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tesi di Chiara de Stefano - Pier Paolo Pasolini in Europe

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tesi di Chiara de Stefano - Pier Paolo Pasolini in Europe
PIER PAOLO PASOLINI
Petrolio
Tesi di laurea in Filologia moderna
di Chiara Distefano
MARZO 2012
“Mi sono caduti per caso gli occhi sulla parola petrolio in un articoletto credo de ‘L’Unità’, e
solo per aver pensato la parola petrolio come il titolo di un libro mi ha spinto poi a pensare
alla trama di tale libro. In nemmeno un’ora questa ‘traccia’ era pensata e scritta”. 1
Petrolio, romanzo incompiuto al quale Pasolini stava ancora lavorando quando fu ucciso,
apparve postumo in prima edizione nel 1992 a cura di Maria Careri e Graziella Chiarcossi,
con la supervisione di Aurelio Roncaglia, autore di una Nota filologica imponente
essenziale per la lettura del testo, il quale si presenta come uno scartafaccio di fogli
manocritti e dattiloscritti solo parzialmente numerati, con cassature, aggiunte e correzioni
spesso in contrasto tra di loro. Numerose segnature, cerchiature e segni manoscritti ci
mettono di fronte a una condizione testuale profondamente magmatica e frammentaria.
1
Appunto di Pasolini posto in calce ad un foglio dello scartafaccio del romanzo risalente all’estate del 1972.
1
Sono pervenute a noi in tutto 522 pagine di cui 492 dattiloscritte. In realtà la stesura,
secondo l’autore stesso era arrivata a 600 pagine, così come ci ricorda Roncaglia nella
sua Nota. Il critico sottolinea anche la valida prova filologica “interna” in merito al capitolo
scomparso Lampi sull’Eni, che si trova nell’Appunto 22a :
“ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato “Lampi sull’Eni”, e ad esso
rimando chi volesse rinfrescarsi la memoria.”
L’autografo è conservato presso l’Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del
Gabinetto Vieusseux di Firenze, assieme ad una copia V non autografa che consta, oltre
dei vari scritti degli anni ’70, di tutto il materiale giornalistico utilizzato dall’autore nella
stesura del romanzo. E ad arricchire ulteriormente le fonti di Pasolini contribuiscono i
discorsi tenuti dallo stesso presidente Cefis e la risorsa per eccellenza: la fotocopia del
libro di Giorgio Steimetz Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente (Armi,
Milano 1972). All’interno della stessa cartella figura l’importantissima lettera inedita dello
psicanalista Elvio Fachinelli del settembre 1974, la quale testimonia che lo stesso medico
fornì a Pasolini sia l’originale del discorsi di Cefis tenuto a Modena che la fotocopia del
libro di Steimetz.
Di Petrolio, monumentale Satyricon dei nostri tempi, esistono quattro o cinque manoscritti
a tratti discordanti, per cui la ricostruzione fa fede al confronto tra di essi. Un ruolo
chiarificatore hanno le illustrazioni, opere grafiche di stimato livello probabilmente opera
dell’autore stesso. Contribuiscono a colmare i vuoti del romanzo gli innumerevoli
documenti storici attinenti con la cronaca.
I frammenti del romanzo, denominati da Pasolini stesso Appunti, sono in numerazione
progressiva e intitolati (ma non tutti). Le numerazioni giungono fino al n. 133, ma
considerando i numeri bis, ter, ecc., i numerosi contrassegni alfabetici (a, b, c, ecc.), i fogli
tra un Appunto e l’altro e la lettera a Moravia, giungiamo a una stima finale di circa 200
unità. Chiaro il nesso tra i frammenti in successione, più ostico quello tra i vari gruppi di
Appunti. Con ciò rifiutiamo facilmente la nozione di ‘associazione mentale’ di stampo
psicanalitico: siamo in presenza di una schizofrenia fluviale che non risponde a nessuna
logica. A tal proposito è lo stesso Pasolini a chiarire il concetto:
“il carattere frammentario dell’insieme del libro fa sì che certi pezzi narrativi siano in sé
perfetti, ma non si possa capire, per esempio, se si tratta di fatti reali, di sogni di
congetture fatte da qualche personaggio.”2
Il brogliaccio incompiuto di Pasolini è ambientato nell’Italia del boom economico,
quell’Italia lacerata da giochi di potere invisibili, da stragi sotterrate col silenzio e da un
trasformismo politico che mette sullo stesso piano fascismo e antifascismo.
Nell’ambito delle ente petrolifero pubblico italiano (Eni) nasce la doppia storia di Carlo
Valletti, ingegnere petrolchimico e protagonista scisso del romanzo.
Carlo primo, chiamato Carlo di Polis, viaggia in Oriente alla ricerca del petrolio ricalcando il
mitico viaggio degli Argonauti. E’ un cattolico moderato dell’area di sinistra, colto
imprenditore d’avanguardia tutto immerso nelle trame torbide che governano l’elitario
mondo petrolifero. Correo dell’assassinio di Mattei e della scalata di Cefis, Carlo è
l’emblema dell’ambigua fase storica della Resistenza, quella legata al connubio fra i
“contrari”, ovvero ai binomi indissolubili delle lobby: laici/cattolici, fascisti/antifascisti,
pubblico/privato, politica/crimine.
Carlo secondo, chiamato Carlo di Tetis si muove invece tra Roma, Torino e la Calabria
ossessionato da perversioni erotiche e incestuose che culmineranno con la sua
2
Pier Paolo Pasolini, Petrolio, Cit., pag. 4.
2
trasformazione in una donna. Ma in realtà questa è la sorte di Carlo primo, vittima come
Carlo secondo di un processo di lacerazione dell’identità e di dissociazione ossessiva che
rende questo scartafaccio un modello esemplare di antiromanzo.
Ultimo protagonista del romanzo è Pasolini stesso, che muore nel mare di Calabria
rinascendo nell’acqua fetale, primigenia e fortemente esoterica.
Stragi, legami e complotti di Stato costituiscono lo sfondo di un antiromanzo di formazione,
che si crea e si distrugge allo stesso tempo.
La struttura segreta delle società “brulicanti” da forma al testo conferendogli le sue stesse
caratteristiche e generando un romanzo parallelo di stampo economico-sociale accanto
quello romanzesco-narrativo. I modelli sociali di Pasolini sembrano dunque Lukàcs e
Goldmann, rivisitati in chiave postmoderna dentro un testo “proliferante” scisso tra storia e
mito, tra arcaico e contemporaneo.
La “borghesizzazione” dei Ragazzi di vita
“Ho iniziato un libro che mi impegnerà per anni, forse per il resto della mia vita. Non voglio
parlarne, però. Basti sapere che è una specie di “summa” di tutte le mie esperienze, di
tutte le mie memorie.”3
In questo scartafaccio Pasolini gettò tua la sua furia stilistica e le sue ambizioni,
nell’intento di dipingere in toto il dramma sociale della sua epoca.
Sdegno, indignazione e pietà per un affresco spietato dell’ultimo ventennio italiano,
scenario di un popolo mercificato e completamente assoggettato alle regole di un
neocapitalismo perverso e brutale.
Il Petrolio diventava così “il grande protagonista della divisione internazionale del lavoro,
del mondo del capitale che è quello che determina poi questa crisi, le nostre sofferenze, le
nostre immaturità, le nostre debolezze, e insieme le condizioni di sudditanza della nostra
borghesia, del nostro presuntuoso capitalismo.” 4
Durante gli anni ’70 Enzo Biagi intervistava un Pasolini pesantemente combattuto,
fiducioso nel progresso ma non nello sviluppo, trovando proprio in quest’ultimo concetto la
profonda motivazione della sua disillusione, politica e letteraria al tempo stesso. Le parole
dello scrittore corsaro, nell’ambito di quell’intervista rivelarono tutto il ribrezzo di un
militante ormai spentosi, disarmato di fronte l’omologazione fisica e spirituale che aveva
livellato tutti i ceti, ‘quarto popolo’ incluso.
Nel corso degli anni ’50 Pasolini aveva scoperto il mondo della Roma proletaria, scovando
in quell’universo il fascino ingenuo del popolo di borgata, completamente avulso
dall’omologazione neocapitalistica.
La lingua dei suoi “Ragazzi di vita” appariva primigenia, verace e rude. Una lingua incolta,
cruda e proprio per questo “pura”, diretta, aliena da qualsiasi artificio. Sempre a Biagi
l’autore confidava la sua fede nel Neorealismo, perché “tutte le opere neorealistiche si
fondano sull’idea che il futuro sarà migliore..” 5.
Ma già nella seconda metà del 1960 si registra un improvviso stravolgimento della civiltà.
L’omologazione capitalistica colpisce tutti i ceti, anche le tanto decantate umili borgate.
Sono gli anni della “borghesizzazione” del sottoproletariato, dell’inevitabile accettazione
3
Intervista rilasciata da Pasolini a Luisella Re su “Stampa-Sera”, 1 gennaio 1975.
4
Dall’ultimo colloquio tenuto con l’amico e scrittore Paolo Volponi.
5
Dall’intervista di Enzo Biagi, ne “I grandi autori autori italiani del ‘900”, Rai Educational, Einaudi, Tascabili.
3
inconscia della gretta cultura capitalistica. Il Neorealismo artistico e letterario diventa così
un retaggio del passato e la storia stessa tende a massificarsi assieme alla cultura.
La storia si autoconsuma, prosegue imperterrita verso l’autoannullamento. E’questa forza
che mette gli individui su di uno stesso piano, che nega l’individualismo, che rifiuta la
specificità del singolo. Pasolini in questo senso si fa paladino di un neo-soggettivismo
contrapposto fermamente al processo di nullificazione dell’uomo.
Questa fase storica – e di cambiamento sociale – inaugura dunque una poetica nuova per
l’autore, fungendo da specchio di un popolo mediocre e governato dalla peggiore politica.
Dal 1973 Pasolini parteciperà attivamente allo smascheramento di questa
contemporaneità scrivendo articoli incandescenti sul “Corriere della Sera”, alimentando
continuamente questo fuoco con autentiche invettive e denunce feroci. E questo fervore
incontrollabile gli costerà la vita quella notte all’idroscalo di Ostia tra l’1 e il 2 novembre
1975.
Petrolio, romanzo ‘edificante’, nel suo messaggio non è più diretto al proletariato come
classe viva. La borgata, amata visceralmente e irrimediabilmente perduta, subisce un
processo di “mitizzazione” lasciando la figura del destinatario alla spietata fiera borghese.
La creazione della ‘forma’ letteraria
Petrolio, scartafaccio illeggibile e torbido, fa della sua incompiutezza una carta vincente. E
non si tratta affatto dell’incompiutezza di stampo cartesiano al quale si rifanno i romanzi di
Kafka, ma al relativismo di una ‘forma’ che nasce, cresce e muore con la scrittura stessa.
Tratteremo un romanzo il cui progetto è svolto in un disegno narrativo non tradizionale,
che in parte risulta sviluppato e coerente e in parte totalmente mozzato, con passi
completamente estranei al testo stesso.
Petrolio, nella sua sagoma talmente irregolare e polimorfa da risultare impercettibile, offre
infinite chiavi di lettura, troppe forse. E la moltitudine delle interpretazioni porta
irrimediabilmente il lettore all’immersione nel caos, non essendo egli abituato (per cultura
e tradizione) a una letteratura che sovverte qualsiasi principio narrativo. Ne consegue il
suo allontanamento, una sorta di rifiuto inconscio verso questa schizofrenia ipertestuale.
L’antiromanzo, nel suo monumentale progetto, avrebbe voluto essere una summa
dell’opera pasoliniana, e per questo in esso riscontriamo tutto il background
dell’esperienza dello scrittore, mista di giornalismo, poesia, narrativa, saggistica, teatro e
cinema. Ciò, purtroppo, nella sua immensità progettuale, ha generato una perdita di
equilibrio e di orientamento anche da parte della critica.
L’analisi stilistico-letteraria è pressoché impossibile, ma ho deciso (umilmente e soprattutto
priva di competenze) di cimentarmi in essa con l’unico obiettivo di facilitare una lettura
talmente complessa da risultare a tratti insopportabile.
4
Parte prima
La Prima Rosa dell’Estate e l’Introduzione al tema metafisico
Ai bianchi Antefatti, preambolo perfetto di un antiromanzo che non comincia, segue
l’Appunto 2, grigio nella descrizione della palazzina ai Parioli nella quale vive in affitto
Carlo Valletti.
Siamo nel maggio 1960 e la decadenza architettonica del quartiere romano è il riflesso
narrativo della condizione esistenziale di un trentenne nevrotico oppresso dalla solitudine
e dall’angoscia, irrimediabilmente alienato nei continui fallimenti della sua vita di tecnico.
E’ mattino e Carlo si trova nel terrazzino di casa, scialbo e anonimo nel suo degrado come
la visuale di una Roma che da lì sembra Beirut, o Atene forse:
“Correvano nel cielo nuvole calde, covando in terra, l’umido della pioggia che poco prima
vi avevano tristemente scaricato. Pareva che la vita nella città si fosse interrotta. Carlo,
come sempre, era oppresso dall’angoscia; il non aver niente da fare se non l’occuparsi
della casa – con la certezza che in queste cose hanno gli uomini sui trent’anni – lo
obbligava a stare solo con se stesso, come un’ombra; e quindi a recitare quella scena di
solitudine di fronte al panorama di Roma (che da lì sembrava una città come Atene o
Beirut).”
E’ qui che, ad un tratto, vede il proprio corpo cadere ritrovandolo ai suoi piedi supino e
privo di sensi. Lucido e accorto è lo scrittore corsaro nella descrizione di quel corpo
accasciato, obbediente e passivo nella sua paralisi:
“(…) ecco il suo viso pallido, quasi bianco o giallastro di adenoideo, la fronte di persona
intelligente e ostinata sotto i capelli lisci e incolori, che, nella sgradevole circostanza, si
erano un po’ scomposti in modo ridicolo, ecco gli occhi tondi e cerchiati, che, non protetti
dagli occhiali (…) parevano denudati e troppo espressivi; la pelle tirata del viso lungo e
liscio, come quello di un bambino, intorno al naso leggermente in su; la bocca, con le
labbra arricciate, a culo di gallina, semiaperta a causa dei denti fortemente sporgenti,
lunghi e gialli, o forse anche a causa del naso, che era, evidentemente, uno di quei nasi
eternamente tappati che costringono a tenere, appunto, la bocca semiaperta per
respirare; ed ecco il corpo, lungo e magro, di persona debole ma curata, coperto da un
vestito grigio non nuovissimo, e da una camicia bianca con la cravatta (di un colore così
discreto da non essere notato).”
Quel corpo disteso per terra non era altro che la conseguenza naturale dell’anonima vita di
un piccolo borghese, l’atto finale di una vita moderata e conformista.
Carlo vede arrivare due entità che si fermano in prossimità di quell’essere spettrale
supino: uno è Polis, angelico e pacato; l’altro è Tetis, miserabile e infernale. I due esseri
cominciano a parlare una lingua meravigliosa, melodica, chiara, squisitamente onirica.
Tuttavia Carlo è consapevole della natura effimera e visionaria di quel linguaggio mistico e
assiste inebriato alla disputa su chi dei due sia il detentore effettivo di quel corpo, che per
Polis è di un buono, di un obbediente che ha amato il padre e la madre, mentre per Tetis è
un involucro, la forma del “Peso” che si porta dentro – quello dell’accettazione del
compromesso per l’ascesa politico-sociale – e che lo ha consegnato al demonio.Ogni
elogio da parte di Polis di quel corpo di uomo borghese è vanificato dall’ostinata
convinzione di Tetis: il Peso che porta dentro quel corpo è suo.
Polis non resiste alla determinazione demoniaca di Tetis, è consapevole della sua
inferiorità apollinea:
5
“Polis sta per un po’ in silenzio, guardando a terra. Pensa certo che potrebbe dire altre
mille frasi come quelle che ha detto; ma poiché sono tutte analoghe, come i grani di un
rosario, nessuna di esse potrebbe ottenere effetti diversi da quelle già profferite.”
Polis è un angelo, dunque riconoscendo l’impossibilità di dialogo viene a patti con
l’Inconciliabile, quasi incantato da quel fascino demoniaco:
«Tu prenditi ciò che è tuo, e io mi prendo ciò che è mio (…) tu ti prendi il tuo Corpo. E io
mi prendo l’altro Corpo che c’è dentro.»
Polis accetta, sorridente. Pacato e composto, osserva Tetis squartare il ventre di Carlo ed
estrarne un feto, che cresce in maniera smisurata fino ad assumere i tratti di Carlo, che a
sua volta lo guarda e lo riconosce. Il corpo sventrato a terra comincia a rianimarsi: Carlo si
rialza e si avvicina a Polis, l’entità dal quale dipende.
Carlo di Tetis e Carlo di Polis sono identici, si avvicinano, si fissano, sembra che si bacino.
Poi si allontanano, chiacchierando e tenendosi a braccetto, «come due amici che
condividono la vita».
In queste prime pagine del romanzo si delinea la scissione-frantumazione del personaggio
Carlo, dovuta esclusivamente alla stipula di un patto col diavolo, identificato
irrimediabilmente nella figura dello Stato.
Prefazione posticipata
Nell’Appunto 3a l’autore chiarisce il ruolo che la luce, nella sua fissità, ha all’interno del
romanzo. Non è luce mitica svincolata dalle stagioni, è luce estiva, normale, quotidiana.
Tornerà più volte nel romanzo, soprattutto negli Appunti in cui Carlo secondo cerca la
realizzazione sessuale attraverso le esperienze più turpi, trovandola poi, solo nella
trasformazione del suo corpo in quello di una donna.
E’ in questa esplosione d’azzurro che l’Angelo e il Diavolo passeggiano, dirigendosi verso
una piazzetta anonima e animata da diversi passanti nonostante l’afa del meriggio.
Nell’Appunto successivo l’autore cita Leopardi e il suo interesse verso le visite degli Dei
sulla Terra, e dei Demoni in particolare nelle ore pomeridiane. Si tratta di un espediente
narrativo – se così possiamo definirlo – ricorrente soprattutto nella prima parte del
romanzo e dall’evidente funzione dispersiva per il lettore.
E’ un meriggio afoso di fine anni ’50 e i due angeli delle tenebre si recano in Piazza xxx,
colma di studenti liceali e universitari, genuini e fortunatamente ancora lontani dalle falsità
piccolo borghesi dell’era sessantottina.
Discostandosi improvvisamente da questo tema, nella Prefazione posticipata (III) Pasolini
annuncia l’istituzione di uno schema di viaggio, allegorico e demoniaco, quale nodo
essenziale della sua (non) intenzione narrativa:
“Poiché non ho intenzione di scrivere un romanzo storico, ma soltanto di fare una forma,
sono inevitabilmente costretto a istituire le regole di tale forma. E non posso che istituirle
in ‘corpore vili’, cioè nella forma stessa.”
Nel corso del romanzo parecchi interventi diretti di Pasolini aiutano il lettore a
comprenderne la poetica. Tuttavia l’illogicità, l’irrazionalismo, la dissociazione ossessiva
dell’io esasperano la scrittura stessa, che risulta ostica sia nei contenuti che
nell’elaborazione della forma stessa.
6
Proprio per questo motivo non cercherò una sistematicità accademica nell’analisi – anche
perché impossibile – attenendomi esclusivamente a seguire passo per passo il percorso
di uno scartafaccio svincolato da qualsiasi logica oltre che dal più elementare principio di
causa-effetto.
Dunque Tetis si dirige in autobus verso la parte opposta di Roma, va a cercare qualcuno.
Risponde alla porta una donna senza età che, dimessa e mite, comunica al diavolo che la
persona da lui cercata non è in casa, ma che si trova a Siracusa. Ecco allora che Tetis,
osservando lo squallore di certi paesaggi romani, sale su un altro autobus dirigendosi
verso la stazione. Nella descrizione del viaggio in treno verso la Sicilia, Pasolini non
rinuncia a quel crudo realismo tipico della poetica dei Ragazzi di vita:
“L’aria era greve di un fetore inafferrabile: merda, gas, cloache, ma anche terra concimata
di orti, limoni, zolfo, e qualcosa di perduto, soffocante, xxx che non era altro che la polvere
della povertà.”
E’ l’alba e Tetis arriva a Siracusa. Vede case gialle, qualche palazzo signorile e chiese
barocche “che testimoniavano una lunga storia del dominio assoluto del potere e di
miseria”. Ragazzi seminudi e sensuali animano già le strade, e quella luce mattutina delle
cinque – quasi fosse una protagonista del romanzo - è talmente accecante che sembra
già meriggio.
Tetis si reca verso la pensione senza però trovare la donna, che lo costringerà ad
aspettare fino a sera. Improvvisamente arriva con un compagno, nella sua bellezza senza
tempo e con lo sguardo felino di sempre. E’ passionale ma umana, tempestosa ma docile:
“Gli occhi erano azzurri, come quelli di certi gatti, e obliqui, ora pacifici – fin troppo – ora
fiammeggianti ma instabilmente, di un’aggressività nevrotica e intellettuale.”
Tetis ha un importante segreto da confidarle, ma la donna, che sappiamo essere la
scrittrice Elsa Morante per via di alcuni tratti caratteristici, evita qualsiasi tipo di
confessione da parte di quell’essere demoniaco. Tornano a Roma con lo stesso treno, ma
il segreto rimane ibernato:
“Era molto probabile che quella persona che Tetis aveva scelto come sua confidente –
cioè come depositaria di un segreto che non poteva che essere di enorme valore
pubblico, una volta rivelato – avrebbe avuto il coraggio, anzi la estremistica temerarietà, di
farne buon uso: ma essa evidentemente non lo voleva. Passarono quindici anni, e Tetis le
stette sempre vicino. Essa però, per partito preso, o, come si usa dire nel nostro orribile
linguaggio, per scelta ideologica, aveva deciso di non ascoltarlo.”
Lo scrittore corsaro sembra condannare la Morante alla mancata presa di posizione
intellettuale nell’era del ‘trasformismo’ democristiano. Sono gli anni delle stragi di Stato e
troppi intellettuali rimangono in silenzio anche di fronte l’evidenza:
“E poiché quella persona inutilmente cercata e pregata da Tetis era uno scrittore, se ne
deduce facilmente come nei libri di quello scrittore, per quanto pieni e completi in se stessi
fossero, mancava in realtà ‘qualcosa’: e ciò li destinava, di conseguenza, a una fatale
ambiguità.”
