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la voglia di studiare
MASSIMO PIATTELLI PALMARINI
LA VOGLIA DI STUDIARE
Che cos’è e come farsela venire
AROLDO MONDADORI EDITORE
1991
Sommario
Introduzione ……………………………………………………………….
Pag. 7
Parte I
Così fan tutti
Quando la voglia c’è …………………………………………………….
Pag. 14
Il professore, questo sconosciuto ………………………………………..
15
Sapere e potere …………………………………………………………….
17
La figura del professore ………………………………………………….
19
Il genitore dello studente ………………………………………………...
22
L’ignoranza tollerata, e quella tollerabile ………………………………
24
Dove sta scritto? …………………………………………………………..
27
La formazione del gusto ………………………………………………….
30
Critica della critica ……………………………………………………..
33
Verso una critica adulta …………………………………………………
36
Il gusto poetico ……………………………………………………………
37
Il gusto filosofico ………………………………………………………….
41
Il gusto matematico ………………………………………………………
44
I numeri amici ……………………………………………………………..
45
Non tutte le strade portano a “Roma” …………………………………….
46
Giù per la china matematica ………………………………………………
48
Gli inevitabili “manovellismi” delle potenze ……………………………..
49
Come si macinano i paradosi ……………………………………………...
50
Un ultimo giro ……………………………………………………………..
52
Qualcos’altro che “gira” ………………………………………………….
53
Conclusione: Chi comanda? Noi , o i numeri?
54
Il gusto per la fisica ………………………………………………………
55
Una scalata in bicicletta ………………………………………………...
56
La caccia agli invarianti …………………………………………………..
57
Il gusto per le scienze …………………………………………………….
59
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Sommario
Il gusto per le lingue ……………………………………………………
62
Un’illusione pericolosa: la lingua “di” un solo settore …………………
65
L’illusione del teatrino (o frame problem) ………………………………...
66
Nemmeno nelle lingue ci sono teatrini …………………………………….
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Lo studio a tavolino di una lingua straniera ………………………………
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Le false sorelle …………………………………………………………….
71
Il gusto per la storia ……………………………………………………..
72
Unità e periodi …………………………………………………………….
73
La storia di chi comanda …………………………………………………..
74
Guardare la storia ……………………………………………………….
75
Parte II
L’esamite: Sintomi e cure
La cartella clinica ………………………………………………………..
Pag. 78
Sottolineare, ovvero degli usi e abusi del libro di testo ………………..
82
Come si ripassa …………………………………………………………
86
Come prendere appunti …………………………………………………
La lezione inscatolata ……………………………………………………..
I nostri appunti …………………………………………………………….
Il tema ……………………………………………………………………..
L’angoscia del foglio bianco ………………………………………………
La rilettura finale ………………………………………………………….
Il tema “in negativo” ……………………………………………………
I segreti del tradurre ……………………………………………………
Il compito di matematica ………………………………………………
Qualche regoletta ………………………………………………………….
Parte III
La ri-creazione
Chiavi di lettura …………………………………………………………
Il gioco interrotto …………………………………………………………
Sommario
3
La doppia crescita ………………………………………………………..
Il dono dell’ubiquità ……………………………………………………...
David, la scimmia e l’infinito ……………………………………………
Son tutte travéde …………………………………………………………
Parte IV
Lo studio: impasti e lieviti
Una definizione (o quasi) dello studio …………………………………..
Diversi tipi di conoscenze ………………………………………………..
Sapere che, ovvero l’arte della memoria ………………………………..
Grandezze e miserie delle mnemo-tecniche ………………………………
Sapere che, ovvero l’arte dell’immaginazione vincolata ………………
Dal mito al modello ……………………………………………………….
Saper come, ovvero l’arte di scendere per poi risalire ………………..
Sapere di, ovvero l’arte della navigazione strumentale ………………..
Sapere per, ovvero l’arte del tagliare su misura ……………………….
Il problema del copiare, dentro e fuori della scuola ……………………
Sapere su, ovvero l’arte di sospendere il proprio giudizio …………….
Le virtù di alzate di testa …………………………………………………..
Sapere perché, ovvero l’arte di assaggiare ……………………………..
Finalino: La differenza tra credere e sapere …………………………..
Alle radici della certezza …………………………………………………..
Appendice I – I libri amici ……………………………………..……...
Appendice II – Dove sta scritto (di Simone Piattelli) ……………………
4
Sommario
MASSIMO PIATTELLI PALMARINI
LA VOGLIA DI STUDIARE
Che cos’è e come farsela venire
OSCAR MONDADORI
Dice un noto proverbio cinese: se offri a uno un pesce lo sfami per un giorno, ma se
gli insegni a pescare lo sfami per tutta la vita. Ebbene, questo libro è una
dimostrazione pratica e teorica di come si dovrebbe pescare nel fiume della scuola. La
Parte I è una veduta aerea di questo fiume, con le sue sorgenti, le sue sponde, i suoi
affluenti e i suoi fondali. La Parte II ci fornisce alcuni suggerimenti pratici per la
pesca. La Parte III ci trasporta alle foci del fiume e ci invita a seguire il destino di
certi avannotti nel vasto oceano delle conoscenze. Infine, la Parte IV cerca di dare
retrospettivamente un senso a tutta questa spedizione, ricostruendone il percorso,
dalla sorgente al mare aperto, e giustificando via via la scelta delle esche e delle
strategie di lancio.
La scuola è uno dei rari argomenti che potenzialmente interessano tutti, quindi sarò
più che pago se avrò offerto un libro che nelle famiglie viene passato da una mano
all’altra. Parafrasando una formula celebre, confesserò che questo libro ha
l’ambizione di interessare tutti in certe parti, alcuni (gli studenti) in tutte le sue parti,
ma non tutti in tutte le sue parti. A scuola non mi aspetto che entri, in quanto non è un
libro di scuola, ma sulla scuola. Mi sono, infatti, sforzato di non farlo assolutamente
apparire come un “ altro” libro di testo, come una fatica addizionale per i ragazzi.
Dovrebbe essere qualcosa che allevia le loro fatiche di studio, non che le inasprisce.
Una delle meraviglie dell’intelligenza umana, come oggi ben sanno coloro che
cercano di simularla sui calcolatori, è che ci viene così spontaneo generalizzare,
perfino partendo da un singolo caso. Per questo faremo qui largo uso di esempi e di
aneddoti, e procederemo spesso per allusione, lasciando dei puntini che sono facili da
riempire. Molti di questi esempi e di questi aneddoti, in parte per via della particolare
biografia di chi scrive, ma in parte per una precisa volontà: quella di farci osservare
le vicende della scuola con occhio diverso. Particolarmente “ diversi” sono i
raccontini della Parte III, che spero siano proprio per tutti, anche prescindendo da
ogni contesto scolastico e dalla loro collocazione rispetto alle altre parti. Tra chi ha
letto questo libro in manoscritto ho raccolto la seguente profezia: saranno ciò che
resta in mente quando si sarà dimenticato tutto il resto del libro. Uno, forse per
addolcire questa pillola, ha poi aggiunto: “ come i racconti mensili del libro Cuore”.
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La voglia di studiare
Introduzione
Introduzione
Filumena Maturano, il grande personaggio creato da Eduardo de Filippo,
giustificando di fronte a un avvocato di professione il suo disperato e patetico
stratagemma per farsi sposare in extremis da Don Domenico Soriano, dice che c’è la
legge dei ricchi, quella che fa piangere, e la legge dei poveri, quella che fa ridere.
Ebbene, mi pare ci siano anche due tipi di professori: appunto, quelli che fanno
piangere e quelli che fanno ridere. Ma qui la legge della Maturano è invertita, perché
quelli che fanno piangere sono poveri, mentre quelli che fanno ridere frequentano i
migliori salotti. Solo i primi insegnano davvero e convivono con l’uggia della scuola,
con l’angoscia delle interrogazioni, degli esami, degli scrutini. Alcuni dei secondi,
invece, non hanno più incontrato uno studente da molti anni e forse non hanno mai
saputo cosa vuol dire ricevere i genitori di un alunno somaro. In questo libro si parla
esclusivamente dei primi, di quelli che fanno piangere, per lo più senza volerlo. Quel
pianto va capito meglio, così come va capita meglio la relazione a tre da cui scaturisce:
il fondamentale “ triangolo “ ai cui vertici stanno il professore, lo scolaro e il genitore.
Un triangolo che esiste da tempo immemorabile, ma la cui geometria ci è ancora
largamente ignota.
La voglia di studiare è un argomento molto, molto serio. Tra gioie, dolori, minacce,
promesse, tra liti familiari e curiose alleanze particolari in seno alle famiglie, tutti la
invocano continuamente. La sua assenza è causa di tragedie vere, di drammi
comparabili a quelli arrecati da altre assenze calamitose: quella della salute, degli
affetti, dei mezzi di sussistenza, della voglia di vivere. Capita spesso, addirittura, che le
provochi, queste altre assenze, magari indirettamente. In Giappone ci si suicida,
perfino a otto o nove anni, per un insuccesso scolastico. Da noi, per fortuna, raramente
si arriva a tanto. E’ certo, però, che l’assenza della voglia di studiare mina l’armonia
familiare, interferisce con i primi amori, separa le giovanissime coppie, determina la
fine delle relazioni per divieti, per spostamenti geografici – lei, promossa, al mare; lui,
bocciato, in città a studiare.
Mi ricordo quando ancora in chiesa si cantava “ veni Creator Spiritus/ Mentes tuorum
visita “: Vieni Spirito Creatore, calati, ti preghiamo, nelle nostre menti, nelle menti dei
tuoi. Ma qui subito si insinuava il dubbio. Sarò io uno dei “suoi” ? E se non fossi?
Come fare a farsi visitare, invadere, possedere ugualmente dallo Spirito? Questa antica
invocazione è un perfetto esempio di quello che gli antropologi chiamano, con parola
dotta, un adorcismo, cioè una pratica, o una preghiera, attraverso la quale si chiede di
essere visitati, invasi, posseduti da uno spirito benefico. E’ l’opposto di un esorcismo.
Con un esorcismo si vuole espellere, fugare uno spirito malvagio. Qui ci si vuole,
invece, far pervadere da uno spirito benefico. Per noi, in questo libro, sarà uno spirito
del tutto laico, una facoltà latente, possente, ma capricciosa, della nostra psiche.
Adorcizzeremo, dunque, la luce dell’intelletto e della volontà; cercheremo di far
La voglia di studiare
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risalire alla superficie, appunto, questa ritrosa voglia di studiare. Non vanno, del resto,
i genitori e i nonni in chiesa a pregare per l’esito di un esame? Cosa chiedono, in quei
frangenti? Non certo che la figlia o il nipotino ignoranti la facciano in barba ai
professori. Suppongo chiedano solo un’ispirazione, un’illuminazione, una forza
mentale speciale in quella difficile prova. Ormai quello che sa, sa; ormai quello che
studiato, ha studiato. Non si aspettano certo, quei genitori, quei nonni, un’iniezione
miracolosa, un qualche trucco sleale bisbigliato dal cielo. Sperano sono in un’energia
speciale, in una presenza di spirito (vedete come i termini ordinari sono rivelatori), in
una luce che illumini nel modo migliore quello che il loro diletto esaminando sa. Solo
per un’ora, solo per quella occasione, poi tutto ritorni pure nell’ordine.
L’adorcismo della voglia di studiare si celebra ugualmente nelle torri dei ricchi e
nelle spelonche dei poveri (qui parafraso Orazio, e lui parlava, nientemeno, della
morte). A differenza dell’amore e della morte, però, questo dramma quotidiano,
onnipresente, non ha trovato i suoi poeti e i suoi cantori. La voglia di studiare non ha
una sua epica, una sua lirica, una sua teorizzazione letteraria. Non ha – né , come
vedremo, potrebbe avere – nemmeno una sua scienza. Questo non significa che non si
possa trattare la materia a fondo, ed è mio intento dimostrarlo.
La voglia di sapere è una componente centrale della natura umana. In particolare,
cercheremo di capire perché sia tanto restia a trasformarsi in voglia di studiare. Eppure
questa dovrebbe essere una trasformazione ovvia, irresistibile, spontanea; così come la
voglia di stare all’aria aperta si trasforma in voglia di passeggiare, pescare, cacciare, e
la voglia di vedere il mondo si trasforma in voglia di viaggiare. Invece, la naturale
curiosità che è in ciascuno di noi stenta ad applicarsi a uno studio regolare, sistematico,
si rifiuta di imboccare i canali socialmente e istituzionalmente previsti e resta soggetta
a un curioso, lampeggiante occultamento. E’ un fenomeno interessante, onnipresente,
ma poco studiato. Per comprenderlo meglio dovremo cercare di comprendere meglio la
natura del sapere, dovremo capire cosa significa studiare e in cosa è diverso dal
semplice leggere, scrivere, pensare. Vedremo anche alcune tecniche concrete, perfino
spicciole, capaci di facilitare, mantenere e organizzare le conoscenze.
Tra queste tecniche e la voglia di studiare c’è, a prima vista, un baratro. Le tecniche
stanno, come vedremo, in basso, non di rado immerse nella melma della disattenzione,
del tedio, della svogliatezza. La voglia di sapere, e in particolare la voglia di studiare,
invece, stanno molto in alto, lassù nell’empireo. Tanto che, appunto, le invochiamo
inutilmente. Che scendano tra noi, che scendano in noi, che ci saltino addosso, ci
travolgano, ci spronino, o almeno ci inchiodino per qualche ultima settimana di
primavera e per le primissime settimane d’estate sui banchi di scuola, allo scrittoio,
nelle biblioteche. Preghiamo che ci accompagnino fino agli esami, fino agli scrutini,
fino alla laurea, al concorso, al pezzo di carta.
Le materie alle quali si applica la voglia di studiare, e di cui pure tratterò, sono tutto
sommato secondarie. Una volta posseduti dalla voglia di studiare ce ne infischiamo
delle scienze dell’educazione, delle didattiche e delle metodologie di apprendimento.
Si macina tutto, senza sforzo. Fioccano i bei voti, tutti sono contenti, si materializzano
biciclette e motorini, si ha il permesso di stare con il moroso fino a tardi. Insomma, il
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La voglia di studiare
Introduzione
paradiso! Quando, invece, manca la voglia di studiare sono note sul registro,
convocazioni, conciliaboli, strillate, musi lunghi. Insomma, un inferno!
Ma perché? Cosa ci succede? Quali sottili veleni circolano entro questo “ triangolo “
studente – professore – genitore, inquinandolo? Tra tutte le cause ricorrenti e
diffusissime di infelicità personale e familiare, quelle legate alla voglia di studiare sono
di gran lunga le meno studiate. Ci succede qualcosa di cui non capiamo le ragioni e
non mi si parli del successo nella vita, non si tirino in ballo fattori economici e sociali.
E’ il segreto di Pulcinella che i primi della classe finiscono poi soprattutto a fare i
bibliotecari, gli insegnanti, i funzionari, mentre alcuni di quelli che furono un tempo la
disperazione della famiglia potrebbero pagare senza nemmeno accorgersene un intero
anno di stipendio a chi veniva loro additato ad esempio. Le cause di tanta infelicità e di
tanti drammi sono più profonde. Il successo e l’insuccesso scolastico non sono ben
correlati con niente che poi veramente conti nella vita adulta. Qualsiasi genitore lo sa,
basti si guardi indietro. Ma non ci si può far nulla. L’ansia per il successo scolastico
dei propri figli non ascolta ragioni, non impara dall’esperienza, non legge le statistiche.
E’ radicata in meccanismi emotivi primari, è un’espressione diretta dell’amore materno
e paterno. Il successo e l’insuccesso scolastico toccano subito le corde della stima di
sé, accentuano i sensi di colpa, inducono proiezioni personali, spesso irrazionali,
sull’avvenire dei figli, su un mondo migliore. I fantasmi del passato, le disillusioni, le
frustrazioni, l’eco dei propri successi e insuccessi si ripresentano e si riproducono
intatti nel rapporto con i figli. Vogliamo che siano come noi, o vogliamo che siano
l’opposto esatto. Vogliamo che tutto sia diverso, o che tutto sia uguale. In fondo fa
poca differenza.
La voglia di studiare, quasi più che la capacità e la bravura, è un valore fondamentale.
Bravi si nasce, e non c’è merito, ma la voglia di studiare è qualcosa che deve venire a
tutti. Il risultato è secondario. Quale genitore, quale insegnante non mostra tolleranza
sui risultati, quando vede intenso, tangibile, “ l’impegno”, cioè la voglia?
La voglia di studiare e la sua manifestazione concreta, cioè l’impegno, è un valore
ideale che vogliamo ad ogni costo veder calato nei nostri figli. E’ un bene in sé, uno
dei sommi beni, un bene metafisico, dal quale dipendono tanti altri beni subordinati.
La preoccupazione per il loro avvenire spesso è solo secondaria, è un alibi, una
razionalizzazione. Forse non è inutile cercare di capire meglio questi meccanismi,
proprio perché sono tanto fondamentali, tanto profondi. E’ difficile che possano
mutare, ma sarà già un aiuto, spero, capire esattamente cosa ci succede, cosa succede
ai nostri figli, e perché.
Dicevo che la tragedia provocata dalla mancanza, o dalla latitanza, della voglia di
studiare non ha trovato ancora i suoi lirici. E non potrà trovare nemmeno i suoi
scienziati. Quanto dirò su questo argomento non è certo lirico (non ne avrei il talento)
e non è scientifico in senso stretto. Mi propongo, però, di trattare la materia con
l’impegno che merita, cercando anche lumi in varie discipline più o meno
“scientifiche”. Le riflessioni che offrirò deriveranno, magari senza che me ne accorga,
dalle scienze cognitive, dalla filosofia della conoscenza, dall’antropologia, dal
progresso della ricerca in tante materie insegnate (più o meno bene) anche nelle scuole.
Siccome spero che questo libro sia letto soprattutto dai giovani, non ho voluto
appesantirne la lettura con citazioni, rinvii bibliografici e dotte disquisizioni.
La voglia di studiare
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Un’appendice, la cui lettura è del tutto facoltativa, aiuterà i più curiosi a rintracciare le
origini e le basi di quanto affermo.
Tengo a dichiarare subito che non credo alle scorciatoie e alle tecniche miracolose.
L’ipnopedia (il registratore sotto il cuscino che ripete la lezione mentre si dorme), la
lettura rapida, le mille gherminelle escogitate dai furbi non hanno mai funzionato. Non
possono funzionare. Lo studio è tra quelle cose che non ammettono sostituti. Offrirò
anch’io (come resistere?) qualche suggerimento, qualche “tecnica”, frutto
dell’esperienza, ma non si tratta di un “ invece”, si tratta di un “ in più”. Per sapere
occorre studiare. Semplice, banale, un po’ odioso a dirsi, ma pur vero. Non conosco
eccezioni, né mi aspetto di incontrarne. Ne trovo, invece, mille conferme, a ogni
gradino della scala accademica. Ciò che propongo al lettore è di impostare
diversamente un problema ben reale, ma non pretendo affatto di “ ridimensionarlo “.
Se la voglia di studiare è anche un mito, questo non implica che la si possa
“smitizzare”. Semmai si tratta di restituire al problema una dignità universale che,
forse, sfugge a chi lo vive confusamente nel privato, giorno per giorno. Pur non
essendo lirico, questo libro è, quindi, in un certo modo, appassionato, come si conviene
alla materia di cui tratta. Spero possa risultare, almeno a tratti e almeno per alcuni
lettori, anche appassionante.
Infine, mancherei nel più elementare dovere di lealtà se tacessi un fatto
autobiografico: ben conosco per esperienza personale la mancanza della voglia di
studiare. Anch’io ho fatto ricorso spesso all’adorcismo di cui parlavo sopra, con
risultati non sempre soddisfacenti. Parrà curioso che questo succeda anche a uno “
studioso” di mestiere. Eppure anche le biografie dei più grandi letterati, artisti,
scrittori, scienziati testimoniano della realtà e della drammaticità di questa ricorrente
mancanza. Si racconta di Vittorio alfieri che si faceva legare alla sedia, e di Immanuel
Kant che si faceva gettar giù dal letto ogni mattina prima dell’alba dal suo fedele
servitore Lampe. Di norma si tace, invece, sui lunghi periodi di inattività, di
svogliatezza, di sperpero, pur tanto frequenti anche nelle biografie di grandi.
L’adorcismo spesso fallisce. Queste cose non si insegnano nelle scuole, forse perché le
ritengono diseducative, ma è venuto il momento di ammettere che anche questo re, lo
studioso di mestiere, è speso nudo di fronte ai capricci della propria voglia di studiare.
Fu proprio uno di questi capricci a suggerirmi questo libro. Non sono affatto certo
dell’efficacia generale di questo espediente, né che la voglia non possa di nuovo
abbandonarmi domani. Ma tutto può servire come adorcismo, se poi funziona. Forse
anche scriverci sopra un libro. O leggerlo.
E’ normale che l’autore di un libro abbia prima la voglia di scriverlo e che il suo
editore abbia poi la voglia di pubblicarlo. Un po’ meno normale è che queste due forze
di volontà si trovino fin dall’inizio interamente compenetrate tra di loro, tanto da
rendere difficile decidere qual è stata la più trainante. Quando confessai all’amico
Gianarturo Ferrari un (allora vago) proposito di scrivere un libro sulla “voglia di
studiare”, il suo primo e immediato riflesso fu quello di sollevare la cornetta del suo
telefono direttoriale e far subito stilare alla Mondatori un contratto di tutto punto.
Erano anni che accarezzavo in astratto questo proposito, ma ero ancora incerto su quasi
10 La voglia di studiare
Introduzione
tutto il resto, compresi i contenuti specifici, il livello, il taglio, il tono, il profilo del
lettore. Gianni Ferrari parve non voler nemmeno ascoltare le mie residue perplessità e
trovò argomenti irresistibili per individuare una scadenza di consegna che ancora oggi,
dopo averla quasi esattamente rispettata, continuo per riflesso a trovare irrealistica.
Marco Vigevani, capo della saggistica italiana alla Mondatori, subito si offrì di
accompagnarmi passo passo lungo il cammino delle successive stesure, sopportando di
buon animo, e svolgendo con raro acume, il compito di leggere le diverse parti e di
farmi presente quello che non andava. Quella scadenza sarebbe veramente risultata
irrealistica senza questo suo prezioso aiuto. C’è poi un solo modo per dare giusto
risalto all’assistenza costante, continua e determinante di Donata Vercelli e di mio
figlio Simone, cioè quello di riconoscerli co-autori a pieno titolo di molte pagine di
questo libro.
Devo alla pazienza e alla comprensione dei miei colleghi del center for Cognitive
Scienze al Massachusetts Insitute of Technology, soprattuttoSamuel Jay Geyser e
Steven Pinker, di aver tollerato così di buon grado assenze tanto frequenti dalla vita
dell’Istituto nelle ultime settimane di stesura del manoscritto. Il pensiero e le opere di
Noam Chomsky, Morris Halle, James T. Higginbotham , Jerry Fodor, Hilary Putnam e
Jacques Mehler hanno non solo, costantemente negli anni, direttamente ispirato tanta
della mia produzione scientifica, ma anche almeno indirettamente influenzato il mio
modo di inquadrare certi argomenti proprio in questo libro. Un ringraziamento
particolare va anche a coloro che hanno reso possibile e piacevole il mio lungo
soggiorno americano, proprio in un periodo tanto fecondo per lo sviluppo di idee che
trovano qui ampia eco: la Alfred P. Sloan Foundation, Mitchell Kapor, la Cognitive
Science Society e la Olivetti Ricerca. Mi è grato compito ringraziare sentitamente
Emanuela Castigli, Marco Santambrogio, Paolo Viviani, Gian Carlo Rota, Enzo
Mandruzzato e Annalisa Carena per la loro lettura del manoscritto e per i preziosi
consigli che lo hanno portato alla sua forma definitiva.
Boston (Massachusetts), novembre 1990.
La voglia di studiare 11
12 La voglia di studiare
Così fan tutti
La voglia di studiare 13
Quando la voglia c’è
Esiste per tutti, una volta all’anno, un breve e magico momento nel quale la voglia di
studiare ci coglie prepotente. E’ quando, liste alla mano, denaro contato in tasca, il
rientro a scuola ci regala la speciale eccitazione che regna nella carto-libreria, o nel
temporaneo “reparto scuola” dei grandi magazzini. Questi spazi di mercanzie
diventano veri e propri templi della voglia di studiare. Veri ministri del culto, più che i
genitori, più che i venditori, sono le penne nuove, le candide gomme da cancellare, le
squadre, i cartoncini, gli astucci, i quaderni immacolati, la pila di libri di testo, l’odore
di cuoio delle cartelle, il fruscio sintetico degli zainetti. Eh sì! Mettono proprio addosso
la voglia di studiare. Perfino il nuovo tesserino dell’autobus, con la foto che già ci
mostra più grandi di un anno, invoglia a partire di filato in classe.
Tornati a casa, cominciamo a sfogliare i libri, a guardare le illustrazioni, a rivestire i
libri con foderine, ad applicare etichette. Si allineano in bell’ordine tutte le munizioni
per la nostra nuova spedizione di caccia in terra incognita. Ci tornano in mente i vecchi
compagni, e ci immaginiamo i nuovi, con nuovi cognomi, ma che pure ci sembrerà di
aver già sentito. Quest’anno forse avremo in classe con noi il cugino di Roberto, la
sorella di Maria; peccato che non ci sarà più il Bianchi. Per non parlare dei professori
nuovi, o che conosciamo solo di vista. Quello nuovo di lettere, che si dice sia terribile,
mentre quella di matematica pare sia bravissima e simpatica.
E’ proprio un momento benedetto, questo del rientro a scuola. Ah, se solo potessimo
prolungare quell’eccitazione, quella voglia, per tutto l’anno!
Possiamo forse soffermarci un attimo su questo speciale umore, e farne tesoro, anche
per “ entrare “ nel nostro argomento. Scattiamone pure un’istantanea, perché sarà per
noi quanto mai rivelatrice. Diamo pure per scontato che la voglia poi non durerà, o
comunque non sarà più così solare, gioiosa ed elettrizzante. Per un momento almeno,
però, sentiamo di averla addosso. Per un momento almeno abbiamo esperienza diretta
di cosa significherebbe avere sempre quella voglia, se la magia di quel momento
durasse. In fondo, gli ingredienti di questa miscela, apparentemente così magica, sono
semplici. E sono efficaci come sanno esserlo le cose semplici.
Innanzitutto, c’è aria di inebriante odore del nuovo, lo stesso che si respira nelle auto
nuove e negli edifici appena terminati. L’anno scolastico nuovo ha proprio questo
odore. Ci fa respirare ordine, pulizia, buoni propositi. Inoltre, agisce in noi la serena e
fattiva energia di chi riparte da zero, la stessa degli emigrati che un tempo finalmente
sbarcavano nel nuovo continente, il robusto slancio di chiunque riesce ad azzerare il
14 La voglia di studiare
Così fan tutti
passato e si accinge a rifarsi una vita diversa. Infine, senza che ce ne rendiamo ben
conto, ma come dimostra la nostra fierezza per la foto sulla tessera, proviamo la
soddisfazione di aver superato un’altra prova di “ iniziazione “, di essere più grandi,
più maturi, più inseriti nel club degli adulti. Nelle società arcaiche si marcano (spesso
anche corporalmente, con anelli, cicatrici e tatuaggi), i giovani che accedono a uno
status sociale più elevato superando con successo ardue prove fisiche. Da noi poco è
rimasto di questi antichi riti d’iniziazione, tolta una blanda cerimonia di cresima e
prima comunione per i cattolici, e il Bar Mitzvah per gli ebrei. Infatti, nella nostra
società è soprattutto la scuola che si incarica di celebrare i veri riti di iniziazione, di
marcare la nostra progressiva transizione allo stato adulto. Ogni nuovo scolastico
rappresenta, quindi,anche un ulteriore gradino in un’ascesa iniziatica. Il momento in
cui questa preziosa “ convalida “ viene da ciascuno confusamente, ma profondamente,
avvertita è proprio quello del rientro in classe.
Sono questi, in sintesi, gli ingredienti della miscela magica e i semplici segreti della
loro efficacia.. a saper ben guardare, li ritroviamo intatti anche negli adulti. Un paio di
anni fa portai a fare un giro dell’università di Harvard un mio caro e vecchio amico
fiorentino che era venuto a trovarmi. Mio ex compagno di classe, è oggi uno stimato
professionista, ma la voglia di studiare gli ha sempre fatto un po’ difetto (sarebbe lui il
primo ad ammetterlo). Con sua moglie e sua figlia girovagammo una sera tra i college
e gli istituti, osservando dalla penombra esterna dei parchi tante finestre illuminate,
con dentro biblioteche, lezioni in pieno svolgimento, teste chine sui libri, gambe
incrociate sui tavoli, e fuori rastrelliere di biciclette, gruppi di studenti che
passeggiavano, conversavano, o si lanciavano abilmente l’un l’altro l’immancabile
frisbee. Tutto questo dovette sembrargli magico ed elettrizzante, proprio perché
diverso, ordinato, maturo, iniziatici. Dovette anche balenargli per un attimo l’idea di
riazzerare tutto, di ripartire per una scalata tanto “ diversa “. Disse infatti, rapito: “ Eh
certo, qui ti viene davvero la voglia di studiare !”. e aveva ragione, perché questa
comunità è stata interamente progettata per farla venire, ed è interamente gestita in
modo da mantenerla nel tempo. Anche in altri episodi analoghi mi sono accorto che
una visita a luoghi come questi mette a tutti la voglia di ricominciare a studiare. Dal
che si vede come gli ingredienti della miscela, quando sono riuniti, funzionano
infallibilmente, a qualunque età.
Il professore, questo sconosciuto
Vale per i nostri professori quello che si dice anche dei primi amori: che non si
scordano mai. Ogni ritratto nella galleria mentale dei nostri professori rappresenta un
groviglio di sentimenti intensi: stima o dileggio, paura o confidenza, antipatia o
simpatia (spesso tutti e due gli opposti insieme). A parte i familiari stretti e gli amici
del cuore, poche persone conteranno nella nostra vita quanto hanno contato loro.
Alcuni ce li portiamo segretamente dentro, con grande affetto, per tutta la vita.
Diventano i nostri testimoni “segreti”. Passano gli anni e ci succedono tante cose che
La voglia di studiare 15
astrattamente ci farebbe ancora piacere poter discutere con loro. Leggiamo tanti libri e
formuliamo tanti giudizi che ameremmo poter ancora verificare con loro. Ci hanno
veramente segnato per sempre. Incarnano nel mondo moderno l’antichissima figura del
“maestro”, cioè la fonte della sapienza e il testimone idealizzato della nostra parte
migliore. Questo affetto, questa presenza costante penso siano, per chi sa
conquistarseli, la sola vera ricompensa a un mestiere in fondo così ingrato,
economicamente e socialmente poco rispettato, carico di crucci e di responsabilità. Un
punto, questo, sul quale ritorneremo presto.
