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In una notte di luna vuota
Indice Linguaggio 7 Il diritto a una poetica 21 Metafore 29 Il congegno metaforico 39 Associazioni 53 Analogie 63 Rime, metriche e altre gabbie 67 Pensieri laterali 73 Pensiero laterale e pensiero dell’altro 89 Impertinenze 97 Girotondi ermeneutici (e impertinenti) 111 Impertinenze scientifiche 119 Metasemantica e altre impertinenze linguistiche 129 L’inferenza 135 Intertestualità 147 Il linguaggio delle immagini 157 Libri illustrati 169 Un pensiero che sa giocare 179 Bibliografia 185 Linguaggio Linguaggio Gallipoli, agosto, un’ora circa dopo il tramonto. Giacomo aveva tre anni. Nel cielo c’era una enorme e sottilissima falce di luna, così luminosa che pareva quasi che le due punte si toccassero. Giacomo guardò il cielo, guardò me e disse: «Guarda, Marco, C’è la luna vuota!». Il linguaggio è ciò che permette di trasmettere, conservare ed elaborare informazioni tramite segni e simboli e consente ai soggetti di rappresentare e comunicare anche contenuti riferibili ad altro da sé. Il linguaggio umano, a differenza di quello animale, naturale e apparentemente incapace di evolversi in maniera significativa, è in massima parte appreso, si evolve nel corso della vita dell’individuo e della specie e può riferirsi a oggetti astratti mediante l’impiego di simboli capaci di indicare non soltanto singole cose ma anche classi di oggetti, cioè concetti. Il fatto però che la possibilità di usare il linguaggio da parte degli esseri umani sia il risultato di processi di apprendimento non significa che tutto quello che diciamo e scriviamo lo abbiamo imparato. Possiamo anche inventare, creare, improvvisare. Il modo migliore in cui i grandi possono insegnare il linguaggio ai piccoli è quello che permette loro di apprendere come si fa a inventarlo. Oggi è diffusa la convinzione secondo la quale la vita umana si distingue da quella animale proprio per il linguaggio. Per questo l’essere umano viene definito animale 7 In una notte di luna vuota simbolico, e c’è addirittura chi sostiene che il linguaggio sia l’unico responsabile della costruzione della nostra immagine della realtà1 e le parole credono di descrivere il mondo, ma in realtà lo costruiscono, lo inventano. Queste sono posizioni estreme, radicali, ma anche chi le considera improbabili ed eccessive deve ammettere che il linguaggio, strumento di comunicazione, rappresentazione e pensiero, condiziona molto la conoscenza del mondo e di se stessi. Chi ha a disposizione strumenti linguistici raffinati e complessi pensa e immagina in modo diverso rispetto a chi invece possiede apparati simbolici sommari e rudimentali, e le persone linguisticamente più dotate godono di differenti opportunità di relazione, di conoscenza e di esistenza rispetto a soggetti meno dotati. È dunque evidente come il modo in cui il linguaggio viene appreso e si evolve nei bambini determinerà largamente il destino del loro pensiero e della loro esistenza. Eppure queste affermazioni, quasi ovvie, non sono universalmente condivise, o forse non ci si pensa abbastanza. Purtroppo non è infrequente trovare, persino nelle aule dell’università, e in luoghi ufficialmente «colti», persone che affermano serenamente di non capire quel che c’è scritto in un testo perché «è troppo difficile», e spesso esibiscono la loro povertà lessicale, l’incapacità di consultare un dizionario, il perdersi nelle subordinazioni e nella consecuzio temporum come se questa fosse una caratteristica legittima e positiva, perché, secondo loro e secondo 1 Fra le correnti di pensiero contemporaneo che sostengono la centralità del linguaggio nella costruzione della realtà ricordiamo il Panlogismo, il Logocentrismo o Pansemiotismo, e il Costruttivismo radicale. 