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Scrittori italiani e stranieri

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Scrittori italiani e stranieri
Scrittori italiani e stranieri
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Gaia Coltorti
Le affinità alchemiche
romanzo
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www.librimondadori.it
Le affinità alchemiche
di Gaia Coltorti
Collezione Scrittori italiani e stranieri
ISBN 978-88-04-62620-6
© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
I edizione gennaio 2013
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Le affinità alchemiche
Questo disperato teatrino.
Questa catastrofe di coppie di doppi.
Esso non è che una trappola
vista attraverso gli occhi di René Girard.
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C’è mai stato un libro dal contenuto
tanto abietto rilegato così bene?
Romeo e Giulietta, Atto III, Scena II
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Ti ricordi? Eravate niente di più che due liceali dopo un incontro
d’amore, e lei dormiva, adesso. Ti respirava sul collo, e con la sua
soave presenza ti rendeva felice.
Le pieghe delle tende. La luce del sole di Verona attraversava le
tende, illuminava la stanza, e tu, in quel sentore di voluttà rarefatta
intorno a voi, tendevi a perderti. L’appartamento di via Anfiteatro
era silenzioso, sospeso nell’alone di compiuta pace che di quando
in quando, in modo miracoloso, la quiete pomeridiana sprigiona.
Percepivi la voce corale della gente, della vita fuori, come un sottofondo placido, simile all’acqua gorgogliante di un fiume e, vinto
dalla tenerezza, volentieri avresti accarezzato i capelli al tuo amore, ché mentre dormiva era più amabile, e il resto del tempo, invece, si trasformava in una specie di diciottenne viziata che faceva
sempre di testa sua.
Prepotente, vero, ma aveva preso il tuo cuore.
Da settimane, lo sai, la vostra disperata e impossibile storia andava avanti. Ogni tanto, ti capitava d’immedesimarti in un estraneo e trasalire, intuendo fino a che punto, visto da fuori, quel vostro
amore dovesse apparire orribile – la parola a cui pensavi era “ripugnante”. Ma bastava infischiarsene e subito, in obbedienza al loro
misterioso destino, tutte le cose si mettevano di nuovo in cammino.
Le cose, in realtà, era lei a farle camminare di nuovo, magari a
colpi d’intraprendenza e alterigia; se pure dietro lo scudo dell’ag9
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gressività la persona che amavi si difendesse, credevi, e nient’altro. Ti eri abituato a osservare la sua ingannevole fragilità esteriore,
ciò che saltava di più all’occhio: il corpo magro, da allieva di ginnastica ritmica, pareva sul punto di rompersi quando le tue mani,
le braccia, vinte dal desiderio lo traevano a sé. Poi avevi capito che
lei era forte nel corpo e, forse meno, nello spirito.
Il tuo stesso nome – Giovanni – per te non avrebbe significato
più nulla, adesso, senza avere il suo accanto, un nome che solo a
sentirlo ti riempiva il cuore di gioia: Selvaggia. Poiché, prima di
lei, tu non eri niente, un ragazzo come tanti che passava inosservato, mescolandosi alla folla.
Chiunque ti conosceva avrebbe detto di te che eri intelligente,
educato, un tipo un po’ apatico e, tutto sommato, tranquillo. Uno
che il sabato sera usciva con gli amici per bere una cosa, aveva una
grande passione per il nuoto e sognava di partecipare, un giorno,
ai campionati italiani. Niente di più. Ma dopo di lei, per invincibile metamorfosi, Giovanni era diventato Johnny, e Johnny era come
Giovanni, solo con molta più voglia di vivere. Sembrava un uomo
che aveva trovato la sua strada, una specie di eletto a cui la vita era
miracolosamente apparsa davanti agli occhi, irta di pericoli e, nel
contempo, destinata a una felicità suprema.
Selvaggia era divenuta tutto, per te, in quei cento giorni in cui
vi eravate amati. Lei era la tua ragione di vita, ciò per cui respiravi, motivo di scelte estreme, origine di sofferenze e gioie mai conosciute. Di tutte queste cose, entrambi avevate saputo d’essere intrisi fin dal primo incontro, quasi che, in grazia della passione che
vi faceva esistere, foste venuti al mondo al solo scopo di amarvi.
E forse non ci sarebbe stato niente di strano, in voi e nel vostro
amore disperato, se non che la ragazza che ti dormiva a fianco, e
poggiava la testa sul tuo petto, e ti faceva morire ogni volta che la
baciavi sulla bocca, era tua sorella.