Però, diciamolo pure, a volte taluni ci sembravano proprio dei marziani. E talaltri ci
facevano un po’ pena. E tutti possiamo testimoniare di aver subito certi piccoli
sadismi, certe angherie, certi rituali stupidi. Ricordo un mio professore di lettere alle
medie che puniva le marachelle facendoci stare in ginocchio in terra per ore, e ci
imponeva a turno la corvè di scortarlo a casa, dopo la fine delle lezioni, con il pacco
dei temi, o dei compiti di latino, svolti in classe. Tra i discreti, ma cocenti, lazzi dei
compagni (sia della nostra che delle altre classi) ci si incamminava, un passo indietro,
con il pacchetto dei fogli protocollo piegati longitudinalmente in due, dietro di lui, in
silenzio, non solo fino al suo portone, ma anche su per tre piani di scale, deponendo
infine il malloppo su un tavolone di legno scuro. Mai si poterono capire le ragioni di
questo suo assurdo e arbitrario rituale, che ci costringeva ad abbandonare i compagni
proprio nel momento più bello della giornata scolastica, cioè all’uscita, e ci investiva di
una funzione mista tra il chierichetto, la sentinella, il corriere diplomatico e la scorta
della Wells Fargo. Cosa avesse in testa non lo scoprimmo mai e nel nostro ricordo
resterà per sempre il marziano che allora. Appariva. Il sentimento di totale alienazione
che si prova nei confronti di certi professori è tra i principali responsabili della perdita
della voglia di studiare. Forse vale la pena di capire meglio che razza di gente siano,
questi marziani.
Pochi anni dopo, all’università, mi trovai proprio nella fabbrica dei professori di
matematica. Esisteva ancora in quegli anni in Italia una curiosa laurea in “matematica
e fisica” (fu soppressa mentre io ero ancora studente), voluta a suo tempo dalla riforma
Gentile, e destinata proprio a formare gli insegnanti di scuola secondaria superiore.
Molte lezioni erano comuni tra chi (come me) faceva fisica “pura”, chi faceva
matematica ”pura”, e chi aveva abbracciato questa laurea mista, cioè chi si era fin da
principio votato all’insegnamento nelle scuole. Giorno dopo giorno, a contatto di
gomito, vedevo nascere tutto intorno a me alcuni di questi marziani. Anzi, già allora
erano soprattutto marziane. L’Italia era carente di insegnanti di materie scientifiche ed
erano frequentissime le “supplenze” di insegnamento svolte nelle scuole da studenti
universitari del terzo anno e oltre. Però, data la carenza, dovuta anche all’arrivo
massiccio sulla scena scolastica dei nati durante il baby boom del dopoguerra, finì che
anche studenti del secondo anno spesso insegnavano. Quindi, alcuni di questi marziani
erano già lanciati nell’insegnamento (come del resto feci anche io) e scoprii con
sgomento quanto amassero raccontarsi l’un l’altro le corbellerie sentite dire dai loro
scolari. Alcune gocce di essenza di sadismo già spargevano il loro mefitico odore. La
fabbrica dei professori sembrava, molto naturalmente, produrre anche questa essenza.
Finita l’università, passarono poi anni senza che mai più mi capitasse di sentire i
ricercatori e i professori raccontarsi ridendo le bestialità sentite agli esami. Finché una
16 La voglia di studiare
Così fan tutti
sera a Princeton , in una birreria, due giovani e valentissimi fisici (devo dire con
rammarico che erano ambedue italiani) mi catapultarono indietro nel tempo, perché
presero a sciorinare con gusto perverso le scempiaggini dei loro studenti. Era come
quando uno comincia a raccontare barzellette e tutti poi vogliono raccontare la loro.
Non me la sentii di dir loro apertamente che, a dispetto della loro valentia scientifica,
erano due balordi, e mi limitai a lasciare il locale, salutando compitamente. Come i
medici non ridono delle malattie dei loro pazienti, così i professori non dovrebbero mai
ridere dell’ignoranza dei propri studenti. Questo è puro (seppur piccolo) sadismo, e il
sadismo è una colpa gravissima.
Ogni organizzazione, ogni ufficio, ogni fabbrica ha la sua brava quota di ritualisti
ossessivi, di sadici, di petulanti. In fondo i marziani sono tutt’intorno a noi. La
professione dell’insegnamento non è diversa. Di diverso c’è il fatto che, come
nell’esercito, un singolo individuo può “segnare”, nel corso della sua carriera, molte
centinaia di giovani. E li segna, nel bene o nel male, in un’età particolarmente difficile,
sotto un regime di speciale soggezione, in un periodo di particolare plasticità. A questo
bisogna aggiungere che, una volta adulti e vaccinati, ci può anche importare poco di
non essere considerati da un superiore valenti cassieri, abili spedizionieri o bravi
impiegati. Possiamo sempre pensare che è lui che ha torto, e tirare a campare come
prima. Ma l’ignoranza messa a nudo dal professore ci brucia dentro con ben altro
fuoco, lascia una cicatrice indelebile. Trovarsi a non sapere quello che si dovrebbe
sapere, o ad aver detto una bestialità, è una bruttissima esperienza. Ci si trova
scaraventati di colpo in uno dei pozzi più profondi dell’esistenza, è come essere
rifiutati da un essere amato, come vedersi sottratto con frode qualcosa che ci spetta.
L’ignoranza smascherata ci brucia dentro, perché il nostro amor proprio riceve un
insulto intollerabile. Infatti, nella vita ordinaria, al di fuori della scuola, dell’università
e del mondo accademico, riteniamo offensivo far presente a qualcuno che non sa, o che
ha detto una bestialità. Facciamo finta di niente. Quando si tratta di cose veramente
importanti, correggiamo, ma andandoci con i piedi di piombo, con circospezione.
Usiamo perifrasi come “ A me consterebbe invece che ..”, “Forse non è proprio come
dice Lei,” Vede, c’è chi afferma, invece, che …”. Perfino nel correggere uno straniero
nell’uso dell’italiano prendiamo ogni precauzione. Lo correggiamo con garbo, con
humor, solo quando riteniamo che lasciargli dire quelle cose, in quel modo, rischia alla
lunga di ferire ancora di più il suo amor proprio. Il rispetto per l’altro e le regole della
buona creanza ci impediscono di “denunciare” in modo esplicito e diretto l’ignoranza
altrui. E ci aspettiamo che questo si applichi anche a noi.
Sapere e potere
Lo speciale sadismo della persona saccente a danno dell’ignorante ha una storia
lunga, densa e amara. C’è chi ci ha ravvisato, con ragione, una ennesima
manifestazione di sopruso delle classi dominanti sulle classi subalterne. Quando la
messa e le sue funzioni erano ancora in latino, tanti bravi cattolici hanno, assai poco
caritatevolmente, deriso gli svarioni del “popolino” (da nobis hodie che diventava
“donna bissodia”, regina sanctorum omnium che diventava “regina santo rumorio”,
La voglia di studiare 17
consolatrix afflictorum che diventava “consolate san frittorio”). Anche Renzo,
sgridando don Abbondio, lo accusa di tenerlo in soggezione con il suo “latinorum”. Il
sapere come strumento di sopruso e di discriminazione ha spinto i bianchi a ridere
delle sgrammaticature e dell’accento dei negri, i wasp (white Anglo – Saxon protestnt)
a ridere degli ebrei. Questo uso razzista e classista della cultura ha, purtroppo, una sua
ben reale esistenza, ma l’analisi in termini di classi sociali non basta a spiegare il
fenomeno. I professori autenticamente (non solo marginalmente e occasionalmente)
sadici sono, per fortuna, un’infima minoranza, e infieriscono anche all’interno della
loro classe sociale, anche sugli studenti più bravi, anzi semmai lo fanno con cresciuta
ferocia. Alcuni rari esemplari si trovano persino al vertice della piramide accademica,
e sono in genere molto mal visti dai colleghi, anche nella comunità scientifica, dove la
correttezza di quanto si afferma rappresenta un elementare requisito. Esistono, per
esempio, coloro che sbugiardano platealmente i colleghi con sufficienza e con
tracotanza. Il grande fisico Julius Robert Oppenheimer, padre della bomba atomica e
poi per anni direttore del prestigioso Institute for Advanced Study di Princeton, mi si
dice fosse leggendario. Conosco colleghi che ancora, dopo tanti anni, sono risentiti per
l’alterigia e il sadismo con il quale pare trattasse i giovani fisici alle prime armi. Negli
ambienti accademici si fanno i nomi anche di altri celebri studiosi, in svariati campi,
affetti da questo speciale sadismo.
Se, a quanto si dice spesso, sapere è potere, ebbene, come il potere anche il sapere, a
volte dà alla testa. La vertigine del sapere, che è buona, genera a volte la vertigine del
potere basato sul sapere, che è invece pessima. Ogni manifestazione d’ignoranza
dovrebbe dolerci, come fosse vissuta in proprio, con pena e con partecipazione.
All’opposto, lo studente bravo dovrebbe sempre allargarci il cuore, darci testimonianza
diretta e immediata delle straordinarie possibilità della mente umana. Certi professori
diventano spietati proprio con i più bravi, ma solo per spingerli a fare ancora meglio.
C’è chi, invece, di fronte allo studente bravo avverte l’impulso di “fargli abbassare la
cresta”, e chi trova nell’ignoranza altrui un’occasione per ribadire la propria
individuale superiorità. Con i piccoli sadismi, le piccole ossessioni, le mini-ritualità di
certi professori bisogna pur imparare a convivere. Non voglio certo scusarli (nemmeno
se, come abbiamo visto, si tratta a volte delle più luminose menti dell’umanità), ma
vorrei sottolineare che è il loro mestiere anche mettere il dito sulle piaghe della nostra
ignoranza. Un po’ come il medico deve palpare e sollecitare anche le zone dolenti per
arrivare a una diagnosi. C’è la domanda a trabocchetto, ma c’è anche la domanda fatta
ad arte, per capire se si è capito. Non tutte le durezze sono dovute a sadismo. Nessun
errore è tanto evidente e tanto istruttivo quanto quello di cui ci accorgiamo da soli,
sotto le domande incalzanti del professore. Non è affatto sadismo far capire “da solo” a
uno studente che quanto ha detto non è corretto. E’ molto meglio portarlo
progressivamente a scoprirlo, che non dirgli semplicemente e brutalmente che non è
corretto. Certo, bisogna aggiungere che c’è modo e modo di farlo.l’intenso bruciore
che provoca l’ignoranza messa a nudo deve diventare un incentivo a saperne di più,
deve essere trattato come una terapia eccezionale, non deve diventare un’arma
terroristica che lascia lo studente umiliato e vendicativo. Dall’umiliazione non si è mai
visto nascere la voglia di studiare, né ci si può aspettare che la vendetta dello studente
sia quella di diventare un cannone, così, solo per farci rabbia.
18 La voglia di studiare
Così fan tutti
D’altro canto, occorre anche che lo studente sappia mettersi, almeno ogni tanto, “nei
panni” dei professori. Ad ogni studente la disavventura del compito,
dell’interrogazione, dello scrutinio appare ingigantita proprio dal fatto che è sua. Ma
un professore si vede sfilare davanti, anno dopo anno, innumerevoli disavventure
analoghe. Finisce per riconoscere a occhi chiusi tutti i trucchi, tutte le furberie, tutte le
scuse. La ripetitività della vicenda finisce per sviluppare il callo del mestiere. Nel
professore subentra il caratteristico distacco del professionista, mentre si affina un
certo “occhio clinico”. Tutte cose che bisogna saper capire, rendendosi conto che
hanno anche molti risvolti positivi. Il buon professore sa già in anticipo quali aspetti
della sua materia risultano più ostici, previene i fraintendimenti più spontanei, ha
selezionato gli esempi più parlanti, già intuisce alla nostra prima risposta quello che
non si è capito, e sa perché non lo si è capito. Questi sono i tratti tipici di ogni
professionista. Li ritroviamo, pur con le differenze del caso, anche nell’avvocato, nel
medico, nel giornalista. Guai se il medico soffrisse insieme ad ogni paziente; guai se
l’avvocato simpatizzasse a tal punto con il proprio cliente da non vedere le parti deboli
del suo caso; guai se il giornalista simpatizzasse troppo con ogni intervistato,
scordandosi il punto di vista dei lettori. L’obiettività e il distacco del professionista
sono la migliore garanzia del corretto svolgimento delle sue mansioni. Anche in
questo, i professori non sono diversi. Prendiamo, quindi, di buon animo anche le loro
fissazioni e i loro piccoli ritualismi, perché una certa metodicità e una certa
inflessibilità tornano tutte a nostro vantaggio. Così come torna a nostro vantaggio che
una materia non resti amorfa, ma sia organizzata da una certa visione. A dispetto di
tanti tentativi, niente è stato ancora trovato che possa sostituire il professore. La
trasmissione del sapere si è sempre fatta, e penso si farà anche nel futuro, da persona a
persona. In quanto persona, unica e irripetibile, ogni professore rappresenta anche uno
speciale mondo. e questo suo mondo, in qualche modo, ce lo trasmette, insieme ai
contenuti della materia. Con il passare degli anni, volenti o nolenti, scopriremo di
portarci ancora dentro dei frammenti di questi mondi, e verrà forse il giorno in cui
riconosceremo in loro una ricchezza. Pur con i suoi difetti e le sue limitazioni, anche il
professore più strambo è sempre infinitamente meno marziano di un computer, di una
cassetta registrata, di uno schermo di televisione.
La figura del professore
Per meglio comprendere il malcerto status sociale del professore occorre rendersi
conto che, per lunghi secoli, prima della creazione dei sistemi scolastici nazionali, gli
insegnanti, gli istitutori, i maestri di musica e di canto erano, in fondo, dei servitori. I
patrizi della Roma imperiale se li compravano addirittura al mercato degli schiavi,
anche se poi, di norma, dopo qualche anno di buoni servigi, concedevano loro la
libertà. Nelle corti europee e nei palazzi degli aristocratici, gli istitutori dei nobili
rampolli erano alloggiati con la servitù, mangiavano nelle cucine, non di rado
indossavano la livrea, e ricevevano stipendi superiori a quelli di un giardiniere, ma inferiori a
quelli di un gran maggiordomo. Un esempio famoso è quello del compositore Franz
La voglia di studiare 19
Joseph Haydin che, già celebre in tutta Europa e spesso chiamato ad esibirsi alla corte
dell’imperatore, pur continuava, in quanto maestro di cappella, a vivere nell’ala della
servitù dei principi Esterhàzy. Tutta una letteratura sentimentale, oggi giustamente
dimenticata, testimonia l’enorme imbarazzo creato dagli inopportuni innamoramenti
tra le contessine e i loro insegnanti di francese, di pianoforte o di equitazione. La
cacciata dal palazzo, e il bando sempiterno dalla contea, erano il minimo che potesse
capitare (ripenso al film Il cigno, con Grace Kelly e Alec Guiness, che racconta
proprio una simile storia). Gli innamoramenti ribaltati, tra il signor contino e
l’istitutrice delle sue sorelle o cugine, terminavano in modo meno drammatico, magari
con un figlio “naturale”, e destinato a diventare pala freniere, o magari a scappare dal
palazzo, per poi ritornarvi un giorno da tenentino, o da capo rivoluzionario, a
reclamare i suoi diritti e la sua fetta di patrimonio.
Romanzi a parte, lo status sociale del professore spesso resta, nell’immaginario
collettivo, ancora oggi quello del piccolo funzionario, che in inglese si chiamerebbe,
sintomaticamente, social servant. Per molti, ancora oggi, il professore è,
archetipicamente, un borghese piccolo piccolo. Il celeberrimo professor Unrat del film
L’angelo azzurro è un poveraccio che sbarca il lunario in una misera camera
ammobiliata, porta vestiti lisi e biancheria dal candore malcerto, si paga a stento,
eccezionalmente, una tantum, l’ingresso in un locale notturno che i suoi studenti, figli
di borghesi agiati, frequentano puntualmente ogni sera. Le cose sono un po’ cambiate,
in quanto nel mondo moderno il professore rappresenta la porta verso l’ascesa sociale,
è il ministro dei grandi e temuti riti di iniziazione alle professioni. Non sempre è
garantito, però, che il prestigio delle professioni si trasmetta sul professore che ne dà
l’accesso. Gli ex studenti delle grandi università americane appartengono ancora oggi a
club esclusivissimi, dove non ci si sogna di ammettere i loro professori, nemmeno se
hanno due premi Nobel, a meno che non siano a loro volta ex studenti di quella
università Negli Stati Uniti, e in genere nel mondo anglosassone, il titolo di
“professore” viene usato solo all’interno del mondo accademico. Non impressiona
proprio nessuno, al di fuori del campus universitario. Nei ristoranti, nei salotti, in TV, i
professori non vengono mai chiamati per tali. Quando un mio amico, insigne
professore a Harvard, divenne ministro nell’amministrazione Reagan, era per tuti, sia
in pubblico che in privato, “Mister Fried”. Oggi è ritornato ad essere professore, ma,
appunto, solo entro le mura del campus. Il curioso e inspiegabile prestigio di cui gode
oggi in Italia l’appellativo di “professore” è cosa recente. Lo si deve, penso, in parte al
fatto che tanti uomini politici, e in genere uomini potenti, sono comunemente chiamati
anche “professore”, e alla presenza costante dei “professori” mondani in televisione.
Quanto poco prestigio avesse in Italia il titolo di professore, anche agli occhi dei
grandi borghesi delle generazioni passate, è comprovato dalla reazione che ebbe un
mio carissimo zio commerciante, quando gli annunciai che intendevo intraprendere la
carriera accademica. Eravamo agli inizi degli anni Sessanta, e lui era già assai in là con
l’età. Calcando a bella posta, per vezzo, il suo accento romano, ni chiese incredulo: “
Ma che, voj fa davvero er professore?”. Risposi che non ci vedevo niente di male. Con
affettuoso compatimento, mi spiegò: “ Quando senti dì che uno è professore, te se
stringe er core!”. Poi mi indicò le vetrine del suo splendido ed esclusivo negozio di
abbigliamento per uomo. “Vedi, ce n’è uno, un professore, che passa sempre davanti
20 La voglia di studiare
Così fan tutti
alla vetrina. Poi entra, chiede i prezzi, e se ne va via senza comprà mai gnente.
Poveraccio, te fa ‘na pena!”. Ho impiegato trent’anni per capire a fondo quel suo
messaggio. Mio zio non aveva proprio tutti i torti. Unrat sarà pure “Herr Professor” in
classe, ma nel vasto mondo resta sempre il miserello Unrat.
Dovevo presto rendermi conto che è con questo misto di deferenza formale e di
compatimento sociale che, talvolta, il genitore gran borghese va a parlare con
l’insegnante del figlio. Occorre niente, in questi colloqui, per passare dall’una all’altro.
Ben lo so per esperienza personale, come mostrano i seguenti aneddoti di vita vissuta.
Un primo perentorio richiamo all’ordine lo ebbi quando, giovanissimo, insegnavo
matematica e fisica in un liceo classico. In una sezione della quarta ginnasio avevo una
perla di studentessa, vispissima, attenta, spiritosa, intelligentissima. Se si potessero
avere sempre e solo studenti come lei, credo che l’insegnamento diventerebbe il più
bel mestiere del mondo. naturalmente, riceveva da tutti gli insegnanti ottimo voti. Fui
sorpreso, quindi, di veder arrivare a colloquio, nell’ora di ricevimento dei genitori, sua
madre, un’elegante e austera signora. Voleva sapere come andava sua figlia in
matematica. Animato da sacro zelo, volli comunicarle non solo che andava benissimo
in matematica, ma che era un vero tesoro di ragazza. Lodai la sua gentilezza, la sua
intelligenza, il suo stile. Con mia grande sorpresa (ho detto, ero molto giovane) quella
gran dama la prese molto male. Mi rimise costantemente, seppur cortesemente, al mio
posto. Non era venuta per sentirsi decantare le doti di sua figlia, voleva solo sapere
come andava in matematica. Se ne andò compitamente, in gran gelo. Sia che si fosse
risentita dell’inopportunità di un giudizio così globale, forse troppo “intimo”, ia che
temesse, assurdamente, da parte mia un’ammirazione più che professorale per sua
figlia (in fondo avevo poco più di vent’anni), mi aveva prontamente, seppur
allegoricamente, fatto indossare le polpe e la livrea del servitore. I professorini non
devono permettersi di alzare troppo la cresta al cospetto dei “signori” del gran mondo.
Una reazione non troppo diversa la ebbi da parte dei due genitori, venuti a colloquio
insieme, di un allievo di seconda liceo, al quale mi ero permesso di dare, dopo
un’interrogazione, “solo” la sufficienza. Quel ragazzo aveva, invece, l’abitudine di
prendere tutti sette. Studiava molto, ma in modo pedissequo, mnemonico, non capiva
veramente quello che studiava. Aveva anche la fisionomia e il modo di fare, un po’
patetico, del secchione. Ingenuamente, mi ero ripromesso di infondere un po’ di vita,
un po’ di ardore, in quella mente ligia e poco immaginativa. Mi ero accorto che, a ben
grattare, il senso vero di quello che sapeva gli era del tutto ignoto. Non si poneva mai
un “perché”. Glielo avevo fatto presente, sia in classe che in privato, e gli avevo dato
un sei, proprio per svegliarlo dal suo torpore. Onestamente, più del sei non meritava.
Quando, puntuali, i suoi genitori vennero a lamentarsi, cercai di far loro presente che
quel ragazzo andava un po’ “energizzato”, doveva entrare nella vita, non solo
trincerarsi dietro i libri. Studiava perfino troppo, ma male. Suggerii diversivi,
allargamenti di orizzonte, qualche sport, qualche passatempo all’aria aperta, qualche
hobby. Più rispettosi di quanto era stata la gran dama, forse anche perché di condizione
sociale molto più modesta, quei genitori, una volta di più, mi richiamarono alla mia
funzione. Facessi il mio mestiere e non mi impicciassi di fatti che non mi
competevano. Visto che aveva sempre avuto la media del sette, qualcosa non andava: o
non aveva studiato abbastanza, e allora lo avrebbero punito, o c’era qualcosa che non
La voglia di studiare 21
andava nel mio giudizio e nel mio insegnamento. Li scongiurai di non punirlo, ma non
mi riuscì di far passare quel mio altro messaggio, che pure mi pareva tanto importante.
Rimasi “al mio posto ”, rassegnato. Quel ragazzo migliorò marginalmente in
matematica e in fisica, ma restò nella sua prigione comportamentale. Lo riportai
gradualmente al “suo” sette, premiando essenzialmente l’accresciuto impegno,
salvandolo così anche dagli eccessivi rigori della sua famiglia. Scoprii che i margini
del mio potere di intervento erano, comunque, molto limitati. Dovevo stare “al mio
posto”, giardiniere di un’aiuola delle conoscenze, non architetto di parchi.
Il “triangolo” genitori- studente – professore ha i suoi sensi unici e molti divieti di
transito. Talvolta si riesce a far circolare qualcosa, ma spesso la comunicazione è
strozzata da troppi fraintendimenti e troppe proiezioni. Gli psicanalisti parlano di
“proiezioni di desiderio”, il voler vedere realizzati valori, ideali, immagini di sé e dei
propri figli, anche quando queste proiezioni hanno poco a che vedere con la realtà. Mi
dice sempre, testualmente, ma in privato, un celebre psicanalista: ” Non si può fare
niente per la gente” (essendo di origine argentina, pronuncia “chente”). Lo dice per
celia, ma ci sono casi in cui questo suo motto mi torna in mente, e le sue mi paiono
parole sante. Anche i professori, spesso, devono sconsolatamente convenire con lui.
Soprattutto quando si vedono richiamati al loro ruolo storico di servitori. Intendo
servitori non del sapere, che questo sarebbe un servire nobile, ma proprio delle
proiezioni di desiderio che i genitori fanno sui figli e sulla scuola.
Il genitore dello studente
Nel rapporto con i professori molti genitori si scoprono un “io diviso”. Sono,
naturalmente, per voce del sangue, dalla parte dei loro figli, ma sono anche, per
appartenenza generazionale e per funzione educativa, dalla parte del professore. Tra
genitore e professore si crea, molto naturalmente, un’intesa, un’alleanza, un’azione
concertata. Per certi aspetti, il triangolo avvicina i punti di vista del genitore e del
professore e “punta” con angolo stretto, a distanza, contro il vertice occupato dallo
studente. Per certi altri, però, i vertici occupati dallo studente e dal suo genitore sono
molto vicini, e il triangolo “punta” anche, con angolo stretto, sul vertice lontano
occupato da questo perfetto estraneo che è il professore. Una geometria davvero
curiosa. Tutto questo fa si che il colloquio con i professori si vada sempre con
sentimenti alterni, e con scopi alterni. Ci andiamo per ricevere una diagnosi, per
renderci conto di una situazione di fatto, ma anche per persuadere, spiegare,
intercedere. Non di rado, anche per sedurre. Intendo dire, non mi si fraintenda, far
buona impressione, presentarsi in buona luce (i francesi direbbero charmer). Talvolta,
come abbiamo appena visto, anche per “rimettere al suo posto” questo piccolo
funzionario. Prima di tutto, vogliamo proprio vedere che tipo è. Corrisponderà davvero
all’immagine che ce siamo fatti attraverso le descrizioni, magari poco obiettive, dei
nostri ragazzi? Simmetricamente, il professore verifica sulla persona fisica del
22 La voglia di studiare
Così fan tutti
genitore, spesso con sorpresa, un’immagine vaga che se ne era fatta, attraverso il
carattere del figlio.
Il triangolo è fatto di tutte queste proiezioni incrociate che in parte, nell’atto del
colloquio, si calano nella realtà, ma in parte si sforzano di trasformare la realtà a loro
immagine. Il non-detto e l’indicibile pesano almeno quanto il detto. I rapidi calcoli
delle suscettibilità si incrociano e si ingarbugliano. Il genitore cerca di dire cose che
pensa saranno gradite al professore, il professore cerca di modulare il messaggio in un
modo che pensa lo renda accettabile al genitore. C’è sempre una componente rituale in
questi colloqui, qualcosa che li rende significativi per il solo fatto di svolgersi, al di là
delle informazioni e delle decisioni che ne scaturiscono. La presentazione di sé, la
conferma dei ruoli, la misura delle reciproche distanze sono altrettanto importanti del
contenuto concreto. Su questo, sulla materia, spesso non c’è poi gran che da dire.
Ancora con il maestro e la maestra delle elementari ci si consultava globalmente,
parlavamo del carattere dei nostri figli e dei loro problemi generali, ma con i professori
di scuola media superiore si parla solo del rendimento nella loro materia. Come dicevo,
sono giardinieri qualificati di piccole aiuole, non certo confidenti, confessori, guide di
anime, né maîtres à penser. Hanno in loro pugno, ahimè, la chiave della promozione,
decidono del futuro, delle vacanze, del week-end prolungato, della spesa per le
ripetizioni. Detengono la chiave di porte attraverso le quali l’intera strategia di vita
della famiglia deve passare. Quello che di fatto insegnano non riguarda molto il
genitore, almeno non specificamente. Talvolta non si capisce nemmeno il titolo di
quello che insegnano, men che mai le sotto-materie nelle quali, ci dicono, “ il ragazzo”
o la “ragazza” sono debolucci.
Quasi che la geometria del triangolo non fosse già abbastanza complicata, nello
specifico delle materie i vertici occupati dal professore e dallo studente si avvicinano
(loro sanno di cosa stiamo parlando) e il triangolo ora “punta” ad angolo stretto, a
distanza, sul genitore, ignaro di trigonometria, di mineralogia, di Orazio, di Hegel. Il
messaggio, ridotto al suo minimo denominatore, è che deve studiare “di più” quelle
cose, qualunque cosa siano. Ci impegniamo a farlo impegnare a studiare di più. Resta
poco altro da dire e da fare, al livello dei contenuti, al livello del messaggio esplicito. Il
resto è comunicazione non-verbale, rito, presentazione di sé, charme, velata diffida,
quando non è contrattazione esplicita. Ci andiamo per verificare cose tanto impalpabili
quanto decisive. Dal colloquio si riceve una massa confusa, ma cruciale, di impressioni
e di riflessioni. Abbiamo finalmente visto che tipo è questa professoressa, questo
preside, e ci siamo sentiti dire “come va” nostro figlio, ma contano anche tante altre
sensazioni: la luce, il suono e perfino l’odore di quella scuola, lo stato del mobilio e dei
muri, il comportamento dei bidelli, il brusio che emana dalle aule, gli sguardi dei
ragazzi nelle scale e nei corridoi. Anche tutte queste impressioni decideranno il nostro
successivo “intervento”.
Questi colloqui sono immersioni totali in un mondo, non sono solo faccende da
sbrigare. Rappresentano viaggi nel tempo, rese dei conti, “ritorni al futuro”. Suscitano
ondate di ricordi, di rimpianti, cristallizzano in noi propositi e decisioni, ma invitano
spesso anche al fatalismo. Vediamo il ripetersi dei cicli, ci scontriamo contro
l’inevitabilità della natura umana. Insomma, ci domandiamo quanto possa cambiare il
nostro, pur necessario, “intervento”. Ci riaffiora alla mente, quando non alle labbra,
La voglia di studiare 23
proprio l’adorcismo della voglia di studiare. “Ah, se solo gli venisse la voglia!”. Come
dirglielo, come “prenderlo”, su cosa far leva? Rimuginiamo tra noi i modi di
cominciare il discorso, le minacce possibili, le promesse efficaci. Cosa diremo al suo
babbo (o alla sua mamma)? Come la prenderà, cosa dirà lui (o lei)? Cosa gli dirà?
Come dovremo poi compensare? Essere più severi, meno severi? Sarà, davvero, quella
sezione, quella scuola, “giusta” per lui? Dovremmo, forse, “toglierlo da li”?
Vissuti nella singolarità e nella irriproducibilità del singolo, questi dilemmi dei
genitori, il garbuglio di queste situazioni “a tre”, paiono spesso senza vera via d’uscita.
Si oscilla tra il volontarismo interventista e il fatalismo disincantato. Le proiezioni di
desiderio si amplificano e si esasperano. Siccome non dobbiamo esser pessimisti come
il mio amico psicanalista, siccome dobbiamo pensare che qualcosa si può fare “per la
chente”, conviene suddividere i problemi.