8 Linguaggio molti la «realtà» sta altrove, e loro sono gente concreta, «pragmatica». Sarebbe ingiusto incolpare di questo stato di cose soltanto il dominio della tecnica, il culto del denaro e della produttività e del mercato. Troppo spesso nella scuola, che rimane il primo luogo in cui viene consumata l’esperienza culturale e sociale della condivisione e della partecipazione, la conquista (apprendimento) dei linguaggi e delle lingue non viene vissuta come una conquista di libertà, di autoaffermazione, come la scoperta del piacere di creare, conoscere e attingere alle fonti della conoscenza, ma come una costrizione, un obbligo, una fatica imposta dall’alto della quale molti soggetti in formazione non intravedono il senso. Come se la lingua fosse soltanto una materia come le altre, non uno strumento di pensiero e di condivisione dei pensieri, come se non riguardasse tutte le materie, le conoscenze, i saperi. Chi, fin da piccolo, scopre invece che con il linguaggio si può giocare, scoprire, conoscere e inventare, e saperlo usare consente oltretutto di essere apprezzati e stimati, acquisterà precocemente interesse e passione per esso non solo come strumento utile, ma anche come oggetto fine a se stesso, come occasione di appagamento di curiosità, di piacere, di creazione, di poesia. Dal che consegue inevitabilmente che fra le responsabilità più importanti di chi educa c’è senz’altro l’iniziazione e la trasmissione di conoscenze e competenze di carattere simbolico e linguistico. Questo non vale solamente per gli insegnanti, ma per chiunque educa e istruisce. Perché non c’è conoscenza che possa prescindere dalle parole, dalle frasi e dai racconti che la rappresentano. Il modo in cui il linguaggio delle parole viene insegnato ai bambini, sia a scuola che nell’ambiente domestico, oscilla, 9 In una notte di luna vuota Piccolo Plauto by M. Dallari, «Rivista Infanzia» (inedito). 10 Il congegno metaforico Il congegno metaforico Condensazione, spostamento e associazione sono tre parole chiave per cercare di capire i meccanismi propri del funzionamento del pensiero simbolico-metaforico. Termini, questi, che più che dagli studiosi del linguaggio ci vengono suggeriti da psicologi e psicoanalisti. Ma poco importa. Ciò che questi concetti ci aiutano a capire è che la produzione di una metafora ha bisogno di sfuggire a un’idea di pensiero e di comunicazione di tipo esclusivamente lineare e consequenziale. L’invenzione di una metafora presuppone un’interruzione della continuità del pensiero e del discorso. C’è uno scarto, un’interruzione della prevedibilità, così da produrre un’apparente incoerenza capace di suscitare un momento di stupore e rivelarsi poi come un guizzo di intensità espressiva. È un po’ come se guardassimo qualcuno che cammina mettendo normalmente un passo dietro l’altro, poi, all’improvviso, costui accennasse un passo anomalo, facesse una piroetta, o una capriola. Poi riprendesse a camminare normalmente. E noi, ripensando a quella scena, potremmo accorgerci che quell’apparente digressione dalla coerenza e dalla continuità ha reso il suo percorso più significativo, persino più idoneo a raggiungere la meta prescelta. Che non era soltanto quella di raggiungere un punto di arrivo, ma di fare un percorso capace anche di avere senso per se stesso. D’altra parte, se una cosa del genere non fosse possibile non esisterebbe la danza. 39 In una notte di luna vuota Sigmund Freud ci ha spiegato come i meccanismi simbolico-metaforici dello spostamento e della condensazione sono il motore che fa funzionare il complicato linguaggio del sogno,1 quando varie catene associative, che dalla zona profonda dell’inconscio vogliono emergere e galleggiare al livello della coscienza, trovano il loro punto di intersezione (condensazione) in un’immagine capace di rappresentare tutto l’insieme dei problemi e degli argomenti che l’hanno generata. E molte volte il significato di una rappresentazione è trasferito su un singolo particolare di questa, su qualcosa che a questa rappresentazione è legato o collegato. La metafora ha sempre bisogno di un certo spazio di ambiguità, dev’essere interpretata, non decodificata, perché, come ci suggerisce un altro psicoanalista, Jacques Lacan (1974, p. 497): «la metafora si costituisce nel punto preciso in cui il senso si produce nel non-senso». Può succedere, per esempio, di desiderare di abbandonare la casa nella quale si vive, e questo è un desiderio che abita la mente di molti adolescenti. Allora, magari, si sogna di perdere la chiave di casa, che rappresenta, attraverso un processo di condensazione simbolica, la casa, tutto quello che c’è dentro e tutto ciò che è affettivamente associabile a essa. Oppure si può essere in conflitto con qualcuno e sognare che accade qualcosa di sgradevole al suo cane, al suo cappello, alla sua automobile, spostando l’immagine di quella persona su un oggetto che le appartiene e che può metaforicamente ricondurci a essa. Una metafora funziona quando il simbolo 1 I più conosciuti scritti di Freud sulla metafora e sull’interpretazione dei sogni sono: Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1966a) e L’interpretazione dei sogni (1966b). 