L`approccio neuropsicologico allo studio della coscienza: dai
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L`approccio neuropsicologico allo studio della coscienza: dai
L’approccio neuropsicologico allo studio della coscienza: dai resoconti in prima persona ai dati oggettivi ANNA BERTI «C’è qualcosa che non va?» «No, va tutto bene». «Allora perché si trova in ospedale?» «Ho avuto un malore». «Nessun problema al suo braccio sinistro o alla sua gamba sinistra?» «No, sono a posto». «Li può muovere normalmente?» «Certamente». Questa potrebbe sembrare una normale conversazione tra medico e paziente, ma in realtà la situazione a cui si riferisce ha un tratto straordinario che stravolge in modo determinante il significato delle risposte: nonostante affermi il contrario, il paziente è completamente paralizzato sul lato sinistro del corpo. Un ictus ha danneggiato in modo permanente la parte destra del cervello e le capacità motorie che dipendono dall’integrità di quell’emisfero sono del tutto compromesse (da Berti e Neppi-Mòdona, 2012). L’aspetto sorprendente è che il paziente, nonostante le capacità cognitive siano indenni, nega fermamente il problema motorio, quasi non ne avesse… coscienza. 1. Che cosa intendiamo per «coscienza» I diversi articoli di questa raccolta, dimostrano come il termine coscienza possa essere declinato in ambiti culturali e sociali molto differenti tra loro, nei quali l’oggetto di indagine a cui il termine si riferisce cambia a seconda del contesto (etico/giuridico, filosofico, affettivo, artistico o neuroscientifico). Nel mio intervento il dominio di interesse è quello neuroscientifico dove il termine coscienza viene utilizzato per indicare la capacità che hanno gli individui di essere consapevoli di sé, dei propri stati mentali, delle proprie azioni, sensazioni, emozioni. L’approccio utilizzato nelle ricerche che verranno brevemente descritte è quello neuropsicologico che, avvalendosi dello studio di pazienti con alterazioni del comportamento cognitivo, causate da lesioni cerebrali circoscritte, consente di trarre delle inferenze, e proporre delle ipotesi, sul funzionamento normale dei sistemi di coscienza. 1.1 Una sorta di concezione intuitiva, pre-filosofica, dell’idea di coscienza sembra guidarci nei discorsi di senso comune nei quali l’assunzione implicita è che ci sia una completa condivisione del significato della parola e del referente. Quando, nella vita di tutti i giorni, diciamo di «vedere un oggetto», «sentire un suono», «percepire un profumo», oppure quando viviamo con partecipazione diretta, in prima persona, le nostre azioni, ci riferiamo al fatto di essere consapevoli di ciò che ci sta accadendo o delle azioni che compiamo. Questo aspetto del nostro comportamento può sembrare talmente ovvio, immediato e auto-evidente da non necessitare di alcuna ulteriore definizione. In realtà, anche se in generale per coscienza, in ambito neuroscientifico, si intende un costrutto 1 psicologico che si riferisce ai meccanismi di generazione ed elaborazione della consapevolezza del sé e delle proprie sensazioni, una definizione conclusiva del termine non è mai stata universalmente accettata (Marcel e Bisiach, 1988). Anche in ambito neuropsicologico gli usi del termine coscienza non sono univoci. Secondo alcuni autori la coscienza coincide con funzioni come l’attenzione, la memoria, o il linguaggio. Per esempio, la coscienza è stata assimilata al fuoco attenzionale dove un’amplificazione dei meccanismi di elaborazione dell’informazione consente l’estrazione dei dati fondamentali per dare risposte utili rispetto alla situazione ambientale in cui si trova il soggetto (Posner, 1994). Secondo altre interpretazioni, la coscienza dipende da ciò che riusciamo a ricordare o a elaborare nell’immediato, ma basandoci sui dati dell’esperienza passata (Edelman, 1989). Per altre ancora la coscienza coincide con la possibilità di interpretazione linguistica (da parte dell’emisfero cerebrale sinistro) degli eventi elaborati dai moduli sensoriali e cognitivi distribuiti nel cervello (Gazzaniga, 1988, 2005). Molti autori (per esempio Bisiach, 1988) la considerano un sistema di monitoraggio insito nei diversi sistemi funzionali, che genera convinzioni private nell’individuo riguardo alla sua situazione, in un determinato momento, rispetto all’ambiente interno o esterno, con chiaro riferimento al vissuto esperienziale del soggetto. In questa prospettiva, Marcel (1988) afferma che «se non avessimo esperienza fenomenica non potremmo avere nessun concetto di coscienza». Questa accezione del termine coscienza, attribuendo interesse ai resoconti esperienziali in prima persona, è, come vedremo, spesso non condivisa da chi ritiene che gli oggetti della ricerca scientifica debbano essere necessariamente indagati in terza persona. 2. Legittimità scientifica degli studi sulla coscienza Poiché, quindi, il concetto di coscienza viene spesso riferito a processi e contenuti mentali diversi tra loro, la realtà a cui allude sembra essere sfuggente e difficilmente individuabile. Questo è soprattutto vero se si considerano i cervelli «normali», dove l’inestricabile co-occorrenza di elaborazioni neurali nasconde l’aspetto composito della cognizione umana. L’esperienza che abbiamo di noi stessi, caratterizzata da una sensazione di coerenza e unitarietà, ha spesso scoraggiato lo studio della coscienza proprio perché non la si avverte come un processo separabile dalle altre operazioni mentali. Il tentativo di trovare una definizione condivisa relativa a che cosa caratterizzi i processi consapevoli ha, inoltre, risentito delle riserve teoriche e metodologiche sulla possibilità di uno studio scientifico della coscienza. Queste riserve, che talvolta, come vedremo, assumono il carattere di veri e propri pregiudizi, hanno le loro radici nella contrapposizione cartesiana tra mente e corpo. Infatti, l’idea secondo cui l’uomo sarebbe costituito da due sostanze ontologicamente distinte, la rex extensa, la materia, dotata di estensione spaziale, della quale fanno parte i corpi e, quindi, anche