L’ignoranza tollerata, e quella tollerabile
Con l’eccezione di rari individui, entro campi molto ristretti, tutti conviviamo
tranquillamente con le nostre molteplici ignoranze. Tutti siamo circondati da oggetti,
parole, nomi propri, luoghi e concetti di cui sappiamo solo il minimo indispensabile,
niente di meno, e niente di più. Fino a quando qualche necessità specifica non ci forza
ad approfondire le nostre conoscenze, lasciamo tranquillamente le cose come stanno.
Pochi lettori probabilmente sanno esattamente cosa significano tutte le seguenti parole:
abigeato, entropia, bolina, isomero, rogito, cugno, coppiglia, tutolo. Ho preso a bella
posta un misto di termini nautici, legali, scientifici, e di parole legate a certi particolari
mestieri. Ogni lettore, però, le avrà già incontrate, e avrà una qualche idea su cosa
possano significare. Alcune di queste idee saranno una buona approssimazione del
significato, altre saranno supposizioni tirate lì a caso, in base al suono, alla similarità
con altre parole, o all’esclusione, visto che non appartengono a settori che il lettore ben
conosce. Ebbene, questo breve elenco dimostra che tutti noi parliamo una lingua, che è
nostra, ma nella quale flottano centinaia di termini dei quali ignoriamo il significato
esatto. Visto che nessuno passa ore e ore al giorno a consultare i dizionari, vuol dire
che questo stato di parziale ignoranza ci sta benissimo. Vuol dire che siamo venuti a
un compromesso stabile con le nostre ignoranze. Più sintomatico ancora è che tutti noi
talvolta usiamo, nel discorso corrente, termini di cui sappiamo di ignorare il significato
esatto. Ho sentito spessissimo anche persone di notevole cultura esitare sull’uso del
verbo “peritarsi”. Per esempio dire “si perita di …” intendendo “si fa premura di …”,
pur sospettando che voglia dire tutt’altro. Infatti, vuol dire “fa a meno per riguardo”,
“si priva intenzionalmente anche a prezzo di sacrificio”. “Non si è certo peritato di
farmi sapere che la richiesta era stata respinta” sottintende che poteva anche
risparmiarsi di dirmelo. Significa che ci gode, non che se ne è fatto premura.
Questo tipo di “distrazione” linguistica è quanto mai sintomatico. Perché sentiamo il
bisogno di usare termini che non comprendiamo a fondo? E perché non ci prendiamo
la briga di spendere sei o sette miseri minuti per consultare un dizionario? Perché
24 La voglia di studiare
Così fan tutti
siamo pigri? O perché, in fondo, non ci importa? O perché crediamo di saperne
abbastanza, anche se ci rendiamo conto di non saperla tutta? Quest’ultima mi sembra
essere la spiegazione più plausibile. Ed è un tratto della natura umana quanto mai
fondamentale. Forse sarebbe utile capirlo meglio, prima di dare addosso agli studenti
che non studiano “abbastanza”. Davvero qui dovrebbe valere il precetto:scagli la prima
pietra chi è senza peccato.
Se questo succede per la lingua, figurarsi per altri settori più astrusi e più
specializzati. Tutti usiamo ogni sorta di apparecchiature elettriche e paghiamo le
bollette della luce, ma quanti sanno esattamente cos’è un volt, un watt o un hertz? Tutti
stiamo attenti a quello che si mangia, cercando di non ingrassare, ma quanti sanno
esattamente cos’è una caloria? A trentasette gradi si scoppia dal caldo e a dieci gradi fa
piacere indossare un cappotto, ma quanti di noi sanno dire cos’è esattamente un grado?
E i “gradi” delle bevande alcoliche? E gli “ottani” dei carburanti? Oggi si stanno molto
diffondendo i telefoni detti “cellulari”, ma resta un mistero per molti perché si
chiamino cellulari. Non parliamo, poi, dei nomi delle vie e delle piazze delle nostre
città, nomi che incontriamo ogni giorno. Chi erano questi Redi, Cairoli, Bissolati,
Crispi, Zamboni? Siccome basta sapere come arrivarci, e per questo non importa
sapere perché portano quel nome, ignoriamo spesso perfino chi siano alcuni
personaggi a cui sono intitolate le vie e le piazze più centrali della nostra città. Non ci
importa o non crediamo, piuttosto, magari vagamente, di saperlo, e quello che
crediamo di sapere ci basta?
Gli esempi sono numerosissimi, ciascun lettore ne può immediatamente aggiungere
altri. L’importante è che ciascuna di queste nostre parziali ignoranze potrebbe ad ogni
momento essere colmata in pochi minuti, chiedendo agli esperti, o consultando
un’enciclopedia. Importante è anche rendersi conto che più lungamente e
frequentemente un termine è stato da noi usato senza capirlo a fondo, meno probabile è
che ci punga la curiosità di andarlo a verificare. La familiarità fa le veci del sapere. A
differenza delle scarpe troppo strette, l’ignoranza più la si porta e meno duole. Questo
ci succede perché siamo fatti così, senza un vero perché.
Quanto profondo e quanto universale sia questo fenomeno può essere comprovato da
un piccolo aneddoto vissuto. Con un amico storico dell’arte visitai una volta il palazzo
di altri amici. Di assai nobile casato. Risultò che i proprietari di quel palazzo avevano,
appesi al muro, e quindi da generazioni sempre sotto gli occhi, quadri di cui sapevano
ben poco. Certo infinitamente meno di quanto ne sapesse, senza mai averli visti dal
vero, quel mio amico studioso. Uscendo, commentai con un certo stupore questo fatto.
Ma lui disse, sereno: “Io so, perché non ho. Loro non sanno, perché hanno. Il vero,
profondo legame con l’arte è il loro, non il mio”.
La frequentazione, l’avere “in casa”, crea legami diversi dal sapere, e spesso
sostitutivi del sapere. Deve essere per questo che si dice “nessuno è profeta in patria”,
e anche “nessun grande è mai apparso tale alla propria domestica”. Forse questi
proverbi esagerano, tradendo anche tutta la loro vecchiaia, ma mi è capitato spesso di
incontrare chi aveva frequentato intimamente “un grande” e ne parlava in sorprendente
sotto-tono. Non perché facesse a bella posta il blasé, ma perché il suo legame era stato
assai diretto e profondo. Talmente profondo che non aveva bisogno di quel “sapere”
che è, invece, tipico dello studioso, e proposto come ideale allo studente. Quanto
La voglia di studiare 25
possente sia la nostra inconscia “compensazione” tra la prossimità fisica e il sapere è
dimostrato anche dal fatto che specie noi italiani ci scapicolliamo talvolta a visitare
modesti musei in lontane contrade, ma mettiamo raramente piede nei grandi musei
dietro l’angolo. Anche questo è un fatto troppo universale e troppo persistente per
liquidarlo senza trarne una lezione. Forse è semplice pigrizia, ma forse agisce in noi
proprio una qualche segreta forza di compensazione. Ed è forse proprio questa
compensazione che ci lascia bagnare tutti placidamente in tante ignoranze.
Qualunque ne sia la spiegazione, il fatto resta. E non dovrebbe stupirci che i nostri
ragazzi siano proprio come noi. Nuotano nello stagno della scuola così come noi
nuotiamo nella vita, sapendo via via solo quanto “basta”. La mancanza della voglia di
studiare, spesso, non è una patologia, né uno speciale e personale affronto ai genitori,
ai professori e alla scuola come istituzione. E’ solo un’ennesima naturale
manifestazione di quei pacifici compromessi con l’ignoranza che, a diversi livelli, tutti
finiamo per firmare e dei quali abbiamo appena smascherato alcuni sintomi rivelatori.
Ci piaccia o non ci piaccia, anche noi spesso ci assestiamo sul “quanto basta” e da lì
non ci muoviamo più.
La domanda che nasce spontanea adesso è quanto sia il “quanto basta”. A spontanea
domanda, altrettanto spontanea risposta: quello che si impara a scuola. Infatti, ci viene
naturale presupporre che lo studio portato a termine a scuola sia proprio quello che
fornisce il “quanto basta” poi nella vita. Siccome i ragazzi devono ancora
conquistarselo, pensiamo che a loro non si addica la nostra pigrizia, che non possano
permettersi il tollerante compromesso che noi abbiamo raggiunto con la nostra parziale
ignoranza. Questo lo si presuppone comunemente, ma è veramente giustificato? In
fondo, quanti di noi ricordano tutto quello che impararono a scuola? Quanti di noi
potrebbero domani, di punto in bianco, passare di nuovo un esame di maturità? E
allora che senso ha tutta questa ansia per il loro successo scolastico? Che senso ha farli
sgobbare tanto, perché poi dimentichino tutto, o quasi tutto, come noi?
I nostri ragazzi non osano chiedere queste cose, e noi non osiamo abbordare il
soggetto. Ci risulterebbe molto difficile, infatti, tracciare una linea di demarcazione tra
l’ignoranza tollerata (in noi) e l’ignoranza intollerabile (in loro). Speriamo
genericamente, chissà perché, che loro non dimenticheranno. Loro lo spereranno a loro
volta, per i loro figli. E’ una catena infinita, che non si capisce bene dove porti. Si
potrebbe forse obiettare che il livello medio di cultura tende a salire. Ma ne siamo poi
così sicuri? Se ci guardiamo intorno, ciascuno nel nostro ambiente, nel nostro gruppo
sociale, questo progresso medio del sapere resta assai dubbio. E’ vero che oggi si
usano molte tecniche nuove, ma più che altro, e una volta di più, è la familiarità che
tiene luogo del sapere. Tante tecniche si “possiedono” senza veramente capirle. Anche
i meccanici e i tecnici ormai sostituiscono senza più riparare. E i farmacisti hanno
smesso da tempo di preparare “secondo ricetta” nel retrobottega. Ammettendo pure
che il livello medio generale di perizia tecnica sia aumentata, possiamo davvero
affermare che la Cultura, con la C maiuscola, sia davvero aumentata? La scuola è
davvero oggi migliore di quella di un tempo?
Se vogliamo sperare di scuotere un po’ i ragazzi dalla nostra apatia, se vogliamo
instillare in loro la voglia di studiare più di “quanto basta”, bisogna inquadrare il
vissuto della scuola, e la voglia di studiare, sullo sfondo reale di una generale e ormai
26 La voglia di studiare
Così fan tutti
opulenta rilassatezza nell’ignoranza. Bisognerebbe innanzitutto riconoscere che tante
ignoranze diventate tollerate non sono veramente tollerabili. La voglia di studiare oltre
il “quanto basta” (che oggi è, ammettiamolo, piuttosto poco) andrebbe poi inquadrata
su un altro sfondo: quello di una sempre più agguerrita competitività internazionale, e
di una sempre più raffinata ricerca di punta, in ogni settore. Questo secondo sfondo ci
viene ripresentato continuamente dai quotidiani, non foss’altro quando vengono
attribuiti i premi Nobel. Lo ricostruiremo qui a modo nostro, con dei racconti, nella
Parte III. Adesso si tratta di individuare meglio il primo sfondo, quello di un’ignoranza
che è di fatto tollerata, anche 1uando sarebbe, invece, intollerabile. Almeno a scuola.
Dove sta scritto?
Ogni epoca soffre di un suo male specifico e l’epoca presente mi sembra soffrire
acutamente di relativismo. Si afferma oggi che una cultura vale l’altra, un criterio vale
l’altro. Nessuno sa più rispondere all’implicita, ma quasi onnipresente, domanda:
“ Dove sta scritto che … ?” o “Ma chi l’ha detto che … ?”. A scuola, questa mancanza
di convinzione rischia di produrre veri disastri. Una giovane insegnante in
un’università americana non scherzava davvero dicendomi che è oggi un vero guaio,
per i professori di letteratura italiana, non poter annoverare tra i nostri scrittori alcuna
scrittrice o poetessa negra. Dovrebbe suonare come una battuta di spirito, ma lo spirito
dei tempi è cambiato e questi criteri sono diventati importantissimi. Nuovi valori
culturali incalzano con un ritmo ancora ieri inimmaginabile. Un altro sintomo assai
preoccupante è che, nei paesi anglosassoni, i fondi di ricerca anche dei buoni e
scrupolosi laboratori di biologia dovranno ormai essere in parte spesi per pagare delle
guardie armate, giorno e notte, onde evitare le incursioni vandalistiche dei difensori dei
diritti degli animali. Nessuno pare più capace di trovare argomenti convincenti, dico
universalmente e ovviamente convincenti, per rivendicare, tra altri valori, il diritto alla
formazione classica e alla seria ricerca scientifica.
In un’epoca paralizzata da tanto relativismo, è inutile riproporre ai ragazzi le vecchie
certezze. Si rischierebbe di dover tirare in ballo la cosiddetta missione civilizzatrice
dell’Occidente, il primato della razionalità critica, il progresso rappresentato dal
metodo scientifico, e altre anticaglie che oggi suonerebbero tra il patetico e il
reazionario. Sarà più utile presupporre il relativismo culturale e far loro presente che
certe conclusioni non sono sorrette nemmeno da queste premesse relativiste. Dato che,
un po’ di cultura classica viene ancora insegnata, e dato che almeno i valori
rappresentati dal metodo scientifico sono ancora nei nostri programmi, dovremmo pur
saper dire ai giovani perché li devono studiare, a che pro sono stati mantenuti. Non si
tratta di sentenziare se Leopardi è “meglio” del poeta africano Leopold Sedr Senghor,
o se la traduzione dal latino e dal greco è “più formativa” dell’ecologia applicata, o
della programmazione dei calcolatori. Si tratta, piuttosto, di mostrare come i valori di
conoscenza rappresentati da quanto ancora si studia a scuola resistano imperterriti
perfino all’ondata di relativismo oggi imperante.
La voglia di studiare 27
Si può, a buon titolo, sottolineare che proprio questa sensibilizzazione ai diritti delle
minoranze e al rispetto delle tradizioni diverse dalla nostra viene dritta dritta, in linea
di genesi storica, dall’illuminismo (inclusa ovviamente quella marxista), se ne sono
fatte paladine. Con il passare degli anni, però, questi principi illuministici si sono
progressivamente diffusi. Se la Carta delle Nazioni Unite rappresenta in qualche modo
una dichiarazione mondiale di buone intenzioni, allora è segno che i principi
dell’Illuminismo non sono più solo “nostri”, ma sono diventati patrimonio
dell’umanità. Il pensiero di un pugno di intellettuali, appunto, “illuminati” (non si
scordi l’influenza mondiale esercitata dal nostro Cesare Beccaria) ha finito per
irradiarsi su tutti i continenti. La loro forza e la loro influenza non stavano certo sulle
bocche dei fucili, ma nella persuasione razionale. Anche il relativismo dovrebbe,
quindi, tutelare la formazione della razionalità critica, alla quale deve tutta la sua carica
persuasiva. Sempre a buon titolo, possiamo rintracciare in certi valori propugnati dalla
cultura greca e latina una delle principali matrici alle quali, a seguito del Rinascimento,
l’Illuminismo stesso si rifece, cancellando una lunga parentesi di assolutismo. Ma si
può andare oltre, sottolineando che il Settecento riformista non faceva ancora
differenza tra scienza e filosofia, e che i canoni di tolleranza, di uguaglianza di fronte
alle leggi, di inviolabilità della persona umana e di libertà di espressione erano ritenuti
discendere per inoppugnabile deduzione dai principi di una vera e propria scienza
dell’uomo. Insomma, il relativismo stesso non sarebbe nemmeno pensabile senza
questa lunga e lenta maturazione, cui la cultura classica, la scienza e la filosofia hanno
apportato contributi inestimabili.
Per quanto, poi, concerne lo studio della fisiologia e dell’anatomia, si potrebbe far
presente che, nell’economia della natura, come Darwin aveva ben sottolineato, non si è
mai visto che una specie sviluppi un comportamento a esclusivo beneficio di altre
specie. Siamo certo liberi di abbassare le armi, nella nostra lotta scientifica contro il
dolore, le malattie e la morte precoce, al solo fine di salvaguardare i diritti di altre
specie , ma non si cerchi nell’ecologia e nelle “leggi della natura” alcunché che
giustifichi questa rinuncia. E tantomeno qualche principio che la imponga. Senza
addentrarci in altre considerazioni analoghe, già possiamo constatare che il moderno
relativismo lascia intatti molti valori le cui autentiche radici ci vengono trasmesse
proprio attraverso lo studio delle nostre materie scolastiche. Si può, inoltre, ben
giustificare, anche agli occhi del relativista, perché a scuola si insegni ancora a scrivere
in un certo modo, invece di lasciare ciascuno “libero” di esprimersi come più gli piace,
e perché si debba mantenere una scelta piuttosto tradizionale degli autori e delle opere
nelle nostre antologie letterarie.
La linguistica moderna ha grandemente rivalutato i dialetti, dimostrando che un
dialetto è altrettanto complesso di una lingua, altrettanto ricco di “regole”, altrettanto
coerente nelle sue scelte tra espressioni ammesse ed espressioni escluse. Un grande
linguista ha detto che una lingua altro non è che un dialetto con un passaporto e un
esercito. Sembrerebbe, quindi, che la scelta di una lingua nazionale, e l’esclusione dei
dialetti dalla scuola, costituisca solo un fenomeno di carattere politico. Si tratterebbe,
insomma, della legge del più forte. Il relativista contesta proprio questa scelta politica e
vuole rivalutare il dialetto, e con il dialetto una pretesa (e malintesa) libertà di
espressione. Perché correggere i ragazzi quando scrivono nero su bianco espressioni
28 La voglia di studiare
Così fan tutti
che si usano correntemente nella vita di tutti i giorni? Si fa valere che la lingua è una
cosa “viva”, che evolve e che muta. Il relativista nega, appunto, che debbano esistere
dei canoni in base ai quali sentenziare una volta per tutte cosa “si dice” e cosa “non si
dice”. Nega che debbano esistere delle “autorità” linguistiche, per esempio i dizionari
etimologici, le accademie deputate al buon uso della lingua, o un gruppo geo-sociale
linguisticamente privilegiato (in Italia, per lunga tradizione, arbitri delle questioni
linguistiche erano ritenuti gli usi dei “toscani colti”.
Eppure, questa stessa linguistica che ha tanto rivalutato i dialetti ha anche mostrato la
straordinaria compattezza sotterranea di ogni lingua e di ogni dialetto. Le lingue e i
dialetti, un po’ come i terremoti e le maree, sono tra quelle cose sulle quali non
abbiamo potere diretto. Possiamo spiarne le manifestazioni e seguirne gli effetti, ma
non è nel potere di nessuno, nemmeno delle collettività, di decidere i cambiamenti.
Quando muta una regola, si scatena in poche generazioni tutta una serie di altri
mutamenti solidali, spesso a carico di aspetti della lingua che, a prima vista, niente
hanno a che vedere l’uno con l’altro. Molti di questi fenomeni sono oggi ben sviscerati
dai linguisti.
Ogni lingua, ogni dialetto, rappresenta perciò un sistema di scelte ben consolidate, tra
loro perfettamente coerenti e del tutto inconsapevoli, tra vincoli sintattici e vincoli di
significato. In una lingua, in un dialetto, in ultima analisi, quello che “si dice” e quello
che “non si dice” non lo decide nessun comitato, nessun prefetto e nessun superprofessore, lo decide la coerenza intrinseca di quella lingua, di quel dialetto. (Il
relativista detesta l’aggettivo “intrinseco”, ma dovrà pur prendere atto di questi dati). I
mutamenti prendono lunghi periodi, molte generazioni, e non sono mai “pilotati” o
“programmati” dalla conscia volontà di nessuno. Insomma, le lingue e i dialetti sono
reti dalle tante strette maglie e non si può “decidere” di introdurre per comodità i
cambiamenti uno alla volta, né decidere impunemente di “accomodare” prestiti
sintattici locali da altre lingue e da altri dialetti. Anche chi propugnasse l’insegnamento
a scuola del dialetto, invece della lingua italiana, dovrebbe per forza di cose ammettere
la legittimità delle correzioni da parte dei professori, e dell’affinamento ragionato
della sintassi. Infatti, ogni dialetto ha una sintassi altrettanto ricca e altrettanto
strutturata di quella di una lingua nazionale. Un ibrido sintattico tra una lingua e più
dialetti sarebbe solo un castello di carte, pronto a crollare al primo vento. Si tratta di
pasticci linguistici che possono ben esistere nella testa di un singolo individuo, ma che
non si possono trasmettere e insegnare. Da questi alla torre di Babele c’è solo un passo.
Per forza di cose, dunque, deve esserci un carattere normativo dell’educazione
linguistica superiore. Si deve poter specificare quello che “si dice” e quello che “non
si dice”, in base alla coerenza interna della lingua, a una tradizione consolidata, alla
storia della lingua, al buon uso nei parlanti ritenuti più rappresentativi, alla pura logica,
e al gusto per lo stile. Lo studio della letteratura, e della sua storia, costituisce ancora il
veicolo privilegiato per interiorizzare questi complessi criteri. Questi punti fermi della
tradizione, questi semafori piantati sugli scogli, dovrebbero poter resistere anche alla
marea montante del relativismo e alle corrosioni dei fasci fatti d’ogni erba.
La voglia di studiare 29
La formazione del gusto
In un’epoca permeata di relativismo, non è tanto facile giustificare oggi una scelta di
gusto. La nostra tradizione culturale rischia ad ogni istante di essere condannata come
iperrazionalista, elitista, maschilista, etno-centrica, storicista.eppure, non si potrebbe
riconoscere allo studio finalità più alta di quella di educare, appunto, il buon gusto. Il
buono e il cattivo gusto non esistono solo in arte, in letteratura, in musica, in
architettura e nel vestire, ma anche, come accennerò tra un momento, in scienza, in
filosofia e nella tecnologia. Intere istituzioni, interi comitati, intere riviste, sono
benedetti dall’uno, o afflitti dall’altro. Ed è praticamente impossibile arrivare a far
capire a chi ha cattivo gusto che ha cattivo gusto. Concetto tra i più inafferrabili, il
buon gusto è come la salute, quando lo si ha davvero non ci si accorge di averlo. E
quando non lo si ha, non si immagina nemmeno cosa significherebbe averlo. Se lo
immaginasse, già lo si possiederebbe, ma questa è una contraddizione. Eugenio
Montale, in una breve prosa, parla delle “architetture di marzapane degli arricchiti” che
già allora sfregiavano le coste liguri. A quegli arricchiti, evidentemente, parevano case
bellissime. Direi che non si debbano avere incertezze e tentennamenti: stiamo con
Montale, e abbasso il marzapane. Ma perché questa scelta? Potremmo giustificarla?
L’unico, ma fondamentale, criterio che si può qui proporre è quello di trasmettere alle
nuove generazioni un gusto che si dimostra soggettivamente irreversibile, una volta
conquistato. Per farci un’idea viva e concreta di quanto decisiva, discreta e soprattutto
irreversibile sia la formazione ottenuta attraverso una ragionata digestione della
cultura possiamo osservare alcune manifestazioni estreme (ai ostri occhi, almeno) di
cattivo gusto. Come gli arricchiti di cui parla Montale, gli arricchiti di tutto il mondo
tipicamente si piccano di costruire minareti in Liguria, palazzi veneziani in California,
châlets svizzeri nel deserto. Certo, i grandi innovatori riescono talvolta a creare
autentici capolavori proprio rompendo con una tradizione, facendo “violenza” al
carattere di un luogo, componendo con arte ciò che pareva “incomponibile”. Le
Corbusier ha innalzato edifici avveniristici in India, Gauguin si è ispirato al mondo
“ingenuo” tacitano, Carlo Emilio Gadda in La cognizione del dolore ha fuso
liberamente la nostra Brianza con una remota ambientazione sudamericana, e Puccini
ha composto opere pienamente “occidentali”, pur con temi musicali giapponesi e
cinesi. Il relativista ha ragione di farci presente che non esistono “formule” fisse, atte a
tracciare una volta per sempre la differenza tra i capolavori e i “pasticciacci brutti”
(un’espressione, questa, che rubo proprio a Gadda). Quello che non va, però, è la
conclusione che ne vuole trarre. La formazione del gusto attraverso la lenta e difficile
assimilazione critica della nostra tradizione è necessaria proprio perché non esistono
formule. Visto che non esistono, dovremo cogliere questa realtà del buono e del cattivo
gusto attraverso qualche esempio lampante.
Gli impoveriti di certe nazioni africane si fanno oggi costruire bare a forma di
limousine Mercedes. Non potendo viaggiare, come i loro governanti, sull’oggetto vero
in vita, si consolano con questa misera finzione nella morte. Per relativisti che si possa
essere, certe testimonianze di cattivo gusto ci stringono il cuore, e ci fanno arricciare la
30 La voglia di studiare
Così fan tutti
pelle. E questa nostra reazione è proprio quello che conta. Conta perché ci mostra che
dal buon gusto non si torna indietro, non si vuole più tornare indietro.
Anche nella scienza e nella tecnologia esistono tanti ibridi, pasticci, scimmiottature, e
smaccati fraintendimenti, provocati in genere da innesti culturali troppo bruschi. E lì il
cuore si stringe ancora di più, perché sono miliardi che vanno in fumo, magari in Paesi
che mancano del necessario.
Un grande biologo, premio Nobel, mi raccontò una volta di essere stato invitato a
tenere un ciclo di conferenze in una nazione depressa (siamo nei primi anni Sessanta),
con fondi di una locale industria farmaceutica. Dopo le conferenze, venne
ufficialmente invitato a visitare i laboratori e ad incontrare i locali ricercatori.
L’interesse scientifico della ricerca effettuata in quell’industria era nullo, ma la più
elementare cortesia imponeva di accettare di buon viso questa seccatura. Ad un certo
punto, nel corso della visita, il presidente della ditta e un capo-laboratorio lo presero in
disparte, con fare circospetto. Guardinghi, ma fieri, lo volevano mettere a parte di due
loro portentosi segreti. Avevano in preparazione due farmaci veramente miracolosi.
Uno, un “ricostituente dell’epidermide”, era, nientemeno, basato sul … DNA, la
molecola della vita. L’altro, un “tonificante generale”, era, nientemeno, basato
sull’ATP (adeno-sin-tri-fosfato), la molecola energetica per eccellenza. Quando fece
loro presente, rispettivamente, che il DNA è contenuto in ogni cellula, dalle foglie di
lattuga alle bistecche, e che, al di fuori di certi speciali orfanelli degli organismi
viventi, ogni molecola di ATP si degrada istantaneamente, interamente,
irrimediabilmente e irreversibilmente, si scontrò con un muro di risentimento e di
ostilità. Venne sbrigativamente accompagnato all’aeroporto da una segretaria e non
ebbe più alcun rapporto con quei “genialoidi” imprenditori-ricercatori dal pessimo
gusto scientifico.
Certo, in questi travolgimenti del gusto locale, sia nel produrre un mercato per le bare
a forma di Mercedes che nell’incitare alla costruzione di laboratori-bidone, gli
occidentali colonizzatori, gli uomini del cosiddetto buon gusto, hanno avuto la loro
gravissima parte di colpa. Questa pur doverosa constatazione non può, però, spingerci
a un relativismo senza criteri, senza misure e senza alcun punto fermo. I relativisti a
volte sono difficili da convincere, ma mi ci proverò direttamente ed esplicitamente, al
livello della teoria, nel “Finalino” della Parte IV. Per ora mi limiterò a far “sentire”
concretamente lo squilibrio del gusto raccontando un altro fatto vero, che mi pare
possa addirittura assumere valore di parabola.
Siamo su una remota spiaggia dell’America del Sud, all’inizio degli anni Settanta,
cioè appena vent’anni fa. E’ il tramonto. Appare all’orizzonte, emergendo dai lontani
flutti, una piccola imbarcazione a remi, una specie di piroga. L’esperto vogatore riesce,
con straordinaria maestria, a sfruttare le onde e le correnti, apparendo e sparendo
aritmicamente dalla vista, al capriccio di ogni cavallone. Sulla spiaggia, una famigliola
dimpescatori, padre, madre e due figlie, prende ad agitarsi, facendo grandi cenni di
saluto, radunando cibo e accendendo il fuoco fuori della propria capanna. Finalmente il
vogatore approda sul litorale, tra il tripudio generale, e viene invitato nella capanna del
pescatore, dove passerà la notte. La cena è alla buona, perché composta di prodotti
locali, ma per un occidentale rappresenterebbe un vero e proprio festino: crostacei, un
grosso pesce alla brace, frutta di ogni genere, vino di palma. Il vogatore ha coperto a
La voglia di studiare 31
remi, su un mare tutt’altro che tranquillo, ben trenta miglia, per venire a trovare quei
suoi clienti. Infatti, quella è, se si vuole, una cena di lavoro, in quanto si deve condurre
una complessa e delicata trattativa. Se fallisce, il vogatore-venditore sarà venuto da
tanto lontano inutilmente. Così è la vita, o almeno così era vent’anni fa, su quelle
coste. Dopo la cena, dopo una nutrita e rilassata conversazione, si arriva infine a
business. La famiglia pare incerta sull’acquisto. Si soppesano i pro e i contro, si
esamina e si riesamina per l’ennesima volta la merce, venuta letteralmente da
oltremare. Le due ragazze prendono parte animatamente alla discussione. Infine si
raggiunge un accordo sul prezzo, e ci si dichiara soddisfatti della merce, ma quello che
non va bene è il colore. Se vuole concludere l’affare, il mercante dovrà di nuovo
coprire altre decine di miglia sulla sua piroga, e tornare con la merce del colore giusto.
Rosso invece di blu. La merce in questione era – si stenta a crederlo – un set di posate
di plastica: forchetta, coltello e cucchiaio per ogni membro della famiglia, dodici pezzi
in tutto. Si trattava proprio di quelle posate usa-e-getta, da noi diffuse proprio per
risparmiare tempo e fatica, che in qualunque nostro supermercato si comprano per
poche lire, a sacchetti di cento. Il mattino dopo, accompagnato dall’esuberante
festosità dei suoi clienti, il venditore spinse in acqua la sua piroga, e sparì di nuovo
all’orizzonte. Si presuppone, ma non si sa con certezza, che sia poi effettivamente
tornato con il set di dodici posate del colore giusto.
Questa toccante vicenda mi è stata narrata come autentica, da persona degna di fede,
ma anche se non fosse vera è certo ben trovata. La possiamo prendere come parabola
simbolica di mille altre testimonianze analoghe. Osserviamo spassionatamente le
reazioni che questo episodio (o qualunque altro dello stesso tenore) produce in noi, e
vediamo se alcune di queste possiamo, in fondo, giustificarle anche agli occhi del
relativista a oltranza. Quella famiglia, e quel mercante, ci fanno pena. Darsi tanta
fatica, magari rischiare anche la vita, per una manciata di brutti oggetti di plastica!
Quanta confusione di valori, quanto spreco di risorse umane e materiali, e quanto
cattivo gusto!