Questo tema del silenzio degli scrittori contemporanei di Pasolini ricorre soprattutto ne La
Divina Mimesis, altra sorta di scartafaccio costruito sul nesso Dante-modernità, quasi un
remake della Commedia trasposta all’era in cui vive lo scrittore.
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Il nome del padre e la “Follia prefatoria”
L’Appunto 4 spiega il perché del nome del protagonista. Carlo è il nome del padre di Pier
Paolo, e viene scelto seguendo un principio irrazionale dato che i due non condividono
nulla. In realtà un nesso logico c’è: Carlo Valletti, da cattolico moderato di sinistra si
convertirà in un ‘nuovo fascista’ non appena avrà completato la sua ascesa al potere,
anche se a sua insaputa e inconsciamente.
L’immagine che Pasolini riporta del padre è terrificante: un ufficiale dell’esercito che aderì
al fascismo senza intenderne i principi, ricco materialmente ma povero di valori, bello ma
tarchiato, lontano dalla riflessione politica e viziato da una famiglia ricca e decaduta. Ogni
suo atteggiamento fu talmente egoistico nei confronti del nucleo familiare che l’autore si
pronuncia così, senza metafore né mezzi termini:
“Si è fatto una famiglia e l’ha terrorizzata. Poi è andato in Africa a combattere la sua terza
guerra; è rimasto prigioniero alcuni anni, ed è riapparso a Casarsa, il paese di mia madre,
il ‘paese inferiore’, che egli aveva sempre disprezzato, rifacendosi con questo dell’amore
non ricambiato verso mia madre – ed ha cominciato ad ubriacarsi, come fanno gli uomini.
Si vede che non aveva mai pensato al suo destino come non aveva pensato alla politica.”
Carlo protagonista era invece un ingegnere dell’età di Pasolini, diligente e moderato, ma
poco intellettuale per farsi carico delle profonde contraddizioni sociali e politiche del
tempo. Egli, se fosse riuscito a filtrarle attraverso la coscienza, avrebbe trovato
quell’ipocrita unità individuale nutrita di falsi miti, ma data questa sua incapacità di sintesi,
vive una vita da schizoide dissociato.
Carlo padre non avrebbe mai accettato una dissociazione, sarebbe stato persino capace
di uccidere per preservare la sua unità. Viceversa, Carlo protagonista non avrebbe mai
finto di essere uno e uno solo.
Carlo, nasce nel 1932 a Ravenna o forse a Torino. Roncaglia nella sua Nota filologica
scrive di due versioni contrastanti (così come per le sorelle e altri particolari) negli Appunti,
io personalmente credo che questa fosse una mossa strategica dello scrittore per la
costruzione-distruzione della sua opera.
Carlo è destinato a diventare un cattolico di sinistra, forma religiosa dettata dall’abitudine e
connessa all’educazione familiare e sociale. In realtà, il ‘cattolico di sinistra’ non è altro che
il prototipo perfetto del democristiano, figura politica apparentemente moderata e
diabolicamente corrotta al contempo.
Dall’infanzia al ’45 vive a Ravenna (la città del padre dell’autore), una città che non cambia
dai primi del ‘900 al secondo dopoguerra nonostante il fascismo. Gli uomini che la abitano
sono gli stessi, ugualmente genuini dalla rivoluzione contadina alla prima
industrializzazione (l’autore insiste molto sul modello neocapitalistico quale causa della
‘borghesizzazione’ della classe contadina e proletaria).
Pasolini stesso, quasi fosse un terzo protagonista del romanzo, spiega lucidamente quali
siano le origini della trasparenza intellettuale di Carlo:
“Si potrebbe dedurre, quindi, che la sua onestà morale, la sua innocente volontà di non
opporsi alla propria dissociazione, reale, necessaria, storica, potrebbe essere anche una
delle tante forme positive che può prendere quel contenuto negativo che è l’ipocrisia: si, la
vecchia ipocrisia cattolica, controriformistica. Voglio dire che la dissociazione poteva
derivare anche, classicamente (e classicisticamente) da un meccanismo di
conservazione, com’è ben noto: e venire poi a coincidere con quella dissociazione ‘reale,
necessaria, storica’ che dicevo. Alla dissociazione prima presiederebbe l’ipocrisia
cattolica, ed avverrebbe fuori dal dominio della coscienza. Alla dissociazione seconda
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presiederebbe l’onestà del vecchio mondo (per coincidenza cattolico) e avverrebbe non
solo nel dominio della coscienza, ma per la stessa volontà della coscienza.”
L’Appunto 5 è dedicato a Carlo primo, nato a Torino nel marzo del 1932 e diventato
ingegnere a Bologna nel ’56, come Carlo secondo. Neolaureato, conferma
immediatamente la sua indole di buono, di cattolico moderato, di pragmatico. Lavora per
l’Eni e cresce nella Bologna comunista di fine anni ‘50, dove conosce la sociologia
americana, la psicanalisi e le nuove correnti di cattolicesimo sociale. Qui trova terreno
fertile per le sue idee e si converte in un cattolico di sinistra, ma la sua ascesa all’interno
dell’ente petrolifero nazionale gli mette davanti anche l’altra faccia della medaglia: quella
del gioco del potere.
Ogni volta che Carlo si trova di fronte la propria coscienza su questioni morali, entra in
scena la resistenza alla dissociazione, espressa soprattutto attraverso la sfera sessuale.
Nel corso della lettura il Carlo dissociato e allucinato dal sesso verrà chiamato Carlo II,
Karl, Tetis o semplicemente Carlo. Il lettore si accorge della dissociazione inconsciamente;
tutto ciò che farà Carlo II all’interno del romanzo, trascende letteralmente i limiti della
sopportazione borghese, che alla fine è la nostra stessa sopportazione.
Carlo primo invece viaggia per lavoro, vede il mondo e conosce le realtà degli emirati
arabi. Ciò, intellettualmente, lo allontana da un modello italiano profondamente
contraddittorio e ormai smascherato, allontanamento che provoca la dissociazione, e che
dunque è accettazione al contempo:
“Nel momento stesso in cui Carlo si staccava dal’Italia, riconoscendone le caratteristiche
come antiche e poetiche, egli si specializzava in quella particolare scienza italianistica che
è la partecipazione al potere. Egli era perfettamente libero di desiderare il potere: sia pure
un potere non detto, non nominato, definito solo empiricamente; sia pure senza vanità, e
quasi quasi, verrebbe voglia di dire, senza ambizione e con ascetismo.”
Carlo primo è superiore a Carlo secondo per questioni sociali, ma non riesce a gestirne
l’inferiorità:
“Il secondo Carlo, come tutti gli umili, privi di autorità sociale, - un po’ come i cani – è
buono. Inferiorità sociale e bontà coincidono. Tuttavia è in Karl che si concentrano i
caratteri cattivi di Carlo; mentre è in Carlo che si concentrano i caratteri buoni di Karl.”
Carlo è il padrone di Karl, ma come ogni dialettica servo-padrone, egli non è libero. La
libertà appartiene invece a Carlo secondo, ed è anomala e non classificabile in quanto
vive al di fuori del conformismo della ragione. Proprio in virtù di questa condizione,ogni
azione volgare eseguita dal ‘servo’ è lecita, poiché svincolata dal sociale e quindi dal
perbenismo borghese:
“Ciò che lo protegge è il non possedere niente e il non appartenere a niente.”
La determinazione apportata dalla sfera professionale non viene recepita da Karl. La
cosiddetta ‘lotta di classe’ che tormenta l’anima di Carlo procurandogli conflitti e dilemmi
esistenziali non ha nessun riscontro su Carlo secondo, entità avulsa dal dramma del suo
padrone; padrone a sua volta profondamente dipendente dal suo servo in quanto unica
valvola di vita.
Nell’Appunto 6b il lettore viene avvisato dell’irragionevolezza che impera all’interno del
testo, un testo che non rimanda a una realtà definita, ma solo e solo a se stesso. Dunque
la logica interna del romanzo si crea da sé e non risponde a nessuna regola narrativa,
determinandosi col “puro e semplice accumularsi della materia”.
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Un testo illogico presuppone dunque anche l’inconsistenza dei personaggi, immaginari
come immaginario è l’ambito del potere, sconosciuto ai cittadini come allo scrittore stesso:
“Per la verità la mia totale inesperienza di ogni ambiente che si collochi nello spazio del
potere, impedisce addirittura a me stesso di immaginare la strada, l’edificio,
l’appartamento dove la riunione – così importante per il destino del mio protagonista – si
svolga. Mi è difficile immaginare anche i tipi fisici dei personaggi che si radunano,
discutono il caso di Carlo ecc.”
I personaggi ombrosi si riuniscono dunque in un appartamento immaginario decidendo
all’unanimità di pedinare Carlo, o meglio la parte demoniaco-sessuale. Si tratta di un
espediente narrativo per ‘giustificare’ il cambiamento drastico di registro linguistico al
quale assistiremo.
Viene dunque incaricato un ‘picciotto’, un ragazzo di chiare origini meridionali che l’autore
chiamerà Pasquale:
“(…) un giovane sui trent’anni con la nuca oblunga, i capelli fitti corti e neri, il viso molto
bruno, quasi arabo, un profilo numismatico, sensuale, quasi da adolescente (…)”
L’Appunto 6 ter vede Carlo prendere il treno che lo porterà a Torino, la città natale nella
quale manifesta l’altro uomo che porta dentro e che trascende i limiti della morale
(borghese e non) ‘elevando’ il linguaggio dell’autore all’acme della violenza narrativa.
Tra paesaggi catastrofici e selvaggi, egli sembra essere uno di quei pochi ‘eletti’ coscienti
del cambiamento drastico che colpirà l’Italia da lì a pochi anni, quando l’onda del
neocapitalismo sovvertirà il sistema sfigurando paesi, città e uomini:
“In quel Maggio della fine degli Anni Cinquanta, l’Italia è ancora intatta, e soltanto gli spiriti
critici notano, con un giudizio negativo dal quale sentivano gratificato il proprio narcisismo,
i primi indizi della nuova epoca che sta per deturpare per l’eternità le vecchie città e le
vecchie campagne. La delicatezza di Carlo lo classificava per naturale diritto tra questi
eletti (…)”
Monitorare Carlo è semplicissimo: egli non si cura minimamente di nascondere o rivelare
la sua vera identità (se di identità possiamo parlare).
Nella sua dissociazione non riscontra alcun conflitto e niente è immorale per lui. Si
concede ai più lussuriosi piaceri della carne e non sente neanche la repressione del
Potere (che è lo Stato), che accetta e al quale non si ribella. Rimedia al suo disordine
interiore e naturale optando per la via dell’ordine, quell’ordine borghese di default che è
una consuetudine del mondo ‘civilizzato’.
Siamo al di là del conflitto interiore primo-novecentesco: la scissione (diventata
frantumazione) non genera più alcuna sofferenza, si è trasformata in accettazione.
La compostezza d’animo di Carlo non dà filo da torcere a Pasquale, perché il nostro
protagonista non sospetta di essere spiato, e anche se ne fosse a conoscenza, ciò non
costituirebbe un problema:
“Pasquale Bucciarelli, al suo primo incarico importante, non si trova dunque di fronte a
difficoltà particolari: è per lui quasi un giochetto. Gli è andata bene. Potrà far bella figura
con i suoi capi, porre xxx xxx per la sua carriera, pregustando già, nel suo cuore
impenetrabile, le gioie che questa gli avrebbe procurato, soldi, macchina, donne, e tutti
quei beni che uomini come Carlo si godono con tanta naturalezza e incoscienza.”
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Dell’Appunto 6 quinquies, intitolato “Due parole su questo Pasquale”, ci rimane solo il
titolo, mentre nel successivo assistiamo al viaggio di ritorno del ‘picciotto’ da Torino verso
Roma. Questo servo dello Stato stragista ha dettagliatamente riportato in un verbale tutti i
movimenti di Carlo a Torino:
“Dentro quella valigia, c’era il tesoro di Pasquale, cioè il suo verbale. Durante tutto quel
periodo, infatti, egli aveva appuntato in un linguaggio preciso, burocratico,
contemporaneamente prolisso e essenziale, tutto ciò che aveva ‘scoperto’ nella vita di
Carlo. Era quel verbale che egli avrebbe offerto, come un vero e proprio capolavoro di
solerzia e obbedienza, ai suoi capi.”
Addormentatosi durante il viaggio, Pasquale si sveglia a Roma alle prime luci dell’alba. Ma
la sua valigia non c’è più, e sul tema del ‘verbale rubato’, l’autore si pronuncia
chiaramente:
“Riferire ciò che fece Carlo nel suo soggiorno a Torino, desumendolo dal ‘verbale’ di
Pasquale avrebbe fatalmente fatto pendere l’equilibrio del racconto dalla parte della
‘leggibilità’. Invece il mio dovere di scrittore è quello di fondare ex novo la mia scrittura: e
ciò non per partito preso, anzi, per una vera e propria coazione a cui non posso in alcun
modo oppormi. Anche se io non l’avessi deciso e voluto, questo scritto doveva per forza
essere – anche se magari lessicamente e formalmente – un ‘nuovo ludo’: tutto in esso è
greve allegoria, quasi medioevale (appunto illeggibile). Non posso venir meno a questo
assunto. E il lettore mi perdoni se lo annoio con queste cose: ma io vivo la genesi del mio
libro.”
L’intento ‘non-narrativo’ di Pasolini è evidente: il romanzo cresce con l’idea, e quest’ultima
non esiste al di fuori della scrittura stessa.
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Parte seconda
Carlo a Torino: l’esasperazione del sesso
Con l’Appunto 7 Pasolini comincia a mettere alla prova il lettore. Il livello di crudezza e la
libertà così radicale nella rappresentazione narrativa della perversione sessuale rendono
queste tra le pagine più turpi e sovversive della nostra letteratura.
L’impatto è forte, il realismo è inquietante, il registro è estremo. Niente potrebbe
scomporre maggiormente il lettore, soprattutto per l’imprevedibilità stilistica della scrittura.
L’Appunto 19, chiamato Consuntivo, è una summa dell’esperienza di Carlo a Torino
secondo gli occhi rozzi di Pasquale:
“Tutto questo è stato da me riferito, con molta difficoltà, ‘come visto’ da Pasquale, e cioè
attraverso il suo verbale. Ora Pasquale aveva finito il suo compito. E noi possiamo
liberarci di lui e della sua restrizione linguistica. Perché, sia subito chiaro, Carlo avrebbe
continuato per tutti i seguenti anni e decenni a comportarsi come si era comportato in quel
ritorno alla sua città natale: e ancora peggio.”
Carlo ha rapporti sessuali completi con tutte le donne di Villa Valletti: la madre, le sorelle,
la nonna, l’amica della nonna, con la serva e la figlia quattordicenne, con ventiquattro
minorenni, con una dozzina di donne cinquantenni d’alto borgo. Fanatico della
masturbazione, è ossessionato dalle esibizioni in pubblico e in privato.
L’Appunto 7 distoglie per un attimo l’attenzione del lettorei con i versi del Totò Merumeni di
Gozzano nell’incipit (ripresi anche nell’Appunto successivo), autore citato spesso in
Petrolio (risale a quegli anni la recensione l’edizione delle sue poesie curata da
Sanguineti). Nello stesso incipit dell’Appunto in questione troviamo anche alcuni versi della
Signorina Felicita, supporto alla descrizione della villa nel Canavese appartenente alla
famiglia Valletti, che apparentemente aulica nel ricordo, viene bruscamente interrotta dal
drastico cambiamento di registro linguistico, d’ora in poi violento e carnale come mai nella
storia della nostra letteratura.
Emma, la madre di Carlo, viene dipinta in tutta la sua sensualità di donna cinquantenne e
ancora piacente; mentre questa “vacca” dai fianchi enormi si prepara per recarsi a una
festa, il nostro viscido protagonista trentacinquenne la sorprende da dietro, costringendola
al rapporto incestuoso:
“Emma si concentra sul trucco, e si passa della cipria sul viso: Carlo si china sul suo collo
e le dà un altro bacio; non solo, ma le lecca la schiena. Emma dice: «Ma cosa fai?», come
una qualsiasi ragazza o puttana. Carlo le risponde (è il colmo): «Sta zitta, mamma». Lei
sta zitta e ricomincia con la sua cipria. Naturalmente non sta succedendo niente. Gli occhi,
però, non li comanda lei, ed essi si abbassano di nuovo sullo specchio e vedono, senza
possibilità di equivoci: il pene di Carlo, dritto fuori dai calzoni, teso, duro, puntato verso di
lei. Emma allora si spaventa, e fa per alzarsi dallo sgabello su cui sta seduta e discinta.
Carlo non si oppone, ma quando lei è in piedi, la prende sotto le ascelle e la spinge verso
il letto. (…) Carlo riesce a buttarla sul letto e a montarle sopra, dopo averle strappato le
mutande.”
Non sarà l’unica esperienza sessuale con la madre; Carlo tiene questo atteggiamento ogni
volta che si reca a Torino, ambiguo nido familiare che gli permette di ritrovare se stesso.
Nell’Appunto 8, Pasolini cerca di chiarire ciò che succederà d’ora in poi:
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“Dopo un simile esordio, tutto quello che Carlo è destinato a fare in quella villa del
Canavese e nella vicina Torino non potrà che impallidire al confronto.”
E’ il turno della nuova cameriera, rozza nei modi e con un fare elefantesco tipico da
massaia. Mentre la donna gli serve il pranzo, Carlo si sbottona i calzoni e afferra il fallo
con violenza: è pronto per una delle molteplici ‘esibizioni’ sessuali. E mentre si masturba
fissandola e costringendola a rispondere a domande su figli e famiglia, Carlo si concentra
sul pensiero di Viola, la figlia quattordicenne della serva, raggiungendo rapidamente
l’eiaculazione. Sporco del suo seme, si alza dalla tavola per dirigersi in stanza.
L’ossessione per il sesso e la sua visione distorta e perversa di esso non lo abbandonano
mai durante il soggiorno nel Canavese:
“L’unica sua preoccupazione era quella tremendamente piacevole di soddisfare il sesso:
quello che stringeva nel pugno, e tutto il resto.”
Vuoto e stanco, Carlo si riaddormenta. Ma l’ossessione morbosa per il sesso lo tormenta,
e sentendo delle voci provenire dalla finestra, si sveglia e si reca a guardare:
“Sempre stringendosi il membro Carlo si alzò, sentendo fuori delle voci (…) A parlare,
vociando, erano le tre sorelle di Carlo, Chiara, Natalia e Emilia. Con loro c’era una
bambina di tredici quattordici anni, che esse chiamavano Viola: era quindi la figlia della
serva. Carlo, guardando tutte quelle donne, si strinse ancora più forte il sesso tra i
pantaloni slacciati, preso dall’angoscia.”
A un certo punto il giardino si svuota e Carlo, agonizzante nella sua condizione, si rimette
a letto riprendendo la masturbazione grazie al pensiero eccitante della madre. Incapace di
non pensare alla sua fissazione morbosa e ossessiva, cerca di distrarsi pensando
all’immenso patrimonio familiare:
“Disturbato da quei pensieri che non lo riguardavano, Carlo si abbottonò i calzoni, e senza
cambiarsi né lavarsi uscì.”
Alla sera, nei «cessi di casa Oddone», in occasione di un’ulteriore festa mondana, Carlo e
la madre consumano l’ennesimo rapporto. La foga con cui Carlo penetra la madre è
assolutamente innaturale:
“Lì dentro la puzza di urina femminile era veramente acuta. «Cosa vuoi» disse Emma. Era
una donna avanzata, conosceva Freud attraverso i libri di divulgazione degli psicanalisti
italiani: ma ciò che le capitava era fuori dai limiti. Certamente pensava che suo figlio era
pazzo a fare quelle cose che a lui, invece, parevano tanto naturali. «Taci, puttana» egli le
rispose.”
Chiara Valletti è invece la sorella più giovane, nonché quella che accende più di tutte le
perversioni sessuali di Carlo. Le tre sorelle erano grossolane e umili nei modi, quasi
appartenessero a un’altra famiglia o, ancor peggio, avessero riconosciuto il degrado di
certa borghesia:
“Finirono coll’evitare i luoghi mondani frequentati dalla madre. In principio per istintiva
timidezza, sentendosi appunto non così ‘lavorate’ dalla condizione sociale come le loro
amiche, che con quella condizione sociale si erano identificate. Poi perché finirono col
sentirsene escluse e indegne. Si risarcirono assumendo appunto un modo di fare
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sbrigativo, privo di debolezze femminili, un po’ rude e maschio, che sostituisse la grazia
con la praticità e il comportamento mondano con cultura.”
La genuinità delle sorelle e la loro benevolenza verso le classi meno agiate (Viola, la figlia
della serva, è sempre con loro) fanno di loro delle perfette socialiste. Anche la madre,
nonostante la mondanità, frequentava l’ambiente culturale ‘comunista’. Questo è un tema
delicato per Pasolini, ossessionato dagli atteggiamenti fascisti di certi perbenisti di sinistra,
sia in politica che nella vita. Vedremo più avanti che molti degli individui appartenenti
all’Eni assumeranno atteggiamenti in totale antitesi con la loro condizione di uomini della
Resistenza durante il secondo conflitto mondiale.
Carlo, nella speranza di realizzare ogni suo desiderio di depravazione, durante il suo
soggiorno a Torino si reca spesso alla stazione attendendo qualche minorenne ignara
della realtà sessuale che lo noti. Alla vista di una bambina, l’ansia di esibirsi gli corrode
anima e corpo:
“Quei suoi occhi dovranno pure alzarsi e posarsi prima su Carlo e poi sul suo grembo. Se
ciò non dovesse accadere Carlo potrebbe anche morire a causa della tensione che gli sta
spezzando i nervi, che lo rende già mezzo morto. Nel tempo stesso, questo suo dolore di
agonizzante che aspetta di essere restituito alla vita da uno sguardo, è una gioia immensa
che riempie come una luce tutta la stazione, in quella malinconica ora crepuscolare.”
La gioia nell’angoscia che Carlo prova quando rischia di non essere visto, genera un misto
di sentimenti che trascendono l’umano avvicinandosi a una sorta di estasi demoniaca. Non
esiste realtà al di fuori di questa per lui: tutto si riduce a quell’impeto ingovernabile.
