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Schiavi delle mafie

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Schiavi delle mafie
Osservatorio Civico Antimafie Reggio Emilia
Schiavi delle mafie
Tratta e sfruttamento a Reggio Emilia
Un viaggio che parte da lontano
Quaderno n. 4 maggio 2013
Questo Quaderno è stato curato dall’Osservatorio Civico Antimafie voluto da:
Associazione “COLORE - Cittadini contro le mafie” e “LIBERA - Coordinamento di Reggio Emilia”.
I testi sono di (in ordine alfabetico):
Caterina Lusuardi, Chiara Simone, Daniela Pellacini, Lara Aleotti, Lucia Marmiroli,
Marzia Barani, Michele Vocino, Stefania Rivi.
Si ringraziano per le interviste: Federica Zambelli (Città Migrante) e Mario Di Frenna (Avvocato).
Inoltre, si ringraziano per le utili informazioni: Alfa Strozzi (Comune di Reggio Emilia), Ciro Maiocchi (FILT),
Francesca Angelucci (Progetto Rosemary), Giovanna Bondavalli (Progetto Rosemary),
Gregorio Villirillo (FILCTEM), Mauro Nicolini (CGIL - FLAI)
Foto di Caterina Lusuardi
Per contatti: [email protected]
Osservatorio Civico Antimafie IV Quaderno
Reggio Emilia maggio 2013
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Sommario
Introduzione
Pag. 4
Rotte per l’Italia
Pag. 7
Sulla prostituzione
Obbligo di necessità
Pag. 18
Leggi e prostituzione: evoluzione dal dopoguerra
Pag. 24
Risposte locali: Progetto Rosemary
Pag. 28
Testimonianze
Pag. 30
Sul lavoro
Caporalato in Italia
Pag. 35
E a Reggio Emilia?
Pag. 40
Ecco cos’è che fa andare la filanda!
Pag. 43
Processo Ital Edil: l’azione dei lavoratori e la risposta della città
Pag. 47
Lo Sportello Migranti : tra sanatoria e lavoro irregolare
Pag. 51
La parola a un avvocato
Pag. 54
Conclusioni
Pag. 62
Fonti
Pag 65
Osservatorio Civico Antimafie IV Quaderno
Reggio Emilia maggio 2013
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Questo è il quarto quaderno che l’Osservatorio Civico Antimafie di Reggio
Emilia porta a termine, grazie alla continuativa collaborazione tra
“COLORE - Cittadini contro le mafie” e i volontari del
“Coordinamento di Libera - Reggio Emilia”. Un’edizione che si è
deciso di fare solo on-line, sia per ridurre i costi, sia per poter usare i
colori. Non è stato semplice affrontare il tema scelto quest’anno proprio
per la sua complessità: sfruttamento e tratta di esseri umani, sia per
lavoro, che a scopo sessuale. Due argomenti non sempre correlati tra
loro, ma con un fattore comune: difficile conoscere i reali numeri delle
persone coinvolte. C’è chi parte per sfuggire ai governi dittatoriali di
propria volontà e incappa solo durante il viaggio o addirittura solo una
volta arrivato nelle organizzazioni criminali. C’è chi fin dall’inizio viene
tratto in inganno e solo poi scopre di essere finito in mano ai criminali. C’è
chi cerca fin dall’inizio chi gli possa organizzare un viaggio o chi gli possa
trovare un lavoro. Dietro a tutti questi movimenti c’è chi arriva con regolari
documenti e chi arriva senza. Anche grazie ad una legge che fa diventare
criminale un immigrato privo di documenti, per restare in Italia diventano
facilmente ricattabili e vengono serviti su un piatto d’argento alle
organizzazioni mafiose e agli approfittatori, nonostante le sanatorie. Tre
anni fa, le immagini dei fatti di Rosarno in Calabria fecero il giro del
mondo, ma Rosarno non è un fatto isolato: in tantissime realtà, a Nord e
a Sud del nostro paese, forme di sfruttamento analoghe sono sotto gli
occhi di tutti. Nelle zone agricole, appena fuori dai centri abitati, gruppi di
persone, per lo più stranieri, aspettano fin dalle prime luci dell’alba i
pulmini che li caricheranno per portarli a lavorare in campagna. Stesso
“film” negli angoli più appartati e degradati della città, cambiano solo le
mansioni.
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Tutti hanno in comune una cosa: sono sottopagati: ad esempio, a Rosarno vengono pagati 25€ al giorno e 5€ ne devono
dare per il trasporto. Stessa cifra per i braccianti forzati nel “Gran ghetto” tra la costa adriatica e le colline del Gargano che
raccolgono l’”oro rosso”, il pomodoro. Vivono tra gli scheletri abusivi di capannoni mai terminati in mezzo alle campagne, o
nei pressi delle stazioni in alloggi fatiscenti, nelle case abbandonate, nelle cantine. A Rosarno chi si è ribellato qualche
anno fa se n’è già andato. Ora ci sono nuove persone che arrivano per raccogliere arance, le stesse che usa anche la
Coca-Cola per fare l’aranciata, come non si parla più degli scioperi degli stagionali africani di Nardò nel sud della Puglia.
Cosa c’entra Reggio Emilia? Perché fare un quaderno dell’Osservatorio, che da sempre punta la lente di ingrandimento
sulle questioni spinose della nostra provincia, su questo tema? Reggio Emilia è nota per la sua multiculturalità, per la sua
accoglienza con i servizi pubblici, con i progetti di assistenza e sostegno delle istituzioni religiose, laiche e comunali, così
come l’azione dei volontari di tante piccole associazioni meno conosciute. Reggio Emilia ha avuto un flusso notevole di
immigrati negli ultimi 20 anni, tanto da essere una delle città ai primi posti per la presenza nelle scuole e per le residenze.
Ora con quella che viene chiamata crisi molti, perdendo il lavoro, se ne sono andati. Anche a livello nazionale i flussi sono
diminuiti e l’Italia ora è solo una via di approdo e passaggio. Sul sito del CIR, Consiglio Italiano Rifugiati, si legge la notizia
del 16 settembre 2012 dove la Ministra Cancellieri dichiara il crollo degli sbarchi: da 60mila nel 2011 a 8mila. L’ultimo
rapporto UE sul traffico di esseri umani, dice che nel periodo 2008-2010 in Europa sono state identificate 23.632
vittime di tratta di cui 6.426 in Italia. Il Centro per la salute della Famiglia Straniera scrive su un suo rapporto che gli
stranieri extracomunitari regolarmente residenti in Provincia di Reggio Emilia al 31.12.03 erano 31.376 (pari al 6,6% della
popolazione residente), mentre in Italia era il 4,2% e citano i dati della Caritas dove gli irregolari rappresenterebbero il 20%
dei regolari e pertanto a Reggio Emilia sarebbero 6.275. Dai dati al 31.12.2010, sempre secondo la Caritas, gli stranieri
extracomunitari sono quasi raddoppiati e sono 61.504 (11,6% della popolazione residente) e quindi il 20% di irregolari
sarebbe 12300, ma non sappiamo se sia ancora così. Qualunque sia l’effettivo numero, dove e come vivono queste
persone? Ecco perché il tema interessa anche noi! Il convegno organizzato a Reggio Emilia il 3 dicembre 2011 da diverse
realtà reggiane ha chiamato questo fenomeno “Schiavitù di ritorno”: migliaia di schiavi che per necessità si mettono
direttamente nelle mani dei propri sfruttatori.
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Non si può parlare solo di adulti: Save the Children sostiene che “la tratta di minori è un fenomeno in crescita e in continua
evoluzione, una delle peggiori e attuali forme di riduzione in schiavitù a scopo prevalentemente sessuale ma non solo”.
Anche Amnesty International in Calabria denunciava la scomparsa di decine di minori dai centri di accoglienza. Alcuni dati
locali specifici che abbiamo trovato ce li fornisce il programma regionale di protezione e integrazione delle vittime di
sfruttamento lavorativo “Oltre la strada” previsto dalla legge contro la tratta (decreto 286/98). Sono 191 le persone prese in
carico dal 2007 al 2011. Il programma ogni anno fornisce assistenza e protezione a donne, uomini e minori che si
sottraggono allo sfruttamento sessuale, lavorativo, o nel campo dell’accattonaggio o delle attività illegali.
I dati relativi al periodo dal 1° gennaio 2007 a ott obre 2011 rilevano che la maggior parte delle vittime sono state prese in
carico a Reggio Emilia con 84 persone e Bologna con 38. Seguono Rimini con 22, Ravenna 17 e Piacenza 11. Di questi
191 la maggior parte proviene dal Maghreb, in specifico dall’Egitto 67 e dal Marocco 28; altri 27 provengono dalla
Moldavia e 14 dalla Romania. Gli altri Paesi d’origine sono collocati soprattutto in Africa con 18, in particolare Senegal con
14, e in Asia, tra cui 5 dalla Cina, 7 dal Bangladesh e 2 dal Pakistan. L’ambito lavorativo di sfruttamento più diffuso è quello
dell’edilizia, che riguarda 105 persone. Seguono l’agricoltura (26), il volantinaggio (14), il badantato (13), ma il fenomeno
riguarda molti altri settori, dal lavoro domestico a quello artigiano, dal tessile al turismo, dalla ristorazione alla vendita di
gadgets. E’ evidente che tra il numero degli irregolari e tra quelli che denunciano la propria situazione ci sia un enorme
divario. Forse è da pensare che non tutti gli irregolari sono finiti in mano alle criminalità organizzata e che la rete di
accoglienza che esiste a Reggio Emilia sia così forte. Ma troppo spesso si vedono per le vie venditori abusivi di borse
taroccate, cd piratati e dalla stazione alcune mattine partono biciclette con cestini pieni di fiori. Ma da dove arrivano queste
merci? Chi le organizza? Forse chi finisce in questo settore non si sente di essere sfruttato, ma trova un modo per poter
guadagnare quel tanto che basta per se stesso o per aiutare la famiglia. Uno di questi venditori di fiori sosteneva che era
meglio vendere abusivamente che andare a rubare e dal tono della voce si capiva che gli piaceva il suo lavoro.
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Le rotte per l’Italia
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“È nell’anno 2007 che inizio a comprendere nella sua profonda
drammaticità, il fenomeno delle migrazioni correlate alle organizzazioni
criminali mafiose transnazionali. In Calabria, a Roccella Jonica, da
qualche anno arrivano da lontani mari, imbarcazioni dai colori sgargianti e
dalle scritte in lingue per noi incomprensibili. Queste barche ancora
completamente di legno, sono le imbarcazioni di profughi che fuggono
dalle zone di guerra, dalla fame e da Paesi con scarsa considerazione dei
diritti umani. In quel periodo una di queste navi viene sorpresa da una
forte mareggiata che impedisce al mezzo di giungere a riva incolume. Non
si contano le vittime tra dispersi e corpi sospinti sulla riva. Qualcuno si
salva. Si dice anche che a Saline Jonica, i lavori per la costruzione di
un’industria vicino al mare sono serviti a creare un porto che sarebbe
stato usato per le merci, ma in realtà, è diventato il punto d’approdo di
grandi navi di clandestini che arrivano indisturbate. Da anni, nella Locride,
prima il comune di Badolato e poi quello di Riace e a seguire le
cooperative sociali gestite dal Consorzio Goel, mettono in piedi progetti di
accoglienza per i profughi che ancora oggi arrivano su queste rive. Qui si
possono vedere bambini sulle spiagge che vendono collane, braccialetti e
quant’altro gli viene fornito e se cerchi di chiedere oltre al nome altre
informazioni, se ne vanno velocemente. Da anni nei nostri mari si
consuma quella che viene chiamata “La strage del Mediterraneo” perché
troppi non sono arrivati a destinazione a causa delle condizione di vita
tremende sulle imbarcazioni e di quelle meteorologiche.” [1]
Ma quali sono le rotte dei migranti? Noi dell’osservatorio abbiamo trovato
questi documenti. In primo luogo vediamo dove arrivano in Italia,
osservando questa mappa[2] del 2007.
[1]
COLORE: esperienza diretta
[2]
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http://temi.repubblica.it/limes/le-vie-dipenetrazione/841
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La posizione geografica dell’Italia e le frequenti cronache sulle “Emergenze sbarchi” in Sicilia, Puglia, Calabria, ci inducono a
pensare, che l’immigrazione clandestina in Italia arrivi in prevalenza via mare, ma non è così.
Il grosso degli immigrati, circa l’80%, continua ad arrivare nel nostro paese via terra nonostante l’attenzione sia sempre
rivolta agli sbarchi via mare. Per altro le rotte nel Mediterraneo sono in continua mutazione. Spiega Forti: “Quello che noi
sappiamo delle nuove rotte, afferma il dirigente Caritas nazionale, è lo spostamento verso est; facendo riferimento alle coste
del nord Africa, la cosa significa soprattutto battere la via turca, che poi passa attraverso la Grecia e quindi arriva in Puglia .
Questo è uno degli ultimi scenari che si erano delineati con l’arrivo dei curdi, iracheni, ect…, quindi è quella più facilmente
percorribile. Ma ciò non toglie – aggiunge – che rimane assai elevato il numero di persone che segue una via interamente
terrestre. Su questo fronte non ci sono stati grossi investimenti per il contrasto all’immigrazione clandestina o comunque non
sono stati così enfatizzati come il contrasto via mare. Eppure nel 2008, quando ci furono migliaia di sbarchi nel sud Italia,
quel flusso non rappresentava che il 20% del totale di quanti arrivavano nel nostro Paese, perché l’80 % arrivano via terra e
questo flusso continua”.
Poco noto è anche il fatto che i valichi montuosi del Friuli Venezia Giulia sono la principale porta d’ingresso via terra in Italia,
a piedi o via camion, e non solo per le persone provenienti dall’est Europeo.
Di grossa rilevanza sono infine gli ingressi via aerea/terra gestiti da organizzazione criminose straniere di stampo mafioso,
soprattutto per chi proviene dai paese più lontani (Asia e Sud America) ma non solo: agli “aspiranti migranti”, dietro lauto
compenso, vengono proposti “pacchetti completi” di falsi documenti (passaporti, permessi di soggiorno o visti turistici),
trasporto, alloggio e lavoro a destinazione. Solo una volta partiti poi queste persone si renderanno conto di trovarsi alla
mercé di questo racket, e in una condizione di non facile ritorno.
La nutrita immigrazione cinese ha seguito prevalentemente questa via: i reclutatori si chiamano “She Tou” (teste di
serpente), il viaggio è affidato ai “passeur”, le rotte prevedono generalmente una prima parte via aerea fino ai paesi vicini
all’Italia, con ingresso finale sui tir attraverso le nostre frontiere terrestri.
Infine, va ricordato che il recente ingresso nella CEE di alcuni paese dell’Est Europa e la conseguente libera circolazione
senza necessità di formalità burocratiche, ha facilitato il lavoro del racket già operanti in queste aree.
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L’ articolo del Corriere della Sera dell’aprile 2012 cita una
relazione del Copasir [1]del 2009, all’epoca inedita, che
stima in circa un milione gli esseri umani «trafficati» ogni
anno nel mondo di cui 500mila solo in Europa. Secondo la
Croce Rossa Internazionale il conflitto libico ha spostato al
confine con la Tunisia almeno 700 mila persone e il
governo Gheddafi ha liberato circa 15mila profughi ristretti
nei campi libici.