Il relativista qui finirebbe davvero per arrabbiarsi. E chi siamo noi, per sentenziare
così saccentemente? Quale pretesa “superiorità” culturale possiamo accampare? Noi,
quelle posate di plastica, ci permettiamo il lusso di gettare nella spazzatura dopo ogni
pasto. Certo! Ma viviamo asfissiati dai fumi industriali, abbiamo perso il senso
dell’ospitalità, il senso della natura e dell’avventura. Invece, quella gente semplice ha
il buon gusto di godersi ogni giorno uno stile di vita la cui pallida imitazione turistica
costerebbe a noi cifre esorbitanti, anche per una sola settimana. Il contrasto tra le
nostre reazioni e quelle del relativista sarebbe, più o meno, di questo genere.
C’è qualcosa che possiamo controbattere? C’è qualcosa di non relativo in questo
scambio di punti di vista? L’unica considerazione pertinente e convincente mi sembra
essere questa: non solo non ce lo auguriamo, ma non auguriamo a nessuno di trovarsi a
negoziare con procedure tanto elaborate, attraversando a remi sessanta miglia di mare
agitato, oggetti che a sua insaputa altre culture tengono in pochissimo conto. Ci
sembra che nessuno dovrebbe desiderare a tal punto beni materiali che altre culture
usano e gettano con la più grande disinvoltura.
Un’altra cosa è certa: ci rattrista trovarci in una simile condizione quando ce ne
rendiamo conto, quando questo avviene a causa di una speciale penuria, in situazioni
32 La voglia di studiare
Così fan tutti
di emergenza. E’ un’esperienza umana terribile, quella di esporsi al rischio, o
sottoporsi a fatiche improbe, o umiliarsi, o cedere preziose risorse, solo per ottenere
qualcosa che altri, in altre situazioni, otterrebbero in abbondanza e facilmente. Da che
mondo è mondo, i racconti dei prigionieri, degli esuli e dei sequestrati spesso
commuovono proprio per questo aspetto: si sono visti privati di beni comunemente
diffusi e a buon mercato, e hanno dovuto penare tanto per ottenerne delle briciole di
infima qualità.
Chi invece, come quei pescatori, è in questa situazione, ma non se ne rende conto,
non soffre. Gli sembra di partecipare a una normale compravendita. Ma è questo che ci
appare ancora più triste. Per soggettiva, per relativa che sia, questa tristezza è in noi
vivissima. Anche se non fosse in alcun modo “giustificabile”, resta pur tuttavia
irreversibile.
Analoghi squilibri del gusto li ritroviamo poi intatti anche nel mondo della cultura.
Esistono, infatti, gli equivalenti letterari, musicali, architettonici, filmici e scientificotecnologici dell’usa-e-getta, delle dodici posate di plastica.
Critica della critica
Esiste una professione che ha per compito diretto, esplicito ed istituzionale
l’educazione del gusto. Questa professione è quella del critico, in particolare del critico
letterario, artistico, musicale, teatrale o cinematografico. Quanto sia importante la
critica nella formazione del gusto e dell’opinione estetica lo dimostrano,
inconsapevolmente, coloro che non azzardano mai un giudizio su un libro, un film o
un’esecuzione musicale senza aver prima letto il giudizio dei critici patentati. Esiste
chi non solo non si azzarda ad esprimere a voce alta questo giudizio, ma non osa
nemmeno formularlo in cuor suo. E quando poi arriva a formularlo, ci si riconosce
subito un collage, più o meno consapevole, di due o tre recensioni appena pubblicate.
Si dice di questi succubi della critica che ascoltano veramente un concerto, o un’opera,
che vedono veramente un film, o leggono veramente un libro, solo dopo che ne hanno
letto le critiche. A un estremo opposto troviamo invece il giudizio che mi fu espresso
parecchi anni fa da un grande genetista, premio Nobel: “ La capacità critica, in ogni
campo, è il prodotto del pensiero creativo che si è investito in quel campo. Intendeva
abbracciare proprio ogni campo, scienza e tecnologia comprese, e la sua era, in fondo,
una critica della critica. Quella frase mi pare esemplare.
Soffermiamoci un istante a considerare la funzione della critica, a questo livello
molto generale, in quanto la formazione del nostro gusto individuale dipende in gran
parte dal ruolo che giocano in noi i giudizi critici ricevuti a scuola, sui libri di testo o
fuori della scuola. Dello svolgimento del tema di critica parleremo specificamente in
seguito; qui vogliamo parlare dei “modelli” cui ispirarci. I nostri professori sono,
ovviamente, per noi i primi e più importanti modelli di critica. Ci trasmettono i loro
giudizi e i loro valori estetici non solo esplicitamente e ad alta voce, in classe, ma
anche implicitamente, attraverso le loro correzioni, i loro silenzi, le espressioni del
La voglia di studiare 33
viso, l’intonazione. Un peso sono lievemente inferiore esercitano su di noi i modelli di
critica che troviamo nei nostri libri di testo. Già qui, però, il modello ci diventa
estraneo e remoto, in quanto molti di questi “giudizi”, non nascondiamocelo, suonano
inutilmente retorici, se non addirittura parrucconi. Lo stile della critica spinge quasi
irresistibilmente a stra-parlare, a parlarsi addosso, a far rullare i tamburi. Certi pesanti
periodi, certe contorte espressioni dei critici ci fanno ridere, o sbadigliare, o allagano le
labbra come l’amido. Di chi è la colpa? La risposta più sensata mi pare essere che la
colpa è in parte nostra, dovuta a insensibilità, superficialità e scarsa voglia di
“penetrare” nella materia, ma in parte a certi difetti intrinseci dello stile dei critici. Per
rendercene meglio conto, bisogna inseguire questi stessi difetti anche al di fuori dei
testi scolastici.
Vi sono interi campi di critica assolutamente non scolastica che, per loro natura
intima, incitano allo sproloquio: per esempio, la critica musicale e la critica
gastronomica. Montale riusciva a fare alta letteratura anche commentando le prime alla
Scala, ma molti programmi di concerto, o libretti esplicativi che accompagnano i
dischi, si invischiano in periodi sciropposi, pieni di paroloni senza capo né coda. Certo,
non è facile esprimere a parole delle sensazioni. Tanto è vero che le descrizioni dei
vini, zeppe di “corposità”, “brillantezza” e “tinteggiatura”, fanno il pari con gli
sproloqui musicali, zeppi di “cromatismo”, “levitazione” e “tessitura”. Curiosamente,
queste due discipline critiche, a prima vista tanto distanti, possono benissimo rubarsi
gli aggettivi a vicenda. Forse, in queste materie, quando non si è Montale, l’approccio
più onesto sta nel limitarsi ai dati obiettivi, nel dare informazioni, raccontando la storia
e la geografia del prodotto, sia esso un barolo o una sinfonia, senza sforzarsi di
descrivere l’indescrivibile. Lo studentello che, in un tema sulla scultura di
Michelangelo, dichiaRò di ammirarvi soprattutto “i vuoti dei pieni e i pieni dei vuoti”,
si trova, in fondo, in buona compagnia con alcuni critici adulti e vaccinati.
Insomma, sarebbe disonesto non confessare che il tono delle disquisizioni di alcuni
critici professionisti suona un po’ ridicolo anche al di fuori della scuola e che, quindi,
gli sbadigli generati da certi testi scolastici non nascono esclusivamente per colpa
nostra. Saperlo può forse consolare lo studente che trova “barnosi” certi testi di critica,
ma non voglio offrire qualcosa di più: una convincente, vibrante motivazione alla
lettura dei buoni testi di critica. Non solo rifacendomi agli esempi dei sommi critici, di
coloro che hanno elevato la critica ad autentica, autonoma, opera d’arte (penso, tra gli
autori critici a noi più noti e accessibili, a Francesco De Sanctis e a Giorgio Pasquali),
ma rifacendomi alla funzione ben compresa della critica in quanto tale.
Per far questo vorrei uscire, almeno inizialmente, dalle aule scolastiche e dalle
biblioteche. Mi basterà fare appello a un’esperienza molto elementare, che tutti
conosciamo. Ci succede di vivere vicende che, d’un tratto, per via di un commento
intelligente e azzeccato, di colpo assumono un significato speciale, ci trasmettono una
lezione che va oltre gli accadimenti spiccioli. La frase del grande genetista, riportata
sopra, ne è proprio un esempio. Ma non occorre certo essere “ grandi ”, e premi Nobel,
per riuscire a cogliere nel segno con un acuto commento. A volte basta anche una
semplice battuta, magari ironica, di una persona non particolarmente “colta”. Per mesi,
magari per anni, o per tutta la vita, quella vicenda, immancabilmente, ci si presenta alla
memoria interamente ammantata dal senso datole da quel commento, da quella battuta.
34 La voglia di studiare
Così fan tutti
Sono certo che questa è un’esperienza nota a tutti, e dalla quale vorrei partire per
cogliere dal vivo la funzione basilare della critica.
Avevo quattordici anni quando partecipai a un viaggio organizzato in Unione
Sovietica e, così come a Parigi si visita la Tour Eiffel, o a Roma il Colosseo, a Mosca
ci portarono a visitare il mausoleo della Piazza Rossa, dove la salma di Stalin era
ancora esposta accanto a quella di Lenin. Una delle solite visite ai luoghi caratteristici.
O almeno così avevamo creduto. Pronunciando la parola fatidica Delegatzia (cioè
“delegazione”, una sorta di formula magica che in quegli anni apriva tutte le porte) ci
inserimmo nella fila a pochi metri dall’ingresso, saltando spudoratamente una coda
smisurata che, come ogni giorno, si snodava a perdita d’occhio. Apprendemmo che
quella disciplinata moltitudine, avvezza alle attese e anche, penso, a questo tipo do
soprusi, proveniva dai quattro angoli dell’Unione, reduce da giornate e nottate di treno,
e certamente reduce da una nottata passata all’addiaccio, già in fila. Un simpatico
giovanotto di Milano, giornalista sportivo, membro del nostro gruppo e (almeno come
allora io lo giudicavo) anticomunista viscerale, rinnovava la sua perenne litania di
feroci e spiritosi commenti. Imbarazzato, come noi tutti, dal privilegio che ci veniva
concesso (un quarto d’ora di attesa, invece di molte ore, se non giorni) se ne uscì,
caustico come sempre: “ Questo, a Lourdes o Loreto non ce lo avrebbero permesso”.
Quando, nella cripta semibuia, seguendo il fiotto di visitatori, contornammo le due
salme imbalsamate (a meno che non fossero, invece, davvero della cera di cui avevano
il colore), sottovoce mi disse: “ Chissà che tipo di grazie chiedono, a questi due
briganti qui”. Il paragone mi si cristallizzò dentro e ancora oggi non posso ripensare al
mausoleo della Piazza Rossa senza vederlo filtrato da quella sua frase. Francamente,
adesso, il suo mi sembra un commento facile, e inutilmente cinico. Ma i tempi erano
diversi, e io avevo solo quattordici anni, e poi queste intuizioni sono difficilmente
analizzabili e razionalizzabili. Si tratta soprattutto, di prese di coscienza intime e
personali, non comunicabili ad altri. Non intendo qui dilungarmi sul culto della
personalità. Volevo solo fornire un esempio vissuto, come sono certo tutti noi
abbiamo, di come una frase, un commento, in questo caso una battuta, riescano a dare
un senso diverso a quello che accade. Quasi sempre, questo effetto funziona proprio
quando dà un nome e un cognome a un’intuizione che già sonnecchiava in noi, senza
salire ancora alla superficie della coscienza. L’effetto non è dovuto al sentir dare
espressione compiuta a qualcosa che già sapevamo, senza sapere di saperlo. Mi pare
chiaro che la funzione basilare della critica, seppure a un livello infimo, sia già
presente in questi episodi spiccioli, personalissimi, “intrasmissibili”. A questo livello
modesto il commento, o la battuta, impressionano solo noi, soggettivamente.
Raramente questo “senso”, questa “lezione” vengono colti anche da altri. Nel
raccontarlo, avvertiamo la nostra impotenza a trasmettere la ricchezza di senso di
quanto noi ne abbiamo ricavato. Invece, la funzione della grande critica è scoprire e
trasmettere questa ricchezza di senso, questa folgorazione di intuizioni, a tutti. Con
l’affinarsi del gusto, arricchito dalla cultura ed applicato ad esperienze assai più
mature, questo tipo di illuminazione ci aiuta a dare un senso nuovo, sintetico,
indimenticabile a libri che leggiamo, a film che vediamo, a opere d’arte che
ammiriamo. La funzione della critica è quella di organizzare diversamente idee e
intuizioni che possediamo mezzo abbozzate, farci vedere meglio, farci vedere
La voglia di studiare 35
“attraverso”, metterci in sintonia con noi stessi e con quello che ci circonda. Piccoli,
banali episodi come quello che ho raccontato dimostrano che questa funzione è
presente in embrione anche nelle nostre conversazioni comuni, non è monopolio dei
critici patentati e dei tomi super-seriosi di critica specializzata.
Verso una critica adulta
Ci ho tenuto a smitizzare un po’ la “funzione critica”, ad addomesticarla, a toglierle
per un attimo la parrucca. Avendola ora colta sul nascere, in situazioni modeste e non
letterarie, possiamo seguirla nella sua crescita naturale. Un’altra esperienza comune a
tutti è di essere stati colpiti, almeno in qualche occasione, da qualcosa che un maestro,
un giornalista, uno scrittore, un conferenziere, una persona saggia, hanno detto, o
scritto. Il marchio indelebile che queste parole lasciano in noi si riconosce dall’uso che
poi noi stessi ne facciamo, citandole, applicandole ad altre situazioni, spesso facendole
nostre senza malizia. Per arrivare, infine, al nostro testo di critica, basta applicare
quanto abbiamo appena visto alla letteratura, all’arte, alla storia o alla scienza. Anche
in questi campi ci restano talvolta impressi giudizi, formule, interpretazioni, chiavi di
lettura, che danno un senso compiuto a quanto si è imparato, che ci aiutano a
memorizzare una lezione importante, a scolpire dentro di noi dei punti di riferimento,
dei sistemi di coordinate intellettuali, dei valori. Sintetizzano in poche righe, con
pensiero chiaro, una miriade di fatti.
Così, per esempio, Montale riassume il genio di Wagner, e il suo impatto sulla
musica: “ Furore e pedantesca lentezza, raptus e istrionica ricerca degli effetti sono le
componenti del genio wagneriano, un genio riassuntivo che liquida molte possibilità e
chiude per sempre molte porte. Dopo di lui i migliori musicisti furono coloro che
lottarono per tutta la vita per non fare del Wagner, magari utilizzando e componendo
in nuova sintesi qualche suo spicciolo, qualche suo aspetto secondario”. (Il corsivo è
suo, ed è folgorante. Il brano si trova in Prime alla Scala.)
Un mio adoratissimo professore di letteratura al liceo fu generoso di queste chiavi
sintetiche di lettura, sempre un po’ tra il serio e l’ironico. Ne ricordo ancora molte, che
riporterò con parole mie, attraverso il filtro della memoria.
I promessi sposi è quello che si ottiene quando il talento di un grande scrittore
genuinamente si accende per dei valori modesti e un po’ squallidi. Aggiunse, poi, che
si trattava già, in nuce, dei valori dell’Italia democristiana (della società nella quale si
viveva all’epoca di questo suo commento).
Quei valori, ma questa volta resi grandi, veri, perché rassegnati a non contare su
alcuna “Provvidenza”, li troviamo, invece, in Verga.
L’anti - Manzoni, l’anti-Cristo, fu Gabriele d’Annunzio. Non scordiamoci che le
nostre nonne e bisnonne lo leggevano di nascosto e talvolta scappavano di casa anche
solo per vedere “il Poeta” da lontano, ma di persona. Per poter esistere, tutti i poeti
italiani dovettero poi sforzarsi di sradicare il dannunzianesimo dal loro stile, e dai gusti
letterari dell’epoca. (Per inciso, questa riflessione la trovai poi confermata sotto la
penna di Montale. Il parallelo con il suo brano su Wagner, che ho appena riportato, mi
indusse a considerare il ruolo di Wagner nella musica non troppo dissimile da quello di
36 La voglia di studiare
Così fan tutti
d’Annunzio nella poesia. I giudizi critici sintetici e azzeccati invitano a cercare proprio
questo tipo di confronti.)
Per capire a fondo La divina commedia occorre tener presente che, agli occhi dei
contemporanei, doveva rappresentare anche una sorta di enciclopedia divulgativa, una
sorta di “Scientific American”.
Il barocco e il “ marinismo “ sono lo strapotere della forma, del meccanismo, sul
contenuto. Visto che ci avviamo a un’epoca formalista e meccanicista, la poesia
barocca è destinata ad essere rivalutata (questo, in retrospettiva, mi pare addirittura
profetico).
I “secoli “ delle idee, delle tendenze e delle correnti letterarie sono scanditi dagli anni
“Ottanta” di ogni secolo (un’altra profezia?).
Nella scapigliatura milanese c’erano già tutti i temi centrali dell’esistenzialismo,
mancavano solo Sartre, le caves della Rive Gauche e le canzoni di Juliette Gréco.
Questi sono solo esempi, probabilmente alterati dalla memoria e da me trasformati
senza rendermene nemmeno conto. Ma è proprio questo l’importante: la carica sia
emotiva che cognitiva di questi giudizi sintetici. Una carica che resiste al tempo. E’
quello che ci “resta” quando si è dimenticato ogni dettaglio. Sono preziosi, questi
giudizi, anche quando ci succede, magari retrospettivamente, di capovolgerli, o di
trasformarli. Il capovolgimento, o la trasformazione, sono possibili, sono pensabili,
proprio perché esistevano già quelle chiavi precedenti.
Questa mi pare essere, senza parrucche e senza toghe, la preziosa e insostituibile
funzione della critica “adulta”. Ognuno di questi esempi mi pare confermare la tesi di
quel genetista: l’acume critico proviene dallo sforzo creativo personale che ciascuno di
noi investe in una materia, un autore, un’opera. Ne segue anche che queste visioni
sintetiche non sono un “invece” dello studio, sono il suo coronamento.
Il gusto poetico
Da che mondo è mondo, in ogni lingua, le prime parole di ogni bambino hanno tutte
una caratteristica speciale: contengono suoni ripetuti. Mamma, babbo, pappa, nanna,
tata. In principio, dunque, abbiamo tutti prediletto le parole allitterative (questo
termine dotto è esso stesso allitterativo, perché ripete le “a”, le “i” e le “t”). Troppe
allitterazioni, però, sono sgradevoli. Diventano uno scioglilingua, cioè un esercizio di
prodezza, non più un piacere. Alle palpitazioni patriottiche un tempo suscitate
dall’espressione “Trento e Trieste”, come i linguisti non hanno mancato di far notare,
contribuirono anche le delicate allitterazioni delle “tr”, delle “t” e delle “e”. Invertendo
l’ordine, invece, si ottiene “Trieste e Trento”, e si esagera, producendo solo un brutto
scioglilingua. Giustamente, la formula non venne mai usata. Questo potere quasi
magico delle allitterazioni ci dimostra che, fin dalla più tenera infanzia, la nostra
sbalorditiva facoltà di linguaggio sembra tenere in gran conto anche la musica della
lingua. Il sottile piacere che ci produce l’ascolto dei suoni della lingua materna fa parte
della nostra natura, lo proviamo anche quando non ne siamo coscienti. Tanto è vero
La voglia di studiare 37
che certi pesanti accenti stranieri, anche se afferrati un attimo al volo, per caso, ci
suonano subito sgradevoli, o ridicoli, o ambedue. Altri (rari) accenti, invece, suonano
simpatici e gradevoli.
Gli studiosi di fonetica, di fonologia e di psicolinguistica hanno scoperto che
l’orecchio speciale per la nostra lingua è uno dei sistemi più complessi, più delicati e
stupefacenti dell’intero universo. Nemmeno i calcolatori più sofisticati possono ancora
cominciare, dico cominciare, ad imitare il suono della lingua che spontaneamente
possiede il più sprovveduto ragazzino di cinque o sei anni. Da solo, o combinato con la
musica vera e propria, nel canto, il piacere della lingua è tra i più basilari, seppur
discreti, piaceri della vita. Poco stupisce che questa mirabile facoltà linguisticomusicale l’uomo l’abbia da sempre cercato di goderla, ampliarla ed educarla. La poesia
rappresenta forse la manifestazione più compiuta e più raffinata di questa nostra
facoltà, in gran parte innata e veramente universale. Infatti, non vi è cultura che non
abbia prodotto poesia e canto, e che non ne abbia goduto. L’orecchio per la lingua è
distinto dall’orecchio per la musica, tanto che si conoscono svariati casi di lesioni
cerebrali che colpiscono l’uno, pur lasciando l’altro intatto. Nel canto, naturalmente,
questi due distinti “orecchi” si combinano e si armonizzano tra loro. Qui non ci
occuperemo della voglia di ascoltare musica e canto, sia perché nelle scuole secondarie
superiori non costituiscono normalmente materia di studio, sia perché è una voglia che
non abbisogna davvero di essere incoraggiata. Oggi come oggi ce n’è perfino troppa:
l’ascolto delle canzonette è talmente diffuso e maniacale da costituire un serio
“inquinamento” acustico. Nei grandi magazzini, nei supermercati, negli aeroporti, in
macchina, nei bar, perfino in moto e in barca, pare che non si riesca più a vivere senza
un sottofondo musicale.
Tutt’altro discorso vale, invece, per la poesia, oggi talmente trascurata nella vita
quotidiana da costituire un “consumo” quasi esclusivamente scolastico. La voglia di
poesia può oramai essere instillata ed educata solo a scuola. Non solo i poeti e i
cantastorie non girano più le contrade e non radunano più le folle ai mercati, ma sono
scomparsi anche dalle nozze, dai battesimi e dalle celebrazioni private e pubbliche.
Sarebbe difficile trovare oggi figure di poeti-istituzione, di poeti “nazionali”, di poetisimbolo di un certo regime politico, così come lo sono stati, in tempi non lontanissimi,
per esempio Vladimir Majahoskij, Sergej Esenin e Anna Achmatova in Unione
Sovietica, Paul Eluard, Louis Aragon e Jacques Prèvert in Francia, Federico Garcia
Lorca nella Spagna Repubblicana e Pablo Neruda nel Cile democratico (tanto è vero
che questi ultimi due furono perseguitati dai fascisti, proprio in quanto simboli da
annientare). Il presidente Kennedy, durante la cerimonia del suo insediamento, invitò a
declamare versi sul podio il grande poeta americano Robert Frost, ma non mi consta
che tanto lodevole “buon gusto” si sia mai più manifestato, né a Washington, né in
altre capitali. Con la scomparsa di Montale, Ungaretti e Quasimodo, si è estinta anche
da noi la tradizione dei poeti da tutti riconosciuti come “valore” nazionale. Lodevole,
ma velleitaria e isolata fu l’idea di un nostro quotidiano di cercare “il poeta” dei
Mondiali di calcio. Eppure, nelle olimpiadi e nei certamina dell’antichità il poeta
ufficiale non mancava mai. Decisamente, questi sono tempi duri per i poeti. E’
inconcepibile oggi potersi guadagnare da vivere, anche modestamente, facendo il
poeta. Perfino i semplici dilettanti di poesia stanno scomparendo. Capita sempre più
38 La voglia di studiare
Così fan tutti
raramente di essere invitati a una serata di letture poetiche, abitudine ancora pochi
decenni fa abbastanza diffusa nei buoni salotti, tra gruppi di appassionati che si
riunivano a ritmo settimanale. Si registra qualche sporadico e incoraggiante sintomo di
revival delle serate poetiche, ma in generale la poesia non fa più chic, e non fa più
“spettacolo”. Ricordo ancora con gratitudine la serie di letture di poesia date molti anni
fa da Eugenio Montale in televisione in ore di massimo ascolto, ma una simile
trasmissione oggi mi sembra impensabile. Sarebbe difficile dire se questo oggi non
avviene perché non ci sono più grandi poeti nazionali, p se questi non ci sono più
perché la poesia viene tenuta in così scarsa considerazione. Qualunque sia la risposta a
questo dilemma, resta il fatto che la poesia, oggi, è proprio diventata “roba che si fa a
scuola”. A tal punto che dobbiamo qui chiederci se questo debba essere
necessariamente vero.
Come ho appena accennato, la storia della nostra cultura ci mostra che non è sempre
stato così. Le “sfide” versificatorie e le improvvisazioni poetiche erano comunissime
ancora agli inizi di questo secolo durante i banchetti di nozze (mi si dice che nei
piccoli paesi del Sud d’Italia la tradizione non sia del tutto scomparsa). I cantastorie
circolavano di fiera in fiera, di mercato in mercato, e perfino i burattini spesso
parlavano in versi. Prima che esistessero televisioni e cassette registrate, quelle che
oggi anche i piccolissimi infilano destramente in appositi mangianastri gialli e rosa, i
bambini si godevano le filastrocche e le poesiole declamate loro da mamme, nonne e
tate. Erano avidi di impararne di nuove e si divertivano ad inventare le loro. “Il corriere
dei Piccoli” era quasi interamente scritto il rime. Erano altri tempi.
Dove cercheremmo oggi degli embrioni di poesia, al di fuori della scuola? Ci sono
solo i giochi di parole, i doppi sensi delle barzellette e, onnipresenti, gli slogan
pubblicitari. Anche queste modestissime manifestazioni fanno leva su quell’organo di
cui si diceva prima, sulla nostra facoltà di sentire la musica delle parole. Certo, ma
questo fatto, come avevamo preconizzato, costituisce un chiaro equivalente culturale
della nostra parabola delle posate di plastica usa-e-getta. A chiunque abbia frequentato
la poesia vera si stringe il cuore nel veder saziato quel nobile appetito a questo
squallido buffet. In tale deserto poetico, la necessità di educare a scuola questa facoltà,
di sviluppare il buon gusto poetico attraverso lo studio, non potrebbe oggi essere più
lampante.
Il parallelo con le dodici posate di plastica può essere reso ancora più esplicito e
palpabile dal seguente aneddoto. Molti anni orsono, un appuntato di pubblica sicurezza
ormai in pensione, e divenuto saltuario collaboratore nella ditta di mio fratello mi
confessò che passeggiava spesso in un grande cimitero per leggere e imparare a
memoria le iscrizioni in rima scolpite sulle lapidi di certe tombe. Era una degnissima
persona, che sapeva appena appena leggere e scrivere, e la sua non era affatto
necrofilia, ma genuino amore per la poesia. Adorava leggere e rileggere quelle
iscrizioni in rima, poste sulle tombe in altre epoche, da mani ben più pietose delle
nostre, quando ancora i poeti potevano raggranellare due lire sbrigando simili
lavorucci. Una volta prese a declamarmi, non solo con enfasi, ma con autentica
commozione, alcune di quelle sue predilette poesie funerarie. Le trovai tutte atroci, ma
naturalmente mi guardai bene dal dirlo. Mi limitai a chiedergli come mai non leggesse,
assai più comodamente, a casa sua, o comunque in ambienti meno cupi, dei libri di
La voglia di studiare 39
poesie. La sua risposta fu tenera e disarmante. Mi disse che innanzitutto gli piaceva
stare all’aria aperta, camminare in quel bel cimitero silenzioso, tra i cipressi e le
sculture. Dato che visitava regolarmente la tomba di sua moglie, coglieva l’occasione
per girovagare così tra le lapidi. Poi ci vedeva poco, e le iscrizioni sulle tombe erano
scolpite a caratteri grandi. Erano tutte poesie brevi (non si fatica a crederlo), e questo
gli piaceva molto. Infine aggiunse, con toccante modestia, che la poesia dei poeti veri
lui non la capiva, mentre questa la capiva. Trovai questa sua spiegazione
immensamente più commovente delle sue rime funerarie, e gli dissi che era davvero
fortunato ad aver trovato un passatempo così appagante. Lo ricordo sempre con affetto
e con simpatia, anche per quella sua semplice, essenziale voglia di poesia. Ritengo di
rendere degno omaggio alla sua memoria permettendomi oggi di “usare” le sue
limitazioni, la sua confessata incapacità di capire la poesia autentica, come un invito a
tutti noi per sviluppare precocemente e pienamente il nostro gusto poetico. La voglia di
poesia, come si vede, c’è sempre, perché è naturale, ma occorre educarla, aiutarla ad
esprimere il meglio di sé.
Se prendiamo quel suo godimento deambulante di semplici rime funerarie come un
estremo, diciamo l’estremo inferiore del gusto poetico, all’estremo opposto mi sembra
stare il perfetto godimento che riesce a suscitare in noi un brano dall’Alcyone di
Gabriele d’Annunzio, genialmente scelto da Enzo Mandruzzato in conclusione del suo
libro Il piacere del latino. Questo raffinato studioso ricostruisce prima per il lettore,
capitolo dopo capitolo, pazientemente, ma anche piacevolissimamente, il senso
profondo della lingua italiana e del mondo latino, della cultura classica, del protoitaliano. Poi tesse sotto i nostri occhi le delicate fila della perpetuità del ritmo poetico
latino insieme alle novità rappresentate dal metro dei nostri poeti, dai più antichi su su
fino ai “decadenti”, senza trascurare nemmeno gli accordi con i ritmi di altre lingue
europee. Infine ci spalanca le porte e ci mette direttamente alla presenza di quella
poesia di d’Annunzio, senza più un commento. E l’effetto è prodigioso. Tutte le
assonanze ritornano, tutta la sua sapiente “preparazione” reca d’un tratto i suoi frutti:
Ai piedi ho quattro ali d’alcèdine,
ne ho due per mallèolo, azzurre
e verdi, che per la salsèdine
curvi sanno errori dedurre.
Pellucide son le mie gambe
Come la medusa errabonda
Che il puro pancrazio e la crambe
Difforme sorvolano e l’onda.
L’orecchio va preparato ad intendere una musica tanto rarefatta. (Per inciso, “il puro
pancrazio e la crambe” sono piante marine. Quali non importa, qui conta il loro suono,
non la loro botanica). Va preparato, perché le molte corde del nostro orecchio vanno
pizzicate, prima una ad una, poi sempre più insieme, per sintonizzarle tutte appieno
con la vera, grande poesia. Mandruzzato ci aveva appena avvertito che “tutta l’opera
dannunziana presuppone nel lettore due adorazioni: la natura e la parola”.
40 La voglia di studiare
Così fan tutti
Ma non sono, forse, proprio queste anche le adorazioni del nostro tenero pensionato a
passeggio nel cimitero? E non era, anche lui, pienamente appagato da quelle sue
miserelle poesie? Che peccato, però, dover saziare queste adorazioni a così poco
prezzo, con materiale poetico di scarto.