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Ti ricordi? Le vacanze a cavallo tra il quarto e il quinto anno delle superiori erano appena iniziate e, prima d’allora, Selvaggia non
l’avevi mai conosciuta. I vostri genitori si erano separati quando
eravate piccoli – avrete avuto un anno, sì e no – e tu non avevi mai
conosciuto realmente neanche tua madre: la vedevi ogni tanto, sì,
un paio di brevi visite l’anno, ché di più, pressata dalla carriera in
polizia, non aveva proprio modo di trattenersi.
Non ricordavi di averla mai odiata, per il fatto di esserti tanto
lontana. Sapevi solo di non aver approvato certe sue scelte, come
cambiare compagno tutte le volte che le andava, e informarne con
solerzia tuo padre – Daniele Mantegna, l’ottimo buon notaio quarantacinquenne, dedito al lavoro e a quanto restava della sua famiglia –
affinché lui, daccapo, cadesse nella sua gelosia divenuta, dopo tutti
quegli anni, una specie di riflesso persino un po’ astratto.
Ma forse, in un modo astruso di cui nulla sapevi, dal suo giochino
perverso la mamma ricavava una qualche soddisfazione o divertimento per grandi, ben consapevole di quanto lui ancora la amasse.
Così, avevi trascorso gli ultimi diciott’anni della tua vita da solo
con tuo padre, lì a Verona, mentre tua madre e tua sorella, che si
erano trasferite a Genova fin dall’inizio della separazione, dovevano aver condotto in quei luoghi una loro esistenza, ai tuoi occhi
semimisteriosa e parallela alla vostra.
Renderti conto, adesso, che entrambe sarebbero ripiombate nella
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tua vita: per un po’, nemmeno avevi saputo tanto bene come reagire, cosa pensare. Non avevi mai vissuto con l’idea di ritrovarti delle presenze femminili più o meno intorno, e tuo padre era sempre
stato molto più che discreto, quanto alle sue eventuali, e per certo
fugaci, relazioni sentimentali.
Era comprensibile, dunque, che ti fossi sentito perplesso quando, un giorno come tanti, a pranzo, col basso continuo del telegiornale intento a illustrare le miserie del mondo, tuo padre aveva detto in tono piatto: «Antonella e Selvaggia tornano a Verona». Forse
non voleva neanche una risposta; non diversamente da quando
dissentiva su un argomento o qualcosa e, d’improvviso, diveniva freddo, o distante, come non desiderasse commenti diversi da
quelli che si aspettava.
«E allora?» era stata la tua prima reazione, in un moto d’indolenza. Francamente, non è che t’importasse tanto. Vedevi talmente
poco tua madre che ti eri abituato a vivere come se non ne avessi
mai avuta una. Riguardo a tua sorella, questa cara gemella bicoriale o monocoriale – a essere sinceri non ricordavi –, be’, la conoscevi in foto, e le ultime che avevi guardato solo per far contento
tuo padre risalivano almeno a due anni prima. No, quattro, in realtà. E quasi mai ci avevi parlato, con lei, e quasi mai avevate giocato insieme da piccoli o, se sì, non conservavi ricordi bastevoli a cavarne una qualche impressione stabile.
«Niente» aveva considerato tuo padre, per tutta risposta. «Solo,
sta per succedere. Tua madre è stata trasferita a Verona, sai come
vanno le cose in polizia, no? Saranno qui fra pochissimo. E anzi, scusa se te lo dico così tardi. Ma la mamma ha già comprato una casa,
vendendo quella di Genova. Lei e Selvaggia si stanno sistemando.»
Neppure gli avevi risposto, ricordi? Solo, ti eri limitato a prendere atto della cosa. Alla fine, non ti diceva proprio niente, che fra
poco avresti potuto riabbracciarle entrambe.
Più tardi, come ti accadeva quando sentivi il bisogno di pensare,
avevi cercato di districare i tuoi dubbi nuotando a dorso in pisci12
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na. Che papà avesse in mente di riprendere a corteggiare la mamma era chiaro come il sole. E di sicuro non gliene facevi una colpa,
dato che quella era l’unica donna in grado di renderlo masochisticamente felice, accettando di vivergli a fianco. “Va bene” ti dicevi.
“Non sarà un problema di nessun genere se, alla stregua d’un risarcimento, riavrai indietro una specie di famiglia, no?”
Eppure, il viavai di pensieri non a fuoco circa i cambiamenti in
arrivo non smetteva il suo assedio. Così andavi avanti a ripeterti enunciati brumosi, considerazioni sul fatto che a te non doveva
importare – in fondo, cosa cavolo c’entravi, realmente, tu?
“Saranno fatti loro” ti dicevi.
Ma di nuovo quei pensieri tornavano, come se un tarlo dispettoso si divertisse ad aizzarli, e tu, daccapo, provavi a ragionare con
loro e li contrastavi. Del resto metterti nella prospettiva di simulare indifferenza sarebbe stata, per te, una pratica del tutto nuova.