Si fa anche l’ipotesi che il prezzo medio di un «biglietto»
per Lampedusa, sia di 1.200 - 1.400 euro a persona, e che
possa
arrivare
fino
a
circa
4.000.
Chi sono le vittime? Donne, uomini, minori.
Da dove arrivano? Est Europa, Africa, Asia, Sud America
Che tipo di sfruttamento? Lavorativo, sessuale, microcriminalità/accattonaggio.
Come è la tratta? Organizzata, transnazionale, collegata
ad altri traffici internazionali.
“Secondo le indagini la media delle persone denunciate in
Italia per riduzione in schiavitù negli ultimi anni si è tenuta
costantemente sopra i mille l'anno. Nel 2007, 645 sono
state le denunce per sfruttamento della prostituzione
minorile, 108 per acquisto di schiavi, 278 per tratta di
persone. Nel 2008 sono state 2.183 le persone denunciate
per traffico di migranti, 361 per riduzione in schiavitù, 13
per acquisto di schiavi, 326 per prostituzione minorile, 97
per tratta.”
http://www.corriere.it/cronache/11_aprile_12/le-rotte-degli-schiaviche-portano-all-italia_a786c47e-64c5-11e0-99a5e45596b05597.shtml
Copasir - Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica è stato istituito dall'articolo 30 della legge 3 agosto 2007, n. 124, recante
"Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto". La legge attribuisce a tale organismo parlamentare la
funzione di verificare, in modo sistematico e continuativo, che l'attività del Sistema di informazione per la sicurezza si svolga nel rispetto della
Costituzione e delle leggi, nell'esclusivo interesse e per la difesa della Repubblica e delle sue istituzioni.
[1]
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Secondo un’altro articolo di Repubblica dell’ottobre 2012[1] l’80% dell’intero racket della tratta nel mondo è finalizzato allo
sfruttamento sessuale e circa il 20% riguarda bambini. Le zone geografiche di provenienza delle vittime sono
prevalentemente le stesse da cui provengono le droghe: i Paesi in via di sviluppo, ma colpisce quasi tutte le nazioni del
mondo. L'UNODC[2] tra il 2008 e il 2010, dice che il 79% delle vittime di traffico in Europa erano donne, di cui il 12%
minorenni. Gli uomini, il 21%, di cui 3% minorenni. In Italia chi si occupa di questi temi, ma soprattutto di minori è
l’ECPAT - Italia Onlus[3] che difende i diritti dei bambini dalla prostituzione, dal turismo sessuale e da tutte le altre forme
di sfruttamento sessuale. L’ecpat lavora dal 1990 ad oggi, in oltre 70 Paesi, per trasformare la loro condizione: DA
SCHIAVI A BAMBINI. I minori provengono per lo più dalla Romania e dalla Nigeria, a cui si aggiunge il Marocco per i
maschi. Si stima che in Italia siano circa 2000 i minori fatti prostituire.
Un altro interessante documento è una ricerca curata da Enzo Ciconte “I flussi e le rotte della tratta dall’Est Europa Progetto WEST” su cui si possono trovare articoli di vari autori.
Nel settore del traffico delle donne dell’Est uno dei Paesi chiave per la tratta è l’Albania. Arrivano e ripartono dall’Albania
per approdare in Italia attraverso due vie: quella terrestre e quella marittima, come si vede dal grafico.
[1]
http://www.repubblica.it/solidarieta/cooperazione/2012/10/17/news/ecpat_18_ottobre_6_giornata_europea_contro_la_tratta_di_esseri_umani_
rotte_e_dati_di_un_crimine_in_italia_e_in_europa-44733093/
[2] L’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (UNODC) è l’agenzia leader nel contrasto a droga, crimine internazionale e
terrorismo. Operativo dal 1971, l’UNODC ha vissuto una serie di processi di ristrutturazione che hanno permesso di addivenire, oggigiorno, ad
un approccio integrato nella lotta mondiale a questi tre fenomeni.
http://www.onuitalia.it/component/content/article/34/177
http://www.unodc.org/
[3] http://www.ecpat.it/
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Bianca La Rocca, giornalista e ricercatrice, elabora al
2007 questi dati della regione Emilia Romagna a partire
dalle sentenze dei tribunali e sostiene un cambiamento
in questo settore: dal semplice scambio di sesso per
denaro a un ritorno alla schiavitù di donne sempre più
giovani. Ma è solo dal ‘95 in poi che il fenomeno si
allarga per le donne provenienti dall’Est che in primis
erano solo albanesi.
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Quindi, al mercato delle donne albanesi per la
prostituzione arrivano le rumene, le ucraine, le moldave e
le russe. Tutte queste donne attraversano molti Paesi e ad
ogni passaggio l’accompagnatore cambia. I mezzi di
trasporto sono per via aerea e con l’autobus.
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[1]
http://www.mondonuovo.org/Aree%20Tematiche/migranti/Tesi%20
di%20laurea/Tesi/Tesi%20%20La%20prostituzione%20nigeriana
%20-%20Ruffa.pdf
Per poter vedere tutta l’interessante ricerca è possibile
andare sul sito della regione Emilia Romagna
http://sociale.regione.emilia-romagna.it/prostituzione-elotta-allatratta/documenti/materiali-progetto-west/lericerche/report_finale.pdf dove si trovano oltre 400
pagine su questo argomento che forniscono un quadro
dettagliato.
Un chiaro racconto di come dalla Nigeria arrivano le
donne ce lo dice una tesi[1] che sostiene che le modalità
di viaggiare si sono modificate nel tempo. “Inizialmente
le ragazze si imbarcavano dagli aeroporti di Lagos o
Benin City e sbarcavano direttamente a Roma, grazie a
visti turistici a pagamento rilasciati per motivi di
“pellegrinaggio religioso” dall’ambasciata italiana a
Lagos, i cui funzionari erano in rapporto con i trafficanti
nigeriani. Dopo lo scandalo scoppiato nei primi anni
novanta e grazie alle indagini della magistratura, il
passaggio diretto non è stato più possibile e il viaggio è
divenuto lungo e complicato.
Viene dato loro anche un passaporto, ottenuto
direttamente dalla polizia che lo redige e lo vende alle
organizzazioni le quali sostituiranno solo la foto delle
ragazze a cui è destinato momentaneamente.
Vengono fornite anche di alcuni “indirizzi utili” di avvocati
che le possano difendere in caso di necessità e
l’indirizzo della stessa madame (normalmente sono
persone che risiedono in grandi città come Roma,
Milano, Torino).
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Per quanto riguarda il viaggio nel 2001-2002 si è registrato un
numero elevato di donne che arrivano per via terra e per via
mare passando dalla Russia per poi raggiungere la Svizzera e
da lì passare il confine con l’Italia, altre transitano da Parigi,
Francoforte o Amsterdam e raggiungono il nostro territorio in
auto, altre ancora arrivano fino a noi dal Nord Africa. Dinamiche
così complesse danno l’idea del grado di articolazione delle
organizzazioni che gestiscono questo traffico e di come esse
siano ben radicate a livello internazionale. I viaggi via terra
sono molto duri da superare, poiché la maggior parte dei
percorsi segnati dalle organizzazioni vengono intrapresi a piedi
e solo raramente viene fornito il supporto di un mezzo, per non
destare troppi sospetti. In queste condizioni il viaggio può
durare anche due o tre anni, per le soste obbligatorie nelle
diverse località che si attraversano (tali da evitare i possibili
controlli o blocchi della polizia locale), che possono variare da
due settimane a mesi interi. In questo modo il viaggio diventa
un calvario e le più deboli, muoiono, per la fame e per la sete.
Un elemento che caratterizza il percorso della tratta nigeriana
rispetto a quello di altri gruppi criminali è il fatto che difficilmente
il viaggio si traduce in una fase di iniziazione violenta definita da
botte, abusi sessuali e paura”.
Ci sembrava importante citare questo intero brano per avere
un’idea chiara del calvario di questi esseri umani. Così come
facemmo per le droghe, per il gioco d’azzardo concludiamo
l’articolo dicendo che ogni cliente finanzia e sostiene le mafie
anche con la prostituzione.
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Sulla prostituzione
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Dati della
Commissione Affari Sociali della Camera
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Obbligo di necessità
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Il dott. Mellossi scrive: “La provincia di Reggio Emilia rappresenta probabilmente il più chiaro esempio, in Emilia Romagna, di
integrazione tramite il lavoro”, ma se il lavoro è la prostituzione, possiamo parlare di integrazione e diritti del lavoro? Oppure
si può solo parlare di sfruttamento? In Italia da molti anni a questa parte si è sviluppato un mercato che fino a quel momento
era stato estraneo alla cultura delle mafie italiane ( tratto da “La criminalità straniera a Reggio Emilia” di Ciconte) : il traffico e
la tratta di essere umani; così le prostitute italiane hanno lasciato la propria “strada” alle nuove arrivate provenienti da: Cina,
Europa dell' est (in particolare la Romania), Nigeria, Sud America con l'arrivo anche della prostituzione maschile seppure
numericamente molto inferiore. A Reggio Emilia c’è tutto questo. E' perlopiù la criminalità straniera che si occupa della tratta
di esseri umani e questo ha favorito un forte intreccio fra criminalità di origine diversa, che stanno fianco a fianco, a volte
collaborano, si può dire che convivono, anche in piccoli territori come quello della nostra città. Le varie organizzazioni
criminali seppure aventi lo stesso obiettivo, lo sfruttamento della prostituzione, utilizzano diverse modalità per metterlo in
pratica a causa delle diverse culture di provenienza che influenzano gli atteggiamenti. Una novità che le accomuna tutte c'è:
la donna sta definendo il suo ruolo come sfruttatrice. Con gli anni, la donna ha assunto un ruolo all'interno di queste
organizzazioni diventando “madame”, “caffettine” e “maman”; sono ex prostitute che si trovano ad adempiere a questo
compito ed è purtroppo difficile capire se sono costrette o meno. Ora, puntiamo la lente di ingrandimento sulle
organizzazioni criminali delle nazioni sopra citate.
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Prostituzione cinese
Relativamente nuova in Italia, così come a Reggio Emilia sta prendendo sempre più piede. L'organizzazione criminale
cinese non ha una struttura gerarchica come quella italiana, poiché c'è una “mancanza di vincolo associativo stabile
nel tempo”: il gruppo criminale è un insieme di gruppi migranti che si riuniscono per partecipare ad una svariata serie
di reati. Questi gruppi sparsi in tutto il nord Italia, stabiliscono contatti per reperire donne da destinare all'attività del
meretricio a Reggio Emilia (come in altre città italiane). Gli affiliati al gruppo criminale sono tantissimi e questo per
sostituire quelli che incappano nelle maglie della giustizia. Come tutti i fenomeni sociali, la prostituzione cinese, è in
continuo cambiamento e le novità cinesi sono prettamente tre:
• Apertura di attività come centri massaggi, parrucchieri solarium, centri estetici che in realtà offrono servizi ben diversi
da quelli pubblicizzati.
• Prostituzione indoor (dentro casa) che improvvisamente scende in strada. Da circa un anno e mezzo in alcuni
quartieri di Reggio, si possono vedere donne cinesi che scendono in strada per incontrare il cliente e quindi portarlo in
appartamento. La clientela è sempre più composta da italiani di mezza età.
• Dietro l’organizzazione un sistema perfetto: dei veri e propri call center dove lavorano ragazze assunte per la sola
competenza di parlare l'italiano, che smistano le chiamate in tutt' Italia, dando tutte le informazioni necessarie come
luogo, ora, “servizi” al cliente, un'organizzazione tutta al femminile.
L'età media delle donne che si prostituiscono è per lo più tra la quarantina e la cinquantina poiché dopo aver lasciato il
mondo del tessile a causa della diminuzione di capacità, come quella visiva, che permettevano loro di entrare in quel
settore, entrano nel mondo della prostituzione. In queste organizzazioni, sempre a livello territoriale reggiano, sono
presenti due tipi di figure maschili: i mariti che accompagnano le donne e spendono nel gioco d'azzardo i soldi
guadagnati dalle mogli durante il loro orario lavorativo e poi ci sono anche degli uomini italiani. Sembrano clienti ma la
maggior parte delle volte si innamorano delle donne e le trattano come se fossero i loro “ angeli custodi”. In pratica
fungono da filtro tra le ragazze e la società italiana (gli procurano alloggi, ect…) acquistando così molto potere su di
loro. Purtroppo, a parte sapere che i soldi vengono giocati dai mariti o per l'acquisto di appartamenti/attività, si sa ben
poco dove finiscono. Ad occhi esterni la prostituzione cinese risulta poco visibile perché consumata indoor. E' ancora
da capire il ruolo delle donne e degli uomini nell'organizzazione dello sfruttamento alla prostituzione.
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Prostituzione Romena
Negli ultimi anni possiamo trovare una forte presenza di prostitute romene nelle strade di Reggio Emilia; questa entrata
è avvenuta in concomitanza con la fine della prostituzione albanese. La criminalità albanese seppure molto giovane ha
dato vita ad alcuni gruppi criminali, alcuni di stampo mafioso; è un'organizzazione molto solida e questo poiché
trasmette agli affiliati la propria tradizione conosciuta come “Kanun”. Per anni, attraverso una forte violenza fisica e
psicologica, ha dominato il mondo della prostituzione e le ragazze venivano rapite e costrette a prostituirsi. In alcune
città italiane ha eliminato la concorrenza nigeriana. Sono gli albanesi che tengono tutt'ora le fila dei gruppi criminali nell‘
Europa dell' Est. Anche se da pochi anni le ragazze albanesi non popolano più le strade reggiane, l'organizzazione
esercita un controllo sul territorio, appunto di stampo mafioso, pretendendo il pagamento di una tassa come se fosse
quella comunale, per l'occupazione del suolo pubblico, una sorta di “pizzo” di circa 30 euro al giorno a piazzola per ogni
ragazza. In sostituzione alle ragazze albanesi, troviamo per strada le romene poiché “consenzienti” e quindi non
pericolose dal punto di vista della denuncia.
Le ragazze romene, tutte giovanissime, alcune sono anche minorenni, vengono convinte dai propri fidanzati a venire in
Italia a prostituirsi, per migliorare la loro situazione economica; queste ragazze vengono da paesi lontani dalla capitale
nei quali la povertà è a livelli altissimi poiché lo stipendio non è proporzionale al costo della vita. Ad aggravare questa
necessità economica c'è una bassa scolarizzazione, una situazione famigliare disgregata e instabile, la problematica
dell'abuso d'alcool è ad alti livelli, ed una cultura che pone le donne in sostanziale e totale dipendenza/sottomissione nei
confronti del proprio uomo. Nasce così lo “sfruttamento di coppia”. Le ragazze partono dal loro Paese con il fidanzato,
consapevoli del lavoro che andranno a svolgere. Sono inevitabilmente inserite all'interno di un’organizzazione criminale
più ampia con la quale instaurano una trattativa di “bisogni” e dalla quale difficilmente riescono ad allontanarsi grazie al
guadagno consistente e veloce da 3.000 euro alla settimana (prestazione: 30/40 euro in strada e 50/60 euro in
appartamento) e a causa dalla dipendenza affettiva. Cade così lo stereotipo “dell'orco cattivo”, l'uomo che rapisce la
donna per obbligarla con la violenza a prostituirsi. A causa di questa organizzazione “di coppia”, la questura non può
trattare il caso come se fosse un'organizzazione criminale, dato che l'art. 416 del codice penale definisce “associazione
criminale quando 3 o più persone si uniscono per delinquere”.
