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Avvocati e Società di capitali

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Avvocati e Società di capitali
AVVOCATI E SOCIETA' DI CAPITALI
La legge di stabilità (n.183/2011), sia pur in esito alle modifiche ed
integrazioni recentemente intervenute per effetto del D.L. n.1/12, in corso di
definitiva conversione, ha conferito piena legittimazione alla costituzione di
società, per l’esercizio dell’attività professionale, secondo i modelli societari
tipici contemplati dal codice civile, incluse le società di capitali e quelle
cooperative.
L'art.10 della legge 12-11-2011 n.183 ha a tal uopo riservato la possibilità di
far parte di tali società, in qualità di soci, oltre ai professionisti iscritti ad ordini
ed albi, anche
a soggetti non professionisti (ad esempio banche, grandi
imprese, compagnie assicurative, ecc.), e ciò soltanto per prestazioni
tecniche o per finalità di investimento.
Saremmo tentati ad immorare ulteriormente e magari ironizzare sull'ultroneità
dell'avverbio utilizzato dal Legislatore, al fine di circoscrivere la (invero quasi
inevitabile e fisiologica) finalità della partecipazione di soci di capitale, che
ovviamente non può che essere ispirata da evidenti ragioni di profitto nm, se
l'ennesimo tentativo di imprenditorializzare una professione come la nostra
che, per la specificità che la connota, non può essere regimentata
(accomunandola ad altre che tale specificità non riflettono) secondo logiche di
mercato ispirate alla sola competitività ed alla concorrenza, non ci inducesse
a riflessioni tutt'altro che sarcastiche, frutto di un momento davvero critico che
l'Avvocatura è costretta a vivere.
L'introduzione del mero socio di capitale (senza sottacere, ma neanche
approfondire - apparendo tale dato addirittura d'intuitiva evidenza – ogni altra
considerazione sull'eventuale incognita della provenienza del capitale
medesimo), evidenzia criticità strutturali e perplessità che investono
l'operatività delle norme deontologiche, a cui la legge di conversione del maxi
emendamento apportato al testo del decreto legge convertito, non ha
sicuramente posto adeguato rimedio.
Non ci si può, intanto, in linea di principio, discostarsi dall'assioma secondo
cui l’entrata di investitori esterni in società di professionisti – e, ci sia
consentito, con particolare riferimento in una società di professionisti che
esercitano il diritto di difesa, che trova il suo riconoscimento nella
Costituzione - finirà con l‘assoggettare la professione forense, alle logiche del
mercato e della concorrenza, tipiche delle imprese commerciali. Sarà
inevitabile constatare come l'indipendenza e l'autonomia del singolo
professionista, saranno costrette a cedere il passo alle spietate logiche
imprenditoriali
del
mercato,
quasi
fisiologicamente
proiettate
al
conseguimento del massimo profitto, per giunta senza prevedibilmente
favorire l'inserimento in tali società del giovane avvocato, il cui accesso, non
sostenuto da alcun apporto di capitale e quale mero socio d'opera, si profilerà
verosimilmente complicato.
La perplessità più grande attiene, infatti, al rischio di una vera e propria prova
di forza, a cui saranno chiamati i professionisti operativi all’interno delle
società professionali – impegnati nell'adempiere ai loro mandati professionali,
nel rispetto delle regole, anche deontologiche, imposte dall’ordinamento – e
gli investitori non “professionisti”, interessati piuttosto al fatturato prodotto e,
dunque, ad ottenere il massimo profitto dall’attività dei singoli soci
professionisti “lavoratori”, prescindendo dalla rilevanza deontologica o meno
(perchè per loro non vincolante) delle strategie a tal uopo utilizzate.
Due aspetti davvero peculiari introdotti dalla richiamata normativa meritano,
inoltre, di essere attenzionati: il primo concerne l'evidente contrasto fra
quanto sancito dal richiamato art.10 in ordine alla possibilità di costituzione di
società di capitali per l'esercizio della professione forense ed il progetto di
riforma contenuto nel disegno di legge 23.11.2010 n.1198 co.7 dell’art.4 già
approvato dal Senato, in base al quale la costituzione di società di capitali
che indicano l’esercizio di attività proprie della professione forense è vietata e
sono nulli i relativi atti costitutivi, mentre l'altro riguarda la situazione del socio
professionista cancellato all’albo.