40 Il congegno metaforico utilizzato è associabile a ciò che, sia pure indirettamente e a volte tortuosamente, si vuole indicare. Una metafora, dunque, sostituisce un significato che manca o che viene nascosto, poiché se fosse evidente renderebbe il messaggio inefficace, troppo banale o troppo inquietante. Quando diciamo che una persona «è mancata» o «non c’è più», o che «ha finito di soffrire», usiamo una metafora per dire, in maniera non troppo brutale, che è morta. A volte la metafora può essere anche un po’ ipocrita, ma anche in questo caso risponde a un’esigenza affettiva ed estetica che ha un suo fondamento antropologico e un suo orizzonte di senso. Poi ci sono metafore che sono tali dal punto di vista formale anche se non provocano nessuna alterazione emotiva in chi le legge o le ascolta: sono quelle che ormai si sono trasformate in modi di dire, frasi fatte, costrutti o parole usati per indicare qualcosa che nella lingua non ha un termine specifico corrispondente: l’esempio più noto è il «collo della bottiglia», costruzione metaforica entrata ormai nell’uso comune. La parte alta della bottiglia ormai la chiamiamo tutti così e questo modo di dire non è neppure più una metafora vera e propria, ha perduto ogni carattere trasgressivo dal punto di vista linguistico, ed è diventato a sua volta un termine canonico. Queste metafore consolidate si chiamano catacresi, e vengono utilizzate e riconosciute senza che il pensiero simbolico-metaforico si attivi nell’emittente e nel ricevente. Molte metafore, similitudini e modi indiretti di definire o indicare qualcosa sono in realtà catacresi, perché ne riconosciamo immediatamente il significato senza bisogno di alcun processo interpretativo. 41 Rime, metriche e altre gabbie Rime, metriche e altre gabbie Ebbene sì, lo ammetto, sono un amante e un sostenitore della rima. La rima che Dante Alighieri, nel Convivio, definisce: «quella concordanza che nell’ultima e penultima sillaba far si suole», e più avanti, in senso più lato: «Tutto quel parlare che in numeri e tempo regolato in rimate consonanze cade». Dante e i suoi amici facevano un gioco che anch’io ho avuto il piacere e la fortuna di praticare, in gioventù, nelle «osterie di fuori porta» di gucciniana memoria in quel di Modena e Bologna: ci si trovava intorno a un tavolo fra amici, con bottiglia di vino d’ordinanza, e ognuno doveva, rispettando metrica e rima, aggiungere un verso a quello declamato dal vicino. Il turpiloquio era tassativamente vietato: troppo facile fare le rime con le parolacce. Inutile dire che chi sbagliava, incespicava o si bloccava, pagava da bere. E devo dire che modestamente, grazie anche alla massiccia influenza dei versi in rima baciata precocemente assimilati dalle tavole del Corriere dei piccoli diretto da Giovanni Mosca (grande padre di figli degeneri), ho pagato poche volte. Dante Alighieri, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Guido Guinizzelli, fra giri di Chianti e fette di pane azimo col lampredotto e la finocchiona, hanno costruito quel dolce stil novo che faceva sì che Guittone d’Arezzo, forse escluso dalle serate all’osteria per ragioni di età, carattere, o da problemi di salute, commentasse quei versi guardando i ragazzacci 67 In una notte di luna vuota stilnovisti in cagnesco e brontolando: «Quant’è oscura vostra parladura». Al di là degli aneddoti e dei ricordi, penso davvero che i dispositivi rappresentati dalle metriche e dalle rime siano una risorsa importante per il pensiero e per la sua espressione, perché rappresentano ciò che per un grafico è la gabbia. Quando un grafico deve costruire una tavola composta da scritti e immagini, o deve impaginare un libro o una rivista, per prima cosa crea la gabbia, cioè suddivide gli spazi ancora vuoti decidendo se mettere lo scritto a tutta pagina, o su due o tre colonne, dove collocare le immagini, titoli e sottotitoli, didascalie, ecc. La gabbia, pagina per