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Prostituzione Nigeriana
L'organizzazione criminale nigeriana è più ampia e complessa, solo le distanze geografiche richiedono la capacità di
relazionarsi con più paesi. Le ragazze nigeriane vengono reperite nel loro paese da uomini ma una volta entrate in Italia
chi si occuperà di loro saranno donne le “madame”, donne più mature di età e di esperienza. Le promesse che vengono
fatte a queste ragazze prima di partire sono assolutamente allettanti: biglietto aereo, visto, passaporto e le spese per la
prima sistemazione e in cambio le donne firmano un documento per certificare il debito che va dai 50 ai 90 mila euro, e
che dovranno ripagare con il lavoro sulla strada. Chi le recluta è vicino al loro ambiente famigliare, conosce le condizioni di
difficoltà economica e culturale e sfrutta queste conoscenze per convincere le donne ad imbarcarsi in questo viaggio.
Donne che hanno consapevolezza di quello che verranno a fare ma non hanno idea delle condizioni di sfruttamento che si
troveranno a subire. Gli vengono ritirati i documenti, private della loro libertà, minacciate, vengono usate contro di loro le
loro credenze per ottenere l'omertà: i riti vodoo. Queste donne vengono così comprate, diventano la merce, perché ormai
è solo una questione di soldi, un investimento che deve fruttare, lavorando 7 giorni su 7, d'estate come d'inverno.
L'organizzazione criminale nigeriana dall'Italia mantiene vivi i rapporti con la madrepatria sia per reperire nuove donne sia
perché da li partono altri traffici illeciti che si vengono a contaminare con quelli della tratta umana. Per lo più si tratta di
droga. Spesso alle donne che arrivano in Italia per prostituirsi vengono fatti trasportare ovuli contenenti droga, allo stesso
modo i proventi della prostituzione vengono reinvestiti nel traffico internazionale di stupefacenti.
Prostituzione Sud Americana
A Reggio Emilia c'è una presenza consistente di prostitute dal Sud America. Negli ultimi due anni, soprattutto negli
appartamenti ci sono colombiane, brasiliane, ecuadoregne, uruguaiane, domenicane, cubane; mentre in strada si vedono:
ecuadoregne, peruviane e raramente brasiliane. Queste sono donne per lo più autonome ma per venire qua hanno avuto
bisogno di appoggiarsi alle organizzazioni, arrivano con il visto turistico, che pagano in meno di un anno. Hanno più
strumenti, si regolarizzano con più frequenza anche se si spostano spesso per sfuggire ai controlli.
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Dal Sud America, per prostituirsi, arrivano anche gli uomini. Arrivano come omosessuali, ma dal momento che di
omosessuali c'è scarsa richiesta, quasi tutti cambiano identità sessuale diventando transessuali. I transessuali hanno
un'altissima richiesta sulla strada, soprattutto se “non si sono operati”, acquisendo caratteristiche fisiche di entrambi i
sessi, rinunciando alla loro identità sessuale per lavorare. Le transessuali sono vincolate dalle “caffettine” (le “caffettine”
sono transessuali che si sono prostituite in Europa a loro volta e non vengono percepite come sfruttatrici, anzi sono come
“amiche” che ti aiutano ad intraprendere la strada della prostituzione) che le selezionano dal Brasile, offrono loro gli
strumenti/ mezzi per arrivare in Italia ad un costo di 4/6mila euro, debito che viene saldato con il lavoro in strada. Saldato
il debito, il guadagno dalla prostituzione continuerà ad essere diviso al 50% fra transessuale e “caffettine”.
Purtroppo le connessioni tra le mafie straniere e quelle italiane sono difficili da dimostrare, quello che è sicuro è che le
prime non avrebbero potuto ramificarsi senza il “nulla osta” delle organizzazioni autoctone. Inoltre basta guardarsi
attorno: la maggior parte dei Night sono di proprietà di italiani; siamo così sicuri che li non succeda proprio niente al di là
della legge?
In conclusione, essendo un fenomeno sociale, la prostitzione ha avuto notevoli cambiamenti con il tempo. Un esempio lo
è il cambiamento di violenza esercitato sulle donne: da fisico a psicologico; e questo perché quello fisico era troppo
visibile, riconoscibile da parte delle forze dell'ordine. E' a causa di quest'ultima violenza che è così difficile verificare la
consapevolezza e la loro approvazione per questo lavoro. Che queste donne posseggano o possano esercitare i proprio
diritti è escluso, che sia un vero e proprio sfruttamento non è del tutto vero... forse si può chiamare : obbligo di necessità.
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Leggi e prostituzione:
evoluzione dal dopoguerra
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“La prostituzione è il mestiere più antico del mondo”: questa affermazione è frequentemente utilizzata come giustificazione a
supporto sia da chi ha interesse a mantenere lo stato attuale delle cose sia da chi, pur deplorando gli aspetti negativi, non ha
voglia di approfondire più di tanto e ritiene comunque che sia un fenomeno inevitabile.
La prostituzione e’ un campo molto vasto, lo sfruttamento e la tratta (oggetto della nostra ricerca) ne sono un aspetto, ma
esistono anche molte situazioni in cui appare come libera scelta, altre dove il confine tra le due e’ molto labile, tanti sono gli
interrogativi che sorgono:
• Le legislazioni attuali sono adeguate riguardo al contrasto degli aspetti criminosi/sostegno alle vittime, ovvero riguardo al
riconoscimento della prostituzione come professione per libera scelta? come interagiscono con opinione pubblica, religioni,
costumi?
• Quante analogie col passato, anche nelle “più moderne e civili” società di oggi ci sono riguardo alle varie forme di
sfruttamento, sia fisico che lesivo della libertà e dignità altrui?
• Qual’è il confine fra libera scelta e costrizione di chi decide di prostituirsi?
Abbiamo provato ad analizzare un pezzo di storia italiana e dato un breve sguardo all’attuale situazione negli altri paesi.
La principale legge sui cui ancora oggi si basa il nostro ordinamento è la legge n. 75 del 20 febbraio 1958, meglio nota come
Legge Merlin, dal nome della senatrice socialista che fu la principale creatrice e sostenitrice.
Questa legge stabiliva: la chiusura delle case di tolleranza, l'abolizione della regolamentazione statale in vigore e
l'introduzione di una serie di reati volti a contrastare attività illecite connesse alla prostituzione; prostituirsi
liberamente non era più reato, ma era punibile il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione altrui. Sei
mesi dopo la pubblicazione della legge vennero chiusi oltre 560 postriboli su tutto il territorio nazionale. Prima di questa
legge le prostitute potevano esercitare legalmente solo all'interno delle case di tolleranza, le condizioni però erano di
grave sfruttamento, i massacranti ritmi di lavoro, le precarie condizioni igienico/sanitarie ed alimentari, ed i controlli statali
scarsi ed insufficienti comportavano la morte di molte giovani per malattie veneree. Il guadagno delle case era spartito
quasi tutto tra i gestori, lo Stato ed i suoi funzionari corrotti. Per le prostitute le possibilità di cambiare vita erano
scarsissime, in basa alla legge il loro “status” era registrato per sempre e ciò rendeva quasi impossibile trovare un altro
lavoro. L'opinione pubblica di allora era in buona parte favorevole a questo sistema per la volontà di porre un divario tra le
ragazze destinate a diventare spose e madri e quelle destinate alla prostituzione.
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La nuova legge creò nella società una forte spaccatura tra i suoi sostenitori e molti altri totalmente contrari. L'ostilità
verso la Merlin dei tenutari di case di tolleranza, e di tutti coloro che si opponevano alla sua proposta di legge, giunse
al punto di costringerla alla semi-clandestinità, dopo che ebbe ricevuto minacce di morte.
Per effetto della legge Merlin la diffusione della prostituzione nelle strade è aumentata notevolmente e questo
ovviamente ha provocato disagi e malumori nell’opinione pubblica; di fatto, “la strada” ha anche consentito ai nuovi
“protettori/sfruttatori” di meglio eludere il reato di favoreggiamento e si è creata nuova clandestinità soprattutto nei luoghi
chiusi. Negli anni novanta si è poi sviluppato il fenomeno della prostituzione legata all'immigrazione clandestina, esploso
poi negli ultimi anni tanto che le prostitute in strada oggi sono nella quasi totalità straniere. A queste si assomma poi la
c.d “prostituzione invisibile” (in appartamento). Il traffico di donne, spesso anche minorenni, e i lauti guadagni del
loro sfruttamento, è passato sotto il controllo delle mafie italiane e straniere dei loro Paesi d'origine, sempre più
presenti queste ultime sul territorio italiano.
Nonostante il dibattito politico venne ripreso già dagli ‘80 per introdurre modifiche che adeguassero la legge al mutare
degli eventi, poco è stato fatto e ad oggi la normativa è giudicata un po’ da tutti inadeguata. Dei passi avanti sono stati il
Decreto Legge n. 286/98 (introduzione art. 18 del Testo Unico sull’Immigrazione “soggiorno x motivi di
protezione sociale”) e la Legge 228 del 2003 (conosciuta come “misure contro la tratta di persone”), che hanno
meglio consentito alle donne vittime di prostituzione coatta la possibilità di accedere a programmi di protezione ed hanno
favorito la creazione e l’implementazione di strutture sociali volte alla loro assistenza e reinserimento.
Una visione allargata
Lo spaccato precedente dell’Italia dal dopoguerra ad oggi già mette in campo una serie di spunti di riflessione, per
completare il quadro aggiungiamo una breve panoramica sulla situazione al di fuori dei nostri confini.
Lo status giuridico della prostituzione varia da Paese a Paese, dall'essere perfettamente legale fino all'essere punibile
con la pena di morte. Il diverso modo di porsi si può riassumere in tre modelli legislativi fondamentali:
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Modello proibizionista: adottato dalla maggioranza degli stati, rende la prostituzione illegale. In molti di questi è punita la
condotta di chi si prostituisce, ma non quella del "cliente", in altri sono puniti entrambi. Sono anche punite tutte le attività di
contorno come lo sfruttamento, l'induzione, il favoreggiamento. La sanzione prevista varia a seconda dei paesi: in certi
Paesi islamici, che adottano la Sharia, si giunge alla pena di morte, in alcuni è un crimine punibile con la reclusione, in altri
solo con sanzioni amministrative. Una variante di questo modello è il c.d Modello Neo-proibizionista adottato nell'ultimo
decennio in Svezia, Norvegia e Islanda, nel quale è reato acquistare prestazioni sessuali a pagamento e tutte le attività di
contorno, ma non è punito l'offrire prestazioni sessuali a pagamento; si punisce il cliente, ma non la prostituta, sull'assunto
che questa sia la vittima del mercato della prostituzione e non l'artefice
Modello abolizionista considera la prostituzione come un'attività illecita ma al tempo stesso non considera reato il
prostituirsi a pagamento, così come l'acquisto di prestazioni sessuali. Sono invece punite penalmente le attività
tipicamente associate, come lo sfruttamento. Questo modello legislativo, teso ad estirpare il fenomeno della prostituzione
evitando la repressione penale, si è affermato nel dibattito giuridico nel secondo dopoguerra. La "Convenzione per la
repressione della tratta degli esseri umani e dello sfruttamento della prostituzione” adottata dall’ONU il 2.12.49 è
visibilmente ispirata alle politiche "abolizioniste", così come in Italia la Legge Merlin.
Modello regolamentarista (esempi molto conosciuti in Europa sono Paesi Bassi e Germania) considera la prostituzione
come un'attività del tutto lecita, liberamente esercitabile, ne regolamenta attentamente le forme di esercizio per evitare
fenomeni di sfruttamento o costrizione e le prostitute pagano regolarmente le tasse e sono sindacalizzate. Resta vietata,
ovviamente, la prostituzione minorile ed è pesantemente punita sul piano penale qualsiasi forma di costrizione. Sebbene
questo modello si presenti più in linea coi più recenti trattati internazionali (incentrati più sulla repressione di fenomeni
come il “trafficking” che sul vietare la prostituzione in quanto tale) i paesi europei ispirati a questo indirizzo legislativo si
stanno trovando in seria difficoltà a mantenere il controllo della situazione, causa l’esplosione del fenomeno della
prostituzione e nuovi racket legati all’immigrazione clandestina degli ultimi anni.
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Risposte locali: Progetto Rosemary
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Con “Oltre la strada” la Regione Emilia-Romagna dal 1996 promuove e coordina un articolato sistema di interventi, realizzati
dagli enti locali e rivolti a vittime di grave sfruttamento e riduzione in schiavitù. I programmi individualizzati di prima assistenza
(art. 13 Legge 228/2003) e quelli di protezione sociale (art. 18 D. Lgs. 286/98) rappresentano il cuore del progetto.
In Emilia Romagna dal gennaio 1999 al dicembre 2011 sono 3.566 i casi trattati all’interno dei progetti di assistenza e tutela
dedicati a persone vittime di grave sfruttamento e tratta. Inoltre sono stati ottenuti 3.500 permessi di soggiorno, 191 rimpatri,
7.263 interventi di reinserimento socio-lavorativo (di cui: 2.883 inserimenti lavorativi, 635 borse lavoro, 643 corsi di formazione
professionale, 2.003 corsi di alfabetizzazione, 1.099 percorsi di orientamento al lavoro).
Nell'ambito di questo progetto, il comune di Reggio Emilia ha attivato nel 1997 il “PROGETTO ROSEMARY”, nato con il
duplice intento:
• conoscere più approfonditamente la realtà delle persone vittime di tratta e sfruttamento (sessuale e lavorativo) in particolare
delle donne che lavorano sulla strada sul territorio reggiano e monitorare il fenomeno (presenze, provenienze…);
• avere un contatto diretto con donne e transessuali coinvolte nel fenomeno della tratta e della prostituzione, entrare in dialogo
con loro, fornire a ciascuna informazioni e sostegno, in particolare tramite l’accompagnamento ai servizi, la consulenza e, per
chi sceglie di uscire dalla coercizione, la costruzione insieme di percorsi alternativi alla strada e che conducano all’autonomia,
tramite l’inserimento socio-lavorativo o il rientro a casa.
Nel corso degli ultimi anni è cresciuto purtroppo anche sul nostro territorio il fenomeno della “prostituzione invisibile” in case,
appartamenti, night. Per queste situazioni è stato creato all'interno di “Rosemary” un nuovo progetto: il contatto viene stabilito
telefonicamente attraverso gli annunci pubblicitari sui giornali e internet, e sta già dando buoni risultati.
Il gruppo è composto da:
• Comune di Reggio Emilia (Coordinamento e attività dell'Unità di Strada)
• Associazione Rabbunì (in convenzione per la gestione dei percorsi di accoglienza)
• Azienda Usl (in particolare il Centro per la Salute della Famiglia Straniera)
• Forze di Polizia
• Collaborazioni con: Caritas, Cooperative Sociali e altre comunità disponibili all'accoglienza.