il cervello, e la res cogitans, sostanza inestesa, dotata dell’attributo del pensiero, ha, nella pratica, rallentato, se non impedito, lo studio della coscienza come fenomeno riconducibile a eventi fisici. Infatti, nonostante nell’opera di Cartesio la coscienza occupi un posto centrale nella mente e rappresenti l’elemento fondante della definizione dell’Io, essa non può nascere dalla materia perché rex extensa e rex cogitans, diverse nella sostanza e regolate da principi differenti, non possono essere ricondotte l’una all’altra, né spiegabili l’una con l’altra. Di conseguenza nella visione cartesiana e, vedremo, nelle varianti neo-cartesiane, gli stati coscienti della mente non corrispondono agli stati fisici del cervello. Lo studio psicologico relativo agli stati mentali non può quindi avvalersi delle conoscenze delle caratteristiche «meccaniche» del sistema nervoso e i contenuti di coscienza non sono esplorabili con l’armamentario tipico delle scienze 2 naturali, ma solo seguendo la metodologia, non oggettiva, ma soggettiva, dello sguardo interiore. Questa cifra interpretativa assumendo l’estraneità della realtà ontologica dei contenuti mentali rispetto alle leggi del mondo fisico, di fatto decreta l’impossibilità dello studio scientifico della coscienza, considerandola un oggetto teoricamente e metodologicamente estraneo al contesto naturale. Non è possibile qui riassumere le varie correnti di pensiero che si sono susseguite da Cartesio in poi e che si sono più o meno direttamente occupate del problema mente-corpo. È però opportuno ricordare, prima di addentrarci più specificamente nel tema di questo intervento, che anche in epoca moderna lo studio della coscienza non è stato sempre accettato e condiviso dagli studiosi di campi comunque coinvolti nelle ricerche sulla psiche. Le domande relative all’ontologia della coscienza e al metodo di indagine adeguato per cogliere gli aspetti essenziali dei meccanismi di consapevolezza sono state spesso determinate, suggerite o impedite dai paradigmi dominanti in campo filosofico e/o psicologico. Ad esempio, nella teorizzazione di Wundt (1896) (considerato il padre della psicologia scientifica), influenzata dal clima culturale dell’empirismo inglese, si fa strada la convinzione che sia possibile, e teoricamente pregnante, esplorare i contenuti di coscienza attraverso il metodo introspettivo, che, sebbene valuti gli aspetti privati dell’esperienza, ammette, attraverso il suo impiego, la possibilità di un referente oggettivo di studio. James (1890) non solo condivide la necessità di una ricognizione sperimentale dei flussi di coscienza, ma si pone, darwinianamente, il problema, attualissimo e molto discusso nella letteratura contemporanea di quale sia la reale funzione adattativa dei processi coscienti. Assumendo posizioni non lontane da Brentano (1874), che indica nel carattere intenzionale della coscienza il suo aspetto fondante, James la considera come una corrente continua di pensieri che, interfacciandosi con il mondo esterno e tenendo conto degli stati interni del soggetto, guida il comportamento sugli stimoli ambientali. La forte impronta naturalistica data agli studi psicologici dalla scuola di Wundt ha avuto il merito di porsi il problema dello studio dei contenuti mentali coscienti, a prescindere dal problema ontologico della natura della sostanza pensante, così che l’esplorazione empirica della coscienza comincia ad essere ammessa in determinate circostanze sperimentali, per quanto possibile controllate e ripetibili. L’approccio ancora soggettivo del metodo introspettivo proposto dalla scuola di Wundt era destinato, però, a essere bandito dalla ricerca psicologica con l’avvento del comportamentismo che, spinto da una necessità estrema di oggettivizzazione degli studi psicologici, respinge l’indagine privata dei contenuti di coscienza perché non documentabile e quantificabile con le tecniche tipiche di laboratorio. La nuova opzione psicologica che scaturisce da questo clima culturale, rifiutando l’introspezione come metodo di conoscenza, riconosce come dati validi solo quelli che si ricavano dall’osservazione del comportamento direttamente osservabile, descrivibile in terza persona e traducibile in variabili matematicamente misurabili (si vedano a questo proposito Watson, 1913 e Ryle, 1949). Anche se bandito dagli studi psicologici per un lungo periodo del secolo scorso, il problema di che cosa sia e a che cosa serva la coscienza si impone in ambito neurologico dove la ricerca attenta e sistematica dei disturbi cognitivi provocati dalle lesioni cerebrali cominciava a suscitare interesse e a guidare le prime ricerche su quello che poteva essere svelato della mente dalle situazioni patologiche. Al di fuori delle scuole di psicologia, la neuropsicologia comincia a recuperare un vocabolario mentalistico per descrivere e cercare di dare un senso ai sintomi spesso contro-intuitivi che si osservano nei pazienti. Pur ispirandosi ai paradigmi della scienza cognitiva dei processi di elaborazione dell’informazione, che cominciavano a fornire, intorno agli anni 3 sessanta del secolo scorso, un modello multicomponenziale della mente che ben si adattava a essere lesionato in modo circoscritto, la ricerca neuropsicologica mantiene un’indipendenza di metodo che le consente di utilizzare gli aspetti soggettivi delle osservazioni cliniche. Così, mentre la scienza cognitiva mostrava ancora, verso la fine del secolo scorso, una certa cautela nell’utilizzare i resoconti dei pazienti per trarre delle inferenze sulla struttura e la funzione dei processi consapevoli, nella letteratura specialistica neuropsicologica, cominciavano a comparire descrizioni di casi singoli che ponevano in modo perentorio e ineludibile per lo studioso il problema dello stretto rapporto tra lesione focale del cervello e struttura e funzione dei processi coscienti (per esempio, Weiskrantz, 1986). Nonostante ciò, molti autori, soprattutto in campo filosofico, continuano a rifiutare, o a criticare aspramente, la possibilità di uno studio scientifico della