L’art.l0 co.4 della L. di stabilità, prevede che l’atto costitutivo (lett. D) disciplini
le modalità di esclusione del socio professionista cancellato dall’albo. Ma che
succede se il socio non più abilitato all’esercizio professionale rimane nella
compagine sociale come socio di capitale per finalità d’investimento? Ipotesi
possibile,(tranne nella ipotesi di esclusione a richiesta) ma disdicevole per la
stessa credibilità della società che mantiene, nella sua compagine, un
soggetto al quale, seppur destinatario di un provvedimento disciplinare,
verrebbe comunque consentito, sia pure occultamente, l'esercizio della
professione ufficialmente inibitagli.
Non possono sottacersi, inoltre, anche le ricadute negative sotto il profilo
previdenziale. In atto il reddito di partecipazione agli utili societari non è
soggetto a contribuzione previdenziale, né sotto forma di contributo
soggettivo, né integrativo. Da ciò il rischio di subire effetti perniciosi per la
nostra
cassa,
non
solo
in
termini
di
entrate
e
di
conseguente
depauperamento delle risorse, ma anche sull'impianto della stessa, ispirato
ad evidenti principi di solidarietà.
La sessione odierna, tuttavia, si occupa esclusivamente di deontologia e delle
refluenze che sul piano deontologico tale norma rischia inevitabilmente di
apportare, di guisa che in tal senso va circoscritto il nostro intervento.
Sotto tale profilo, la nostra attenzione non può che essere preliminarmente
rivolta all'individuazione del regime disciplinare applicabile ai soci, verificando
in particolare se sia configurabile una diverso trattamento, avuto riguardo
all'illecito disciplinare posto in essere dal socio professionista, rispetto a
quello di cui si sia reso responsabile il socio investitore o di capitale, il quale
pur non potendo svolgere l'attività professionale tipica della società, potrebbe,
comunque, porre in essere attività gestoria o comunque d'iniziativa, in
contrasto con le prescrizioni deontologiche vigenti per i soci professionisti.
Il comma 7 dell’art. 10 della L. 183/2011 sancisce in merito che “i
professionisti soci sono tenuti all’osservanza del codice deontologico del
proprio ordine, così come la società è soggetta al regime disciplinare
dell'ordine al quale risulti iscritta”.
Tale criterio consente, tuttavia, di argomentare in atto soltanto de iure
condendo, lasciando verosimilmente desumere che gli addebiti di carattere
disciplinare potranno essere mossi sia ai soci professionisti che alla società
“soggetta al regime disciplinare dell'ordine al quale risulti iscritta”, nella
consapevolezza, tuttavia, che decisivo rilievo esegetico acquisirà sul punto,
l'emanando decreto ministeriale previsto dallo stesso art.10, chiamato a
regolamentare non solo l'appartenenza ordinistica della società, ma anche il
rapporto intersistematico dei precetti deontologici destinati a disciplinare sia
l'attività dei singoli soci professionisti, che dell'apparato societario di cui
costituiscono parte integrante.
Le perplessità derivanti dalle refluenze di natura deontologica che promanano
dalla norma in esame, sono dunque variegate e le criticità riscontrate in tale
ambito, anche in esito alla definitiva conversione del maxiemendamento,
tutt'ora in corso, meritano tutte adeguata riflessione.
La prima attiene (rectius, permane, anche in esito alla recente approvazione
da parte di un ramo del Parlamento) con riferimento al segreto professionale.
L'art.10, così come originariamente formulato, non prevedeva alcun obbligo,
per i soci avvocati di opporre ai soci di capitale, il segreto concernente le
attività professionali a lui affidate. La legge di conversione ha previsto che il
socio professionista “può” e non “deve” opporre tale segreto, relegando così
nell'angusto ambito di una facoltà, quello che rimane un dovere primario per
l'esercente la professione forense, a cui il codice deontologico attribuisce,
testualmente, “primario e fondamenteale” rilievo (art.9 CDF).
La conseguenza è che le perplessità sui rischi relativi al mantenimento
dell'obbligatorietà
del
segreto
profesisonale,
rimangono
inalterate,
consentendosi di fatto a chi partecipa alla compagine sociale, pur non
essendo avvocato, di potere venire facilmente a conoscenza di dati sensibili e
di delicate vicende personali o patrimoniali dei soggetti clienti della società, e
ciò attraverso la possibile ostensibilità dei dati medesimi, che non risulta
categoricamente vietata al socio professionista.