Dalle analisi è emerso che in alcuni casi tratta e prostituzione sono un unico percorso consequenziale, mentre in altri casi la
prostituzione sia un’attività che le persone intraprendono una volta arrivate qua anche solo con un visto turistico. Vittime di tratta
possono essere anche minori che arrivano attraverso agenzie e vengono poi smistati a Bologna. I minori intercettati vengono
presi in carico in collaborazione con il servizio sociale e l’OSEA.
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Testimonianze
Probabilmente vi sono in Italia 80-100.000 persone che si prostituiscono, uomini, donne e transessuali, si definiscono e si
possono definire sex workers, lavoratori/lavoratrici del sesso. Ci rimandano un’idea di lavoro, prestazione contro denaro per
libera scelta. Se è lavoro dovrebbe essere corredato di diritti, tutelato nelle forme, come si è tentato di fare in altri paesi
europei. Ma come si può parlare di lavoro di fronte a situazioni di sfruttamento, di schiavitù, di tratta basati su un traffico
internazionale di persone?
«Io proprio non volevo scrivere libri e andare in giro di città in città a presentarli… Vendevo frutta e verdura con mia madre
a Benin City e desideravo venderla in Europa, dove, con una certa dose di ingenuità, lo riconosco, credevo che avrei potuto
guadagnare davvero bene, abbastanza per migliorare la qualità della mia vita e quella della mia famiglia… Andavo a casa
dei pochi che possedevano una tv e lì è cominciato il nostro inferno… Dentro quella scatola magica vedevamo tutti i nostri
sogni»
Così scrive Isoke Aikpitanyi, nata a Benin City in Nigeria, arrivata in Italia nel 2000 a soli 20 anni per lavorare come
commessa, ma in realtà ingannata e resa schiava dalle mafie nigeriana e italiana. Liberatasi dall’oppressione, insieme al
suo compagno Claudio Magnabosco (ex-cliente che l’ha aiutata ad uscire dalla rete) ha scritto il libro “Akara-Ogun e la
ragazza di Benin City” e avviato l’omonimo progetto divenuto poi associazione, al fine di dare un aiuto concreto alle
migliaia di ragazze ancora vittime della tratta. Costante è la sua presenza/testimonianza negli incontri dedicati a questo
tema, ed ha ricevuto numerosi premi per il suo impegno; recentemente ha pubblicato il libro-inchiesta “500 storie vere”
realizzato, oltre che con l’aiuto di ex clienti ed altre ex vittime, coi risultati di una ricerca condotta in collaborazione col
Dipartimento delle Pari Opportunità. Parte della ricerca è stata effettuata tramite un questionario sottoposto a circa 1000
ragazze, cui 500 hanno risposto.
«Avevamo tutte e tutti già avuto contatto con gli occidentali, i bianchi (ohìbo), li chiamiamo così, e la tv ci dimostrava che
loro venivano dal mondo ricco dove tutti, ma proprio tutti, hanno le cose essenziali… Alcuni avevano cominciato ad offrire
alle ragazze più giovani e belle la possibilità di raggiungere l’Europa e un numero sempre maggiore di ragazze
effettivamente giunte in Europa mandava i soldi a casa e la qualità della vita delle loro famiglie migliorava. Non ci
chiedevamo come vivevano quelle ragazze…»
Questi “bianchi” sono chiamati anche “Italos” e si occupano della tratta verso l’Italia: vivono nei quartieri eleganti di Benin
City e sono rispettati come dei “manager”, perché purtroppo con essi molti nigeriani collaborano per migliorare la propria
condizione economica. E’ una mafia potente e violenta, la stessa che traffica in organi e armi.
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Dai racconti traspare che le offerte degli Italos rappresentano per le famiglie un investimento. Significa che se va bene c’è da
mangiare per tutti, si possono mandare i figli a scuola, comprare una casa e magari pure la macchina. «Quando arrivano
certe notizie dall’Europa, finché i soldi arrivano le famiglie stentano a credere, o fanno finta di non credere, ma se la ragazza
viene rimpatriata, e spesso torna in condizioni disumane, viene scacciata perché la colpa è sua, non è stata brava, non ha
saputo utilizzare l’opportunità… alcune, in verità poche, tornavano piene di soldi ed allora erano rispettate come piccole
regine.»
Non tutte le ragazze partono volontariamente seppur inconsapevoli, alcune sono costrette con minacce e anche violenza
fisica dai propri familiari o dal marito.
«Ci sono associazioni e ONG che operano in questo settore anche in Nigeria. Le informazioni sul problema vengono date
solo in alcune zone o nella capitale e non tutte le ragazze riescono a sapere. Poi ci sono ragazze molto determinate nel voler
partire che vengono imbrogliate e quindi non sono preparate a ciò che potrebbe capitare loro e non hanno poi alcuna via
d’uscita dalla situazione».
“Pipeline (oleodotto) dove scorrono esseri umani al posto del petrolio”, così è definito il business della tratta dalla Nigeria.
Solo una minoranza giunge in aereo; per la maggior parte il viaggio può durare mesi se non anni, attraverso il deserto a piedi
o su camion sovraccarichi e infine la traversata sui “barconi della speranza”: durante questo duro percorso molte muoiono o
subiscono violenze e stupri. Per chi riesce infine ad arrivare in Europa, ci sono altre estenuanti attese in luoghi chiusi “sicuri”,
in attesa che i trafficanti decidano a loro insaputa la destinazione finale.
«Quando toccò a me ero pronta a non farmi troppe domande e ad affrontare l’avventura… Io proprio non volevo scrivere libri
ma quello che mi è capitato qualcuno doveva pur raccontarlo ed è toccato a me farlo perché ho visto come un sogno si può
trasformare in incubo… Sono stata una vittima della tratta, una schiava… Ad un certo punto mi sono ribellata ai miei
sfruttatori e sono stata quasi uccisa… Punirmi e uccidermi sarebbe servito ai trafficanti per dare una lezione a tutte: non si
tradiscono le maman e i suoi amici, non si sfugge al mercato».
Il forte senso di religiosità, mischiato a superstizione e magia voodoo è manipolato a proprio favore dai trafficanti per
esercitare un forte potere psicologico sulle ragazze: «Viene chiesto alle ragazze di giurare su Mami Wata (divinità africana
associata alla Madonna cristiana e simbolo di prosperità) che rispetteranno il patto del debito, e questo per loro rappresenta
un giuramento inviolabile». Con queste parole Isoke ad un incontro spiega il significato del titolo del film-documentario “Le
figlie di Mami Wata”.
«Le chiese nere sono spesso direttamente o indirettamente corresponsabili del traffico: ci sono finti pastori, cui ragazze
disperate si rivolgono, che indicano loro come unica via di uscita la preghiera e la rassegnazione alla volontà delle maman e
dei trafficanti».
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Queste alcune cifre: ventimila vittime di tratta il cui numero aumenta mentre si abbassa l’età; diecimila maman; sette
milioni di clienti; il debito da riscattare pari a centomila euro “trattabili”; 500 le donne uccise negli ultimi due anni; profitto in
Italia pari a dieci milioni di euro l’anno.
Dai questionari cui hanno risposto le ragazze nel suo ultimo libro, è emerso che la maggior parte di loro quando è partita
non sapeva che avrebbe dovuto prostituirsi, non conosce i servizi anti-tratta e soprattutto non denuncia perché teme il
rimpatrio.
«L’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione prevede la denuncia per accedere al programma di protezione, ma le
ragazze non si sentono garantite perché le pene per chi sfrutta sono lievi e soprattutto brevi e temono le ritorsioni nei
confronti soprattutto delle famiglie in Africa. Sono gli stessi motivi per cui non vanno al pronto soccorso nemmeno in punto
di morte».
Nel libro sono anche raccolte 100 storie di vittime di violenze e stupri. Stupri quotidiani di bianchi, di gruppo, e spesso
consumati dagli stessi connazionali che vivono in Italia e «che le schifano perché si vendono ai bianchi». I connazionali
vengono assoldati dalle maman per picchiare chi si ribella o per “insegnare” alle più piccole come si fa a stare sul
marciapiede.
C’è la storia di Erabor, minorenne seviziata dalla sua maman che la ha letteralmente scalpata; di Judith, 14 anni, lasciata
sull’asfalto più morta che viva alla sua prima sera di lavoro; di Prudence, 20 anni, analfabeta, che non vuole ricoverarsi,
anche se ha l’utero perforato, per paura del rimpatrio; di Tessie costretta a bere acido muriatico perché non voleva più
saperne del marciapiede. A Sandra invece hanno strappato le unghia della mano. C’è Joy che dopo pochi giorni di
matrimonio fu costretta a partire per l’ Italia dallo stesso marito e dal pastore che li aveva sposati e quando si è ribellata le
è stato gettato in faccia un liquido corrosivo. E c’è Joan che è diventata una maman perché non riusciva a soddisfare le
richieste continue della sua famiglia. Oggi è in prigione. Poi ci sono le ragazzine, 13, 14 anni, vergini vendute agli Italos
dalle famiglie.
Dall’indagine è emersa anche la preoccupante crescita del sommerso: «La maggior parte delle ragazze non si trova più in
strada, ma nei luoghi chiusi e locali notturni… Nella realtà sommersa e nascosta, laddove gli operatori e le autorità
tradizionali non riescono ad arrivare, avviene di tutto. E’ un problema gravissimo poiché nel sommerso non è che le
ragazze sono costrette “soltanto” a prostituirsi in luoghi chiusi invece che in strada, ma sono schiavizzate e soggiogate e
spesso massacrate, violate, uccise».
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In aumento anche il numero delle “maman” ex-vittime che, induritesi da tanta sofferenza, non riescono a vedere altra
possibilità di uscita dalla loro situazione.
«Un dato molto preoccupante anche perché mentre la legge punisce la clandestinità, ci ritroviamo un esercito di sfruttatori che
non sono clandestini, anzi alcuni hanno già ottenuto nazionalità italiana, conoscono bene le leggi e sanno tutelarsi, e si
presentano alle vittime come amici che cercano di dare una mano…..Con un numero così elevato di maman e con un sistema
di controllo allargato delle vittime, di cui sono complici le comunità nigeriane, le associazioni e le chiese “nere”, per ogni vittima
della tratta uscire dalla sottomissione è sempre più difficile, come è difficile colpire le maman»
Nella catena delle schiave/i del terzo millennio il consumatore/cliente è certamente uno degli anelli più saldi, perché sostiene
ed alimenta l’industria del sesso. Vi sono clienti di tutte le età ed estrazioni sociali. Nonostante l’apparente emancipazione dei
paesi più “moderni” nelle relazioni di coppia, sono ancora tanti coloro che preferiscono scegliere il sesso a pagamento perché
il rapporto con “l’altro” non gli interessa, non esiste, è solo un oggetto su cui sfogare le proprie frustrazioni.
”Tanti uomini che ho incontrato mi hanno chiesto perché facessi quella vita. Ho risposto chiedendo perché mi venissero a
cercare”. racconta Nancy ex-vittima
Ma è proprio sulla responsabilizzazione dei “clienti” che Isoke individua una opportunità di migliorare la situazione :
«Quella dei clienti è sicuramente una realtà sommersa perché tutti ne parlano, ma nessuno la indaga davvero e, soprattutto,
nessuno la riconosce come una potenziale risorsa reale contro la tratta…»
«Ci sono gruppi di ex-clienti che danno una mano accanto alle associazioni per le vittime della tratta e per noi questa è una
risorsa importante, anche perché le ragazze in strada ora sono di meno; si trovano perlopiù in case chiuse, quindi è solo con
l’aiuto dei clienti che possiamo trovarle e aiutarle. Ecco perché si cerca di sensibilizzare gli uomini sul problema del sesso a
pagamento dando loro le informazioni e indicando luoghi e associazioni dove farsi aiutare a superare questa dipendenza. » (1)
«In questo libro raccolgo la voce di tante altre Isoke che cercano una via di uscita, quasi sempre senza trovarla. Ma la via
d’uscita c’è e, per quel che posso, la indico ad altre » questo è il suo messaggio.
Tutti i brani inseriti in corsivo sono stati riportati dal libro di Isoke Aikpitanyi “500 storie vere – sulla tratta delle ragazze africane in Italia” Edizione
Ediesse marzo 2011 ad eccezione di:
•Intervista a Isoke Aikpitanyi (Alberto Colaiacomo – rivista “Immigrazione Oggi” maggio 2011)
•Incontro con Isoke Aikpitanyi (presentazione brani documentario “Le figlie di Mami-Wata” di Giuseppe Carrisi - rassegna Politicamente Scorretto –
Casalecchio di Reno novembre 2012)
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Sul lavoro
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Caporalato in Italia
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"In queste zone è tornata la schiavitù!“ (un residente della Provincia di Foggia)
La frase che avete appena letto può sembrare eccessiva se si pensa al nostro paese, vi sono, però, delle situazioni nel
"sottobosco" delle nostre città e delle nostre campagne che possono farci cambiare idea.
Diffusione territoriale e settori
Il fenomeno del caporalato in Italia riguarda principalmente: agricoltura, edilizia e, in misura minore, lavorazioni
agroindustriali, trasporti e assistenza (badanti); secondo delle stime della CGIL, in Italia vi sono almeno 550.000 persone
che lavorano in nero sotto ricatto o sotto la minaccia dei c.d "caporali", di questi circa 400.000 sono impiegati nell'agricoltura,
gli altri 150.000 nell'edilizia. Si stima che degli impiegati nell'agricoltura circa 60.000 vivono in condizioni di assoluto degrado,
senza alcuna assistenza sanitaria e in strutture fatiscenti. L'organizzazione "Medici senza frontiere", la quale si occupa
spesso delle persone sottoposte a grave sfruttamento, ha dichiarato che il 73% di questi soffre di patologie croniche, il 64%
non ha accesso all'acqua potabile o deve percorrere lunghi tratti per ottenerla, il 65 % vive in case abbandonate e il 10% in
tende.
La diffusione del fenomeno non è uguale in tutto il paese, per quanto riguarda l'agricoltura al sud circa il 90% dei braccianti è
in condizioni di lavoro nero o sfruttato, al centro è del 50% ed al nord del 30%.
Al sud si possono anche individuare dei territori dove il fenomeno è particolarmente diffuso: in Sicilia la zona di Siracusa , in
Calabria la zona di Rosarno, salendo in Campania il casertano, in Basilicata dalle parti di Palazzo San Gervasio e in Puglia
la zona di Foggia e di Gallipoli. Molti sfruttati frequentano tutte le zone appena indicate a seconda dei lavori stagionali.
Le inchieste, però, dimostrano come si stiano aprendo "nuovi fronti" al nord, in particolare: il Trentino per la raccolta delle
mele, in Veneto, in Lombardia (raccolta dei meloni nel mantovano, edilizia a Milano, vendemmia in Franciacorta), in EmiliaRomagna (modenese e cesenate per la raccolta della frutta) e in Liguria.
Le vittime sono soprattutto immigrati, non solo quelli di provenienza extra-europea ma anche cittadini comunitari, a causa
delle loro precarie condizioni economiche e della bassa conoscenza delle normative italiane, costoro vengono più facilmente
coinvolti nel giro dello sfruttamento. L'attuale crisi economica, però, ha mostrato come anche molti italiani siano sottoposti a
pratiche di caporalato o simili, è un fenomeno recente e riguarda in particolar modo gli ultracinquantenni e i giovani
disoccupati.