Quando fallisce o non riesce nella sua esibizione, riesce a notare le circostanze ambientali
e sociali, e lo sconforto aumenta. Il pensiero della morale, di Dio e del conformismo
sociale prendono il sopravvento generando desiderio di morte.
L’Appunto 10 bis comincia con gli ultimi due versi del sonetto 129 di Shakespeare (ripreso
anche nell’Appunto successivo):
“All this the world well knows yet none knows well,
To shun the heaven that leads men to this hell”
Si può evitare l’inferno che conduce gli uomini a questo paradiso?
Carlo è afflitto e angosciato. Il sesso è linfa vitale e il non poterne manifestare la potenza
sovrumana genera in lui un senso di vuoto incolmabile.
E’ così che si reca nella tenuta familiare, avido, sudato e fremente. Ancora la luce, con la
sua funzione emblematica all’interno del romanzo, colpisce i suoi sensi accecandolo. In
villa non trova nessuno, il bisogno di esibirsi sessualmente è talmente forte che potrebbe
costargli la vita.
La serva gli comunica che le sorelle si trovano dalla nonna e Carlo, solo nella gioia della
meta sessuale, si incammina verso la serenità paradisiaca dell’incipit dell’Appunto:
“Carlo, sanguinante per la ferita che la lontananza dei luoghi dove il sesso poteva,
‘attraverso l’inferno raggiungere il paradiso’, brancolante per la tristezza emanata dalla
luce persistente nell’aria, si era aggrappato all’unica possibilità di salvezza. Fare con
Chiara (o con Natalia, o con Emilia) ciò che faceva con le bambine ai giardini pubblici o
alla stazione. Doveva farlo subito.”
Scomparse le sorelle in bici, Carlo si accinge a entrare nel casale della nonna, rimasta
sola con Viola. La luce rossa, malinconica e abbagliante lo perseguita insieme al tormento,
fino a scomparire con esso nel momento in cui l’anziana donna lo invita a rimanere a
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cena. Carlo, vincente nel suo piano diabolicamente perverso, è pervaso da un sentimento
di pace assoluta:
“Ormai era proprio notte; la luce era scomparsa, lasciando il posto a un buio innaturale.
Non c’era alcuna illuminazione pubblica, intorno, per molti chilometri, e non si era ancora
alzata la luna. Restavano le stelle. Le stupende stelle della giovinezza, ché poi non si
guardano quasi più, mentre esse continuano a splendere, con la loro luce granulosa e
inquieta, pur nella suprema calma. Il loro tremolio insistente era come un linguaggio. E ad
esso si aggiunge di colpo il linguaggio, fraterno, del concerto dei grilli, vicino e
infinitamente lontano. Tutti due quei linguaggi parevano voler ripetere senza sosta un
concetto solo, ma inesauribile: sarebbe stato troppo facile pensare ch’esso alludesse alla
tristezza e alla morte; era qualcosa di ben di più: era un sapere puro, un pensiero
estremamente significativo, ma senza oggetto. Carlo non se ne fece un problema; fu solo
felice di godere per qualche istante quel fitto incombere del firmamento su di lui. Non
gliene importava niente; non era che contorno, sublime contorno.”
E’ luce relativa, trascendentale. Non c’è mito né simbolismo, tutto è ridotto alla realtà
sessuale del protagonista.
Viola è stata portata via dal casale da suo padre e la nonna Emilia e Carlo si ritrovano
ubriachi davanti un Barolo di collezione privata.
La donna, nell’ubriachezza, dimostra le chiari origini volgari di proprietaria terriera rozza
come i suoi braccianti. Parla di Shakespeare, nient’altro se non una maniera banale di
nascondere la sua provenienza:
“Bifolca o accademica dotata del miglior tipo di sapere, umanistico e filologico, proprio
quello del buon tempo antico, la nonna era contemporaneamente anche una terza cosa:
era una piccola borghese, una qualsiasi Bovary soddisfatta. Ed era quello il peggior
ostacolo al disegno di Carlo. Ma per fortuna era ormai completamente ubriaca.”
Stavolta è tutto più semplice, nessun tipo di angoscia tormenta il protagonista nel
compimento del suo piano. Tutto si svolge con assoluta libertà e impudicizia: Carlo si
sbottona, si masturba ed eiacula sulla donna, “macchiando quel suo bel vestito bianco di
vecchia”.
Una volta lasciata la tenuta di Emilia, il nipote si dirige verso casa Valletti. E’ soddisfatto e
pronto per l’ennesima masturbazione che culminerà nel solito sonno profondo e
improvviso.
Nell’Appunto 17 Pasolini ci racconta un sogno del protagonista non verbalizzato da
Pasquale. Carlo è legato nudo a una Ruota enorme sospesa nel vuoto cosmico, la quale
gira portandolo sempre allo stesso punto, un punto non percettibile nello spazio
inconsistente della materia onirica. Nel perno della Ruota vede un groviglio di due
serpenti. Al giro successivo, Carlo vede i due serpenti separarsi e giacere nel suolo (un
suolo anche questo di non-materia) come senza vita. Al loro posto vede una donna
dall’aspetto selvaggio, come se si trovasse allo stato brado. Dal suo ventre piccolo pende
un fallo molle, mentre un uomo dalle dimensioni incredibilmente piccole (forse un nano) le
sta accanto, nudo e con il membro scoperto. All’altezza inguinale un solco profondo, una
ferita scura e decisa. E’ una vulva. Al giro successivo tutti i personaggi scompaiono:
rimane Carlo, ma è morto e il suo corpo si è indurito fino a pietrificarsi. Un coro avverte
Carlo che quella era la gioia per eccellenza. Un altro giro e quel corpo marmoreo si
trasforma in un fallo gigante, affiancato da un vecchio santo con la barba bianca e gli occhi
da buono. L’ennesimo giro e sul perno della Ruota compare un ragazzo in riva al mare
spinto da quell’uomo su di una barca che partirà e andrà lontano da lì. Il coro dice a Carlo
che egli è nato per la seconda volta.
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Ancora un altro giro e sul perno c’è il padre di Carlo accompagnato da un uomo senza
volto ma con un sesso scuro e imponente.
Da questo momento il sogno non è più ambientato nel cosmo vuoto, ma in un deserto nel
quale sta per sorgere il sole: due uomini arrivano da due parti opposte e si incontrano:
diffidano l’uno dall’altro ma poi si stringono la mano. Ed ecco arrivare altri giovani uomini
nudi e col fallo scoperto, grande e imponente. Bevono vino e il coro avvisa Carlo che sono
tutti fratelli e orfani, provocandogli un dolore lancinante e indescrivibile. E’ la fine del
sogno:
“In quel momento egli si svegliò. Ma per un attimo il sogno continuò anche nella veglia:
l’attimo necessario perché egli avesse coscienza (una coscienza suggerita, da lontananze
ormai indescrivibili, dal coro) che tra quei ‘fratelli’ stava sopravvenendo un nuovo
personaggio, qualcosa come un ‘Diavolo’, uno ‘Spirito del Male’, fornito addirittura da un
nome, ‘Polis’ o qualcosa di simile (…).”
Il giorno seguente, a tavola, la famiglia è al completo assieme al padre. Carlo lo fissa e
ricorda un altro spezzone del sogno nel quale il coro lo avvisa che egli ritornerà in quel
punto del Giro, che non è il punto di prima bensì la parte bassa, quella dell’abisso
cosmico. Ed è qui che Carlo riceve l’illuminazione: prima o poi avrebbe dovuto subire, da
parte di individui del suo stesso sesso, la stessa brutalità corporale che aveva inflitto alle
sue vittime.
L’impero dei Troya
Siamo a Roma, di nuovo. Sotto il sole accecante della fiera di Porta Portese e un certo
“letterato veneto dal cognome in -on” si muove tra la folla delle bancarelle. Viene attratto
da una valigetta piena di libri, gli stessi di quella rubata nel treno che portava Carlo a
Torino. E lì c’era anche il verbale di Pasquale:
“L’intellettuale cominciò a scorrerlo un po’ divertito, mentre là sotto, accucciati accanto alla
loro roba, i tre napoletani silenziosi, nella loro eccitata beatitudine, lo sbirciavano
aspettando le sue decisioni (…)”
A questo misterioso inciso segue l’Appunto 20, decisivo per la separazione dei ‘due’
protagonisti. Il focus si sposta infatti sulla carriera di Carlo primo e sui misfatti dell’Eni,
provocando così l’ennesimo cambio di registro, sia linguistico che tematico.
Entrano in scena Guido Casalegno, compagno di liceo del protagonista e segretario di
Enrico Bonocore, presidente dell’ente petrolifero (stiamo parlando di Enrico Mattei), e
soprattutto Aldo Troya, personaggio chiave del romanzo facilmente assimilabile alla figura
di Eugenio Cefis, colui che, alla vicepresidenza dell’Eni, verrà identificato come il
mandante dell’omicidio del presidente Mattei, uomo onesto e disposto a cambiare le
regole del gioco capitalistico dell’oro nero, tratto peculiare che gli costerà la vita.
Guido Casalegno, coetaneo di Carlo e uomo intraprendente anche se fondamentalmente
onesto, è un ‘tuttofare’ nel senso letterale del termine
“(…) era quindi il Casalegno (…) a firmare il corriere ordinario per Enrico Bonocore:
siglando per esteso, con ammirevole imitazione della firma originale del Capo. In
conseguenza di tale sua sconfinata pazienza manuale, Guido Casalegno, occupava
presentemente la carica che abbiamo detto: oltre a essere Dirigente Amministrativo della
Snam, e direttore della divisione Segisa, controllando così amministrativamente e
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finanziariamente il ‘Giorno’: ed era entrato a fare parte della piccola fluttuante oligarchia
del cosiddetto impero dei Troya.”
Ecco che allora Carlo e Guido si dirigono assieme verso il salotto della Sig.ra F., la cui
identità viene svelata dall’autore nell’Appunto 22f. Si tratta di una borghese appartenente
all’elite romana, la quale
“investiva la sua intraprendenza in imprese culturali. Non soltanto organizzava quasi
settimanalmente dei Ricevimenti (come l’attuale) in cui si incontravano letterati, giornalisti,
scienziati e uomini politici, ma si dava anche a una certa attività più specifica: una piccola
scuola e laboratorio teatrale, un centro di ricerche ‘audiovisive’. Per questo la F. aveva
bisogno di finanziamenti, sia pur minimi: qualche milioncino: diciamo una ventina di milioni
in tutto l’anno.”
I soldi di cui ho appena accennato erano garantiti in via ‘amichevole’ dall’Eni (si trattava di
fondi abbastanza corposi), il cui entourage era formato da uomini di sinistra insospettabili
perché attivi durante la fase della Resistenza: erano i nuovi fascisti, alcuni membri del
governo, altri no.
Ma torniamo all’Appunto 20, che in qualche modo rappresenta l’inizio di quell’agonia che
porterà Pasolini alla morte. Comincia qui la sequela infinita di nomi, società e giornali, tutti
protagonisti di una trama talmente torbida che non trova chiarezza neppure oggi, a
distanza di trent’anni.
L’Eni è il topos del potere e la stampa diventa il mezzo primario della disinformazione:
“C’era stato in quegli anni (…) un oscuro spostarsi di pedine in un settore importante per
un organismo di potere, statale e insieme non statale, com’era l’Eni: il settore della
stampa. Per esempio, edito dalla Nuova Editoriale Italiana Spa, usciva a Milano nuovo
‘Avvenire’, nato dalla fusione tra il quotidiano cattolico bolognese e l’omonimo quotidiano
lombardo. L’Eni aveva una particolare predilezione per questo giornale, che non si
limitava a privilegi pubblicitari. Gli stipendi dei redattori e dei collaboratori vennero
talmente aumentati da suscitare l’invidia del ‘Corriere della sera’ (…) Il presidente della
Nuova Editoriale Italiana Spa diventa uno dei massimi dirigenti dell’Eni, Ettore Zolla: costui
è, soprattutto, uomo di fiducia di Troya.”
Guido Casalegno viene nominato vicepresidente della Nuova Editoriale Italiana Spa,
diventando così uno dei personaggi principali dell’impero dei Troya.
La ‘potenza’ dell’amico suscita in Carlo ammirazione e disprezzo al contempo, sentimenti
necessari per l’inizio di una scalata sociale. Egli si è finalmente liberato di Karl (o almeno
crede), ovvero di quell’alter ego che gli impediva di crescere ‘socialmente’, confinandolo a
una vita parallela alla sua in grado di trascendere il concetto stesso di libertà. Scisso
consapevolmente una volta per tutte, Carlo può cominciare la sua ascesa.
Eccoci così al rinomatissimo Appunto 21, Lampi sull’Eni, scritto e scomparso
misteriosamente dopo la morte dello scrittore. La prova filologica dell’esistenza di questa
preziosa parte del romanzo ci viene data da Pasolini stesso nell’Appunto 22a, riferendosi
esplicitamente alle vicende di Cefis:
“ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato “Lampi sull’Eni”, e ad esso
rimando chi volesse rinfrescarsi la memoria.”
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Aldo Troya, abile cinquantenne dal sorriso stereotipato e ammiccante, “decisamente un
sorriso da colpevole” (come si legge nell’Appunto 22), viene dipinto dall’autore in maniera
impietosa:
“Infine questo sorriso esprimeva anche un altro messaggio, che è un messaggio
essenziale, indispensabile e direi quasi sacro in Italia: Troya, cioè, sorridendo
furbescamente, voleva far sapere ininterrottamente, senza soluzione di continuità, e a tutti
che egli era furbo. Quindi che lo si lasciasse andare, per carità, che lui ‘sapeva certe
cose’, ‘aveva certi affari urgenti d’importanza nazionale’ (che un giorno o l’altro si
sarebbero saputi), ‘che lui era così abile e diciamo pure strisciante’ da cavarsela sempre
nel migliore dei modi e nell’interesse di tutti.”
Il ritratto di Aldo Troya gode di una fonte preziosa e indiscutibile: il libro di Steimetz, di cui
abbiamo già parlato nella parte introduttiva.
Singolare è la descrizione fisica del presidente, che rimanda più alla figura di Giulio
Andreotti che a quella di Cefis individuo. Rispetto al libro del misterioso pseudonimo,
cambia il luogo di nascita di Troya, ma non la data: Sacile invece di Cividale, paesini
entrambi della provincia di Udine. L’uso di una vecchia auto non intestata a lui e la volgare
collezione di oggetti in ceramica bianca rimandano direttamente alla fonte. La somiglianza
di questi piccoli soprammobili a delle lapidi marmoree sembra quasi metafora della
freddezza omicida dell’uomo, mandante certo dell’attentato di Mattei e del giornalista De
Mauro:
“e si sapeva anche che faceva raccolta di oggetti in ceramica bianca (cosa che dava l’aria
di piccoli cimiteri a certi tavolini, non certo pezzi rari d’antiquariato, della sua casa e anche
del suo ufficio).”
Bonocore e Troya sono uomini della Resistenza, questo è un fatto noto. Ciò che non fu
mai chiarito riguarda la scomparsa del generale Alfredo Di Dio, al comando della Divisione
Patrioti nel novarese, morto in circostanze torbide proprio nei giorni in cui Cefis abbandonò
il reparto della formazione partigiana di cui era capo Mattei per entrare a far parte della
Divisione di Di Dio:
“C’era una formazione mista degasperiana e repubblicana (il misto cominciò subito, come
si vede) che lottava sui monti della Brianza (…)”
Il riferimento è chiaro ma il passaggio narrativo è a tratti incomprensibile. Ciò pertiene alla
frammentarietà del testo e Pasolini non esita a ricordarcelo:
“Il mio non è un romanzo ‘a schidionata’, ma ‘a brulichio’ e quindi è comprensibile che il
lettore resti un po’ disorientato.”
Circolavano voci autorevoli già all’inizio degli anni ’70, secondo le quali Cefis avrebbe
saputo e mai rivelato i contorni della scomparsa del comandante palermitano. Da Giorgio
Galli a Eugenio Scalfari vennero lanciate aperte accuse all’ambiguo vicepresidente.
L’Appunto 21 avrebbe dunque svelato il passato partigiano di Cefis, ma ciò che ci rimane
è una pagina tristemente bianca sormontata da un titolo.
L’Appunto 22a è interessante nell’analisi della condizione di ‘vice’ di Aldo Troya. Come fu
‘secondo’ nella fase della Resistenza dietro il comandante Bonocore, continua ad esserlo
all’interno dell’ente petrolifero, mantenendo una posizione di controllo non ufficiale che gli
permette di muoversi come vuole:
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“In qualità di ‘secondo’ (vicecomandante o vicepresidente), la sua tendenza ascetica a
‘realizzare’ si attuava molto meglio. Probabilmente egli non lo calcolava, ma si limitava
semplicemente ad ammassare e costruire il proprio destino secondo la propria natura. Egli
non avanzava, accumulava. Non saliva, si espandeva. Sarebbe troppo lungo, e per me,
poi, impossibile, seguire tutta la lenta storia (due decenni) di questa accumulazione e di
questa espansione. Mi limiterò dunque a dare un panorama, quale poteva presentarsi a
un osservatore nel momento della nostra storia. Le incongruenze tra il carattere grigio e
ascetico di Troya, con il ‘finto’ ritratto fisico che ne ho dato: ma ciò fa parte del brulichio, o
vortice, che è la figura strutturale del mio raccontare; e il lettore deve prenderlo come un
divertimento.”
Gli Appunti 22a, 22b, 22c e 22d sono esclusivamente dedicati all’«impero privato» di
Troya e della sua famiglia. La fonte è ancora il libro di Steimetz, oro colato per le ricerche
di Pasolini sull’«onorato presidente».
Il fratello Alberto Cefis, nel romanzo Ivan Troya, gestiva piantagioni in America (dal
Canada all’Argentina), mentre Amelia Gervasoni, cognata di Aldo e sua prestanome,
richiama la signora Righi del libro di Steimetz, cognata di Cefis e intestataria di una
Società Immobiliari e Partecipazioni alla quale facevano capo altre otto società, i cui nomi
costituiscono chiari rimandi a società realmente esistenti elencate da Steimetz.
Il personaggio Quirino Troya e le sue attività alludono invece a quelle che Steimetz
attribuisce ad Alfredo Cefis, detentore di Trevalor, che nel romanzo diventa Pentavalor,
della Sosvic, trasformata in Sosmel, ecc.
La lista è interminabile e sarebbe impossibile, anche per lo scrittore stesso, riuscire a dare
un quadro chiaro e sistematico di tutte le attività oscure della famiglia Cefis; tutta la parte
del romanzo concernente il reame di Troya è incentrata sul gioco allusivo di nomi e società
reali tratti dalla fonte Steimetz, volutamente storpiati a fini narrativi (se di fini narrativi si
può parlare).
E’ letteralmente impossibile comprendere questa e altre parti del testo, ma ciò rispecchia,
in tutta la sua fluvialità, l’intento non-narrativo del nostro meta romanzo:
“De Sade m’insegna che non bisogna esigere troppo dal lettore”
Negli Appunti 22f, 22g, 22h, 22i e 23 la protagonista è la napoletana Signora F., di cui si è
già parlato precedentemente. Ci si chiede da dove provengano i soldi che finanziano le
sue discutibili attività e a tal fine Pasolini inserisce un grafico, (chiamato puzzle) spiegato
dettagliatamente nell’Appunto 22i:
“Il lettore dunque osservi questo grafico. I rettangoli che rappresentano le varie Società, o
Enti dell’impero di Troya sono tratteggiati: il tratteggio significa cifra, cioè, nella fattispecie,
capitale sociale, dichiarato e reale. L’ultimo rettangolino è tratteggiato solo a metà. Si
tratta delle ‘Iniziative culturali’ della Sig.ra F., della cui consistenza finanziaria ci è nota
appunto soltanto una metà.”
Il passaggio è oscuro, non si riesce bene a estrapolarne il contenuto; d’altronde, è proprio
l’illeggibilità la chiave di lettura del testo.
Proseguendo, gli Appunti 20-30, mancanti, mai scritti o magari ‘vuoti’ per l’irrazionale
motivo stilistico del romanzo, contengono delle bozze , alcune elaborate, altre no. E’
interessante tuttavia la nota nella quale si accenna alla ‘Visione’ della strage che
analizzeremo a breve:
“ - In ambedue i delitti Carlo prende parte attiva:
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nel I Blocco incoscientemente ( in un abnorme rapporto fra l’Io e l’Es) diventando membro
attivo del complotto
nel II Blocco allucinatoriamente (facendo esplodere la bomba appunto visionaria alla
stazione di Torino)
(16 ott. 1974)”
A questo inciso enigmatico segue direttamente l’Appunto 31, con il quale l’autore ci
avverte esplicitamente di non provare in alcun modo a dare un quadro psicologico dei
personaggi:
“In questo mio racconto – su ciò devo essere brutalmente esplicito – la psicologia è
sostituita di peso dall’ideologia. Il lettore dunque non si illuda: egli non si imbatterà mai in
quei personaggi che misteriosamente si svolgono e si evolvono,rivelandosi agli altri
protagonisti, e al lettore, man mano che gli avvenimenti – di cui sono causa o da cui sono
giocati – li costringono a una drammatica coerenza.”
E’ chiaro l’intento demolitore dell’auctor Pasolini: il ‘personaggio’ è un’entità incontrollabile
che ha perso la coerenza psicologica di cui godeva nella letteratura precedente. E’ e non è
allo stesso tempo, ha perso i contorni che lo caratterizzano abbandonando le dinamiche
spazio-temporali della realtà.
Non c’è corpo e quindi non ci può essere anima:
“Cos’è quest’animo umano? E’ una presenza; una realtà; ecco tutto. Esso incombe
attraverso l’individuo cui appartiene, e su lui, come un suo doppio monumentale e nel
tempo stesso inafferrabile.”
Due gruppi di ‘personaggi immaginari’ percorrono questa parte di romanzo: quelli
appartenenti ai salotti e quelli che spiano la vita di Carlo. Analogie, differenze e rapporti tra
i due verranno chiariti nel corso della lettura. O forse no.
Appunto 32: finalmente giungiamo al ricevimento che vedrà l’assunzione di Carlo
all’interno dell’ente petrolifero nazionale e l’incarico burocratico assegnatogli che implica
un viaggio in Oriente (viaggio reale e mistico, come vedremo più avanti).