coscienza, spesso partendo da posizioni esplicitamente neodualiste dove, di nuovo, si allude a stati ontologicamente diversi di corpo e mente, (si vedano, per esempio, Popper e Eccles, 1977). Altri autori, pur rifiutando qualsiasi affinità con il dualismo cartesiano, sostengono, però, l’irriducibilità dei fenomeni mentali agli stati fisici del cervello. Ad esempio, la relazione tra la conoscenza degli eventi che caratterizzano una scarica neurale quando osserviamo il colore rosso e l’esperienza soggettiva della visione del colore sarebbe talmente indefinita da impedire che i dati oggettivi spieghino il vissuto del soggetto. Quest’ultima posizione è molto ambigua perché, da un lato non dichiara apertamente di basare la propria argomentazione sulla convinzione di una diversità ontologica tra fisico e mentale, dall’altro, negando la possibilità di risalire dai fenomeni neurali osservabili all’esperienza soggettiva, implica che quest’ultima sia un fenomeno extra-neurale e ne decreta, pertanto, l’impenetrabilità conoscitiva in terza persona. Il dualismo negato nel discorso esplicito si realizza de facto. Analogamente le correnti di pensiero filosofico che delegittimano lo studio della coscienza rifiutandone le prerogative causali (epifenomenismo) o addirittura negandone l’esistenza (eliminativismo) contestano qualsiasi validità agli studi empirici sull’argomento. Le varie forme di epifenomenismo (si veda Smith-Churchland, 1986) considerano la coscienza come un orpello senza utilità, risultante dalle complessità delle operazioni neurali sviluppatesi nel corso dell’evoluzione nel cervello umano, ma di fatto inutile per il destino dell’organismo. Secondo questa interpretazione, che non nega a priori la natura fisica e materiali dei fenomeni che darebbero origine alla coscienza sensoriale, i sistemi di consapevolezza sono un prodotto dell’evoluzione, di cui potremmo fare a meno senza modificare le nostre prestazioni e il nostro successo evolutivo. L’emergere della coscienza dalla complessità della struttura e delle operazioni biofisiche sarebbe, quindi, del tutto irrilevante per le prestazioni del soggetto. Alcuni autori insistono sulla possibilità teorica dell’esistenza di un essere vivente (definito da questi filosofi zombie) che risponde in modo appropriato agli stimoli del mondo pur non avendone consapevolezza. Addirittura, secondo Chalmers (1996) anche se Io ho esperienza di essere cosciente, questa esperienza fa parte di un vissuto talmente privato da non fornire nessun dato oggettivo e consistente per attribuire la stessa esperienza anche agli altri, che, pur mostrando azioni e linguaggi simili ai miei, non proverebbero la stessa esperienza soggettiva. Questa posizione, più simile a un atto di fede che a un’ipotesi verificabile, rende completamente inutile lo studio delle caratteristiche, della struttura e della funzione della coscienza perché, qualsiasi esse siano, non hanno effetto causale sul comportamento, visto che gli zombie senza coscienza si comportano esattamente come Me che ce l’ho. In realtà, se è vero che molti comportamenti quotidiani possono essere prodotti senza che ci sia un immediato controllo consapevole su ogni singolo atto motorio, la capacità di produrre, in situazioni non 4 automatiche, delle risposte adeguate che abbiano un senso rispetto a un contesto ecologico, necessita di un sistema di valutazione che migliori le prestazioni sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Come vedremo, i casi neurologici sono molto esemplificativi rispetto a questo punto, dimostrando che i pazienti affetti da alterazioni circoscritte della consapevolezza hanno delle prestazioni che si scostano dalla normalità nonostante il risparmio di aspetti importanti della cognizione. Da un altro punto di vista, quello del materialismo eliminativista (cfr. Smith-Churchland, 1986), il concetto di coscienza viene rifiutato poiché le nostre esperienze fenomeniche (dette anche qualia) non si riferirebbero a una realtà esterna, valutabile oggettivamente, ma sarebbero il prodotto illusorio di resoconti soggettivi (Dennett, 1991). Il materialismo eliminativista è convinto che la ricerca empirica non troverà mai le basi neurali dell’esperienza soggettiva perché di fatto l’esperienza soggettiva non si riferisce a nessuna realtà sostanziale. Questa posizione, che nega apertamente che ci sia qualcosa da studiare corrispondente al termine coscienza, si avvicina alle argomentazioni di chi sostiene che le metodologie naturalistiche non saranno mai in grado di cogliere gli aspetti fondanti dell’esperienza soggettiva. Qui non è l’ontologia a essere messa in discussione, ma la possibilità che la scienza moderna, che si è affrancata dagli aspetti magici e personali delle descrizioni soggettive attraverso le descrizioni quantitative del mondo, si ponga come scopo lo studio di quegli aspetti qualitativi della coscienza che non sono, apparentemente, aggredibili con i metodi delle scienze naturali. In questa prospettiva gli eventi coscienti rimarrebbero impenetrabili alla validazione scientifica (per esempio, Nagel, 1974, 1986), non perché privi di uno status di realtà, ma perché la scienza non ha i metodi per affrontarli. Questi autori tracciano arbitrariamente dei confini alla scienza su un presupposto, quello dell’ignoranza, che ha buone probabilità di rivelarsi errato, come spesso la storia della scienza ha dimostrato in altre occasioni. Nonostante le nostre conoscenze sulle funzioni cerebrali, i meccanismi neurali, le trasmissioni sinaptiche, i mediatori farmacologici siano molto progredite rispetto al secolo scorso, sono infiniti gli aspetti ancora sconosciuti del sistema nervoso soprattutto quando si vogliano relazionare le complesse dinamiche biofisiche agli aspetti psicologici. Questa ignoranza non è però condizione sufficiente per rifiutare a priori il tentativo di studiare le possibili relazioni tra mondo fisico e «mentale». Il fatto di non riuscire a cogliere la relazione con gli strumenti che abbiamo a disposizione non significa che la relazione non esista, ma che le nostre «lenti» non sono ancora abbastanza potenti e/o che il cervello umano non ha ancora raggiunto uno sviluppo cognitivo adeguato per comprendere le proprie dinamiche. 