Nei primi mesi del 2012, otto rinvii a giudizio nei confronti di quattro imprenditori e quattro cittadini marocchini, ed alcune
condanne per patteggiamento emesse dal tribunale di Albenga (Genova), hanno dimostrato come un gruppo criminale
organizzasse l'arrivo di soggetti extra-comunitari dotati di richiesta amministrativa per il lavoro subordinato stagionale a
tempo determinato, mentre in realtà una volta giunti in Italia subivano pratiche di caporalato nel settore agricolo
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Il ruolo delle mafie
Degli interessi criminali che le mafie hanno sullo sfruttamento della manodopera se ne parla poco, eppure, il loro ruolo è di
primissimo piano. Prima di tutto, il caporalato è strettamente connesso con l'immigrazione, clandestina o meno, e spesso
questi spostamenti sono diretti proprio dal crimine organizzato; è il caso dei cinesi sfruttati nei laboratori tessili, le inchieste
hanno dimostrato che spesso è la mafia cinese a gestire sia i flussi migratori che i laboratori; non vi sono ancora certezze a
riguardo ma si sospetta che l'immigrazione di provenienza nord-africana sia condizionata, almeno in parte, da accordi tra Cosa
nostra e gruppi criminali nord-africani.
Altro aspetto importante che val la pena di sottolineare è che il rapporto mafia-caporalato non è un fenomeno recente, è
vecchio quanto la mafia stessa, i primi "picciotti", i primi "uomini d'onore" erano proprio dei caporali assunti dai grandi
proprietari terrieri per sfruttare i poverissimi contadini del meridione.
Il ruolo delle mafie non si ferma alla sola organizzazione dell'immigrazione, coloro i quali gestiscono i turni di lavoro, che si
occupano di distribuire le paghe ( trattenendo sempre delle somme, in media 5 euro per ogni lavoratore) e di “soffocare” i
tentativi di ribellione, sono anch'essi membri del crimine organizzato, i famigerati "caporali".
L' attività di sfruttamento della manodopera può assumere diverse forme:
* forma classica; i caporali, d'accordo con i datori di lavoro, provvedono a contattare propri connazionali in cerca di lavoro, si
occupano della loro "raccolta", in diverse città e paesi, dal nord al sud, si possono vedere, di primo mattino, gruppetti di
persone che attendono il caporale che con il camioncino li porti presso il luogo di lavoro. Negli ultimi anni si è notato come
siano diminuiti i caporali italiani e aumentati quelli stranieri, alcuni dei quali hanno avuto in precedenza il ruolo di sfruttati e poi
sono divenuti sfruttatori
* false partite IVA; il datore di lavoro costringe il proprio dipendente ad aprire una partita IVA, ponendolo spesso di fronte al
ricatto di perdere il posto di lavoro, a questo punto il soggetto risulterà come imprenditore e il rapporto di lavoro come una
collaborazione tra professionisti, mentre in realtà viene sfruttato. Fenomeno aumentato vertiginosamente con la crisi
economica, nella sola Genova in cinque anni (dal 2007 al 2012) si è registrato un raddoppio delle partite IVA, delle quali il 40%
appartengono a cittadini stranieri, risulta molto difficile pensare che in piena recessione tutte queste nuove partite IVA siano
“pulite”
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* false cooperative; le indagini stanno mostrando come le mafie sono protagoniste del fenomeno delle false cooperative nei
confronti delle quali tentano di infiltrarsi come soci, oppure ne sono i creatori. Le false coop vengono intestate a dei
prestanome, spesso anziani o disabili o ancora tossicodipendenti, i quali per tale “servizio” ricevono poche decine di euro. I
lavoratori che vengono assunti risultano soci mentre, in realtà, vengono sfruttati. La sede è quasi sempre fittizia e la loro vita
media 2 anni così, quando arrivano i controlli, risultano in liquidazione. Secondo i dati del 2010, due cooperative su 3 sono
irregolari e il fenomeno riguarda tutta Italia e qualunque settore (trasporti, sanità, pulizie, servizi, informatica, edilizia, etc),
false cooperative sono state scoperte a: Padova, Treviso, Milano, Roma, Gioia Tauro (RC), a Lecco nel 2010 i controlli
risultarono irregolari nell' 82% dei casi, più che al sud. Le mafie sono molto attive in questo settore perché le false coop
permettono di vincere l'assegnazione di appalti, mediante i prezzi al ribasso ottenuti grazie allo sfruttamento, e di riciclare
grosse quantità di denaro.
L'inchiesta denominata "Cento anni di storia", la quale ha visto in appello la condanna di diversi imputati in data 5 luglio 2012,
è nata dal tentativo delle cosche di Gioia Tauro Pirolamalli-Molè di infiltrarsi nella cooperativa "All services", attiva nel settore
portuale della città calabrese. Nel maggio 2012 la Guardia di Finanza di Palermo ha scoperto una enorme frode al fisco
compiuta da un cartello di false cooperative di trasporti, in quell'occasione il Procuratore capo di Palermo Messineo ha
dichiarato come: "l'influenza di Cosa nostra fosse abbastanza consistente" e "sebbene non possiamo dire ci fosse il loro
influsso diretto, l'inerenza con soggetti appartenenti a Cosa nostra è comunque un fatto provato”.
Il caporalato non ha dato vita soltanto a forme di sfruttamento che rasentano la schiavitù (in certi casi si è giunti a turni di
lavoro di 15 ore con pagamenti, se arrivano, che vanno dai 2 ai 5 euro l'ora) ma ha provocato anche la morte di coloro che si
sono ribellati. Emblematica è la storia di Hiso Telaray, immigrato albanese di soli 22 anni, giunge in Italia dove finisce nel giro
del caporalato agricolo in provincia di Brindisi, osa ribellarsi alle terribili condizioni di lavoro e per questo viene ucciso in
mezzo ai campi nel 1991. Il caso di Hiso non è il solo, nel 2006 un vasta operazione, condotta dalla direzione distrettuale
antimafia di Bari, ha portato all'arresto di 16 persone (15 polacchi e 1 italiano) accusati di traffico di esseri umani e riduzione
in schiavitù; il gruppo organizzava l'ingresso in Italia di immigrati polacchi, una volta giunti nei luoghi di lavoro (varie aziende
agricole nel foggiano) venivano costretti a lavorare in condizioni indicibili, sorvegliati con le armi e chi si ribellava subiva dei
pestaggi. Le indagini intendono far luce anche su una serie di misteriose scomparse di immigrati dei quali non si sa più nulla,
molti ipotizzano siano stati uccisi.
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Contrasto al caporalato
Il caporalato, come qualunque attività illegale, per essere efficacemente contrastato necessita di prevenzione e repressione;
dal primo punto di vista si dovrebbe fare molto di più per velocizzare e semplificare le procedure di regolarizzazione degli
immigrati, aumentare i controlli sui luoghi di lavoro (campi, cantieri, fabbriche) e agire sulla disciplina legislativa e fiscale del
rapporto di lavoro.
In tema di repressione è necessario adottare norme più specifiche con sanzioni più dure.
Il contrasto al caporalato deve essere perseguito per ridurre l'enorme danno economico inflitto al Paese ma soprattutto perché
si tratta di una battaglia di civiltà. Finita l’epoca dei conquistadores e dei raccoglitori di cotone, viene da chiedersi come sia
possibile accettare che si debba parlare ancora di schiavi.
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Agricoltura e agroindustria
In tema di sfruttamento del lavoro in agricoltura, inquinato da presenze mafiose, la zona di Reggio Emilia non registra
situazioni critiche o fenomeni preoccupanti, questo grazie soprattutto alla forma di economia agricola che si è sviluppata, una
realtà composta da molte piccole aziende a conduzione familiare e cooperative che rappresentano un freno all'insediamento
della mafia, la quale si insinua molto bene in zone dove ci sono grandi aziende e grandi campagne di raccolta.
Nell'agroindustria la situazione è differente, a Reggio Emilia non sono presenti grossi distretti delle lavorazioni agroindustriali
mentre ne esistono nelle vicine Parma e Modena, rispettivamente per Parmigiano reggiano e carne di maiale. Queste grosse
aziende si affidano molto spesso a cooperative per la macellazione e il facchinaggio le quali, in realtà, sono spesso delle
false-coop dove i lavoratori sono sfruttati con turni massacranti e sottopagati. I segnali inquietanti della presenza della mafia
non mancano, culminati anche in un omicidio nel 2002, il caso di Ismail. Ismail era un operaio tunisino addetto alla
lavorazione carni per una cooperativa di Castelnuovo Rangone (MO), dopo alcuni anni di lavoro si rivolse ai propri datori di
lavoro, ricattandoli, affermando che era in possesso di prove in grado di dimostrare come la ditta fosse coinvolta in un vasto
giro di contraffazione di prosciutti. La sera del 24 luglio 2002 si recò presso San Vito di Poviglio (RE), attirato dai alcuni suoi
colleghi con una scusa, dove venne ucciso con sette colpi di pistola. Per l'omicidio di Ismail sono stati condannati tutti e
quattro gli imputati, tra questi il presidente della cooperativa; durante le indagini si apprese come il vice-presidente della ditta
ricevesse delle telefonate dalla Sicilia e secondo i carabinieri di Mazara del Vallo, la mafia stava tentando di infiltrarsi negli
affari.
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Trasporti e autotrasporti
In questo settore, le aziende inquinate o sotto il controllo della mafia costringono spesso i propri dipendenti a subire atti di
sfruttamento come: tempi di guida estenuanti, ore di sosta non pagate, personale non regolarmente assunto, mancati
versamenti contributivi, buste paga inesistenti e costretti a pagare “l’affitto di cabina” come fosse una casa. Nuovi schiavi
spesso extracomunitari, dell’Est Europa e del Nord Africa. La presenza della mafia in questo settore può nascere dalla
presenza di aziende con sede legale al sud, ma operanti solo qui in zona. Il segnale spia che ci dimostra l’infiltrazione
mafiosa è l’incendio e il danno ai veicoli e alle strutture. E’ doveroso segnalare il caso dei 9 camion incendiati a Reggiolo
nella notte del 7 novembre 2012, facenti parte di un azienda i cui titolari sono originari di Cutro, quello di un autocarro
bruciato a Codemondo il 21 novembre di proprietà della famiglia Muto e l'8 gennaio 2013 un autocarro è andato a fuoco nel
comune di Cadelbosco sopra; dietro tali azioni vi può essere il vandalismo ma le autorità sospettano l'ombra del racket. A
questi incendi vanno aggiunti anche quello ad Albinea, ai danni di un imprenditore edile originario di Cutro e quello a San
Bartolomeo, ai danni di un complesso in costruzione di proprietà di una ditta gestita da quattro fratelli originari del crotonese.
Diverse problematiche sono state riscontrate nella costruzione della tratta reggiana dell’alta velocità. Alcuni subappaltatori
chiamavano illecitamente a lavorare ditte di autotrasporto scartate nelle procedure di aggiudicazione, perché irregolari che
potevano offrire tariffe del 30-40% inferiori ai concorrenti. Anche nel trasporto della grande distribuzione per le merci
destinate ai supermercati e ai centri commerciali si riscontra la presenza della ‘ndrangheta per il controllo dell’intera filiera.
La Prefetta di Reggio Emilia conferma che alcuni camionisti o titolari di ditte di autotrasporto, risultano dalle indagini,
appartenenti ad organizzazione mafiosa di tipo ‘ndranghetista.
Facchinaggio
Nel facchinaggio si denuncia una condizione di generale sfruttamento dei lavoratori nel territorio reggiano, causato anche
dalla possibilità per le cooperative di derogare al contratto nazionale. Fino ad oggi non si è registrata la presenza della
mafia, ne segnali che possano dar adito a sospetti, rimane necessario tener alta l'attenzione poiché il lavoro di facchinaggio
è spesso gestito da cooperative sulle quali i gruppi criminali hanno manifestato spesso il loro interesse.
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Ecco cos’è che fa
andare la filanda!
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Succede ogni tanto di leggere sui giornali di un laboratorio tessile, spesso ma non sempre clandestino, gestito da cinesi, in
cui lavorano solo cinesi, spesso senza regolare contratto, a volte anche minorenni, che poi negli stessi spazi dormono e
mangiano… A ottobre 2012 ricordiamo il sequestro a Poviglio di un laboratorio tessile abusivo gestito da una donna cinese
che aveva adibito la propria abitazione a tale attività; dei 14 lavoratori controllati 8 sono risultati privi di contratto di lavoro.
E a luglio dello stesso anno il sequestro nella zona industriale di Pieve Modolena: in una parte del laboratorio tessile e in
quelli che sarebbero dovuti essere gli uffici sono state ricavate con pareti di compensato quattordici piccole stanze
arredate con letti e mobilio, il seminterrato fungeva invece da refettorio con stufa a gas, frigoriferi e tutto l’occorrente per
cucinare; oltre alla violazione delle norme igienico sanitarie e di sicurezza nei luoghi di lavori, tra i dieci operai presenti due
sono risultati sprovvisti di permesso di soggiorno. Diversi altri controlli si sono succeduti negli ultimi anni e in diversi casi
sono stati trovati capannoni-dormitorio con una stanza più ampia attrezzata con macchine per maglieria e cucitura ed una
più piccola adibita a dormitorio con angolo cucina, organizzata in “stanze” suddivise con cartoni o cartongesso e senza
alcun dispositivo di sicurezza. In moltissimi casi i lavoratori sono risultati “in nero”. Ma il caso più grave, nella nostra città, è
forse quello risalente al 2008 quando sono stati trovati 47 cinesi che vivevano in condizioni di quasi schiavitù in un
laboratorio tessile; tra di loro anche sei bambini di meno di cinque anni. Nessuno sapeva della loro esistenza fino a
quando una di loro non ha avvertito la polizia: otto gli arrestati. Nel capannone c’erano una quarantina di macchine da
cucire e per stirare, una ventina di camere da letto, una cucina e uno spazio comune per mangiare. Complessivamente
negli ultimi quattro anni sono 11 i capannoni adibiti a laboratori tessili sequestrati dalle autorità.
Ma non è solo il comparto tessile a essere coinvolto: è di novembre 2012 la scoperta ad Albinea di alcune ditte cinesi di
mosaici ceramici i cui lavoratori e le loro famiglie, tra cui un bambino di pochi mesi, vivevano presso i laboratori in spazi di
pochi metri privi di riscaldamento; in un caso si sono trovate vere e proprie baracche di tre metri per tre costruite con
bancali in legno, cartone e lamiera. Condizioni inumane, certo di sfruttamento, che si pongono spesso a cavallo tra
regolarità e irregolarità; dai controlli effettuati infatti su quasi 50 lavoratori solo tre sono risultati “in nero” e solo uno privo di
permesso di soggiorno. Nonostante nel corso degli ultimi anni, anche grazie a specifici progetti come l’Azione Pilota 3
Spinner “accompagnare l’emersione del lavoro non regolare in Emilia Romagna”, si è vista nel nostro territorio la
progressiva regolarizzazione dei titolari di impresa e di molti addetti di nazionalità cinese del comparto tessile,
permangono diverse realtà dove a fianco di lavoratori assunti in modo più o meno regolare vivono e lavorano persone
prive di qualsiasi contratto e tutela. Cittadini che per le condizioni di assoggettamento in cui si trovano e/o i vincoli, spesso
ben oltre il semplice rapporto lavorativo, ben difficilmente si rivolgono alle organizzazioni che potrebbero intervenite in
difesa dei loro diritti.