pagina, può anche essere trasgredita, e chi non ha dimestichezza con il lavoro grafico molte volte, non individua le caratteristiche e i riferimenti della gabbia. Ciò accade soprattutto quando il prodotto non è fortemente standardizzato dal punto di vista grafico, come un libro scritto o una rivista scientifica, ma ha caratteristiche di movimento, sorpresa e creatività, come un libro per bambini o un depliant pubblicitario. Eppure la gabbia c’è, e il grafico sa che solo facendo i conti con queste prescrizioni canoniche, che lui stesso si è dato, può costruire un prodotto in cui l’eventuale trasgressione (per esempio la decisione per cui in quella particolare pagina non si mette lo scritto su due colonne) acquista carattere e valore di rottura creativa della continuità e può essere riconosciuta come tale. Altrimenti verrebbe percepita come disordine. La regola-gabbia impone al grafico di svolgere quel difficilissimo compito che Albert Camus (1998, p. 88), in una delle pagine dei suoi taccuini, assegna a se stesso come scrittore: «andare fuori misura nella misura». 68 Rime, metriche e altre gabbie Rima e metrica costituiscono la gabbia formale di chi vuol mettere un pensiero in versi. La ricerca della parola che fa rima, la costruzione della frase secondo i limiti sillabici stabiliti da quella particolare scelta metrica impongono una ricerca fonetica che arricchisce il lessico mentre fa scoprire che non esiste la parola giusta ma ce ne sono tantissime, e ciascuna di esse può essere sostituita con un sinonimo, una perifrasi, una metafora. Ci sono anche i rimari, dizionari delle rime con cui si possono fare giochi bellissimi e scrivere con facilità qualche verso monorima, una di quelle composizioni poetiche che ripetono sempre la stessa rima alla fine di ogni verso. Io sono affezionatissimo al Rimario letterario della lingua italiana curato da Giovanni Mongelli e pubblicato dalla casa editrice Hoepli di Milano, giunto ormai alla quarta edizione. Lo apro a caso, trovo tutte le parole che hanno il suffisso -eno e, in un attimo, ecco una stralunata e fantascientifica monorima: C’era un alieno seduto sul fieno di un terrapieno che malgrado un forte dolore al duodeno scriveva in numeri seno e coseno sopra un taccuino di molibdeno. Niente di più e niente di meno. Oppure col suffisso -ea: O mia dolce Dulcinea bella come un’orchidea, pagherei una ghinea 69 Impertinenze Impertinenze Pertinenente è ciò che «appartiene a», in senso figurato e non, che riguarda un determinato argomento, che «spetta a», e deriva dal latino pertinere. La pertinenza riguarda due ambiti, quello dell’utilità e quello del senso comune. Qualcosa può essere più o meno pertinente, cioè utile, adeguato, adatto, a risolvere un problema, a svolgere un compito, a riparare un guasto. È un bullone del calibro giusto rispetto alla vite, o la soluzione adatta a risolvere un problema ma anche la voce cantante che parte con il tempo e la tonalità «giusti» sull’accordo dell’orchestra. Il concetto di pertinenza non riguarda però solo il fare ma anche il pensare e il dire il proprio pensiero. Spesso la coppia pertinente-impertinente corrisponde a quella, tipica del pensiero razionalista e molto diffusa (anche a sproposito) in ambiente scolastico, consistente nella contrapposizione dei termini giusto e sbagliato. Spesso viene ritenuto giusto e pertinente non solo il termine, la frase o l’idea che, rispetto a un’ipotesi, a un quesito, a un problema posto, «funziona» e risulta adeguata, ma anche quella che sembra giusta soltanto perché è scontata. Pertinenti sono le due parole di circostanza, le frasi consolatorie, la massima lapidaria detta a commento di qualcosa che fa sì che tutti facciano di sì con il capo; basta non tradire l’attesa di rassicurante pacificazione che tutti si attendono. Viene chiesto a qualcuno di fare un’orazione funebre? State 97 In una notte di luna vuota certi che non dirà nulla che gli astanti non sappiano già, e tacerà tutto ciò che magari molti sanno ma potrebbe turbare l’assenso consolatorio rintracciabile attorno alla rassicurante funzione della banalità. Nei testi delle orazioni funebri si trovano concetti che nella comunicazione quotidiana sono irrintracciabili: probità, devozione, rettitudine, oblatività, ecc. E c’è l’assolutizzazione di