3. Verso l’accettazione dei resoconti soggettivi Nelle posizioni che ho illustrato fin qui, il rifiuto dello studio della coscienza si basa sia su convinzioni e considerazioni di tipo dualistico, difficili da falsificare, poiché propongono una teorizzazione non direttamente verificabile empiricamente, sia su considerazioni di tipo metodologico, che delegittimano l’approccio introspettivo, poiché, indicato come soggettivo e aneddotico, sarebbe inadeguato a un contesto scientifico. A questo proposito Bisiach (1992), in un articolo che aveva come argomento proprio la discussione della plausibilità del concetto di coscienza e dei problemi metodologici che si possono incontrare nell’affrontare i resoconti soggettivi scriveva «Il sospetto che la coscienza non sia un oggetto legittimo di ricerca scientifica è 5 radicato nel pregiudizio culturale che ci induce a guardare alla fisica come il paradigma scientifico par excellence» (traduzione mia). L’autore, pur suggerendo che sarebbe necessario svincolarsi da questo pregiudizio, vede le difficoltà metodologiche dell’utilizzo dei resoconti soggettivi. Arriva, però, a concludere, provocatoriamente, che se attraverso le esperienze riferite dai pazienti si riuscisse ad avere una presa sui contenuti dell’esperienza cosciente, allora gli scienziati dovrebbero accettare di valicare i limiti imposti dalla fisica tradizionale, estendendo il paradigma della scienza ad includere i vissuti soggettivi. Il problema di considerare accettabili, ai fini di trarre delle inferenze generalizzabili, le esperienze riferite in prima persona viene affrontato da Bisiach (1992) proponendo di attribuire agli altri un’esperienza fenomenica per analogia con l’esperienza fenomenica dell’osservatore. Nelle parole di Bisiach: «il garantire un’esperienza fenomenica agli altri è la sola possibilità che abbiamo di imparare indirettamente qualcosa sulla coscienza quando studiamo le conseguenze dei danni cerebrali». Per tornare all’esempio citato più sopra, quando osserviamo un oggetto e lo definiamo di colore rosso e un’altra persona di fronte allo stesso oggetto definirà anch’essa il colore di quell’oggetto «rosso», nulla ci garantisce che l’esperienza di colore, vissuta dalle due persone, sia identica. Infatti, la parola rosso potrebbe essere stata associata, da diversi individui, a esperienze diverse. Ad esempio, di fronte a un determinato colore una persona lo potrebbe percepire come «rosso», un’altra come «verde», ma entrambe, a quella esperienza, attribuiscono, tutte le volte che si presenta, la stessa etichetta verbale. Se fosse così, attraverso l’espressione linguistica non carpiremmo la reale esperienza fenomenica delle persone. In realtà, anche se teoricamente possibile, la maggior parte di noi lo riterrebbe sicuramente molto improbabile. Qui l’argomento di Chalmers viene, quindi, capovolto. Per la coerenza dei nostri comportamenti nel tempo, per la concordanza di diverse esperienze rispetto alle risposte di individui diversi è, invece, più plausibile pensare che la parola «rosso’ corrisponda a un’esperienza condivisa. Analogamente, Bisiach ci suggerisce di attribuire agli altri, di fronte allo stesso evento fisico, la stessa esperienza fenomenica vissuta da noi. Questo ci permetterà di utilizzare, negli studi sulla coscienza, i resoconti dei pazienti perché potremo finalmente considerarli veri e propri dati, cioè variabili indipendenti della ricerca psicologica, meritevoli di valutazione scientifica. Come sottolineato recentemente da Libet (2007): «A meno che non si possa dimostrare una loro manipolazione, o che non vengano contraddette da altre evidenze sperimentali, i resoconti di esperienze consapevoli, ottenuti con una metodologia appropriata, dovrebbero essere considerati sullo stesso piano di altri tipi di evidenze oggettive». Una volta che assestiamo e sviluppiamo il modo in cui definiamo la scienza e le sue metodologie, lo studio della coscienza, anche se problematico, diventa praticabile (vedi anche Marcel, 1988). Il mutato clima culturale e l’incisività dei casi neurologici ha portato i neuropsicologi a rivalutare i resoconti esperienziali, riconoscendo che nella maggior parte dei casi quello che in realtà si osserva in molte sindromi, seguenti a lesioni cerebrali, riguarda proprio l’esperienza cosciente delle persone (Marcel e Bisiach, 1988). A proposito di questo, Larry Waiskrantz nel libro Consciousness lost and found (1997) scrive: «Quanto a me, se non fosse stato per i pazienti che mi hanno costretto ad ammettere che non solo esisteva un problema, ma che era anche un problema affascinante e importante, probabilmente sarei rimasto lontano da ciò che gli scienziati consideravano metafisica e da ciò che i filosofi consideravano confusione». Queste parole spiegano molto bene come il neuropsicologo, a prescindere da posizione teoriche a priori, venga spinto verso lo studio della coscienza dalla forza e dalla pregnanza dei sintomi dei suoi pazienti. 6 4. Dai resoconti dei pazienti ai dati oggettivi: la coscienza motoria e il caso dell’anosognosia per l’emiplegia Molti dei processi neurali responsabili dell’esecuzione di un atto motorio volontario avvengono senza essere accessibili alla coscienza. Nonostante ciò, nella vita di tutti i giorni, siamo sicuramente consapevoli delle azioni che compiamo e anche del fatto di non compierle. Se, da un lato, è, quindi, vero che il comportamento intenzionale è caratterizzato da alcuni aspetti automatici che possono essere eseguiti in stati di relativa inconsapevolezza (pensiamo, per esempio, a tutti i movimenti necessari per riprodurre un percorso abituale), è esperienza comune che nelle azioni che eseguiamo possiamo individuare in ogni momento la volontarietà della decisione e l’intenzione che ha innescato il comportamento. Essere consapevoli delle proprie azioni e del fatto che le possiamo, apparentemente, controllare, senza seguire delle automatiche