In quell’equivoca dimora borghese tra i Parioli e Villa Glori, si muovono i nostri personaggi
immaginari, longevi detentori del potere circondati da menti giovani pronte per essere
addestrate e introdotte nell’oblio del potere (statale e non):
“Mi commuove quella certa ingenuità in cui cose del genere erano vissute da uomini
giovani come Carlo. E mi commuove anche l’ingenuità pervicace, incallita, mostruosa con
cui le vivevano dei vecchi già allora cadenti e ora decrepiti; oppure uomini e donne
soltanto anziani, ma nel pieno dell’attività professionale, al culmine del potere sociale.
Segnati profondamente nei lardi, o tirati da infauste magrezze, essi tutti ci credevano. Ci
credevano come ci credevano dei morti.”
E’ sconcertante l’attualità dell’ultima scrittura pasoliniana: quei personaggi immaginari
sono gli stessi di quelli che potrei immaginare io adesso, nel 2012.
Torna la ‘luce’, la cui funzione narrativa non è mai definita: torna per illuminare quei morti
“coi sorrisi incollati sulle labbra”:
“Lo sfavillare della luce, come di una nave ancorata in un porto buio ma in festa, si
mecolava alla ‘luce’ di quella verità così profondamente e sinceramente vissuta: e il rosso
di certi velluti o carte da parati, il verde del vestito più audace di qualche signora, il
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luccichio degli ori e delle perle: tutto resta lì, in quell’angolo vivente di un mondo di
defunti.”
E’ la prima volta che Carlo entra in contatto con questa dimensione parallela. Con lui ci
sono altri intellettuali, anche quello “dal cognome contadino in –on”, figura creata su
quella reale di Ferdinando Camon, già incontrato precedentemente alla fiera di Porta
Portese; un intellettuale inquieto (chiaro il richiamo ad Alberto Moravia) e un altro
aggressivo, quasi un alter ego dell’autore stesso; un membro del Comitato centrale del Pci
(sicuramente Antonello Trombadori) e un politico la cui descrizione non genera alcun
dubbio, si tratta di Giulio Andreotti:
“C’era anche un uomo politico – era ministro da dieci anni e poi lo sarebbe stato per altri
quindici – seduto su una poltroncina rossa, con un viso tondo di gatto ritratto tra le spalle,
come non avesse collo o fosse un po’ rachitico: la fronte grossa di intellettuale era in
contrasto col suo sorriso furbo, che aveva qualcosa di indecente: voleva cioè manifestare,
con furberia e degradazione, la coscienza della propria furberia e degradazione.”
Tra questi ‘personaggi immaginari’ c’è anche il perno dirigenziale dell’Eni, affiancato da
coloro i quali avevano posto tutte le loro attenzioni su Carlo, che si trovava lì, con
quell’aria provinciale e disorientata di chi non conosce:
“Carlo era là, presente-assente, deferente, autorevole. La prova per l’assunzione di un
grande Ente come l’Eni, che, come abbiamo visto, era tutt’altro che una semplice azienda,
sia pure di Stato, era quasi puramente formale: si trattava di un incarico, di carattere
burocratico, che prevedeva un viaggio in Oriente.”
L’Appunto 34 bis, Prima fiaba sul Potere (dal “Progetto”), è inserito tra la parte dedicata
agli incontri nei salotti della Sig.ra F. e l’Appunto 34 ter, intitolato Fine del ricevimento e
costituito solo da una nota che analizzeremo tra poco ma che non venne mai elaborata
dall’autore.
Proprio per la posizione dell’Appunto e per il cambiamento improvviso del punto di vista
del narratore, si suppone che “l’affabulatore”, incaricato di raccontare la storia di un
intellettuale di cui non vuole svelare l’identità, sia uno degli ospiti della signorotta dei
Parioli.
L’intellettuale in questione è un trentacinquenne provinciale, tondo e giallastro. La sua
descrizione fisica mette in difficoltà il lettore, che cerca invano di dargli un volto a causa
dell’abitudine a una lettura logica e sistematica. Petrolio è tutto fuorché questo, dunque
perché porci interrogativi del genere?
Di quest’uomo, l’unica notizia funzionale al racconto è la sua nevrosi (degenerata in
ordinaria pazzia) e l’obiettivo che l’ha condotto a questa, il Potere:
“Non essendo ancora una persona in vista, nessuno se ne accorgeva: ma in realtà egli
era un repellente mostro di passionale servilismo. Sarebbe stato capace delle azioni più
abbiette pur di ottenere il favore di una persona. Nel tempo stesso, coltivava anche il mito
della propria innocenza. Il fatto è che il suo desiderio di affermarsi e di avanzare
apparteneva all’ordine dei desideri clinicamente ansiosi: ed era dunque la ‘malattia’ che
provvedeva a preservare l’innocenza, come primitiva condizione di grazia, giustificando
contemporaneamente tutte le povere infrazioni ad essa.”
La nevrosi cronica gli provoca una visione durante la fase di dormiveglia: è il Diavolo,
pronto ad aiutarlo nella conquista del Potere, unico scopo della sua anonima vita. Tra i
tanti mezzi a disposizione per raggiungere l’obiettivo, l’Intellettuale sceglie la via della
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santità, e il Diavolo è lì, pronto ad accontentarlo. Il giorno dopo è già un santo cattolico:
rinuncia ai beni materiali del mondo, si rifugia in un convento e accetta la castità come
condizione essenziale della sua nuova esistenza. Così comincia l’ascesa, prima attraverso
il prestigio, poi mediante la devozione dei cattolici che lo circondano.
All’acme della fama, il nostro Intellettuale-Santo (che ha realizzato pure l’inconciliabilità tra
cattolicesimo di sinistra e Vaticano) cade nella disperazione più umana, riconoscendo il
Bene che profetizzava come un prodotto del Male e la Verità di cui si faceva portavoce
come prodotto della Menzogna. E mentre cade per terra incosciente mentre il Diavolo gli
apre due stimmate nelle mani, ecco che raggiunge il delirio estatico, arrivando alla visione
di Dio. Questa “Forza Luminosa” dal volto anonimo, gli confessa l’inesistenza del Diavolo:
“E’ stato uno Scherzo. Il Diavolo non è una persona, ma una maschera. Io me la son
messa sul viso e ti sono apparso, nella miserabile casa della miserabile città del
miserabile mondo, dove vivi. Dovevo usare il peggiore per farlo diventare il migliore, e di
una arbitraria contraddizione in termini per far trionfare l’assenza di contraddizioni. Adesso
va, torna sulla terra; va a testimoniare tutto questo.”
Dio avvisa l’Intellettuale che il compromesso da accettare perché egli possa godere del
suo perdono è quello di non voltarsi indietro per guardarlo, e il Santo accetta il patto senza
esitare:
“Ma non aveva fatto una ventina di passi che una curiosità irresistibile si impadronì di lui:
fu un nuovo rapimento che lo travolse come un fuscello: non potè, letteralmente,
trattenere una forza che alla cervice lo obbligava a torcersi all’indietro e gettare alle sue
spalle un ultimo sguardo su ciò che gli era impedito guardare. Il rigurgito dei bassi
sentimenti – che, evidentemente, non sono superati da quelli alti, ma continuano a
coesistere con essi – fu come una legge della natura: ed egli si voltò indietro, un attimo,
un solo attimo.”
L’Intellettuale-Santo non resiste e, voltandosi, vede il Diavolo; immediatamente si pietrifica
precipitando dal Terzo Cielo, di un marmo mistico composto da un’infinità di materie
sconosciute all’uomo.
A questa l’autore avrebbe fatto seguire altre storie sul popolo e il potere, così come si
legge nella nota del maggio 1974:
“*seguono le altre storie: il popolo e il potere (com’erano fino a prima del ’68) e come
cominciarono a non essere più (…)”
L’inciso fiabesco, apparentemente oscuro e lontano dai limiti della ragione, è
perfettamente consono alla poetica del romanzo: in una realtà caotica e controversa il
Bene non può che essere il Male e la Verità non può che coincidere con la Menzogna.
L’Appunto 34 ter, Fine del ricevimento, contiene solo questa nota:
“Alla fine del ricevimento riportare frase paziente schizofrenico (Roheim citato da Brown)”
Il riferimento è alle frasi dell’antropologo e psicanalista Geza Roheim che riporta Norman
O. Brown in Corpo d’amore, romanzo americano anni ’60 costruito come un montaggio di
citazioni e utilizzato molto nella stesura di Petrolio.
Diverse espressioni dei pazienti schizofrenici di Roheim sembrano confarsi alla scrittura
dello scartafaccio, e i riferimenti alla “nascita anale” e alla “continua permutabilità di pene e
vagina” hanno rispettivamente assunto la funzione di modello per la figura del personaggio
Merda (che incontreremo più avanti) e per le trasformazioni di Carlo.
22
Gli Argonauti
Il ciclo degli Argonauti costituisce certamente la parte più ostica del romanzo, che
addirittura l’autore avrebbe voluto scrivere in greco (o neo-greco) per attenersi alla follia
stilistica dell’opera, ovvero quella di costruire una ‘forma’ durante la scrittura stessa:
“Ebbene, queste pagine stampate ma illeggibili vogliono proclamare in modo estremo –
ma che si pone come simbolico anche per tutto il resto del libro – la mia decisione: che è
quella non di scrivere una storia, ma di costruire una forma (come risulterà meglio più
avanti): forma consistente semplicemente in ‘qualcosa di scritto’. Non nego che
certamente la cosa migliore sarebbe stata inventare addirittura un alfabeto, magari di
carattere ideografico o geroglifico, e stampare l’intero libro così. Del resto l’ha fatto
recentemente xxx Michaux (?), disegnandosi l’intero libro, riga per riga, in una paziente e
infinita invenzione di segni non alfabetici. Ma la mia formazione culturale e il mio carattere
mi hanno impedito di costruire la mia ‘forma’ attraverso simili metodi, estremistici, si, ma
anche estremamente noiosi. Ecco perché ho scelto di adoperare, per la mia costruzione
autosufficiente e inutile, dei materiali apparentemente significativi.”
L’alfabeto a cui fa riferimento l’autore è quello di Henri Michaux nelle due opere Alphabet
(1927) e Exorcismes (1943), con le quali l’artista belga (la cui opera si pone in relazione
con la corrente surrealista nonostante egli non abbia mai fatto parte del movimento) si
spinse verso la creazione di un alfabeto totalmente reinventato.
Pasolini si limita dunque a riportare il mito nella lingua originaria, compito che non portò
mai a termine e di squisita natura neosperimentalista, lasciando un vuoto incolmabile nella
nostra letteratura.
Ma torniamo agli Argonauti, figure della mitologia greca che, al fine di conquistare il vello
d’oro (il prezioso mantello dorato di pelle d’ariete in grado di conferire la capacità di volare)
partirono sulla nave Argo, guidati da Giasone.
Sappiamo che il mito sembrerebbe rifarsi ai primi viaggi dei mercanti-marinai proto-greci
alla ricerca d’oro, secondo la leggenda tramandata da Apollonio Rodio nelle Argonautiche.
Questo viaggio mitico in Oriente diventa per Pasolini metafora perfetta per il viaggio di
Carlo alla ricerca dell’oro nero, nella fase della sua ascesa all’interno dell’Eni:
“Serie di ‘visioni’ rifatte sul Mito del Viaggio come iniziazione ecc., miste a visioni
realistiche di viaggi veri (senza nomi o precisazioni, come nei sogni ecc.) - - - scriverlo
tutto in greco (con la traduzione riassunta telegraficamente ma esaurientemente nei titoli
dei paragrafi) - - - Inteso come iniziazione, fondamento del viaggio secondo – ma anche
come passaggio di tempo per la maturazione di un ‘tempo politico’: l’arrestarsi della
situazione per la sostituzione di Troya al Presidente dell’Eni e quindi dell’assassinio di
quest’ultimo. L’arrivo di Carlo da un ‘sognato’ viaggio in Oriente lo mette come sognante
automa nelle mani dei sicari.”
Gli Appunti 36 – 36n sono interamente scritti come bozze di un libro a sé stante mai
elaborato. L’idea però è chiara: l’opera, trascritta in greco, avrebbe congiunto dimensione
onirica e dimensione reale, personaggi mitici e politici, linguaggio aulico e turpiloquio.
A mio modesto parere, se questa ‘bozza’ fosse stata portata a compimento, avrebbe
costituito un capolavoro di letteratura sperimentale senza pari.
Riporto l’Appunto 36e, al fine di renderne l’idea:
23
“Meditazione di Orfeo – La vera nascita è la seconda nascita – L’imitazione; la nascita
culturale, ‹?› – Orfeo – Il viaggio vero è il secondo viaggio – Il primo è sonno (nella
caverna, sotto l’albero: tutto è dentro il ventre materno) – Il secondo viaggio è quello vero
perché è realistico – Non potrebbe esserlo se non avesse le ‘fondamenta di sogno’ del
primo – Noi andiamo sulle tracce di Eracle che ha sognato il nostro viaggio – Facciamo
quello che ha fatto Alessandro, e che hanno fatto molti altri – Verrà il momento che lo
spazio del sogno del viaggio sarà saturo – Ci sarà solo lo ‹…› spazio del viaggio – Noi
forse siamo gli ultimi, e infatti il nostro sogno è molto vicino alla realtà: alla [banale
mappizzazione] di ogni luogo – [Siamo ‘tardi’, siamo marci alessandrini, siamo uomini
colti] che chissà come hanno ancora una certa possibilità di iniziazione – Morte di Orfeo
(malaria) – Sepoltura di Orfeo – All’ora del crepuscolo nella periferia verso il mare due
giovani appena tornati dal lavoro, stendono fuori dalla casetta sulla sabbia un piccolo
tappeto scolorito – Lasciano le scarpe sulla sabbia – si siedono a gambe incrociate sul
tappetino e cominciano a suonare due loro strumenti (un tamburo e una specie di
mandolino molto rustico, dalla pancia gonfia e tonda come le navi persiane) – sono due
operai, immigrati, molto scuri di pelle; due sudanesi.
(testo greco)
L’Appunto 40 sancisce la fine della prima parte del testo inaugurando la seconda (sia ben
chiaro che, essendo l’opera incompiuta, non è possibile seguire la suddivisione
‘immaginaria’ dell’autore in tre parti) come la vera e propria essenza del romanzo.
L’incipit dell’Appunto è costituito da un passo de L’ABC del leggere di Ezra Pound (1934):
“Oscurità e solennità sono del tutto fuori posto nello studio (anche il più rigoroso) di un’arte
intesa originariamente ad allietare il cuore umano:
Gravity, a mysterious carriage of the
body to conceal the defects of the mind
Laurence Sterne”
Quanto sono consoni, Gravità e Solennità, al rapporto tra l’Io e l’Es di Carlo Valletti?
Apparentemente legati, in realtà Soggetto e Inconscio del protagonista vivono due
dimensioni distinte e separate:
“Dal punto di vista psicanalitico, sia ortodosso che eterodosso, sia freudiano che
junghiano, sia frommiano che lacaniano, tali rapporti sono talmente liberi da poter essere
lecitamente definiti arbitrari, anzi provocatori. Raramente si è visto giocare con tanta
disobbedienza con concetti ‘ubbidientemente’ accettati.”
E’ palese la necessità dello scrittore corsaro di voler sovvertire irrimediabilmente ‘regole’
psicanalitiche dogmatiche e universali.
L’Io di Carlo agisce e rimuove in piena libertà, seguendo leggi che non appartengono alla
realtà e che appaiono totalmente disconnesse da questo mondo.
Niente risponde a una logica, e quindi anche il linguaggio pasoliniano si svincola dai limiti
del comprensibile:
“… la divisione in due dell’Io di Carlo, pone in realtà ogni volta il rapporto tra un Mezzo Io
e un Es intero. La rimozione è per metà rimozione classica, scientificamente analizzabile,
per l’altra metà è semplicemente un intontimento simile a quello di certi paralitici a cui
funziona solo metà del cervello. Non c’è oscurità e gravità, in questo, lo si deve
ammettere: e tutte le eventuali implicazioni allegoriche non possono che essere divertenti.
Così almeno spero.”
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Queste parole sanciscono la fine della prima parte del romanzo, ma anche qui si tratta di
una decisione stilistica in itinere; il lettore viene colto di sorpresa da un auctor che non ha
alcuna intenzione narrativa e che vive il suo “poema” in forma progressiva e magmatica.
Trasformazione di Carlo e Visioni di stragi
Appunti 41 e 43: due digressioni depistano un lettore stanco e disorientato. Giana,
“schiavetta negra” dell’occidentale Tristam, è costretta ad assecondare le perversioni
falliche del suo padrone, ricordando per un istante i giovani e indifesi protagonisti di Salò:
“(…) era tenuta a stare sotto il tavolino, con in bocca il membro, anche se non
necessariamente eretto, del suo padrone. La trasgressione a tale obbligo avrebbe dato
luogo a una punizione prestabilita, con saggezza legislativa, a base di frustate: due se la
bambina avesse abbandonato per un solo istante – presa da qualche necessità corporale
o da qualche fanciullesca distrazione – il membro del suo padrone: dose che naturalmente
era destinata a aumentare in proporzione all’entità della disobbedienza.”
Tristam, che ha studiato a Cambridge e vive a Londra, affida Giana a un padre cattolico
olandese e parte per Il Cairo. Passando per Alessandria torna in Inghilterra dopo una
sosta di due giorni a Napoli, città nella quale trova (con sorpresa) una situazione analoga
a quella africana:
“In certi giardinetti irresistibilmente sporchi, dove dei bambini, come un ventennio prima,
facevano il bagno in mutandine dentro una vasca, vide selvaticamente in disparte, una
‘scugnizza’ scura e lacera (…) Non c’era dubbio, essa assomigliava a Giana. Le era quasi
sorella. Apparteneva a una ‘cultura’ uguale. Quella che dava la stessa qualità fisica (…) a
quei ragazzini plebei di Napoli che si tuffavano nella fontana e quelli di Khartoum che
dormivano nel dormitorio di padre xxx.”
Tristam si lascia avvolgere dal fetore del parco di Forcella convertendosi di colpo al
marxismo (in aeroporto aveva letto il Capitale per la prima volta).
Il racconto termina anticipando La storia di xxx e xxx e dei loro tre figli xxx, Appunto
rimasto bianco.
Cinque annotazioni dell’autore potrebbero aiutarci a decifrare il significato del racconto di
Tristam; le riporto integralmente, data l’impossibilità interpretativa:
-
esperienza della schiavitù (… simbolico ecc.)
liberazione della schiava
indifferenza della schiava sia alla schiavitù che alla libertà. Sua sparizione senza
tracce, non esistenza. Ciò che è diverso non esistente. Enigma non posto oltre che
non risolto ecc. ecc. [lasciata a una Missione – lei non si volta indietro a guardare]
mescolanza e integrazione culturale mancata: in lei e in lui
catabasi: passaggio per Napoli (per nave) – Bambina napoletana – Ceduta di
Damasco – Impossibilità di un’integrazione culturale reale, vivente [democratica] –
Unica possibilità porsene il problema per salvare la coscienza e poi fregarsaene.
Iscrizione di Tristam al Partito comunista (conversione al marxismo)
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Sforzarsi nell’analisi non si addice alla poetica del nostro antiromanzo, ma l’intento
allegorico è evidente, soprattutto se si pensa alla continua denuncia di Pasolini al fascismo
di sinistra e ai valori costruiti ad hoc dalla nuova e ambigua classe dirigente ‘rossa’, figlia
della Resistenza e incline al più bieco trasformismo.
L’Appunto 43 narra di Sardar e dell’epidemia che causò a Patna e in altri luoghi del Bihar.
E’ il preludio alle stragi visionarie dei capitoli successivi, il cui nesso è poco chiaro se non
inesistente, com’è giusto che sia.
Ecco che si ripetono gli Appunti 41 e 42, diversi dai precedenti per i contenuti e preceduti
da un’annotazione che lascia intuire il tema centrale, quello tanto atteso che vede la
trasformazione di Carlo in una donna:
“*L’amore di Carlo il mite per i giovani del popolo comunisti – che lo trasforma in donna, lo
fa loro succube – si rovescia in odio in Carlo del Potere, il quale partecipa
(inconsciamente in modo però psicoanaliticamente anomalo) alla strage in funzione
anticomunista.”
Carlo ‘il mite’ e Carlo di Tetis. E non si tratta affatto di una svista dell’autore, né di un
controsenso; siamo di fronte un Es frantumato, irriconoscibile nel saper vestire tutti i ruoli,
apollinei o dionisiaci che siano. Carlo primo è Carlo secondo, Polis è Tetis, la scissione
dell’identità ha lasciato il posto alla sua disintegrazione.
Precisazione è il titolo del secondo Appunto 42, lume all’interno dell’oscurità testuale del
meta romanzo:
“Questo poema non è un poema sulla dissociazione, contrariamente all’apparenza. La
dissociazione altro non è che un motivo convenzionale (…). Al contrario , questo poema è
il poema dell’ossessione dell’identità e, insieme, della sua frantumazione.
La dissociazione è ordine. L’ossessione dell’identità e la sua frantumazione è il disordine.
Il motivo della dissociazione altro dunque non è che la regola narrativa che assicura
limitatezza e leggibilità a questo poema; il quale, a causa dell’altro motivo, più vero,
dell’ossessione dell’identità e della sua frantumazione, sarebbe per sua natura illimitato e
illeggibile.
Ma è vero anche il contrario: cioè sul primo motivo (quello della dissociazione) che
fondandosi l’ordine del romanzo si è anche fondata l’idea simbolico-allegorica in cui il
romanzo consiste; e che dunque lo rende, in pratica, illeggibile. Mentre è dal secondo
motivo (quello dell’ossessione dell’identità e della sua frantumazione) che nascono quelle
folate di vita e quella concretezza, sia pur folle e aberrante (…)”
Appunto xxx, Gli incontri serali: non c’è numerazione, si inserisce tra il 43 e il 43a
costituendo l’ennesimo intervento diretto dell’autore.
Ogni notte, alla stessa ora, Carlo primo e Carlo secondo si incontrano per confrontare le
loro esperienze. Ma il loro non è un rapporto equo ed è Carlo secondo che, con orgoglio
superiore, detta le regole della conversazione. E’ lui che parla, perché è Carlo primo colui
che ha rinunciato al piacere; ogni volta che Polis tenta di raccontare il suo rapporto con la
società, Tetis sbadiglia annoiato, volutamente disattento per non cadere nel tunnel
dell’angoscia.