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Nel 2000 si ha l’unico caso di denuncia alla Direzione provinciale del Lavoro, ma il procedimento non ha avuto seguito in
quanto, come spesso accade, il lavoratore ha presto lasciato la nostra città. In molti casi si tratta “solo” di sfruttamento
ritenuto quasi un passaggio “obbligato” finalizzato al trarre il maggior guadagno possibile, magari per pagare i debiti contratti
per giungere in Italia e poi iniziare a accumulare qualcosa, pensare alle prospettive. Ma in alcuni, non sporadici casi il
sistema è più coercitivo.
Già dai percorsi che portano in Italia si rileva come non si tratti di movimenti migratori autonomi, ma frutto di organizzazione
e cooperazione soprattutto nell’ambito dell’immigrazione clandestina, attività favorita perché ogni comunità residente nelle
città italiane ha necessità di manodopera a basso costo. Si segnalano purtroppo diversi episodi riconducibili a gruppi
criminali di origine cinese specializzati in questo genere di traffico e di pratiche estorsive ai danni di loro connazionali. Ne è
dimostrazione l’indagine della magistratura di Bari che il 21 febbraio 2002 ha fatto eseguire 13 ordinanze di custodia
cautelare in carcere in diverse città tra cui Reggio Emilia e Modena nei confronti di altrettanti indagati di etnia cinese ritenuti
appartenere ad un’organizzazione criminale dedita al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ed al sequestro di
persona a scopo di estorsione in danno a connazionali.
La Direzione Nazionale Antimafia nella sua relazione del 2007 esprimeva preoccupazione per l’immigrazione clandestina,
proveniente prevalentemente dalla provincia dello Zhejiang, che attraverso rotte con soste in diverse città europee arriva
puntualmente ed intenzionalmente in Italia. Per poter arrivare in Italia ciascun clandestino paga una somma variabile dai
dieci ai quindicimila euro, molto spesso anticipata da organizzazioni che, in Cina, gestiscono tale tipo di traffico. Questo è un
aspetto cruciale perché l’anticipo di tale somma non è ovviamente un aiuto amicale a chi vuole emigrare ma il meccanismo
stesso dell’assoggettamento. Giunti in Italia, infatti, tali somme costituiscono da subito un debito molto elevato e chi si viene
a trovare in queste condizioni è spesso disposto a tutto pur di affrancarsi, ma l’obiettivo non è affatto a portata di mano per
gli importi originari e gli interessi esorbitanti.
La conseguenza è che spesso “il clandestino” rimane indebitato e quindi alla mercé dei suoi “creditori”, disponibile a fungere
da mano d’opera sottopagata, utilizzata prevalentemente in aziende clandestine in condizioni vessatorie e degradanti.
Succede addirittura nei casi più estremi che queste persone possono essere acquistate, quale manovalanza, da soggetti
della medesima etnia che operano nel campo dell’illecito. Le comunità cinesi sono tendenzialmente chiuse e questo
costituisce un punto di forza per le organizzazioni criminali, spesso riconosciute come autorità super partes e in grado di
esercitare varie forme di controllo.
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Un esempio a noi vicino di tale sfruttamento è rappresentato dal caso ZHNG ZHIXIONG, ditta individuale di confezioni
collocata a Modena, che costringeva i lavoratori a ritmi disumani con turni anche di 18 h giornaliere, con una paga mensile
di 25 euro per le donne e 70 euro per gli uomini, impedendo alle vittime di uscire dall’abitazione, dotata di finestre con
grate fisse e chiusa a chiave dall’esterno; presso lo stesso luogo i lavoratori dormivano in una stanza priva di finestre e
riscaldamento con illuminazione unicamente artificiale. La riduzione in schiavitù avveniva mediante violenze e minacce;
veniva inoltre chiesta alla vittima una somma pari a 16.000 euro per il rilascio del permesso di soggiorno, che veniva poi
requisito dai capi dell’organizzazione nel caso in cui la vittima non avesse accettato le condizioni di lavoro e l’iniqua
retribuzione. Infine, l’organizzazione criminale minacciava le vittime di ritorsioni nei confronti dei loro congiunti qualora
avessero sporto denuncia alle forze dell’ordine. L’emersione di tale situazione ha avuto origine dall’esposto presentato alla
procura di Perugia dalla zia di una delle recluse, preoccupata dal silenzio della nipote e dalle precedenti lamentele della
stessa in merito all’impossibilità di uscire dall’abitazione laboratorio e all’indisponibilità dei propri documenti. Dai carabinieri
di Modena è inoltre emerso che la ditta evadeva i contributi previdenziali ed assicurativi nonché quanto dovuto al fisco,
traendo così un arricchimento illecito ai danni dei lavoratori.
Secondo la Guardia di Finanza “i cinesi arrivano in Italia dopo essere stati reclutati nelle campagne, facendo loro credere
che, nel nostro paese, si possa guadagnare tantissimo. Il costo del viaggio è enorme, si parla di oltre ventimila dollari. Il
meccanismo è sempre lo stesso, in altre parole è la famiglia che garantisce il pagamento. Se anche l’immigrato non è in
grado di pagare, l’organizzazione che lo manovra può rifarsi nei confronti dei parenti. E’ evidente come la condizione del
lavoratore immigrato sia più quella di un oggetto che quella di un essere umano.
Alcuni hanno dichiarato di essere impossibilitati perfino al suicidio perché la condizione debitoria della famiglia non
cambierebbe di una virgola”. Spesso il debito diventa insostenibile costringendo il migrato a vendere se stesso
all’organizzazione, lavorando gratuitamente (anche in presenza di busta paga di cui però non riceve il corrispettivo) per
imprenditori collusi fino all’estinzione del debito. E noi, senza saperlo, acquistiamo ciò che produce. I laboratori tessili di
questa natura infatti lavorano spesso per produttore italiani e, vista anche la maggior qualità rispetto ai primi anni di
presenza, in assenza di alcuna tracciabilità del prodotto, per il cliente è quasi impossibile scegliere di non assecondare il
sistema.
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“Processo Ital Edil”: l’azione dei
lavoratori e la risposta della città
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Il 1° maggio 2007 un corteo auto organizzato di lavoratori irregolari marcia per le strade di Reggio Emilia, distaccato rispetto
ai cortei principali di cittadini e sindacati; scelta indicativa, a denuncia di una diversità e di una distanza di diritti e di
riconoscimento sociale. Duemila persone quel giorno, al grido della parola “dignità”, decidono di uscire dall’ombra del lavoro
in nero, rivendicando il loro status di lavoratori e cittadini. Questo movimento sarà il primo passo di un cammino più ampio
che si definirà in quei mesi e scuoterà negli ultimi anni il mondo del lavoro clandestino della nostra città, balzando agli
onori della cronaca locale e spronando l’opinione pubblica all’azione.
Il 1° aprile 2010, quasi tre anni dopo questo fatto, si apre la prima fase del procedimento penale nei confronti
dell’imprenditore Federico Pozza e del capocantiere Victor Boldisor dell’impresa edile Ital Edil. L’accusa è duplice:
sequestro di persona ed estorsione. L’accusa proviene da un muratore egiziano 33enne, che si è costituito parte civile. Il
lavoratore ha raccontato di essersi più volte recato presso la sede dell’impresa per reclamare il proprio credito (circa 5000
euro) per la retribuzione del lavoro prestato e che, nel febbraio 2008, dopo l’ennesima richiesta, salendo in macchina coi
due uomini sopracitati e con altre due persone non identificate, sarebbe stato picchiato e minacciato di morte, per poi
essere abbandonato nei pressi di San Polo d’Enza. Il 4 febbraio 2011, dopo sei udienze, la sentenza ha decretato
l’assoluzione dei due imputati, per insussistenza di fatto; il giudice ha riscontato nel racconto del lavoratore alcune
contraddizioni che sono state decisive ai fini della sentenza. L’avvocato dei migranti, Vainer Burani, ha così commentato la
sentenza: “in tanti casi e tante situazioni il fatto storico è una cosa e il fatto giuridicamente provato è un’altra” e, prosegue,
“questo ci deve insegnare che la giustizia che si deve perseguire è, in primo luogo, la giustizia che nasce dalle
trasformazioni sociali, trasformazioni sociali che devono eliminare situazioni come quelle subite dai lavoratori dell’Ital Edil.
Gli sfruttatori sono sfruttatori perché lo dice la storia e lo dice la realtà”.
Il processo ai due dirigenti è però collaterale e indipendente rispetto al filone giudiziario principale, che vede coinvolte tre
ditte edili: la F.R.M. Ital Edil srl, la Technological Building 7 srl e la Valsem Costruction Italia. Le prime due con sede a
Reggio Emilia, l’ultima in Moldova. La F.R.M. Ital Edil srl vantava un grosso giro d’affari con numerosi appalti vinti in Emilia
Romagna, Toscana, Lombardia, Lazio e Liguria. Il cammino che porta a questo processo si ricollega al sopracitato 1°
maggio 2007: dopo la risposta così forte e importante del corteo auto organizzato, dal Comitato Lavoratori Irregolari, nasce
l’associazione Città Migrante. Federica Zambelli, vice presidente dell’Associazione, racconta che fin dalla sua nascita, molti
lavoratori della sopracitata ditta (in maggior parte senza permesso di soggiorno) si rivolgevano allo sportello di Città
Migrante per raccontare situazioni di sfruttamento e sopruso in sede di lavoro.
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Sia con la mediazione dell’Associazione che indipendentemente da essa, questi ed altri lavoratori si sono così rivolti a
diversi studi legali cittadini. Le circa settanta denunce presentate (su quattrocento lavoratori “assunti”), riportano situazioni
di lavoro che in alcuni casi rasentano lo stato di schiavitù: dalle carte delle indagini preliminari, si legge che per i lavoratori
moldavi i salari consistevano in “euro 1,75 all’ora per i primi 3 mesi, con la specificazione che se avessero lavorato più di
160 ore al mese gli avrebbero riconosciuto un compenso orario di euro 3 per le ore eccedenti”; altri lavoratori moldavi
hanno dichiarato che “l’attività lavorativa aveva una durata di circa 10 ore giornaliere, sabati compresi e saltuariamente
anche domenica e lo stipendio ammontava a circa 600 – 700 euro mensili al netto delle trattenute”. Dalle indagini risulta
che i lavoratori moldavi venivano reclutati nel Paese d’origine, tramite la ditta gemella, mentre gli altri, in maggior parte di
origine egiziana, venivano reclutati a Reggio e costretti a firmare un contratto con un nome falso come condizione per
poter lavorare. Ai lavoratori stranieri irregolari reclutati direttamente in Italia veniva fatto firmare un contratto, con
generalità diverse dalle loro, che prevedeva “una paga giornaliera di circa 60 euro”, fino a 90 – 100 per alcuni. L’orario di
lavoro era di almeno 11 ore in periodo estivo e di non meno di 9 – 10 ore in periodo invernale, sabati e domeniche
compresi. Tutti i lavoratori che hanno proposto querela hanno lamentato di essere stati pagati soltanto i primi mesi perché
nei successivi è stato comunicato loro che le somme dovute erano trattenute per le spese necessarie alla
loro “regolarizzazione”. Tali persone vantano mediamente un credito nei confronti del datore di lavoro che varia dai 5mila
ai 10mila euro.
Gli imputati, quattro italiani, due moldavi e quattro marocchini, tra i quali Giovanni Freno, Marco Pozza, Federico Pozza e
Victor Boldisor, sono accusati di associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento della manodopera clandestina. Ai
singoli imputati è contestato “di reperire manodopera da sfruttare sia in territorio moldavo che in territorio nazionale”, “di
reperire soggetti extracomunitari” da impiegare come manodopera, “ai quali fornire falsa documentazione volta al rilascio
di permessi di soggiorno regolari” o falsi “permessi di soggiorno di cui dotare ciascun lavoratore clandestino”, di reclutare
lavoratori clandestini presenti in Italia; “di monitorare costantemente i singoli lavoratori nei cantieri di volta in volta utilizzati
e di intimorire i clandestini mediante minacce, qualora gli stessi si fossero ribellati alle condizioni di vita e lavorative a cui
erano sottoposti (…), anche palesando la disponibilità di armi da utilizzare ai danni degli stessi onde dissuaderli da
eventuali azioni legali”; di “dotare ciascun lavoratore clandestino al fine di farlo lavorare” di documenti contraffatti, “di
gestire le pratiche relative alle false regolarizzazioni”, della “falsificazione di permessi di soggiorno di cui dotare ciascun
lavoratore clandestino” e, da ultimo, “di pagare mensilmente i lavoratori clandestini, applicare trattenute ingiustificate sulle
somme dovute quale corrispettivo del lavoro svolto, applicare sanzioni in caso di trasgressioni arbitrariamente riscontrate”.
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Alle denunce private, è seguita una denuncia pubblica, sostenuta dalla stessa associazione Città Migrante, che ha
permesso alla vicenda di ottenere l’attenzione e il sostegno dell’opinione pubblica. Il 29 gennaio 2011 è infatti stata
presentata la mozione popolare che, grazie alla volontà di Città Migrante e alla collaborazione di altre realtà territoriali, ha
raccolto in pochi giorni più di settecento firme, per chiedere al Comune di Reggio Emilia di costituirsi parte civile in tale
processo. Le ragioni riportate nel documento sono le seguenti: “riteniamo detta costituzione un atto dovuto vista la gravità
dei fatti, il numero di lavoratori interessati, le condizioni di vita e di sfruttamento a cui sono stati sottoposti, il danno
economico che ne hanno riportato, l’incidenza dei fatti sulla vita sociale ed economica della nostra città, il danno che
l’esercizio dell’attività imprenditoriale in si fatte condizioni ha causato alla comunità in tutte le sue componenti, compresa
quella imprenditoriale del settore”. [1]
Il 9 maggio 2011 il Consiglio comunale ha approvato la mozione di iniziativa popolare, con 21 voti favorevoli, nessun
contrario e nessun astenuto; i gruppi di centrodestra sono risultati assenti al momento del voto: il Comune di Reggio Emilia
si impegna così a costituirsi parte civile in caso in cui la società Ital Edil dovesse essere rinviata a giudizio.
Oggi, molte delle persone che hanno denunciato, lavorano regolarmente sul territorio, grazie a permessi di soggiorno loro
accordati per motivi di protezione sociale, ex art. 18 del D.Lgs. n. 286/98. La disposizione legislativa è infatti stata concepita
per tutelare i diritti delle vittime di grave sfruttamento o violenza. Federica Zambelli commenta in conclusione: “in questa
vicenda siamo stati molto seguiti, dalla stampa, dai cittadini, grazie alla mozione popolare siamo riusciti ad arrivare in
Consiglio Comune. Se inizialmente non eravamo molto sereni, perché avevamo paura di combattere una battaglia da soli,
siamo riusciti a creare opinione, dibattito, attenzione, ne abbiamo fatto una vicenda cittadina; il Consiglio comunale è stato
un momento davvero forte e sentito di vita politica cittadina. Ma l’azione è partita in primis da loro, dai lavoratori sfruttati”.[2]
Ora non resta che attendere l’inizio del processo.
