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Un polimero (dal greco molte parti) - Dmfci
Università degli Studi di Catania Facoltà di Ingegneria Corso di Laurea Specialistica in Ingegneria Meccanica Corso di TECNOLOGIE DI CHIMICA APPLICATA Docente Prof. G. Siracusa I materiali polimerici A cura degli studenti: Flaminio Indelicato Davide Leotta Anno Accademico 2006-2007 INTRODUZIONE Un polimero (dal greco molte parti) è una macromolecola, ovvero una molecola dall'elevato peso molecolare, costituita da un gran numero di piccole molecole (i monomeri) uguali o diverse (copolimeri) unite a catena mediante la ripetizione dello stesso tipo di legame. Benché a rigore anche le macromolecole tipiche dei sistemi viventi (proteine, acidi nucleici, polisaccaridi) siano polimeri, col termine "polimeri" si intendono comunemente le macromolecole di origine sintetica: materie plastiche, gomme sintetiche e fibre tessili (ad esempio il nylon), ma anche polimeri sintetici biocompatibili largamente usati nelle industrie farmaceutiche, cosmetiche ed alimentari, tra cui i polietilenglicoli (PEG), i poliacrilati e i poliamminoacidi sintetici. Lo studio dei polimeri parte, storicamente, dallo studio dei composti organici. Per composti organici si intendono tutti i composti del carbonio e dei suoi derivati, e l’aggettivo deriva dal fatto che era considerato impossibile sintetizzare in laboratorio, mediante procedure chimiche, le molecole del carbonio. Una grossa novità si ebbe allora nel 1828, allorché il tedesco Wohler riscaldando isocianato di ammonio ottenne un composto organico suo isomero, l’urea, aprendo così la strada alla sintesi artificiale delle molecole organiche. La differenza fondamentale tra le molecole di piccole dimensioni e i polimeri risiede innanzitutto nel loro peso molecolare, e nel comportamento che hanno in soluzione. Infatti lo scioglimento di un polimero in un solvente genera solitamente soluzioni assai viscose (si pensi alle vernici). Inizialmente si credette che tali comportamenti derivassero dalla presenza di interazioni deboli tra piccole molecole, e solo nel 1920 il tedesco Hermann Staudinger dimostrò che si trattava invece di grosse strutture molecolari, coniando così la definizione di “polimeri”. Essi stanno ai loro costituenti di base, i monomeri, esattamente come una collana di perle sta alle perline che la compongono. Tuttavia, già prima che tali studi definissero dal punto di vista teorico le caratteristiche e le peculiarità di questa particolare classe di prodotti chimici, dal punto di vista sperimentale si andarono affinando alcune tecniche di lavorazione di tali molecole, che avrebbero per sempre rivoluzionato il mondo dell’industria e della tecnica. Nel 1839 Goodyear mescolò per caso dello zolfo con del caucciù fuso, ottenendo un materiale che, pur conservando l’elasticità dell’originale, risultava molto più resistente di esso: aveva inventato il processo di vulcanizzazione della gomma. Successivamente Hancock, incoraggiato da tali risultati, inserì il caucciù nello zolfo fuso, ottenendo così l’ebanite. 1 CARATTERISTICHE CHIMICHE DEI POLIMERI Lo studio dei polimeri non può prescindere dalla definizione dei cosiddetti “gruppi funzionali”, ovvero di quei blocchi di atomi che caratterizzano le molecole organiche. I polimeri infatti risultano nella stragrande maggioranza dei casi formati dall’unione di molecole con differenti gruppi funzionali, dalla cui natura discendono le caratteristiche fisico-chimiche del polimero medesimo. Per quanto riguarda i legami tra atomi di carbonio, vanno distinti i composti saturi (alcani) in cui compaiono legami singoli, da quelli insaturi (alcheni e alchini), in cui risultano presenti legami doppi o tripli, derivanti da differenti ibridizzazioni dell’atomo di carbonio. Figura 1-Idrocarburi alifatici: alcani, alcheni e alchini Questi ultimi due sono detti insaturi proprio perché la rottura di uno dei legami multipli può portare all’aggiunta di nuovi atomi e quindi alla modifica della natura della sostanza. Ulteriore classe è quella degli idrocarburi aromatici, il cui capostipite è il benzene, una molecola ciclica formata da 6 atomi di carbonio e 6 di idrogeno, e circondata da una nube elettronica in condivisione. 2 Figura 2-Idrocarburi aromatici: molecola di toluene Nelle successive definizioni dei gruppi funzionali, mediante il simbolo R- si indicherà il gruppo di idrocarburo collegato all’insieme di atomi che caratterizzano il gruppo. E’ così possibile definire i seguenti gruppi funzionali: • Alcoli: sostituiscono all’idrogeno il gruppo OH: Figura 3-Gruppo funzionale degli alcoli • Tioalcoli: a differenza degli alcoli, sostituiscono all’idrogeno il gruppo -SH • Ammine: sostituiscono all’idrogeno il gruppo NH 2 3 Figura 4 – Gruppo funzionale delle ammine • Acidi organici: sostituiscono all’idrogeno il gruppo COOH. Sono acidi deboli e risultano, specie per i primi termini, solubili in acqua Figura 5 – Gruppo funzionale degli acidi organici • Derivati da alogeni: sostituiscono all’idrogeno elementi quali Cl, Br, F, I • Isocianati: sostituiscono all’idrogeno il gruppo R-N=C=O. Sono composti reattivi, in genere cancerogeni e molto pericolosi (si ricorda la strage di Bhopal, in India, dove morirono migliaia di persone per l’esplosione di una fabbrica di isocianato di metile) Figura 6 – Gruppo funzionale degli isocianati 4 Facendo reagire i precedenti composti si ottengono inoltre le seguenti sostanze: • Eteri: ottenuti per reazione di un derivato da alogeni con un alcol. La reazione libera un acido alogenidrico e produce il gruppo Figura 7– Gruppo funzionale degli eteri • Esteri: si ottengono per reazione di un acido e un alcol con liberazione di una molecola di acqua. Sono di odore piacevole e costituiscono un importante classe di polimeri, i poliesteri. Figura 8 – Gruppo funzionale degli esteri • Amminidi: ottenuti per reazione di un’ammina con un acido e con liberazione di acqua 5 Figura 9 – Gruppo funzionale delle amminidi • Uretani: ottenuti per reazione di un isocianato con un alcol. Figura 10 – Gruppo funzionale degli uretani • Uree: ottenuti per reazione di un isocianato e un’ammina. Figura 11 – Gruppo funzionale delle uree 6 Il peso molecolare La catena del polimero a un certo punto smette di crescere, o per eventi accidentali o per esaurimento dei reagenti. Le varie catene che si formano durante una reazione di polimerizzazione (le cui differenti tipologie saranno discusse più avanti) sono allora di lunghezza eterogenea. A differenza delle sostanze semplici, dunque, si ha una diversità tra le lunghezze delle diverse catene, e ciò rende molto difficile, oltreché inutile, separare polimeri di lunghezza differente. I polimeri industriali, dunque, non risultano omogenei in quanto al peso molecolare della catena, e per essi non è perciò determinabile un peso molecolare preciso. E’ allora necessario introdurre il peso molecolare medio M . Tuttavia non risulta definito un unico valore di peso molecolare medio, in quanto esso discende direttamente dalle metodologie e dai concetti di base utilizzati per la sua determinazione. Si distinguono allora il peso molecolare numerico, il peso molecolare ponderale e il peso molecolare viscosimetrico. Il primo valore è ottenuto suddividendo le catene in una serie di intervalli di lunghezza, e calcolando quindi la percentuale delle catene aventi uguale lunghezza. Il peso molecolare medio sarà allora espresso dalla relazione M n = ∑ xi ⋅ M i , ove M i rappresenta il peso molecolare medio nell’intervallo dimensionale i, e xi è la frazione del numero totale di catene all’interno del corrispondente intervallo dimensionale. Il secondo valore è basato, invece, sulla frazione in peso delle molecole all’interno di differenti intervalli di peso. Esso viene calcolato mediante la relazione M w = ∑ wi ⋅ M i , dove, ancora, M i è il peso molecolare medio all’interno dell’intervallo dimensionale i considerato, e wi indica la frazione in peso delle molecole entro lo stesso intervallo. Figura 12 – Distribuzione dei diversi pesi molecolari 7 Il terzo valore, infine, meno utilizzato degli altri, si basa sulla variazione di viscosità di un solvente in cui sia diluita una miscela polimerica. Trascurando quest’ultimo metodo, si osserva come i valori determinati con le prime due metodologie possano essere usati per qualunque tipo di molecole, comprese quelle di piccole dimensioni. Tuttavia, mentre in questo caso i due valori risultano coincidenti, ciò non avviene per le macromolecole, ed in particolare vale M w > M n . Ciò avviene in quanto il peso molecolare medio numerico tiene in maggiore considerazione le molecole piccole (che pertanto sono più numerose), mentre il peso molecolare ponderale tiene in maggior considerazione le molecole di grossa dimensione (che dunque presentano una frazione in peso superiore). Un semplice esempio di tale risultanza è dato considerando una miscela ipotetica di 1000 molecole con peso molecolare di 10000, e 1000 molecole con peso molecolare di 100000. Da semplici calcoli si osserva come vale M w =55000 e M n = 18200 . Figura 13 – Relazione tra peso molecolare numerico e ponderale Semplici considerazioni matematiche permettono inoltre di determinare il peso molecolare medio numerico note le frazioni ponderali, essendo M n = frazioni numeriche (o molari), essendo M w E’ allora importante conoscere il rapporto 1 , e il peso molecolare ponderale note le wi ∑M i ∑x M = ∑x M i 2 i i i . Mw , noto come polidispersità, in quanto maggiore è Mn tale valore, maggiore risulta l’eterogeneità della lunghezza delle catene. Un valore di polidispersità 8 unitario indica la presenza di polimeri che risultano tutti della medesima lunghezza, e tale eventualità, benché assai rara nei processi industriali, è frequentemente riscontrabile in natura. Numerose caratteristiche dei polimeri dipendono dall’entità del peso molecolare. Una di queste è la temperatura di fusione o di rammollimento, che cresce all’aumentare del peso molecolare (per M sino a circa 100000 g/mol). A temperatura ambiente, i polimeri con catene molto corte (pesi molecolari dell’ordine dei 100g/mol) si presentano allo stato liquido o gassoso. Quelli con peso molecolare intorno ai 1000 g/mol sono solidi cerosi (ad esempio cere e paraffine) e resine morbide. I polimeri solidi, a volte chiamati alti polimeri, normalmente hanno pesi molecolari che vanno dai 10000 ai diversi milioni di g/mol. Tecniche per la misura del peso molecolare Le metodologie utilizzate per la misura del peso molecolare sono: analisi dei gruppi terminali, osmometria, crioscopia ed ebullioscopia, tensione di vapore, diffusione della luce, ultracentrifugazione e metodo viscosimetrico. • Analisi dei gruppi terminali: Considera i gruppi terminali di ogni molecola, contandoli. Si determina così il numero totale di molecole (caratterizzate dal dato gruppo terminale), da cui si desume il peso molecolare. Nel caso di molecole piccole, e quindi più numerose, è maggiore la precisione di calcolo, che tuttavia resta molto bassa • Crioscopia ed ebullioscopia: la misura della variazione delle temperature di congelamento o ebollizione, che dipendono direttamente dalla concentrazione della soluzione, permette la misura della stessa. Tuttavia, poiché i coefficienti di proporzionalità tra concentrazione e variazione delle temperature sono molto piccoli, di fatto il metodo ha scarsa precisione. Infatti una concentrazione di 1m produce una variazione di alcuni decimi di grado. • Osmometria: è π = cRT , da cui, nota la pressione osmotica, è possibile determinare la concentrazione c. Considerato che a 0°C una soluzione 1M produce una pressione di circa 22atm, tale metodo garantisce adeguata precisione • Viscosimetria: il calcolo della viscosità intrinseca dei polimeri in soluzione determina il peso molecolare viscosimetrico. Dal punto di vista chimico, la reazione di formazione di un polimero può avvenire per sue strade, mediante policondensazione o mediante poliaddizione. Saranno adesso analizzati separatamente questi due sistemi differenti di polimerizzazione 9 La policondenzazione Detta anche polimerizzazione a stadi, la policondensazione è il processo di polimerizzazione che si verifica tra gruppi bifunzionali, con eventuale eliminazione di piccole molecole. Tale processo avviene step by step. In ogni caso è essenziale che i monomeri siano bifunzionali, con gruppi che possono essere uguali o distinti tra loro. Lo svantaggio derivante dall’utilizzo di monomeri con funzionalità distinte risiede nel fatto che qualora il dosaggio proporzionale risulti imperfetto la reazione non procederebbe ad alti pesi molecolari. Tale problema è allora aggirato mediante l’utilizzo di monomeri che contengano entrambi i gruppi funzionali. Un rischio sempre presente consiste nella possibilità che un’estremità del polimero in formazione reagisca con l’altra, dando luogo a strutture cicliche. Tale evento limita l’allungamento della catena. Tale evenienza, da evitare nel caso di processi di polimerizzazione, è tuttavia assai frequente in natura. I veleni di molti serpenti, ad esempio, sono ciclopeptidi che intrappolano al loro interno il potassio, inibendone le funzioni nel sistema nervoso. Per la formazione di catene molto allungate si fa uso di soluzioni concentrate dei reagenti (molti monomeri aumentano la densità e favoriscono la linearizzazione). Per formare catene cicliche, di converso, si usano soluzioni dei reagenti diluite. In un processo di polimerizzazione a stadi è essenziale conoscere, istante per istante, il grado di polimerizzazione p, da cui discende direttamente il peso molecolare raggiunto dal polimero. Il grado di polimerizzazione p, detto N 0 il numero di molecole all’inizio della reazione, ed N il numero di molecole presenti all’istante t, risulta definito come p = N0 − N . All’istante t il numero N0 di unità ripetitive (monomeri) mediamente aggregate in un polimero è detto x n , risulta pari al rapporto tra il numero di molecole iniziali e quelle attualmente presenti nella reazione x n = N0 , ed N è legato al peso molecolare medio del polimero dalla relazione M n = x n ⋅ Pm , ove Pm è il peso molecolare del singolo monomero. Poiché vale, da semplici passaggi matematici, x n = N0 1 = , N 1− p si desume come il grado di polimerizzazione da raggiungere in un polimero discenda dal peso molecolare medio che si vuole ottenere. Tuttavia, si osserva come per p=0.5 vi è solo formazione di dimeri, per p=90% si realizzano solo decameri, e così via. Per ottenere dunque polimeri propriamente detti, si deve fare tendere il grado di polimerizzazione a valori assai prossimi all’unità. La presenza, anche minima, di monomeri monofunzionali decrementa moltissimo il valore di p e quindi quello del peso molecolare dato che, come è facilmente intuibile, le catene non hanno più la possibilità di procedere all’allungamento. Anche l’eccesso di uno dei due reagenti (qualora la 10 reazione avvenga tra coppie di monomeri che hanno un solo tipo di gruppo funzionale) oltre le proporzioni dovute determina un abbassamento del grado di polimerizzazione. Per polimeri polifunzionali si realizza una gelatinizzazione al crescere del grado di polimerizzazione, finché il polimero, inizialmente in soluzione, non cresce più e può essere indurito. La reazione di policondensazione può avvenire mediante tre possibili procedure: • Polimerizzazione a massa. Tale reazione avviene in assenza di solventi. Sono necessari bassa viscosità, permanenza allo stato liquido ed eliminazione delle piccole molecole liberate dalla reazione. Tali condizioni sono favorite da alte temperature (oppure da basse pressioni), che però rischiano di danneggiare alcune molecole organiche, qualora presenti • Polimerizzazione a soluzione. Tale reazione avviene, a differenza della precedente, in solventi dei monomeri da utilizzare e del polimero da ottenere. Inoltre, in soluzione avvengono molto più facilmente i passaggi di calore destinati alla reazione. Utilizzando solventi che risultino tali, ad esempio, sino ai pentameri, è possibile riuscire a formare minipolimeri. • Polimerizzazione all’interfaccia. Quest’ultima tipologia consiste nell’utilizzo di due differenti fasi di soluzione. Ad esempio, nel caso di reazione tra una diammina H 2 N − R − NH 2 e un di acido ClOC − R − COCl , il primo monomero è solubile in acqua, mentre il secondo nel solo cloroformio CHCl 3 . La reazione di polimerizzazione potrà allora avvenire solamente all’interfaccia tra la fase acquosa e la fase cloroformica. Le molecole liberate dalle reazioni (nel caso in esame si ha liberazione di acido cloridrico) si disciolgono in uno dei due solventi (in tal caso acqua), dove è opportuno prevedere la presenza di sostanze che le neutralizzino, come, per il caso in esame, idrossido di sodio NaOH . L’adozione di un’agitazione molto vigorosa porta alla formazione di piccole goccioline che, incrementando notevolissimamente la superficie totale di interfaccia, favoriscono una polimerizzazione pressoché totale. La polimerizzazione a catena Molti polimeri vengono prodotti per mezzo di utilizzo di idrocarburi insaturi (che presentano cioè, come già accennato, legami doppi o tripli tra atomi di carbonio nella catena), che risultano spesso molto reattivi e in cui la rottura del doppio legame è molto facile e frequente. Tale rottura porta alla formazione di un radicale libero, cioè una molecola che possiede un elettrone delocalizzato ed è pertanto molto reattiva e con vita media assai breve. E’ allora facile