E’ tra questi due estremi che possiamo immaginare si maturi la formazione del nostro
gusto poetico individuale. L’innata, e spesso avvilita, voglia di poesia è la forza che ci
sospinge lungo queste camminate, siano esse tra modeste lapidi, o tra i capolavori della
tradizione poetica. Ma ci sono camminate che non si possono improvvisare, senza una
progressiva preparazione storica ed estetica. Una volta di più, nessuna formula
oggettiva decide ciò che è bello. Il metro di giudizio sta nel fatto che, dopo una
frequentazione dei capolavori di ieri e di oggi, il nostro “organo”, il nostro gusto, poi
non potrà, né vorrà, mai più privarsene. Quella “stessa” adorazione della natura e della
parola saprà ora come imporre il suo giusto prezzo.
Il gusto filosofico
Possiamo dire che nel vasto mondo, al di fuori della scuola, ci sono tre diversi modi
di intendere e di vivere la filosofia: c’è una filosofia che è scienza tra le scienze, nella
quale ci si pongono dei precisi problemi e si cerca di risolverli; c’è una filosofia che è
storia delle grandi idee, nella quale si ricostruisce “cosa hanno veramente detto2 i
giganti del passato; poi c’è una filosofia che è quasi sinonimo di educazione alla
saggezza. Quest’ultima corrisponde all’idea che ci si fa normalmente del saper
prendere le cose, appunto, “con filosofia”. Secondo questa diffusa “ immagine “, a
differenza di ogni altra materia, ci si aspetta che la filosofia ci porti anche un elemento
di saggezza. Ci deve aiutare non solo a sapere di più, ma anche a vivere meglio, non
solo a conoscere meglio il mondo, ma anche a conoscere meglio noi stessi. A dispetto
di questa immagine, però, la filosofia che si studia a scuola è quasi esclusivamente del
secondo tipo: una ricostruzione sequenziale di cosa hanno detto alcuni grandi pensatori
del passato (magari anche quelli di un passato non troppo remoto). La componente di
educazione alla saggezza ne emerge molto, molto indirettamente. Quanto poi alla
filosofia del primo tipo, la formazione alla ricerca filosofica di punta, a scuola non se
ne parla quasi affatto. Raramente ci si rende conto, terminato il liceo, o perfino
terminati gli studi di filosofia in certe nostre università, che sia ancora possibile porsi
un problema filosofico nuovo, e risolverlo. Si pensa, tutt’al più che si possano ancora
trovare interpretazioni nuove di filosofi del passato, o che si possano ancora mettere in
luce connessioni nuove tra tesi filosofiche già note. Questa opinione, che la filosofia
sia già finita, fu proprio quella che Bertrand Russell giustamente condannò agli inizi di
questo secolo, facendo presente ai suoi colleghi di Oxford che se anche Leibniz,
Hume, Kant e Hegel avessero inteso così la filosofia, si sarebbero limitati a chiosare
all’infinito sulle opere di Platone e di Aristotele. Russell, inaugurando (o piuttosto
reinstaurando) una diversa tradizione, scoprì, e in parte risolse, molti nuovi problemi
filosofici, non ritenendosi affatto vincolato a fermarsi dove si erano fermati i suoi
La voglia di studiare 41
predecessori. (Vedremo un interessante problema proposto da Russell, e in parte
ancora irrisolto, nel “Finalino” della Parte IV).
Dato che non è compito di questo libro proporre riforme, ma piuttosto invitarci a
studiare meglio le materie così come sono, cercheremo di far tesoro proprio di quanto
ci viene oggi offerto dalla filosofia fatta a scuola.
Concordo pienamente con coloro che sostengono essere la filosofia una risposta, per
quanto approssimativa, per quanto temporanea, a tanti grandi “perché” insiti in ogni
essere umano. Vi sono domande che ogni bambino si pone spontaneamente senza che
nessun adulto le abbia mai suggerite. Non mi riferisco solo alle immense domande sul
perché esiste il mondo, perché esistiamo noi, che scopo abbia la nostra vita e se c’è
qualcosa dopo la morte. Mi riferisco a una miriade di domande asai più precise che il
bambino più grandicello comincia a porsi, e pone ai genitori e agli insegnanti. Sono
quelle domande che ci colgono in contropiede, che ci lasciano perplessi, alle quali
avvertiamo subito di non poter dare, in qualche minuto di conversazione, una risposta
degna di questo nome. Conversando con i ragazzini mi è capitato di sentir chiedere,
per esempio: “Perché i pensieri stanno nel cervello?”; “C’è qualcosa che non è fatto di
materia?”; “Perché il soldato che uccide il nemico in guerra non va in prigione per
omicidio?”; “Le opere d’arte sono nei musei perché piacciono a tutti, o piacciono a
tutti perché sono nei musei?”; “Perché non parliamo tutti la stessa lingua?”.
Colpisce, in queste domande, il fatto che una qualche risposta può essere data, ma
richiede ore, non minuti. Si tratta, inoltre, di risposte che ciascuno di noi deve
ricostruire sul momento, partendo da una miriade di fatti, idee, teorie e ragionamenti
sparsi in vari campi del sapere. Nessuno dei campi dello scibile, in sé e per sé, offre
risposte a una miriade di domande come queste. Le risposte vengono da un collage di
conoscenze e di riflessioni. Ebbene, la filosofia dovrebbe un giorno, se ben insegnata,
consentire a ciascuno di ricostruire risposte sensate a domande di questo tipo. Non ci
darà esplicitamente la risposta, ma ci fornirà un metodo, e una serie di punti di
riferimento, per mettere sensatamente insieme tanti elementi sparsi.
Come abbiamo visto, una delle accuse che si potrebbero fare alla filosofia, così come
viene insegnata nei nostri licei, è che non insegna a filosofare, ma insegna solo quello
che ha detto una sequela di “grandi filosofi”. In certi licei francesi, per esempio, si
procede spesso non storicamente, ma per “problemi”, con risultati che non mi paiono
molto soddisfacenti. Ho visto studenti francesi riscoprire, senza saperlo, soluzioni già
date, e già ampiamente demolite, secoli addietro. Il guaio è che non sempre questo
viene loro detto, e non sempre vengono poi messi di fronte agli autori che potrebbero
aiutarli nella loro propria ricerca filosofica “selvaggia”. Se mi consente, vorrei di
nuovo richiamare la nostra parabola delle posate di plastica. Non si dovrebbero lasciar
re-inventare in proprio, con grande fatica e poco profitto, risposte che già sono state
date, e demolite, secoli addietro. Va bene se questo viene preso come esercizio,
nell’arco di un’ora o poco più. Va meno bene che questa ricerca selvaggia si protragga
per pomeriggi interi. Quello sforzo, quel talento, frutterebbero assai di più se si
portasse lo studente, attraverso lo studio della storia della filosofia, fino alla soluzione
più recente, o più soddisfacente, per invitarlo a procedere da quel punto in poi. Ben
venga una filosofia meglio insegnata e più aperta al personale intervento creativo.
Resta ben solido, però, il fatto che nel filosofare spontaneamente, senza conoscere la
42 La voglia di studiare
Così fan tutti
storia della filosofia, siamo tutti condannati a riscoprire soluzioni già note e arcinote,
spesso già criticate e arcicriticate. Invece di promuovere il progresso del pensiero
filosofico individuale, la mancanza di basi storiche fa letteralmente perdere tempo
prezioso, e mantiene lo studente nella retroguardia, non solo rispetto al progresso
continuo della disciplina, ma anche (e soprattutto) rispetto alle sue potenzialità
soggettive di elaborazione.
La formazione storica del gusto filosofico ci evita di remare faticosamente per miglia
e miglia, concludendo poi affarucci di poco conto. Chiunque abbia pratica di
insegnamento della filosofia e si sia imbattuto in discussioni filosofiche improvvisate,
che sono spesso straordinariamente divertenti, sa che il profano riscopre sempre la
bicicletta (nella migliore delle ipotesi) o riscopre l’illusione del moto perpetuo (nella
peggiore). Ci si trova ogni momento a iniettare nella discussione: “questo lo aveva già
X, ma Y obiettò che …”. Oppure, se non si vuol fare i pedanti, a far presente, senza
citare nomi, che quella tesi, quell’argomentazione, cade subito sotto la tale ben nota
obiezione.
Ricordo un piacevole viaggio in treno tra Firenze e Roma nel quale un soldatino ateo
ingaggiò una nutrita conversazione filosofica con un gruppo di pellegrini, con tanto di
parroco, diretti a Cortona e ad Assisi. Senza esserne conscio, nell’arco di un paio di
ore, il soldatino spuntò una dopo l’altra contro la fiera resistenza dei fedeli e del
parroco, assai più agguerrito filosoficamente, tutte le classiche argomentazioni
scettiche proposte dai filosofi. Non potetti impedirmi di concludere, silenziosamente e
restando fuori da quella simpatica mischia, che, quando si ha un così spiccato interesse
spontaneo per l’argomentazione filosofica, conoscere la storia della filosofia aiuta
possentemente a chiarire le proprie idee. Aiuta a portare le proprie possibilità di
ragionamento a un punto molto più avanzato. Quando quelle pie persone scesero a
Terontola, suggerii al soldatino di coltivare i propri evidenti interessi filosofici,
leggendosi alcuni classici dell’ateismo (se ben ricordo, gli suggerii specifici scritti di
Hume, Kant, Croce e Russell). Un riflesso da professore, certo, ma mi parve un
peccato che tanto naturale talento, e una non comune intelligenza filosofica, si
sprecassero a riscoprire cose già dette, quando invece potevano ripartire da un punto
assai più avanzato, ed andare “oltre”. Comunque ben oltre il livello della discussione
appena spentasi in quello scompartimento di treno.
Negli anni successivi ho assistito spesso a questo fenomeno di inconsapevole
riscoperta selvaggia della storia della filosofia. L’inevitabilità di questa riscoperta è,
tutto sommato, piuttosto misteriosa, ma possiamo azzardare almeno qualche
spiegazione parziale. Le migliori menti filosofiche scoprono subito le idee più
“naturali” e più “attraenti”, e danno loro la più penetrante espressione possibile. Altre
grandi menti filosofiche, partendo dalle punte raggiunte dai loro predecessori,
scoprono nuove obiezioni e imboccano nuove strade, dando loro, una volta di più,
l’espressione coerente e più esemplare di cui sono capaci. E così di seguito. Essendo
grandi filosofi, sono capaci di trovare grande coerenza e quasi perfetta esemplarità.
Perciò, quando noi ci mettiamo a filosofare selvaggiamente, e abbiamo un certo
talento, è quasi inevitabile che nel migliore dei casi, si ripercorrano, senza saperlo,
proprio le strade già battute. Per questo ritengo la conoscenza della storia della
filosofia assolutamente indispensabile per filosofare in proprio. Ci rende migliori
La voglia di studiare 43
filosofi, e ci insegna, almeno indirettamente, a meglio vivere, sia perché ci mette a
contatto con i risultati ottenuti dalle migliori menti filosofiche, sia perché ci trasporta
nei punti più avanzati del pensiero, dai quali posiamo partire per una nostra genuina
esplorazione personale. Il potenziale filosofico di ciascuno di noi, soprattutto se è
grande, resta soffocato, o gira a vuoto, quando non conosciamo la storia della filosofia.
Il buon insegnante di filosofia ci porta veramente “avanti” nel nostro sviluppo
intellettuale, e lascia in noi un ricordo indelebile (per mia fortuna, io ne ebbi uno
straordinario). Purtroppo, invece, il cattivo insegnamento della storia della filosofia
avvilisce in tante formulette e ricettine le grandi idee filosofiche. Ci si trova di fronte a
una sfilza di nomi, titoli e date e la nostra legittima sete di risposte resta inesaudita. In
questi casi bisogna pensare, però, che quel cattivo insegnante di filosofia darebbe
risultati ancora peggiori se pretendesse di insegnarci a filosofare nel vuoto, senza
tempo e senza storia. Anche le ricettine sono meglio di niente e una volta che,
perlomeno, sappiamo quali sono i grandi filosofi e cosa hanno scritto, niente vieta di
andarceli a leggere di persona, senza il filtro del manuale e della scuola. Scopriremo
così che non è affatto vero che i grandi filosofi scrivono “difficile”. Spesso i grandi
filosofi sono molto più chiari dei piccoli. Per esempio, succede spesso che un classico
della filosofia sia assai più leggibile della prefazione e delle note del “curatore”. Farà
parte della formazione del nostro gusto filosofico anche imparare a immergersi
direttamente nel testo stesso, saltando a piè pari certe prefazioni vischiose ed
estenuanti. I grandi filosofi scrivevano perché volevano meglio capire il mondo e il
nostro posto nel mondo, mentre magari quei curatori scrivono oggi solo per
guadagnarsi una qualche cattedruccia. Avvertire questa abissale differenza significa
avere già sviluppato il nostro gusto filosofico.
Il gusto matematico
Il gusto per la matematica è di gran lunga il più difficile da educare. A differenza di
quello per la poesia, non solo non pre-esiste spontaneamente in noi, ma cresce e si
matura, come vedremo, proprio facendo una certa violenza ai nostri più radicati riflessi
mentali. In un certo senso, il piacere della matematica consiste nel piacere di veder
vincere la nostra ragione sulla nostra natura. E’ sacrosanto aggiungere subito che anche
la ragione fa parte della nostra natura, ma questo non deve occultare il fatto che nella
matematica ci troviamo un po’ in lotta con noi stessi. Per l’esattezza, questa lotta
avviene proprio nella matematica che si insegna a scuola. Infatti, esiste anche un’altra
matematica, quella dei sommi matematici, la Gran Dama cui alcuni dei èiù brillanti
intelletti di ogni tempo e di ogni Paese hanno votato il meglio di sé, la luce della pura
ragione che ha fatto scoprire più mondi nuovi di quanti ne abbiano scoperti i navigatori
e gli astronauti (alcuni accenni sono contenuti nel racconto “David, la scimmia e
l’infinito” nella Parte III). Quella che incontreremo adesso, invece, appare a molti
come una strega, una tormentatrice sadica che spinge alla disperazione. Cercheremo di
capire perché tanti la odiano tanto, e vedremo cosa si può fare per stabilire, se non una
44 La voglia di studiare
Così fan tutti
franca fraternìzzazione, perlomeno una tregua guardinga tra questa matematica e chi la
trova tanto detestabile.
In anni recenti, la psicologia cognitiva ha sollevato un po’ di velo sulle profonde
ragioni dell’odio per la matematica. Pare, detto in soldini, che ci resti difficile capire i
numeri come altro che uno conta di “quante cose ci sono”. Questa conta, e il concetto
di numero come misura della numerosità, ci vengono naturali, spontanei. Tre penne
alle quali si aggiungono altre sei penne fanno nove penne. I guai cominciano quando si
tratta di considerare i numeri non per la “quantità” che ci forniscono, ma per quello che
sono. Il numero naturale due non è proprio lo stesso che il numero intero positivo + 2,
e non proprio lo stesso che il numero reale 2 ottenuto da un certo “taglio” della retta
dei numeri, o attraverso una certa somma infinita. Questo si ha difficoltà a vederlo. Ci
sembra che il due sia il due, e basta. Se poi è anche tutte queste altre cose, e in più la
radice quadrata di quattro, e la radice cubica di otto, bè, questa ci pare una
complicazione inutile. Nella nostra psicologia spontanea dei numeri, quella che offre la
base di appoggio all’insegnamento dell’aritmetica nelle scuole elementari, i numeri
sono un po’ dei nomi, come Piero, Maria, Gianni. Tra questi nomi, ci sono nomi di
amici e nomi di sconosciuti. Esistono infatti, per noi, dei numeri che sono “più2
numeri di altri. Non sotto il profilo della matematica, naturalmente, ma sotto il profilo
psicologico. Per esempio l’uno, il due, il cinque, il sette, il dieci, il venti, il cinquanta,
il cento, il mille. Gli psicologi hanno recentemente scoperto che questi numeri
occupano, nello spazio delle nostre rappresentazioni mentali, nella nostra
inconsapevole immaginazione aritmetica, delle posizioni privilegiate. Il fatto spiega,
almeno in parte, perché le banconote di ogni Paese portano tagli di uno, due, cinque,
dieci, venti, cinquanta, cento, mille e i loro multipli. Non si è mai visto una banconota
da trecentocinquanta, o di settantacinquemila. Ci portiamo dentro, insomma, non solo
nel portafoglio, ma anche nella testa, un plotoncino di numeri amici, delle quantità
psicologicamente “nobili”, sperse tra l’infinita folla dei numeri.
I numeri amici
Mediante opportuni esperimenti eseguiti dagli psicologi, e attraverso lo studio recente
di pazienti “a-calculici”, cioè affetti da lesioni cerebrali molto specifiche che li
rendono incapaci di contare, si è potuto stabilire che tutti noi riconosciamo a vista,
istantaneamente, questi numeri amici molto meglio di quanto riconosciamo tutti gli
altri numeri. Anche sapendo perfettamente la definizione esatta di numero pari e di
numero dispari, il due o il quattro ci sembrano “migliori esempi” di numeri pari che
non il 74 o il 136, così come il cinque o il sette ci sembrano “migliori esempi” di
numeri dispari che non il 29 o il 107. Nel nostro parlare corrente, certi numeri
appaiono spesso, altri quasi mai. Anche scrivendo, appare naturale scrivere in lettere il
cinque, il dieci, il centocinquanta, ma già il settantasei suona sforzato. Lo scriviamo 76
(eppure è più corto del centocinquanta!).
Tutto questo non ha niente di razionale, né niente di matematicamente fondato, ma è
una nostra realtà psicologica. Tanto è vero che tendiamo ad “arrotondare” le cifre nella
La voglia di studiare 45
nostra mente. Quanto hai pagato la macchina? Otto milioni e mezzo. Quanto costa il
libro? Sessantamila lire. Solo in contesti molto specifici, nelle contrattazioni, alla
cassa, in banca, trattiamo cifre esatte, ma non nella nostra conversazione ordinaria. La
nostra memoria arrotonda sempre, e così arrotonda la nostra percezione. I
commercianti ben lo sanno, e sanno anche che l’arrotondamento avviene sempre per
difetto. Se un articolo in una vetrina porta il cartellino 198.000, dopo qualche minuto ci
ricordiamo “circa 190.000”, no “circa 200.000”. E’ anche per questo che i prezzi al
consumatore non sono quasi mai ”tondi”, ma piuttosto vicini a una cifra tonda per
leggero difetto, 995, oppure 1990. Quando li vediamo, curiosamente e inevitabilmente,
ci appaiono più bassi di quello che sono, ci appaiono più vicini a 900, o a 1900.
Psicologicamente, non ”sfondano” la barriera dell’unità superiore: non arrivano
”veramente” a mille, o a duemila.
Se questa nostra curiosa percezione dei numeri può essere, forse, utile al commercio,
diventa disastrosa quando si studia matematica. Qui non c’è posto per questa scala
soggettiva di valori. Qui tutti i numeri sono sullo stesso piano. La differenza tra 1999 e
2000 è uno, proprio la stessa che c’è tra 1998 e 1999. Il 1003 è altrettanto dispari che
il 7. La nostra psicologia aritmetica spontanea e la razionalità matematica fanno a
pugni. Se ancora alle scuole elementari ci si sforza di ”sfruttare” la nostra psicologia
dei numeri, nelle scuole superiori ci si deve decidere a superarla. Tra la nostra
psicologia e la nostra razionalità, dobbiamo scegliere senza riserve la seconda.
Poco stupisce, quindi, che quando ci viene imposto di abbandonare la nostra scala
psicologica delle quantità e di passare alla scala oggettiva, razionale, assoluta,
sviluppiamo delle forti resistenze. Il fenomeno psicologico è simile a quello del chilo
di piombo e del chilo di piume. Pesano esattamente lo stesso, ma il chilo di piombo ci
sembra ”più” pesante. Immancabilmente, c’è il furbastro che insiste: ”Bene, ora vai in
strada e io ti lascio cadere sulla testa, dal terzo piano, un chilo di piume e un chilo di
piombo e mi dirai quale pesa di più”. Ci si incaponisce, contro la logica del
ragionamento matematico, a difendere la ”giustezza” della nostra intuizione spontanea.
Ci si sente quasi imbrogliati dal ragionamento astratto, genuinamente matematico,
tanto diverso dal nostro ”ragionamento” intuitivo. Il peggio è che ci si sente anche
stupidi. E questo non ci piace nemmeno un po’.
Non tutte le strade portano a “Roma”
Prendo un altro esempio banale, ma che ci servirà a capire il tipo di fenomeno
psicologico. Piero chi chiede di indovinare una proprietà molto, molto evidente di
Roma alla quale sta pensando. La capitale d’Italia? No, non è questa. La sede del
Papato? Nemmeno. C’è il Campidoglio? No, nemmeno questa. Dopo una serie
estenuante di tentativi, ci arrendiamo. La soluzione è: “Ha quattro lettere”. Qui volano
schiaffi, perché pare che Piero ci abbia preso in giro. Che c’entrano le quattro lettere?
Si pensava alla città di Roma, non al nome Roma. Dovevi dirmelo che si trattava della
parola, non della ”cosa”. Avevo forse detto il contrario? No, ma era chiaro dovesse
essere così. Perché era chiaro?
46 La voglia di studiare
Così fan tutti
Qui, gli stili spontanei di pensiero divergono. C’è una minoranza di persone che
pensa subito e innanzitutto alle quattro lettere, non al Campidoglio o al Papa. E una
maggioranza che alle quattro lettere, senza suggerimenti, d’impulso, non penserebbe
mai. Guarda caso, i primi sono anche coloro che hanno il bernoccolo della matematica
(almeno di quella che si insegna s scuola). Sono portati a vedere direttamente le
proprietà astratte, formali. Sono i rari ”mutanti”, ai quali l’astrazione e il gioco con le
entità astratte vengono spontanei, coloro che vedono subito, con un occhio speciale, le
regolarità e le irregolarità delle quantità, delle figure, delle relazioni. I grandi talenti
per la matematica sono fatti anche d’altra pasta, ma i talenti che riescono bene in
matematica a scuola sono proprio di questa pasta. Tutti ne conosciamo. Amano
slanciarsi in una serie di calcoli, coincidenze, correlazioni. Roma, quattro lettere, tre
milioni di automobili; Londra sei lettere, sette milioni di automobili (forse non è
proprio così, ma mi serve come esempio). Sommano le cifre delle targhe delle
macchine con il chilometraggio percorso e ci spiegano quanto è interessante osservare
che … Lo studio della matematica scolastica sarà per loro un piacevole passatempo.
Diciamolo pure, ci paiono un po’ dei mostri. Sono, infatti, diversi dalla maggioranza
dei comuni mortali. Ai comuni mortali, questo modo di pensare, questa ginnastica con
i numeri, queste cabale, risultano estranee, noiose, perfino detestabili. Alla
maggioranza dei mortali la matematica fatta a scuola pare, nella migliore delle ipotesi,
una medicina amara da inghiottire; nella peggiore, un motivo per abbandonare la
scuola.
Vorrei, però, far presente a chi trova tediosa e scoraggiante la matematica insegnata a
scuola, quale sia il fascino che ci si può trovare, se solo la si guarda un po’
diversamente. Il criterio generale su cui voglio far leva è il piacere che si prova nel
superare, con sforzo, una nostra spontanea ritrosia, un nostro naturale timore, quando
questi ci chiudono una parte del mondo, quando ci bloccano w ci impediscono
l’accesso ad attività piacevoli e divertenti. A chi impara a nuotare fa piacere superare
la paura dell’acqua, liberarsi dal terrore di sentirsi mancare sotto i piedi il supporto del
fondo. A chi impara a sciare fa piacere sentir diventare naturale il riflesso di buttarsi
tanto più in avanti, quanto più la pendenza è ripida. A chi impara a veleggiare fa
piacere imparare a godere della forte inclinazione laterale dell’imbarcazione. E così
via. Ebbene, l’insegnamento della matematica scolastica può darci questo genere di
piacere: sentire crescere in noi, contro la nostra spontanea inclinazione, una familiarità
con le grandezze, le quantità e le relazioni pure. Si arriva, seppure con sforzo e
impegno, ad acquistare il riflesso di vedere che le quattro lettere sono una proprietà
primaria ed evidente di Roma. Non della città, ma del suo nome, o simbolo. Questa è
l’idea fondamentale, ridotta a un esempio banalissimo.
Mi stavo dimenticando di aggiungere che la matematica è anche utilissima, spesso
indispensabile, nella vita. Ora che l’ho detto, però, passiamo ad altro. Sono secoli che
si spiega agli studenti quanto è utile la matematica (e si dice una cosa sacrosanta).
Eppure sono secoli che milioni di studenti continuano a trovarla odiosa e hanno
difficoltà a raggiungere la misera sufficienza. Questo significa che il suo essere utile
non aiuta a superare il blocco psicologico in chi ce l’ha. Proviamoci in altro modo.
La voglia di studiare 47
Giù per la china matematica
Per l’indovinello su Roma, e in genere per gli indovinelli matematici, ci sentiremmo
(e come) di prendere a schiaffi chi ce li pone, ma un angolino della nostra ragione (per
fortuna) ci ferma. Avvertiamo con fastidio, ma anche con certezza, che avremmo
dovuto pensare subito alle quattro lettere. Non c’è alcuna malizia nei veri indovinelli
matematici. Se con qualcuno ce la dobbiamo prendere, non è con chi ce li pone, ma
con noi stessi. A meno che non ce la prendiamo con la materia stessa, con la
matematica in quanto tale. Questo è quanto spesso succede, ma è un peccato, perché
sarebbe come consegnarsi prigionieri ai nostri primi impulsi, non andare mai
nell’acqua alta, non sciare mai lungo un pendio innevato, chiedere di essere riportati
subito a riva non appena la barca si inclina. Molti nostri impulsi sono sani, ma non
questi. Questi vanno superati, perché costituiscono per noi una prigione. Ci precludono
la piena circolazione nel mondo e lo sviluppo pieno di tutte le nostra potenzialità.
Avendo chiarito che la nostra psicologia spontanea dei numeri costituisce un blocco
reale e universale, cerchiamo di motivare lo studente a superare il blocco, a vincere la
psicologia spontanea. Torniamo all’esempio di Roma. Se la differenza tra la città di
Roma e il nome Roma è lampante, questa differenza si assottiglia drasticamente per gli
enti matematici. Restando nel mondo dei numeri, e partendo dal concetto che ci viene
più naturale ⎯ quello di misura di una quantità ⎯ possiamo vedere che il nome dei
numeri, o meglio la loro espressione scritta, ci impone un certo ragionamento. Due
aspetti poco naturali, e quindi un po’ odiosi, della matematica sono già riuniti: il ruolo
fondamentale del ragionamento sui simboli e il fatto che, sulle proprietà degli enti
matematici, il nostro intuito no può legiferare. Detto in parole semplici, l’esistenza e le
proprietà degli enti matematici sono qualcosa che si scopre, non qualcosa che si
inventa o si “stipula”.
I filosofi e i matematici hanno discusso per secoli su questi concetti, ma possiamo
lasciar perdere queste disquisizioni. Basti dire che esistono degli obblighi inderogabili
che gli enti matematici impongono al nostro ragionamento. Se si fanno certe
operazioni, se si attribuiscono certe proprietà, allora non si può evitare di fare certe
altre operazioni, di attribuire certe altre proprietà. Il carattere necessario delle verità
matematiche ci infastidisce , perché è così lontano dalla nostra esperienza quotidiana,
dal nostro naturale soggettivismo. Ancora più ci infastidisce che le necessità
matematiche non siano imposte da una mancanza di denaro, dal clima, dalla geografia
del luogo, dalle leggi di mercato, ma siano imposte dalle proprietà intrinseche degli
enti matematici. Non ci piace, di primo acchito almeno, essere forzati da dei simboli.
Eppure, i simboli matematici ci danno un accesso diretto, privilegiato, autostradale,
alla natura intima, profonda, degli enti matematici
Per dare solo un esempio di come la matematica insegnata a scuola possa essere un
invito a liberarci dalle nostre prigioni mentali, vediamo come certe operazioni sui
simboli numerici ci obblighino ad arricchire portentosamente il concetto stesso di
numero. Un intero panorama di concetti e di proprietà ci si spalancherà di fronte, se
48 La voglia di studiare
Così fan tutti
solo ci abbandoniamo (contro le nostre resistenze spontanee) alla logica di un
ragionamento sui puri simboli.
Gli inevitabili “manovellismi” delle potenze
Partiamo da una semplice convenzione, apparentemente banale. Quando si moltiplica
un certo numero per se stesso un certo numero di volte, ci si può limitare a scrivere
questi due numeri uno sotto l’altro, senza scrivere tutta la sequela delle moltiplicazioni.
Basta scrivere la base, cioè il numero che viene ripetutamente moltiplicato per se
stesso, e il numero di volte che questa monotona operazione ha da essere ripetuta
(come tutti sanno, questo si chiama esponente). Fin qui, sbadigli. Niente di molto
stimolante. E’ un po’ come decidere il miglior modo di scrivere la distanza in
chilometri al casello di un’autostrada che porta essa stessa un certo numero. Autostrada
numero 18, chilometri 15. decidiamo di scrivere il primo numero in rosso, il secondo
in verde. O il primo in cifre più grandi e il secondo in cifre più piccole. Tante sono le
possibilità. Si prende quella che ci pare la più sensata, la si fa conoscere a tutti gli
utenti, e il problema è risolto. Questo è quanto succede, appunto, quando si stabilisce
una convenzione. Stabiliamo, dunque, una convenzione matematica. Il numero diciotto
moltiplicato per se stesso diciassette volte, si scriverà:
1817
si starà attenti a non confonderlo con:
1718
e tutto finirà qui. Avremo economizzato inchiostro, carta e tempo. La convenzione
risulta utile, e permette di evitare sfilze ripetitive di segni di moltiplicazione. Gli
sbadigli aumentano, l’attenzione decresce ulteriormente. Invece è molto interessante
renderci conto che la “convenzione” ci spinge inesorabilmente verso una serie di
conseguenze molto, molto sorprendenti. Per esempio, che dire di una potenza con
esponente non intero? Il nostro intuito già si blocca. Infatti, che senso ha moltiplicare
un numero se stesso, poniamo, sette volte e mezzo? O un venticinquesimo di volta?
Pare che non abbia nessun senso. In casi come questi, il non aver nessun senso
equivale a poter avere tanti sensi diversi, tra i quali non sappiamo quale scegliere. Cosa
significa dire che sono stato a Roma sette volte e mezzo? Che una volta mi sono
fermato a Settebagni e non sono entrato in città? O che avevo preso un sonnifero e ho
dormito tutto il tempo in cui ero a Roma? O che era notte e non mi sono nemmeno
accorto di essere a Roma? Tutte queste possibilità sono aperte, e tantissime altre. Se
siamo costretti a stabilire una convenzione, se siamo costretti a definire una volta per
tutte cosa significa essere stati in una città un numero non intero di volte, siamo liberi
di scegliere una qualsiasi di queste situazioni. Se proprio ci si tiene, un sondaggio di
opinioni, unito al buon senso, potrà fornire la definizione convenzionale di questa
espressione. Domandiamoci, però, se dobbiamo trovare una simile definizione. Penso
proprio di no. Sarebbe utile trovarla? Non se ne vede il perché. Ma se decidessimo di
La voglia di studiare 49
farlo, c’è forse una definizione che si impone? C’è una definizione più logica, più
naturale di ogni altra? Risposta, di nuovo, negativa.