[1]
Le citazioni finora riportate sono tratte dal testo della mozione popolare visionabile all’indirizzo www.globalproject.info/it/in_movimento/mozione-diiniziativa-popolare-sul-caso-ital-edil-e-sullo-sfruttamento-della-manodopera-clandestina-a-reggio-emilia
[2] Intervista a Federica Zambelli realizzata dallo scrivente il 31 ottobre 2012
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Lo Sportello Migranti:
tra sanatoria e lavoro irregolare
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Abbiamo trattato la vicenda legata al processo Ital Edil, e abbiamo visto da dove è partita e come si è giunti al processo. È
emerso come abbia avuto un ruolo fondamentale lo Sportello Migranti dell’Associazione Città Migrante, che da anni dà voce
a tante persone straniere a Reggio Emilia, che “ci raccontano molto più di quello che pensiamo di conoscere”[1].
Abbiamo chiesto a Federica Zambelli, vice presidente dell’associazione, di raccontarci cosa è emerso di recente dalle voci di
chi si è rivolto a loro, per provare a capire se ci siano comuni denominatori nelle storie raccontate, fili conduttori che ci
permettano di capire cosa sta accadendo sul nostro territorio.
L’Associazione ha affrontato, di recente, la vicenda della sanatoria, che ci permette di avere un’idea molto approssimativa
del numero dei lavoratori irregolari presenti nel nostro territorio. In particolare, si sono rivolte allo Sportello Migranti circa
cinquecento persone, alle quali è stato fornito un servizio di assistenza ed informazione, attraverso assemblee e colloqui
individuali, e alle quali è stata garantita un’apertura straordinaria per tutto il mese di agosto. Si tratta di persone di diverse
nazionalità, circa una decina, e, nella maggior parte dei casi, sono persone presenti in Italia da cinque o sei anni. Si è venuti
a conoscenza di situazioni pesantissime, e di molte persone che lavorano.
A quanto pare, nonostante la crisi, il lavoro nero va moltissimo. Il più delle volte, infatti, le persone che si rivolgono
all’associazione sono lavoratori non regolarizzati a causa del fatto che lo stesso datore di lavoro si è rifiutato di metterli in
regola. Questo accade per molteplici motivi: a volte perché il lavoro in nero è più conveniente dal punto di vista economico,
oltre che essere ricattabile (se in più il lavoratore è anche clandestino il potere contrattuale si riduce a zero), altre volte il
datore non se la sente di sostenere i costi della regolarizzazione (1000 euro più tutti i contributi non versati). Infatti, nella
maggior parte dei casi sono gli stessi lavoratori che sostengono tali spese, le quali consistono in un minimo di 2000 euro per
un lavoratore domestico a part time, fino a 6000-7000 euro per un lavoratore agricolo.
Accade molto frequentemente, soprattutto nel contesto edile, oltre al fatto che siano i lavoratori stessi a sostenere i costi
della sanatoria, che i datori di impongano loro una trattenuta sullo stipendio come ricompensa del fatto di averli fatti
regolarizzare. Molti di questi lavoratori, soprattutto nel caso delle colf, sono stati messi alla porta; a loro l’Associazione Città
Migrante ha offerto un supporto di indirizzo, utilizzando le reti assistenziali cittadine.
[1]
Città Migranti 2.0, il lavoro migrante al tempo della crisi, testi di Federica Zambelli e Manila Ricci, p. 22
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Di quelle cinquecento persone che hanno incontrato, però, poche hanno deciso si fare la sanatoria, e questo significa che
gli altri sono ancora tutti irregolari sul territorio. Ma parliamo di dati concreti: a Reggio Emilia le domande per la sanatoria
sono state circa 3000, mentre i dati sul lavoro irregolare nella nostra provincia parlano di 10000-15000 persone.
Ma non è finita qui, perché tutto questo porta alla creazione di un mercato parallelo, ovvero, da una lato troviamo finti datori
di lavoro che mi assumono per finta, così che io, lavoratore, oltre che sostenere i costi della sanatoria, gli devo poi
corrispondere una percentuale, dall’altro nascono agenzie che producono documenti che il lavoratore in questione non può
ottenere diversamente.
Tutto questo ci aiuta a capire come siano molte le preoccupazioni per questa nuova sanatoria, sulla quale rimandiamo ad
un articolo riassuntivo molto interessante pubblicato sul sito www.meltingpot.org, che fa notare come “già nelle prime righe
dell’articolo 5 del decreto di recepimento della direttiva 52/20, si ravvisa lo squilibrio con cui anche questa norma di
emersione è stata redatta ("i datori di lavoro... possono dichiarare…"), un vizio, quello dello squilibrio di "potere" concesso
nelle mani dei datori di lavoro, a cui si aggiunge la beffa di quel "possono" che nulla ha a che vedere con gli obiettivi formali
della norma e con il tema dei diritti e delle garanzie fondamentali, anche nel lavoro, della persona.”[1]
[1]
http://www.meltingpot.org/articolo17971.html (vedi inizio art. 5 del decreto di recepimento della direttiva 52/2009: “I datori di lavoro italiani o
cittadini di uno Stato membro dell'Unione europea, ovvero i datori di lavoro stranieri in possesso del titolo di soggiorno previsto dall'articolo 9 del
testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni ed integrazioni che, alla data di entrata in vigore del
presente decreto legislativo occupano irregolarmente alle proprie dipendenze da almeno tre mesi, e continuano ad occuparli alla data di
presentazione della dichiarazione di cui al presente comma, lavoratori stranieri presenti nel territorio nazionale in modo ininterrotto
almeno dalla data del 31 dicembre 2011, o precedentemente, possono dichiarare la sussistenza del rapporto di lavoro allo sportello
unico per l'immigrazione, previsto dall'articolo 22 del decreto legislativo 286 del 1998 e successive modifiche e integrazioni.”)
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La parola ad un avvocato
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Premessa sul caso “sanatoria-truffa” del 2009
L’avvocato Mario di Frenna ha affiancato con la propria consulenza alcuni comitati ed associazioni che si occupano di
difesa dei diritti umani, nella tutela di un cospicuo numero di extracomunitari clandestini che si trovavano a Reggio nel
2009, che hanno provato ad ottenere il permesso di soggiorno tramite la sanatoria uscita in quell’anno. La particolarità
del caso, soprannominata in seguito “sanatoria-truffa”, è stata data dal fatto che il lavoro esisteva solo sulla carta, era
inventato in base ad un accordo tra i finti datori di lavoro ed i clandestini, presi dalla disperata ricerca di un lavoro e di
un permesso. In base a questo accordo, i clandestini hanno versato cospicue somme ai finti datori, in vista di un
futuro lavoro e di un futuro permesso che non hanno mai conseguito. L’avvocato ha presentato un esposto in Procura,
a tutela dei diritti di 40 extracomunitari truffati.
I comitati e le associazioni di tutela dei diritti hanno più volte sensibilizzato la città, tramite la stampa locale, su questo
tema, che purtroppo ha coinvolto a Reggio Emilia, un numero estremamente elevato i clandestini e in misura anche
molto superiore rispetto ad altre città italiane. Rappresentanti dei comitati e delle associazioni hanno anche incontrato
autorità locali, per far conoscere l’ennesima triste esperienza, e per fare riflettere ulteriormente la città sulla portata di
un fatto di questo tipo.
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CHE COSA INTENDE LA LEGGE PER “GRAVE SFRUTTAMENTO”? Puoi parlarci dei 2 tipi di “GRAVE
SFRUTTAMENTO”, quello lavorativo e quello sessuale?
Avvocato - La normativa prevede la sussistenza di forme di grave sfruttamento lavorativo, quando, ad esempio, non
vengono rispettate le misure previste dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, le leggi a tutela dei lavoratori, le norme
comunitarie. Si configura il grave sfruttamento, quando i lavoratori percepiscono uno stipendio largamente inferiore ai
minimi salariali o sindacali, o che non godono delle tutele del posto di lavoro in caso di infortunio o malattia, non hanno le
ferie pagate, non usufruiscono di tutti quei diritti che piano piano hanno conquistato nel tempo grazie a tutti i percorsi,
anche di lotta sindacale, che si sono succeduti nell’arco degli ultimi 150 anni. Quindi si può parlare di grave sfruttamento
quando esiste una grossa disparità tra datore di lavoro e lavoratore: Il datore di lavoro sfrutta la sua “indennità di
posizione”, il suo posto “sovraordinato” nella catena produttiva e si approfitta del bisogno di lavorare del lavoratore, per
concedergli delle condizioni lavorative, economiche, inferiori a quelle che sono previste dai CCNL e dalle varie normative
sopra menzionate. Esistono anche delle Convenzioni internazionali in merito: ricordo la Convenzione Internazionale sul
lavoro, che prevede i diritti dei lavoratori per tutti i paesi aderenti, tra cui anche l’Italia.
C’è questa Direttiva Europea, che ha ampliato il campo della nozione di “grave sfruttamento”, perché prima l’ambito era
molto più ristretto, veniva riconosciuto il grave sfruttamento, solo se veniva ravvisato lo stato di SCHIAVITU’.
Avvocato - Esatto, praticamente, che cosa ci dice la nuova Direttiva? Essa è stata recepita nella stessa legge di sanatoria
2012, che si sta concludendo in questi giorni, tant’è vero che la cd “regolarizzazione” è in pratica contenuta in un articolo
della legge italiana che recepisce i principi della nuova Direttiva Comunitaria. La Direttiva Comunitaria è stata applicata
tramite la Legge n. 109 del 2012. La Direttiva Comunitaria pone un principio: la lotta al lavoro nero. Quindi, se prima l’art.
18 del Testo Unico sull’Immigrazione, il D.Lgs. n. 286/1998, prevedeva che fosse concesso un permesso di soggiorno a
colui che denunciava il datore di lavoro perché era sottoposto a condizioni umane degradanti o a sfruttamento del lavoro e
sussisteva una violenza o minaccia nei suoi confronti (questo sia per lo sfruttamento sessuale che per lo sfruttamento
lavorativo), adesso questa nuova Direttiva esprime un principio diverso, cioè che si vuole combattere il lavoro nero DI
PER SE’, perché già il lavoro nero è considerato uno sistema che alimenta lo sfruttamento del lavoratore. Attraverso questa
nuova concezione, viene previsto esplicitamente il fatto che, denunciando il datore di lavoro che fa lavorare in nero delle
persone extracomunitarie, queste possano ottenere il Permesso di soggiorno, a prescindere dalla sussistenza di minacce o
violenze o grave sfruttamento.
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Quindi, è un passaggio abbastanza importante; se prima c’era bisogno della violenza o della minaccia per l’applicazione
dell’art. 18, perché era colpito il lavoro degradante e in svolto in condizioni inumane (la mente va a ambiti criminali
purtroppo diffusi) adesso l’obiettivo della normativa è quello di combattere il lavoro nero, anche se attualmente non ci sono
ancora Regolamenti di attuazione o Circolari, che spieghino bene come funzioni il meccanismo di denuncia e del
conseguente rilascio del permesso di soggiorno. E’ bene ricordare che i principi ispiratori della nuova normativa non
riguardano solo gli extracomunitari, ma anche gli Italiani. L’obiettivo della Comunità Europea è quello di combattere il lavoro
nero PER TUTTI, non solo per gli stranieri, chiaramente, anche per gli italiani, se no si tratterebbe di una legge
discriminatoria per tutti i cittadini della Repubblica. Anche perché, ricordiamocelo, il lavoro nero non solo danneggia i
lavoratori, ma danneggia anche e soprattutto il mercato. Perché, se un’azienda produce non rispettando le norme relative
alle ferie, alla sicurezza sul lavoro, alla quantità stipendio, i miei pezzi costeranno di meno, perché io spendo di meno a
produrli, e quindi potrò immetterli nel mercato a un prezzo inferiore ai miei concorrenti, violando così le regole basilari della
concorrenza.
Mentre prima per applicare l’art. 18 erano necessarie 3 condizioni, violenza o minaccia o stato di necessità, adesso
possiamo dire che è sufficiente solo lo stato di necessità?
Avvocato - Per il lavoro nero sì, anche se non è chiaro ancora materialmente, come si andrà a sviluppare questa
normativa; i principi sono stati dettati dalla Direttiva, che è stata recepita, ma non è ancora stata fissata la procedura che
bisogna seguire per arrivare a questo tipo di permesso.
E’ per quello, che gli inquirenti non hanno accolto la tua tesi di sfruttamento, a proposito della sanatoria truffa?
Avvocato - In realtà l’esposto e la conseguente richiesta di parere per un permesso per motivi di protezione sociale non è
stato accolto prima che arrivasse questa Direttiva
Sì, perché la pronuncia è arrivata prima della Direttiva
Avvocato - La Direttiva è recentissima, emessa tre mesi prima della legge di regolarizzazione, ed è stata recepita nella
normativa di luglio 2012 che ha previsto la regolarizzazione degli extracomunitari irregolari.
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Per cui potrebbe essere applicabile alla nuova sanatoria.
Avvocato - Esattamente. Infatti noi stiamo aspettando, non so se in questi giorni siano uscite delle Circolari che spieghino
cosa bisogna fare nel caso in cui il lavoratore lavori e il datore di lavoro NON lo voglia regolarizzare. Probabilmente, se ci
questa legge fosse stata emanata in epoca anteriore al 2009, periodo in cui si è svolta la sanatoria di cui parliamo, avremmo
potuto avere più possibilità di successo nella nostra iniziativa.
Rientra anche il caporalato dentro questo meccanismo?
Avvocato - In realtà non sappiamo bene che cosa rientra, però in teoria ci potrebbe rientrare. Perché, come dicevo,
l’obiettivo della Direttiva è quello di combattere in sé il lavoro nero, non situazioni gravi, costituite da minacce e sfruttamento.
Infatti, il sistema del rilascio del permesso è premiale per chi collabora con la giustizia per combattere la piaga del lavoro
nero; però bisogna porre la massima attenzione anche ad un altro aspetto, che si potrebbe verificare anche frequentemente.
I lavoratori, al fine di ottenere un permesso, potrebbero denunciare falsamente dei datori di lavoro innocenti. Quindi, occorre
porre la massima attenzione a questa eventuale stortura che la legge permetterebbe. Quando un cittadino sporge denuncia,
lo deve fare solo ed esclusivamente nei casi di REALE LAVORO NERO, REALE mancata regolarizzazione e REALE
mancato rispetto dei canoni di legge.
Quanto il lavoro in nero e il suo sfruttamento può essere collegato alla TRATTA? Quanti di questi lavoratori che arrivano qui
e sono costretti a lavorare in certe condizioni, arrivano tramite un’organizzazione mafiosa?
Avvocato - La situazione cambia moltissimo, a seconda della regione di provenienza degli stranieri. Gli episodi cambiano,
nel senso che la storia di un cittadino nigeriano è diversa dalla storia di un cittadino egiziano. Se accade che tutti e due
entrino nel circuito del lavoro nero, il modo di arrivare in Italia è totalmente diverso. Così come magari un cittadino moldavo,
rispetto al cittadino di un’altra nazione. Quindi, il problema è che non possiamo generalizzare e affermare che la tratta di
esseri umani esiste in tutte le circostanze. Ad es., per quanto riguarda la Nigeria, sicuramente esiste un problema molto
evidente di sfruttamento della prostituzione. Organizzazioni criminali fanno arrivare in Italia delle persone, le quali poi vanno
a prostituirsi, vengono minacciate, vengono sfruttate, vengono assoggettate, ad es., a riti woo-doo, che per loro sono
veramente fonte di grande timore e soggezione, ed infine in molti casi vengono minacciate le famiglie d’origine. I cittadini
provenienti dal Ghana hanno spesso storie diverse: raramente dal Ghana o dal Senegal si vedono arrivare donne sfruttate,
potrebbe capitare, però non è un meccanismo comune per tutti i paesi.