che tale molecola inneschi la reazione in un altro alchene (o alchino), avviando così la reazione di polimerizzazione. Ad esempio, 11 la formazione del polietilene avviene grazie alla rottura del doppio legame nella molecola dell’etilene H 2 C = CH 2 , che porta a una polimerizzazione del tipo − CH 2 − CH 2 − CH 2 − CH 2 − , indicata sinteticamente con l’espressione [−CH 2 − CH 2 −] n , ove n è il numero di unità presenti nel polimero ottenuto, ed è quindi anche indicato come indice di polimerizzazione. Si osserva come in tale processo NON si abbia liberazione di nessuna molecola. Affinché la reazione descritta abbia inizio (una volta innescata si propaga spontaneamente) è necessario introdurre nel sistema un attivatore, noto come attivatore radicalico, costituito da un radicale libero che avvii la rottura dei doppi legami nei monomeri insaturi. Il valore massimo del peso molecolare raggiungibile, che dipende dal grado di polimerizzazione, risulta di fatto inversamente proporzionale al numero di attivatori presenti (in quanto, almeno in teoria, si forma una catena per ogni attivatore, e quindi più sono le catene più queste risultano corte), ma si osserva come, nel caso di poliaddizione e a differenza della policondensazione, il peso molecolare cresce subito, anche per bassi valori di polimerizzazione: A catena Mn A stadi p Figura 14 – Differenza in termini di M n tra le differenti polimerizzazioni Tale sistema garantisce pertanto alti pesi molecolari. Inoltre è eliminato il problema, presente nella polimerizzazione a stadi, della purezza dei reagenti. Tuttavia eventuali impurezze non devono interagire con gli iniziatori, così da impedire la polimerizzazione. Il processo di polimerizzazione ha generalmente termine con l’esaurimento dei monomeri reagenti. La molecola formata sarà ancora legata all’attivatore radicalico, che però si distacca per reazione con il solvente o con le stesse pareti del recipiente. La terminazione delle molecole può anche 12 avvenire per reazione tra due catene, e ad ogni modo porterà alla comparsa, alle estremità delle molecole stesse, di gruppi − CH 3 o = CH 2 , contando i quali si può avere una stima del numero di molecole presenti. Nella seguente tabella vengono presentati le sigle e le strutture di base di alcuni dei più comuni polimeri di utilizzo corrente: 13 Figura 15 – Unità ripetitive dei polimeri a maggior diffusione e utilizzo Polimeri termoplastici e termoindurenti I polimeri termoplastici sono, a temperatura ambiente, legati tra loro da legami deboli o di Van der Waals. Alla temperatura di transizione vetrosa (che sarà definita più in avanti) tali legami si rompono, e i polimeri divengono lavorabili. Riportati a temperature inferiori assumono la forma ricevuta e la mantengono. Tali polimeri sono adatti al riciclo, come dimostrano i processi industriali di riciclo, ad esempio, riguardanti i parafanghi e i sedili delle automobili, rispettivamente in polipropilene e poliuretano, per la produzione di tappetini ad uso automobilistico. I polimeri termoindurenti hanno bassi pesi molecolari a temperatura ambiente, mentre a temperature più alte si formano tra le catene veri e propri legami chimici, che producono un aumento esponenziale dei valori del peso molecolare. Tale processo è detto di curing, o di reticolazione. Tali materiali sono molto difficili da riciclare, in quanto i nuovi legami formati a 14 seguito delle operazioni di curing sono definitivi. I termoindurenti trovano applicazioni in sistemi particolari come gli isolanti degli aerei o le vernici delle autovetture. La forma delle molecole Le molecole di una catena polimerica non sono rigorosamente lineari, ovvero bisogna tenere conto della conformazione a zig-zag degli atomi della struttura di base. I legami di una singola catena, infatti, sono in grado di ruotare e flettersi nello spazio. Come visibile dalla fig. 16, gli atomi di carbonio possono collocarsi in ciascun punto di un cono di rivoluzione che mantenga costante l’angolo di apertura, dando così origine a conformazioni lineari (in un caso), o a catene inclinate e ritorte (nell’altro caso). Figura 16 – Differenti possibilità di orientamento della catena molecolare Pertanto una singola molecola della catena, composta da molti atomi, potrebbe assumere tutta una serie di piegamenti, contorcimenti e cappi. In tal caso si osserva come la distanza inizio-fine della catena sia molto minore della lunghezza totale della catena. Figura 17 – Rappresentazione della struttura a gomitolo di una macromolecola 15 I polimeri, a loro volta, sono poi costituiti da un gran numero di catene molecolari, ciascuna delle quali può inclinarsi, arrotolarsi a spirale e formare cappi, come la molecola considerata in figura 17. Ciò porta a un notevole intrecciamento ed aggrovigliamento delle molecole di catene adiacenti, che sono alla base di alcune importanti caratteristiche dei polimeri, compresa la grande sensibilità elastica offerta dalle gomme. Alcune delle caratteristiche meccaniche e termiche dei polimeri dipendono dalla capacità di segmenti di catena di ruotare in risposta a sforzi applicati o ad oscillazioni termiche. La flessibilità alla rotazione dipende dalla struttura e dalla chimica dei monomeri. Per esempio, la parte di catena che ha un legame doppio C=C è rigida alla rotazione. Anche l’introduzione di un gruppo laterale voluminoso riduce i movimenti rotazionali. Per esempio, le molecole di polistirene, che hanno un gruppo laterale fenile, sono più resistenti alle sollecitazioni rotazionali di quanto non lo siano le catene di polietilene. La struttura molecolare Le caratteristiche fisiche di un polimero dipendono non solo dalla sua forma e dal suo peso molecolare, ma anche dalle differenze di configurazione strutturale delle catene molecolari. Le moderne tecniche di sintesi dei polimeri consentono un notevole controllo sulla produzione delle varie alternative strutturali. Si hanno allora diverse possibili strutture molecolari, e verranno di seguito descritte le più importanti. • Polimeri lineari. Sono quelli in cui le unità monomeriche sono unite da un estremo all’altro in una singola catena. Queste lunghe catene sono flessibili e possono essere immaginate come una massa di spaghetti, come si vede in fig. 18 a), ove ciascun cerchio rappresenta un’unità monomerica. Tra le catene dei polimeri lineari vi possono essere numerosi legami di tipo Van der Waals. Tra i polimeri lineari di maggior impiego comune che presentano strutture lineari vi sono il polietilene, il cloruro di polivinile, il polistirene, il polimetilmetacrilato, il nylon ed i fluorocarburi. • Polimeri ramificati. I polimeri possono essere sintetizzati in modo che dalla catena si dipartano ramificazioni laterali, come schematizzato in fig. 18 b). I rami, da considerarsi parte delle molecole della catena principale, sono generati da reazioni laterali che avvengono durante la sintesi del polimero. Con la formazione delle ramificazioni si riducono le capacità di impacchettamento della catena, per cui la densità del polimero diminuisce. Gli stessi polimeri che formano strutture lineari possono anche essere polimeri ramificati. 16 • Polimeri a legami incrociati. In tali polimeri le catene adiacenti lineari sono tenute unite l’una all’altra da legami covalenti in vari punti, come si può vedere dalla fig. 18 c). Lo sviluppo dei legami incrociati è ottenuto sia durante la sintesi, sia con una reazione chimica non reversibile che viene normalmente effettuata ad elevata temperatura. Spesso questi legami incrociati si ottengono mediante aggiunte di atomi o molecole che si legano alla catena principale con legami covalenti. Molti materiali gommosi ed elastici presentano legami incrociati, e nelle gomme tale caratteristica è chiamata vulcanizzazione. • Polimeri reticolati. Le unità monomeriche trifunzionali che hanno tre legami covalenti attivi formano reti tridimensionali, come osservabile in fig. 18 d), e sono denominati polimeri reticolati. In effetti, un polimero che presenta un elevato grado di legami incrociati può essere classificato come un polimero a rete. Questi materiali hanno proprietà meccaniche e termiche caratteristiche, e tra essi vi sono le resine epossidiche e le fenoloformaldeide. Figura 18 – Catene polimeriche a caratteristiche strutturali differenti 17 La struttura molecolare Per i polimeri che presentano più di un atomo o gruppi di atomi legati lateralmente alla catena principale, la regolarità e la simmetria della configurazione del gruppo laterale possono influenzare significativamente le proprietà del polimero stesso. Si consideri l’unità monomerica nella quale R rappresenta, come già visto, un atomo o gruppi laterali diversi dall’idrogeno (ad esempio Cl o CH 3 ). Una configurazione possibile prevede il succedersi di unità monomeriche con il gruppo laterale R nello stesso ordine, in modo da alternare R nella catena: Questa configurazione è chiamata testa-coda. La sua complementare è la configurazione testa-testa, la quale si presenta quando i gruppi R si legano ad atomi di catena adiacenti: Nella maggior parte dei polimeri predomina la configurazione testa-coda, poiché, spesso, nella configurazione testa-testa si manifesta una repulsione polare tra i gruppi R. Nelle molecole polimeriche si presenta anche il fenomeno dell’isomerismo, per il quale composti aventi la stessa composizione chimica presentano differenti configurazioni atomiche. Verranno ora presentate due sottoclassi di isomerismo: lo stereoisomerismo e l’isomerismo geometrico: • E’ presente steroisomerismo allorquando gli atomi sono collegati tra loro nello stesso ordine (testa-coda) ma differiscono nella loro disposizione spaziale. Per uno stereoisomero, tutti i gruppi R sono situati nello stesso lato della catena, come qui indicato: 18 Questa configurazione è detta isotattica. In una configurazione invece sindiotattica i gruppi R si alternano sui lati della catena: Infine si parla di configurazione atattica per un posizionamento casuale: La conversione di uno stereoisomero da una forma all’altra non è possibile con una semplice rotazione dei singoli legami della catena, ma occorre prima recidere i legami i quali, poi, dopo che sia avvenuta l’appropriata rotazione, vengono ricostruiti. Nella realtà ogni polimero può presentare più di una configurazione e la forma predominante fra queste dipende dal metodo di sintesi del polimero stesso. • L’isomerismo geometrico si realizza nel caso di unità monomeriche che presentino un doppio legame tra gli atomi di carbonio. Infatti, legato a ciascun atomo di carbonio formante il doppio legame vi può essere un singolo atomo o un radicale, il quali può essere situato da un lato o dall’altro della catena. Si consideri il monomero dell’isoprene avente la struttura: nella quale il gruppo CH 3 e l’atomo H sono posizionati dallo stesso lato della catena. Questa struttura è chiamata struttura cis ed il polimero risultante, il cis-poliisoprene, è la gomma naturale. Per l’isomero alternativo 19 che presenta la cosiddetta struttura trans, il CH 3 e l’H sono situati su lati opposti della catena. Il trans-poliisoprene, detto anche guttaperca, in virtù della differente conformazione isomerica, mostra proprietà nettamente distinte da quelle della gomma naturale. Non è possibile ottenere una conversione da trans a cis o viceversa mediante una semplice rotazione del legame della catena, dal momento che una catena contenente un doppio legame è estremamente rigida. Riassumendo quanto affermato in questo excursus sulle proprietà meramente chimiche dei polimeri, si può allora affermare come le molecole di un polimero possono essere caratterizzate dalla loro dimensione, forma e struttura. La dimensione delle molecole è definita dal peso molecolare (o grado di polimerizzazione). La forma delle molecole è correlata al grado di torsione, di flessione e di avvolgimento. La struttura molecolare dipende, invece, dalla maniera secondo la quale le unità strutturali sono legate tra di loro. Sono possibili tutti i tipi di strutture: lineare, ramificata, a legami incrociati, ed a legami reticolati, in aggiunta a differenti configurazioni isomeriche (isotattiche, sindiotattiche, atattiche, cis e trans). Queste caratteristiche delle molecole sono riassunte in fig. 19. Figura 19 – Schematizzazione delle fasi di definizione di una macromolecola 20 Copolimeri Studiosi e scienziati sono sempre alla ricerca di nuovi materiali polimerici che possano essere facilmente ed economicamente sintetizzati e prodotti ma che presentino, allo stesso tempo, migliori proprietà rispetto a quelle offerte dagli omopolimeri noti. I nuovi materiali inoltre tendono ad offrire una sinergia delle proprietà singolarmente offerte da più distinti polimeri. Questi materiali sono allora noti come copolimeri. Si consideri un copolimero formato da due unità monomeriche differenti. In funzione del processo di polimerizzazione e delle quantità relative dei due monomeri, sono possibili diverse distribuzioni dei monomeri lungo la catena del polimero. In un caso, come mostrato in fig. 20 a), le due differenti unità monomeriche sono casualmente disperse lungo la catena, dando luogo a quello che viene chiamato copolimero naturale. Nel caso di un copolimero alternato, come suggerisce il termine, le due unità monomeriche si alternano nella catena, come mostrato in fig. 20 b). Un copolimero a blocchi è un copolimero nel quale i monomeri identici sono raggruppati in blocchi lungo la catena (fig.20 c) ). Infine, su di una catena principale costituita da un omopolimero, possono essere innestati rami laterali costituiti da un omopolimero diverso da quello della catena principale. In questo caso si parlerà di copolimero a innesto (fig. 20d) ). Figura 20 – Differenti tipologie di copolimeri Le gomme sintetiche sono spesso copolimeri; le unità monomeriche impiegate in alcune di queste gomme sono riportate in fig. 21. La gomma stirene-butadiene (SBR) è un comune copolimero casuale col quale si producono i pneumatici per automobile. La gomma nitrile (NBR) è un altro 21 copolimero casuale composto da acrilonitrile e butadiene. Molto elastico e fortemente resistente ai solventi organici, l’NBR è usato per la costruzione dei tubi per il rifornimento di carburante. Figura 21 – Unità strutturali di alcune tra le più diffuse gomme sintetiche 22 CARATTERISTICHE STRUTTURALI DEI POLIMERI Lo stato amorfo Nei polimeri amorfi il numero di conformazioni possibili (a energia pressoché equivalente) è estremamente elevato per cui, se la temperatura è sufficientemente alta, non è possibile pensare a una catena come congelata in una specifica posizione nello spazio. I legami vincolano gli atomi a distanze relative fisse, ma non impediscono la rotazione intorno ai legami stessi. Tali rotazioni sono rese possibili dal fatto che l’energia cinetica posseduta dai singoli gruppi molecolari che costituiscono la macromolecola è superiore alle barriere di potenziale che ostacolano le rotazioni attorno ai legami chimici. In questo modo la posizione degli atomi nella catena, e dei gruppi ad essa collegati, si modifica in continuazione col risultato che anche la forma complessiva della macromolecola si modifica continuamente. E’ possibile dimostrare, secondo argomentazioni statistiche, che la forma media delle molecole dei polimeri lineari con catene sufficientemente flessibili è quella di un gomitolo al cui interno al disposizione degli atomi costituenti la catena è casuale e variabile nel tempo. Ogni gomitolo è poi aggrovigliato con tutti i gomitoli adiacenti, per cui le catene risultano fortemente interconnesse. Se i gomitoli sono interpenetrati, la loro separazione è resa difficoltosa dalla presenza di intrecci labili che legano tra loro, temporaneamente, le molecole. Affinché le lunghe catene polimeriche possano raggiungere la conformazione a gomitolo è necessario che abbiano mobilità elevata, che si ottiene quando il materiale è allo stato fuso oppure in soluzione. Se la temperatura viene ridotta si determina una riduzione di mobilità e una contrazione di volume. Se l’ordine strutturale della catena è sufficiente, il progressivo avvicinamento e la ridotta mobilità delle catene consentono la cristallizzazione del materiale. In caso contrario, si assiste a un progressivo aumento della viscosità del liquido. La diminuzione di mobilità non procede uniformemente durante il raffreddamento. In tutti i polimeri non cristallizzabili la mobilità molecolare si riduce notevolmente in un ristretto intervallo di temperatura. A temperature inferiori a questo intervallo il polimero si presenta come una sostanza dura, quasi sempre trasparente, di modulo elastico relativamente elevato. Questo stato fisico è detto vetroso. Si osserva come i vetri polimerici, contrariamente a quanto possa sembrare, possono essere, oltre che fragili (PS, PMMA) anche tenaci (PVC, ecc.). I valori dei moduli elastici variano tipicamente tra 2 e 5 GPa, mentre per un acciaio si arriva ai 210 GPa. 23 Lo stato cristallino I materiali polimerici possono esistere anche allo stato cristallino. Tuttavia, poiché si tratta di molecole invece che di atomi o di ioni, come nel caso dei metalli e dei ceramici, nel caso dei polimeri le disposizioni atomiche sono più complesse. Si deve pensare alla cristallinità dei polimeri come ad un impacchettamento delle catene molecolari al fine di produrre una struttura atomica ordinata. Le strutture cristalline possono essere descritte in termini di celle unitarie che sono spesso abbastanza complesse. Ad