E ancora. E' risaputo che il segreto professionale, non solo integra un dovere
sancito dal nostro codice deontologico, ma assume anche rilievo giuridico, al
punto da potere essere opposto alla stessa Autorità Giudiziaria, nelle ipotesi
contemplate dal codice di rito e sanzinato dallo stesso codice penale, nel
caso di suaa violazione (art.622 c.p.).
Trattandosi
tuttavia
di
previsioni
operanti
unicamente
nei
confronti
dell'avvocato, si profila inevitabile chiedersi se, chiamato il socio investitorre a
rendere testionianza in ordine ad una circostanza coperta del segreto
professionale, quest'ultimo possa opporre all'A.G. il segreto medesimo.
La segretezza e la riservatezza così intimamente connesse con il ruolo e la
figura dell'avvocato, tanto da costituire contemporaneamente per lo stesso,
un diritto ed un dovere, rischiano, pertanto, di rimanere seriamente
compromesse.
E ancora, la legittimazione nel vigente panorama normativo della costituzione
in forma societaria di soggetti esercenti la professione forense, con altri di
mero capitale, non rischia di apportare serio nocumento anche all'osservanza
dell'obbligo – sancito dall'art. 37 del c.d.f. - di astenenersi dal prestare la
propria attività professionale, quando questa determini un conflitto con gli
interessi del proprio assistito?
E la finalità di investimento coltivata dal socio di capitale, può ritenersi
compatibile con l'esercizio da parte di altro socio di una professione che della
libertà, dell'autonomia e dell'indipendenza (principi generali consacrati nel
prambolo al codice deontologico forense) non
può assolutamente
prescindere?
E ancora, può un istituto bancario o assicurativo divenire socio investiote di
una società avente ad oggetto la prestazione di attività professionali forensi e
per il tramite della stessa, monitorare la clientela, al fine di acquisire
informazioni su eventuali potenziali selezionati clienti?
Supponiamo, altresì, come osservato dal Prof.Panuccio, che gli organi sociali
- per ragioni di strategia gestionale ispirata, dunque, da rigide leggi di
mercato - non consentano che il socio professionista, adibito dalla parte,
assuma l'incarico di difesa di un cliente: non v'è dubbio che in tal caso il
principio della libertà e indipendenza del difensore destinatario del mandato
difensivo, subisca, in nome dell'interesse sociale, una limitazione assai grave,
ponendolo – nell'ipotesi di disaccordo con i partners attuali ed anche futuri –
nella condizione di affrontare l'alea di subire l'esclusione dalla compagine
sociale, con intuibili nefaste refluenze economiche, aggravate dai divieti di
concorrenza che si accompagnerebbero all'uscita della società.
E l'innegabile dato di fondo, secondo cui la funzione difensiva svolta
dall'avvocato, non può mai ritenersi equiparata a quella mercantile del socio
di società di capitali, per i più volte ricordati principi della fiducia e della
personalità della prestazione, induce a riflettere anche in ordine all'operatività
dell'art.19 del C.D.F., che concerne il divieto di accaparramento di clientela.
La finalità di lucro che ispira l'adesione del socio di capitale e la prospettica
remuneratività dell'investimento, infatti, rendono quasi inevitabile per l'asset
societario, secondo intuibili logiche imprenditoriali, il ricorso a quelle forme di
pubblicità o di procacciamento clientelare, di contro categoricamente vietate
dall'ordinamento deontologico per il socio professionista.
E tale marcata contraddittorietà, anche sotto tale profilo, acuisce la
conflittualità delle rispettive posizioni, confermando ulteriormente come la
disciplina della professione forense non possa obbedire esclusivamente a
regole di carattere economico e di profitto, neanche quando la loro
osservanza si riveli idonea ad apportare mezzi finanziari che - si sostiene da
parte di coloro che plaudono all'introduzione della società tra avvocati e soci
investitori di capitali - consentiranno l'espansione degli studi e loro migliore
organizzazione.
Ma – per usare le parole di Franzo Grande Stevens - “si può comprare
l'autonomia, l'indipendenza e la riservatezza di un avvocato?”.
La risposta, forte e chiara, non può che essere negativa, sopratutto a
salvaguardia di quei valori ai quali la classe forense non può abdicare.
Roma, 17 marzo 2012
Avv. Salvatore Chiaramonte
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