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L’Egitto ha tantissime persone che magari vengono a lavorare in edilizia; anche in questo caso potrebbe essere attiva
un’organizzazione criminale che si sviluppa in Egitto al fine di favorire l’immigrazione clandestina. Per concludere, non penso
si possa generalizzare e sviluppare un discorso unico per tutte le nazioni di provenienza. Ancora, per fare un altro esempio,
pensiamo alla Cina: molti cinesi hanno laboratori con “dipendenti” loro conterranei che lavorano in nero, sfruttati, per ore e
ore, “prigionieri” negli stessi locali per settimane, mesi, anni. Nello stesso ambiente vengono fatti lavorare, mangiare e
dormire, senza avere mai la possibilità di uscire durante la settimana. In casi come questi c’è un grave sfruttamento, anche
se credo molto difficilmente un lavoratore cinese si ribellerebbe andando contro il datore di lavoro, nonostante condizioni
lavorative pessime. La comunità cinese risulta essere praticamente “impermeabile” a contatti con l’esterno, non ci sono dati
precisi. Ogni tanto viene effettuato un sequestro di capannone, o di un’ altra attività, ma credo si tratti di attività disorganica e
legata alla singola indagine. Certamente la crisi ha colpito anche questo tipo di realtà: paradossalmente gli stessi
imprenditori cinesi si lamentano del fatto che le merci che arrivano dalla Cina costano meno delle loro. Loro producono qui in
Italia, e quindi soffrono la concorrenza dei prodotti provenienti dalla loro madrepatria.
Tu hai seguito in particolare l’esposto a proposito della Sanatoria – Truffa del 2009. Abbiamo notato questo meccanismo:
esisteva praticamente una specie di RETE di egiziani (quelli che si sono “sistemati”) che ha sfruttato l’ultimo anello della
catena facendo da intermediari con il giro di alcuni imprenditori del Sud Italia. Tali imprenditori gestivano nella nostra
provincia parecchi cantieri edili e si avvalevano della collaborazione “in nero” dei clandestini egiziani. In base alla tua
esperienza di avvocato, quali sono state le tue impressioni, se hai avuto modo anche di verificare il modus operandi di
queste reti, di queste organizzazioni. Che sentore hai avuto nel trattare queste problematiche, che cosa hai colto?
Avvocato - Diciamo che è un problema sicuramente esistente, ma nasce da un problema di lingua, di comprensione. Mi
spiego: normalmente la gente che arriva in Italia fa fatica a parlare la lingua italiana e a comprenderla in forma scritta. Ci
sono tante difficoltà linguistiche, perché la gente magari ha un livello scolare basso, o non è formata o comunque non
conosce la nostra lingua. Questo problema di LINGUA fa sì che le persone che sono invece inserite, che hanno padronanza
linguistica, che sono inserite qua da tanti anni, che conoscono un po’ tutti, perché sono stati referenti della comunità per
varie circostanze e per vari motivi, vengano visti come una “ancora di salvezza”. Quindi, è sicuramente vero che esistono
questi “trait d’union”, ma io credo che sia un fatto fisiologico, nel senso che è sempre esistito. Se io arrivo da un paese
straniero, di cui non conosco la lingua, non conosco nessuno, cerco subito un connazionale che mi possa aiutare. Perché
poi c’è il passaparola – “vai da quello, che ti aiuta” – e quindi questi soggetti possono arrivare ad avere un “potere” molto
forte sugli ultimi arrivati.
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Certamente, un anello di congiunzione deve esistere per fare funzionare questo sistema perché, se da una parte abbiamo
un’organizzazione criminale (o singoli con pochi scrupoli), che comunque deve comunicare con queste persone, ci vorrà
bene qualcuno che faccia da tramite, e questo vale per tutti i cittadini provenienti dalle varie nazioni. Le dimensioni del
problema sicuramente a me sfuggono. Per esempio, anni fa, nel 2008, successe un episodio abbastanza particolare con i
cittadini Ghanesi. Molti di essi, residenti in città, i quali non avevano nessun tipo di problema penale (sono in genere una
comunità abbastanza pacifica) lavoravano, anche da anni, in ditte della provincia, con dei permessi falsi. A seguito di attività
di indagine, la Procura della Repubblica ha cominciato a effettuare dei sequestri dei documenti falsificati e si è verificato che
quasi 300 persone a Reggio avevano questo tipo di permesso falso – oppure vero ma, lasciato “in eredità” da un cittadino
emigrato in America all’amico rimasto in Italia. OGNI NAZIONE HA LA SUA STORIA e le sue peculiarità.
Ma questo problema del permesso falso, cioè la RETE che ha procurato i permessi falsi, è mafia estera o locale?
Avvocato - Nazionale sicuramente, ma, a titolo di esempio, la maggior parte di loro si era recata a Napoli per ottenere
questo falso permesso e non lo aveva ottenuto a Reggio Emilia.
Può essere che ci siano 2 reti, una internazionale che procura la tratta, e una locale italiana, che procura e fa il giro dei
passaporti o dei permessi?
Avvocato - se volete sapere questo, io non ho elementi per affermare l’esistenza di un coordinamento generale, mafioso,
che segue in maniera capillare tutto questo problema della tratta o del caporalato, o dello sfruttamento. Io non ho percepito il
problema in questo senso, anche se sul punto sarebbe meglio rivolge la domanda ai magistrati inquirenti. Magari i
Procuratori stanno indagando anche adesso, e stanno per scoprire e sgominare una rete capillare organizzata, ma io non
ho avuto tale percezione. Secondo me, ogni situazione è molto più legata a dei fattori estemporanei, che magari coinvolgono
il SINGOLO, il referente di una certa comunità, che si organizza contattando ambienti criminali per fare ottenere dei
permessi di soggiorno ai propri connazionali.
C’è mai stata una denuncia, da parte di quelli che partono in barcone, pagano considerevoli cifre?
Avvocato - sì, vedo quotidianamente gente che è arrivata qui in questa maniera (praticamente il 90%). Moltissimi sono
scappati da situazioni di guerra, altri l’hanno fatto per scelta, moltissimi di coloro che hanno effettuato un viaggio “della
speranza” hanno pagato fior di quattrini a organizzazioni criminali per potere giungere in Italia. Il problema fondamentale,
sulla metodologia di ingresso in Italia, è complesso e multiforme. La normativa italiana che regolamenta gli ingressi e i flussi
di ingresso, a mio parere NON FUNZIONA.
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Non funziona, perché prevede un’assunzione diretta da parte di un datore di lavoro, di una persona che non è in Italia, che in
teoria non ha mai conosciuto e che deve essere assunta come colf o badante, eventualmente di un parente anziano. L’idea
è che l’extracomunitario debba arrivare già con un visto di ingresso per lavoro e con una situazione lavorativa già totalmente
delineata. Quindi, non è possibile arrivare in Italia, conoscere una famiglia o un’impresa e successivamente regolarizzare la
propria posizione. Io non capisco come si possa pensare di fidarsi di una persona sconosciuta o quasi. Come fa una ditta ad
assumere un lavoratore che proviene dall’Africa per fare un determinato lavoro, senza averlo mai visto né conosciuto, ne
messo alla prova? Il fatto che il meccanismo di ingresso così regolamentato è di difficile applicazione è dimostrato dalla
circostanza che la prima sanatoria è del ’90, e nei in 22 anni seguenti ne sono state fatte 5, rispettivamente nel ’95, ’98,
2002, 2009 e 2012. Mediante il meccanismo della sanatoria si sono regolarizzati più del 50% dei cittadini extracomunitari
arrivati in Italia clandestinamente e che solo grazie alle normative speciali, anche dopo molti anni di clandestinità si è
regolarizzata. E’ evidente il problema. Se ci fosse un metodo di ingresso che preveda la possibilità, ad esempio, una volta
giunto regolarmente in Italia con visto e passaporto, di trovarti un lavoro, una casa e una sistemazione, probabilmente si
eviterebbero molti problemi. In realtà, il fenomeno migratorio è molto complicato: noi abbiamo un territorio molto vasto da
controllare, le coste sono molto ampie, quindi, o si fanno scelte radicali, tipo l’Australia, che ha praticamente “cannoneggiato”
le navi dei profughi o si mette il filo spinato. Altrimenti è realmente difficile arginare il fenomeno migratorio, rispettando le
regole internazionali, ad esempio, sui diritti dei rifugiati e dei profughi. Non è come in Germania. Se vai in Germania, ti
trovano e ti rimandano via subito: infatti è più difficile che gli stranieri vadano in Germania, nonostante un’economia
certamente più solida e prospera della nostra.
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Conclusioni
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In conclusione, pensiamo che si dovrebbe cancellare la Bossi Fini e promuovere un intervento legislativo che riconosca
dignità alle persone, non ignorando l’esistenza della prostituzione e affrontandola senza ipocrisie. Senza dubbio serve
riaffermare i diritti inerenti il lavoro ed effettuare i relativi controlli al fine di contrastare quella zona grigia, dove tanta
illegalità anche mafiosa trova un habitat idoneo a fare affari.
Ma mentre ci chiediamo quanto sia possibile fare, nel nostro quotidiano, possiamo assumere comportamenti non funzionali
allo sfruttamento di cui abbiamo provato ad accennare nelle pagine precedenti?
Partiamo dall’ambito di sfruttamento forse più spinoso, il più degradante se escludiamo la vendita di organi,: la
prostituzione. Non la prostituzione in quanto vendita di una prestazione sessuale, dibattito interessante ma non è questa la
sede, quanto il fatto che moltissime persone oggi sul pianeta e anche nella nostra città sono costrette a prostituirsi. Il
fenomeno, come abbiamo visto, può avere vari motivi, dal bisogno economico al ricatto, alla costrizione con tutte le
progressioni intermedie; certo è che in questi casi non siamo di fronte ad una libera scelta, ma all’impossibilità per le
persone sfruttate di avere alternative. Allora se vogliamo comprare una prestazione sessuale, per prima cosa ricordiamoci
che non stiamo comprando una persona, solitamente donna, bensì, appunto, una prestazione. E con questo concetto
chiaro in mente chiediamoci chi abbiamo di fronte. Forse non tutti gli sfruttamenti sono chiaramente distinguibili dal cliente
ma molti, certo i più pesanti, si vedono. Facendo un minimo di attenzione si capisce se abbiamo di fronte la paura, se ci
sono segni di violenza, se il soggetto è adolescente o adulto, se un “magnaccia” controlla. Se è una prestazione sessuale
che vogliamo comprare accertiamoci che chi la vende lo faccia per libera scelta, che autodetermini il “come”, il “quando” e
“con chi”.
In merito allo sfruttamento sul lavoro le opzioni possono sembrare veramente poche, non è facile ma pensiamoci un po’
meglio. Se dall’artigiano che mi ristruttura casa pretendo regolare fattura avrà meno denaro in nero, per pagare in nero i
lavoratori. Se compro un vestito a 10 euro è difficile che sia stato prodotto da lavoro regolare e sicuro, più facile che
provenga da un laboratorio clandestino. Se poi organizzo una spedizione per l’impresa in cui sono occupato e trovo un
autotrasportatore i cui prezzi sono vistosamente inferiori a quelli di mercato, non posso pensare che gli autisti rispettino i
limiti nelle ore di guida e le altre norme.
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E’ indubbio che questo abbia un costo, ma se vogliamo non “collaborare” all’economia mafiosa, se non vogliamo essere
“mandanti” dello sfruttamento del lavoro, la prima cosa da fare è pretendere e praticare la legalità. In questo modo, infatti,
possiamo ridurre lo spazio economico in cui prolifera il lavoro nero e gravemente sfruttato, possiamo pretendere la sicurezza
sul lavoro, possiamo limitare la gestione fraudolenta delle imprese che evadono tasse e contributi. Nei pochi ambiti in cui
esiste la tracciabilità dei prodotti dovremmo poi porre attenzione alla loro provenienza; non sono molte le notizie fruibili ma
qualche scelta la si può fare. A Reggio Emilia, ad esempio, dal 2011 c’è il negozio Etico in via IV novembre in zona stazione,
dove poter trovare prodotti di cooperative reggiane impegnate in percorsi di legalità. In particolare, i prodotti di Libera Terra
[1] e del Consorzio Goel persona.”[2]. Poi, c’è l’esperienza dei Gas (Gruppi di acquisto solidale), come anche il percorso del
Distretto di economia solidale.[3]
Vi sono anche altri ambiti che non abbiamo approfondito, ma che meritano attenzione: dall’accattonaggio alla vendita in
strada di oggetti vari ed eventuali. E’ necessario chiedersi chi organizza l’attività che, non serve sottolinearlo, non è certo
libera e regolare. Non solo chi vi opera non ha un contratto di lavoro, ma ben difficilmente la merce proverrà da imprese che
producono e vendono rispettando i diritti e applicando le norme. Piuttosto che elargire denaro o acquistare la merce,
sarebbe meglio offrire un panino o un maglione che, probabilmente, verrà goduto dalla persona che sta chiedendo.
Le mafie rendono schiavi, non alimentiamole.
[1] www.terrelibere.org
[2]
[3]
www.goel.coop
http://desreggioemilia.wordpress.com/tag/des-reggio-emilia/
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Fonti
- Le mafie in Emilia Romagna - Facoltà di Giurisprudenza MAFIE E ANTIMAFIA Prof. Stefania Pellegrini A.A.
2011/2012
- La criminalità straniera a Reggio Emilia - Enzo Ciconte, 2009
- Intervista a Francesca Angelucci, operatrice del progetto Rosemary ( Reggio Emilia), 2012
- http://it.wikipedia.org/wiki/ Trattamento_legale_della_prostituzione
- http://it.wikipedia.org/wiki/_Legge_Merlin
- Legge 228 del 2003 “Misure contro la tratta di persone”
- http://www.municipio.re.it/retecivica > Servizi sociali - Welfare > Strutture ed interventi sociali gestiti dal comune >
Progetto Rosemary
- http://sociale.regione.emilia-romagna.it/….progetto oltre la strada
- Intervista a Giovanna Bondavalli resp. Progetto Rosemary Reggio Emilia
- Dossier “Le mafie in Emilia Romagna” del Laboratorio di giornalismo antimafia nel corso “mafie e antimafia” delle
facoltà di scienze politiche e giurisprudenza di Bologna, aggiornato al 14.05.2012
- “Mafie senza confini, noi senza paure. Dossier Emilia Romagna” della Fondazione Libera Informazione – Dicembre
2011
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- Corriere del Mezzogiorno
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- Corriere della sera – redazione online - 9agosto2010
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- Internazionale n.1000 17/23 maggio 2013,: art – “Sfruttamento stagionale” di Mathilde Auvillain
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Reggio Emilia maggio 2013
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