esempio, la fig. 22 mostra la cella unitaria per il polietilene e la sua relazione con la struttura molecolare della catena. Questa cella unitaria ha geometria ortorombica. Ovviamente le molecole della catena si estendono anche oltre la cella unitaria mostrata nella figura. Figura 22 – Struttura cristallina del PE Le sostanze molecolari che hanno molecole piccole (ad es. acqua e metano) sono normalmente del tutto cristalline (come i solidi) o del tutto amorfe (come i liquidi). Invece, a causa delle loro dimensioni e complessità delle molecole, i polimeri sono di solito solamente parzialmente cristallini (le loro molecole sono allora dette semicristalline), presentando regioni cristalline disperse all’interno della restante massa amorfa. Ogni disallineamento o disordine all’interno della catena dà luogo a regioni amorfe, una condizione che è piuttosto comune dal momento che torsioni, cappi e 24 ed attorcigliamenti impediscono uno stretto ordinamento di ogni segmento di ogni catena. Altri effetti della struttura hanno influenza nel determinare l’estensione della zona cristallina. Il grado di cristallinità di un polimero può variare da zero, ovvero polimero completamente amorfo, allo stato completamente cristallino (oltre il 95%), mentre, al contrario, i metalli sono pressoché sempre interamente cristallini e i ceramici possono essere sia totalmente cristallini che totalmente amorfi. A parità di peso molecolare, la densità di un polimero cristallino è maggiore di quella dello stesso polimero amorfo, dal momento che, in una struttura cristallina, le catene sono raggruppate insieme in maniera più compatta. Il grado di cristallinità può essere determinato mediante accurate misure della densità, e vale: %cristallinità = ρ c (ρ s − ρ a ) × 100 , ove ρ s è la densità del campione del quale si vuole determinare ρ s (ρ c − ρ a ) il grado di cristallinità, ρ a è la densità del polimero totalmente amorfo e ρ c è la densità del polimero puramente cristallino. I valori di ρ a e ρ c devono essere misurati sperimentalmente. Il grado di cristallinità di un polimero dipende dalla velocità di raffreddamento durante la solidificazione, così come dalla configurazione delle catene. Durante il processo di cristallizzazione per raffreddamento a partire dalla temperatura di fusione, le catene, che sono fortemente disperse e aggrovigliate nel liquido viscoso, devono assumere una configurazione ordinata. Perché ciò accada si deve lasciare tempo sufficiente perché le catene si muovano e si allineino. Anche la composizione chimica della struttura, oltre che la configurazione della catena, influenza la capacità di un polimero di cristallizzare. La cristallinità non è favorita nei polimeri che sono composti da monomeri con strutture chimicamente complesse (ad esempio il polistirene). D’altro canto si può facilmente evitare la cristallizzazione nei polimeri chimicamente semplici come il polietilene e il politetrafluoroetilene anche applicando tempi di raffreddamento molto rapidi. La cristallinità si può facilmente ottenere nel caso di polimeri lineari, dal momento che praticamente non ci sono limitazioni all’allineamento delle catene. Le ramificazioni laterali non presentano mai un elevato grado di cristallinità; in effetti la ramificazione eccessiva può impedire ogni possibilità di cristallizzazione. I polimeri reticolati sono quasi totalmente amorfi, mentre si possono avere vari gradi di cristallinità per i polimeri a legami incrociati. Riguardo agli stereoisomeri, i polimeri atattici cristallizzano difficilmente, mentre i polimeri isotattici e sindiotattici cristallizzano molto più facilmente grazie alla regolarità della geometria dei gruppi laterali che facilita l’avvicinamento di catene adiacenti. In definitiva, tanto più i gruppi sono voluminosi, tanto meno si manifesta la tendenza alla cristallizzazione. 25 Come regola generale per i copolimeri, tanto più irregolari e casuali sono le disposizioni dei monomeri, tanto maggiore è la tendenza alla non cristallinità. Per i polimeri alternati e a blocchi, vi è qualche tendenza alla cristallizzazione, mentre i copolimeri casuali sono di norma amorfi. Le proprietà fisiche dei materiali polimerici sono influenzate dal grado di cristallinità. I polimeri cristallini sono di norma più forti e resistenti alla temperatura, ovvero alla fusione ed al rammollimento. I cristalli polimerici Vengono adesso enunciati alcuni modelli utilizzati per descrivere la distribuzione spaziale delle molecole nei polimeri cristallini. Uno dei primi modelli, seguito per molti anni, è il modello a micelle frangiate. In esso si ipotizza che un polimero semicristallino sia formato da piccole regioni cristalline (chiamate cristalliti o micelle) aventi un preciso allineamento e disperse all’interno di una matrice amorfa composta da molecole orientate in modo del tutto casuale. Secondo questo modello, una singola catena potrebbe attraversare sia diversi cristalliti, sia regioni amorfe. Ciò è mostrato in fig.23 Figura 23 – Rappresentazione a micelle frangiate Più recentemente le ricerche sono state focalizzate su singoli cristalli polimerici ottenuti da soluzioni diluite. Questi cristalli presentano forma regolare, sottili placchette (o lamelle) approssimativamente dello spessore di 10-20 nm e lunghe circa 10 μm. Frequentemente queste lamelle formano strutture multistrato come mostrato dalla micrografia elettronica di un singolo cristallo di polietilene di figura 24. 26 Figura 24 – Struttura a “placchetta” di un cristallo di PE Si ipotizza che le catene molecolari all’interno di ciascuna lamella si ripieghino su se stesse, presentando la piegatura sulla superficie esterna. Questa struttura, propriamente detta modello a catena ripiegata, è illustrata in fig. 25. Ciascuna lamella è costituita da un certo numero di molecole, ma la lunghezza media di ciascuna catena è molto più grande dello spessore di una lamella. Figura 25 – Rappresentazione a catena ripiegata Molti polimeri che sono cristallizzati da un fuso formano sferuliti. Come indica il nome, ogni sferulita cresce con una forma approssimativamente sferica. Uno sferulita è costituito da un aggregato di cristalliti (lamelle) a forma di nastro a catene ripiegate, spesse circa 10 nm e che si irradiano dal centro verso l’esterno. Nella micrografia elettronica, queste lamelle appaiono come sottili linee bianche. La struttura in dettaglio di uno sferulita è riportata in fig. 26. In essa si possono 27 notare i cristalli lamellari a singola catena ripiegata, separati tra loro da materiale amorfo. Attraverso regioni amorfe le lamelle adiacenti vengono collegate mediante catene molecolari. Quando il processo di cristallizzazione di una struttura sferulitica giunge al completamento, le estremità di sferuliti adiacenti cominciano ad urtarsi formando confini più o meno piani; prima di questo momento esse mantengono però la loro configurazione sferica. Gli sferuliti dei polimeri possono essere considerati analoghe ai grani cristallini nelle strutture metalliche e ceramiche. Tuttavia ciascun sferulita è in realtà composto da molti cristalli lamellari e materiale amorfo. Polietilene, polipropilene, cloruro di polivinile, politetrafluoroetilene e nylon formano strutture sferulitiche quando cristallizzano da fusi. Figura 26 – Struttura di uno sferulita Fenomeni di cristallizzazione, fusione e transizione vetrosa La cristallizzazione è il processo per il quale, mediante raffreddamento, partendo da un fuso a struttura molecolare altamente disordinata, si perviene a una fase solida ordinata. La comprensione di questo meccanismo nei polimeri è importante, dal momento che il grado di cristallinità influenza le proprietà termiche e meccaniche di questi materiali. La cristallizzazione di un polimero fuso avviene attraverso processi di enucleazione e crescita. Per i polimeri, raffreddando al di sotto della temperatura di fusione, si formano nuclei all’interno dei quali piccole aree di molecole disordinate e 28 casualmente orientate diventano ordinate e orientate, formando strati di catene ripiegate. A temperature superiori a quella di fusione questi nuclei sono instabili a causa delle vibrazioni termiche degli atomi che tendono a rompere le configurazioni molecolari ordinate. Dopo la formazione dei nuclei, e durante la fase di sviluppo della cristallizzazione, i nuclei crescono continuamente, dal momento che ulteriori segmenti di catene molecolari si ordinano e si allineano alle precedenti; gli strati a catene ripiegate, cioè, aumentano le dimensioni laterali oppure, nel caso di strutture sferulitiche, aumenta il raggio dello sferulita. La dipendenza della cristallizzazione dal tempo è la stessa di molte altre trasformazioni allo stato solido; cioè il fenomeno può essere descritto da una curva sigmoidale in una rappresentazione grafica che riporti, a temperatura costante, in ordinate la percentuale della trasformazione (ad esempio la frazione di cristallizzazione) ed in ascisse il tempo in scala logaritmica. Un esempio di tale curva è riportata in fig. 27 in riferimento alla cristallizzazione del polipropilene a tre diverse temperature. Figura 27 – Andamento temporale della cristallizzazione del polipropilene Matematicamente, la frazione di cristallizzazione y è una funzione del tempo t secondo l’equazione di Avrami: y = 1 − e − kt n , dove k ed n sono costanti indipendenti dal tempo, i cui valori dipendono dal sistema di cristallizzazione. Naturalmente l’estensione della cristallizzazione è misurata campionando i cambiamenti di volume, dal momento che viene a determinarsi una differenza di volume tra le fasi liquida e cristallizzata. La velocità di cristallizzazione può essere determinata matematicamente, essendo essa pari al reciproco del tempo richiesto per cristallizzare il 50% del fuso. La velocità, d’altra parte, dipende anche dalla temperatura alla quale la cristallizzazione stessa avviene, ed anche dal peso molecolare del polimero; essa decresce 29 all’aumentare del peso molecolare. Per il polipropilene, tuttavia, non è mai possibile raggiungere il 100% della cristallinità. Per questo motivo, nella figura 27, è riportato il valore della frazione di cristallizzazione normalizzata. Il valore 1.0 di questo parametro corrisponde allora al massimo valore di cristallizzazione raggiunto durante le prove, che non è però pari al 100% in termini assoluti. La fusione di un polimero cristallino corrisponde alla trasformazione di un materiale solido avente una struttura a catene molecolari ordinate in un liquido viscoso la cui struttura è fortemente disordinata. Questa trasformazione avviene allorquando, riscaldando un siffatto materiale, si giunge alla sua temperatura di fusione T m . Vi sono alcuni aspetti caratteristici della fusione dei polimeri che non sono normalmente presenti nei processi di fusione dei metalli o dei materiali ceramici, in quanto detti aspetti scaturiscono dalla particolare struttura molecolare e dalla morfologia lamellare cristallina dei polimeri. Innanzitutto, il processo di fusione di un materiale polimerico avviene in un intervallo di temperatura e non ad una fissata temperatura. Inoltre, il comportamento alla fusione dipende dalla storia precedente del campione in esame e, in particolare, dalla temperatura a cui è avvenuta la sua cristallizzazione. Inoltre, dal momento che lo spessore delle lamelle dipende dalla temperatura di cristallizzazione, tanto maggiore è lo spessore delle lamelle, tanto maggiore è anche la temperatura di fusione. Infine, il reale comportamento alla fusione di un materiale polimerico dipende dalla velocità di riscaldamento, in quanto un riscaldamento più rapido determina un aumento della temperatura di fusione. A tutto ciò bisogna aggiungere che i materiali polimerici reagiscono ai trattamenti termici con modificazioni della loro struttura e delle loro proprietà. Ad esempio, si può ottenere un aumento dello spessore delle lamelle ricuocendo il pezzo appena al di sotto della T m . La ricottura poi, a sua volta, sortisce come effetto un aumento del valore della T m stessa. La transizione vetrosa si presenta nei polimeri amorfi e semicristallini, ed è dovuta alla riduzione della mobilità di grandi segmenti di catene molecolari al diminuire della temperatura. Per raffreddamento di polimero fuso si incorre nella graduale trasformazione da un liquido ad un materiale gommoso e quindi a un solido rigido; quest’ultimo passaggio corrisponde alla transizione vetrosa. In particolare, la temperatura alla quale un polimero subisce la trasformazione da uno stato gommoso ad uno rigido è detta temperatura di transizione vetrosa T g . Naturalmente la stessa sequenza di eventi si riproduce in ordine inverso quando un vetro rigido si trova ad una temperatura 30 inferiore a T g e viene riscaldato. Inoltre, il passaggio attraverso la transizione vetrosa è accompagnato da bruschi cambiamenti di alcune proprietà fisiche dei polimeri, come ad esempio la rigidezza, la capacità termica ed il coefficiente di dilatazione termica. Sia la temperatura di fusione che quella di transizione vetrosa sono parametri molto importanti per le applicazioni industriali dei materiali polimerici. Esse definiscono, rispettivamente, i limiti superiore ed inferiore di temperatura permessi per numerose applicazioni ed, in special modo, per i polimeri semicristallini. La temperatura di transizione vetrosa, inoltre, definisce anche la temperatura limite superiore di utilizzo per i materiali amorfi vetrosi. Inoltre, T m e T g influenzano anche i processi di produzione e i successivi trattamenti dei polimeri e dei compositi a matrice polimerica. Le temperature alle quali si presentano nei polimeri i fenomeni di transizione vetrosa o di fusione vengono determinate con la stessa tecnica impiegata per i materiali ceramici, ovvero mediante un grafico nel quale è riportato il volume specifico in funzione della temperatura. La fig. 28 riporta questo grafico, nel quale le curve A e C, relative rispettivamente a polimeri amorfi e cristallini, presentano lo stesso andamento dei corrispondenti materiali ceramici. Figura 28 – Andamento del volume specifico per vari tipi di solido Per il materiale cristallino (curva C) si nota una discontinuità nel volume specifico in corrispondenza la raggiungimento della T m . Per il materiale totalmente amorfo (curva A) la curva è continua, ma si rileva sperimentalmente una leggera diminuzione di pendenza in concomitanza 31 della T g . Per un polimero semicristallino (curva B) il comportamento risulta intermedio tra questi estremi, in quanto per esso si possono osservare i fenomeni relativi sia alla fusione che alla transizione vetrosa, e le due temperature T m e T g sono caratteristiche, rispettivamente, della parte cristallina e di quella amorfa contenute all’interno del materiale semicristallino. In tabella sono riportate le temperature tipiche di fusione e transizione vetrosa di alcuni tra i polimeri più diffusi. Figura 29 – Valori termici caratteristici di alcuni polimeri Fattori che influenzano le temperature di fusione e transizione vetrosa Temperatura di fusione Durante la fusione di un polimero, nella trasformazione da stati molecolari ordinati a disordinati, si determina necessariamente un riassetto delle molecole. La chimica e la struttura molecolare influenzano la capacità delle molecole delle catene polimeriche a realizzare questo riassetto, ed influiscono sulla temperatura stessa di fusione. La rigidità della catena, che è determinata dalla facilità di rotazione intorno ai legami chimici lungo la catena stessa, è un altro fattore che ha forte influenza a riguardo. La presenza di doppi legami e di gruppi aromatici all’interno della catena diminuisce la flessibilità della catena medesima provocando, nel contempo, un aumento della temperatura di fusione. Ancora, le dimensioni ed il tipo dei gruppi laterali influenzano a loro volta la libertà di rotazione della catena e la sua flessibilità, generando, nel caso di gruppi laterali massicci o di grandi dimensioni, un aumento della temperatura di fusione. Ad esempio il polipropilene ha una temperatura di fusione più alta del polietilene. Infatti, il gruppo metile laterale CH 3 del polipropilene ha dimensioni maggiori dell’atomo H che si trova al suo posto nel polietilene. La presenza di gruppi laterali polari (come Cl, OH, CN), anche se non eccessivamente elevata, porta l’instaurarsi di forze di legame 32 intermolecolari significative, ed a T m relativamente elevate. Ciò si osserva confrontando le temperature di fusione del polipropilene e del polivinilcloruro. Per un determinato polimero la temperatura di fusione dipende anche dal peso molecolare. Per pesi molecolari relativamente bassi, aumentare M fa incrementare T m , come dimostrato dal grafico in fig. 30. Figura 30 – Andamento di fusione e transizione vetrosa al variare del peso molecolare Inoltre, la fusione di un polimero ha luogo all’interno di un intervallo si temperature e così, di conseguenza, esiste una gamma di temperature di fusione piuttosto che una singola temperatura di fusione. Ciò è dovuto al fatto che ogni polimero è composto da molecole che presentano una certa diversità di pesi molecolari, e che T m dipende, a sua volta, dal peso molecolare. Per gran parte dei polimeri l’intervallo di temperatura di fusione è di norma dell’ordine di alcuni gradi centigradi. Anche il grado di ramificazione influisce sulla temperatura di fusione di un polimero. La creazione di ramificazioni laterali introduce imperfezioni nel materiale cristallino ed abbassa la temperatura di fusione. Il polietilene ad alta densità, essendo di struttura essenzialmente lineare, ha una temperatura di fusione più alta del polietilene a bassa densità, che invece presenta ramificazioni. Temperatura di transizione vetrosa Riscaldando un polimero amorfo al di sopra della sua temperatura di transizione vetrosa, esso si trasforma, passando da uno stato rigido a uno più gommoso. Corrispondentemente, le molecole, che al di sotto della Tg erano virtualmente congelate nelle loro posizioni, al superamento della Tg cominciano a manifestare movimenti rotazionali e traslazionali. Pertanto, il valore della 33 temperatura di transizione vetrosa è influenzato dalle caratteristiche molecolari che influenzano la rigidità della catena; gran parte di questi fattori e dei loro effetti sono gli stessi visti precedentemente per la temperatura di fusione. Anche in questo caso la flessibilità delle catene polimeriche diminuisce, e la Tg aumenta, a causa di: • presenza di gruppi laterali voluminosi • atomi o gruppi laterali polari • doppi legami o gruppi aromatici che tendono a irrigidire la struttura di base molecolare. Anche all’aumentare del peso molecolare la temperatura di transizione vetrosa tende ad innalzarsi. Una piccola quantità di ramificazioni tende ad abbassare Tg , mentre una forte presenza riduce la mobilità delle catene e quindi, in definitiva, innalza la temperatura di transizione vetrosa. Alcuni polimeri amorfi presentano legami incrociati che elevano al Tg . Infatti i legami incrociati tendono ad impedire la mobilità delle molecole. In presenza di un’alta densità di legami incrociati la mobilità delle molecole è virtualmente annullata; la mobilità molecolare ad ampio raggio risulta impedita a tal punto che questi polimeri non presentano transizione vetrosa né il conseguente ammorbidimento. 