caratteristiche per loro natura relative e limitate nel tempo: la maternità, la paternità… E che dire dei proverbi che, come le barzellette già sentite cento volte, qualcuno continua ad affabulare, girando poi lo sguardo in cerca di sorridente assenso? Luca di Montezemolo trova in terra un fascio di banconote? Qualche ateneo dà una laurea ad honorem a Rita Levi Montalcini? Piove sul bagnato! Un parlamentare inquisito viene fotografato sullo yacht di un capomafia? Un famoso calciatore romano fa visita a un istituto per afasici? Dio li fa e poi li accompagna! Eccetera. Ma se uno stile pertinente di pensiero e di comunicazione si avvale soprattutto dei meccanismi che Edward De Bono ha definito pensiero verticale, va da sé che il terreno fertile del pensiero laterale risulta allora essere l’impertinenza. Torniamo un momento alla coppia concettuale giustosbagliato e all’idea di errore che si porta inevitabilmente appresso: non è infrequente che ciò che per qualcuno è errore, per altri sia provocazione, trasgressione, sperimentazione. L’errore, concettualmente e pragmaticamente, è definito da un margine, un limite, ma ogni confine è dotato anche di una zona franca. Michel Foucault ha sottolineato come ogni gesto trasgressivo sia ambivalentemente funzionale alla valorizzazione del concetto di limite. 98 Impertinenze Limite e trasgressione devono l’uno all’altra la densità del loro essere. Non c’è limite al di fuori del gesto che l’attraversa, non c’è gesto se non nell’attraversamento del limite. La trasgressione non sta dunque al limite come il bianco sta al nero, come l’escluso all’incluso, come il permesso al proibito; ciò verso cui la trasgressione si scatena è il limite che incatena. La trasgressione è la glorificazione del limite. (Foucault, 1969, pp. 58-59) Limite, confine, margine, sono parole che definiscono un’idea, ancor prima di applicarsi a una situazione concreta. Un’idea che ricongiunge la parola errore a quell’idea di errare e di erranza da cui trae origine: l’errante è colui che sbaglia, ma anche che vaga, cerca, viaggia, sia in senso reale che figurato. L’idea del confine occupa uno spazio semantico sconfinato, è una metafora in continuo movimento. Per la personalità trasgressiva, o anche solo critica e curiosa, individuare il confine è necessario, com’è necessario per il giocatore conoscere e accettare le regole del gioco. Perché il confine è il luogo della sfida, la soglia lungo la quale (non necessariamente oltre la quale) vivere l’esperienza erratica dell’avventura. Non si tratta dunque, nell’affermare la grande importanza per l’uomo di essere aperto e disponibile all’avventura intesa come «rottura» di un quotidiano che rischierebbe di mortificarsi nell’abitudinario e quindi in una passivizzante routine, di rifiutare il quotidiano quasi che esso fosse sinonimo di una inevitabile negatività esistenziale. Si tratta al contrario di sapersi difendere dai rischi che essa comporta quando viene in un certo senso assolutizzata o quando divenga totalizzante; ovvero si tratta di ricorrere ad alcune esperienze di «rottura» che, come altrettanti scossoni esistenziali, ne interrompano la pericolosa linearità. (Foucault, 1969, pp. 58-59) 99 In una notte di luna vuota L’architettura, arte e scienza al contempo, si presta in maniera particolare a riflettere su questi temi. L’architetto bravo e creativo vìola e produce canoni a ritmo vertiginoso. Basta osservare il Guggenheim Museum di Bilbao, creato da Frank Owen Gehry, per rendersene conto. Una vertiginosa trasgressione dei canoni e delle consuetudini prospettiche e volumetriche ha prodotto stupore e nuovo senso della bellezza, epigoni entusiasti quanto modesti o addirittura patetici. D’altra parte il necessario rigore del calcolo, l’esigenza della funzionalità, la scelta dei materiali, il richiamo della bellezza e delle contraddizioni che questa categoria labile e irrinunciabile si porta appresso, convivono nella pratica di progettazioni e di produzione di edifici e spazi che attraversiamo e viviamo senza renderci conto, spesso, di come non solo le grandi opere, ma anche un restauro metropolitano, la facciata di una banca, un centro commerciale, il decoro di un portale o le panchine poste in un parco contengano provocazioni, violazioni, sperimentazioni, errori, orrori