici domande su quello a cui state assistendo.
State
parte
Per com
alcune s
Se non vi andasse di scrivere saremo lieti di raccogliere le vostre
impressioni a voce!
1) Ti è piaciuto ciò che ha visto?
si
no
Se no
1) Ti è piaciu
non so
si
2) Cosa ti è piaciuto?
2) Cosa ti è
3) Cosa NON ti è piaciuto?
3) Cosa NON
4) Che cosa ti ricordi meglio di ciò che ha visto?
(Descrivi brevemente un passaggio, un movimento, unʼimmagine, unʼespressione...)
4) Che cosa
(Descrivi b
5) Di che tipo di performance si tratta secondo te:
5) Di che tip
A COREOGRAFIA (la performance è quindi stata composta precedentemente)
A COR
B IMPROVVISAZIONE (la performance è composta sul momento, istantaneamente.)
B IMPR
6) Abbiamo quasi finito! Come ultimo sforzo descrivi con 3 aggettivi ciò che ha visto
6) Abbiamo
Dacci qualche informazione in più su di te:
Dacci qualch
Età:
Età:
Occupazione:
Occupazione
GRAZIE !
Questionario/volantino presentato al pubblico in cui si parla
genericamente di performance, con l’aggiunta di risposta chiusa.
79
80
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