34 PROPRIETA’ MECCANICHE DEI POLIMERI Forze esterne agenti sui polimeri sono causa di deformazioni mediante processi in parte elastici e in parte viscosi. Le trasformazioni possono essere di natura reversibile sia dal punto di vista meccanico che termodinamico, come le variazioni di lunghezza e degli angoli di legami, o irreversibili termodinamicamente, come lo svolgimento dei gomitoli statistici, o ancora irreversibili sia meccanicamente che termodinamicamente, ove siano dovute allo scorrimento relativo delle catene. Modulo elastico dei polimeri amorfi Il modulo elastico dei polimeri vetrosi è indipendente dalla struttura chimica del materiale. A temperature sufficientemente più basse della transizione vetrosa i valori variano infatti tra i 2 e i 5 GPa. Mediante semplici calcoli, che qui si omettono, sulle energie potenziali di legame, si osserva come i moduli elastici dei polimeri vetrosi siano tipici di solidi in cui le interazioni siano sostanzialmente di tipo debole. Modulo elastico dei polimeri cristallini Il modulo elastico di un monocristallo polimerico dipende dalla direzione lungo la quale lo si misura. A causa della particolare disposizione delle catene nelle lamelle, la massima rigidezza si manifesta lungo l’asse c nella rappresentazione in fig. 31. Figura 31 – Disposizione nello spazio di una struttura lamellare A parità di caratteristiche meccaniche intrinseche della catena, la rigidezza della lamella è proporzionale al numero di catene per unità di superficie. Nel caso del polietilene tale numero è 35 alto, per cui il modulo elastico risultante è molto elevato, cioè circa 250 GPa. La cedevolezza longitudinale del polietilene è causata sia dall’allungamento dei legami C–C, sia dalla variazione dell’angolo tra gli stessi atomi. I moduli trasversali sono enormemente più piccoli ( E a = 8GPa Eb = 5GPa ), a causa dell’assenza di interazioni tra catene adiacenti. Anche il PET ha un elevato modulo elastico lungo la catena: 350GPa. Il motivo è dovuto alla conformazione a elica assunta dalle catene di questo polimero che si comportano come molle elicoidali. Viscosità nei polimeri La viscosità è un parametro fondamentale nella tecnologia dei polimeri in quanto, nella quasi totalità dei casi, la formatura di manufatti viene realizzata quando il polimero è allo stato fluido. In alcuni casi si ricorre a soluzioni di polimero in opportuni solventi. Inoltre, tramite misure di viscosità, è possibile determinare con precisione il peso molecolare medio dei polimeri o, in molti casi, stabilire l’avanzamento stesso del processo di polimerizzazione. Nella tecnologia dei polimeri occorre considerare le proprietà del materiale allo stato fuso in due tipi di flusso, quello elongazionale e quello a taglio. Nel flusso elongazionale il flusso scorre sollecitato da uno sforzo che lo costringe ad allungarsi. Figura 32 – Flusso viscoso elongazionale Il comportamento è caratterizzato dalla viscosità elongazionale λ = F/A , ove F= forza agente dv / dz normalmente sulla sezione A, v=velocità, z=distanza (tali dati sono riportati in fig. 32). Il flusso elongazionale è importante nella stiratura delle fibre, nella formatura sotto vuoto e, in genere, in tutti i casi nei quali il fluido è costretto a scorrere in canali di sezione variabile. La 36 viscosità elongazionale dei polimeri dipende dallo sforzo applicato in modo più complesso di quanto avviene per la viscosità a taglio. La fig.33 mostra il comportamento di PE lineare e ramificato. Il comportamento di entrambi, a bassi valori di sforzo, è di tipo Newtoniano. Al crescere delle sollecitazioni la viscosità può aumentare o diminuire. Tale differenza di comportamento ha conseguenze molto importanti in alcune tecnologie di formatura di film. L’aumento di viscosità mostrato dal PE ramificato ha infatti l’effetto di prevenire la formazione di zone di strizione nel film, agevolando le operazioni di stiro del polimero. Figura 33 – Andamento della viscosità elongazionale rispetto allo sforzo Nel caso di PE lineare, diminuzioni di sezione che si producessero nel film per fluttuazione di alcuni parametri di processo comporterebbero un aumento della sollecitazione locale, con conseguente diminuzione di viscosità che, a sua volta, costringerebbe la deformazione a localizzarsi (strizione). La conseguenza sarebbe la diminuzione dello spessore del film e, al limite, la sua rottura. Ciò spiega perché il PE ramificato è il polimero prevalentemente usato nel settore dei film. Il flusso a taglio è quello normalmente considerato nella meccanica dei fluidi. Risulta originato dall’applicazione di uno sforzo di taglio a un elemento di volume di liquido, il cui comportamento è caratterizzato dalla viscosità a taglio μ = F/A , ove F questa volta è applicata parallelamente alla dv / dx superficie A. Il flusso a taglio è quello tipicamente riscontrato quando un polimero fuso scorre in un condotto di sezione costante. Anche la viscosità a taglio dipende fortemente dallo sforzo applicato o dalla velocità di deformazione. Contrariamente al caso precedente, μ diminuisce al crescere dello sforzo applicato per tutti i polimeri. Per sollecitazioni molto elevate μ tende a un valore limite. La 37 diminuzione di viscosità è importante dal punto di vista tecnologico, perché rende più agevole ed economica la lavorazione dei polimeri. Da prove di laboratorio si è osservato come per alcuni polimeri (nella fattispecie PMMA) variazioni di temperatura dell’ordine del centinaio di gradi portano a variazioni di viscosità sino a 4 ordini di grandezza. Ciò rende bene l’idea sul motivo per cui nei processi tecnologici è necessario un soddisfacente controllo della temperatura di lavoro. Un parametro reologico molto usato è il Melt Flow Index, che misura la quantità di fuso che fuoriesce in un certo tempo dall’orifizio del recipiente rappresentato in fig.34, nel quale il polimero è spinto verso il basso da un peso. . Figura 34 – Provino di definizione per il MFI La norma stabilisce diverse condizioni di prova per var polimeri, fermo restando che bassi valori del MFI implicano elevati valori di viscosità. Nei liquidi semplici la viscosità è regolata dalla legge di Arrhenius del tipo μ = μ0e E RT ove E = energia di attivazione e R = costante universale dei gas. Nel caso di polimeri è necessario considerare il grado di soprariscaldamento rispetto alla temperatura di transizione vetrosa. La legge maggiormente usata è quella di Williams, Landel e Ferry (WLF): A (T −T g ) μ = μ0e B + (T −T g ) ove A e B sono parametri che dipendono dal materiale. 38 Benché scarsamente considerato, è necessario inoltre tenere in debita considerazione l’effetto di elevate pressioni, che costringono le molecole ad avvicinarsi rendendo più difficile lo scorrimento reciproco; la viscosità pertanto aumenta. L’effetto è quantificato da una relazione del tipo μ = μ 0 10 B ( p − p r ) La causa degli elevati valori di viscosità nei fusi polimerici, o nelle loro soluzioni, risiede nelle dimensioni delle molecole, che possono così muoversi con difficoltà le une rispetto alle altre. Le macromolecole sono infatti strettamente interfacciate, per cui il trascinamento di una comporta il trascinamento di molte altre. E’ evidente che sia le dimensioni di una singola macromolecola, sia le interazioni tra esse, aumentano col crescere delle catene e, quindi, del peso molecolare. Se la viscosità è misurata a velocità basse e con peso molecolare sufficientemente elevato, vale la relazione: μ = AM w 3 .5 L’influenza del peso molecolare è, quindi, enorme. Ciò spiega perché a livello industriale si cerchi di limitare la crescita del peso molecolare ai livelli minimi che garantiscano di raggiungere comunque le caratteristiche meccaniche richieste. Viscoelasticità Un materiale è detto viscoelastico quando la sua risposta a sollecitazioni meccaniche costanti varia nel tempo. In un polimero sottoposto a uno sforzo σ, la deformazione ε è dovuta sia alle variazioni delle lunghezze e degli angoli di legame, sia al movimento diffusivo dei segmenti di catena nelle regioni amorfe del materiale (componente viscosa). La combinazione di componenti elastiche e viscose dà origine al comportamento viscoelastico. La modellazione del comportamento meccanico dei polimeri avviene allora mediante l’adozione di elementi elastici e viscosi combinati tra loro come in fig. Figura 35 – Modello viscoelastico 39 Utilizzando tali elementi, la relazione sforzo – deformazione è: EU E 2 E μ dε μ 2 dσ ε+ U 2 , che può essere riscritta come: =σ + EU + E 2 EU + E 2 dt EU + E 2 dt dε ⎞ dσ 1 ⎛ ⎜ε + τσ ⎟ = σ +τε JR ⎝ dt ⎠ dt , ove J R è detta cedevolezza rilassata. Il parametro τ σ ha le dimensioni di un tempo ed è detto tempo di rilassamento. L’altro parametro temporale τ ε è detto tempo di ritardo. Risolvendo tali equazioni, e riportando i dati in un grafico, si ottengono i risultati di fig. 36: Figura 36 – Curve di andamento temporale della deformazione al variare dello sforzo 40 Al passare del tempo, cioè, il materiale tende a deformarsi sempre di più, sebbene a velocità decrescenti. Da tali grafici è possibile ricavare le curve sforzo-deformazione isocrone, fig. 37, che consentono di definire funzioni empiriche molto utili nella progettazione meccanica dei manufatti. Figura 37 – Curve sforzo-deformazione isocrone Una caratteristica della progettazione con i materiali polimerici è quella di prendere in considerazione il comportamento meccanico del materiale, espresso ad esempio dal suo modulo elastico dopo un certo periodo di tempo. La progettazione di un manufatto, cioè, non richiede che esso non abbia adesso una data deformazione, ma che non la raggiunga dopo un certo numero di anni. E’ inoltre essenziale considerare anche l’effetto della temperatura perché tutte le proprietà dei polimeri ne risultano fortemente influenzate Proprietà meccaniche a deformazioni medie ed elevate Mentre i moduli elastici e le cedevolezze sono utili per studiare i materiali nella regione delle piccole deformazioni, e quindi in condizioni di esercizio, le proprietà allo snervamento e alla rottura sono importanti per valutare il cedimento e la resistenza meccanica dei polimeri. Lo studio della curva sforzo-deformazione durante la prova di trazione su provette standard è il metodo più immediato per valutare il comportamento generale del materiale. Le grandezze determinabili sono modulo elastico, carico di snervamento e rottura, allungamento a rottura e tenacità. L’andamento del diagramma sforzo-deformazione dipende dalla temperatura di prova ed è sensibile alla velocità di deformazione. 41 Come prevedibile per un materiale viscoelastico, si osserva che al crescere della temperatura e/o al diminuire della velocità di deformazione, il comportamento di un polimero cambia da rigido a rottura fragile, a rigido a rottura duttile, a duttile con strizione e stiro, e infine a comportamento elastomerico. Figura 38 – Curve sforzo-deformazione per differenti polimeri La tenacità è l’area sottesa dalla curva degli sforzi, e rappresenta il lavoro speso per portare a rottura l’unità di volume del materiale. Un materiale che assorbe a rottura poco lavoro viene detto fragile, altrimenti è detto tenace. Valori elevati di tenacità sono associati a elevate deformazioni plastiche, che si originano su piani orientati a circa 45° rispetto alla direzione di trazione. In condizioni opportune le elevate deformazioni plastiche associate a una banda si estendono al materiale circostante. Si verificano allora allungamenti di tipo plastico molto elevati sino a far aumentare, nel caso di polimeri cristallini, di 9-10 volte la lunghezza originaria del provino. Tali allungamenti, nel caso di polimeri amorfi, sono generati da rotazioni attorno ai legami C – C, che consentono l’orientamento delle catene nella direzione di stiro. Nel caso di polimeri cristallini la deformazione plastica corrisponde non solo a rotazioni delle unità delle catene che si trovano nella fase amorfa, ma anche a una modifica morfologica della fase cristallina. Gli sferuliti cominciano a modificarsi subito dopo lo snervamento; le lamelle che costituiscono lo sferulita ruotano e si riorganizzano in forma fibrillare in modo che il loro asse diventi parallelo alla direzione di stiro. Può seguire, infine, ai più alti allungamenti, un innalzamento del carico, mentre la sezione rimane omogenea. Si verifica, cioè, il fenomeno dell’incrudimento, a causa della cooperazione delle molecole orientate a resistere nella direzione di trazione. Una volta superati i limiti di elasticità, la deformazione anaelastica è due tipi, come visibile in figura 39: 42 • Formazione di bande di scorrimento a taglio diffuse • Formazione di microcavità (craze) di forma lenticolare e diametro di qualche micron. La formazione di craze provoca un aumento di volume, e nel caso tali cavità coalescano si perviene a rottura fragile del provino Figura 39 – Differenti tipologie di deformazione anaelastica Fragilità in situazioni da urto I polimeri possono cedere in modo fragile o duttile a seconda della temperatura e della velocità di deformazione. Si può osservare come i carichi di snervamento varino con la temperatura molto di più dei carichi di rottura fragile. Figura 40 –Limiti di snervamento e rottura fragile a diverse velocità di deformazione 43 Assumendo che la modalità di cedimento sia quella cui compete la sollecitazione minore, si osserva in figura 40 come a basse temperature le rotture sono di tipo fragile, mentre sono di tipo duttile a temperature più elevate. Un aumento della velocità di deformazione provoca uno spostamento verso l’alto di entrambe le linee di cedimento (linee tratteggiate). Tuttavia, lo spostamento della linea di cedimento plastico è, purtroppo, molto più marcato di quello della curva di rottura fragile. Ciò provoca uno spostamento verso temperature maggiori del punto di incontro tra due linee (temperatura di transizione tenace-fragile) e spiega perché molti materiali polimerici siano fragili in sollecitazioni da urto. Elasticità delle gomme Le gomme sono materiali polimerici che subiscono grandi deformazioni per effetto di piccole sollecitazioni. Le deformazioni a rottura superano anche il 1000%, mentre alla rimozione della sollecitazione le gomme tornano immediatamente alle dimensioni iniziali. La tabella 41 e il diagramma seguente (fig. 42) elencano i principali tipi di gomme e il campo di temperatura entro cui possiedono proprietà elastomeriche, e mostrano le curve di trazione della gomma naturale e della principale gomma sintetica (SBR, stirene-butadiene), ambedue vulcanizzate e additivate o meno con nerofumo. La cristallizzazione delle catene stereoregolari nella gomma naturale determina per essa un netto aumento di carico nella fase finale di deformazione, a differenza dell’SBR che, in assenza di stereoregolarità, non può cristallizzare. Figura 41 – Caratteristiche di alcuni elastomeri 44 Figura 42 – curva di trazione di gomma naturale e sintetica I fattori che determinano il comportamento meccanico delle gomme sono i seguenti: • Presenza di un alto volume libero per le deboli interazioni tra catene adiacenti • Facilità di rotazione delle unità monometriche attorno ai legami C – C che la costituiscono • Esistenza di una struttura reticolata permanente che evita gli scorrimenti irreversibili delle macromolecole sotto sforzo. In presenza di scorrimenti residui, infatti, l’annullamento totale della deformazione una volta eliminato il carico non sarebbe più possibile. La reticolazione è ottenuta per via chimica, mediante un processo noto come vulcanizzazione Meccanismo dell’elasticità delle gomme La conformazione di una macromolecola elastomerica in condizioni di riposo è quella di un gomitolo statistico intrecciato con i gomitoli di altre catene adiacenti. Quando il gomitolo è sottoposto a trazione, il numero delle possibili conformazioni muta. A limite, il numero totale delle conformazioni possibili per un gomitolo in conformazione totalmente estesa è pari a 1. Ciò fa sì che si generi una netta diminuzione di entropia conformazionale che, per principi termodinamici, tende ad aumentare una volta cessata la sollecitazione, e quindi tende a riportare le catene in condizioni di gomitolo statistico. Creep e rilassamento dello sforzo Creep I materiali polimerici sottoposti a carico possono andare incontro a fenomeni di scorrimento viscoso (creep). Ciò vale a dire che la deformazione sotto un carico costante continua ad aumentare nel tempo. L’entità dell’incremento della deformazione è maggiore quanto maggiori siano lo sforzo applicato e la temperatura. 