che il tempo redime, stupori che scivolano nell’effimero o divengono abitudine, violazioni che generano canone e norma. È proprio un filosofo-architetto, Piero Zanini, a proporci di trasformare l’idea di confine, inteso solitamente come spazio che separa due territori differenti, in un «altro spazio», capace di ridurre la sua rigidità ideale e il suo potere storico e politico. Andare verso il margine, vivere la liminarità, stare sul confine, richiede a ciascuno di noi la disponibilità e la volontà di compiere un’esperienza di apprendimento oltre le abitudini, al di là delle convenzioni e dei preconcetti che ciascuno di noi può avere. Proprio per il suo approssimarsi a un limite, 100 Impertinenze anche morale, questa esperienza potrà rivelarsi allo stesso tempo estremamente violenta, paradossale, emozionante. Provare il confine e le sue contraddizioni, ma anche la sua sconfinata vivacità, vuol dire esercitarsi nella pratica della tolleranza, della convivenza, dello stare fianco a fianco malgrado le rispettive particolarità. Vuol dire anche cercare di avere uno sguardo più allargato sulle cose, in grado di comprendere aspetti diversi (anche se molto lontani fra loro) di una stessa realtà come parti di una stessa complessità. (Zanini, 1997, p. 12) L’impertinenza è una cosa seria: non è soltanto sinonimo di provocazione o birichinata, ma può essere scoperta e utilizzata in una sua precisa accezione pedagogica, epistemologica, semiotica e linguistica. Ciascuno di noi può essere considerato impertinente ogni volta che «tradisce» la norma e la normalità, intesa sia come applicazione delle consuetudini e delle norme, sia come assunzione di comportamenti o atteggiamenti che escono dalla prevedibilità. Luis Prieto, semiologo spagnolo, definisce con il termine pertinenza il legame culturale che c’è tra un oggetto, il suo nome, la sua funzione convenzionale (Prieto, 1964). Davanti a un lapis posso indicarlo e dire: «Questo oggetto si chiama matita, serve per scrivere, quel frutto si chiama ciliegia, è buono da mangiare e serve a fare una confettura. Il congegno della pertinenza, che Prieto esamina dal punto di vista semiologico, è spesso anche la procedura attraverso la quale si insegna ai bambini il linguaggio delle parole. Gli adulti educatori tendono, perlopiù, a insegnare ai bambini parole corrispondenti a oggetti e comportamenti dei quali vengono spiegate caratteristiche e funzioni convenzionali. Il gioco dell’impertinenza è qualsiasi contro-procedura utile 101 In una notte di luna vuota a contrastare l’eccesso di denotazione, di conformismo, di stereotipo. Certamente erano grandi impertinenti gli artisti appartenenti al dadaismo, che fecero grande uso del collage, una tecnica che consiste nel comporre opere bidimensionali utilizzando ritagli di giornale, immagini e altri reperti e frammenti cartacei che nel contesto originale avevano un determinato significato e una determinata pertinenza ma poi, nel nuovo contesto è in relazione con gli altri materiali visivi, cambiano completamente senso e valore. Grandi impertinenti sono stati senz’altro Marcel Duchamp, autore della famosa Ruota da bicicletta fissata a uno sgabello così che entrambi gli oggetti perdono la possibilità di essere utilizzati e guardati in modo pertinente e convenzionale, e Man Ray, con il suo Cadeau, un ferro da stiro Man Ray, Cadeau (copia). 102 Impertinenze Marcel Duchamp, Ruota da bicicletta (copia). sul quale l’artista incollò una fila di chiodi, così da renderlo inutile per il suo uso canonico trasformandolo invece in qualcosa di originale, curioso, inutile come ogni opera d’arte, e decisamente impertinente. Fanno dell’impertinenza uno degli aspetti più visibili della loro cifra poetica gli artisti appartenenti al gruppo bolognese Mistiche Nutelle. Questi artisti, fra Dadaismo, Citazionismo, Pop Art, grande abilità tecnica e grafica e altrettanto 103 In una notte di luna vuota cose la cremina saprebbe di cipolla». Esempio di dettagliata e ineccepibile pertinenza, combinata a una piccola ma sacrosanta lezione di cucina. Perché è chiaro che una crema pasticcera all’aroma di cipolla non sarebbe un’impertinenza ma una schifezza. Se però prendo a prestito un poco di pensiero lateral-dadaista e assemblo due cucchiai ricombinandoli in modo non convenzionale ottengo un paio di occhiali «particolari». Occhiali per chi di quella cosa lì la sa fare a occhi chiusi. E non è tutto: con un cucchiaio da cucina, una molla, qualche pezzo di legno e una molletta da bucato posso costruire persino una catapulta. 