catene stimolo-risposta, è un aspetto fondamentale del comportamento umano: ha conseguenze etico-sociali (siamo responsabili delle nostre azioni sia in senso morale che giuridico) e rappresenta la base su cui si costruiscono molte convenzioni e regole della vita pubblica. Perché si realizzi un controllo utile sul comportamento è necessario l’aggiornamento continuo degli atti motori. È quindi cruciale essere in grado di sapere se un’azione voluta e programmata è stata o no portata a termine. Questa apparentemente ovvia capacità di monitorare le proprie azioni può essere compromessa dopo una lesione cerebrale. È necessario ricordare che un danno cerebrale che colpisce l’area motoria primaria (localizzata nella corteccia dei lobi frontali) e le vie che portano il comando motorio in periferia per la contrazione dei muscoli, può causare una paresi, più o meno grave, degli arti controlaterali all’emisfero lesionato (ogni emisfero, infatti, controlla la sensibilità e le capacità motorie del lato opposto). La maggior parte dei pazienti affetti da paresi sono del tutto consapevoli della limitazione conseguente al danno cerebrale, la riportano verbalmente e assumono un comportamento adeguato e coerente alla nuova condizione motoria, invalidante e limitante nelle procedure quotidiane. La consapevolezza del disturbo è fondamentale perché questi pazienti siano disposti ad affrontare il percorso terapeutico e ad accettare gli interventi riabilitativi. Non tutti i pazienti, però, sono consapevoli della paresi. Tra il 20% e il 50% dei pazienti con danno all’emisfero destro e paralisi completa dell’arto superiore e/o inferiore sinistro, presentano un comportamento sorprendente e inatteso: negano, infatti il disturbo motorio in modo deciso e impenetrabile a qualsiasi tipo di dimostrazione del contrario (Cutting, 1978; Bisiach e Geminiani, 1991; Gold e collaboratori, 1994; Pia e collaboratori, 2004). La negazione di malattia venne definita da Babinski (1914) anosognosia (dal greco, non conoscenza della malattia) ed è stata osservata in associazione a diverse condizioni neurologiche e mentali. Nell’anosognosia per l’emiplegia ciò che colpisce è l’incapacità del paziente di rendersi conto del proprio deficit motorio, anche di fronte alla diretta dimostrazione che nulla è cambiato nell’ambiente rispetto a ciò che ci si dovrebbe aspettare se il movimento fosse stato effettivamente eseguito. Una paziente da noi studiata tempo fa, alla richiesta di battere le mani, portava la mano destra nella posizione tipica per il gesto richiesto e la muoveva come se la stesse battendo contro la mano sinistra. Il gesto veniva ripetuto più volte e la paziente sembrava pienamente soddisfatta della sua prestazione. Nenche il fatto di non ricevere alcuna informazione sensoriale (la paziente non vedeva il battito e neppure poteva sentirlo, visto che l’azione non veniva eseguita) fece cambiare idea alla paziente (Berti e collaboratori, 1998) che anzi rispose, a una nostra sollecitazione, che in ogni azione che eseguiva non faceva mai 7 rumore. Quindi, un aspetto veramente sorprendente di questi pazienti è la completa mancanza di consapevolezza del disturbo motorio da un lato e la ferma convinzione di eseguire i movimenti che dicono di portare a termine dall’altro, come se ne avessero esperienza. Per meglio illustrare la complessità del disturbo anosognosico, e la sua consistenza nel tempo, viene riportata, di seguito, una conversazione che abbiamo avuto con un’altra paziente, la cui convinzione di essere ancora in grado di muovere il lato sinistro del corpo era talmente resistente da non essere scalfita neppure quando le veniva richiesto di eseguire delle azioni ecologiche legate alle procedure tipiche della vita quotidiana (Berti e collaboratori, 2007). La paziente era una signora di 74 anni che chiameremo CR. Aveva subito ictus dell’emisfero destro circa un mese prima della valutazione neuropsicologica che le aveva procurato una grave paresi alla parte sinistra del corpo. La paziente non aveva problemi di linguaggio o di comprensione e il suo quoziente intellettivo, come spesso accade in questi casi era, nonostante il danno cerebrale, nella norma. Nonostante ciò non era consapevole del disturbo motorio e quando le veniva chiesto di compiere un movimento era chiaro, guardandola, che tentava di eseguirlo, e, anche se non accadeva nulla, era sempre fermamente convinta di averlo fatto. Ecco la conversazione (E=esaminatore; P=paziente) E: Dove siamo? P: In ospedale. E: In quale ospedale? P: (la paziente riferisce in modo corretto) E: Perché si trova in ospedale? P: Perché ho avuto un ictus. E: Che cos’è un ictus? P: Non lo so. E: Come va il suo braccio sinistro? P: Bene. E: Lo può muovere? P: Sì. E: Sarebbe capace di sollevarlo in aria? P: Sì E: Sarebbe capace di sollevare con la mano sinistra la cornetta del telefono? P: Sì, dovrei riuscirci. E: Sarebbe capace di aprire una bottiglia utilizzando entrambe le mani? P: Sì E: Sarebbe capace di spazzolarsi impugnando la spazzola con la mano sinistra? P: Sì. E: Sarebbe capace di lavarsi il viso con tutte e due le mani? P: Sì A questo punto alla paziente venne richiesto di eseguire effettivamente alcune azioni. E: Tocchi la mia mano con la sua mano sinistra. La paziente non riesce a sollevare il braccio e a raggiungere la mano dell’esaminatore. E: L’ha fatto? P: Sì, penso di sì. 8 E: Tocchi la sua mano sinistra con la mano destra. La paziente esegue quest’azione senza problemi dimostrando, tra l’altro, di sapere qual è la sua mano sinistra. E: (porgendole una bottiglia d’acqua) Apra questa bottiglia utilizzando entrambe le mani. La paziente tenta di farlo utilizzando solo la mano destra. E: Ce la fa? P: No. E: Come si fa ad aprire una bottiglia? P: Con una mano si tiene la bottiglia, con l’altra si svita il tappo. E: E lo sta facendo? P: Sì, ma non si apre. E: Ora porti la sua mano sinistra sulla spalla sinistra. La paziente sembra tentare il movimento: inoltre, mentre lo «esegue», guarda chiaramente il braccio e la spalla dando l’impressione di seguire con gli