Nel caso degli esponenti non interi, invece, trovare una definizione è obbligatorio, è
utilissimo e ce n’è una che si impone con forza irresistibile. Si tratta, in fondo, di
essere fedeli allo spirito della prima convenzione w di non contraddire alcuna delle
proprietà dei numeri e delle operazioni che già abbiamo stabilito. Né contravvenire al
senso della convenzione stessa. Procediamo a tappe, per singoli giri di manovella.
Così si macinano i paradossi
Due casi speciali già avrebbero dovuto metterci all’erta: esponente uno ed esponente
zero. Anche qui, il senso dell’operazione ci sfugge. Che vuol dire moltiplicare un
numero per se stesso una sola volta? O mai (zero volte)? Perché non lasciare questi
casi speciali nel vago? Perché non evitare di invischiarsi in situazioni difficili? Questa
vigliaccheria ci viene proibita, però, dalla nostra stessa convenzione. Infatti, se “due
per due per due” abbiamo deciso di scriverlo come due alla terza
23
e “due per due” come due alla seconda
22
dobbiamo definire due “alla prima” come, semplicemente il numero stesso, cioè due.
Togliendo un “elemento” alla volta dalla sequela di prodotti, si scema l’esponente di
uno, quindi qualunque numero elevato alla “uno”, è il numero stesso. Si tratta di una
“definizione”, ma di una definizione che non potevamo non dare, e che non potevamo
dare in alcun altro modo. La convenzione stessa, e le proprietà del prodotto, ce la
impongono. Il simbolo adottato per le potenze ci obbliga a dare un senso preciso, e
quello solo, a qualcosa che non ha senso: elevare un numero alla uno.
Abbiamo trovato un altro piccolo paradosso: due “moltiplicato per se stesso una
volta” dovrebbe dare quattro. Invece dà due. La convenzione ci ha, per così dire, preso
la mano. In matematica questo avviene ad ogni piè sospinto, e lo vedremo ancor
meglio proseguendo. La ricetta generale è di lasciarsi prendere la mano dalle buone
convenzioni matematiche e seguirle fino alle loro ultime conseguenze. Non bisogna
resistere, non bisogna ricondurre sempre tutto alla nostra intuizione. Tra la psicologia
e la razionalità, dobbiamo continuare a scegliere la razionalità.
La bellezza della matematica (a questo livello molto, molto elementare) è di
essere,forse, il solo ingranaggio in cui è bello farsi prendere. Si comincia con una
intuizione certa, con una buona convenzione e un utile simbolo, si danno certe regole
fisse e precise, poi si gira la manovella dell’ingranaggio che abbiamo noi stessi
costruito e si vede che l’intuizione di partenza non ci assiste più. Meglio così! Perché
quell’ingranaggio vi forza ad arrivare a delle intuizioni nuove, diverse, più profonde,
alle quali non saremmo mai arrivati senza l’intervento dell’ingranaggio. Questa
50 La voglia di studiare
Così fan tutti
sensazione di perdere e poi ritrovare l’intuizione, questo nostro abbandono
(inizialmente tanto in - naturale) alla meccanica dei simboli matematici, al quale
bisogna forzarsi di non resistere, è la motivazione principale allo studio della
matematica scolastica. E’, come dicevo, con un paragone approssimativo, l’equivalente
della vittoria sui nostri istinti che ci consente di nuotare nell’acqua alta, sciare lungo un
pendio, scalare le vette dei monti, planare sulle onde con una tavola a vela.
Torniamo alla nostra “convenzione” delle potenze. Metto ormai il termine
convenzione tra virgolette, perché già abbiamo visto che non siamo poi tanto “liberi”di
convenire come ci pare. Dobbiamo continuare a girare la manovella. Quello che via via
esce non ha più l’aria di essere così “convenzionale”, né nel senso di arbitrario, né nel
senso di scontato. L’altro caso anti-intuitivo che ora ci attende al varco è quello di
elevare un numero allo “zero”.
Un numero moltiplicato per se stesso zero volte dovrebbe, a lume di naso, dare zero.
O lasciare il numero tale e quale. Zero vuol dire “mai” o “niente” (o così la nostra
psicologia elementare ci suggerisce), quindi una moltiplicazione “mai fatta”,
inesistente, non può dare che zero. O lasciare il numero com’era. “Conveniamo” l’uno
o l’altro e non pensiamoci più. Se lo facciamo davvero, però, l’ingranaggio delle
potenze ci si inceppa tra le mani. Non siamo liberi di prendere questa decisione, né
liberi di non decidere, cioè di evitare una qualsiasi definizione per la potenza.
Dobbiamo dare un senso a questa operazione apparentemente così assurda! E c’è un
senso che si impone con forza irresistibile: dobbiamo, non “convenire”, ma concludere
ineluttabilmente che qualsiasi numero elevato allo zero dà uno. Deve dare uno. Perché?
Innanzitutto perché la nostra convenzione iniziale ci impone (girando la manovella) di
sommare gli esponenti quando si aggiungono ulteriori moltiplicazioni di un numero
per se stesso. Due per due per due è due alla terza.
2 x 2 x 2 = 23
1
2
3
Continuiamo: moltiplichiamo due per se stesso un’altra volta.
2 x 2 x 2 x 2 = 24
1
2
3
4
Si ha ora due alla quarta (basta contare, e rispettare la convenzione). Consideriamo ora
i due fatti arcinoti seguenti:
1) Aggiungere a una somma lo zero non cambia la somma. Cioè:
4
è lo stesso, proprio lo stesso che
4+0
2) d’altro canto, moltiplicare un prodotto per uno non cambia il prodotto. Cioè:
2x2x2x2
è lo stesso, proprio lo stesso che
2x2x2x2x1
Lascio al lettore il piccolo rovello di completare questo ragionamento e di sincerarsi
che, da questi due fatti presi insieme, e dalla “convenzione” già adottata per le potenze,
La voglia di studiare 51
ne segue, ne deve seguire, che due “alla zero” fa uno. Dato che il ragionamento può
essere ripetuto identicamente per qualunque base, cioè per qualunque numero, se ne
conclude, se ne deve concludere, che un numero qualunque elevato a zero dà uno.
Basta pensarci un momento. La nostra convenzione di partenza, in modo in cui
abbiamo scritto il simbolo della potenza, “l’indifferenza” già assegnata al moltiplicare
per uno, ci obbligano a questo passo. Elevare “alla zero” significa, deve significare,
ottenere il numero uno, qualunque sia la base.
Se ora questo ci pare intuitivo, significa che abbiamo liberato la nostra intuizione dai
ceppi della psicologia primaria. Significa che non abbiamo più paura dell’acqua.
Un ultimo giro
Continuiamo a girare la manovella. Se la base è essa stessa una potenza, allora la
“conta” ci dice che gli esponenti si moltiplicano fra loro. Due alla seconda, a sua volta,
come un tutto, elevato alla terza, dà due alla sesta (basta contare il numero totale dei
due e applicare la convenzione).
(2 x 2) x (2 x 2) x (2 x 2) = 26
1
2
3
4
5
6
Ma due alla seconda è anche, come ognuno sa, il numero quattro. Possiamo, dunque
riscrivere il conticino appena visto nel seguente modo:
4 x 4 x 4 = 43
1
2
3
E’ come dire “il nonno del nonno”, invece di dire “il papà del papà del papà del papà”.
Due alla seta e quattro alla terza sono la stessa cosa. Ma due è la radice quadrata di
quattro. Continuare a girare la manovella, please. Dunque, quattro alla terza è la stessa
cosa che la radice quadrata di quattro alla sesta. Ho solo ripetuto quanto avevamo
appena visto, ma in una lingua più ricca, una lingua matematica nella quale esiste
anche il concetto di radice quadrata. Il che ci porta, inevitabilmente, a dire che
l’esponente “un mezzo” è lo stesso che la radice quadrata. Ma guarda! In generale,
dunque, elevare un numero all’esponente “un qualcosa” (esponente frazionario)
significa ottenere la radice “qualcosina” della base. La logica del simbolo ci ha giocato
un altro scherzo, ci ha costretto a dare un senso (quello di radice) alle potenze
frazionarie.
Ancora un mezzo giro di manovella e poi ci fermeremo a contemplare il senso delle
stranezze che stanno venendo fuori. Un esponente frazionario qualsiasi (un settimo, sei
quindicesimi, trentatré trentesimi, eccetera) rappresenta la seguente operazione:
innalzare a qualcosa non la semplice base, ma una sua radice. Ecco, infine, il
significato che dobbiamo dare a questo strampalato concetto: quello di moltiplicare un
numero per se stesso un settimo di volta, sei quindicesimi di volta, trentatré trentesimi
di volta.
52 La voglia di studiare
Così fan tutti
Dobbiamo uscire dalle intuizioni spontanee, elementari, soffocanti, della nostra
psicologia primaria. L’espressione che ho appena scritto (moltiplicare un numero per
se stesso un settimo di volta, sei quindicesimi di volta, trentatré trentesimi di volta)
resta senza senso. Bisogna, infatti, cambiare lingua, darle un senso diverso in una
lingua più matura. Bisogna cambiare spazio mentale, scalare un altro pianerottolo di
astrazione. Come una nutrice troppo possessiva e troppo protettiva, la nostra psicologia
spontanea dei numeri ci soffocava. Ce ne dobbiamo affrancare, dobbiamo conquistare
il diritto di avere le chiavi di casa e rientrare a qualunque ora ci piaccia. Dobbiamo
frequentare numeri “adulti” e relazioni “adulte” tra i numeri. L’intuizione stessa deve,
piano piano, crescere, farsi maggiorenne.
Se continuassimo, vedremmo che questo esponente si “permette” di diventare perfino
negativo, frazionario, decimale e (perché no?) negativo e frazionario , negativo e
decimale. Possiamo attenderci che presto chieda anche lui le chiavi di casa, che voglia
uscire la sera, andare in discoteca e diventare perfino … un numero irrazionale (quelli
la cui espressione scritta non “finisce mai”, per esempio pi greco). Ultimo giro di
manovella (prometto): dobbiamo prepararci a capre cosa significa due “alla pi greco”.
Qui non ci assiste nemmeno il concetto di radice “ennesima”, perché i numeri
irrazionali (come il nome suggerisce) non si lasciano esprimere né con una frazione, né
con un numero decimale, per quanto lungo e complicato. La manovella da girare, a
questo punto, si chiamerebbe “logaritmo”, che è l’operazione inversa della potenza. Si
tratta di una mossa quanto mai naturale, ottenuta invertendo il simbolo di potenza, e
dando poi un significato intuitivo (intuitivo a un livello d’intuizione matematica, non
psicologica, cioè adulta, non infantile) a questa operazione. Questo giro di manovella
lo suggerisco solo, ma non lo effettuo. Ci preme solo il concetto, il principio, non i
dettagli. Non parlerò nemmeno di cosa esce dall’ingranaggio quando si fanno le radici
pari (per esempio pari) di numeri negativi.
E’ tempo che smetta, perché non intendo scrivere un trattato di teoria dei numeri. Ce
ne sono tanti e ottimi! Lo scopo era solo quello di incuriosire il lettore, specialmente
quello che odia la matematica. Volevo solo mettergli pulci nell’orecchio, renderlo
scettico sui motivi del suo odio.
Qualcos’altro che “gira”
Quello che, a questo punto, ci preme ritenere è un fenomeno molto, molto generale
(non la storiellina spicciola delle potenze, che era solo un esempio). Siamo arrivati
molto lontano, partendo dalla nostra iniziale, banale convenzione. Tanto che, forse, ci
gira un po’ la testa. Questa era l’idea: far capire in modo semplice la strana ebbrezza
che la matematica produce. Sì, perfino la matematica di scuola! Un certo giramento di
testa che va saputo superare, per conquistare gradi di intuizione superiori a quelli
normali, spontanei. Se siamo arrivati fin qui e se ci è nata la curiosità di sapere che
cosa diavolo possa significare una potenza con esponente irrazionale, o la radice
quadrata di un numero negativo, ho più che raggiunto il mio scopo. Queste cose stanno
scritte sui tanto odiati testi di matematica. Se anche vi viene un minimo impulso di
La voglia di studiare 53
volerne sapere di più, e se anche questo impulso resterà poi senza seguito, abbiamo già
firmato, senza saperlo, un armistizio con la matematica, e un cessate-il-fuoco con il
professore di matematica. Non spero sia la fine della guerra, calda o fredda, e non
spero certo sia l’inizio di una vera pace, ma è già un bel risultato.
Ripensiamo a come questo risultato è stato raggiunto: è come se quel numerino in
alto, l’esponente, si fosse animato di vita propria. Introdotto come una semplice,
innocente, “conta” di quante volte si doveva effettuare un prodotto ripetitivo, si è poi
creduto libero di diventare quello che voleva. Messo in pista come numero naturale
intero e positivo, ci costringe a fargli esplorare l’intero universo dei numeri (interi
negativi, frazioni, decimali, eccetera). E’ come ci avesse detto: “Guarda che, se vuoi
farmi fare questo, poi devi farmi fare anche quest’altro e quest’altro e quest’altro
ancora”. Non ci è stato possibile impedirglielo, perché aveva ragione lui.
Anche se la nostra intuizione di partenza non riusciva a seguire quello che faceva, o
addirittura ci sembrava impossibile potesse farlo, o ci sembrava assurdo, o senza senso,
alla fine tutto torna. La nostra intuizione si è allargata, e così pure il campo sul quale
spazia. Se avessimo continuato imperterriti, ne sarebbero usciti tipi di numeri nuovi,
nuove entità matematiche alle quali non avremmo potuto negare l’esistenza.
Conclusione: chi comanda? Noi, o i numeri?
Questo mio modo di parlare dei numeri e delle entità matematiche può sembrare
puerile, o giornalistico. Non siamo forse noi a crearli, i numeri? Come può essere che
ci prendano la mano? Che ci dettino la loro volontà? Ho parlato di manovelle da girare
e di meccanismi cui ci dobbiamo abbandonare. Quasi la matematica fosse un congegno
cui noi apparteniamo, non una creazione che ci appartiene. In gergo filosofico, questo
atteggiamento si chiama “platonismo” e viene visto con grande fastidio. Io non sono
platonista, ma non voglio occultare questa sensazione ben reale, testimoniata dai più
grandi matematici di ogni tempo: l’indipendenza dell’universo matematico, e delle
verità matematiche, dal nostro volere. E’ “come se” le entità matematiche esistessero
in un loro mondo speciale, astratto, e “come se” ci dettassero le loro leggi e le loro
verità, restando in un loro cielo inalterabile. Spiegare questo “come se” richiederebbe
uno spazio che non voglio qui occupare e un’attenzione che non posso qui
presupporre. (Ci torneremo con il racconto “David, la scimmia e l’infinito” nella Parte
III). Il mio proponimento qui era quello di facilitare una tregua tra la matematica
insegnata a scuola e chi la odia. Intendevo motivare un po’ gli studenti ad accostarsi
alla matematica come ad un rompicapo, invece di subirla come un supplizio. Si trattava
di indurli a girare quella famosa manovella, con un minimo di curiosità per cosa ne
esce. Sviluppare curiosità per i fatti e i metodi della matematica è già un ottimo
presupposto per una tregua. La curiosità è ancora molto lontana dall’amore, ma
difficilmente si odia chi ci incuriosisce.
54 La voglia di studiare
Così fan tutti
Il gusto per la fisica
Il fascino che la fisica esercita sul comune cittadino è soprattutto legato alle
dimensioni “esterne” degli oggetti fisici, alle leggendarie figure dei grandi protagonisti
e alle possenti macchine oggi richieste per far progredire la ricerca. I quotidiani e i
rotocalchi ci presentano giganteschi acceleratori di particelle che abbracciano aree pari
a quelle occupate dalle grandi città, con premi Nobel circondati da congegni misteriosi
e da schermi luminosi. Si leggono espressioni come “la struttura della materia”,
“l’origine del cosmo”, “l’esplorazione dell’infinitamente piccolo”, apprendiamo gli
affascinanti nomi delle entità via via scoperte dai fisici: protone, neutrone, neutrino,
quark, mesone, bosone intermedio e così via. Va anche detto che, a metà strada tra
l’orribile e l’affascinante, la storia della bomba atomica ha giocato un suo ruolo,
magari raddolcito dalle prospettive delle fusioni calde e fredde e dalla bonaria
fisionomia scapigliata di un Albert Einstein. Tutto questo va benissimo, perché
l’avventura della fisica moderna è veramente, genuinamente, affascinante. Il guaio è
che, quando poi prendiamo il nostro testo di fisica, ci troviamo solo carrucole,
pentolini, bobine, condensatori. Tra la magica immagine popolare della fisica e la
formazione del gusto per la fisica attraverso il suo studio a scuola esiste un abisso. E le
braccia ci cadono, e ci rendiamo conto che della fisica “fatta a scuola” non ce ne
importa un bel niente. Per scongiurare la svogliatezza generata da tanta aridità, spesso
si dice (giustamente) che prima di affrontare i grandi enigmi dell’universo fisico,
bisogna imparare le leggi che governano i pendoli, i calorimetri, i circuiti elettrici,
insomma, tante leggi basilari, un po’ noiose, ma indispensabili. Non si può mettere una
bella cravatta se prima non si indossa la camicia, non si può mettere il tetto se prima
non si scavano le fondamenta. Sono quelle giuste, assennate, un po’ sbadigliose cose
che ci dicono sempre i professori.
Poi un giorno la scuola finisce, e chi si indirizza a facoltà umanistiche, o al diritto, o
alla medicina, resterà per sempre deluso. Continuerà a sbalordirsi delle nuove scoperte
dei fisici di Stanford, Ginevra, Brookhaven o Frascati, ma non saprà mai come
collegare i pendoli e i rocchetti studiati a scuola con quelle remote mirabilia. I due
tronconi restano distanti anni luce. Niente pare accomunare quelle scoperte con le leggi
di Ohm, i gas perfetti e la formuletta dell’energia cinetica. Questi sono lontani ricordi
di cose necessarie e tediose, che si dovevano fare e si sono fatte, un po’ come la
dichiarazione delle tasse.
La frustrazione è reale e mi pare non venga abbastanza sottolineata. A scuola, non si
sospetta nemmeno che quella fisica potrebbe essere attraversata da una scintilla di
eccitazione intellettuale, che potrebbe essere “riscattata” anche da un qualche gusto
estetico. Come ho sentito spesso, e giustamente, lamentare da Giuliano Toraldo di
Francia, si pensa comunemente che la fisica “non faccia cultura”. Lui ha speso una vita
a dimostrare il contrario, sia a lezione che nei suoi libri. Le righe che seguono sono
anche un modestissimo tributo a tante cose che mi ha insegnato.
Mi proverò a dimostrare, infatti, con un esempio semplicissimo, che anche la fisica
dei libri di testo irradia i suoi bagliori estetici, e può ammantarsi di genuino fascino
La voglia di studiare 55
intellettuale. Volendo, si riesce a trovarvi in nuce proprio la vertigine delle scalate
verso l’astrazione che vengono poi prolungate e perfezionate nella fisica di punta.
Una scalata in bicicletta
Partiamo da un congegno a tutti noto e da molti ragazzi grandemente ambito: il cambio
della bicicletta. Tutti sappiamo che questo congegno ci consente di superare strade in
salita che altrimenti, senza il cambio, ci imporrebbero di scendere e spingere la
bicicletta. Quando la bicicletta lo possiede e sappiamo come servircene, lo sforzo della
pedalata diminuisce come per magia. All’aumentare dello sforzo, scaliamo una
moltiplica in basso, o scaliamo un ingranaggio della corona in alto, e procediamo senza
problema. E così via, fintantoché ci sono moltipliche e ingranaggi da scalare.
Parlavo di magia, perché il cambio non è certo un motore, non fornisce lavoro.
L’unico motore sono sempre e solo le nostre gambe. Come mai, allora, un momento
prima quasi non ce la si faceva e ora pedaliamo via spediti? Quesiti di fisica
elementare, come questo, talvolta ricevono soluzioni interessanti, anzi tanto
interessanti che poi guidano alla soluzione di quesiti fisici ben più difficili ed astratti.
Qui, l’osservazione banale è che, dopo aver scalato la marcia, si pedala più in fretta. A
parità di velocità di avanzamento lungo la nostra salita, il numero dei giri del pedale
necessari per coprire una stessa distanza aumenta. Si pedala con minor sforzo
muscolare, ma si pedala di più. Quanto di più? Un piccolo ragionamento ci suggerisce
che quello che guadagniamo in sforzo muscolare ha eccellenti probabilità di essere
uguale (o proporzionale, dipende dalle unità di misura) a quello che perdiamo in
velocità della pedalata, o in velocità di avanzamento della bicicletta (è facile vedere
che queste grandezze sono tutte rigorosamente collegate fra loro). Se questo bilancio di
perdite e di guadagni non fosse esattamente rispettato, allora interverrebbe davvero la
magia. Non si tratterebbe più di un cambio di velocità di bicicletta, ma di un vero e
proprio motorino. Siccome il motorino non c’è, ma si hanno solo dei passivi
ingranaggi, la sola forza delle nostre gambe, il bilancio deve essere rispettato nei
minimi dettagli. L’intuizione prepotente (e, in questo caso, corretta) è che ci deve
essere una compensazione esatta, una conservazione rigorosa. Ma cosa, esattamente, si
conserva? Non lo sforzo muscolare, che è correlato con la forza fisica esercitata sul
pedale. Infatti, il cambio esiste appunto per ridurlo. Non la velocità della pedalata,
perché scalando di marcia questa aumenta. Né, per lo stesso motivo, il numero totale di
pedalate che possono portarci in cima alla salita. Quello che resta costante, la moneta
nella quale bisogna calcolare il bilancio fisico, è una grandezza più astratta, intendo
dire più astratta delle pedalate, della pendenza della salita, dello sforzo sul pedale e del
numero di denti della corona. E’ strettamente connessa a tutto questo, ma non si
identifica con nessuna di queste grandezze, non si esaurisce in nessuna di queste presa
da sola. Questa moneta più astratta non è fatta di “cose”, di oggetti materiali, ma è una
combinazione più semplice che ci dà un qualcosa che resta davvero costante. Abbiamo
visto che lo sforzo diminuisce quando il ritmo della pedalata aumenta, grazie alla
scalata di marcia, e abbiamo supposto che ci sia una mutua compensazione. Ebbene, la
56 La voglia di studiare
Così fan tutti
soluzione più semplice da tentare è una grandezza che sia il prodotto di queste due. Il
semplice, banale prodotto di due fattori è un’operazione matematica tale che crescendo
un fattore esattamente quanto diminuisce l’altro, il risultato non cambia. Una buona
strategia, non solo in fisica, ma nelle scienze in genere, è quella di tentare prima di
ogni altra la soluzione astratta più semplice. Il vero portento è che spessissimo questa
strategia ha successo.
Infatti, se moltiplichiamo direttamente, brutalmente, lo sforzo sul pedale per il
numero di pedalate, già cominciamo a vedersi profilare un buon risultato: otteniamo
proprio una grandezza che resta costante. Un primo, rudimentale ragionamento di
fisica ha già avuto successo. Si tratta ora di perfezionarlo.
La caccia agli invarianti
Se cambio bicicletta (ne prendo una con le ruote più grandi, o una con ingranaggi
diversi) questo prodotto resta costante anche per la nuova bicicletta, per la stessa salita,
ma sarà diverso da quello che avevo prima, con l’altra bicicletta. E se cambio
percorso? Se salgo sullo stesso colle per due strade diverse, poniamo una direttissima
molto ripida, e una strada dei colli serpeggiante in leggera pendenza? L’ingegno, e
talvolta il genio, dei fisici sta proprio nel riuscire a individuare ciò che in un problema
è essenziale, profondo, invariante, e cosa è, invece, transitorio, contingente, mutevole.
La formula del successo è spesso la seguente: combinare il massimo di generalità dei
fenomeni con il massimo di semplicità nella spiegazione (o legge). Per generalizzare il
fenomeno, consideriamo un veicolo a motore, dotato di cambio, sulla stessa salita di
prima. Vediamo che il problema ritrasforma pur rimanendo molto simile al problema
iniziale. Noteremo che, come per la bicicletta, anche per il veicolo a motore il numero
di giri del motore per unità di tempo aumenta quando si scala di marcia (il ronzio del
motore si fa più acuto). Si noterà anche che, alla fine, avremo consumato più benzina.
Aumentando ancora il livello di generalità, consideriamo un’altra variante del
problema: su deve sollevare un peso di cinquanta chili, ma ci mancano le forze. Non
riusciamo a sviluppare uno sforzo muscolare che superi il peso di quei cinquanta chili.
Intervengono le infami carrucole, supplizio dello studente di fisica. Una corda che
passa per una singola carrucola non consente ancora di sollevare quel peso. Se si
prende, invece, una corda molto più lunga e si ha un sistema di carrucole multiple con
un va e vieni della corda in alto e in basso (l’altrettanto infame “taglia”) si riesce,
appunto, a “tagliare” lo sforzo, e quindi a sollevare il peso di cinquanta chili con uno
sforzo, poniamo, di solo dieci chili. Magia? No, perché osserveremo che questo sforzo
di dieci chili deve essere applicato per una lunghezza di corda che è (guarda caso!)
cinque volte superiore all’altezza alla quale si è issato il peso. Il prodotto tra la forza
applicata e la lunghezza della fune recuperata è costante. Una forza minore, ma
applicata per una lunghezza di fune maggiore, consente di sollevare il peso.
Qui la tipica lampadina mentale comincia ad accendersi. Mettiamo, infatti, insieme
tutti questi casi: la bicicletta, il motore e la taglia. Generalizziamo, astraiamo e
cerchiamo un bilancio che quadri sempre, in tutti questi casi, e in innumerevoli altri
La voglia di studiare 57
casi di questo genere. La differenza di quota tra la posizione iniziale e la posizione
finale ci appare come un dato solido e significativo. Solido e significativo ci appare
anche il prodotto tra lo sforzo esercitato e la distanza lungo la quale lo si è esercitato,
cioè lo “sviluppo” dello sforzo. In buona approssimazione (cioè trascurando gli attriti),
il prodotto tra forza e sviluppo resta costante per la bicicletta, per il motore e per la
taglia, e non dipende dal tipo di camino seguito (direttissima oppure panoramica, peso
sollevato direttamente, o grazie alla taglia). Il prodotto tra la forza esercitata e il
cammino percorso (sforzo per pedalate totali, o forza per tratto di corda totale) ci
appare, quindi, come una grandezza fisica degna di interesse. Questa grandezza si
chiama lavoro fisico. Si vede subito che un certo compito (scalare un certo passo di
montagna, sollevare un certo peso a una certa altezza) corrisponde a un certo lavoro
fisico. Compiti diversi corrispondono a quantità diverse di lavoro fisico. Vi
corrispondono in modo intrinseco, dal punto di vista della fisica, astraendo da quanto
“ penoso” o stancante un certo lavoro fisico possa essere. La quantità di lavoro fisico è
indipendente da queste considerazioni.
Quanto lavoro fisico ciascuno di noi, o un motore di un certo tipo, può svolgere al
massimo per unità di tempo costituisce un’altra interessante grandezza fisica, chiamata
potenza. Questa è, invece, intrinseca a un certo sistema fisico, non a un certo compito.
Un motore progettato e realizzato in un certo modo, una persona di una certa età e con
una certa corporatura, possiedono una certa potenza. Se vogliono fare un certo lavoro
in senso fisico, lo potranno fare solo entro un certo lasso di tempo minimo, o con una
certa velocità di esecuzione massima. La potenza costituisce una sorta di limitazione
intrinseca del sistema. In fisica, si arriva spesso a stabilire con grande precisione quali
sono i limiti intrinseci di qualsiasi sistema-tipo (un motore a scoppio quale che sia, un
motore a reazione quale che sia, un motore elettrico quale che sia, eccetera). Il
messaggio dovrebbe essere già chiaro. La fisica è caratterizzata da questa progressiva
scalata verso enti sempre più astratti, ma sempre più affidabili. Intendo dire, più
affidabili proprio perché più astratti, quindi non legati alle circostanze del momento e
alle singolarità di un sistema particolare. Ci si avvicina, tanto per usare dei paragoni
grossi, alle strutture fisse fondamentali della natura. Ci si avvicina a una gabbia
robustissima di relazioni obbligate tra le grandezze, i processi, gli eventi, le forze e i
corpi che costituiscono l’universo. Questo già può suggerire un’idea del tipo di
vertigine intellettuale generato dalla fisica. (Ne vedremo un tipico esempio nel
racconto “Il dono dell’ubiquità” nella Parte III). Può anche cominciare perlomeno a
mostrare perché questi risultati facciano cultura, a pieno titolo. Infatti, la libertà
preziosissima e inviolabile delle nostre azioni, dei nostri progetti, delle nostre
realizzazioni sociali e tecnologiche, dovrà sempre e comunque restare all’interno dei
confini di questa gabbia. Progettare delle realizzazioni umane quali che siano tali da
portarci, magari senza che ce rendiamo conto, oltre i confini delle leggi fisiche, oltre i
confini della gabbia, significa solo ricadere nella magia. L’illusione di poter generare il
moto perpetuo è un esempio noto. I confini dell’universo non sono solo lungo le
estreme galassie, a milioni di anni luce, ma passano anche entro i nostri sistemi di uso
quotidiano. Questi confini della fisica sono i confini del possibile, i confini
onnipresenti, concreti e invalicabili del mondo reale. Nessuno li conosce ancora tutti.
La fisica continua a progredire, e a scoprirne di nuovi, ma questo non significa che
58 La voglia di studiare
Così fan tutti
tutto è ancora possibile. Spesso il progresso della fisica (e della conoscenza in genere)
chiude definitivamente delle porte che sembravano ancora aperte. Se certi confini si
allontanano o sfumano in lontananza, altri si avvicinano di colpo e si scoprono essere
definitivamente impenetrabili. Chi ha seguito le recenti vicissitudini e le disillusioni
della cosiddetta “fusione fredda” può ben riconoscere tutta l’attualità e la drammaticità
di questi confini intrinseci, sanciti dalle leggi fisiche. Ci piaccia o non ci piaccia, oltre i
confini della fisica ci può essere l’immaginabile, il concepibile, ma non il reale. E
nemmeno ciò che potrebbe essere reale, se solo lo si lasciasse materializzare. Pur
grandemente astratti, questi confini sono assai concreti.