112 Girotondi ermeneutici (e impertinenti) Catapulta sparanoci. Se poi aggiungo al mio repertorio di cucchiai, legno, chiodi e colla vinilica qualche turacciolo di sughero, posso costruire e varare nel lavello della cucina un suggestivo pattino, che sarà senz’altro molto apprezzato sulla riviera romagnola. Pattino da lavandino. 113 Libri illustrati Libri illustrati I libri illustrati possono essere considerati una delle più interessanti risorse di relazione educativa. L’idea che la pagina virtuale del computer possa sostituire un testo illustrato è, a tutt’oggi, peregrina. Il testo audiovisivo, a sua volta ricchissimo di qualità e potenzialità formative, non è per ora in grado di assolvere alle funzioni simboliche, rituali, educative e culturali alle quali è vocato il testo cartaceo. Non fosse altro per la capacità della carta stampata di permanere, sia pure usurandosi e assumendo su di sé segni di invecchiamento, di rimanere presente a lungo nel tempo e nello spazio. Attraverso l’uso del libro illustrato, a patto che sia di buona qualità, si può dare vita a un’incredibile quantità di passaggi di consegne, di conoscenze e di competenze, oltre a permettere veri e propri riti di passaggio, poiché inizialmente il libro è utilizzato da bambini e adulti insieme, poi diviene un oggetto che i piccoli imparano a usare anche da soli, il che consente loro di trovare, già nei primi anni di vita, informazioni e racconti che essi possono mostrare e ri-raccontare agli adulti. Il contenuto del libro apprezzato, che ha interessato ed emozionato un bambino, diviene per lui patrimonio identitario e risorsa intertestuale. Patrimonio identitario perché diviene suo, e grazie alla capacità di citarlo e ri-raccontarlo egli presenta se stesso; risorsa intestestuale perché chi conosce bene un testo lo usa come espediente comparativo e 169 In una notte di luna vuota associativo di comprensione e di giudizio nei confronti di altri testi o di fenomeni extratestuali a esso riconducibili. A differenza di quanto può accadere per il computer (o anche con le cose ascoltate dalla voce di qualcuno) il testo stampato resta però fuori dalla mente e dal corpo del ricevente, come traccia visibile di memoria affettiva e cognitiva dei dati appresi. La possibilità di ripescare, rievocare, mostrare ad altri le fonti, che sono contemporaneamente frammenti di identità e di conoscenza, di richiamare all’attenzione nostra e altrui le storie che abbiamo accolto ed elaborato, magari proponendone una nuova interpretazione, è possibile solamente pescando in quel deposito dell’identità sito fuori dal nostro corpo che è lo scaffale dei libri. Questa operazione non vale solo da adulti ma anche da piccoli e da molto piccoli: un bambino che va con fierezza a pescare nella sua stanza un libro che conosce per «far vedere» qualcosa all’adulto o a un amico, mette in scena un procedimento di costruzione della propria identità, di rinforzo linguistico e cognitivo, costruisce e valorizza modalità di relazione interpersonale, pratica un rituale difficilmente sostituibile con qualcos’altro, o con qualche altra procedura relazionale. E riesce difficile, almeno per ora, pensare alla crescita di competenze e abilità relative all’uso dei supporti informatici e di rete, capace di esistere e di evolversi in maniera complessa senza la base cognitiva e simbolica consistente nella relazione iniziatica con il testo cartaceo. L’artista e illustratrice Chiara Carrer (1999, p. 18) ci fa notare come il libro illustrato sia composto da cinque codici interagenti, uno dei quali è l’illustrazione. Essi sono: 170 Libri illustrati 1. il codice iconico (illustrazioni); 2.il codice verbale (testo); 3.il codice grafico della composizione della pagina e del rapporto tra i codici; 4.il codice della confezione, dei materiali, della forma esterna, della copertina, della legatura; 5.il codice del mediatore e della modalità con cui avviene la lettura. Chiara Carrer, illustrazioni del libro La piccola Anna e il piccolo Hans, Bologna, Giannino Stoppani, 2005. 171