L’anarchia sessuale di Carlo secondo richiama analogie e differenze col “male assoluto” di
Dostoevskij, il diavolo per eccellenza Stavrogin de I demoni:
“Attraverso i suoi peccati, Stavrogin, aveva, della propria società, la stessa idea che ne
avevano coloro che l’accettavano e partivano alla sua conquista. Guadagnato o perduto,
un valore è sempre un valore. Anche il nostro Carlo secondo non era privo della piccola
dose di demoniaco necessaria a spianargli la via della degradazione. Ma poiché il valore
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che in tal modo egli perdeva era modesto, anche il suo perdersi era modesto. (…) Carlo
secondo non avrebbe mai lasciato una delle sue minorenni impiccarsi in uno sgabuzzino,
stando a osservare un ragnetto rosso.”
Non è il primo né l’ultimo riferimento che Pasolini farà all’opera di Dostoevskij; spesso
troveremo annotazioni con rimandi a I demoni. Poco dopo, infatti, paragonerà l’impero di
Troya a quello degli Spigulin, i ricchissimi proprietari di una fabbrica all’interno della quale
scoppia un’epidemia.
Carlo secondo dunque, dopo l’incontro col suo ‘primo’, sistematicamente si recava presso
l’arido mondo della prostituzione per tentare di soddisfare il suo piacere, che in realtà
coincideva con l’ansia-angoscia provocata dall’attesa del piacere stesso.
Affascinante è il binomio povertà-corpo nella descrizione del sesso mercificato, meccanico
ma necessario:
“Inoltre il tutto era a sua volta legato a miserabili patteggiamenti di denaro, a un mondo
economico reso pericoloso e sfuggente dalla povertà. Allora Carlo non aveva capito quale
legame intimo e supremo ci fosse tra povertà e corpo: e come il corpo ne fosse
avvantaggiato, preservato com’era, così, nella sua ‘pasta’ popolare, che era salute,
innocenza, barbarie, delinquenza: tutto fuori che senso di colpa, banalità e volgarità.
Questo Carlo l’avrebbe scoperto in seguito.”
È da notare l’inciso dell’autore sull’uso dell’imperfetto incoativo, sostituito al presente
indicativo con l’intento di evidenziare la continuità e il ripetersi sistematico delle azioni di
Carlo. C’è in gioco una volontà determinata, ovvero quella di concepire la storia nella sua
consistenza, nella sua materia:
“Posso concedermi il passato remoto, è vero: che è un presente, per pura finzione mitica,
allontanato indietro nel tempo. Ma sia il presente che un simile passato remoto stanno a
testimoniare potentemente una volontà: quella di concepire la storia come unica e
unilineare, in cui le azioni e i personaggi si allineino come in una galleria o in una serie di
nicchie o di altari. L’imperfetto incoativo, alludendo al passare del tempo e della vita,
denuncia invece lo spessore della storia: lo presenta come un vasto e profondo fronte
lavico, anzi, come un illimitato fiume senza fondo, che scorre, in quell’imperfetto, che, di
tale scorrere sceglie e indica un particolare che si ripete, o appunto, un’abitudine, ma
come puro schema (…)”
L’Appunto 50, inserendosi con irriverenza tra la solitudine di Carlo e la sua ricerca
ossessiva del sesso nei pressi della stazione Termini, ci descrive un corteo di fine
novembre del 1969. È uno sciame confusionario di studenti, di lavoratori, di proletari; è
l’incarnazione di una nuova forza politica, misteriosa, controversa, intrisa di rosso e di
borghesia. L’allusione alle profonde ambiguità sessantottine è sempre presente nell’ultimo
Pasolini e in Petrolio:
“..vestivano di poveri abiti da lavoro, ma di una foggia nuova; i calzoni erano più stretti dei
soliti; e molti indossavano giubbotti e casacche grigio-verdi, americane. Tutti avevano un
fazzoletto rosso al collo. Tutti lo avevano annodato allo stesso modo elegante e allegro,
da ragazzetti sensuali e spavaldi.”
Alla parentesi provocatoria su quella ‘borghesizzazione’ della classe proletaria che tanto
amareggiò lo scrittore corsaro, segue l’Appunto 51, vero e proprio fulcro dello scartafaccio
nel quale il corpo di Carlo assume sembianze femminili.
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Non è chiaro se si tratti di un sogno, di un’allucinazione o semplicemente di un atto di
scrittura schizoide; del resto l’autore ci aveva già avvisati di certe incongruenze narrative,
specchio della struttura “vorticosa” e “brulicante” del meta romanzo:
“Andò dritto in camera e si spogliò, guardandosi al grande specchio disadorno dell’intimità
virile. Subito vide che cos’era successo di lui. Due grandi seni gli pendevano – non più
freschi – nel petto; e nel ventre non c’era niente: il pelame gli scompariva tra le gambe, e
solo toccandola e allargandone le labbra, Carlo, con lo sguardo lucido di chi ha imparato
da un’esperienza di bandito la filosofia del povero, vide la piccola piaga ch’era il suo
nuovo sesso.”
Bullicame è il titolo dell’Appunto 51a: il termine dantesco del XII canto dell’Inferno indicava
il liquido in ebollizione in cui venivano puniti i Violenti (Guido di Montfort), mentre nel XIV
canto (maiuscolo) il riferimento era al ruscello in cui si bagnavano le “peccatrici”
(prostitute) di Viterbo.
Pasquale Voza e Walter Siti si sono soffermati insistentemente sul viaggio dantesco
operato da Pasolini in Petrolio nella costruzione delle due parti che formano il romanzo,
ovvero quella del “Progetto” (nel tentativo di creare due forme paradisiache, neocapitalista,
comunista l’altra) e quella del “Mistero” (il magma infernale, espresso dal caos concettuale
e dal turpiloquio linguistico).
A mio modesto parere, un nesso Dante-Pasolini non può che generare ulteriore
confusione e disorientamento, soprattutto a causa della grave incompiutezza narrativa di
fronte la quale ci troviamo. L’espediente è talmente fragile e inconsistente che non lascia
spazio allo sviluppo di una teoria in merito, la quale è sicuramente esistente, ma che
lascerei volentieri alla critica ‘ufficiale’.
Tornando all’Appunto 51a, è chiaro come Carlo stia per incontrare alla stazione un
giovane chiamato Tonino, e come con lui, quasi certamente, consumerà il suo primo
rapporto omosessuale. L’Appunto incompiuto (i tre che seguono riportano solo i titoli)
porta l’autore quasi all’apice dell’incomprensibilità metascritturale:
“L’Acqua Bullicante col pratone notturno com’era alla fine degli Anni Cinquanta, rimasta
uguale ancora per un anno o due. Sua descrizione assicurando (giurando) sulla sua
autenticità. L’infinità dei tipi e degli episodi della bolgia notturna. Passaggio attraverso essi
di Carlo che non osa che osservare. Poi Carlo prende il tram e arriva alla Stazione
Termini, lì, come ad aspettarlo, è Tonino.”
Da Tonino, entità sconosciuta ma certamente poco funzionale al romanzo, passiamo alla
cronaca attraverso il secondo viaggio in Oriente dell’ingegnere Carlo Valletti.
Un’importante notizia trapela in quest’Appunto 54, e la fonte è ancora Steimetz:
“Attraverso la Comip, l’Eni aveva investito in Marocco dai 12 ai 15 miliardi: ma non vi si
era trovato neanche una goccia di petrolio.”
Il riferimento è alla Somip, l’ambigua società con la quale l’ente petrolifero nazionale aveva
investito quasi 15 miliardi di lire nel 1958. Altrettante ingenti somme di denaro furono
investite a vuoto in Sudan e nel massiccio dello Zagros.
Improvvisamente e senza rispondere a nessuna logica narrativa, Carlo si trova ne “Il
pratone della Casilina”, titolo dell’Appunto 55. Ciò che succederà in questo contesto è
talmente imbarazzante che l’autore sente la necessità di rivolgersi al lettore in prima
persona:
28
“A questo punto, mio lettore, questo poema ‘decolla’. Ti pregherei di lasciarti trasportare
senza opporre troppa resistenza. Comincia intanto col non sorridere all’accenno al cosmo,
fatto con serietà forse un po’ inopportuna, anche se, vorrai ammetterlo, non veramente
eccessiva. Il fatto è che non desidero né sorridere né scherzare sulla mia materia. Il
sorridere e lo scherzare, distanziandomene, mi sarebbero in realtà di grande aiuto, vista la
scabrosità di tale materia – o meglio, la sua enormità. Ma il cuore di Carlo era puro, pur
nella tensione dei suoi nervi: tensione dovuta peraltro a un desiderio sessuale così forte e
esclusivo da essere in conclusione tragico.”
Senza perderci in dettagli: Carlo consuma un rapporto orale con una ventina di ragazzini,
Sandro, Sergio, Claudio, Gianfranco, Fausto, Augusto, Gustarello, Erminio, Carmelo e
così via (Carmelo tornerà nell’Appunto 60, in qualità di cameriere durante una cena di
potenti e come incarnazione del Dio-Sesso). Terminerà concedendosi ‘integralmente’,
sublimando così le pulsioni sessuali in estasi mistica, che lo acceca e che rende quei
ragazzi di borgata veri e propri “Dei degli Inferi”:
“(…) poveri Dei, che se ne andavano in giro lasciando dietro a sé il loro odore di cani,
astuti e rozzi, sinistri e camerateschi, usciti dai loro simulacri di tufo (…)”
Si tratta delle pagine più crude di tutta la nostra letteratura. I particolari sono di un realismo
estremo, turpe, abominevole al punto di indurre il lettore alla nausea. D’altronde l’auctor
Pasolini ci aveva avvisati. E ci aveva implorato di non opporre resistenza.
Senza giustificazioni né smorzamenti di tono, l’autore torna al “Progetto” con il ritorno di
Carlo dal secondo viaggio in Oriente.
Si parla della morte di Feltrinelli, militante comunista membro del GAP morto in
circostanze mai chiarite nel 1972. Eugenio Scalfari parlò di assassinio da parte della CIA,
ipotesi che Pasolini sembra approvare:
“Ma il giorno del ritorno di Carlo dalla Siria, ancora non si sapeva nulla dei particolari della
morte di Feltrinelli: si sapeva solo che il morto era lui. E c’era stato il precipitoso
comunicato firmato da un gruppo di intellettuali in cui si dichiarava che egli era stato
assassinato dai fascisti – o meglio, probabilmente, da un’organizzazione non italiana, cioè
la Cia – per creare un ambiente favorevole alla destra nelle imminenti elezioni.”
Ma Carlo non appartiene a quelle frange estreme, ricordiamolo, è un moderato di sinistra,
e come tale certamente abbracciava l’ipotesi secondo la quale l’editore militante morì
mentre preparava un ordigno per un attentato:
“Carlo aveva interpretato subito in cuor suo che Feltrinelli si era ammazzato da solo,
facendo il guerrigliero.”
Eppure Carlo, non essendo un fascista, sentiva che qualcosa stava cambiando nel
panorama italiano. Avvertiva, in cuor suo, quell’offuscarsi dei valori per colpa del
progresso, quel senso di angoscia sancito dall’avvento di un’era in cui verità e menzogna
camminavano a braccetto, divertite nel nascondersi dietro maschere democristiane:
“Anche la sera, quella sera del diciotto marzo 1972, non dava altro al cuore di Carlo che
terribili, insopportabili fitte di dolore. Possibile che a un uomo come Carlo importasse tanto
del cambiamento del mondo? Non aveva contribuito lui stesso a tale cambiamento? O,
nel caso in cui il suo contributo a tale cambiamento, fosse stato casuale o insincero, non
aveva lottato per il possesso di quel mondo, comunque esso fosse? Anzi tale
cambiamento, non gli garantiva lavoro e successo?
29
Invece, il fatto che le cose non fossero più solo come dieci anni prima, gli si presentava
come una tragedia.”
Carlo è ossessionato dalla sua accettazione delle regole del potere, e nel momento in cui
si trova costretto a fronteggiare la sfera etica e morale che fa di tutto per evitare, trova una
e una sola via d’uscita: Carlo secondo:
“Era già notte. Benché stanco, gli sorrideva almeno un’idea: avrebbe incontrato Karl,
l’avrebbe incaricato, come il solito, di andarsene fuori, nella notte, per lui, a godere almeno
tutta la solitudine possibile.”
Negli Appunti successivi si racconta della scomparsa di Karl e del profondo dolore che
Carlo prova per questa mancanza. Tuttavia ciò era inevitabile per via dell’ascesa sociale di
Carlo all’interno dell’Eni, anche se in realtà Karl aveva fatto la sua comparsa nella vita
dell’ingegnere proprio a causa della sua entrata nel gioco del potere. Dunque come si
spiega la sua fuga? Se il lettore non vuole entrare in crisi deve accontentarsi di una sola
spiegazione: la nevrosi.
Nel tentativo di rimpiazzare la presenza di Karl, Carlo decide di ripercorrere i suoi itinerari
notturni, quelli delle borgate romane colme di prostitute e delinquenti, con l’intenzione di
caricare una donnaccia in macchina:
“La fitta lancinante di dolore che per tutta la giornata gli aveva trapassato le viscere, si
fece se possibile, ancora più dolorosa; e comunque si trasformò in un senso di nausea,
che costrinse Carlo ad accelerare verso un angolo un po’ in ombra sotto il muraglione,
dove, fingendo di pisciare – cosa che era contro tutti i suoi principi, anzi, era la prima volta
in vita sua che lo faceva – vomitò; o meglio ebbe dei conati di vomito, senza vomitare
nulla. Certamente egli non era fatto per rimpiazzare un uomo di un’altra natura, o almeno
costretto a un’altra esperienza. La sua vita ‘privata’ per lui doveva indubbiamente
considerarsi finita. Non gli restava che scegliere di essere soltanto ‘pubblico’, e quindi
‘santo’.
Alla separazione tra Carlo e Karl, che in fondo non è altro che l’immaginazione di una
separazione ai fini del raggiungimento della “santità” di Carlo, seguono cene, incontri,
visioni, accettazioni di compromessi.
Il nuovo fascismo culturale e politico si impone con forza nel panorama italiano e
l’ingegnere dall’identità frantumata comincia a inglobarne una parte; i responsabili della
morte di Feltrinelli sono gli stessi della strage di Piazza Fontana e delle «altre duecento
bombe che stragi non ne avevano fatte, ma facevano parte dello stesso programma» .
Carlo sa e ne è “complice”, anche se inconsciamente:
“Malgrado che Carlo, come tutti i piccolo-borghesi intellettuali sapesse questo – sapere
dovuto al buon senso – e avesse pronunciato la sua condanna, non banalmente contro ‘gli
opposti estremismi’ con cui i vecchi imbroglioni della politica italiana cercavano di
aureolarsi dell’aureola della popolarità, ma disperatamente contro tutti – tuttavia aveva
dentro di sé qualcosa che obbediva, come anguilla in un branco di anguille, che sa trovare
dal fondo dell’oceano la strada che la fa ritornare alla piccola sorgente del torrente alpino,
a un profondo richiamo che io non oso nemmeno nominare.”
Una cena decreta l’ingresso di Carlo nel tempio della “santità”, che altro non è che la sede
della corruzione più fine e segreta dello Stato, quella che comprende fascisti, uomini
falsamente di sinistra, democristiani e cattolici:
30
“Mai cena fu più ontologica. Si mangiò della polenta con lo stracotto, un po’ all’alpina, con
del buonissimo vino trentino, perché l’onorevole da cui la cena si svolse, era di quelle
parti; mentre, eccettuato Carlo, degli altri invitati, due erano romani, quattro meridionali (un
siciliano). xxx xxx
Così lo spostamento a destra di Carlo fu oggettivato. Egli non lo disse, non lo ammise,
non lo seppe mai pubblicamente; lo disse, lo ammise e lo seppe in privato, ma come fatto
puramente momentaneo, diplomatico, tattico, machiavellico.”
Il riferimento alla presenza di deputati mafiosi siciliani genera il dubbio circa l’identità di
questi deputati: vengono citati Andreotti e Franco Restivo, esponente di spicco della Dc
siciliana. Non stiamo qui a cercarne un’identità, visto che è lo stesso autore a comunicarci
la sua totale inesperienza su certe cene e certi incontri. I riferimenti a personaggi politici
derivano da indizi, sospetti, orme, ma mai prove oggettive:
“Questa descrizione consiste in uno o due timidi accenni (una certa pietanza, una certa
marca di vino). Il minimo chiesto da un racconto che non voglia essere campato del tutto
in aria. In realtà io non so niente di cene simili; e gli accenni non sono che supposizioni.”
Dopo quel maledetto incontro, Carlo ha una visione nel suo giardino: si tratta di suo padre,
vecchio e seduto accanto una presenza vestita di una tunica romanica: la Previdenza,
seduta davanti quattro piccoli Dei.
Ecco che torna la luce, tanto osannata nella sua funzione all’inizio del romanzo e poi
tralasciata fino a questo momento estatico, in cui si fa universale nella sua provenienza
dal cosmo.
Vicino questi Dei (uno dei quali tiene una falce) Grazia e Parsimonia, e ancora indietro
Pazienza, Rassegnazione, Pietà, Volontà, Salute, Disobbedienza, Spavalderia, Crudeltà,
Rabbia, Violenza, Malattia. Il giardino è colmo, sarebbe impossibile elencarli tutti. Alcuni di
essi sono legati ai polsi, altri nudi e senza sesso. Spicca Follia, che gratta la testa di
Potere, divinità di bassa statura rispetto al resto.
Queste pagine, quasi meta-allegoriche direi, anticipano la figura di Salvatore
Dulcimascolo, figura onirica e simbolo della passività sessuale come atto supremo di
realizzazione. Questa sorta di Dio maschio, incarnando il desiderio supremo, è superiore
agli altri Dei:
“In altre parole, il Dio Salvatore Dulcimascolo è economicamente nelle mani degli Dei, che
l’hanno assunto tra loro, ma nel tempo stesso anch’egli ha nelle sue mani gli Dei: infatti li
potrebbe sempre, in qualsiasi momento e per qualsiasi ragione, ricattare.”
In quel corpo addormentato, scuro, meridionale, Carlo trova la sublimazione del Sesso,
realizzazione onirica del “Mistero” pasoliniano.
L’adesione inconscia al fascismo corrisponde al Secondo momento basilare del poema
(Appunto 58), che vede per la seconda volta Carlo riflesso in un corpo femminile.
Accettazione delle regole del potere e accettazione della trasformazione del sesso si
fondono:
“Gli Dei e gli altri Celesti, guardando verso la strada e il cancello – immobili e frontali – ora
voltavano le spalle alla casa, nel cui interno Carlo si stava spogliando, con le mani che gli
tremavano. Il cuore, risucchiato dall’ubriachezza in un oscuro fondo melmoso, era
sconvolto da un sentimento sconosciuto – e, benché abbietto – e forse proprio per questo
– esaltante, meraviglioso. Nel Fascismo c’è un fascino che nessuno ha mai avuto il
coraggio di spiegare.”
31
Ottobre 1972, governo Andreotti. Il trasformismo democristiano e il consolidamento dei
valori del boom hanno canonizzato la ‘borghesizzazione’ di tutti i ceti. Non c’è destra né
sinistra, i loro valori si sono amalgamati al punto di renderne impercettibili le differenze. Il
Dio Salvatore Dulcimascolo è lì che governa corpo e anima di Carlo senza lasciare via
d’uscita.
L’ingegnere ha subito una trasformazione irreversibile; le cene, i locali frequentati da
potenti, mafiosi e politici sono gli stessi che frequenta lui. E tra i ristoranti altolocati emerge
il Toulà, sede indiscussa per la preparazione delle stragi di Stato:
“Questo Toulà, così pomposamente ufficiale e consacrato esclusivamente al potere
politico, non era poi un locale così divino: l’aria vecchiotta era abbastanza triste, e tutto vi
stava un po’ stipato: i camerieri accuratamente vestiti di nero col cravattino, il bar in un
piccolo vano stretto a destra dell’entrata, le tavole accuratamente imbandite, davano
naturalmente un senso di lusso e di alto privilegio; ma, come dire, in quel localetto basso,
in cui si scendeva, entrando per una porta quasi da edificio burocratico, attraverso due o
tre gradini, con intorno altri piccoli ‘separés’ più alti, proseguiva, senza soluzione di
continuità, lo squallore di tutto ciò che statale, e dove quindi per eccellenza, abita il
potere.”
E’ nel guardaroba del Toulà che Carlo sente per un attimo la vita. Si tratta di Carmelo, uno
di quei ragazzi che avevano consumato l’amore omosessuale e orgiastico con Carlo, o
Karl, o Carlo secondo.
Ci fu subito complicità tra i due, pur nel rapporto di sottomissione reciproca. Alla
superiorità ‘sociale’ dell’ingegner Valletti corrispondeva l’inferiorità carnale, la dipendenza
sessuale nei confronti di quel giovane servo, cosciente e quasi compiaciuto del prezzo che
avrebbe avuto il suo silenzio:
“Con un sorriso quasi stucchevole, Carmelo aiutò Carlo a infilare il cappotto, guardandolo
come se lo conoscesse (…) Carlo in quegli attimi aveva completamente perso la testa. Il
suo biondiccio settentrionale divenne, se possibile, ancor più duro e tetro, e, quasi con
malumore e rabbia malcontenuta (dovuta a ragioni d’altro carattere e superiori) lasciò
scivolare una grossa mancia, nella mano di Carmelo: che sentì grossa, tumida, calda,
dura e servizievole.”
Fu così che Carlo cominciò a frequentare il Toulà in maniera un po’ controcorrente: solo e
per mangiare. Nessuno mai aveva osato, infatti, recarsi in quello pseudo-ristorante del
potere se non per attuare delle manovre politiche.
Il rituale del cappotto era diventato un atto abituale, finché Carmelo non diede a Carlo un
biglietto con il suo numero di telefono.
L’indomani mattina il potente uomo d’affari chiamò il giovane cameriere, si incontrarono e
si recarono nei quartieri della Roma bassa, gli stessi che frequentava Karl. La felicità di
Carlo sfiorava la commozione, nulla avrebbe potuto dargli più gioia del sentirsi di nuovo
sottomesso a un giovane ragazzo:
“Il piacere cieco di obbedire gli toglieva ogni inquietudine di borghese, che di tutto quel
mondo sa solo che c’è: ma si guarda bene dall’approfondirne, in un modo qualsiasi, la
conoscenza. D’altra parte, il mistero di maggiore virilità e pienezza, che egli attribuiva – da
razzista – alla qualità di vita dei quartieri di poveri, era lo stesso che attribuiva a Carmelo:
e di fronte a cui, dunque, si sentiva inferiore (e, in quel momento, felice di esserlo).