La formazione del gusto per la fisica consiste proprio in questa intima e affascinante
compenetrazione del reale più “reale” con l’astratto più “astratto”. La scalata verso
l’astratto (che ritroviamo anche in matematica e il filosofia) in fisica parte e termina
sempre con un’immersione nel concreto. Si deve pur sempre ritornare al nostro mondo
reale. Lo si può ritrovare, magari, ricco di nuove interpretazioni e di nuovi significati,
ricco di nuove possibilità (e di nuove im-possibilità), ma lo si deve ritrovare, non lo si
può “perdere” per strada. Gli invarianti, oggetto centralissimo della fisica, sono ciò che
non cambia quando tutto cambia. E’ stato affascinante scoprire, grazie alla fisica, che
gli invarianti sono tanto più astratti quanto più sono profondi. Einstein diceva che
avrebbe voluto ribattezzare la sua teoria della relatività come “teoria dell’invarianza”.
Infatti, l’essenza dei suoi trionfi consiste proprio nell’aver esattamente identificato ciò
che non cambia, malgrado la relatività dei sistemi di osservazione e di misura. Il
messaggio culturale più profondo che ci viene trasmesso da ogni trionfo della fisica è
sempre la scoperta di un qualche invariante. Questo connette le scoperte mirabolanti di
cui parlavo all’inizio e gli esempi riportati nei nostri libri di testo. L’esempio del
cambio della bicicletta intendeva suggerire, appunto, l’idea basilare di questa eterna
ricerca di invarianti. Era già un piccolo inizio di questa grande scalata verso la
necessità naturale, verso la gabbia di invarianti che imbriglia dall’interno tutto
l’universo.
Il gusto per le scienze
A Gabriele d’Annunzio fu chiesto una volta se sapeva il tedesco. Rispose di no, ma
aggiunse che “se lo immaginava”.
Un granduca russo, alla fine di un recital a corte di un valentissimo giovane pianista e
compositore, gli chiese di suonargli il “Chiaro di luna” di Caikovskij. Gli astanti
musicalmente smaliziati rimasero di sasso. Sua Altezza aveva grossolanamente
equivocato sul nome del compositore. Infatti, di chiari di luna noti e amati ce ne sono
solo due, quello di Beethoven e quello di Debussy. Nessuno, ovviamente, si azzardò a
correggere il granduca. Il pianista, imperterrito, tra la stupefazione generale, suonò un
piacevole brano che nessuno seppe riconoscere. Finiti gli applausi, il granduca
mormorò deluso: “Bello, ma non era questo che volevo sentire”. Il pianista si inchinò:
La voglia di studiare 59
“Altezza, penso che, se Caikovskij avesse scritto un ”Chiaro di luna”, lo avrebbe
scritto più o meno così”.
Per parlare del gusto delle scienze vorrei proprio far leva su questa facoltà di
immaginativa ricostruzione. Ci può consentire, infatti, di classificare, alla buona, tra di
noi, le scienze naturali. A un polo troviamo quelle che, come la chimica, sono rette da
pochi principi basilari, e da una ferrea logica interna. Scienze nelle quali si tratta
essenzialmente di applicare questi principi e questa logica a una sequela di fatti
concreti. Sono scienze non troppo lontane dalla matematica, i cui fatti si possono in
larga misura, appunto, immaginare, cioè ricostruire in proprio col ragionamento. Di
solito, per caratterizzarle si usa il termine di scienze “deduttive”. La regina di queste è,
naturalmente, la fisica. Come vedremo nella Parte III (nel racconto intitolato “La
doppia crescita”) la biologia si è progressivamente conquistata un suo solido posto tra
queste. Oggi si studiano, anche nelle scuole secondarie, testi di biologia che partono
dai meccanismi dell’evoluzione, dalla struttura dei geni e dagli equilibri genetici,
deducendo da questi una sequela di interessanti applicazioni specifiche.
Al polo opposto troviamo, invece, le scienze che, come la botanica e l’anatomia,
collezionano fatti e li raggruppano in modo sistematico. I fatti di queste scienze non si
possono “immaginare” in alcun modo. Qui il ragionamento non può supplire alla
memoria. Di solito si caratterizzano con il termine di scienze “tassonomiche” o
“sistematiche”.
Le strategie di studio richieste da questi due prototipi di scienze sono piuttosto
diverse. Per la chimica e per la biologia moderna vale un po’ quanto diremo a
proposito dei teoremi (in “il compito di matematica” nella Parte II), cioè che vanno da
noi ricostruite in proprio. A poco serve “leggere” le reazioni acido-base, o la sintesi
delle proteine, così come si legge un normale testo di narrativa. I singoli passaggi, per
esempio il conto dei bilanci di cariche e di valenze, vanno da noi ricostruiti uno a uno,
su un foglio, prima sotto la guida del libro, poi in modo autonomo. Di fronte a una
reazione nuova, tra due sostanza che non abbiamo mai visto prima, il bello è proprio
quello di immaginarsi cosa deve venirne fuori, immaginando anche le reazioni
intermedie. Di fronte a una mutazione mai incontrata in precedenza, e alla
configurazione dei geni limitrofi sui cromosomi, il bello è immaginarsi come questa
mutazione si assortirà nelle generazioni successive. Queste sono cose che dobbiamo,
appunto, arrivare progressivamente a immaginarci, proprio come quel pianista, e come
d’Annunzio. Lo forzo di memoria si alleggerisce, a mano a mano che questi risultati
riusciamo a immaginarceli correttamente. Entriamo piano piano nella logica di quella
scienza.
Le scienze più descrittive, invece, fanno maggiormente leva sulla nostra curiosità
diretta, la curiosità di sapere come è fatto il mondo circostante. Non potendoci
“immaginare” le loro osservazioni e le loro sistematizzazioni, dobbiamo studiarcele
direttamente e poi ritenere quello che si è studiato con la memoria. Di questo
tratteremo nella Parte IV (nel “Sapere che, ovvero l’arte della memoria”). Quello che
va sottolineato qui è che la nostra spontanea curiosità per i fatti del mondo deve essere
filtrata e riorganizzata, per poter trovare pieno appagamento nello studio delle scienze.
L’ora di scienze è anche un’ora di traduzione delle nostre spontanee curiosità in
rompicapi assai più raffinati. I raggruppamenti naturali di oggetti e di fenomeni istituiti
60 La voglia di studiare
Così fan tutti
da queste scienze già non coincidono più con i nostri raggruppamenti ordinari. Più
questi raggruppamenti scientifici sono il frutto di autentiche scoperte, e quindi non solo
unità arbitrarie di comodo, più vicini siamo a quelle che si potrebbero a buon titolo
chiamare le “giunture” e le “articolazioni” della natura stessa. La rete di relazioni
sistematiche che tiene insieme il mondo naturale ha ai suoi nodi queste unità molto
specifiche, non gli oggetti della vita ordinaria in quanto tali. Le leggi scientifiche non
“legiferano” direttamente sui gatti, le sedie, i paralumi e le serrature. Gli oggetti tipici e
centralissimi delle scienze sono, invece, cilindri adiabatici, ioni bivalenti negativi,
cellule in metafase, falde freatiche e mantelli di silicio-magnesio. Di questi oggetti
assai più profondamente “naturali”, le scienze esplorano proprietà altrettanto
profondamente “naturali”, come i gradienti di temperatura, i potenziali di attivazione, i
coefficienti di dilatazione, le capacità di trasporto, le transizioni di fase. Le leggi
scientifiche esprimono delle connessioni causali fisse proprio tra queste proprietà.
Studiare le scienze senza aver prima riassestato le nostre curiosità su queste altre
“scale”, non avere ben chiara la natura di questi enti e di queste loro proprietà, sarebbe
come visitare una pinacoteca senza avere ben chiara la distinzione tra i dipinti, le
cornici e i muri. Possiamo raccogliere qua e là dei commenti e dei giudizi, ma non
sapremo a cosa si riferiscono, non sapremo su quali unità di attenzione sono basati.
Ogni scienza naturale ha lentamente perfezionato queste sue unità di raggruppamento,
le sue “specie naturali”, e di queste ha progressivamente isolato certe proprietà
particolarmente salienti. Il discorso di queste scienze fa riferimento costante a queste
entità e a queste proprietà. Ci parla del mondo, ma ce parla a un certo livello,
componendolo in un certo modo, facendo attenzione a certi fenomeni. La terminologia
delle diverse scienze, quei loro paroloni ostici e strani, hanno una precisa e vitale
funzione. Fanno cristallizzare sotto i nostri occhi (con l’aiuto delle illustrazioni), o
sotto l’occhio della mente, le unità fondamentali di cui quella scienza ci parla.
Insomma, ogni scienza naturale organizza un suo mondo, e di questo mondo occorre
farsi il prima possibile una mappa mentale ordinata e continua. Le scienze naturali non
si imparano per ripetizioni di liste e di formule, si imparano per visite guidate a questi
loro mondi. Immergersi nei loro quadri, saltandoci dentro con l’immaginazione, è
molto meglio che contemplarli a distanza.
Un insigne biologo mi confessò di identificarsi talmente con gli enzimi di cui cercava
di capire la struttura da trovarsi a imitare con il proprio corpo, muovendo gomiti, piedi
e ginocchia, le contorsioni di quelle molecole. Forse il suo era un eccesso, ma aiuta
moltissimo sapersi identificare con la fantasia, se non proprio con i muscoli, con il
proprio oggetto di studio. Scoprirsi via via un po’ molecole, un po’ neuroni, un po’
giacimenti, per vivere i loro destini, le loro movenze e le loro trasformazioni, è
infinitamente meglio che leggerne passivamente su una pagina scritta. Le frasi di
quella pagina, se non sono da noi tradotte mentalmente in immagini, ci restano
estranee e distanti. Saltandoci dentro e vivendoli in proprio, dall’interno, si impara a
orientarsi in questi mondi, si è personalmente “presentati”, con tanto di nome e
cognome, a una portentosa varietà di strutture, processi e relazioni. Anche le scienze
descrittive, quelle che non si possono “immaginare”, troveranno così la loro parte di
fantasia. La domanda all’esame, o all’interrogazione, non susciterà in noi il brutto
riflesso di sfogliare mentalmente il testo o gli appunti, per “rivedere” la relativa pagina,
La voglia di studiare 61
bensì quello di “collocarsi” con l’immaginazione in una cellula, in una soluzione
soprassatura, in un’era geologica, e poi “guardarsi attorno”, descrivendo quello che si
vede, anticipando quello che ci accadrà. Siccome questo è proprio il tipo di
immaginazione cui arrivano i massimi scienziati, ci deve pur essere una ragione. L’ora
di scienze deve essere una macchina del tempo e una macchina delle dimensioni, deve
indurre in noi qualche immaginaria “metamorfosi”.
Un noto genetista giapponese, in una conferenza tenuta a Parigi, al Collège de France,
cercava di impressionare il suo pubblico rendendo viva, palpabile, la quantità di batteri
che bisognerebbe coltivare per essere certi di trovare tra questi un rarissimo mutante.
Per una mutazione ordinaria basta una provetta. Il conferenziere scuoteva questa
immaginaria provetta di fronte al suo pubblico, tenendola verticale tra tre dita. Per due
mutazioni simultanee occorre una fiasca intera. Ora impugnava un’immaginaria fiasca,
agitandola. Poi passò a tre, quattro mutazioni indipendenti. Ogni volta bisognava
moltiplicare la massa di quegli immaginari batteri, nella loro immaginaria coltura, un
milione di volte. “Ebbene, signori, per esser certi di ottenere simultaneamente cinque
mutazioni indipendenti bisognerebbe coltivare una massa di batteri grande quanto …
quanto tutta la terra”. Il suo accento si fece ancora più legnoso: “As big … as big as the
Eartth”. Continuando nella sua irrefrenabile, realistica ascesa, spalancò le braccia a
questa massa immane di batteri, inarcò la schiena e … cadde platealmente all’indietro
dal palco della cattedra. Alcuni colleghi maligni sostengono ancora oggi che lo fece a
bella posta.
Il gusto per le lingue
Sapere le lingue straniere è innanzitutto e soprattutto una cosa che serve. Perfino chi
dubita fortemente sia utile studiare la matematica, la filosofia, la letteratura o la storia,
ammette senza riserve che è utile e importante sapere le lingue. Sarà forse per questo
che lo studio delle lingue straniere in genere, e in particolare dell’inglese, oggi la
lingua per eccellenza, occupa una posizione molto speciale nella scacchiera delle
materie e dei piani di studio. Molti giovani decidono di imparare le lingue invece di
studiare. Questa loro decisione è gravida di conseguenze, è rischiosissima, come dirò,
ma non è certo assurda. Infatti, le lingue si imparano in tanti modi, anche al di fuori del
sistema scolastico. Per esempio, andando a lavorare all’estero, passando lunghi periodi
presso famiglie, iscrivendosi a corsi di lingua “sul posto”. Spesso, però, anche chi si
iscrive a un liceo linguistico, o perfino a una facoltà di lingue e letterature straniere,
giudica – a torto – di fare una scelta, in qualche modo, anti-studio, o diversa dallo
studio. Questo giudizio, nei fatti, è del tutto ingiustificato, ma è rivelatore, e mi sembra
richieda un momento di riflessione.
Chi sceglie le lingue come un’alternativa allo studio è conscio che le lingue sono uno
strumento, non un fine; un canale, non un contenuto (a meno che non si decida di
diventare linguisti di professione, o studiosi di letterature straniere, ma in questo caso
occorre sapere ben altro, oltre alle lingue). Le lingue forniscono, infatti, un prezioso,
62 La voglia di studiare
Così fan tutti
talvolta indispensabile, canale per far “passare” altre cose. Occorre, però, avere dentro
qualcosa da far passare: un contenuto, una competenza, un mestiere, un corpo cui la
conoscenza delle lingue dia le ali per volare. Al limite, sapendo solo le lingue, ci si può
trovare a non aver niente da dire in tante lingue. I manager, i dirigenti, i fisici, i
biologi, i clinici, gli operatori economici, eccetera devono sapere le lingue, e in genere
le sanno, proprio per essere migliori manager, migliori fisici, migliori operatori
economici. Sapere le lingue e basta, anche se bene, limita moltissimo l’orizzonte
mentale e riduce le possibilità di lavoro a un livello piuttosto basso di collaborazione.
Se si spera di diventare qualcosa di più di una segretaria, o di un assistant buyer,
occorre fornirsi anche di una qualche competenza specifica. Occorre studiare le lingue
mentre si studia altro, non invece di studiare.
Farsi illusioni su questo punto è rischioso. Alcuni giovani vaneggiano di diventare
interpreti professionisti, saltare tra un aereo e una limousine, essere inquadrati in TV
quando arrivano in Italia Bush, Mitterando o Gorbaciov. O, appena più realisticamente,
di diventare interpreti congressuali e guadagnare cifre elevate, arrotondate da laute
diarie e rimborsi spese. Purtroppo, per la stragrande maggioranza dei giovani, questi
resteranno per sempre dei sogni. Riuscire a diventare buoni interpreti in simultanea
richiede un talento molto, molto speciale. Richiede anche una frequentazione di due (o
più) lingue fin dalla prima infanzia. E’ quasi impossibile diventare bravi interpreti
congressuali se non si parte già almeno bilingui. Cominciare a studiare una lingua a
quindici o sedici anni è troppo tardi per diventare interpreti professionali di successo.
Ne vedremo tra un momento le ragioni.
Resta, più modestamente, la prospettiva di diventare semplici traduttori di testi scritti,
magari tecnici. Anche qui, però, le disillusioni non tarderanno a farsi cocenti. Anche i
migliori traduttori spesso stentano a sopravvivere economicamente e, in genere,
svolgono a lato altre attività. Ciò che li rende preziosi sono sempre altre competenze
addizionali. Il problema dei traduttori improvvisati, senza alcuna specifica
competenza, sempre quello di non conoscere abbastanza bene l’italiano e di non avere
cultura. I testi che forniscono sono un disastro, illeggibili e con errori marchiani. I
traduttori improvvisati si trovano, infatti, a scrivere in una lingua che non
padroneggiano (appunto, l’italiano scritto) trattando di cose che non capiscono.
Una volta, nel corso di una visita ad un laboratorio di genetica a Parigi, venni
cortesemente invitato ad unirmi a una conversazione tra un genetista francese, che non
parlava inglese, e un insigne genetista giapponese, pure in visita, che non parlava
francese. Dovetti intervenire in una situazione che sfiorava il grottesco. Quei due
genetisti si erano trovati per anni in disaccordo, attraverso le loro rispettive
pubblicazioni, su alcuni punti fondamentali della teoria matematica dell’evoluzione.
Sulla lavagna avevano tracciato una sfilza di equazioni, unico linguaggio noto ad
entrambi. Il disaccordo era, naturalmente, sulle soluzioni, sulle interpretazioni e sui
valori da dare ai vari parametri di quelle equazioni. Tra di loro cercava disperatamente
di fare da interprete una graziosa signorina giapponese, appositamente inviata
dall’ambasciata. Perfettamente digiuna di quelle cose, la ragazza cercava di cavarsela
come meglio poteva, generando enormi perplessità con ogni suo intervento. Il rituale si
svolgeva, molto compitamente, nel seguente modo: discorsetto in francese, indicando
questa o quella parte di un’equazione. Attimo di pausa, poi discorsetto in giapponese
La voglia di studiare 63
della giovane interprete. Lungo attimo di pausa, con evidente perplessità dello
scienziato giapponese. Breve frase in giapponese dello scienziato: una richiesta di
precisazioni. Dalla graziosa bocca dell’interprete usciva, in ottimo francese, una
domanda senza alcun senso scientifico. Attimo di perplessità dello scienziato francese,
poi una nuova richiesta di chiarificazioni in francese, e così via. Dopo una ventina di
minuti di questo inconcludente cerimoniale, visto che mi trovavo in quell’istituto,
avevano pensato che una traduzione tra l’inglese e il francese di uno che non fosse del
tutto digiuno di quella materia poteva forse risultare utile. Dato che le interessanti
divergenze tra quei due genetisti mi avevano incuriosito per anni, facendo da traduttore
ne approfittai anche per farmi spiegare meglio, da ambedue, tante cose che mi
sfuggivano, in quel campo piuttosto esoterico e molto specializzato. La giapponesina
prese con grande garbo questo suo essere messa da parte e non mi parve dare segni di
voler poi commettere seppuku (quello che noi occidentali chiamiamo, impropriamente,
harakiri). La lezione che, una volta di più, trassi da questo aneddoto è che un italiano
che abbia una certa familiarità con la materia trattata e che traduca due lingue non sue
(oltretutto, l’inglese del genetista giapponese era lungi dalla perfezione) “fa” un
migliore interprete che non un “indigeno”, o un bilingue perfetto, che però non capisce
un’acca di quello che traduce.
Insomma, chi decide di imparare le lingue “invece di studiare” si troverà sempre in
posizione debole. Se riuscirà, sarà essenzialmente perché possiede altri talenti, i quali,
combinati con la conoscenza delle lingue, gli consentiranno di svolgere meglio un
certo specifico mestiere. Oggi come oggi, per fortuna, il numero di persone che
parlano un po’ di inglese o di francese è molto alto. E’ più una dote scontata che una
rarità premiata. Non basta per campare, non ci si può basare solo su questo per trovare
un lavoro. Imparare lingue più esotiche, con competenze linguistiche più specializzate,
può servire a trovare un primo lavoro, ma non dà molta garanzia per il futuro. I contatti
con quella nazione, in quel particolare settore, possono di colpo rarefarsi, o può
succedere che si siano nel frattempo formate più di quelle venti o trenta persone che il
mercato nazionale richiedeva (gli ordini di grandezza per le lingue esotiche sono
questi), e la propria competitività sparisce come per incanto. Inoltre, chi punta tutte le
proprie carte su una lingua esotica, deve anche prepararsi a vivere in quella lingua, cioè
una sorta di ghetto: frequenterà persone di quel certo Paese, leggerà periodici e libri in
quella particolare lingua. Insomma, si sceglie non solo una lingua, ma un intero modo
di vita. Occorre, perlomeno, pensarci bene prima.
Questo quadro può sembrare eccessivamente pessimista, ma non lo è. Raggiungere la
padronanza delle lingue quando non si è stati allevati fin da piccoli in un ambiente
poliglotta riesce bene ad alcuni e non riesce affatto ad altri. Come per la musica, per il
disegno e per l’alta matematica, c’è una componente individuale ineliminabile nella
nostra attitudine a imparare le lingue. Chiunque può arrivare a farsi capire, con un
certo sforzo e dopo anni di pratica e di studio. Ma fino a che non abbiamo toccato con
mano i nostri personali limiti, il che avviene solo dopo anni di studio di una data
lingua, non possiamo sapere se riusciamo mai veramente a parlarla quasi perfettamente
(il quasi andava sottolineato). E’ rischioso scommettere tutta una carriera, o tutte le
proprie valenze sul mercato del lavoro, presupponendo che si possa arrivarci. Questo
può non avvenire mai. Dopo un certo periodo, tutti ci “assestiamo” su un livello
64 La voglia di studiare
Così fan tutti
personale di conoscenza di una lingua straniera. Da quel livello è impossibile
muoversi. Gli Stati Uniti, per esempio, sono pieni di emigrati cha da decenni parlano
un inglese che si taglia con il coltello. Non miglioreranno mai. E magari non ha
importanza, perché alcuni di loro raggiungeranno comunque grandi successi nel loro
settore.
In fondo, anche l’utilità del parlare bene le lingue straniere va un po’ ridimensionata.
Bisogna ben distinguere qui il piacere di parlare bene una lingua, cioè il gusto per le
lingue, dall’utilità pratica. Parlare anche benissimo una lingua può avere scarsa utilità
pratica. Conosco fior di industriali, editori, ingegneri, matematici, biologi, economisti
che fanno la spola tra diversi Paesi e sono in contatto con colleghi ai quattro angoli del
mondo, pur parlando un pessimo inglese. Lo sanno quanto basta. Al resto supplisce la
loro intelligenza, la loro naturale comunicativa, la loro competenza nel settore. Molti di
loro sono popolarissimi. Sono, non solo professionalmente stimati, ma personalmente
amati, invitati e applauditi quando parlano in pubblico, senza problema, nel loro
inglese approssimativo e dal pesante accento. I fatti mostrano, quindi, che c’è anche
chi si può permettere il lusso di saper male le lingue, senza subirne alcuna
conseguenza. In fondo, è un lusso ancora più “esclusivo” poter sapere solo le lingue.
Un’illusione pericolosa: la lingua “di” un solo settore
L’ideale è imparare le lingue mentre si studia, o ci si perfeziona in un mestiere, anzi,
farlo il prima possibile, perché imparare le lingue viene naturale quando si è molto
giovani, ma è difficilissimo quando si è già adulti. Il canale linguistico deve svilupparsi
insieme a dei veri contenuti. Diffidiamo, però, anche dell’illusione opposta: sperare di
imparare rapidamente una lingua per un settore solo. Per esempio, l’inglese del settore
tessile, il francese del settore antiquario, il tedesco dell’elettronica e così via. Qui
esistono mille casi vissuti che dimostrano il carattere irrimediabilmente utopistico di
questo obiettivo. Si può imparare abbastanza rapidamente e selettivamente il lessico di
un settore, ma non la lingua di quel settore. La lingua straniera “di un settore”, al di
fuori del lessico specializzato, semplicemente non esiste. I risultati della linguistica
moderna e i cocenti scacchi subiti in questi anni dalla cosiddetta “intelligenza
artificiale”, in particolare da chi costruisce i cosiddetti “sistemi esperti”, dimostrano
che non esiste, al di là delle parole specializzate, un “angolo” della grammatica che
serve solo a parlare di certe cose e che è sufficiente per parlare di quelle cose. Non
esiste una sotto-sintassi del tedesco propria solo del settore elettronico. Una lingua è un
tutto. Per parlare di tessili in inglese, o di mobili in francese, occorre conoscere, magari
approssimativamente, tutto l’inglese tutto il francese. Il lessico specializzato o gli
idiomi (le “frasi fatte”) del settore serviranno moltissimo, ma non si può studiarli
invece della lingua.
Ce ne accorgiamo subito, anche restando nell’ambito dell’italiano. Trattando di
tessili, per esempio, vogliamo poter dire, ed essere capiti quando diciamo: “Nessuna
Vostra fornitura dell’anno in corso è all’altezza di qualche eccellente fornitura dello
La voglia di studiare 65
scorso anno”. Giudizio ben diverso da quest’altro: “quasi tutte le Vostre forniture
dell’anno passato superavano la media delle forniture di quest’anno”.
L’ingegnere elettronico, d’altro canto, può voler trasmettere al suo fornitore straniero
un messaggio come: “Pur non essendo del tutto deludenti, i Vostri componenti
dell’ultima serie restano al di sotto delle nostre migliori aspettative”. E ricevere una
risposta come: “La riduzione dei costi ha prodotto alcune standardizzazioni inevitabili,
ma possiamo esaminare la possibilità di fornirvi componenti di alta qualità a prezzi
aggiustati, per quantitativi al di sopra di un certo minimo”.
Queste frasi non hanno niente di specialistico, non contengono alcun termine
strettamente “tessile”, o “elettronico”, ma non saprei immaginare uno scambio
commerciale proficuo in cui uno degli interlocutori non ne capisse il senso. Occorrono
tutte le risorse espressive di una lingua per scambiarsi messaggi di questo tipo. Chi
sapesse solo la traduzione di termini strettamente tecnici, e poche espressioni basilari
(per esempio i verbi essere, avere, comprare e vendere) non potrebbe nemmeno
cominciare a stabilire una relazione di affari. E’ pura illusione quella di potersi limitare
a imparare solo “la lingua di” un certo settore. Nel mondo dell’intelligenza artificiale
questa illusione ha generato il cosiddetto frame problem, un problema rivelatosi
insolubile. Sarà interessante illustrarlo, perché costituisce un’eccellente giustificazione
del mio apparente pessimismo.
L’illusione del teatrino (o frame problem)
Pensiamo a un calcolatore super-specializzato che debba limitarsi a “capire” solo
situazioni e frasi attinenti alla gestione dei ristoranti. Si inserisce nella memoria una
sfilza di termini specifici (scaloppine al limone, fegato alla veneta, melone con il porto,
eccetera) e poi si inserisce nel programma uno schema o frame di connessioni (se un
cliente dice “fegato alla veneta”, allora il cameriere ne porterà una porzione; se
pronuncia la parola “conto”, allora la cassiera sommerà tutti i numeri corrispondenti
alla lista delle vivande consumate, eccetera eccetera). Se si inseriscono nel calcolatore
tantissime connessioni di questo tipo, esaurendo tutte le situazioni che possono
verificarsi in un ristorante, e si inseriscono in memoria tantissimi dati su piatti, prezzi,
ordine delle portate, eccetera sembrerebbe che il calcolatore, abbinato a una telecamera
e a dei microfoni, possa “capire” cosa avviene, momento per momento, nel ristorante,
e possa perfino “pilotare” la cucina, i camerieri, la cassiera e così via. Parrebbe, ma
non è così. Quel calcolatore è incapace di capire, per esempio, perché si paga il conto
dopo aver mangiato (e non prima), perché prima si ordina e poi si aspetta, e non
viceversa, perché si possono portare a casa gli avanzi del pasto, ma no i piatti, o i soldi
della cassa, perché il ristorante è chiuso di notte, perché nessun cliente ordina mai
centoventi portate. Verrebbe la tentazione di dire: aggiungiamo al calcolatore altre
connessioni, aumentiamo la memoria, e capirà anche queste cose. In fondo, qualsiasi
ragazzino queste cose le capisce benissimo. Forse, quello del nostro calcolatore o
“sistema esperto” è solo un problema di limitazioni di memoria, limitazioni di
“informazione” (cioè di connessioni nel programma) e limitazioni di potenza. In parte
66 La voglia di studiare
Così fan tutti
è così, ma il vero guaio è che questi limiti non si possono mai superare. Il frame
problem, cioè il problema di come circoscrivere a priori l’ambito di informazioni che il
calcolatore esperto deve immagazzinare, non ha soluzioni. Nella migliore delle ipotesi,
si possono limitare i danni (mai ridurli a zero) se si costruisce entro la macchina una
certa “conoscenza del mondo”. dico del mondo, non solo del “mondo” dei ristoranti.
Infatti, la risposta alle banalissime domande che abbiamo appena elencato non si trova
nella dinamica del ristorante stesso, ma in fatti biologici, sociali ed economici che
vanno ben oltre il teatrino (o frame) del ristorante in quanto tale.
Quelle domande, e mille altre possibili, servono a dimostrare che, per capire cosa
avviene in un teatrino limitato come un ristorante, ci basiamo su fatti, leggi e principi
del vasto teatro della vita. Occorre sapere quanto può mangiare un essere umano
durante un singolo pasto, sapere che non si mangia mentre si dorme, che non si paga
prima di aver consumato un pasto, che i soldi del cliente, una volta nella cassa, non
sono più del cliente. Tutte cose perfettamente banali, ma che il calcolatore non sa.
Il problema del frame è che non ci è modo di circoscrivere, nel mondo, gli altri
“teatri” (oltre al ristorante) dai quali queste informazioni, queste conoscenze, devono
essere estratte. La risposta è “qualsiasi altro teatro”. Tutti ci rendiamo conto che, a quel
calcolatore, non occorre sapere i nomi dei sette re di Roma, la data di nascita di Dante
e la formula chimica dell’acido solforico. Eppure ci è impossibile fare una lista, magari
lunghissima, ma finita, delle cose che quel calcolatore deve sapere, per poter gestire un
ristorante, o perfino semplicemente per capire e seguire passivamente quello che
avviene in un ristorante. Qualsiasi ragazzino attento e vispo batterà il più sofisticato
dei sistemi esperti.
Nemmeno nelle lingue ci sono i teatrini
Considerazioni molto simili a queste dimostrano anche che è impossibile “ritagliare”
in una lingua un teatrino (un frame) di poche regole grammaticali, tali da essere
sufficienti a farci capire solo cosa si dice in un certo ambito di discorso. Non solo i
settori della sintassi, ma nemmeno le funzioni basilari della comunicazione coincidono
con specifiche funzioni (o costruzioni grammaticali). Per esempio, la ”funzione” di
stabilire e gestire ”contratti” non corrisponde ad alcuna ”funzione” grammaticale
specifica. Parrebbe che formule del tipo ”Se tu mi dai questo, allora io ti do quello”
costituiscano la costruzione grammaticale fondamentale di un rapporto contrattuale,
ma a guardar meglio non è così. Esprimono rapporti ”contrattuali” anche espressioni
come le seguenti:
Si prega di passare alla cassa prima di ritirare la merce.
Indebite ingerenze produrranno l’annullamento del concorso.