45 A temperature al di sotto della transizione vetrosa, la velocità del creep è piuttosto bassa a causa della limitata mobilità delle catene molecolari. Al di sopra di tale soglia le catene molecolari scivolano le une sulle altre più facilmente, e si parla allora di flusso viscoso. Industrialmente il creep dei materiali polimerici è misurato attraverso il modulo di creep, che è semplicemente il rapporto tra lo sforzo applicato e la deformazione per creep dopo un tempo particolare e a temperatura di prova costante. Un valore elevato di tale modulo implica una bassa velocità di creep. Notevole è l’effetto dei gruppi laterali voluminosi e dell’intensità delle forze intermolecolari nel ridurre le velocità di creep. Rilassamento dello sforzo Il rilassamento dello sforzo avviene quando un materiale polimerico sotto sforzo viene mantenuto a deformazione costante e consiste nella diminuzione dello sforzo con il tempo. La causa del rilassamento dello sforzo è che si verifica un flusso viscoso nella struttura interna del materiale polimerico, ossia le catene polimeriche scivolano lentamente le une sulle altre, si rompono e si ricostituiscono legami secondari tra le catene, le catene si disaggrovigliano e si riavvolgono meccanicamente. Il rilassamento dello sforzo permette al materiale di raggiungere spontaneamente uno stato di minore energia, se l’energia di attivazione è sufficiente a che il processo avvenga. Il rilassamento dello sforzo dei materiali polimerici è allora temperatura-dipendente ed è associato a una energia di attivazione. La velocità con cui si verifica il rilassamento dello sforzo dipende dal tempo di rilassamento τ, che è una proprietà del materiale e viene definito come il tempo necessario per lo sforzo di diminuire a 0.37 (1/e) dello sforzo iniziale. La diminuzione dello sforzo con il tempo t è dato allora da: σ = σ 0 e −t / τ 46 LAVORAZIONE DEI POLIMERI: PROCESSI INDUSTRIALI Generalità I processi in uso per trasformare granuli e pastiglie in prodotti finiti come fogli, barre, oggetti estrusi, tubi o parti stampate sono molti e differenti. Generalmente i polimeri non vengono trasformati allo stato puro, ma vengono anzitutto miscelati con vari additivi che hanno diversi scopi specifici, quali, per esempio, quello di agire da stabilizzanti nei confronti dell’ossidazione, dei trattamenti termici, della degradazione ambientale dovuta alle radiazioni UV, e quello di modificare le proprietà meccaniche (per esempio modulo elastico e resistenza all’urto) con impiego di plastificanti o additivi elastomerici. Ecco una panoramica dei principali additivi con le rispettive funzioni: - Pigmenti: sono usati per impartire la colorazione voluta agli oggetti realizzati con materiali polimerici. Devono essere compatibili con essi, chimicamente e termicamente stabili e resistere alle pressioni alle quali gli oggetti vengono plasmati. - Stabilizzanti: prevengono il deterioramento del polimero dovuto alle condizioni ambientali. In genere sono antiossidanti (aggiunti al polietilene e al polistirene), stabilizzanti nei confronti del calore (aggiunti ai polimeri contenenti alogeni X, in particolare Cl, per evitare la formazione di HX con conseguente infragilimento del materiale) o delle radiazioni ultraviolette. - Agenti antistatici: la maggior parte dei polimeri sono cattivi conduttori e tendono a caricarsi elettrostaticamente. Questi additivi attirano l’umidità dall’aria sulla superficie del polimero e in questo modo ne migliorano la conducibilità superficiale, riducendo la probabilità di scintille o scariche. - Ritardanti di fiamma: la maggior parte dei polimeri, essendo molecole organiche, sono facilmente infiammabili. Si usano allora additivi contenenti atomi di cloro, bromo, fosforo o sali metallici che riducono la probabilità di incendi. - Plastificanti: sono molecole a basso peso molecolare che riducono la T di transizione vetrosa del polimero, migliorandone la lavorabilità e aumentandone la flessibilità. Sono usate in particolare per quei polimeri che avrebbero Tg < T ambiente (es. polivinilcloruro). - Riempitivi o filler: migliorano alcune proprietà meccaniche del polimero, quali la resistenza agli sforzi e all’usura (es. C aggiunto alle gomme). - Rinforzanti: sono materiali fibrosi che aumentano la forza e la rigidità del polimero. In genere si usano filamenti di vetro, fibre di C, ritagli di cotone o carta dispersi nella matrice 47 polimerica. I materiali polimerici così additivati vengono successivamente trasformati in manufatti con l’impiego di varie tecnologie, ben differenziate a seconda che i polimeri sia termoplastici o termoindurenti. I polimeri termoplastici vengono riscaldati a temperature spesso al di sopra di Tg o di Tm, in modo che la viscosità venga ridotta a valori ( 10 2 − 10 3 Pa · s) tali che l’applicazione di pressioni adeguate (fino a 1000 bar) sia in grado di far fluire nelle varie parti dello stampo il fuso polimerico, sino a che esso prenda la forma voluta. Il raffreddamento successivo riporta la viscosità a valori molto elevati (dell’ordine di 10 4 Pa · s) tipici dei polimeri allo stato solido. Le trasformazioni tecnologiche dei termoplastici sono di natura fisica e quindi reversibile, così che un termoplastico può, almeno in linea teorica, essere sottoposto a stampaggio diverse volte. I polimeri termoindurenti da trasformare sono costituiti essenzialmente da polimeri, o prepolimeri, a basso peso molecolare, e perciò caratterizzati da viscosità relativamente basse. Quando questi materiali vengono riscaldati alla temperatura di stampaggio, la loro viscosità inizialmente diminuisce a seguito dell’innalzamento della temperatura. E’ così possibile farli fluire nello stampo con l’applicazione di pressioni modeste. Alla temperatura di stampaggio la velocità della reazione di reticolazione è elevata, così che il sistema si irrigidisce e raggiunge viscosità elevatissime in breve tempo. Quando le reazioni hanno progredito a sufficienza, il sistema si trasforma in un solido rigido. Il manufatto può allora essere allontanato dallo stampo senza raffreddamento. Diagrammi TTT peri materiali polimerici Come visto la maggior parte dei polimeri è trasformata in manufatti a partire dallo stato fuso. Durante il raffreddamento possono avvenire due processi: cristallizzazione e vetrificazione. Anche se la struttura chimica del materiale determina in larga parte il tipo di trasformazione che il polimero subisce, l’esperienza ha mostrato che le modalità di raffreddamento hanno profonda influenza sulle proprietà finali del materiale. La conoscenza della trasformazione liquido-solido ha pertanto grande rilevanza tecnologica. Molte informazioni possono essere ottenute dai diagrammi di solidificazione nei quali la trasformazione è correlata con il tempo, usualmente su scala logaritmica, e con la temperatura (diagrammi TTT). Un esempio di grande rilevanza industriale è il digramma relativo alla solidificazione del PET (Fig. 43). Le linee di trasformazione delimitano le diverse fasi che si possono ottenere mantenendo i relativi valori di tempo e temperatura nel raffreddamento. E’ così possibile ottenere le fasi volute, nelle concentrazioni volute. I diagrammi sono di solito ottenuti per via sperimentale. 48 Figura 43 – Diagramma TTT per il PET Questo polimero ha una temperatura di cristallizzazione di circa 260° C e una Tg di circa 70° C. La quantità di fase cristallina varia in modo consistente con la velocità di raffreddamento. In figura sono riportate tre differenti modalità di raffreddamento. 1. Raffreddamento veloce. Il polimero abbandona la zona di stabilità del liquido, attraversa rapidamente quella in cui il liquido è instabile e vetrifica quando toccala linea di vetrificazione nel punto A. Il solido che si forma diviene completamente stabile a temperature inferiori al punto B. Il raffreddamento veloce del PET fornisce pertanto un solido amorfo 2. Raffreddamento lento. Il polimero, nell’attraversare la regione di instabilità del liquido, incontra nel punto C la linea che segna l’inizio della cristallizzazione; la trasformazione termina in D. Alla fine il materiale è costituito da una miscela di fasi amorfa e cristallina. La fase amorfa è ancora allo stato liquido; la sua solidificazione avviene per raffreddamento sotto la Tg . La cristallinità del materiale così ottenuto è bassa (10-30%). 3. Cristallizzazione isoterma. La cristallizzazione inizia in E e termina in F. La quantità di fase cristallina può raggiungere il 60%. 49 Nella produzione di manufatti in stampi (per esempio bottiglie) i raffreddamenti sono sufficientemente veloci per produrre PET amorfo. Anche per la gomma da vulcanizzare è possibile costruire il diagramma TTT (Fig. 44). Figura 44 – Diagramma TTT per la gomma La vulcanizzazione della gomma naturale avviene solitamente per aggiunta di piccole quantità (23%) di zolfo che, reagendo con i doppi legami del polimero, lega insieme le catene diverse creando così punti di vincolo permanente. L’esistenza dei legami intercatena impedisce al prodotto ogni possibile scorrimento plastico. E’ evidente che tutte le operazioni di formatura (per esempio di un copertone di auto) devono essere effettuate prima che il materiali tocchi la linea di gelazione. Un liquido gelificato infatti perde la capacità di scorrere e quindi riempire uno stampo. Si possono anche costruire i diagrammi TTT per i polimeri termoindurenti (Fig. 45). 50 Figura 45 – Diagramma TTT per un termoindurente In questo caso è necessario prendere in considerazione due trasformazioni. Nella lavorazione di questi materiali si parte prevalentemente da prepolimeri liquidi caratterizzati da temperature di transizione vetrose molto basse. La Tg della miscela resina/indurente all’inizio della reazione è indicata Tg 0 con sul diagramma TTT. Se la miscela è raffreddata sotto Tg0, essa si trasforma in un vetro e nessuna reazione chimica si manifesterà. A temperature più elevate la miscela è inizialmente liquida e le reazioni di reticolazione procedono normalmente dando origine ad aggregati molecolari di dimensioni crescenti. Quando queste dimensioni sono sufficientemente grandi, il sistema gelifica (line di gelazione sul grafico) perché ha perso la capacità di fluire. La gelificazione non blocca le reazioni chimiche che procedono, seppur a velocità ridotta. La temperatura di transizione vetrosa aumenta con il proseguire del processo di reticolazione; quando la temperatura di transizione vetrosa della miscela raggiunge la temperatura 51 alla quale si sta effettuando la reticolazione, la miscela vetrifica (linea di vetrificazione sul grafico) e ogni relazione chimica cessa. Per spingere la conversione a valori più elevati è necessario riscaldare la miscela in modo da devetrificarla (postcura). Il valore massimo ottenibile della temperatura di transizione vetrosa è indicato sul grafico come Tg 00 . Se la temperatura di reticolazione è inferiore a quella corrispondente al punto di incontro tra le linee di gelazione e vetrificazione la miscela vetrifica (punto B) prima di gelificare ed è ancora lavorabile dopo riscaldamento. Una miscela la cui polimerizzazione è avvenuta a temperature inferiori TB e superiori a T0 è detta allo stadio B. Molti preimpregnati sono commercializzati in queste condizioni e devono essere immagazzinati a temperature inferiori a Tg (spesso tenendoli in frigo) per consentirne la successiva lavorabilità. Processi tecnologici per materiali termoplastici La tabella sottostante ci da un quadro introduttivo delle principali tecniche di lavorazione e dei campi di applicazione per ciascun polimero. Stampaggio a iniezione Lo stampaggio a iniezione è uno dei metodi di lavorazione più usati per la formatura dei materiali termoplastici. Le moderne macchine per lo stampaggio a iniezione utilizzano un meccanismo a vite reciproca che consente di fondere la materia plastica e iniettarla in uno stampo. Macchine per lo stampaggio a iniezione di più vecchio stampo utilizzavano un pistone per l’iniezione del fuso. Il 52 vantaggio del metodo a vite reciproca rispetto a quello a pistone è che l’avanzamento della vite consente una fusione più omogenea della sostanza da iniettare. Figura 46 – Schema macchinario per stampaggio a iniezione Nel processo di stampaggio a iniezione i granuli di materia plastica vengono caricati da una tramoggia (figura sottostante a), attraverso un’apertura nel cilindro di iniezione, sulla superficie di una vite rotante che li spinge avanti verso lo stampo. La rotazione della vite forza i granuli contro le pareti riscaldate del cilindro, provocando la fusione a causa del calore di compressione, dell’attrito e del riscaldamento delle pareti del cilindro (figura sottostante b). Quando una quantità sufficiente di materia plastica fusa arriva alla testa della camera calda, la rotazione cessa e la vita si arresta e viene spinta per traslazione assiale verso l’ugello di iniezione determinando così lo spostamento del fuso polimerico dalla camera caldo al canale di alimentazione e successivamente alla cavità dello stampo (figura sottostante c). L’albero della vite mantiene in pressione, per breve tempo, il materiale plastico alimentato nello stampo, in modo da permettergli di diventare solido, quindi si ritrae. Lo stampo viene raffreddato ad acqua per far solidificare rapidamente il pezzo in materia plastica. Da ultimo, lo stampo viene aperto e il pezzo stampato viene espulso dallo stampo per mezzo di aria o di perni d’eiezione a molla (figura sottostante d). 53 Figura 47 – Particolare del procedimento di riempimento dello stampo La pressione generata sulla testa della vite, nella fase di iniezione, è molto elevata e può raggiungere i 20 MPa. L’uso di elevate pressioni è imposto dalla necessità di trasferire il fuso dalla camera calda allo stampo in tempi brevi: in generale ogni ciclo dura un frazione di minuto. Gli elevati gradienti di velocità sono necessari per impedire l’eccessivo raffreddamento del fuso mentre esso passa nei condotti di iniezione: ciò porterebbe ad arresto del flusso e a un incompleto riempimento dello stampo. Si è visto che nel passaggio da fluido a solido si hanno diminuzioni di volume variabili tra il 10 e il 20%. Questa diminuzione deve essere compensata se si vogliono evitare difetti dovuti alla 54 formazione di cavità di ritiro, superficiali o interne al pezzo stampato. Se il canale di adduzione del polimero non viene accluso dal polimero che vi si solidifica, l’elevata pressione mantenuta dalla pressa consente un ulteriore ingresso di polimero fuso che annulla le contrazioni interne allo stampo. L’iniezione, a causa delle elevate velocità di flusso all’interno della forma, soprattutto nel caso di forme complesse e di spessori non elevati, dà facilmente luogo a manufatti orientati e fortemente tensionati. Spesso i manufatti tendono a deformarsi nel tempo, soprattutto in seguito a riscaldamento anche blando. Questo, insieme all’alto costo dei macchinari per lo stampaggio e alla necessità di un continuo controllo sul processo, è uno dei maggiori svantaggi dello stampaggio a iniezione. Estrusione Un altro dei metodi importanti di lavorazione per i termoplastici è l’estrusione. Con il processo di estrusione si ottengono tubi, barre, film, fogli e forme di ogni tipo. La macchina per l’estrusione viene inoltre usata per la produzione di forme grezze in materia plastica, come ad esempio pastiglie, e per il recupero di materiali termoplastici di scarto. Figura 48 – Macchinario per estrusione Nel processo di estrusione la resina termoplastica viene introdotta in un cilindro riscaldato, quindi la materia plastica fusa viene spinta da una vite rotante attraverso una o più aperture in una matrice di 55 forma precisa per produrre forme in continuo. Appena oltre l’ugello è necessario raffreddare rapidamente il manufatto per impedirne la modifica di forma dovuta all’alta deformabilità alle elevate temperature. La pressione necessaria per vincere la perdita di carico dovuta all’ugello che impartisce la forma al materiale estruso e di circa 8-10 MPa. Il calore usato per fondere il polimero viene in parte fornito per conduzione da piastre riscaldate posta a contatto sulla parete esterna del cilindro di forza e, prevalentemente, dalla trasformazione del lavoro meccanico fornito dal motore al materiale polimerico. Sebbene l’estrusione possa sembrare una tecnologia semplice, essa dipende in realtà da un elevato numero di variabili. Uno degli aspetti cruciali risiede nel fatto che il polimero lascia la testa dell’estrusore allo stato liquido e si consolida in aria, essendo sottoposto alla forza di gravità e a quelle che nascono all’interno del polimero a causa della deformazione dei gomitoli statistici prodotta all’interno del canale di estrusione. Questo ultimo aspetto è importante ed è all’origine del rigonfiamento del fuso all’uscita dell’ugello (die swelling). A valle del rigonfiamento lo spessore o il diametro del polimero, ancora allo stato pastoso, non è uguale a quello dell’ugello. Per di più non è costante perché piccole oscillazione della velocità di uscita dall’ugello sono frequenti. Per limitare il rigonfiamento è necessario allungare l’ugello e diminuire la velocità del fuso nello stesso. Il rigonfiamento tende a rendere circolari le sezioni estruse. Se il rigonfiamento è vistoso il profilo dell’estruso differisce notevolmente da quello dell’ugello. E’ consuetudine far passare i profili estrusi ancora relativamente pastosi attraverso un condotto profilato levigato (calibro) al cui interno è applicato un vuoto non molto spingo. La sezione del calibro è leggermente inferiore a quella dell’ugello. Una variante molto importante dell’estrusione è quella del blow-molding. Si tratta, sostanzialmente, di una variante della produzione di tubi. Un ugello anulare è posto verticalmente ed è tipicamente alimentato trasversalmente. Il fluido che esce dall’ugello ha forma cilindrica e, prima che solidifichi, viene fatto espandere tramite una sovrappressione applicata tramite l’ugello stesso. Rulli posti superiormente provvedono a raccogliere il film e a chiudere la sezione del tubo di plastica in modo da mantenere la pressione all’interno della bolla. L’aumento di diametro determina un’orientazione molecolare di tipo biassiale del film; questo migliora notevolmente le caratteristiche meccaniche. Il rapporto tra i diametri di bolla, D B , e dell’ugello, DU , è detto rapporto di blow-up ed è tipicamente compreso tra 1,5 e 4,5; valori elevati sono possibili solo con polimeri cristallini. 