Carmelo si voltò verso di lui, ed ecco che gli tese galantemente la mano, per aiutarlo a
salire e a discendere su quei monta rozzi fangosi, irti di pietre e di ciuffi d’erba lurida. A
quell’improvviso gesto galante – e un po’ ostentato – di aiuto e di protezione, Carlo entrò
32
come in trance: non disse nulla, non dimostrò nulla: l’obbedienza doveva essere cieca,
totale.”
I giorni seguenti furono tra i più felici della vita della giovane vergine Carlo. Innamoratosi di
quell’atto violento che era solito consumare con Carmelo, si convinse che quest’ultimo
fosse l’incarnazione di Salvatore Dulcimascolo, dunque di una sorta di Dio. Ma poche sere
dopo, quel ristorante ‘statale’ avrà sostituito il giovane cameriere meridionale con una
scialba donnetta nordica; niente dolore, niente disperazione, Carlo è finalmente libero
dalla sua ossessione.
Il Merda (allegoria di una crisi) e ricovero di Carlo
Successivamente alla visione del giardino medievale, una nuova e più complessa visione
si ha attraverso la storia di un giovane proletario, il Merda, allegoria della crisi italiana negli
anni del monopolio democristiano e della lenta degradazione giovanile verso
l’omologazione neoborghese.
L’andamento ha sapore dantesco, soprattutto nel richiamo all’incompiuta Divina Mimesis
dell’autore. La prima parte di questo ‘romanzo’ termina con una serie di Appunti in cui vari
narratori, presenti a un ricevimento ufficiale in occasione della festa della Repubblica (ci
sono tutti i notabili e i politici più in vista del tempo), raccontano storie vagamente
allegoriche. Della seconda parte rimane poco: ancora una festa a I demoni di Dostoevskij,
una passeggiata di Carlo nella campagna e poi nella “nuova periferia” della città (il titolo
della sezione, “I Godoari”, è tratto dal nome di un popolo barbarico presente in un racconto
di Anna Banti, La villa romana).
La lettura complessiva di questa parte del meta romanzo è ostica e ancor più
frammentaria della prima; Pasolini sembra voler decretare l’impossibilità di lettura (oltre
che di scrittura).
Con l’Appunto 82, Terzo momento basilare del poema, Carlo si guarda allo specchio
riscoprendosi uomo: non ha più i seni ed è ricomparso il membro.
A questa tragedia la soluzione è una e una sola: il ricovero in clinica e la castrazione.
La critica
Dalla sua pubblicazione nel 1992 ad oggi, la critica a Petrolio ha sofferto di un’eccessiva
povertà di contenuti e di poco interesse da parte della miglior critica. Ciò che abbiamo a
disposizione non è altro che una raccolta di articoli giornalistici e recensioni che, tuttavia,
non riescono ad abbracciare l’immensa vastità di valori dei quali il meta romanzo si fa
portavoce.
Tutta la critica al romanzo è incentrata sulla frammentarietà del testo e sul relativismo
letterario come chiave unica per la sua comprensione.
Secondo Enrico Gatta l’incompiutezza dell’opera si manifesta a livello quantitativo e
qualitativo, dunque l’unica chiave di lettura possibile sta nel rifiuto del definitivo e del
compiuto.6
Per G. Ferretti l’opera costituisce il punto d’arrivo di una produzione letteraria e
cinematografica complessa e articolata, impregnata di miti, passioni, contraddizioni vitali e
cruda modernità. E sono le rubriche giornalistiche della seconda metà degli anni ’60 che
6
E. Gatta, “Il Resto del Carlino”, 25 ottobre 1992
33
fungono da incipit per quella lunga requisitoria sulle “violentazioni e adulterazioni di uno
sviluppo senza progresso”, tema essenziale della stagione corsara degli anni ’70. 7
Secondo Permoli la riflessione dell’ultimo Pasolini è acre e impietosa come non mai. Negli
anni di Salò e degli Scritti Corsari la protesta morale e politica dell’autore raggiunge l’acme
e in Petrolio il senso del definitivo, la problematicità e la molteplicità delle prospettive
creano una scrittura quasi barocca nel suo caos. 8
G. Marchetti crea un parallelismo tra il petrolio, nutrimento d’ogni infamia e di ogni
speranza e il mare di Omero e Ulisse, ovvero l’elemento connettivo di storie diverse riunite
dal simbolo e dalla metafora. Pasolini discende agli inferi per noi tutti, mettendo in
quell’inferno di sesso bestiale e maniacale una carica di distruzione e di contestazione
sociale inauditi.
Petrolio è un’opera incompiuta, dunque la sospensione del giudizio è necessaria. Tutta
l’opera di Pasolini nella sua totalità è, come l’autore stesso la definì, “una melassa
plurilinguistica o matassa monolitica”, in una narratività dal chiaro senso sospeso.
Franco Fortini, in Attraverso Pasolini elogia il grande progetto dell’autore, sottolineando la
sua severissima e straordinaria attenzione ai fatti politici che hanno macchiato l’Italia dal
1960 al 1980. Dal punto di vista esclusivamente letterario, l’immensità dell’opera
incompiuta e il delirio nel quale essa affonda, giustificano il “non-stile” che l’autore stesso
dichiarava nella lettera a Moravia.9
Enzo Siciliano ha parlato di un testo tormentato da pentimenti, rotture e da vuoti che
restano tali a causa del silenzio politico e mediatico imperante in Italia.
La crisi che Pasolini trasforma in scrittura è sia politica che culturale. E la denuncia
costante del sistema genera una rabbia nuova, misteriosa come l’essenza del romanzo. 10
Gli articoli apparsi sui giornali saranno un centinaio, ma raramente si è discusso del
romanzo in termini di critica letteraria.
Carla De Benedetti e Maria Antonietta Grignani hanno pubblicato nel 1995 una raccolta di
saggi di autori diversi intitolata A partire da Petrolio. Pasolini interroga la letteratura,
mentre Enrico Capodaglio, con il Mulino, ha dato vita a Congetture sugli Appunti di
Petrolio. Nonostante questa non sia la sede opportuna, mi piacerebbe denunciare
l’introvabilità di questi testi, i quali avrebbero senz’altro costituito un valido aiuto per la mia
dissertazione.
La ricezione del romanzo
Aurelio Roncaglia, illustre autore della Nota filologica in appendice al romanzo, ha
felicemente notato come l’incompleta elaborazione formale dell’opera abbia provocato una
fondamentale alterazione nella ricezione da parte del pubblico.
Effettivamente, l’incompiutezza ha focalizzato l’attenzione del lettore soprattutto nelle
pagine più estremistica crudezza, quelle in cui la libertà di rappresentazione di gesti e atti
sessuali sfinisce un pubblico poco incline a un certo tipo di linguaggio, scabroso e violento
fino all’inverosimile. Ne consegue, così, una ricezione quasi inesistente e un
allontanamento irrimediabile da quella che era l’intenzione dell’autore, impercettibile se si
commette l’errore imperdonabile di soffermarsi sull’esasperazione della sfera sessuale.
7
Gian Carlo Ferretti, “Tempo medico”, 28 ottobre 1992
8
Piergiovanni Permoli, “La Repubblica”, 28 ottobre 1992
9
Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993
10
Enzo Siciliano Vita di Pasolini, Mondadori 2005
34
Gli Appunti, strappati forzatamente dal corpus dell’opera, hanno generato non solo un
giudizio di valore sterile e riduttivo nei confronti dell’ultimo Pasolini, ma ne hanno fornito
un’immagine rude, imperfetta, estrema. Bisogna quindi allontanarsi da questa visione
distorta e analitica e cercare di studiare i frammenti pasoliniani all’interno dello stesso
‘magma’ letterario di cui tanto parla l’autore. Al fine di comprendere la totalità del suo
pensiero, bruscamente interrotta dalla morte, è utile avvicinarsi a La Divina Mimesis, altra
opera incompleta di cui possediamo solo alcuni canti e appunti per altri canti, pubblicata
nel 1975. Qui il progetto letterario di Petrolio trova dei chiarimenti; l’incompletezza del
reale così come appare ai nostri sensi, è irrimediabilmente riflessa in una nuova letteratura
ormai svincolata dal canone, dalla forma stessa.
La Divina Mimesis, Petrolio e la parola “illeggibile”
La Divina mimesis risale al 1963-65, ma fu pubblicato nel 1975. Si tratta di un'opera
incompleta: ne possediamo solo alcuni canti e appunti per altri canti.
Il titolo riflette un rapporto con Dante di tipo metalinguistico: mentre è modellato sul
sintagma "La Divina Commedia", al tempo stesso indica un commento al testo dantesco,
che per Pasolini è in effetti "mimesi" (o imitazione) della realtà e dei linguaggi che si
adottano per rappresentare la vita.
Come "nel mezzo del cammin di nostra vita" della Commedia di Dante, nel Canto I di La
Divina mimesis, "verso i quarant'anni" [DM, 6] [1] Pasolini immagina un viaggio
nell'oltretomba, con una guida, che non è un personaggio esistito né un modello, ma
Pasolini stesso, o meglio un doppio di se stesso: il "poeta civile" che Pasolini era negli
anni Cinquanta [DM, 6], con la passione per il popolo, la storia, l'ideologia, il mito e lo stile.
Il viaggio nell'Inferno e in due Paradisi (quello capitalista e quello comunista) è, in Pasolini,
un viaggio nell'"Irrealtà, che non è altro dalla nostra realtà. Al contrario, "altro luogo non è
che il mondo” nell'epoca del neocapitalismo: un universo sociale percorso dal
consumismo, dalla fine di quei valori ormai trascesi nella volgarità e nel conformismo e dal
crollo degli ideali di altezza morale e onestà intellettuale.
Si tratta della disillusione nei confronti tanto del capitalismo quanto delle opposizioni
tentate negli anni Cinquanta, e del riscontro dell'alienazione sociale e personale dell'Italia
neoindustriale nata col miracolo economico.
Come Dante, Pasolini è critico scomodo del suo tempo, ma attualizza al presente il testo
dantesco; in parte lo imita nella suddivisione in Canti, in alcuni particolari elementi di lingua
e di stile; ma poi se ne distacca, scegliendo non i versi in terzine (come aveva fatto in Le
ceneri di Gramsci), bensì una prosa standard, che sembrerebbe tra l'altro contraddire il
plurilinguismo difeso da Pasolini e da lui riscontrato anche in Dante. Sul piano linguistico,
l’auctor dichiara che il modello standard di italiano non è più quello letterario, bensì lo
standard basato "sull'italiano parlato nel Nord, come lingua franca della seconda
industrializzazzione": per questo scrive nella supposta ‘lingua nuova’ caratterizzata
soprattutto da libertà e comunicatività espressiva.
Sebbene diversa dalla lingua di Dante, e diversa dal plurilinguismo riscontrato dallo stesso
nel padre della letteratura, la lingua scelta da Pasolini dagli anni Sessanta in poi
costituisce un'innovazione fondata su uno studio della realtà linguistica italiana: in tal
senso il metodo di Pasolini non è dissimile da quello di Dante, che nel De Vulgari
Eloquentia individuava le lingue parlate in Italia e ne costruiva una propria basata su
quelle.
35
È visibile l'interesse di Pasolini per Dante non solo sul piano della critica alla società, ma
anche su quello dell'autobiografia. La Commedia è narrata in prima persona e Dante fa
riferimento a sé, in tal senso operando in parte entro il genere autobiografico; e l'ansia
dell'influenza di Pasolini lo porta a staccarsi da Dante accentuando il discorso
autobiografico.
Ne La Divina mimesis, c'è una tendenza laica, lontana dalla religiosità di Dante; il
percorso teologico del poeta trecentesco viene sostituito da un cammino nuovo, simbolico
e psicologico.
Qui le allegorie dantesche diventano simboli, si esplicitano non lasciando al lettore alcun
margine di interpretazione. Le pene dei dannati qui non sono spettacolari come nella
Commedia: non c’è niente di più punitivo che l’esserci, per Pasolini. Al contrappasso si
sostituisce dunque la contemplazione dell’esistenza.
Ne La Divina mimesis, è pronunciata una severa critica anche all'assenza di impegno
degli intellettuali: i letterati sono all'Inferno, con un’unica colpa da espiare: quella di non
essersi ribellati. E in questo contesto, l’arte ha il compito (laico) di redimere chi vive tra le
pene del presente.
Appendice
A seguire, propongo delle fonti indiscutibili e fondamentali per la comprensione del testo:
- l’epistola che Pasolini scrisse ad Alberto Moravia riguardo le intenzioni stilisticonarrative del romanzo;
- la Lettera luterana a Italo Calvino dell’ottobre 1975, illuminante sui temi del “nuovo
fascismo” e sulla degradazione regressiva della nuova generazione;
- l’articolo apparso sul “Corriere della Sera” il 14 novembre del 1974 intitolato “Che
cos’è questo golpe?”, successivamente pubblicato con il titolo “Il romanzo delle
stragi” nella raccolta Scritti corsari;
- l’articolo del febbraio del 1974 apparso sempre sul “Corriere della sera” intitolato
“L’articolo delle lucciole”, poi pubblicato come “Il vuoto del potere” sempre nella
raccolta pubblicata postuma la morte dell’autore;
- l’articolo di Franco Fortini “Pasolini e le ultime illusioni”, apparso sul “Corriere della
Sera” nel 1977;
- l’articolo di Pasolini del 18 ottobre 1975 (lo scrittore verrà assassinato dodici giorni
dopo) per il “Corriere”, espressione del suo dissenso per il modus operandi
democristiano, intitolato “Aboliamo la tv e la scuola dell’obbligo”;
- l’omaggio di Enzo Siciliano allo scrittore corsaro nell’articolo scritto per il “Corriere
della Sera” intitolato “Il mio corpo nella lotta”, risalente all’ottobre del 1992.
36
Lettera ad Alberto Moravia
in Petrolio
Caro Alberto,
ti mando questo manoscritto perché tu mi dia un consiglio. E' un romanzo, ma non è
scritto come sono scritti i romanzi veri: la sua lingua è quella che si adopera per la
saggistica, per certi articoli giornalistici, per le recensioni, per le lettere private o anche per
la poesia: rari sono i passi che si possono chiamare decisamente narrativi, e in tal caso
sono passi narrativamente così scoperti ("ma ora passiamo ai fatti", "Carlo camminava..."
ecc, e del resto c'è anche una citazione simbolica in questo senso: "Il voyagea...") che
ricordano piuttosto la lingua dei trattamenti o delle sceneggiature che quella dei romanzi
classici: si tratta cioè di 'passi narrativi veri e propri' fatti 'apposta' per rievocare il romanzo.
.
Nel romanzo di solito il narratore scompare, per lasciar posto a una figura convenzionale
che è l'unica che possa avere un vero rapporto con il lettore. Vero appunto perché
convenzionale. Tanto è vero che fuori dal mondo della scrittura - o se vuoi della pagina e
della sua struttura come si presenta a uno della partita - il vero protagonista della lettura di
un romanzo è appunto il lettore.
Ora in queste pagine io mi sono rivolto al lettore direttamente e non convenzionalmente.
Ciò vuol dire che non ho fatto del mio romanzo un 'oggetto', una 'forma', obbedendo quindi
alle leggi di un linguaggio che ne assicurasse la necessaria distanza da me, (...) quasi
addirittura abolendomi, o attraverso cui io generosamente negassi me stesso assumendo
unilateralmente le vesti di un narratore uguale a tutti gli altri narratori. No: io ho parlato al
lettore in quanto io stesso, in carne e ossa, come scrivo a te questa lettera, o come
spesso ho scritto le mie poesie in italiano. Ho reso il romanzo oggetto non solo per il
lettore ma anche per me stesso: ho messo tale oggetto tra il lettore e me, e ne ho
discusso insieme (come si può fare da soli, scrivendo).
Ora, a questo punto (ecco la ragione di questa lettera) io potrei riscrivere daccapo
completamente questo romanzo, oggettivandolo: cioè scomparendo in quanto autore
reale, e assumendo le vesti del narratore convenzionale (che, (...), è molto più reale di
quello reale). Potrei farlo. Non sono privo di abilità, non sono digiuno di arte retorica, e non
manco neanche di pazienza (non certo della sconfinata pazienza che si ha solo da
giovani): potei farlo, ripeto. Ma se lo facessi, avrei davanti a me una sola strada: quella
della rievocazione del romanzo. Cioè non potrei far altro che andare fino in fondo a una
strada per cui mi sono naturalmente incamminato. Tutto ciò che in questo romanzo è
romanzesco lo è in quanto rievocazione del romanzo. Se io dessi corpo a ciò che qui è
solo potenziale, e cioè inventassi la scrittura necessaria a fare di questa storia un oggetto,
una macchina narrativa che funziona da sola nell'immaginazione del lettore, dovrei per
forza accettare quella convenzionalità che è in fondo giuoco. Non è voglia più di giuocare
(davvero, fino in fondo, cioè applicandomi con la più totale serietà); e per questo mi sono
accontentato di narrare come ho narrato.
Ed ecco il consiglio che ti chiedo: ciò che ho scritto basta a dire dignitosamente e
poeticamente quello che volevo dire? Oppure sarebbe proprio necessario che io riscrivessi
tutto su un altro registro, creando l'illusione meravigliosa di una storia che si svolge per
conto proprio, in un tempo che, per ogni lettore, è il tempo della vita vissuta e restata
37
intatta alle spalle, rivelando come vere realtà quelle cose che erano sembrate
semplicemente naturali?
.
Vorrei che tu tenessi conto, nel consigliarmi, che il protagonista di questo romanzo è
quello che è, a parte le analogie della sua storia con la mia, o con la nostra - analogie
ambientali o psicologiche che sono puri involucri esistenziali, utili a dare concretezza a ciò
che accade nel loro interno - esso mi è ripugnante: ho passato un lungo periodo della mia
vita in sua compagnia, e mi riuscirebbe molto faticoso ricominciare da capo per un periodo
che sarebbe presumibilmente ancora più lungo.
Certo lo farei, ma dovrebbe essere assolutamente necessario. Questo romanzo non serve
più molto alla miavita (come sono i romanzi o le poesie che si scrivono da giovani), non è
un proclama, ehi, uomini! io esisto, ma il preambolo di un testamento, la testimonianza di
quel poco di sapere che uno ha accumulato, ed è completamente diverso da quello che
egli aspettava | immaginava | !
Tuo
Pier Paolo
Lettera luterana a Italo Calvino
Pier Paolo Pasolini, su “Il Mondo”, 30 ottobre 1975
Tu dici (“Corriere della Sera”, 8 ottobre 1975): "I responsabili della carneficina del Circeo
sono in molti e si comportano come se quello che hanno fatto fosse perfettamente
naturale, come se avessero dietro di loro un ambiente e una mentalità che li comprende e
li ammira".
Ma perché questo?
Tu dici: "Nella Roma di oggi quello che sgomenta è che questi esercizi mostruosi
avvengono nel clima della permissività assoluta, senza più l’ombra di una sfida alle
costruzioni repressive...."
Ma perché questo?
Tu dici: "... il pericolo vero viene dall’estendersi nella nostra società di strati cancerosi..."
Ma perché questo?
Tu dici: "Non c’è che un passo dall’atonia morale e dalla irresponsabilità sociale (di una
parte della borghesia italiana, tu dici) alla pratica di seviziare e massacrare..."
Ma perché questo?
Tu dici: "Viviamo in un mondo in cui l’escalation nel massacro e nella umiliazione della
persona è uno dei segni più vistosi del divenire storico (onde criminalità politica e
criminalità sessuale sembrano in questo caso definizioni riduttive e ottimistiche, tu dici)".
Ma perché questo?
Tu dici "I nazisti possono essere largamente superati in crudeltà in ogni momento"
Ma perché questo?
Tu dici "In altri paesi la crisi è la stessa, ma incide in uno spessore di società più solido"
Ma perché questo?
Io sono più di due anni che cerco di spiegarli e volgarizzarli questi perché. E sono
finalmente indignato per il silenzio che mi ha sempre circondato. Si è fatto solo il processo
a un mio indimostrabile refoulement cattolico. Nessuno è intervenuto ad aiutarmi ad
andare avanti ed approfondire i miei tentativi di spiegazione. Ora, è il silenzio, che è
cattolico. Per esempio il silenzio di Giuseppe Branca, di Livio Zanetti, di Giorgio Bocca, di
38
Claudio Petruccioli, di Alberto Moravia, che avevo nominalmente invitato a intervenire in
una mia proposta di processo contro i colpevoli di questa condizione italiana che tu
descrivi con tanta ansia apocalittica: tu, così sobrio. E anche il tuo silenzio a tante mie
lettere pubbliche è cattolico. E anche il silenzio dei cattolici di sinistra è cattolico (essi,
dovrebbero avere finalmente il coraggio di definirsi riformisti, o con più coraggio ancora
luterani. Dopo tre secoli sarebbe ora).
Lascia che ti dica che non è cattolico, invece, chi parla e tenta di dare spiegazioni magari
dal vivo, e circondato dal profondo silenzio. Non sono stato capace di starmene zitto,
come non sei capace di startene te zitto tu ora. "Bisogna aver molto parlato per poter
tacere " (è uno storico cinese che, stupendamente, lo dice.) Dunque parla una buona
volta. Perché?
Tu hai steso un cahier de doléance in cui sono allineati fatti e fenomeni a cui non dai
spiegazioni, come farebbe Lietta Tornabuoni o un giornalista sia pure indignato della Tv.
Perché?
Eppure io ho anche da ridire sul tuo cahier, al di fuori della mancanza dei perché.
Ho da ridire che tu crei dei capri espiatori, che sono: "parte della borghesia", "Roma", "i
"neofascisti".
Risulta evidente da ciò che tu ti appoggi a certezze che valevano anche prima. Le
certezze che ti dicevo in un’altra lettera che ci hanno confortato e anche gratificato in un
contesto clerico-fascista. Le certezze laiche, razionali, democratiche, progressiste. Così
come esse sono non valgono più. Il divenire storico è divenuto, e quelle certezze son
rimaste com’erano.