L’ingresso è consentito solo a chi è munito di tessera.
Non si cambia la merce vedndua.
Questi semplicissimi esempi già mostrano che la funzione comunicativa dello
stabilire regole e contratti non corrisponde ad alcuna precisa categoria grammaticale.
La voglia di studiare 67
Tutte le risorse espressive della lingua possono essere mobilitate anche per una singola
”funzione” comunicativa. Come i linguisti ben sanno, questo vale non solo per i
contratti, ma anche per i dinieghi, le richieste, le ingiunzioni, le supposizioni e così via.
Come per capire il teatrino del ristorante occorrono in principio, e in pratica,
conoscenze su fatti e leggi di tutto l’universo, così, per parlare in una lingua straniera
del settore tessile o elettronico (o di qualsiasi altro settore), occorre in teoria, e in
pratica, conoscere principi e regole di tutta la grammatica di quella lingua. Lessico a
parte, l’insegnamento delle lingue non può mai essere veramente specializzato su un
solo settore, né coprire solo una certa funzione comunicativa. Chi promette questo tipo
di apprendimento rapido e settoriale è come se promettesse il moto perpetuo, o la
pietra filosofale.
Imparare una lingua significa impararne le particolarità fondamentali (ciò chr oggi in
linguistica si chiamano tecnicamente i ”parametri”) su tutta l’estensione di quella
lingua. Il che è diverso dall’impararla perfettamente, e diverso dall’impararne ogni
particolarità, ogni stramberia e ogni ”eccezione”.
Sull’acquisizione delle lingue straniere in loco, frequentando i parlanti di quella
lingua, c’è poco da dire. Come ha ben detto il grande linguista Noam Chomsky,
l’acquisizione di una lingua è cosa che ”ci succede”, non cosa che noi ”facciamo”.
Vediamo, piuttosto, cosa si può dire sullo studio di una lingua straniera a scuola, cioè
su quello che ”facciamo”, in classe, a casa, a tavolino, di fronte a una grammatica
stampata, con tanto di carta e matita.
Lo studio a tavolino di una lingua straniera
Nello studio di una lingua straniera a tavolino, è nostra principale alleata, ma anche
nostra principale nemica, la conoscenza della lingua materna. Ci è alleata, perché le
grammatiche che studiamo sfruttano la nostra profonda e raffinata conoscenza di tanti
fatti linguistici fondamentali che nemmeno ci rendiamo conto di sapere. Le mille
frustrazioni recentemente subite dagli scienziati nel costruire macchine capaci di
parlare e capire il linguaggio ci hanno fatto toccare con mano quanto profondo e
quanto complesso sia proprio ciò che sembra più ovvio. Per esempio, la differenza
fondamentale tra nomi, verbi, aggettivi e pronomi. Sembrano cose da nulla, eppure le
macchine, che queste cose basilari non le sanno, arrivano alle più strampalate
conclusioni. Per citare solo un esempio fra tanti, recentemente, a San Diego, in
California, una di queste macchine ha generato la seguente classificazione sintattica di
base: verbi, sostantivi e … cibo. Queste sono, infatti, le tipiche conclusioni alle quali
arrivano, dopo tanti sforzi, queste macchine, e alle quali probabilmente arriverebbe
anche un marziano che, possedendo un’intelligenza radicalmente diversa dalla nostra,
cercasse di capire come noi parliamo e ragioniamo.
A queste macchine, a questo immaginario marziano, le nostre grammatiche non
servirebbero a niente. Il marziano non potrebbe andare in una libreria, comprarsi una
grammatica del russo, o del tedesco, studiarsela qualche mese, o qualche anno, e poi
parlare, magari male, magari con un pesante accento marziano, il russo o il tedesco.
68 La voglia di studiare
Così fan tutti
Infatti, le grammatiche comprate in libreria non prendono nemmeno in considerazione
certi fraintendimenti assurdi e smaccati (ci mancherebbe altro!), quindi gli errori del
marziano, o del calcolatore, risulterebbero incorreggibili. In questo senso, le normali
grammatiche, preziose per apprendere una lingua straniera, danno per scontato proprio
ciò che è più interessante e più misterioso per il linguista di professione: fatti
elementari e centralissimi, comuni ad ogni lingua, che già sappiamo senza che nessuno
ce li abbia mai insegnati, conoscenze che ci vengono dal di dentro, gratuitamente e
senza sforzo.
Questa conoscenza tacita, implicita, naturale, è la nostra miglior alleata
nell’apprendimento di una lingua straniera. Cerchiamo ora di vedere perché è anche la
nostra peggiore nemica. Detto sbrigativamente, lo è perché ci viene fatto di trasferire
pari pari, in modo superficiale e piatto, alle altre lingue le forme grammaticali
superficiali della nostra lingua. Il gusto per le lingue consiste proprio nel non restare
prigionieri delle strutture della nostra lingua. In italiano usiamo costruzioni che, se
tradotte parola per parola, in altre lingue suonano mostruose. “Il mio libro” è
un’espressione italiana perfetta, ma in inglese The my book è peggio che sbagliato, fa
venire la pelle d’oca. In italiano diciamo “So che è partito”, ma in francese Sais que est
parti è orrendo. Ovviamente vale anche l’inverso: gli stranieri fanno talvolta venire a
noi la pelle d’oca, trasponendo brutalmente espressioni della loro lingua in italiano:
“Lui ha arrivato” (He has arived), “Egli è buono di avere degli amici parecchi” (Il est
bien d’avoir des amis pareils, che in italiano dovrebbe dare “E’ bello avere simili
amici”) e così via.
Il fatto linguistico fondamentale è che siamo tutti, chi più, chi meno, prigionieri delle
strutture particolari della nostra lingua madre. Gli effetti di questi vincoli si fanno
sentire anche in chi è poliglotta, ma conserva la prima lingua come lingua
fondamentale. I linguisti hanno dimostrato che i veri bilingui, coloro che parlano in
modo veramente perfetto e con assoluta indifferenza più di una lingua, sono più rari
delle mosche bianche. Molte persone parlano bene, o benissimo, più di una lingua, ma
quasi nessuno è, tecnicamente parlando, perfettamente bilingue.
Tanto per limitarci all’inglese, un italiano che lo abbia imparato quando già aveva più
di sette od otto anni di età, per quanto fluentemente e correttamente lo parli, troverà
perfettamente accettabili (e si troverà a usare) espressioni che suonano
grossolanamente sgrammaticate a un parlante “nativo”. Viceversa, troverà
sgrammaticate e inaccettabili espressioni che i “nativi” considerano perfettamente
grammaticali.
Tanto per prendere qualche caso autobiografico, ho scoperto assai tardivamente che
in inglese non si dice (uso, come fanno i linguisti, il segno di asterisco per indicare che
un’espressione è sgrammaticata):
• I recommend you that restaurant
• (Si dice I recommend that restaurant to you, oppure I recommend you that
you eat in that restaurant. Si noterà che, invece, si può benissimo dire I give
you this book)
•
Its knowledge (per esempio in frasi come That was no secret, because its
knowledge was widespread, bisogna dire the knowledge of it)
La voglia di studiare 69
Al contrario, si può benissimo dire in inglese:
The friend secretary of Bush area in the room
(“L’amico e segretario di Bush sono nella stanza”. In italiano, questo non si può dire.
Infatti “L’amico e segretario di Bush” deve essere una sola persona. Se sono due
persone, si dirà “L’amico e il segretario “)
I linguisti di professione sviluppano un certo orecchio per questo tipo di “sordità”
grammaticale, e per certe false, ma quasi irresistibili, analogie linguistiche. Si tratta di
fenomeni che sono tanto più interessanti quanto più si rivelano “automatici” e
incorreggibili per tutti i parlanti che provengono da una certa lingua materna, o da una
ristretta famiglia di lingue. Il messaggio che ci trasmettono questi esempi ultra-raffinati
è che la nostra lingua materna continua a indurci in errore per tutta la vita, anche
quando si parla bene un’altra lingua.
Questo fenomeno è ben noto per quanto riguarda l’accento: salvo casi veramente
eccezionali, ci asta dire due parole e subito veniamo smascherati per stranieri.
L’accento può essere evitato solo se si impara una lingua da bambini, entro i quattro
anni, massimo i sei anni. Dopo, il sistema si “specializza” e si congela. Studi recenti di
linguistica e di psicolinguistica hanno dimostrato che si diventa prestissimo incapaci
non solo di articolare certi suoni di una lingua straniera, ma perfino di udire la
differenza tra questi suoni. Per esempio, la differenza tra il suono della nostra “r” e il
suono della nostra “l” è letteralmente impercettibile a molti parlanti indigeni di lingue
orientali. Ogni neonato, di qualsiasi Paese, ancora percepisce la differenza (questo lo si
può verificare con apposite tecniche), ma a tre o quattro anni, il bambino giapponese o
cinese cresciuto in ambiente mono-lingue già non la sente più. Lo stesso vale per noi
per certi suoni di alcune lingue orientali, o perfino per le differenze di accento. Tra
l’americano parlato, per esempio, a New York e quello parlato a Boston il nostro
orecchio “italiano” non riesce a captare alcuna differenza. La nostra bocca e le nostre
orecchie si trovano presto, e per sempre, imbrigliate dalle strutture della nostra lingua
materna. Sentiamo solo gli accenti di casa nostra.
Questo dell’accento è il caso più noto e più lampante. L’importante è rendersi conto
che questo blocco, questi vincoli e queste “sordità” (o, se si preferisce, questi
“daltonismi”) si riproducono anche a livello della sintassi.
L’accento è dunque inevitabile, ma possiamo, almeno, porre rimedio alle nostre
sordità grammaticali? In teoria sì, ma in pratica questo è molto difficile. Qui on basta
imparare le regole della grammatica dell’altra lingua, occorrerebbe che quella
grammatica ci dicesse tondo tondo, senza mezzi termini: caro italiano che impari
l’inglese, caro giapponese che impari il francese (e così via), tu saresti tentato di dire
così e così, ma non dirlo, perché è un errore. Grammatiche di questo tipo ancora non
sono in commercio, ma i linguisti stanno pensando a scriverle. Il problema principale è
che occorrerebbe, per esempio, una grammatica dell’inglese per chi parla l’italiano,
una del francese per chi parla il giapponese, e così via. Ci si chiede se il gioco valga la
candela. In fondo, le grammatiche già esistenti hanno consentito a milioni di parlanti di
ogni lingua di cavarsela non troppo male. Il caso, comunque, resta aperto. In Paesi che
70 La voglia di studiare
Così fan tutti
ospitano contingenti numerosi di immigrati provenienti da una certa area linguistica,
già si stanno facendo sforzi per adattare l’insegnamento della lingua “bersaglio” (per
esempio l’inglese) alle particolarità della lingua “base” (per esempio lo spagnolo). I
buoni insegnanti di lingue, del resto, intervengono sempre a correggere
preventivamente gli errori che già sanno essere più probabili e più insidiosi.
Ogni lingua ha una sua particolare logica, o, come si diceva un tempo, un suo
“genio”. Occorre cogliere questa logica, farsi investire da questo genio, il prima
possibile. Saltare dentro una lingua, pensare entro questa lingua, è molto meglio che
continuare a rifarsi “per confronto” sempre alla nostra lingua materna. Quando si è
raggiunto già un minimo di conoscenza della lingua, e si continua a studiarla,
suggerirei di cominciare a prendere anche i nostri appunti in lingua, non in italiano (su
come si prendono gli appunti ritorneremo nella Parte II). Poco importa se scriveremo
con tanti errori, l’esercizio sarà doppiamente utile. Pensate alla soddisfazione quando,
qualche mese più tardi, ci accorgeremo di questi nostri errori e ci sapremo autocorreggere.
Le false sorelle
Una parola particolare va spesa sulle false analogie del lessico. Qui gli errori
diventano addirittura grotteschi. A Parigi si narrano, vere o inventate che siano, enormi
bestialità di alcuni uomini politici italiani del periodo antecedente la seconda guerra
mondiale. Uno disse, sdegnato, durante una seduta della Società delle Nazioni “C’est
une grande bougie!” (che significa “E’ una grande candela”). Un altro, cui chiesero
con rammarico, a una cena ufficiale, perché non fosse venuto accompagnato dalla
moglie, se ne uscì (intendendo dire che sua moglie era indisposta) “Elle sentait si
mauvais! “ (che vuol dire “puzzava talmente!”). Più due lingue sono superficialmente
simili, come l’italiano e il francese, più facile è dire simili enormità. Bisogna guardarsi
dalle traduzioni brutali di termini che suonano simili, ma non lo sono. Consultare
sempre il dizionario aiuterà a evitare figuracce, e votacci.
Anche qui, occorrerebbero grammatiche e dizionari specifici alle varie lingue di
“provenienza”. L’inglese delusion non vuol dire “delusione” (che si traduce con
disappointmente), ma “inganno, illusione”. In francese affaire è femminile, mentre
carrosse e orchestre sono maschili. Questi sono alcuni dei mille trabocchetti che la
conoscenza dell’italiano tende a chi studia una lingua straniera. Infatti il problema, con
queste false analogie, è che ci sentiamo talmente sicuri del fatto nostro che non
andiamo nemmeno a controllare sul dizionario. E, se anche lo facciamo, la nostra
rètina non “vede” che accanto ad affaire c’è un piccolo f (o fèm). Avendo verificato al
massimo che, come già sospettavamo, la traduzione italiana è proprio “affare”, quindi
“affari”, non ci passa per la mente che il genere possa essere diverso. Quanti di noi,
trovando in un testo francese orchestre, o amours, si sognano di andarli a controllare
sul vocabolario? E’ così evidente! Ci sfuggirà, così, il dato capitale: che sono di genere
opposto a quello del loro corrispettivo italiano. Il peggio è che siamo ciechi, o
daltonici, a questo fatto grammaticale anche quando il testo ci dice chiaramente les
La voglia di studiare 71
belles amours, un grand orchestre. Quando poi, qualche giorno dopo, traduciamo
all’inverso, dall’italiano in francese, siamo praticamente destinati a sbagliare genere.
Ci verrebbe forse in mente di andare a verificare la traduzione del termine inglese
stomach? Soprattutto quando è chiaro dal contesto che si tratta di un organo affetto da
indisposizione? Ebbene, facciamolo, perché durante tutta la pudibonda epoca
Vittoriana voleva dire “intestino”, (o, per dirla senza più alcun pudore, alla buona,
così, tra di noi: “l’andare di corpo”). Ho sorpreso fior di traduttori patentati cadere in
queste trappole. Uno mi tradusse blind alley (vicolo cieco). Un altro, turnover
(ricambio completo per sostituzione dei componenti) come “ribaltamento”. Se non
impariamo a essere pignoli e scrupolosi, se non impariamo a diffidare delle analogie
superficiali tra le lingue, non progrediremo mai. Dovrei dire di diffidare solo delle
false analogie. Ma come si fa a sapere quali sono vere e quali sono false?
Nell’incertezza, impariamo a diffidare di tutte le analogie. Soprattutto di quelle
lessicali, e soprattutto di quelle tra parole che sembrano uguali. Solo dopo averle
controllate una ad una potremo mantenere quelle che sono genuine. Non c’è peggior
nemico che il credere di sapere, soprattutto quando le cose ci paiono così ovvie.
Se il fine è solo quello di essere capiti, salvo certi svarioni madornali e certi
quiproquo ridicoli, queste cose contano poco. L’intelligenza e l’educazione dei nostri
interlocutori sopperiranno ai nostri errori. Il modo in cui si insegnano le lingue
straniere a scuola, però, è diverso. Lo scopo qui non è quello di farsi capire, ma quello
di apprendere una lingua correttamente. Conta la grammatica, contano gli accordi di
genere, tempo r numero, contano le costruzioni sintattiche complesse e le loro
sottigliezze. Questo crea talvolta dei paradossi. Ci sono persone che hanno studiato le
lingue solo a scuola e conoscono a menadito, almeno in astratto, liste di eccezioni e
svariate raffinatezze di quella lingua, ma non saprebbero poi cavarsela in un ristorante,
in una stazione ferroviaria, parlando con un tassista. All’opposto, ho spesso incontrato
persone che commettono senza posa sbagli grossolani, ma riescono benissimo a capire
e a farsi capire in un’altra lingua.
E’ solo da una sapiente combinazione di questi due distinti talenti che si sviluppa il
vero gusto per le lingue.
Il gusto per la storia
Tra tutte le materie studiate a scuola, la storia occupa una posizione privilegiata.
Nessuna singola materia, infatti, “fa cultura” quanto la storia. Ideologie e filosofie tra
loro molto distanti o perfino opposte, come l’idealismo liberale e il materialismo
marxista, si sono trovate concordi nel calibrare una cultura secondo la vastità e la
profondità delle conoscenze storiche che essa assume. Per lunga e illustre tradizione la
storia viene spesso rappresentata come un “soggetto” autonomo, un’entità dotata di
esistenza propria, di un proprio volere. Mentre a nessuno è mai venuto di pensare che
esista la geografia, al di là e al di sopra dei continenti, delle catene montuose e degli
oceani, ci viene suggerito, non foss’altro per allusione, che la storia sia “più” della
72 La voglia di studiare
Così fan tutti
sequela di fatti, di azioni, di persone e di vicissitudini che la compongono. Si dice che
la storia produce, causa, determina, condanna, assolve. E si dice di un’ideologia, una
tendenza, un’impresa, che si situano “al di fuori”, “al margine” o “al centro” di un
“disegno” della storia. La storia è stata anche variamente presentata come “maestra”,
come “levatrice”, come “laboratorio”, come “fucina”, come “motore”. “Una guerra
illustre contro il tempo” la definisce il Manzoni, per bocca del suo immaginario
manoscritto. Sono metafore, certo, ma metafore che ben raramente usiamo quando si
parla di chimica, di aritmetica o di musica.
Proprio perché è così privilegiata, così personalizzata, così volitiva, questa grande
“maestra” ci si presenta con tanto di busto e di parrucca. Impone rispetto e mette
soggezione. Non perché sia “difficile”, come la matematica e la fisica, ma perché si
ammanta di poteri simbolici eccezionali. C’è una chiarissima differenza tra questa
Storia (esse maiuscola) che si studia a scuola, e la storia che alimenta, invece, intere
riviste esposte nelle edicole, tanti romanzi di grande successo (basti pensare a quelli di
Umberto Eco), tanti film di cassetta. Tra la storia-romanzo che tanto ci affascina nella
vita ordinaria e la Storia-istituzione che si studia a scuola esiste un abisso. Offrire qui
incentivi allo studio della storia-romanzo significherebbe sfondare delle porte aperte,
in quanto questa storia ci appare già spontaneamente affascinante. Gli incentivi vanno
offerti, piuttosto, allo studio della Storia, così come la si insegna a scuola. Infatti, per
strano che possa apparire, questa Storia-istituzione non è semplicemente “la” storia,
ma una storia.
Unità e periodi
Nei nostri libri di testo non troviamo, per loro buone ragioni, i grandi amori, i grandi
tradimenti, gli intrighi polizieschi, le spietate vendette e tutti quegli elettrizzanti
ingredienti di potere, amore e morte che animano i romanzi storici. Non ci troviamo
nemmeno, e qui le ragioni mi sfuggono, lo speciale fascino esercitato da quella che si
chiama “storia quantitativa”, cioè la storia della demografia, delle risorse naturali, del
clima, dei prezzi, delle tecniche e delle mentalità. Mancano proprio quei temi e quelle
“unità” di ricerca che sono oggi centrali per molti storici di mestiere. Il quadro di
questa Storia-istituzione è allo stesso tempo assai più vasto di quello della psicologia
dei singoli illustri protagonisti, tesoro ineasauribile del romanzo storico, e assai più
ristretto di quello tracciato da certi storici genuinamente “moderni”. Alcuni dei temi
più nuovi e più interessanti cui si sono recentemente consacrati questi storici, non di
rado scrivendo anche libri che sono andati a ruba, sono, per esempio, la storia delle
preferenze alimentari e delle maniere a tavola (basata sulle statistiche dei mercati
alimentari, su diari, lettere, ricette e racconti, sui menu dei ristoranti e su uno studio
antropologico di quanto avviene nelle popolazioni dette “primitive”), la storia della
sessualità e della contraccezione (basta su epistolari, sui manuali per i confessori, sui
registri degli ospedali, su oscure cronache spicciole). Soprattutto nel mondo
anglosassone, oggi fa molto parlare di sé la storia del mondo femminile e la storia delle
minoranze. Non meno interessanti, seppure più specializzati, sono temi come la storia
La voglia di studiare 73
della corporatura (basata sulle misure prese dai sarti militari), dei cognomi (basata sui
registri parrocchiali), della sintassi, della stregoneria, del libro a stampa, dei metalli,
delle malattie, delle carte geografiche. Si vede subito che queste sono tutte “unità” e
“scale” di fenomeni diverse da quelle dei nostri libri di testo. I “nuovi” storici
ricostruiscono spesso le vicende del quotidiano, le credenze implicite e diffuse, il
“potere” di ciò che era un tempo da tutti semplicemente dato per scontato, presupposto,
sottinteso. La loro è una storia che si sazia, magari, di vicende che occupano solo dieci
anni cruciali. O che invece spazia su un intero millennio. A scuola si studia soprattutto
una storia del mondo “pubblico”, basata su documenti ufficiali, sempre proiettata sui
decenni e i secoli. Questa “storia ufficiale” ha spesso trascurato alcune delle “unità”
più ovvie e vitali, per esempio (come i movimenti femministi non hanno mancato di
far notare) la storia della donna, dell’infanzia, del lavoro domestico. Preoccupandosi
quasi esclusivamente di territori e di frontiere, la Storia-istituzione ha, per esempio,
anche trascurato i mari e le strade. Sembrò quasi rivoluzionario che un grande pioniere
di questa “nuova” storia, il francese Fernand Braudel, avesse scritto una storia del
Mediterraneo, dei traffici che lo solcavano, delle sue coste, dei suoi popoli e dei loro
commerci. Ugualmente sorprendente apparve poter ricostruire una storia “delle
mentalità”, da quelle di un’intera popolazione, o di un ceto sociale, a quelle di un
mugnaio del Cinquecento, di un curato del settecento, di un insegnante dell’epoca di
Luigi Filippo. Quando questa storia diventa letteralmente “quantitativa”, si occupa di
come sono cambiate sui lunghi periodi le cifre del pianeta, per esempio le piogge, le
temperature, i raccolti. Ricostruisce, sempre sui lunghi periodi, le durate medie di vita,
i tassi di natalità, le frequenze dei matrimoni, il prezzo del pane e del lavoro, la
resistenza delle genti, degli animali e delle piante alle grandi epidemie. Scende anche
al microscopio, spiando le migrazioni di bacilli, pulci e ratti, portatori di peste, lungo le
vie della seta. Unisce le forze con altre scienze per ricostruire le vicende della natura,
del suolo, degli agenti patogeni e della fisiologia umana. Come si vede anche da questi
cenni sommari, la storia insegnata a scuola si proietta, invece, su scale diverse, e ha
una diversa sensibilità.
La storia di chi comanda
Quello che tende a ricostruire per noi la storia dei manuali scolastici è la cornice
pubblica, il contesto politico ed economico. E’ una storia che ci fornisce soprattutto la
cronologia di comanda e come, che ci consente di situare nel tempo, e nelle vicende
del potere, queste altre vicende della storia-romanzo o della storia quantitativa, molto
più grandi, o molto più piccole, molto più universali, o molto più private. Essendo più
generale e generica delle vicende intime narrate in un romanzo, non ripresta alle nostre
proiezioni personali, non ci fa vibrare di indignazione, non ci fa sognare di avventure,
non ci fa lambiccare per scoprire un intreccio. Essendo, però, anche più locale dei
grandi “affreschi” tracciati dalla storia quantitativa, non si presta a rispondere a certe
nostre pur legittime curiosità. Questa storia scolastica degli affari pubblici e del “medio
termine” pare soprattutto destinata ad appassionare, più che il comune cittadino, il
74 La voglia di studiare
Così fan tutti
futuro statista, il futuro generale e il futuro finanziere. Chi esce dalla scuola con ottimi
voti in storia saprà rispondere a tante domande su case regnanti, primi ministri, blocchi
navali e politiche coloniali. Non gli si chieda, però, quanto e quale fosse il cibo
ordinario di un contadino nell’alto Medio Evo, quanto costasse uno schiavo agricolo
all’epoca di Plinio il Vecchio, quanti possedessero un pezzo di terra o una casa in città
nella Francia di Napoleone, quanti sapessero leggere e scrivere nella Londra tardoVittoriana, o di soddisfare altre mille curiosità, pur ben “storiche”, di questo gener.
La vocazione della cosa pubblica, cui si ispira la storia dei manuali scolastici, ci
prepara piuttosto ad inquadrare e a situare gli edifici storici, a leggere la topografia
delle nostre città, con le loro mura di cinta e i loro quartieri o sestieri. Ci fornisce una
chiave per capire quando sono state prese certe grandi decisioni, da chi, perché e con
quali effetti duraturi. Ricostruisce, decennio dopo decennio, il mutare delle alleanze e
delle frontiere, l’evolvere delle leggi e degli ordinamenti, spiega le migrazioni, la
presenza di minoranze linguistiche in certe aree, certe tendenze verso certi tipi di
insediamenti e di occupazioni, certe federazioni, certe autonomie politiche, certi
squilibri economici tra territorio e territorio, tra nazione e nazione, tra classe sociale e
classe sociale. Sono queste, dette sbrigativamente, le “lezioni” che quella storia ci
insegna. Si preoccupa di renderci cittadini più consapevoli del nostro passato comune,
più inseriti nel processo sociale da cui scaturiscono diritti, doveri, limitazioni e libertà.
Non è certo appassionante come i romanzi storici, né basilare come la storia
quantitativa, ma anche le sue sono lezioni importanti, delle quali è bene approfittare
fino in fondo. Uno dei più potenti incentivi allo studio di questa storia è proprio che ne
vediamo le tracce tutto intorno a noi, ogni giorno. Dopo aver anche solo “masticato”
un po’ di questa storia, subito ci troviamo a guardare con occhi diversi quanto ci
circonda, e con compatimento chi di questa storia è completamente digiuno. Sentire
qualcuno, per esempio il prototipo turista americano, sballare di qualche secolo l’epoca
di un avvenimento, o di un nostro monumento celebre, ci fa rabbrividire. Lo
compatiamo e ci sentiamo fieri di non essere come lui. Ci è stato detto e ridetto che
questa Storia-istituzione “fa cultura”, e abbiamo finito per crederci. Forse non a torto.
Guardare la storia
Una volta mi capitò di cenare al vagone ristorante, sul “Palatino” Parigi-Roma, con
un’anziana ed elegante coppia di americani. Erano stati catapultati su quel treno da uno
sciopero dei controllori di volo, ma non avevano affatto programmato quella
immersione nella vecchia Europa. Da New York avevano previsto di volare a
Gerusalemme, con appena una sosta di un’ora all’aeroporto di Parigi, per poi
proseguire di filato con un pellegrinaggio ai luoghi santi, da buoni cattolici. Erano di
Syracuse (stato di New York), di condizione economica trasparentemente assai agiata,
ma il loro disorientamento linguistico, comportamentale, geografico e storico era
impressionante. Non avevano alcuna, dico alcuna, idea di quali confini il treno dovesse
attraversare, trasportandoci da Parigi a Roma. Mi chiesero, preoccupati, se saremmo
passati attraverso qualche Paese comunista. Rassicurati, presi a tracciare
La voglia di studiare 75
sommariamente, su un tovagliolo di carta, la mappa dell’Europa che avremmo
attraversato. No, niente Danimarca, niente Yugoslavia, niente Germania, solo Francia,
un pezzettino di Svizzera, poi l’Italia.
Dovevano trascorrere, con loro grande preoccupazione, due giorni a Roma. Mi
chiesero, quindi, come comportarsi, cosa vedere. La loro assoluta ignoranza storica mi
sbalordì. L’avessi sentita raccontare da terze persone non l’avrei creduta. Francamente
non avrei mai supposto che due persone tanto compite e civili potessero avere
incertezze se il Rinascimento fosse stato prima o dopo Napoleone, se il Colosseo
risalisse a prima o dopo il Medio Evo. Mi resi presto conto che nessuna visita poteva
risultare loro di un qualche interesse, data questa loro assoluta mancanza di punti di
riferimento. Per motivi religiosi volevano visitare San Pietro. Fu arduo dar loro un’idea
di quanto antico fosse, visto che non avevano alcun metro per misurare il tempo.
Volevano anche vedere il Colosseo, dove sapevano che “tanti cattolici” (sic) erano stati
divorati dalle bestie feroci. Questo lo avevano visto al cinema e li aveva molto
impressionati. Credetti utile suggerire loro anche qualche visita che facesse leva più
sullr sensazioni dirette, che non culturali. I panorami dai colli (i cui nomi, inutile dire,
non dicevano loro niente), Trinità dei Monti (ah sì, quella scala lungo cui scendevano
Gregory Peck e Audrey Hepburn), i Mercati Traianei (pensai li avrebbe colpiti scoprire
un “antichissimo” supermercato a ridosso dei colli di Roma), e la facciata di Palazzo
Farnese (mi credessero, uno degli edifici più beli del mondo). Mi inviarono poi una
cartolina da Gerusalemme, ringraziandomi molto.
Quello che colpisce, in casi come questo, non è tanto l’assoluta mancanza di quello
che chiamiamo cultura, ma piuttosto la conseguente impossibilità di vedere una città.
Quale impressione si può ricavare da una visita a Roma, quando non si sa
minimamente distinguere il prima dal poi? Quale sensazione può generare, proprio
nella nostra rètina, la forma di San Pietro, quando la si crede contemporanea ai palazzi
di Via della Conciliazione? Come può apparire, visivamente, il Colosseo quando si
ignora tutto del mondo che lo ha prodotto? Qualche film storico lo avevano pur visto, e
avevano anche letto qualche romanzo di Ivanhoe e i Cavalieri della Tavola Rotonda.
Mancava loro totalmente, però, una qualsiasi conoscenza, o una qualsiasi vaga
reminescenza proprio della storia che si studia a scuola. Per loro il mondo non aveva
alcuno spessore. Tutto il mondo era nato ieri, comprese le storie-copione dei film
sull’Impero Romano, Ivanhoe e Désirée (ecco come sapevano di Napoleone).
Conoscere solo la storia-romanzo è perfettamente compatibile con questo loro
scivolare su un mondo istantaneo, piatto, senza riferimenti.
Per parruccona che sia, per poco elettrizzante che ci possa talvolta sembrare, la storia
“pubblica” è comunque la storia del mondo abitato, quella che dà fondamenta, spazio e
spessore alle nostre città. Almeno (dico almeno) in questo senso, è ben vero che fa
cultura.
76 La voglia di studiare
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