56 Figura 49 – Blow molding per bottiglie in PET Un settore dove il blow-molding è ormai largamente impiegato è quello delle bottiglie per bevande, prevalentemente fabbricate con PET. Se la forma è mantenuta fredda (circa 10° C) e il peso molecolare è sufficientemente elevato ( M N circa 24000) il PET resta amorfo. Se invece la forma è riscaldata e il polimero viene stirato con rapporto di stiro superiore a 2, si ha cristallizzazione con conseguente aumento del carico di snervamento che consente di realizzare bottiglie più leggere. Il materiale resta trasparente perché le dimensioni degli sferuliti che si formano sono inferiori della lunghezza d’onda della luce. Le parti inferiore e superiore della bottiglia restano amorfe perché in queste zone non si ha stiro del materiale. Calandratura E’ usata per produrre film o foglie. Il suo impiego è particolarmente importante nel campo della lavorazione del polivinilcloruro e della gomma non reticolata. Una calandra è costituita in genere da una serie di tre o quattro cilindri rotanti l’uno in senso opposto all’altro in modo da costringere il polimero fuso a entrare nel meato esistente tra i rulli e a prendere la forma di un foglio il cui spessore viene regolato e controllato attraverso i successivi 57 passaggi tra i rulli. Il film viene compresso tra i rulli a pressioni che possono superare anche i 10 MPa. La superficie dei rulli deve essere a specchio per favorire la formazione di film a superfici lisce. Il controllo dell’uniformità dello spessore viene raggiunto attraverso complessi accorgimenti meccanici. La temperatura dei rulli, nel caso del PVC, è dell’ordine dei 150-200 °C. La calandratura può essere usata anche per produrre compisiti costituiti da carta o da tessuti rivestiti da polimero. La potenzialità produttiva delle calandre è assai elevata (sino a 4000 kg/h). Con questa tecnica è possibile ottenere film multistrato. Sebbene appaia molto semplice, la calandratura è un’operazione difficile se si desiderano variazioni minime di spessore. Oggi questa tecnica si presta egregiamente alla produzione di film, particolarmente di PVC, con tolleranze di spessore di circa 5 μm. Nella zona in cui i due rulli principali sono affacciati e comprino il polimero si generano pressioni così elevate da far flettere i rulli stessi. Per compensare questo effetto, che provocherebbe una variazione di spessore in senso trasversale, si possono sagomare i rulli in modo tale che il loro diametro sia leggermente superiore a quello delle estremità (profilo a barile). Termoformatura E’ largamente usata nel settore dell’imballaggio. I continui perfezionamenti hanno consentito di estendere la gamma di prodotti ottenibili (interni di frigoriferi, pennellature, paramenti per auto ecc.). Sostanzialmente essa consiste nel riscaldare fino al rammollimento dei fogli piani di polimero (spessore da 0,025mm a 6,5 mm) e nel forzarli contro uno stampo che può essere concavo o convesso. La forma più semplice è la termoformatura negativa sotto vuoto. In questa versione il rapporto di stiro (dato dal rapporto profondità/lunghezza della forma) è basso (circa 1/3 1/2). Figura 50 – Termoformatura 58 Valori più elevati poterebbero a un eccessivo assottigliamento del polimero e alla rottura. L’inconveniente può essere evitato mediante la formatura positiva nella quale il film è schiacciato contro uno stampo convesso. Si possono così raggiungere rapporti di stiro di circa 1. Una variante al metodo prevede che, prima che si applichi il vuoto, un pistone provveda a deformare il polimero. I più recenti sviluppi di questa tecnica tendono a usare una sovrappresione, piuttosto che il vuoto, per schiacciare il polimero contro lo stampo. In alcuni casi la termoformatura a pressione è diventata competitiva con l’iniezione. Una come applicazione della termoformatura si ha nel confezionamento di contenitori di pillole (blisters) nell’industria farmaceutica. Stampaggio rotazionale E’ una tecnica tipicamente usata per la produzione di corpi cavi (valigie, recipienti, taniche, palloni), anche di notevoli dimensioni e con elevati spessore. E’ basata su uno stampo, diviso in due, al cui interno viene posta una quantità opportuna di polimero in polvere. Dopo la chiusura, la forma è posta in rotazione intorno a due assi ortogonali e riscaldata. Il polimero rammollisce e si adagia sulla superficie interna della forma di cui riproduce con grande precisione i dettagli. E’ importante mantenere bassa la velocità di rotazione (tipicamente meno di 20 giri/min) per impedire accumuli di materiale, causati dalla forza centrifuga, nei punti distanti dagli assi di rotazione. A causa delle dimensioni dei manufatti, molta cura deve essere posta nella definizione del ciclo di rfaffreddamento per evitare distorsioni. Numerosi polimeri possono essere formati con questa tecnica: nylon, policarbonato, ABS, polistirolo antiurto, poliolefine. I manufatti possono raggiungere dimensioni notevoli (anche superiori ai 10 m³). Spinning E’ un processo di estrusione che consente di ottenere filamenti, fili e fibre. Il polimero fluido viene forzato ad attraversare uno stampo, detto spinnerette, recante sulla superficie inferiore un numero moltoelevato di fori di piccole dimensioni. Lo stampo può anche ruotare per fare intrecciare le fibre e produrre un filato. Per alcuni materiali come i nylon la fibra viene successivamente stirata per allineare le catene parallelamente all’asse della fibra, per aumentarne la resistenza. Schiumatura meccanica Il polimero viene portato allo stato di goccioline e miscelato con un gente schiumogeno (che ad alta T decompone a dare N2, CO2 e altri gas) a dare un’emulsione. Si ha un primo processo di pre- 59 espansione, ad opera di gas ad alta pressione o aria compressa, durante il quale le gocce aumentano fino a 50 volte di dimensioni. A questo punto esse vengono iniettate in uno stampo dove coagulano a dare oggetti leggerissimi, con densità eccezionalmente basse (0.015 Mg m-3). Questo metodo è usato per produrre imballaggi e isolanti. Processi tecnologici per materiali termoindurenti Stampaggio per compressione Molte resine termoindurenti come la fenolo-formaldeide, l’urea-formaldeide e la melaninaformaldeide, vengono lavorate in forme solide col processo di stampaggio per compressione. Con questo metodo la resina, che può essere eventualmente preriscaldata, viene introdotta in uno stampo riscaldato, contenente uno o più cavità. La parte superiore dello stampo viene forzata contro la resina e la pressione e il calore applicati provocano la liquefazione della resina, spingendola dentro la o le cavità. Continuando il riscaldamento (in genere uno o due minuti) si ottiene la completa reticolazione della resina termoindurente. Il pezzo viene quindi espulso dallo stampo. Le sbavature vengono eliminate dal pezzo in un tempo successivo. Gli stampi hanno costi iniziali relativamente bassi e vista la bassa velocità del flusso polimerico sono poco soggetti a usura e abrasione. Per contro è difficile ottenere pezzi con configurazioni complicate e inserti con buone tolleranze. Figura51 – Stampaggio per compressione Stampaggio per trasferimento 60 Lo stampaggio per trasferimento è usato per stampare plastiche termoindurenti come le resine fenoliche, le ureiche, le melamminiche e le alchiliche. Lo stampaggio per trasferimento differisce dallo stampaggio per compressione per il modo in cui viene introdotto il materiale nelle cavità dello stampo. Nello stampaggio per trasferimento la resina non è caricata direttamente all’interno della cavità dello stampo, ma in una camera al di fuori di questa. Quando lo stampo è chiuso, un pistone sospinge la resina (che solitamente è preriscaldata) dalla camera esterna attraverso un sistema di canali e aperture nelle cavità dello stampo. Dopo che il materiale ha avuto il tempo di indurire in modo da formare un rigido reticolo tridimensionale polimerico, il pezzo stampato viene espulso dallo stampo. Figura 52 – Stampaggio per trasferimento Rispetto allo stampaggio per compressione non si ha formazione di bave durante lo stampaggio e quindi il pezzo finito richiede meno operazioni di finitura; inoltre il sistema ben si presta alla fabbricazione di piccoli pezzi complessi. Stampaggio a iniezione Avvalendosi della moderna tecnologia, alcuni preparati termoindurenti possono essere stampati per iniezione per mezzo di iniettori a vite reciproca. Le macchine di base per lo stampaggio a iniezione sono dotate di apposti camicie di riscaldamento e raffreddamento, cosicché la resinasi può essere indurita durante il processo. Per le resine termoindurenti che rilasciano prodotti di reazione durante l’indurimento è richiesta una buona evacuazione dei gas dalle cavità dello stampo. Grazie all’efficienza di questo processo in futuro lo stampaggio a iniezione assumerà probabilmente maggiore importanza per la produzione di pezzi in materiale termoindurente. Stampaggio per iniezione reattiva. I due componenti liquidi della resina vengono iniettati in un miscelatore per dare inizio alla reazione e poi direttamente nello stampo riscaldato per l’indurimento e la formatura, che avvengono simultaneamente. Con questa tecnica è possibile ottenere anche i materiali compositi, introducendo nella miscela delle resine il materiale rinforzante in forma di particelle o fibre. 61 MATERIALI TERMOPLASTICI PER USO GENERALE Proprietà di base dei principali termoplastici La tabella sottostante elenca densità, resistenza all’urto, rigidità dielettrica e massima temperatura d’uso di alcuni termoplastici per uso generale. Uno dei maggiori vantaggio di molte materie plastiche per applicazioni ingegneristiche è la loro densità relativamente bassa. Molte materie plastiche hanno infatti densità intorno a 1 g/cm³, quasi 8 volte minore di quella del ferro (7.8 g/cm³). La resistenza a trazione delle materie plastiche è relativamente bassa, inferiore a 70 MPa per la maggior parte di esse, e di conseguenza per alcune applicazioni costruttive questa proprietà può essere uno svantaggio. Massima Materiale Polietilene: Resistenza a Resistenza Ridità temperatura Densità trazione, all’impatto dielettrica senza carico g/cm³ MPa Izoz, J/m V/mm °C bassa densità 0.92-0.93 6-17 - 1900 alta densità 0-95-0.96 20-37 20-750 1900 PVC rigido, clorurato 1.49-1.58 52-62 50-300 - 110 Polipropilene 0.90-0.91 33-38 20-120 25000 110-150 1.08 69-83 20-27 70000 60-105 ABS, uso generale 1.05-1.07 41 320 1500 70-95 Acrilati, uso generale 1.11-1.19 76 120 17000-19700 55-110 Cellulosici, acetati 1.2-1.3 21-55 60-360 9800-23500 60-105 Politetrafluroetilene 2.1-2.3 7-28 130-210 15800-19700 290 Stirene-acrilonitrile (SAN) 80-100 Polietilene (PE) Il polietilene è di gran lunga la materia plastica più utilizzata. La ragione principale risiede nel basso costo (circa 1€/kg) e nel fatto che questo materiale possiede molte proprietà industrialmente importanti, inclusa tenacità a temperatura ambiente e a basse temperature con una resistenza meccanica sufficiente per molte applicazioni prodotto, buona flessibilità in un vasto campo di temperature anche fino a -73 °C, eccellente resistenza a corrosione, eccellenti proprietà isolanti, assenza di odore e di sapore e bassa permeabilità al vapore d’acqua. 62 E’ caratterizzato da una temperatura di transizione vetrosa pari a circa –100°C, una temperatura di fusione tra 110 e 135°C ed una densità compresa tra 0.915 e 0.960 g/cm3. L’unità strutturale ripetitiva è la seguente: Tipi di polietilene In base alla distribuzione dei pesi molecolari e al grado di ramificazione si ottengono tipi di polietilene con proprietà e usi differenti: • Polietilene ad altissimo peso molecolare (UHMWPE) • Polietilene ad alta densità (HDPE) (Fig. 53 (a)) • Polietilene a bassa densità (LDPE) (Fig. 53 (b)) • Polietilene lineare a bassa densità (LLDPE) (Fig. 53 (c)) Figura 53 – a) polietilene ad alta densità; b) polietilene a bassa densità; c)polietilene lineare a bassa densità UHMWPE è un PE con un numero di monomeri medio nelle catene dell'ordine dei milioni (fra 3 e 6 milioni). Ne risulta un materiale con catene ben impaccate nella struttura cristallina e molto 63 resistente. Le particolari proprietà meccaniche lo rendono adatto, a differenza degli altri tipi più comuni di polietilene ad impieghi particolari, come ad esempio protesi e giubbotti antiproiettile. HDPE è un polietilene con ramificazioni molto ridotte sulle catene principali, che di conseguenza sono in grado di compattarsi aumentando la cristallinità e la resistenza meccanica del materiale. Viene generalmente sintezziato attraverso polimerizzazione per coordinazione con un sistema catalitico di tipo Ziegler Natta. LDPE è caratterizzato da uno struttura a catena ramifica che abbassa il suo grado di cristallinità e la sua densità. LLDPE è sostanzialmente polietilene lineare, viene normalmente ottenuto per polimerizzazione di una miscela di etene e alfa olefine (butene,esene,ottene) con catalisi di tipo Ziegler Natta. Il polietilene commerciale a bassa densità fu prodotto per la prima volta nel Regno Unito nel 1939 usando reattori ad autoclave (o tubolari) che richiedevano pressioni di oltre 100 MPa e temperature di circa 300° C. Il polietilene ad alta densità fu prodotto a livello commerciale per la prima volta nel 1956-1957 con i processi di Phillips e Ziegler che utilizzarono catalizzatori. In questi processi la pressione e la temperatura necessarie per alla reazione di conversione dell’etene in polietilene sono state ridotte in modo consiedervole; il processo Phillips opera ad esempio con temperature tra 100 e 150 ° C e con pressioni da 2 a 4 MPa. Più recentemente è stato messo a punto un nuovo processo semplificato di produzione del polietilene lineare a bassa densità (LLDPE) che utilizza pressioni minori (tra 0.7 e 2 MPa) e una temperatura di circa 100° C. Applicazioni e proprietà meccaniche Le applicazioni per il polietilene includo la fabbricazione di recipienti, l’isolamento elettrico, tubazioni per impianti chimici, oggetti per uso domestico e bottiglie stampata per soffiatura. Gli usi dei film di polietilene includono il confezionamento e l’imballaggio per il trasporto di materiali e rivestimenti di pozzi d’acqua. I parametri usati per definire i campi di applicazione e i processi produttivi più adatti sono la densità e l’indice di fluidità MFI, come mostrato nel grafico sottostante. 