occhi l’azione. Dopodiché guarda l’esaminatore come se avesse finito di eseguire l’azione richiesta. E: L’ha fatto? P: A me sembra di sì. A questo punto la paziente, in carrozzina, viene portata in bagno di fronte al lavandino e le viene chiesto di lavarsi il viso con entrambe le mani. La paziente prende la boccetta del sapone liquido con la mano destra e cerca di insaponarsi l’altra mano come farebbe se la mano sinistra fosse effettivamente sopra il lavandino. In realtà la mano sinistra è appoggiata, ovviamente immobile, al grembo. Dopo aver insaponato la mano «fantasma», la paziente inizia a muovere la mano destra in avanti e indietro, «lavando» le due mani, una contro l’altra. Infine si lava il viso utilizzando solo la mano destra. E: Si è lavata tutte e due le mani? P: Sì. E: Si è lavata il viso? P: Sì. E: Con tutte e due le mani? P: Sì (la conversazione, tradotta in italiano è tratta da Berti, 2010) Il resoconto soggettivo della paziente, credibile e convincente, pone diverse questioni. Intanto relativamente al problema della coscienza, è interessante notare come l’anosognosia rappresenti un esempio di disturbo selettivo e specifico dei processi di consapevolezza. A questo proposito è interessante ricordare che l’idea del senso comune è che la coscienza abbia una struttura unitaria e indivisibile e, come tale, non riducibile a processi separati e distinti, sia funzionalmente che anatomicamente. Se fosse così una lesione cerebrale circoscritta alla struttura anatomica (o al circuito) responsabile della coscienza comporterebbe una totale mancanza di consapevolezza di ciò che ci accade. Al contrario, se la coscienza avesse una struttura multicomponenziale e distribuita, una lesione cerebrale circoscritta potrebbe danneggiare la consapevolezza relativa a un certo processo senso-motorio, senza intaccare la coscienza per altri processi paralleli e concomitanti. Le modalità di presentazione del disturbo di coscienza presente nella paziente CR sembrano favorire, come molte altre evidenze neuropsicologiche (Berti e collaboratori, 1996; Marcel, Tegnèr e 9 Nimmo-Smith, 2004; Spinazzola e collaboratori, 2008; Berti, 2010), l’idea di una struttura discreta e multicomponenziale dei sistemi consapevoli. Nella paziente descritta i sistemi cognitivi sono funzionanti e il monitoraggio delle capacità senso-motorie e cognitive è possibile, tranne che per la presa di coscienza della paralisi del lato sinistro del corpo. In questo caso il resoconto soggettivo viene considerato come un dato a favore dell’ipotesi di una coscienza composita. Ma un comportamento come quello della paziente CR è interessante perché, se diamo credito all’esperienza da lei riferita, pone in modo forte e immediato il problema di capire come la coscienza motoria si costruisca a partire dal cervello lesionato. Anche se il vissuto della paziente, nel momento in cui riferisce di eseguire i movimenti richiesti dallo sperimentatore, fa parte delle esperienze private e non direttamente conoscibili, il racconto suggerisce un’esperienza fenomenica di movimento simile a quella che prova un soggetto normale (neurologicamente intatto) quando compie la stessa azione. A questo riguardo possiamo porci almeno due domande suscettibili di essere indagate con i metodi oggettivi delle neuroscienze. La prima è quale funzione sia stata danneggiata dalla lesione cerebrale, la cui integrità nei soggetti normali rende possibile la dimensione consapevole degli atti motori. La seconda è quale attività neurale corrisponde al fermo convincimento di potersi ancora muovere. In pratica il punto è quale sia e come si strutturi la coscienza motoria del paziente affetto da anosognosia e se è possibile, per inferenza, ipotizzare strutture e procedure della coscienza motoria normale. Vediamo quindi come il racconto personale, a cui, in questo contesto, si garantisce una dimensione oggettiva, evidenzi i problemi che la pratica scientifica deve esplorare ricorrendo a metodologie che producono dati quantificabili e ripetibili. Partendo quindi dall’assunzione che i resoconti soggettivi dei pazienti corrispondono a stati neurali documentabili, sono state condotte molte ricerche per comprendere quali siano le operazioni danneggiate e quelle risparmiate nei pazienti con il disturbo specifico di coscienza motoria descritto nell’anosognosia per l’emiplegia. Rispetto al dato «negativo», cioè la non consapevolezza del disturbo motorio, alcuni autori hanno ipotizzato, sulla base di studi di correlazione anatomo-clinica (Berti e Pia 2006; Berti e collaboratori, 2005; Fotopoulou e collaboratori, 2008), che esso possa dipendere dal danno a un sistema di monitoraggio delle azioni (localizzato, secondo queste ricerche, nella parte laterale dei lobi frontali), che nei soggetti normali avrebbe il compito di valutare lo stato del sistema sensoriale e muscolare in periferia quando il soggetto programma un’azione volontaria. Secondo il modello di controllo motorio presentato nella figura 1 (Blakemore, Wolpert e Frith, 2002; si veda anche Haggard, 2005), quando un soggetto decide di compiere un’azione, vengono selezionati i programmi motori rilevanti perché questa venga portata a termine. L’impulso nervoso che trasporta il comando di movimento viene trasmesso alla periferia per la contrazione dei muscoli che devono produrre quella determinata azione. Contemporaneamente, viene prodotto un modello di previsione delle conseguenze sensoriali, potenziali, dell’azione, che verrà confrontato, da un sistema comparatore, con le effettive conseguenze sensoriali che si sono verificate in seguito al compimento dell’atto motorio. Questo confronto permette, in condizioni normali, il monitoraggio della correttezza delle azioni prodotte. Se le conseguenze sensoriali sono diverse da quelle previste (cioè se si è verificato un errore) o se, come nel caso della paralisi, nessun movimento viene effettivamente eseguito, il normale funzionamento del comparatore denuncia la discrepanza tra intenzione motoria ed effettiva esecuzione. Per esempio, quando il soggetto deve raggiungere con la