Già. Vero.
Dopo quel paio d’ore di vasche, tornando a casa avevi sorpreso tuo
padre al telefono. Quasi l’avessi colto in flagranza di reato, lui aveva subito assunto un tono formale, ma tu eri ugualmente riuscito
a intuire che stesse parlando con la mamma di cose molto, molto
private. Per un attimo, ti eri dispiaciuto di averlo interrotto, seppure senza volerlo, e un istante più tardi, tuttavia, dopo esserti detto
che le cose, intorno a te, stavano prendendo una piega alla quale
non eri abituato, avevi sorriso, sentendoti piacevolmente confuso.
In fondo non era poi così male, se dei genitori decidevano di
riavvicinarsi. Alla fine, ti dicevi, era sempre meglio una persona di
cui tu non sapevi pressoché nulla come tua madre, ma a cui papà
aveva continuato a sentirsi in qualche modo legato, piuttosto che
una delle segretarie trentenni dello studio, o altre, per te equivalenti, sconosciute totali.
In ogni caso, ti faceva un po’ ridere il fatto che, dopo essere cresciuto secondo l’autodottrina del faccio-come-dico-io, da maggiorenne ti saresti ritrovato con questa madre a tenerti almeno un poco al
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guinzaglio, se non nella stessa casa – ché ancora non si era parlato di un’evenienza del genere – quanto meno, riflettevi, nei pressi.
Nutrivi ben pochi dubbi sul fatto che i tuoi avrebbero finito, completati quei primi passi, per tornare a vivere insieme, sotto il medesimo tetto. E con loro, ti dicevi, in qualche angolo della villetta a
due piani sarebbe esistita anche lei, tua sorella. Proprio non sapevi
che punto di vista abitare, immaginando il futuro.
A ogni modo quel primo sabato di giugno era giunto, segnando
il momento in cui father Daniele e mother Antonella, dopo essersi riavvicinati, per la prima volta, a distanza di anni e anni, erano
usciti a cena insieme. L’ora fatidica aveva scoccato il suo rintocco,
dunque, ed erano trascorsi non più di cinque giorni da quando la
mamma e Selvaggia si erano trasferite a Verona. Si stavano sistemando nell’appartamento di via Anfiteatro, vicino all’Arena, mentre tu e tuo padre avreste continuato a vivere nella casa con giardino in cui avevi abitato da che c’era ancora il nonno Bruno, con
voi, il padre di tuo padre, l’ultimo dei nonni ancora vivi quando
tu e Selvaggia eravate nati. Per il resto non era certo lei, tua sorella, e l’eventuale, futuro rapporto di coesistenza fra voi a preoccuparti sul serio – in fondo, eravate fratelli, avevate la stessa età e sareste riusciti, che diamine, almeno a parlarvi. Era il nuovo legame
con tua madre, piuttosto, ad apparirti un minimo complicato, ché
non inquadravi tanto bene con quali sentimenti saresti riuscito ad
accoglierla nella tua esistenza di tutti i giorni.
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Alle cinque e mezzo di pomeriggio stavi alquanto domesticamente
uscendo dalla doccia, quando avevi sentito la porta di casa chiudersi, al piano di sotto, e queste due voci, una maschile e una femminile, che dopo aver chiamato il tuo nome ora tacevano, sostituite
da uno scalpiccio in avvicinamento. Ti eri guardato allo specchio,
pensando in modo confuso che una quantità di cose sarebbe cambiata, da lì in avanti, e poi le avevi cacciate indietro, le tue pseudopreoccupazioni, avevi acceso l’asciugacapelli e avevi sentito bussare alla porta. «Giovanni, sei qui?», la voce della mamma aveva
domandato.
Eri lì, Giovanni? Fisicamente, non potevano esservi dubbi: eri lì,
però non avresti saputo garantire che la tua testa, satura d’incerte
questioni, dovesse considerarsi compresente al corpo.
Comunque, i tuoi genitori avevano aperto la porta, incuranti che
tu potessi essere più o meno nudo, intento sotto la doccia o altro.
Per fortuna ti avevano trovato con l’asciugamano legato in vita,
e tua madre, estasiata di elettricità autoprodotta, senza curarsi di
niente né darti modo di pronunciare una parola, ti si era avventata addosso, abbracciandoti.
Avresti scommesso che il calco del tuo torace ancora umido si
sarebbe impresso sul suo tailleur: «Ciao, mamma» avevi provato a
dirle, mezzo soffocato nel trasporto del suo abbraccio. Con gli occhi avevi cercato aiuto in tuo padre, ma lui si era limitato a ridere,
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