64 Figura 54 – Lavorazioni del PE in base a densità e indice di fluidità MFI Per quanto riguarda le caratteristiche meccaniche esse sono, come già detto, dipendenti dalla densità e dal grado di cristallinità, in particolare all’aumento di quest’ultimo si registra un incremento della resistenza e della deformazione a rottura: Figura 55 – Modulo di Young e resistenza a deformazione al variare del grado di cristallinità e della densità 65 Polivinilcloruro (PVC) e i suoi copolimeri Il polivinilcloruro è una materia plastica sintetica largamente usata che detiene la seconda posizione nei volumi di vendita nel mondo. L’utilizzo assai diffuso del PVC è attribuibile principalmente alla sua elevata resistenza chimica e alla sua capacità unica di essere mescolato con additivi per produrre un gran numero di preparati con ampio campo di proprietà fisiche e chimiche. La densità è generalmente 1.40-1.45 g/cm³. L’unità strutturale ripetitiva è la seguente: Struttura e proprietà La presenza del grosso atomo di cloro su atomi alterni di carbonio nella catena principale del PVC dà luogo ad un materiale polimerico che è essenzialmente amorfo e non in grado di cristallizzare. Le intense forze coesive tra le catene polimeriche di nel PVC sono dovute principalmente ai forti momenti dipolo generati dagli atomi di cloro. La poca flessibilità delle catene causa difficoltà nella lavorazione dell’omopolimero, e solo in poche applicazioni il PVC può essere utilizzato senza essere miscelato con un certo numero di additivi in modo da potere essere lavorato e convertito in prodotti finiti. Il PVC omopolimero ha resistenza meccanica relativamente alta (52-62 MPa), accompagnata da fragilità. Il PVC ha una media temperatura di distorsione al calore (57-82 °C a 0.45 MPa), buone proprietà elettriche (la rigidità dielettrica varia da 17 a 51 V/m) e elevata resistenza ai solventi. L’alto contenuto di cloro del PVC impartisce al materiale resistenza chimica e alla fiamma. Composti in miscela con il PVC Il PVC può essere usato per un numero esiguo di applicazioni senza che al materiale di basa venga aggiunto un certo numero di sostanze che lo rendano processabile e convertibile in prodotti finiti. I componenti aggiuntivi al PVC comprendono plastificanti, stabilizzanti termici, lubrificanti, riempitivi e pigmenti. I plastificanti conferiscono flessibilità ai materiali polimerici. Essi generalmente sono composti ad alto peso molecolare e vengono scelti in modo da essere completamente miscibili e compatibile con il materiale di base. Per il PVC vengono comunemente utilizzati esteri dell’acido ftalico come plastificanti. La figura sottostante mostra l’effetto di alcuni plastificanti sulla resistenza a trazione del PVC 66 Figura 56 – Effetto di diversi plastificanti sulla resistenza del PVC Gli stabilizzanti termici vengono aggiunti al PVC per prevenire la degradazione termica durante la lavorazione e possono anche aiutare ad allungare la vita del prodotto finito. Gli stabilizzanti tipi usati possono essere interamente organici o inorganici, ma in genere sono composti organometallici a base di stagno, piombo, bario-cadmio, calcio e zinco. I lubrificanti aiutano lo scorrimento del fuso dei composti del PVC durante la lavorazione e prevengono l’adesione alle superfici metalliche. Cere, esteri, grassi e saponi metallici sono i lubrificanti usati comunemente. I riempitivi, sia organici che inorganici, sono usati per dare colore, opacità e resistenza agli agenti atmosferici al PVC. Applicazioni Il polivinilcloruro rigido può essere usato per alcune applicazioni, ma è difficile da processare e ha bassa resistenza agli urti. L’aggiunta di resine gommose può aumentare lo scorrimento del fuso durante la lavorazione formando una dispersione di piccole particella gommose nella matrice di PVC. Il materiale gommoso serve ad assorbire e dissipare energia d’impatto in modo tale da aumentare la resistenza all’urto del materiale. Con tali miglioramenti il PVC rigido viene usato per molte applicazioni quali tubi, rivestimenti, telai di finestre, grondaie, modanatura interna e finiture. 67 Per quanto riguarda il PVC plastificato, ottenuto come già accennato con l’aggiunta di plastificanti, le sue proprietà di morbidezza, flessibilità ed estensibilità lo rendono adatto a un vastissimo campo di applicazioni. E’ infatti utilizzato per mobili e tappezzerie di auto, coperture interne di pareti, impermeabili, scarpe, baglio e tende da bagno. Nei trasporti il PVC è usato per i tettucci delle automobili, per l’isolamento dei fili elettrici, le coperture dei pavimenti e finiture interne ed esterne. Altre applicazioni riguardano canne da giardino, guarnizioni dei frigoriferi, parti di apparecchiature e oggetti per la casa. Polipropilene (PP) Il polipropilene è la terza materia plastica dal punto di vista dei volumi di vendita ed è uno dei materiali meno costosi dato che può essere sintetizzatola derivati petrolchimici grezzi a basso costo, utilizzando catalizzatori di tipo Ziegler. La sua densità è 0.9 g/cm³. L’unità strutturale ripetitiva è la seguente. Struttura e proprietà Passando dal polietilene al polipropilene, la sostituzione di un gruppo metilico ogni due atomi di carbonio della catena polimerica principale limita la rotazione delle catene, dando origine a un materiale più resistente ma meno flessibile. I gruppi metilici sulle catene innalzano inoltre la temperatura di transizione vetrosa, e quindi polipropilene rispetto al polietilene ha una temperatura di distorsione al calore più elevata. Con l’utilizzo di catalizzatore stereospecifici, si può sintetizzare il polipropilene isotattico che ha punto di fusione compreso tra 165 e 177 °C. Questo materiale può essere sottoposto a temperature di 120° C senza deformarsi. Il polipropilene ha proprietà equilibrate e attraenti per la produzione di molti manufatti. Le proprietà includono buona resistenza chimica, all’umidità e al calore, unite a bassa densità, buona durezza superficiale e stabilità dimensionale. Il polipropilene ha inoltre eccellente resistenza a fatica in flessione è può essere usato per prodotti con cerniera integrale. Grazie anche al costo basso del suo monomero, il propilene è un materiale termoplastico molto competitivo Applicazioni 68 Figura 57 – Vari usi del PP Le applicazioni maggiori per il propilene riguardano oggetti per la casa, parti di apparecchiature, imballaggi, oggetti da laboratorio e bottiglie di vario tipo. Nei trasporti, i copolimeri del propilene con elevata resistenza all’urto hanno sostituito la gomma rigida per l’alloggiamento delle batterie. Resine simili sono usate per i rivestimenti dei paraurti e per i paraspruzzi. Inoltre, l’omopolimero del prolipropilene è usato largamente come rinforzo primario dei tappeti e come materiale tessuto è usato per sacchi da spedizione per molti prodotti industriali. Negli imballaggi il polipropilene è usato per coperchi a vite, astucci e contenitori. Polistirene (PS) Il polistirene è la quarta materia plastica per volumi di vendita. L’omopolimero del polistirene è un materiale trasparente, senza odore e senza sapore, relativamente fragile a meno che non venga modificato. La sua densità è di 1.04 g/cm³. L’unità strutturale ripetitiva è la seguente. Oltre al polistirene cristallo (così chiamato per la sua trasparenza), gli altri importanti tipi sono il polistirene resistente all’urto, modificato con gomme, e il polistirene espanso. Lo stirene è inoltre usato per produrre molti importanti copolimeri. Struttura e proprietà 69 La presenza dell’anello benzenico su atomi alterni di carbonio nella catena principale del polistirene determina una configurazione rigida con sufficiente impedimento sterico da rendere il polimero decisamente non flessibile a temperatura ambiente. L’omopolimero è caratterizzato da rigidezza, trasparenza e facilità di lavorazione, ma tende a essere fragile. La resistenza all’urto può essere migliorata mediante copolimerizzaizone con l’elastomero polibutadiene che ha struttura chimica: I copolimeri del polistirene resistenti all’urto contengono solitamente quantità di gomma comprese tra il 3 e il 12%. L’aggiunta di gomma al polistirene abbassa la rigidezza e la temperatura di distorsione termica dell’omopolimero. In generale i polistireni hanno buona stabilità dimensionale e basso ritiro nello stampaggio e sono di facile lavorazione e di basso costo. Tuttavia essi hanno scarsa resistenza agli agenti atmosferici e possono essere attaccati chimicamente da solventi organici e oli. I polistireni hanno buone proprietà di isolamento elettrico e adeguate proprietà meccaniche. Applicazioni Tipiche applicazioni includono parti interne di autoveicoli, alloggiamenti per apparecchiature, quadranti e manopole, oggetti per uso domestico. ABS ABS è il nome dato a una famiglia di termoplastici. L’acronimo è derivato dai tre monomeri usati per produrre l’ABS: acrilonitrile, butadiene e stirene. I materiali in ABS sono famosi per le loro proprietà costruttive come buona resistenza all’impatto in combinazione con la facilità di lavorazione. Le tre unità strutturali ripetitive sono: 70 Struttura e proprietà Il vasto intervallo di utili proprietà ingegneristiche mostrate dall’ABS è dovuto al contributo delle proprietà di ogni suo singolo componente. L’acrilonitrile incremente la robustezza termica e chimica e la tenacità, il butadiene (materiale gommoso) fornisce la resistenza all’urto e duttilità, lo stirene fornisce lucentezza superficiale, rigidezza e facilità di lavorazione. La resistenza all’urto dell’ABS aumenta con l’aumentare del contenuto percentuale di gomma, ma nel contempo diminuiscono la resistenza a trazione e la temperatura di distorsione al calore, come mostrato nella figura sottostante. Figura 58 – Effetti dell’aggi 71 La struttura dell’ABS non è quella di un termopolimero casuale. L’ABS può essere considerato una miscela di un copolimero vetroso (stirene-acrilonitrile) e di domini gommosi (principalmente un polimero o un copolimero del butadiene). La semplice miscelazione di gomma con il copolimero vetroso non fornisce proprietà antiurto ottimali. La migliore resistenza all’urto si ottiene quando la matrice del copolimero stirene-acrilonitrile viene innestata sui domini gommosi per produrre una struttura bifasica. Applicazioni L’uso principale dell’ABS è per tubi e accessori, in modo particolare per i tubi di drenaggio, scarico e sfogo degli edifici. Un altro uso dell’ABS è per parti di autoveicoli, parti di apparecchiature come pannelli per porte di frigoriferi e pannelli interni, macchina da ufficio, alloggiamenti e custodie per computer, scatole telefoniche, condutture elettriche, involucri di schermatura per interferenze elettromagnetiche. L’ABS è anche usato per la costruzione dei mattoncini LEGO. TECNOPOLIMERI La definizione di tecnopolimero, traduzione dell’inglese engineering thermoplastics, è arbitraria e viene usata da diversi autori per indicare quei materiali termoplastici che possiedono il giusto equilibrio di proprietà che li rendono particolarmente adatti per applicazioni ingegneristiche. Posso essere considerati tecnopolimeri le seguenti famiglie di materiali: poliammidi (nylon), policarbonati, resine a base di fenilenossido, resine acetaliche, poliesteri termoplastici, polisolfoni, polifenilensolfuro. I volumi di vendita dei tecnopolimeri sono una percentuale relativamente bassa rispetto alla materie plastiche per uso generale. Una eccezione potrebbe essere data dal nylon per le sue particolari proprietà. La seguente tabella riporta le caratteristiche fisico-meccaniche di alcuni importanti tecnopolimeri Massima Resistenza a Resistenza Ridità temperatura Densità trazione, all’impatto dielettrica senza carico g/cm³ MPa Izoz, J/m V/mm °C 1.13-1.15 62-83 220 15200 82-150 Poliacetale, omopolimero 1.42 69 75 12600 90 Policarbonato 1.20 62 640-840 15000 120 1.37 72 43 - 80 Materiale Nylon 6,6 Poliestere: PET 72 PBT 1.31 55-57 64-70 23200-27600 80 1.06-1.10 54-66 270 15800-19700 80-106 Polisolfone 1.24 70 64 16700 150 Polifenilensolfuro 1.34 69 16 16700 150 Polifenilenossido Così come i termoplastici i tecnopolimeri sono dotati di densità basse e di basse resistenze a trazione. Per quanto riguarda la resistenza agli urti il policarbonato ha un’eccezionale resistenza con valori fino a 850 J/m. Anche il poliacetato e il nylon 6,6 sono piuttosto “tenaci”, ma essendo sensibile all’intaglio ottengono bassi valori di resistenza nella prova Izod, che misura appunto la resistenza all’urto con intaglio. Ci sono molte altre importanti proprietà dei tecnopolimeri che li rendono industrialmente importanti. Essi sono relativamente facili da trasformare in prodotti semifini o fini, e la loro lavorazione nella maggioranza dei casi può essere automatizzata. I tecnopolimeri hanno una buona resistenza alla corrosione in molto ambienti. In alcuni casi i tecnopolimeri hanno un’eccellente resistenza agli agenti chimici aggressivi. Poliammidi (Nylon) Le poliamminidi o nylon sono termoplastici lavorabili per fusione in cui la struttura della catena principale contiene un gruppo ammidico ripetitivo. I nylon mostrano eccezionali capacità di sopportare carichi a elevate temperature, buona tenacità, proprietà antifrizione e buona resistenza chimica. Esistendo parecchi tipi di Nylon l’unità ripetitiva è diversa per ciascuno di essi, tuttavia tutte hanno in comune il legame ammidico: Struttura e proprietà I nylon sono materiali polimerici altamente cristallini a causa della struttura simmetrica regolare della loro catena polimerica principale. L’elevata resistenza meccanica dei nylon è dovuta in parte al legame idrogeno tra le catene molecolari (Fig. 59). 73 Figura 59 – Struttura del Nylon 6,6 Il legame ammidico rende possibile un tipo di legame idrogeno –NHO tra le catene. Come risultato le poliammidi hanno una elevata resistenza meccanica, una elevata resistenza alla distorsione termica e una buona resistenza chimica. La flessibilità delle catene principali di carbonio comporta flessibilità molecolare, che abbassa la viscosità del fuso e favorisce la lavorazione; la flessibilità delle catene è anche causa del basso attrito superficiale e della buona resistenza all’usura. Tuttavia, la polarità e il legame idrogeno dei gruppi ammidici causano un alto assorbimento d’acqua che si manifesta con cambiamenti dimensionali all’aumentare del contenuto di umidità. La prima fibra poliammidica sintetica ad essere prodotta fu il Nylon 6,6, (1940) così denominata perché derivante da un’ammina con 6 atomi di carbonio e da un acido con 6 atomi di carbonio. Successivamente sono state introdotte altre fibre poliammidiche dello stesso genere (Nylon 6,10, Nylon 6,12) tutte caratterizzate da ottime proprietà meccaniche ed alte temperature di fusione, derivanti dalla possibilità di produrre un numero elevato di legami a idrogeno tra una catena e l’altra. Lavorazioni e applicazioni La filatura del Nylon 6,6 avviene per fusione e filatura a secco, è questo un procedimento che consiste nello sciogliere il polimero in un adatto solvente, questa soluzione, molto viscosa, viene spinta contro la filiera e il filo è coagulato in una camera percorsa da un gas riscaldato che provoca l’evaporazione del solvente. Sul filo ottenuto si effettua un forte stiro (4-5 volte rispetto alla lunghezza iniziale) che dispone le fibre tutte nella stessa direzione, aumentando la resistenza meccanica, ed eventualmente la testurizzazione (consiste nel sottoporre i singoli filamenti continui a torsione, allo scopo di renderli notevolmente elastici e voluminosi) nel caso che si voglia ottenere 74 una fibra morbida e voluminosa simile alla lana. La sezione del filo può essere circolare, ma può essere anche prodotta di forma trilobata o stellare in modo da creare speciali effetti di lucentezza e morbidezza. Il Nylon 6,6 ha una buona tenacità, densità tra le più basse tra tutte le fibre e un ottimo recupero elastico. Alla fiamma brucia abbastanza vivacemente e tende a fondere, provocando gravi ustioni in caso di contatto con la pelle. Ha un’ottima resistenza all’usura e non si sgualcisce. Industrialmente si usa rifinire i tessuti in nylon mediante termofissaggio, trattando il tessuto a 180°C a secco o a 120°C a umido. Sfruttando la sua termoplasticità si possono disegni in rilievo che non scompariranno ad una normale manutenzione. In filo continuo, ad alta tenacità, il Nylon 6,6 viene usato per produrre tele molto resistenti (rinforzo pneumatici), sacchi ed involucri da imballaggio, per cordame, reti ecc. Prodotto in fiocco e testurizzato viene utilizzato per indumenti intimi e biancheria, che possiedono elasticità, resistenza all’usura, mano morbida e sufficiente igroscopicità. Figura 60 – Fibre di nylon viste al miscroscopio Un altro tipo di nylon, di gran lunga più comune, è il Nylon 6. Esso viene filato in modo analogo al nylon 6,6 ed ha proprietà analoghe, tranne per il punto di fusione, più basso (215°C contro 265°C del 6,6). Le applicazioni sono simili, è messo in commercio sotto il nome di Perlon, Lilion ecc. 75 Per le sue proprietà antifrizione i nylon vengono usati, una volta processati con i metodi convezionali di stampaggio a iniezione o estrusione, per ingranaggi non lubrificati, cuscinetti e componenti antifrizione, componenti meccanici che devono funzionare ad alta temperatura e resistere agli idrocarburi e ai solventi, parti elettriche soggette ad alte temperature e parti resistenti agli urti che richiedono resistenza meccanica e rigidezza. Le applicazioni in campo automobilistico riguardano meccanismi per tachimetri e tergicristalli, rivestimenti di morsetti. Il nylon rinforzato con fibre di vetro è usato per pale di ventole per motori, serbatoi dei fluidi per i freni e servosterzo, coperchi di valvole, e alloggiamenti della colonna dello sterzo. Policarbonato I policarbonati costituiscono un’altra classe di tecnopolimeri dato che alcune loro proprietà molto particolari quali elevata resistenza meccanica, duttilità e stabilità dimensionale vengono richieste per determinate applicazioni costruttive. L’unità strutturale ripetitiva di base è la seguente Struttura e proprietà I due gruppi fenolici e i due grupi metillici attaccati allo stesso atomo di carbonio nell’unità strutturale ripetitiva causano un elevato impedimento sterico e rendono la struttura molecolare molto rigida. Tuttavia, i singoli legami carbonio-ossigeno nel legame carbonato forniscono una certa flessibilità alla molecola lungo l’intera struttura, cosa che conferisce una elevata resistenza agli urti. La resistenza a trazione dei policarbonati a temperature ambiente è relativamente elevata, attorno ai 62 MPa, e la resistenza all’urto è molto alta e compresa tra 640e 854 J/m, come rilevato dalla prova Izod. Altre importanti