Parlare ancora come colpevole di "parte della borghesia" è un discorso antico e
meccanico perché la borghesia, oggi, è nel tempo stesso troppo peggiore che dieci anni
fa, e troppo migliore. Tutta. Compresa quella dei Parioli o di San Babila. È inutile che ti
dica perché è peggiore (violenza, aggressività, dissociazione dall’altro, razzismo, volgarità,
brutale edonismo) ma è inutile che ti dica perché è migliore (un certo laicismo, una certa
accettazione di valori che erano solo di cerchie ristrette, votazioni al referendum, votazioni
al 15 giugno).
Parlare come colpevole della città di Roma, è ripiombare nei più puri anni cinquanta,
quando torinesi, milanesi (friulani) consideravano Roma il centro di ogni corruzione: con
aperte manifestazioni razzistiche. Roma con i suoi Parioli, non è affatto peggiore di Milano
col suo San Babila, o di Torino.
Quanto ai neofascisti (giovani) tu stesso ti sei reso conto che la loro nozione va
immensamente allargata: e la possibile crudeltà nazista di cui parli (e di cui da tanto vado
parlando io) non riguarda solo loro.
Ho da ridire anche su un altro punto del “cahier senza perché”.
Tu hai privilegiato i neofascisti pariolini del tuo interesse e della tua indignazione, perché
sono borghesi, La loro criminalità ti pare interessante perché riguarda i nuovi figli della
borghesia. Li porti dal buio truculento della cronaca alla luce dell’interpretazione
intellettuale, perché la loro classe sociale lo pretende. Ti sei comportato - mi sembra come tutta la stampa italiana, che negli assassini del Circeo vede un caso che la riguarda,
un caso, ripeto, privilegiato. Se a fare le stesse cose fossero stati dei "poveri" delle
borgate romane, oppure dei “poveri” immigrati a Milano o a Torino, non se ne sarebbe
parlato tanto in quel modo. Per razzismo. Perché i "poveri" delle borgate o i "poveri"
immigrati sono considerato delinquenti a priori.
Ebbene i "poveri" delle borgate romane e i "poveri" immigrati, cioè i giovani del popolo,
possono fare e fanno effettivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache)
le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli: e con lo stesso identico spirito, quello
che è oggetto della tua "descrittività".
I giovani delle borgate di Roma fanno tutte le sere centinaia di orge (le chiamano
“batterie”) simili a quelle del Circeo; e inoltre, anch’essi drogati.
39
L’uccisione di Rosaria Lopez è stata molto probabilmente preterintenzionale (cosa che non
considero affatto un’attenuante): tutte le sere, infatti, quelle centinaia di batterie implicano
un rozzo cerimoniale sadico.
L’impunità di tutti questi anni per i delinquenti borghesi e in specie neofascisti non ha
niente da invidiare all’impunità dei criminali di borgata. (I fratelli Carlino, di Torpignattara,
godevano della stessa libertà condizionale dei pariolini.) Impunità miracolosamente
conclusasi in parte con il 15 giugno.
Cosa dedurre da tutto questo? Che la "cancrena" non si diffonde da alcuni strati della
borghesia (romana) (neofascista) contagiando il paese e quindi il popolo. Ma che c’è una
fonte di corruzione ben più lontana e totale. Ed eccomi alla ripetizione della litania.
È cambiato il "modo di produzione" (enorme quantità, beni superflui, funzione edonistica).
Ma la produzione non produce solo merce, produce insieme rapporti sociali, umanità. Il
"nuovo modo di produzione" ha prodotto quindi una nuova umanità, ossia una "nuova
cultura" modificando antropologicamente l’uomo (nella fattispecie l’italiano). Tale "nuova
cultura ha distrutto cinicamente (genocidio) le culture precedenti: da quella tradizionale
borghese, alle varie culture particolaristiche e pluralistiche popolari. Ai modelli e ai valori
distrutti essa sostituisce modelli e valori propri (non ancora definiti e nominati): che sono
quelli di una nuova specie di borghesia. I figli della borghesia sono dunque privilegiati nel
realizzarli, e, realizzandoli (con incertezza e quindi con aggressività), si pongono come
esempi a coloro che economicamente sono impotenti a farlo, e vengono ridotti appunto a
larvali e feroci imitatori. Di qui la loro natura sicaria, da SS. Il fenomeno riguarda così
l’intero paese. E i perché sono ben chiari. Chiarezza che certo, lo ammetto, non risulta da
questa tabella che ho qui stilato come un telegramma. Ma tu sai bene come documentarti,
se vuoi rispondermi, discutere, replicare. Cosa che finalmente pretendo che tu faccia.
NB. I politici sono difficilmente recuperabili a una tale operazione. La loro è una lotta per la
pura sopravvivenza. Devono trovare ogni giorno un aggancio per restare attaccati e inseriti
là dove lottano (per sé o per gli altri, non importa). La stampa rispecchia fedelmente la
quotidianità, il vortice in cui sono presi e travolti. E rispecchia anche fedelmente le parole
magiche, o i puri verbalismi, cui sono attaccati riducendovi le prospettive politiche reali
("morotei", "dorotei", "alternativa", "compromesso", "giungla retributiva"). I giornalisti autori
di tale rispecchiamento sembrano essere complici di tale pura quotidianità, mitizzata
(come sempre la "pratica") in quanto "seria". Manovre, congiure, intrighi, intrallazzi di
Palazzo passano per avvenimenti seri. Mentre per uno sguardo appena un po’
disinteressato non sono che contorcimenti tragicomici e, naturalmente, furbeschi e
indegni.
I sindacalisti non possono essere di maggiore aiuto. Lama, sotto cui tutti i facitori di
opinione hanno preso l’abitudine di accucciarsi come cagnette in fregola sotto il cane, non
saprebbe dirci nulla. Egli è uguale e contrario, ossia contrario e uguale a Moro, con cui
tratta. La realtà e le prospettive sono verbali: ciò che conta è un oggi arrangiato. Non
importa se Lama è costretto a questo, mentre i democristiani vivono di questo. Oggi pare
che solo platonici intellettuali (aggiungo: marxisti) - magari privi di informazione, ma certo
privi di interesse e di complicità - abbiano qualche probabilità di intuire il senso di ciò che
sta veramente succedendo: naturalmente però a patto che tale loro intuire venga tradotto letteralmente tradotto - da scienziati anch’essi platonici, nei termini dell’unica scienza la cui
realtà è oggettivamente certa come quella della Natura, cioè l’Economia politica.
40
“Il romanzo delle stragi”
Dal "Corriere della sera" del 14 novembre 1974 col titolo "Che cos'è questo golpe?"
Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è
una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes,
sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli "ignoti" autori materiali
delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi opposte, fasi della tensione: una
prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e
Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei
colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una
crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e, in seguito, sempre con l'aiuto e per
ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro
del referendum.
Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato
la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di
un potenziale colpo di Stato), a giovani neofascisti, anzi neonazisti (per creare in concreto
la tensione anticomunista) e infine ai criminali comuni, fino a questo momento, e forse per
sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista).
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici
come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città
Ducale (mentre i boschi bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente organizzativi
come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno
scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a
disposizione, come killers e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono
resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che
succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o
che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e
frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove
sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile
che il "progetto di romanzo" sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che
i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri
intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere.
Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il 1968
non è poi così difficile.
Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di
interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per
sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro
all'editoriale del "Corriere della Sera", del 1° novembre 1974 [L'editoriale di Paolo
Meneghini era intitolato "L'ex-capo del Sid, generale Miceli arrestato per cospirazione
41
politica]. Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli
indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente
degli indizi, non fanno i nomi. A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a
chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col
potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha
né prove né indizi. Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti
pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla
possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei
entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere),
compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta
probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza
ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio
intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All'intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i
problemi morali e ideologici.
Se egli vien meno a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida
subito (come se non si aspettasse altro che questo) al "tradimento dei chierici". Gridare al
"tradimento dei chierici" è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un'opposizione al potere.
In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi
riferisco naturalmente al Partito comunista italiano. È certo che in questo momento la
presenza di un grande partito all'opposizione come è il Partito comunista italiano è la
salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un
paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese
ignorante, un paese umanistico in un paese consumistico.
In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario
- in un compatto "insieme" di dirigenti, base e votanti - e il resto dell'Italia, si è aperto un
baratro: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un "paese separato",
un'isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col
potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da
nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro
concretezza, nella loro totalità.
È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel "compromesso", realistico, che forse
salverebbe l'Italia dal completo sfacelo: "compromesso" che sarebbe però in realtà una
"alleanza" tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell'altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce
anche il momento relativamente negativo.
La divisione del paese in due paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella
degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e
di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l'ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un
Paese nel Paese, l'opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre
potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi
anch'essi come uomini di potere.
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Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch'essi
hanno deferito all'intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l'intellettuale viene meno
a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma
soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell'opposizione, se hanno - come probabilmente
hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei
comici golpes e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella
misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da
pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi
l'intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data
l'oggettiva situazione di fatto.
L'intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo
dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare
pubblicamente una mozione di sfiducia contro l'intera classe politica. Non è diplomatico,
non è opportuno.
Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e
come può - l'impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di
Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso non pronunciare la mia debole
e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana.
E lo faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali" della democrazia,
credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica
che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo
quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma
piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili
dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere
prove, o almeno indizi.
Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo
"diplomaticamente" di concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana
si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli
saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro
maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori).
Questo sarebbe in definitiva il vero colpo di Stato..
“Il vuoto del potere”
Dal “Corriere della Sera” del 1 febbraio 1975 con il titolo “L’articolo delle lucciole”
La distinzione tra fascismo aggettivo e fascismo sostantivo risale niente meno che al
giornale "Il Politecnico", cioè all'immediato dopoguerra..." Così comincia un intervento di
Franco Fortini sul fascismo ("L'Europeo, 26-12-1974): intervento che, come si dice, io
sottoscrivo tutto, e pienamente. Non posso però sottoscrivere il tendenzioso esordio. Infatti
la distinzione tra "fascismi" fatta sul "Politecnico" non è né pertinente né attuale. Essa
poteva valere ancora fino a circa una decina di anni fa: quando il regime democristiano era
ancora la pura e semplice continuazione del regime fascista. Ma una decina di anni fa, è
successo "qualcosa". "Qualcosa" che non c'era e non era prevedibile non solo ai tempi del
"Politecnico", ma nemmeno un anno prima che accadesse (o addirittura, come vedremo,
mentre accadeva).
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Il confronto reale tra "fascismi" non può essere dunque "cronologicamente", tra il fascismo
fascista e il fascismo democristiano: ma tra il fascismo fascista e il fascismo radicalmente,
totalmente, imprevedibilmente nuovo che è nato da quel "qualcosa" che è successo una
decina di anni fa.
Poiché sono uno scrittore, e scrivo in polemica, o almeno discuto, con altri scrittori, mi si
lasci dare una definizione di carattere poetico-letterario di quel fenomeno che è successo
in Italia una decina di anni fa. Ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso
(e probabilmente a capirlo anche meglio).
Nei primi anni sessanta, a causa dell'inquinamento dell'aria, e, soprattutto, in campagna, a
causa dell'inquinamento dell'acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono
cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi
anni le lucciole non c'erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato:
e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se
stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta).
Quel "qualcosa" che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque "scomparsa
delle lucciole".
Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si
possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate
addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come
giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della
guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa
delle lucciole a oggi. Osserviamole una alla volta.
Prima della scomparsa delle lucciole
La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta. Taccio
su ciò, che a questo proposito, si diceva anche allora, magari appunto nel "Politecnico": la
mancata epurazione, la continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la
Costituzione. E mi soffermo su ciò che ha poi contato in una coscienza storica
retrospettiva. La democrazia che gli antifascisti democristiani opponevano alla dittatura
fascista, era spudoratamente formale.
Si fondava su una maggioranza assoluta ottenuta attraverso i voti di enormi strati di ceti
medi e di enormi masse contadine, gestiti dal Vaticano. Tale gestione del Vaticano era
possibile solo se fondata su un regime totalmente repressivo. In tale universo i "valori" che
contavano erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa, la Patria, la famiglia,
l'obbedienza, la disciplina, l'ordine, il risparmio, la moralità. Tali "valori" (come del resto
durante il fascismo) erano "anche reali": appartenevano cioè alle culture particolari e
concrete che costituivano l'Italia arcaicamente agricola e paleoindustriale. Ma nel
momento in cui venivano assunti a "valori" nazionali non potevano che perdere ogni realtà,
e divenire atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato: il conformismo del potere
fascista e democristiano. Provincialità, rozzezza e ignoranza sia delle "élites" che, a livello
diverso, delle masse, erano uguali sia durante il fascismo sia durante la prima fase del
regime democristiano. Paradigmi di questa ignoranza erano il pragmatismo e il formalismo
vaticani.
Tutto ciò che risulta chiaro e inequivocabilmente oggi, perché allora si nutrivano, da parte
degli intellettuali e degli oppositori, insensate speranze. Si sperava che tutto ciò non fosse
completamente vero, e che la democrazia formale contasse in fondo qualcosa. Ora, prima
di passare alla seconda fase, dovrò dedicare qualche riga al momento di transizione.
Durante la scomparsa delle lucciole
In questo periodo la distinzione tra fascismo e fascismo operata sul "Politecnico" poteva
anche funzionare. Infatti sia il grande paese che si stava formando dentro il paese - cioè la
massa operaia e contadina organizzata dal PCI - sia gli intellettuali anche più avanzati e
critici, non si erano accorti che "le lucciole stavano scomparendo". Essi erano informati
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abbastanza bene dalla sociologia (che in quegli anni aveva messo in crisi il metodo
dell'analisi marxista): ma erano informazioni ancora non vissute, in sostanza formalistiche.
Nessuno poteva sospettare la realtà storica che sarebbe stato l'immediato futuro; né
identificare quello che allora si chiamava "benessere" con lo "sviluppo" che avrebbe
dovuto realizzare in Italia per la prima volta pienamente il "genocidio" di cui nel "Manifesto"
parlava Marx.
Dopo la scomparsa delle lucciole
I "valori" nazionalizzati e quindi falsificati del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico,
di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità
non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi. Essi sopravvivono nel clericofascismo emarginato (anche il MSI in sostanza li ripudia). A sostituirli sono i "valori" di un
nuovo tipo di civiltà, totalmente "altra" rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale.
Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati. Ma in Italia essa è del tutto particolare,
perché si tratta della prima "unificazione" reale subita dal nostro paese; mentre negli altri
paesi essa si sovrappone con una certa logica alla unificazione monarchica e alla ulteriore
unificazione della rivoluzione borghese e industriale. Il trauma italiano del contatto tra
l'"arcaicità" pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo precedente: la
Germania prima di Hitler. Anche qui i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati
distrutti dalla violenta omologazione dell'industrializzazione: con la conseguente
formazione di quelle enormi masse, non più antiche (contadine, artigiane) e non ancor
moderne (borghesi), che hanno costituito il selvaggio, aberrante, imponderabile corpo
delle truppe naziste.
In Italia sta succedendo qualcosa di simile: e con ancora maggiore violenza, poiché
l'industrializzazione degli anni Settanta costituisce una "mutazione" decisiva anche rispetto
a quella tedesca di cinquant'anni fa. Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a
"tempi nuovi", ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui
scadenze sono millenaristiche. Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a
tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo
degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo.
Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo,
questa gente italiana, l'avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in
opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava
di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque "coi miei sensi" il
comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del
popolo italiani, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il
fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla
coscienza. Vanamente il potere "totalitario" iterava e reiterava le sue imposizioni
comportamentistiche: la coscienza non ne era implicata. I "modelli" fascisti non erano che
maschere, da mettere e levare. Quando il fascismo fascista è caduto, tutto è tornato come
prima. Lo si è visto anche in Portogallo: dopo quarant'anni di fascismo, il popolo
portoghese ha celebrato il primo maggio come se l'ultimo lo avesse celebrato l'anno prima.
È ridicolo dunque che Fortini retrodati la distinzione tra fascismo e fascismo al primo
dopoguerra: la distinzione tra il fascismo fascista e il fascismo di questa seconda fase del
potere democristiano non solo non ha confronti nella nostra storia, ma probabilmente
nell'intera storia.
Io tuttavia non scrivo il presente articolo solo per polemizzare su questo punto, benché
esso mi stia molto a cuore. Scrivo il presente articolo in realtà per una ragione molto
diversa. Eccola.
Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento dei potenti democristiani:
in pochi mesi, essi sono diventati delle maschere funebri. È vero: essi continuano a
sfoderare radiosi sorrisi, di una sincerità incredibile. Nelle loro pupille si raggruma della
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vera, beata luce di buon umore. Quando non si tratti dell'ammiccante luce dell'arguzia e
della furberia. Cosa che agli elettori piace, pare, quanto la piena felicità. Inoltre, i nostri
potenti continuano imperterriti i loro sproloqui incomprensibili; in cui galleggiano i "flatus
vocis" delle solite promesse stereotipe. In realtà essi sono appunto delle maschere. Son
certo che, a sollevare quelle maschere, non si troverebbe nemmeno un mucchio d'ossa o
di cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto. La spiegazione è semplice: oggi in realtà in Italia c'è
un drammatico vuoto di potere. Ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo o
esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un
qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé.
Come siamo giunti, a questo vuoto? O, meglio, "come ci sono giunti gli uomini di potere?".
La spiegazione, ancora, è semplice: gli uomini di potere democristiani sono passati dalla
"fase delle lucciole" alla "fase della scomparsa delle lucciole" senza accorgersene. Per
quanto ciò possa sembrare prossimo alla criminalità la loro inconsapevolezza su questo
punto è stata assoluta; non hanno sospettato minimamente che il potere, che essi
detenevano e gestivano, non stava semplicemente subendo una "normale" evoluzione,
ma sta cambiando radicalmente natura.
Essi si sono illusi che nel loro regime tutto sostanzialmente sarebbe stato uguale: che, per
esempio, avrebbero potuto contare in eterno sul Vaticano: senza accorgersi che il potere,
che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, non sapeva più che farsene del
Vaticano quale centro di vita contadina, retrograda, povera. Essi si erano illusi di poter
contare in eterno su un esercito nazionalista (come appunto i loro predecessori fascisti): e
non vedevano che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, già
manovrava per gettare la base di eserciti nuovi in quanto transnazionali, quasi polizie
tecnocratiche. E lo stesso si dica per la famiglia, costretta, senza soluzione di continuità
dai tempi del fascismo, al risparmio, alla moralità: ora il potere dei consumi imponeva a
essa cambiamenti radicali nel senso della modernità, fino ad accettare il divorzio, e ormai,
potenzialmente, tutto il resto, senza più limiti (o almeno fino ai limiti consentiti dalla
permissività del nuovo potere, peggio che totalitario in quanto violentemente totalizzante).
Gli uomini del potere democristiani hanno subito tutto questo, credendo di amministrarselo
e soprattutto di manipolarselo. Non si sono accorti che esso era "altro": incommensurabile
non solo a loro ma a tutta una forma di civiltà. Come sempre (cfr. Gramsci) solo nella
lingua si sono avuti dei sintomi. Nella fase di transizione - ossia "durante" la scomparsa
delle lucciole - gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro
modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto
incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica
correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono
state, organizzate dal '69 ad oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare
comunque il potere.
Dico formalmente perché, ripeto, nella realtà, i potenti democristiani coprono con la loro
manovra da automi e i loro sorrisi, il vuoto. Il potere reale procede senza di loro: ed essi
non hanno più nelle mani che quegli inutili apparati che, di essi, rendono reale nient'altro
che il luttuoso doppiopetto.
Tuttavia nella storia il "vuoto" non può sussistere: esso può essere predicato solo in
astratto e per assurdo. È probabile che in effetti il "vuoto" di cui parlo stia già riempiendosi,
attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l'intera nazione. Ne
è un indice ad esempio l'attesa "morbosa" del colpo di Stato. Quasi che si trattasse
soltanto di "sostituire" il gruppo di uomini che ci ha tanto spaventosamente governati per
trenta anni, portando l'Italia al disastro economico, ecologico, urbanistico, antropologico.
In realtà la falsa sostituzione di queste "teste di legno" (non meno, anzi più funereamente
carnevalesche), attuata attraverso l'artificiale rinforzamento dei vecchi apparati del potere
fascista, non servirebbe a niente (e sia chiaro che, in tal caso, la "truppa" sarebbe, già per
sua costituzione, nazista). Il potere reale che da una decina di anni le "teste di legno"
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hanno servito senza accorgersi della sua realtà: ecco qualcosa che potrebbe aver già
riempito il "vuoto" (vanificando anche la possibile partecipazione al governo del grande
paese comunista che è nato nello sfacelo dell'Italia: perché non si tratta di "governare"). Di
tale "potere reale" noi abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche: non sappiamo
raffigurarci quali "forme" esso assumerebbe sostituendosi direttamente ai servi che l'hanno
preso per una semplice "modernizzazione" di tecniche. Ad ogni modo, quanto a me (se ciò
ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l'intera
Montedison per una lucciola.
“Pasolini e le ultime illusioni”
di Franco Fortini, da “Il Corriere della Sera” (1977)
Questi dialoghi con i lettori sono soprattutto dialoghi con dei comunisti, anzi con il
comunismo italiano. C'è spesso, del Pasolini migliore, non solo l'ininterrotto calore della
mente, la volontà di capire e di essere capito, e quella pazienza pedagogica che Zanzotto
ha così bene messo in evidenza; c'è anche - e anche questo fa parte del Pasolini migliore
- una volontà di essere accettato, di avere un pubblico visibile.
Sono di quelli cui ha dato e continua a dar noia la mitografia editoriale su Pasolini; di quelli
che preferiscono inoltrarsi odiosi, incomprensivi, ingiusti - ché tale sono stato con Pasolini
vivo - piuttosto che spartire una qualità di ammirazione e di liturgia repellente, in
particolare quella votata alla memoria necrofila dell'assassinato. Essa mi pare non troppo
diversa dalla diffamazione a bassa voce che della sua poesia va diffondendosi ad opera di
quelli cui egli aveva, da vivo, data troppa ombra. Eppure m'è difficile resistere alla simpatia
per queste pagine: ricchissime non solo di 'chiavi' per le più complesse opere del loro
autore ma soprattutto per due costanti, fra loro congiunte, quella del rapporto fra
socialismo e cristianesimo e quella della riflessione sul linguaggio. Quest'ultima (mi fa
notare la sensibilità, anche professionale, di Pier Vincenzo Mengaldo) è qui al centro di
alcuni dei passi migliori: l'intelligenza poetica di Pasolini gli fa intendere che per lui, ossia
per la sua opera, i temi e gli interrogativi del linguaggio traspongono proprio quelli, etici e
politici, dell''umile Italia' cattolica e della 'speranza' comunista. Avverti qui quasi tutti i nessi
dolorosi e vitali di una fase di liquidazione, ossia di una ancora forte capacità poetica che
sta però lasciando la pagina lirica per l'avventura cinematografica.