mano un oggetto posto su un tavolo, il sistema programmerà una serie di movimenti, computando i parametri motori adeguati perché l’azione venga correttamente eseguita. Il sistema contemporaneamente produce un modello 10 di previsione di quali saranno le conseguenze sensoriali del movimento. Se i sistemi sensoriali dei muscoli e delle articolazioni, ma anche il sistema visivo, manderanno un’informazione non prevista dal modello, perché si è verificata una perturbazione (per esempio il braccio urta contro un ostacolo oppure la paralisi impedisce il movimento), il comparatore coglierà la discrepanza e il soggetto sarà pienamente consapevole del suo fallimento. Scopi e intenzioni Stato desiderato Programmazione movimenti Braccio Ambiente Esterno Consapevolezza motoria Modello di previsione Sense of agency Comparatore Feedback sensoriale/stato effettivo FIGURA 1. (Fonte: modificato da Haggard, 2005) Modello semplificato di produzione e controllo motorio. Ogni volta che si ha intenzione a compiere un movimento si innesca una cascata di eventi che portano alla costruzione di una previsione delle conseguenze del movimento su cui si costruisce la consapevolezza motoria. Per ulteriori spiegazioni si veda il testo. L’ipotesi è che nei pazienti non consapevoli della paralisi sia danneggiato proprio il sistema comparatore. Questo sarebbe verificato dal fatto che, come accennato più sopra, questi pazienti hanno un danno specifico e relativamente circoscritto delle aree frontali laterali (dell’emisfero opposto al lato del corpo che ha subito il danno) deputate al controllo motorio. La situazione del paziente anosognosico è però complessa perché, come abbiamo visto, non solo nega la paralisi, ma nei racconti in prima persona, sostiene di eseguire effettivamente i movimenti richiesti dall’esaminatore. L’ipotesi avanzata da alcuni autori è che, a fronte di un danno al comparatore, il resto del sistema di intenzione-programmazione funziona normalmente (Berti e Pia, 2006; Berti, Spinazzola e Rabuffetti, 2007). I pazienti anosognosici avrebbero, quindi, un’intatta intenzionalità motoria che farebbe partire, in caso di decisione ad agire, la cascata di processi neurali che portano alla formazione del modello predittivo. A questo proposito è interessante notare come Blakemore e collaboratori (2002) abbiano proposto che la consapevolezza motoria si basa sul segnale neurale che dà origine al modello di previsione. Se questo fosse vero, la 11 consapevolezza emergerebbe prima dell’effettiva esecuzione del movimento e non dopo che i sistemi sensoriali hanno registrato lo stato del sistema in periferia come conseguenza del movimento effettivamente prodotto (a questo proposito si veda anche Libet e collaboratori, 1983). La coscienza motoria non sarebbe, quindi, il frutto di una ricostruzione post-hoc, ma dipenderebbe dal segnale neurale predittivo innescato dall’intenzione ad agire. Secondo questa ipotesi, si diventerebbe consapevoli dei movimenti che si intendono compiere piuttosto che dei movimenti effettivamente compiuti (Fourneret e Jeannerod, 1998). Questo modello potrebbe spiegare come mai il paziente anosognosico sembra avere una «reale» esperienza fenomenica dell’azione che intende eseguire: poiché il sistema di intenzione-programmazione è intatto, sarebbe possibile la costruzione del modello predittivo su cui si basa l’emergere della consapevolezza motoria (che in questo caso potremmo chiamare non veridica, perché, nonostante corrisponda a un preciso segnale neurale, non coincide con quello che effettivamente è successo in periferia). Grazie a queste ipotesi che partono dall’assunzione che il resoconto verbale dei pazienti sia espressione di una reale esperienza fenomenica, si sono sviluppate numerose linee di ricerca per valutare se effettivamente la consapevolezza motoria riferita da questi pazienti dipenda dalla normale attivazione del sistema intenzionale. Garbarini e collaboratori (2012, in corso di stampa) hanno utilizzato un compito motorio bimanuale dove ai soggetti dell’esperimento si chiede, nella condizione cruciale, di disegnare in modo continuo delle righe verticali con la mano destra e dei cerchi con la mano sinistra. Questa condizione viene confrontata con la condizione unimanuale in cui i soggetti devono solo disegnare delle linee con la mano destra. A C. Soggetti normali B D. Pazienti con emiparesi e anosognosia E. Pazienti con emiparesi e normale coscienza motoria FIGURA 2. (Fonte: modificato da Garbarini e collaboratori, 2012, in corso di stampa). 12 Nella parte superiore della figura sono rappresentate le due condizioni cruciali dell’esperimento. In A la condizione Unimanuale, dove i soggetti dovevano disegnare delle righe con la mano destra. In B, la condizione bimanuale dove i soggetti dovevano disegnare righe con la mano destra e cerchi con la mano sinistra. Si ricordi che sia i pazienti con emiparesi e anosognosia, che i pazienti con emiparesi e normale coscienza motoria, disegnavano comunque solo le righe con la mano destra. I pazienti anosognosici erano però convinti di muovere la mano sinistra, mentre i pazienti non anosognosici, anche se veniva chiesto loro di provare a muovere la mano sinistra, erano ben consapevoli di non poterla muovere. Nella parte inferiore della figura sono rappresentati i disegni effettivamente prodotti dalla mano destra nelle condizioni bimanuali. Come si vede, le righe vengono ovalizzate sia nei soggetti normali (C), sia nei pazienti anosognosici (D) che, pur non muovendo la mano sinistra, erano convinti di fare i cerchi richiesti. In (E) le righe di un paziente con emiparesi, ma consapevole di non poter muovere la mano sinistra. Le prestazioni nelle condizioni unimanuali sono in tutti i soggetti analoghe alla prestazione in (E) (per ulteriori spiegazioni si veda il testo). La mano destra di tutti i soggetti agiva su un tablet PC che registrava le traiettorie e computava un Indice di Ovalizzazione che veniva inserito nell’Analisi della varianza (ANOVA), per calcolare le effettive differenze quantitative nelle varie condizioni