proprietà dei policarbonati per applicazioni tecnologiche sono la loro elevata resistenza a distorsione termica, le buone proprietà di isolamento elettrico e la trasparenza. Anche la resistenza al creep di questi materiali è buona. I policarbonati sono resistenti a numerosi agenti chimici, ma vengono attaccati dai solventi. La loro elevata stabilità dimensionale li abilita ad essere usati per parti strutturali di precisione dove sono richieste tolleranze strette. Applicazioni 76 Applicazioni tipiche per i policarbonati includono schermi di protezione, lenti per occhiali,camme e ingranaggi, elmetti, coperture per relè elettrici, componenti per aerei, eliche per imbarcazioni, alloggiamenti e lenti per semafori, vetrate per finestre e collettori solari. Nel campo medico il policarbonato ha trovato largo impiego: la possibilità di sterilizzare gli oggetti di tale materiale ne ha permesso l’utilizzo nelle apparecchiature per la dialisi artificiale e per la cardiochirurgia, per la prima infanzia e le cure domiciliari (biberon, aerosol, incubatrici). MATERIALI POLIMERICI TERMOINDURENTI I materiali polimerici termoindurenti o resine termoindurenti hanno una struttura molecolare reticolata formata da legami covalenti primari. Alcune resine termoindurenti sono reticolate per mezzo del solo calore oppure attraverso combinazioni di calore e pressione. Altre possono venire reticolate attraverso una reazione chimica che avviene a temperatura ambiente (termoindurenti a freddo). Benché i manufatti in resina termoindurente possano ammorbidirsi per effetto del calore, i legami covalenti del reticolo impediscono loro di ritornare allo stato fluido che esisteva prima della reticolazione. I materiali termoindurenti, perciò, non possono venire nuovamente riscaldati e quindi udisi come succede per i termoplastici. Questo comporta uno svantaggio economico poiché gli scarti prodotti durante la lavorazione non possono essere riciclati e riutilizzati. In generale, i vantaggi delle materie plastiche termoindurenti per applicazioni di progetto tecnologico sono i seguenti: a) elevata stabilità termica; b) elevata rigidezza; c) elevata stabilità dimensionale; d) resistenza al creep e alla deformazione sotto carico; e) basso peso; f) elevate proprietà di isolamento elettrico e termico. Come già visto le resine termoindurenti vengono trasformate usualmente tramite stampaggio a compressione o per trasferimento. Tuttavia, in alcuni casi, sono state sviluppate tecniche di stampaggio per iniezione in modo da abbattere i costi. Molto termoindurenti vengono usate sotto forma di miscele da stampaggio consistenti in due ingredienti principali: (1) una resina contenente agenti di reticolazione, indurenti e plastificanti e (2) riempitivi e/o materiali di rinforzo che possono essere sostanze organiche o inorganiche. Farina di legno, mica, vetro e cellulosa sono tra i riempitivi più comunemente utilizzati. 77 Resine fenoliche Le resine fenoliche sono state la prima materia plastica utilizzata industrialmente. Il brevetto originale per la realizzazione del fenolo con la formaldeide per produrre la resina fenolica Bakelite è stato pubblicato da L.H. Baekeland nel 1909. Le resine fenoliche sono ancora oggi utlizzate per il loro basso costo e per le proprietà di isolamento elettrico e termico, unito a buone proprietà meccaniche. Esse vengono stampate facilmente ma hanno colori limitati (in genere nero o marrone). Chimica Le resine fenoliche sono prodotte usualmente per reazione del fenolo con formaldeide mediante una polimerizzazione per policondensazione, in cui l’acqua è il sottoprodotto. Tuttavia in pratica si può utilizzare qualsiasi fenolo o aldeide reattivi. La temperatura richiesta per la reticolazione delle resine più comuni varia da 120 a 180 °C. Preparati per stampaggio vengono fatti combinando la resina con vari riempitivi che talvolta raggiungono fino al 50-80% del peso totale del preparato da stampaggio. I riempitivi riducono il ritiro durante lo stampaggio, abbassano i costi e aumentano la resistenza meccanica. Essi possono anche essere usati per aumentare le proprietà isolanti elettriche e termiche. Struttura e proprietà L’elevata reticolazione della struttura aromatica impartisce elevata durezza, rigidezza e resistenza meccanica, unite a buone proprietà di isolamento elettrico e termico e a resistenza chimica. Alcuni fra i vari tipi di preparati fenolici per stampaggio sono 1. Preparati per usi generali: questi materiali sono usualmente caricati con farina di legno per aumentare la resistenza all’urto e per abbassare i costi. 2. Preparati a elevata resistenza agli urti: questi materiali sono caricati con cellulosa (fiocco di cotone e tessuto spezzettato), cariche minerali e fibre di vetro per ottenere resistenza all’urto che raggiungono 960 J/m. 3. Preparati a elevato potere di isolamento elettrico: si tratta di materiali caricati con minerali (ad esempio mica) per aumentare la loro resistenza elettrica 4. Preparati resistenti al calore: si tratta di materiali caricati con minerali (ad esempio amianto) capaci di sopportare l’esposizione prolungata a temperature tra 150 e 180°C. 78 Applicazioni I preparati fenolici sono ampiamente usati per dispositivi di impianti elettrici, interruttori elettrici, connettori, sistemi di relè telefonici. Nel settore automobilistico i preparati fenolici per stampaggio sono utilizzati per componenti di assistenza del sistema frenante,e per parti della trasmissione. Resine epossidiche Le resine epossidiche rappresentano una famiglia di materiali polimerici termoindurenti che non danno luogo a formazione di prodotti di reazione quando reticolano e pertanto hanno un basso ritiro di reticolazione. Esse presentano anche buona adesione ad altri materiali, buona resistenza chimica e ambientale, buone proprietà meccaniche e buone proprietà di isolamento elletrico. Chimica Le resine epossidiche sono caratterizzate da una molecola contenente due o più gruppi epossidici. La maggior parte della resine commerciali hanno la seguente formula generale di struttura: Per le resine liquide n nella formula è generalmente inferiore a 1. Per le solide, n è maggiore di 2 e può arrivare anche a 25. Per dare materiali solidi termoindurenti, le resine epossidiche devono indurire con l’aiuto di agenti di reticolazione e/o catalizzatori in modo da raggiungere le proprietà desiderate. I gruppi epossidici e idrossilici (-OH) sono siti reattivi di reticolazione. Gli agenti di reticolazione includono ammine, anidridi e prodotti di condensazione delle aldeidi. Struttura e proprietà Il basso peso molecolare delle resine epossidiche non indurite e allo stato liquido dà loro una mobilità molecolare eccezionalmente elevata durante la trasformazione. Questa proprietà permette alla resina epossidica liquida di bagnare le superfici velocemente e completamente. Le proprietà di bagnabilità sono importanti quando le resine epossidiche vengono utilizzate in materiali rinforzati e come adesivi. L’elevata reattività del gruppo epossidico con agenti di reticolazione come le ammine, fornisce un alto grado di reticolazione e quindi elevata durezza, resistenza meccanica e chimica. Applicazioni Le resine epossidiche sono utilizzate per molti rivestimenti protettivi e decorativi grazie alle buone proprietà di adesione, meccaniche e di resistenza chimica. Usi tipici sono rivestimenti per fusti, verniciature di fondo per automobili e strumentazione, rivestimenti di conduttori. Nell’industria 79 elettrica ed elettronica le resine epossidiche sono usate grazie alla loro rigidità dielettrica, basso ritiro nell’indurimento, buona adesione e capacità di mantenere inalterate le loro proprietà in una larga varietà di condizioni ambientali, ad esempio in ambienti acquosi e in condizioni di elevata umidità. Le resine epossidiche sono oggi molto utilizzate come matrice nei compositi rinforzati con fibre. Queste resine sono il materiale predominate delle matrici di molti compositi ad alte prestazioni come quelli rinforzati con fibre ad alto modulo (ad esempio grafite). ELASTOMERI Gli elastomeri, o gomme, sono materiali polimerici le cui dimensioni possono variare enormemente sotto sforzo, e poi ritornare ai valori originali (o quasi) quando lo sforzo che ha provocato la deformazione viene rimosso. Gomma naturale Produzione La gomma naturale viene prodotta commercialmente dal lattice dell’albero Hevea brasiliensis, coltivato in piantagioni soprattutto nelle regioni tropicali dell’Asia sudorientale, specialmente in Malesia e in Indonesia. La fonte della gomma naturale è un liquido lattiginoso noto come lattice, una sospensione contenente piccolissime particelle di gomma. Il lattice liquido viene raccolto dagli alberi e portato a un centro lavorazione dove viene diluito fino a un contenuto pari al 15% dei gomma e coagulato con acido formico. Il materiale coagulato viene quindi compresso attraverso rulli per rimuovere l’acqua e produrre fogli di materiale. I fogli vengono essiccati con correntizi aria calda oppure per mezzo del riscaldamento del fumo di fuoco. I fogli compressi dai rulli e altri tipi di gomma grezza vengono poi laminati tra pesanti rulli in cui l’azione meccanica di taglio rompe in parte le lunghe catene polimeriche e riduce il loro peso medio molecolare. Struttura La gomma naturale è principalmente cis-1,4 poliisoprene miscelato con piccole quantità di proteine, grassi, sali inorganici e numerosi altri componenti. Il cis-1,4 poliisoprene è un polimero a lunga catena (peso medio molecolare di circa 5 x 105 g/mole) con formula di struttura: 80 Il prefisso cis- indica che il gurppo metilico e un atomo di idrogeno sono dalla stessa parte del doppio legame carbonio-carbonio. L’indicazione 1,4 indica che l’unità ripetitiva della catena polimerica si lega covalentemente al primo e al quarto atomo di carbonio dell’isoprene. Le catene polimeriche della gomma naturale sono lunghe, allacciate e avvolte a spirale; a temperatura ambiente sono nello stato di continua agitazione. Il piegamento e l’avvolgimento delle catene polimeriche della gomma naturale sono attribuiti all’impedimento sterico del gruppo metilico che si trova dalla stessa parte dell’atomo di idrogeno sul doppio legame. Vulcanizzazione La vulcanizzazione è il processo chimico con cui molecole polimeriche vengono unite da ponti di reticolazione in molecole più grosse per limitare i movimenti molecolari. Nel 1839 Charles Goodyear scoprì un processo di vulcanizzazione per la gomma utilizzando zolfo e carbonato basico di piombo. Goodyear trovò che quando una miscela di gomma naturale, zolfo e carbonato di piombo veniva riscaldata, la gomma si trasformava da materiale termoplastico in elastomero. Benché ancora oggi la complessa reazione dello zolfo con la gomma non sia stata completamente compresa, il risultato finale consiste nell’apertura di alcuni doppi legami poliisoprenici con la formazione di ponti di reticolazione formati da atomi di zolfo, come mostrato nella figura sottostante. Figura 61 – Processo di vulcanizzazione 81 La gomma e lo zolfo reagiscono molto lentamente anche a temperature elevate, per cui si usa generalmente miscelare alla gomma degli acceleranti chimici, insieme ad altri additivi come riempitivi, plastificanti, antiossidanti, per accorciare il tempo di reticolazione a temperature elevate. Generalmente, le gomme morbide vulcanizzate contengono circa il 3% in peso di zolfo e vengono riscaldate nell’intervallo tra 100 e 200°C per la vulcanizzazione o indurimento. Se si aumenta il contenuto di zolfo, aumenta anche la quantità di reticolazioni, dando un materiale più duro e meno flessibile. Una struttura completamente rigida di gomma dura può essere ottenuta con circa il 45% di zolfo. Anche l’ossigeno e l’ozono reagiscono con i doppi legami del carbonio delle molecole di gomma in modo simile alla reazione di vulcanizzazione con zolfo, provocando quindi infragilimento della gomma. La reazione di ossidazione può essere ritardata in un certo qual modo aggiungendo antiossidanti quando si effettua la miscelazione della gomma. L’uso di riempitivi può abbassare il costo dei prodotti in gomma e inoltre rinforzare il materiale. Il nerofumo viene comunemente usato come riempivo per la gomma, e, in generale più fini sono le particelle di nerofumo, maggiore è la resistenza trazione. Il nerofumo fa anche aumenta la resistenza alla lacerazione e all’abrasione della gomma. Anche silici (ad esempio silicato di calcio) e argilla chimicamente modificata sono utilizzati come riempitivo per rinforzare gomme. Applicazioni La gomma naturale ormai rappresenta una piccola percentuale dei consumi complessivi di materiali gommosi. Viene oggi usata per articoli tecnici quali nastri trasportatori, articoli sanitari, articoli sportivi. Gomme sintetiche Le gomme sintetiche oggi coprono quasi il 90% dei consumi mondiali di materiali gommosi. Alcune delle gomme sintetiche più importanti sono le stirene-butadiene, le gomme nitrile, e i policloropremi. La tabella sottostante riporta le caratteristiche fisiche dei principali elastomeri. Materiale Gomma naturale Resistenza a Allungamento trazione, MPa % Densità g/cm³ raccomandata, °C 17-24 750-850 0.93 Da -50 a +82 1.4-24 400-600 0.94 Da -50 a +82 3.4-6.2 450-700 1.0 Da -50 a +120 21-28 800-900 1.25 Da -40 a +115 Temperatura di esercizio (cis-poliisoprene) SBR o Buna S (butadiene-stirene) Nitrile o Buna N (butadiene-acrilonitrile) Neoprene 82 (policloroprene) Silicone (polisilossano) 4.1-9.0 100-500 1.1-1.6 Da -115 a +315 Gomme stirene-butadine La più importante gomma sintetica e la più largamente utilizzata è la gomma stirebe-butadiene (SBR). Dopo la polimerizzazione, questo materiale contiene da 20 a 23% di stirene. La struttura di base è mostrata nella figura sottostante. Dal momento che l’unità monometrica butadiene contiene doppi legami, questo copolimero può essere vulcanizzato con zolfo per reticolazione. Il butadiene di per sé, se sintetizzato con un catalizzatore sterospecifico per dare l’isomero cis, ha una elasticità anche pari alla gomma naturale perché il gruppo metilico attaccato al doppio legame nella gomma naturale è assente nell’unità monometrica del butadiene. La presenza di stirene nel copolimero dà luogo a una gomma più tenace e resistente. I gruppi fenolici laterali dello stirene, distribuiti lungo la catena principale del copolimero, riducono la tendenza del polimero a cristallizzare sotto alto sforzo. La gomma SBR ha costi inferiori rispetto alla gomma naturale e per questo viene utilizzata in molte applicazioni dove si richiedano gomme. Per esempio, nel caso dei battistrada di pneumatici, la SBR ha una migliore resistenza all’usura, ma una maggiore produzione di calore. Uno svantaggio della SBR verso la gomma naturale è dato dall’assorbimento di solventi organici come benzina e petrolio e dal rigonfiamento. Gomma nitrile Le gomme nitrile sono copolimeri del butadiene e dell’acrilonitrile nei rapporti che vanno da 55 a 82% di butadiene e da 45 a 18% di acrilonitrile. La presenza del gruppo nitrile aumenta il grado di polimerizzazione nella catena principale e la quantità di legami idrogeno tra catene adiacenti. I gruppi nitrile forniscono buona resistenza agli oli e ai solventi, e aumentano la resistenza all’abrasione e al calore. D’altra parte, viene ridotta la flessibilità molecolare. Le gomme nitrile 83 sono più costose delle gomme comuni, per questo motivo questi copolimeri sono limitati ad applicazioni speciali, come tubi e guarnizioni per il carburante, dove è richiesta elevata resistenza a oli e solventi Policloroprene (Neoprene) Le gomme policloroprene o neopren sono simile all’isoprene, con la differenza che il gruppo metilico attaccato al doppio legame del carbonio viene sostituito dall’atomo di cloro: La presenza dell’atomo di cloro aumenta la resistenza dei doppi legami insaturi all’attacco dei ossigeno, ozono, calore, luce e condizioni climatiche. I neopreni hanno anche buona resistenza agli oli e carburanti e resistenza meccanica superiore a quella delle gomme comuni. Tuttavia hanno ridotta flessibilità a basse temperature e costi più elevati. Come conseguenza, i neopreni sono usati in applicazioni specialistiche come i rivestimenti di fili e cavi, raccordi e cinghie industriali, membrane e guarnizioni a tenuta in campo automobilistico. Gomme siliconiche L’atomo del silicio, come quello di carbonio, ha valenza 4 ed è in grado di formare molecole polimeriche attraverso legami covalenti. Tuttavia, i polimeri siliconici hanno unità ripetitive formate da silicio e ossigeno come mostrato di seguito: dove R possono essere atomi di idrogeno o gruppi come il metilico (CH3-) o il fenolico (C6H5-). I polimeri siliconici contenenti silicio e ossigeno nella catena principale sono chiamati siliconi. 84 Tra i molti elastomeri siliconici, il più comune è quello in cui R nell’unità ripetitiva è un gruppo metilico: Questo polimero viene chiamato polidimetilsilossano e può essere reticolato a temperatura ambiente per aggiunta di un iniziatore (ad esempio benzoil perossido) che fa reagire tra di loro i gruppi metilici con l’eliminazione di una molecola di gas H2 per formare ponti Si-CH2-CH2-. Le gomme siliconiche presentano il maggior vantaggio di poter essere usate in un ampio intervallo di temperature (da -100 a 250°C). Le applicazioni per le gomme siliconiche includono dispositivi e guarnizioni a tenuta, isolamento elettrico, elementi di protezione delle candele, e in campo medico: protesi, valvole cardiache, lenti a contatto. 85