Il tono con cui Pasolini parla ai suoi corrispondenti ha l'appassionata capacità di speranza
che fu degli anni Cinquanta. Non è lontano neanche l'accento del "Politecnico". E nello
stesso tempo avverti qualche impazienza e delusione. Quelli che scrivono a "Vie Nuove" e
gli argomenti ai quali si chiede risposta, sempre più si rivelano lontani dalla 'base'
postresistenziale mitizzata e sempre più subalterni alla cultura piccolo-borghese. Pasolini
a poco a poco avverte la impossibilità di mantenere un dialogo che si svolge ormai su temi
invecchiati. Prepara e inizia (dopo il Vangelo e il suo successo internazionale) quella
dilatazione, anche geografica, dei propri interessi che egli formulerà spesso come
allontanamento da una patria che non vuole comprendere più e che si tradurrà nella
spirale di angoscia, di chiaroveggenza e di autodistruzione dei suoi ultimi anni.
In questi dialoghi giornalistici si consuma una delle ultime illusioni post-resistenziali: quella
di un dialogo, appunto, fra un 'popolo' e un 'intellettuale' sotto il segno di un grande partito
democratico-popolare. È impressionante, qui, l'assenza di riferimenti al moto intellettuale e
politico che veniva crescendo in Lombardia e in Piemonte, o la incredibile sottovalutazione
di quanto stava accadendo in Cina e nel Sudest asiatico. La scena, appena accennata,
della incomprensione fra gli intellettuali di Praga e l'ospite Pasolini; quella, ancora più
recente e ancora più grave, dell'incontro con Lukács, danno la misura di come il poeta
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delle Ceneri fosse entrato negli anni Sessanta con una incomparabile vitalità ma con un
bagaglio ideologico-politico piuttosto leggero; che era poi quello di "Officina". E questo può
spiegare tanto l'impeto dei suoi interessi linguistici e semiologici degli anni successivi, con
cui ritrovava gli studi e i maestri di vent'anni prima, quanto l'incomprensione degli anni
1967-70, fisso come rimase ad una immagine mitica del Nord industriale e contadino
(Teorema) e alla irritata, e irretita, di una Roma popolata da studenti neoborghesi.
Credo che queste pagine scritte in difesa di un ottimismo che di giorno in giorno si allenta
e corrompe saranno molto utili non tanto a chi voglia conoscere qualcosa di ignorato sulla
persona poetica di Pasolini quanto a chi voglia comprendere il decennio che va dalle
rivolte in Polonia e Ungheria a quelle della gioventù europea. Un ottimismo e una illusione
che gli ultimi tempi hanno distrutto, distruggendo quindi anche Pasolini. Si contempla oggi
stupefatti la somma delle menzogne 'democratiche' che ormai dalla quasi totalità
dell'orizzonte le parti politiche ci vengono raccontando e che zelanti intellettuali vanno
ripetendo. Chi, come me, è persuaso che continuando per la via presente l''ordine' porterà,
nel giro di qualche anno, alla pratica generalizzazione della tortura sul territorio nazionale,
anche in pagine come queste si interroga sul punto sociale e politico che proprio in quegli
anni, fra il 1960 e il 1965, avrebbe indotto, in Italia e nel mondo, l'accelerazione del
secondo quinquennio, e poi il contraccolpo di una reazione durissima. Questa ha
immobilizzato e medusato tutta una generazione europea, ha ucciso i più sensibili e
generosi, ha travolto nella destabilizzazione ideologica anche i maggiori centri di attività
intellettuali, ha restituito milioni di giovani all'angoscia personale e lasciato le redini della
società europea a politici senza speranza.
“Aboliamo la tv e la scuola dell’obbligo”
di Pier Paolo Pasolini, dal “Corriere della Sera” del 18 ottobre 1975
I vari casi di criminalità che riempiono apocalitticamente la cronaca dei giornali e la nostra
coscienza abbastanza atterrita, non sono casi: sono, evidentemente, casi estremi di un
modo di essere criminale diffuso e profondo: di massa.
Infatti i criminali non sono solo i neofascisti. Ultimamente un episodio (il massacro di una
ragazza al Circeo) ha improvvisamente alleggerito tutte le coscienze e fatto tirare un
grande respiro di sollievo: perché i colpevoli del massacro erano appunto dei pariolini
fascisti. Dunque c'era da rallegrarsi per due ragioni: 1) per la conferma del fatto che sono
solo e sempre fascisti la colpa di tutto; 2) per la conferma del fatto che la colpa è solo e
sempre dei borghesi privilegiati e corrotti. La gioia di sentirsi confermati in questo antico
sentimento populista - e nella solidità dell'annessa configurazione morale - non è esplosa
solo nei giornali comunisti, ma in tutta la stampa (che dopo il 15 giugno ha una gran paura
di essere a meno appunto dei comunisti). In realtà la stampa borghese è stata
letteralmente felice di poter colpevolizzare i delinquenti dei Parioli, perché,
colpevolizzandoli tanto drammaticamente, li privilegiava (solo i drammi borghesi hanno
vero valore e interesse) e nel tempo stesso poteva crogiolarsi nella vecchia idea che dei
delitti proletari e sottoproletari è inutile occuparsi più che tanto, dato che è
aprioristicamente assodato che proletari e sottoproletari sono delinquenti.
Io penso dunque che anche il massacro del Circeo abbia scatenato in Italia la solita
offensiva ondata di stupidità giornalistica. Infatti, ripeto, i criminali non sono affatto solo i
neofascisti, ma sono anche allo stesso modo e con la stessa coscienza, i proletari o i
sottoproletari, che magari hanno votato comunista il 15 giugno. Si pensi al delitto dei
fratelli Carlino di Torpignattara, o all'aggressione di Cinecittà (un ragazzo percosso
brutalmente e chiuso dentro il baule della macchina e la ragazza violentata e seviziata da
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sette giovani della periferia romana). Questi delinquenti "popolari" - e per ora mi riferisco,
con precisione documentata, ai soli fratelli Carlino - godevano della stessa identica libertà
condizionale che i delinquenti dei Parioli; godevano cioè della stessa impunità. E' assurdo
dunque accusare i giudici che hanno mandato in giro "a piede libero" i neofascisti se non
si accusano nello stesso tempo e con la stessa fermezza i giudici che hanno mandato in
giro "a piede libero" i fratelli Carlino (e altre migliaia di giovani delinquenti delle borgate
romane).
La realtà è la seguente: i casi estremi di criminalità derivano da un ambiente criminaloide
di massa. Occorrono migliaia di casi come quelli della festicciola sadica del Circeo o di
aggressività brutale per ragioni di traffico, perché si realizzino casi come quelli dei sadici
pariolini o dei sadici di Torpignattara. Quanto a me, lo dico ormai da qualche anno che
l'universo popolare romano è universo "odioso". Lo dico con scandalo dei benpensanti; e
soprattutto con scandalo dei benpensanti che non credono di esserlo. E ne ho anche
indicato le ragioni (perdita da parte di giovani del popolo dei propri valori morali, cioè della
propria cultura particolaristica, coi suoi schemi di comportamento eccetera). E a proposito,
poi, di un universo criminaloide come quello popolare romano bisognerà dire che non
valgono le consuete attenuanti populistiche: è necessario munirsi della stessa rigidità
puritana e punitiva che siamo soliti sfoggiare contro le manifestazioni criminaloide
dell'infima borghesia neofascista. Infatti i giovani proletari e sottoproletari romani
appartengono ormai totalmente all'universo piccolo borghese: il modello piccolo borghese
è stato loro definitivamente imposto, una volta per sempre. E i loro modelli concreti sono
proprio quei piccoli borghesi idioti e feroci che essi, ai bei tempi, hanno tanto e così
spiritosamente disprezzato come ridicole e ripugnanti nullità. Non per niente i seviziatori
sottoproletari della ragazza di Cinecittà, usando di lei come di una "cosa", le dicevano:
"Bada che ti facciamo quello che hanno fatto a Rosaria Lopez". La mia esperienza privata,
quotidiana, esistenziale - che oppongo ancora una volta all'offensiva astrattezza e
approssimazione dei giornalisti e dei politici che non vivono queste cose - m'insegna che
non c'è più alcuna differenza vera nell'atteggiamento verso il reale e nel conseguente
comportamento tra i borghesi dei Parioli e i sottoproletari delle borgate. La stessa
enigmatica faccia sorridente e livida indica la loro imponderabilità morale (il loro essere
sospesi tra la perdita di vecchi valori e la mancata acquisizione di nuovi: la totale
mancanza di ogni opinione sulla propria "funzione").
Un'altra cosa che l'esperienza diretta m'insegna è che questo è un fenomeno totalmente
italiano. Fa parte del conformismo, peraltro antiquato, dell'informazione italiana il
consolarsi col fatto che anche negli altri Paesi esiste il problema della criminalità: esso
esiste, è vero: ma si pone in un mondo dove le istituzioni borghesi restano solide ed
efficienti, e continuano a offrire dunque una contropartita.
Che cos'è che ha trasformato i proletari e i sottoproletari italiani, sostanzialmente, in
piccolo borghesi, divorati, per di più, dall'ansia economica di esserlo? Che cos'è che ha
trasformato le "masse" dei giovani in "masse" di criminaloidi? L'ho detto e ripetuto ormai
decine di volte: una "seconda" rivoluzione industriale che in realtà in Italia è la "prima": il
consumismo che ha distrutto cinicamente un mondo "reale", trasformandolo in una totale
irrealtà, dove non c'è più scelta possibile tra male e bene. Donde l'ambiguità che
caratterizza i criminali: e la loro ferocia, prodotta dall'assoluta mancanza di ogni
tradizionale conflitto interiore. Non c'è stata in loro scelta tra male e bene: ma una scelta
tuttavia c'è stata: la scelta dell'impietrimento, della mancanza di ogni pietà.
Si lamenta in Italia la mancanza di una moderna efficienza poliziesca contro la
delinquenza. Cioè che io soprattutto lamenterei è la mancanza di una coscienza informata
di tutto questo, e la sopravvivenza di una retorica progressista che non ha più nulla a che
fare con la realtà. Bisogna oggi essere progressisti in un altro mondo; inventare una nuova
maniera di essere liberi, soprattutto nel giudicare, appunto, che ha scelto la fine della
pietà. Bisogna ammettere una volta per sempre il fallimento della tolleranza. Che è stata,
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s'intende, una falsa tolleranza, ed è stata una delle cause più rilevanti nella degenerazione
della masse dei giovani. Bisogna insomma comportarsi, nel giudicare, di conseguenza e
non a priori (l'a priori progressista valido fino a una decina d'anni fa).
Quali sono le mie due modeste proposte per eliminare la criminalità? Sono due proposte
swiftiane, come la loro definizione umoristica non si cura minimamente di nascondere.
1) Abolire immediatamente la scuola media dell'obbligo.
2) Abolire immediatamente la televisione. Quanto agli insegnanti e agli impiegati della
televisione possono anche non essere mangiati, come suggerirebbe Swift: ma
semplicemente possono essere messi sotto cassa integrazione.
La scuola d'obbligo è una scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si
insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori (cioè
quando si invita adulatoriamente ad applicare la falsa democraticità dell'autogestione, del
decentramento ecc.: tutto un imbroglio). Inoltre una nozione è dinamica solo se include la
propria espansione e approfondimento: imparare un po' di storia ha senso solo se si
proietta nel futuro la possibilità di una reale cultura storica. Altrimenti, le nozioni
marciscono: nascono morte, non avendo futuro, e la loro funzione dunque altro non è che
creare, col loro insieme, un piccolo borghese schiavo al posto di un proletario o di un
sottoproletario libero (cioè appartenente a un'altra cultura, che lo lascia vergine a capire
eventualmente nuove cose reali, mentre è ben chiaro che chi ha fatto la scuola d'obbligo è
prigioniero del proprio infimo cerchio di sapere, e si scandalizza di fronte ad ogni novità).
Una buona quinta elementare basta oggi in Italia a un operaio e a suo figlio. Illuderlo di un
avanzamento che è una degradazione è delittuoso: perché lo rende: primo, presuntuoso
(a causa di quelle due miserabili cose che ha imparato); secondo (e spesso
contemporaneamente), angosciamente frustrato, perché quelle due cose che ha imparato
altro non gli procurano che la coscienza della propria ignoranza. Certo arrivare fino
all'ottava classe anziché alla quinta, o meglio, arrivare alla quindicesima classe, sarebbe,
per me, come per tutti, l'optimum, suppongo. Ma poiché oggi in Italia la scuola d'obbligo è
esattamente come io l'ho descritta (e mi angoscia letteralmente l'idea che vi venga
aggiunta una "educazione sessuale", magari così come la intende lo stesso "Paese
Sera"), è meglio abolirla in attesa di tempi migliori: cioè di un altro sviluppo. (E' questo il
nodo della questione).
Quanto alla televisione non voglio spendere ulteriori parole: cioè che ho detto a proposito
della scuola d'obbligo va moltiplicato all'infinito, dato che si tratta non di un insegnamento,
ma di un "esempio": i "modelli" cioè, attraverso la televisione, non vengono parlati, ma
rappresentati. E se i modelli son quelli, come si può pretendere che la gioventù più
esposta e indifesa non sia criminaloide o criminale? E' stata la televisione che ha,
praticamente (essa non è che un mezzo), concluso l'era della pietà, e iniziato l'era
dell'edonè. Era in cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e
insieme dell'irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione,
tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino alla
infelicità (che non è una colpa minore).
Ora, ogni apertura a sinistra sia della scuola che della televisione non è servita a nulla: la
scuola e il video sono autoritari perché statali, e lo Stato è la nuova produzione
(produzione di umanità). Se dunque i progressisti hanno veramente a cuore la condizione
antropologica di un popolo, si uniscano intrepidamente a pretendere l'immediata
cessazione delle lezioni alla scuola d'obbligo e delle trasmissioni televisive. Non sarebbe
nulla, ma sarebbe anche molto: un Quarticciolo senza abominevoli scuolette e
abbandonato alle sue sere e alle sue notti, forse sarebbe aiutato a ritrovare un proprio
modello di vita. Posteriore a quello di una volta, e anteriore rispetto a quello presente.
Altrimenti tutto ciò che si dice sul decentramento è scioccamente aprioristico o in pura
malafede. Quanto ai collegamenti informativi del Quarticciolo - come di qualsiasi altro
"luogo culturale" - col resto del mondo, sarebbero sufficienti a garantirgli i giornali murali e
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"l'Unità": e soprattutto il lavoro, che, in un simile contesto, assumerebbe naturalmente un
altro senso, tenendo a unificare una buona volta, e per autodecisione, il tenore di vita con
la vita.
“Il mio corpo nella lotta”
di Enzo Siciliano, dal “Corriere della Sera” del 25 ottobre 1992
Nel postumo "Il poeta delle "Ceneri", autobiografia in versi, come dettata a un
intervistatore americano - sono versi del 1966 -, parlando di progetti futuri, Pasolini,
scrisse: "...io vorrei soltanto vivere . pur essendo poeta - perché la vita si esprime anche
solo con se stessa. - Vorrei esprimermi con gli esempi. - Gettare il mio corpo nella lotta. .
Ma se le azioni della vita sono espressive, - anche l' espressione è azione...". Pasolini, lo
sappiamo, non avrebbe esitato a gettare il proprio corpo nella lotta: ma ve lo gettò da
scrittore, con le polemiche corsare e luterane. Aveva un'ossessione: che l'Italia stesse
vivendo un processo di adattamento alla propria degradazione - "un paese spoliticizzato,
un corpo morto i cui riflessi non sono che meccanici". Di quel processo volle essere
insieme il giudice e il ministro. Le accuse che pronunò erano violente, e la sua violenza
era quella di un innamorato. La nostra letteratura conosce pochi scrittori innamorati, come
Pasolini lo fu, dell'Italia intera, della sua cultura, del suo paesaggio, della sua gente. Negli
ultimi due tre anni di vita scrisse cinquecento cartelle di un romanzo che ne avrebbe
dovuto contare duemila (così diceva), "Petrolio", dove il furore di quelle accuse e della
passione innamorata sembrano confondersi in una drammatica necessà sacrificale. Oggi
si annuncia la pubblicazione, da parte della Einaudi, delle cinquecento cartelle incompiute.
"Petrolio" è dunque, in circa seicento pagine a stampa, il risultato di un lungo lavoro
filologico eseguito sotto la guida di Aurelio Roncaglia, un lavoro che pare abbia reso
semplice, nei limiti del possibile, la lettura di un testo tormentato da pentimenti, da rotture,
anche da vuoti che restano tali. Nel libro, è la crisi italiana, una crisi culturale oltre che
politica, a essere con prepotenza in primo piano. Lo sfondo è la società burocratica di
Roma, quella che intreccia i propri affari e ricava sostentamento nei luoghi del potere
finanziario e statale. E il "Palazzo" che ci si spalanca davanti, con tutti i nomi e i cognomi
di sempre, travolto dalla fantasia pasoliniana e divenuto luogo di non troppo romanzesche
infamie. Contro e dentro quel "Palazzo", ecco muoversi il protagonista della vicenda, un
uomo dell'industria petrolifera, una figura sdoppiata, dal profilo androgino, replicante
provocatorio del mondo che lo circonda, suo correlativo dissolutore, e insieme l'opposto,
incarnazione di un bisogno inestinguibile di cambiamento, o della ambigua dolorosa virtù
del cambiamento. Questo doppio protagonista, doppio nella sessualità , non è estraneo
alla immaginazione narrativa di Pasolini. Nei brogliacci inediti giovanili, quelli da cui fu
ritagliato "Il sogno di una cosa", e ne "La divina mimesis", è già presente. Ma in "Petrolio"
la sostanza è tutta diversa. C' è una rabbia nuova, che ubriaca i fogli del libro incompiuto.
Lo scrittore sembra aggredire un'emozione recalcitrante alla luce che lui stesso vi proietta
sopra; e il lettore ha la sensazione di penetrare in un segreto, non soltanto da officina
letteraria, che non vuole essere violato. E che tuttavia pretende d'essere violato. Le pagine
più felici in senso plastico, di una felicità espressiva dal colore mortuario, sono quelle
erotiche. Mai Pasolini ha rappresentato con tanta sacrale e rabbrividita esplicatezza la
sensualità omosessuale. In una scena notturna, su un prato di periferia, affollato di ragazzi
di vita che si lasciano andare al coito orale con il protagonista duplice e infemminito, come
in un rito che rimargini le ferite dell'anima e insieme le unga di sale, è possibile avvertire
quanta straziata esperienza umana vi sia sigillata, quanto di vissuto e di disperatamente
incompiuto. La passione erotica, in quelle pagine, è una recidiva, un ritmo ripetitivo che
rende la vita crudelmente sempre identica a se stessa. In una intervista rilasciata in
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Francia, al settimanale "Lui", Pasolini aveva detto: "Io divoro la mia esistenza con un
appetito insaziabile. Come finirà tutto ciò? Lo ignoro. (...) Sono scandaloso. Lo sono nella
misura in cui tendo una corda, anzi un cordone ombelicale, tra il sacro e il profano". Credo
che "Petrolio" rappresentasse per lui la chance estrema per lo scandalo. Aveva chiesto,
sulla metà dell'ottobre 1975, a Dino Pedriali che lo fotografasse nudo, da fuori la vetrata
della sua stanza da letto alla Torre di Chia. Gli disse che le foto avrebbero dovuto illustrare
il romanzo cui stava lavorando. Negli scatti di Pedriali pare notte all'esterno: dentro la
stanza c' è una cruda luce elettrica. In quella luce, una muscolatura da calciatore, il corpo
asciutto semisdraiato sulla coperta bianca del letto, o in piedi vicino al cassettone, il sesso
esibito, Pasolini sfoglia un libro. Nella sua fisicità non c'è scandalo. Assorbito nella lettura,
mostra indifferenza all'atto, una forma di pudicizia sostanziale che sventa qualsiasi
illazione. In quell'immagine è la metafora visibile del suo essere tragicamente teso fra il
sacro e il profano. Lo scandalo di "Petrolio", casomai, sta altrove: sta nell'accanimento con
cui Pasolini, un kamikaze, si lancia contro la parete vischiosa della nostra società, nel
modo lucido in cui ne analizza la dissoluzione o la perversa tenacia autoassolutoria. Lo
scandalo sta in pagine come questa: "Degli uomini colti non vi fu uno che avesse il
coraggio di alzare la voce per protestare. Il rischio dell'impopolarità' faceva più paura del
vecchio rischio della verità . "Del resto anche la cultura specializzata era degna del suo
tempo: ormai la sua organizzazione interna era definitivamente pragmatica: i prodotti
intellettuali erano prodotti del loro esserci, come cose o fatti: scommesse perse o vinte. La
malafede era ideologizzata come elemento del modo d'essere colti o addirittura poeti. "Dei
"gruppi" (...) facevano del "potere letterario" il loro fine dichiarato o diretto, non solo senza
pudore, ma addirittura gestendo contemporaneamente una funzione moralistica,
terroristica e ricattatrice, desunta, con inaudita sfacciataggine, dal gauchismo
pateticamente sconfitto. "L'unica realtà che pulsava col ritmo e l'affanno della verità era
quella - spiegata - della produzione, della difesa della moneta, della manutenzione delle
istituzioni essenziali al nuovo potere, e non erano certamente le scuole, né gli ospedali...".
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Bibliografia
Saggi critici
-
A. Banti, Pasolini, “Paragone”, 1955.
A. Moravia, L’uomo medio sotto il bisturi, “L’Espresso”, 3 marzo 1963.
G. C. Ferretti, La contrastata rivolta di Pasolini, in Letteratura e ideologia, Editori
Riuniti, Roma 1963.
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"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini
Autori e curatori: Angela Molteni, Bruno Esposito, Manolo Trinci
Nel sito, negli archivi e nei sommari potrai trovare gli ipertesti, gli interventi,
le notizie contenuti in oltre dodicimila documenti dedicati a Pier Paolo Pasolini
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