dell’esperimento. Nei soggetti neurologicamente intatti, le righe prodotte dalla mano destra vengono ovalizzate, rispetto alle condizioni unimanuali, quando la sinistra disegna contemporaneamente dei cerchi, perché i programmi motori opposti delle due mani (uno relativo alla computazione del cerchio, l’altro della riga, controllati ognuno da un emisfero cerebrale) si contaminano e interferiscono (Franz e Ramachandran, 1998). La domanda che ci possiamo porre relativa ai pazienti con emiparesi è che cosa accade se chiediamo loro di eseguire lo stesso compito. Garbarini e collaboratori hanno trovato che i pazienti con lesione cerebrale destra ed emiparesi sinistra, consapevoli del disturbo motorio, anche se esortati a provare a muovere il braccio sinistro, non presentavano alcun effetto di ovalizzazione sulle righe prodotte dalla mano destra (normalmente funzionante). Questa osservazione è in accordo con il fatto che, non avendo la lesione danneggiato in questi pazienti il comparatore, il confronto tra modello predittivo e reale situazione sensomotoria produce un normale segnale d’errore che permette al sistema di apprendere, nel tempo, lo stato relativo alla nuova condizione. Alla richiesta quindi di muovere il braccio affetto dalla paresi, i pazienti non provano neanche a impostare il programma motorio che il sistema «sa» di non poter più implementare in periferia, cioè nei muscoli paralizzati (si veda la Fig. 2E). Al contrario, i pazienti con lesione cerebrale destra ed emiparesi sinistra, nei quali il danno aveva colpito anche le aree preposte al comparatore, e che quindi mostravano un’alterata coscienza motoria relativamente allo stato del braccio sinistro, mostravano un dato straordinario e contro-intuitivo. Nonostante il braccio sinistro non si muovesse, le righe prodotte dalla mano destra, quando questi pazienti erano convinti di muoverla insieme alla mano sinistra, venivano ovalizzate (si noti, nella Fig. 2D, la prestazione analoga a quella dei soggetti normali, in 2C). Questo dato è una prova incontrovertibile che i pazienti con alterata coscienza motoria attivavano il sistema intenzione-programmazione per entrambe le mani, causando l’interferenza che si manifestava nella ovalizzazione delle righe nella condizione bimanuale. L’aspetto cruciale di questa interferenza motoria è che essa rivela attraverso un impatto oggettivo, calcolabile e quantificabile nelle traiettorie di disegno, l’intenzione soggettiva a muoversi che si inferisce dal resoconto dei pazienti. 13 Complessivamente questi studi dimostrano quanto siano fondamentali i dati raccolti nei pazienti con lesioni cerebrali circoscritte, sia per spiegare la natura dei disordini che li colpiscono, sia per validare dei modelli teorici sul funzionamento normale dei processi di consapevolezza. Ad esempio, il fatto che i pazienti anosognosici diventino consapevoli di un movimento sulla base di un modello di previsione, senza che il movimento venga effettivamente eseguito, conferma l’ipotesi avanzata da Blakemore e collaboratori (2002) che la coscienza motoria si struttura su un segnale che precede l’esecuzione del movimento. Se non si fosse dato ascolto alle parole dei pazienti, garantendo loro, sulla base dei resoconti soggettivi, un’esperienza fenomenica analoga a quella dei soggetti normali, non si sarebbero raccolti dati oggettivi importanti per la comprensione delle basi neurali dell’intenzionalità motoria e del controllo delle azioni. 5. Conclusioni In questo intervento ho tentato di dimostrare come, partendo dalle osservazioni neuropsicologiche, il dibattito sulla coscienza possa essere recuperato senza porre eccessive limitazioni all’indagine clinica e accettando di valutare, in condizioni controllate e ripetibili, i resoconti dei pazienti. Quando si assume che i resoconti dei pazienti possano essere considerati come veri e propri dati, da cui partire per formulare ipotesi, allora i casi neurologici contribuiscono in modo rilevante a svelare operazioni e strutture del mentale non dimostrabili quando i cervelli funzionano normalmente (Smith-Churchland, 1986). I dati che ho discusso dimostrano come i nuovi approcci del paradigma naturalistico allo studio degli aspetti consapevoli del mentale abbiano attivato programmi di ricerca euristicamente efficaci per affrontare lo studio della funzione causale della coscienza e delle sue caratteristiche strutturali e soprattutto abbiano indotto negli studiosi di neurobiologia la convinzione che il concetto di coscienza, anche nelle versioni fenomeniche e soggettive, possa avere un referente nel mondo fisico suscettibile di studio e valutazione quantitativa. SINTESI Lo scopo di questo articolo è di discutere il contributo della neuropsicologia, ed in particolare l’importanza dei resoconti esperienziali dei pazienti neurologici, per trarre delle inferenze e delle ipotesi sulla natura, struttura e funzione dei processi coscienti. Nella prima parte verranno presentate diverse opzioni psicologiche e filosofiche che hanno a lungo dibattuto la legittimità scientifica degli studi sulla coscienza. Nella seconda parte attraverso la presentazione di un disturbo apparentemente bizzarro della consapevolezza corporea (l’anosognosia per l’emiplegia), si vuole dimostrare come i racconti esperienziali dei casi clinici siano fondamentali per verificare la plausibilità di un ipotesi di coscienza motoria che può contribuire a comprendere le procedure e le componenti che stanno alla base dell’intenzione cosciente ad agire. PAROLE CHIAVE: neuropsicologia, coscienza, anosognosia, emiplegia BIBLIOGRAFIA Babinski J. (1914). Contribution à l’étude des troubles mentaux dans l’hémiplégie organique cérébrale (anosognosie). Revue Neurologique, 27, 845-848. 14 Berti A., Làdavas E., Della Corte M. (1996). Anosognosia for hemiplegia, neglect dyslexia, and drawing neglect: Clinical findings and theoretical considerations. Journal of the International Neuropsychological Society, 2, 426-440. Berti A., Làdavas E., Stracciari A., Giannarelli C., Ossola A. 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